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A Catania, in uno stabile al numero 1 di via Passo di Aci, una mattina del 24 luglio, Francesco va in camera, prende la pistola che tiene in un cassetto, torna in cucina e spara in faccia alla moglie. Era successo che andavano così d’amore e d’accordo, lui e Giuseppina, si erano sposati, avevano fatto anche tre figli, poi lui aveva deciso di lasciare il posto fisso alle ferrovie e mettersi a fare il commerciante. Non era andata come voleva, c’erano stati problemi economici, e allora Francesco – vuoi lo stress, vuoi le liti in casa con la moglie, vuoi tutto – aveva incontrato un’altra donna e si era fatto un’amante. Giuseppina se ne era andata dai suoi a Torino, Francesco aveva accolto in casa Rina detta la picurara, ma era durata solo un mese e allora Giuseppina era tornata. Ma c’era un problema. Giuseppina non riusciva a perdonare Francesco. Non riusciva a mandarla giù, questa cosa di quell’altra donna in casa sua, e così un giorno – vuoi una lite, vuoi un rimprovero, vuoi lo stress, vuoi tutto – lui non ce l’aveva fatta più, aveva preso la pistola e le aveva sparato. Due colpi. L’avevano preso subito e aveva confessato, con la testa tra le mani, disperato: è vero, in questi ultimi tempi ero diventato, forse, molto irascibile, ma chi non lo diventerebbe di fronte ad una donna che vi tortura ogni giorno con i suoi rimbrotti? La stampa specializzata nei casi di cronaca, i tabloid di nera, indulgono abbastanza sulle motivazioni che portarono Francesco all’insano gesto, perché sì, certo, lui era un tipo violento e anche molto egoista, però lei, insomma, dai: non sapeva perdonare. La verità, si scrive citando Alessandro Manzoni, ha due facce, e chissà qual è quella giusta, insomma, la verità sta sempre in mezzo, no? Insomma. In questo caso, per esempio, una delle due facce è quella di Francesco, magro, scavato, tormentato, va bene. L’altra, però, è quella di Giuseppina, e ha due buchi in fronte. Era il 1948, tanti anni fa. Non che il tempo passato sia una scusante, per carità, al massimo, se proprio vogliamo, è un’attenuante. Piccola piccola. O magari no, neanche quello. Ma che anche adesso, ai nostri giorni, ogni tanto scappi fuori che quella che sta per terra in cucina in un lago di sangue un po’ se l’è cercata, ecco, questa, invece, è un’aggravante. E bella grossa. Sul Venerdì del 21 luglio 2023
focus killer
“L’Italia è quel Paese strano dove quando sei indagato o imputato sei un mostro, sbattuto sui giornali, ti possono portare in cella senza passare dal via, senza che tu sappia neanche perché. Poi quando finalmente diventi condannato ti si aprono le porte di quel sinistro perdonismo, per cui lo stesso Cospito diventa l’influencer della sinistra, a cui vanno come se fosse la Mecca”. A dirlo, durante un evento di Fratelli d’Italia in Valle d’Aosta, è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, rinviato a giudizio nei giorni scorsi per rivelazione di segreto in relazione alla vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41-bis e protagonista nei mesi scorsi di un lungo sciopero della fame. Delmastro, che in via Arenula ha la delega alle carceri, aveva rivelato al compagno di partito Giovanni Donzelli il contenuto di una relazione della polizia penitenziaria sui dialoghi di Cospito con alcuni boss mafiosi, suoi compagni di reparto a Sassari. E durante una seduta della Camera, Donzelli aveva usato quelle informazioni per attaccare quattro parlamentari del Pd (Debora Serracchiani, Walter Verini, Andrea Orlando e Silvio Lai) accusandoli di vicinanza alla mafia per aver fatto visita all’anarchico qualche settimana prima (video). Attacchi che Delmastro continua a cavalcare, rivendicando la legittimità del proprio comportamento e ricordando come l’anarchico avesse chiesto ai dem di parlare con gli altri detenuti del reparto prima che con lui. “Io rivendico tutto ciò che ho fatto in questo anno da sottosegretario alla Giustizia. Questa nazione è strana no, c’è qualcuno che va da Cospito come se fosse un influencer. Vanno a parlare con i camorristi, poi possono finalmente tornare da Cospito, parlano con Cospito, si offendono perché io lo racconto. È legittimo quello che hanno fatto. Ma è altrettanto legittimo che io lo racconti”, afferma. Già nel giorno del rinvio a giudizio, parlando in tv, l’esponente di FdI si era detto “straordinariamente fiero di non aver tenuto sotto segreto un fatto di gravità inaudita, cioè che terroristi anarchici in combutta con criminali mafiosi tentassero di fare un attacco concentrico al 41-bis“: nei dialoghi riportati nella relazione, infatti, Cospito parlava con i boss di piani per arrivare all’abolizione del carcere duro. L’indagine era stata aperta dopo un esposto presentato in Procura dal parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli: l’inizio del dibattimento è stato fissato al prossimo 12 marzo. Nell’udienza preliminare di mercoledì scorso – il sottosegretario era presente in aula – la Procura di Roma, rappresentata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto il non luogo a procedere, in coerenza con l’interpretazione già adottata nei mesi scorsi. Lo scorso luglio infatti il gip aveva disposto l’imputazione coatta per Delmastro, non accogliendo la richiesta dei pm, che avevano invece sollecitato l’archiviazione ritenendo non ci fosse la prova dell’elemento soggettivo del reato (cioè della consapevolezza di stare violando un segreto amministrativo). Durante l’evento di lunedì il sottosegretario ha citato come esempio di “perdonismo” anche la vicenda del suo concittadino Dimitri Fricano, 35enne biellese condannato per femminicidio a cui sono stati concessi i domiciliari per la sua eccessiva stazza: “Oppure, per parlare di temi che non mi riguardano personalmente, tal Fricano che ficca 57 coltellate alla sua fidanzata e viene liberato perché è ingrassato”, ha riassunto.
focus killer
Ha impugnato un coltello da cucina e si scagliato contro la moglie e la suocera, entrambe italiane, accoltellandole a morte. E poi è andato incontro agli agenti delle forze dell'ordine allertate dal figlio maggiore, rivendicando il duplice femminicidio. Arezzo si è risvegliata nel sangue stamani, alla luce di un episodio nelle scorse ore che ha sconvolto la placida tranquillità della città Toscana. In manette è finito Jawad Hicham, un uomo di 38 anni di origini magrebine e residente da tempo sul territorio: è stato accusato di aver ucciso sia la consorte, ovvero la trentacinquenne Sara Ruschi, che la suocera, la settantaseienne Brunetta Ridolfi. Un doppio assassinio che avrebbe peraltro commesso davanti ai figli di 16 e 2 anni. Gli inquirenti stanno indagando per ricostruire una vicenda che appare sotto certi aspetti ancora poco chiara, in primis per quanto concerne i motivi che avrebbero portato lo straniero ad uccidere le due donne. Secondo le prime ricostruzioni riportate dalla stampa locale, il trentottenne potrebbe aver agito a seguito di una discussione particolarmente accesa. Secondo gli ultimissimi sviluppi, la presenza della pensionata in casa della coppia confermerebbe il momento difficile che i coniugi stavano attraversando, a causa di continue litigate. Una precauzione che purtroppo si sarebbe rivelata vana, dopo quell'ultimo confronto finito nel peggiore dei modi. Hicham avrebbe ad un certo punto afferrato un coltello da cucina ed avrebbe accoltellato prima la suocera e poi la moglie. L'anziana è morta a pochissimi minuti dall'accoltellamento, crollando al suolo in una pozza di sangue.
focus killer
È stata massacrata di botte dal marito, che aveva già denunciato in passato, per tre giorni fino alla morte. È successo in un appartamento a Mazara del Vallo (Trapani) dove la vittima, Rosalia Garofalo, 54 anni, viveva con il coniuge Vincenzo Frasillo di 53 anni. A dare l’allarme ieri sera verso le 20.30 sono stati i vicini di casa che hanno chiesto l’intervento della polizia dopo aver sentito le urla provenire dall’abitazione. Arrivati sul posto gli agenti e il personale medico del 118 non hanno potuto far altro che constatare il decesso della donna: il corpo, ricoperto da lividi, è stato trovato sul letto matrimoniale. L’uomo è stato portato nel carcere di Trapani e la Procura di Marsala ha disposto il fermo per omicidio volontario che ora dovrà essere convalidato dal giudice per le indagini preliminari. La polizia scientifica e il medico legale hanno confermato che Frasillo ha più volte picchiato selvaggiamente la donna negli ultimi tre giorni. Secondo gli investigatori, a scatenare la violenza omicida del marito sarebbe stata l’ossessione di essere tradito dalla donna. Dalle prime indagini è emerso anche che la donna in passato aveva già denunciato gli abusi e maltrattamenti del marito. L’ultimo esposto nell’aprile scorso: in almeno due occasioni la donna aveva deciso però di ritirare le denunce.
focus victim
“Femminicidio, siamo sicuri che esista?”, chiede Adriano Mazzola nel suo ultimo post. Sarebbe troppo semplice dare una risposta a questa domanda chiedendolo a Carmela Petrucci, 17 anni, uccisa a Palermo dalle 20 coltellate di Samuele Caruso, ex fidanzato della sorella Lucia, ancora ricoverata in ospedale e superstite, puramente casuale, dell’ultimo episodio di violenza ai danni di una donna. Sarebbe troppo semplice e nello stesso tempo impossibile visto che Carmela è morta nell’impeto generoso di salvare la sorella dalla furia calcolata di questo 23enne che non ha saputo accettare l’abbandono della ragazza amata. Ultima vittima in ordine di tempo, Carmela è diventata il simbolo inconsapevole di una battaglia tra falangi ideologicamente armate. Da una parte i maschi, dall’altra le femmine, in mezzo un dibattito tanto polemico quanto sterile sull’utilità di definire l’uccisione di una donna con il termine, appunto, di “femminicidio”. Strumenti di guerra, i numeri. “Sono cento le vittime dall’inizio del 2012” dicono le donne, “sì, ma sono numeri relativi”, rispondono gli uomini, bypassando del tutto il vero nocciolo del problema. Ossia, il motivo per cui, nel 2012, cento donne e più sono morte per mano di padri, fratelli, mariti o compagni. Per mano di coloro che, nel normale corso degli eventi, rappresentano la cerchia degli affetti più vicini e insieme più sicuri. Sarà forse utile allora, più che arrovellarsi sul significato e sull’applicazione del termine “femminicidio”, aprire un dibattito sulle cause, confrontarsi sulle modalità attraverso le quali oggi uomini e donne vivono la relazione affettiva e amorosa, interrogarsi infine sul concetto di possesso che troppo spesso si sovrappone e si sostituisce a quello di relazione. E’ in questa prospettiva che si deve tornare a parlare (parlare, non “ciarlare o “cianciare”) di “incivile soggezione, sopraffazione cruenta, violenza inaudita e perpetua, grave disparità di trattamento, terrore psicologico e fisico” subiti dalle donne ad opera di uomini incapaci di riconoscere alle loro figlie, madri, mogli e compagne un ruolo da protagoniste dotate di una propria individualità. Qui sta il compito informativo dei mass media, o almeno il nostro (de Il Fatto Quotidiano e di Donne di Fatto come sezione concentrata sulle tematiche di genere): nessun intento mistificatorio, nessuna caccia all’uomo cattivo, nessuna guerra tra i sessi. Quest’ultima è in corso da tempo e conta già troppe vittime.
focus victim
Alle 19 il corteo in piazza Santissima Annunziata a Firenze organizzato dal movimento «Non una di meno»: «Portate tutto quello che può fare rumore». Sabato alle 12 il presidio in piazza Signoria «Di fronte alla violenza non servono i minuti di silenzio, bisogna fare più rumore, essere più visibili, più presenti». È la denuncia-appello che lancia il movimento Non una di meno di Firenze, che dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin convoca tutte e tutti alle 19 per un corteo con partenza da piazza SS. Annunziata in cui si chiede di «portare tutto quello che può fare rumore: tamburi, strumenti, perfino pentole». «La violenza è un fenomeno strutturale e i numeri parlano chiaro. Esplode il desiderio di rispondere a quello che sta succedendo – ha detto intervistata a Controradio Isabella Bruni di Numd – sentiamo l’esigenza di esprimere la nostra rabbia in un momento di condivisione che vede nella pratica delle passeggiate anche un simbolo di riappropriazione degli spazi, della notte, che si oppongono alla narrazione del lupo e cappuccetto rosso e dell’attribuzione di responsabilità alla donna per l’essere vittima». Nudm tornerà in piazza anche il 25 novembre prossimo, Giornata internazionale per l’eradicazione della violenza contro le donne, con due manifestazioni nazionali a Roma e Messina: «Da Firenze sono già stati organizzati 2 pullman, ma le iscrizioni sono ancora aperte», spiegano. LEGGI ANCHE Femminicidi, i simboli sono il passato «Sto pensando di partecipare a più di una delle manifestazioni» contro la violenza sulle donne «perché io credo che sia importante la presenza delle istituzioni a queste manifestazioni anche spontanee. Sono iniziative che danno il senso di una reazione eccezionale della società civile che non può più assistere inerte a quello che si consuma ogni giorno nel nostro Paese. Siamo al fianco dei manifestanti, sabato realizzeremo un flash mob in piazza della Signoria (ore 12, piazza della Signoria), cercheremo di essere presenti in tutte le occasioni». Lo ha dichiarato il sindaco di Firenze Dario Nardella, a margine di una conferenza stampa a Palazzo Vecchio, a proposito della morte di Giulia Cecchettin. «Mi piace l'idea delle manifestazioni rumorose, partita da Padova, perché il silenzio non basta più per quanto il silenzio possa esser associato al dolore, al cordoglio, alla sofferenza - ha aggiunto -. Non basta più l'irritazione, la rabbia. Occorre anche agire: auspico che la proposta di Schlein di avere una legge che sia a 360 gradi orientata sul tema della prevenzione verso tutte le forme di violenza di genere possa essere raccolta dal Parlamento e dal governo con un'iniziativa bipartisan». La proposta del Governo di introdurre un'ora di lezione sessuale a scuola in risposta ai femminicidi «può essere una strada, però l'importante è che non ci si limiti a misure spot, ci vuole un piano complessivo che tocchi la scuola, la società civile, il mondo del lavoro perché il problema non è solo la scuola», continua il sindaco di Firenze, Dario Nardella. «Ognuno deve fare la sua parte: le istituzioni, le famiglie, il mondo del lavoro, la scuola, perché il problema è davvero trasversale e diffuso, e speriamo che almeno questa volta la morte della giovane Giulia serva davvero a qualcosa e non al solito fuoco di paglia di poca durata che poi ci fa ripiombare nell'ordinaria follia dei femminicidi», ha aggiunto Nardella.
focus victim
Dubois La ragazza stava salendo in auto con la spesa, quando ha aperto la portiera un uomo che voleva violentarla. La fuga, poi la denuncia Aggredita sessualmente in un parcheggio del supermercato a Reggio Emilia, dove stava salendo in auto con le borse della spesa, a fine pomeriggio. Ma la vittima, una ragazza di 23 anni , è stata veloce nel divincolarsi e fuggire. E denunciare il tutto ai carabinieri. E proprio le divise della stazione di Corso Cairoli hanno arrestato 55enne in esecuzione di ordinanza cautelare restrittiva richiesta dalla locale Procura, diretta da Gaetano Paci. Le testimonianze e i filmati I fatti risalgono al 12 ottobre: intorno alle 18.30 la vittima, una 23enne reggiana, era appena salita a bordo della sua auto, quando l'uomo ha aperto la portiera lato guida: da lì è entrato nell'abitacolo cercando di baciarla, toccarle i seni e spingerla sui sedili posteriori per avere un rapporto sessuale. La ragazza è riuscita però a divincolarsi e a fuggire in auto. Quindi la denuncia ai carabinieri della stazione di Corso Cairoli che hanno avviato le indagini. L'autore dell'aggressione, abitante a Reggio Emilia, è stato identificato grazie alle testimonianze e all'analisi dei filmati delle telecamere di videosorveglianza. Il presunto responsabile della violenza denunciato, è stato così arrestato e posto ai domiciliari. La notizia, uscita a poche ore dalla mobilitazione contro la violenza sulle donne (che anche a Reggio Emilia ha coinvolto più di diecimila persone) e a pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, ha suscitato nuova rabbia e commenti sui social.
focus victim
Vigonovo (Venezia). «Questa cosa - il fatto che io vorrei non vederlo più, perché inizio a non sopportarlo più - mi pesa. E non so come sparire. Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo, perché mi sento in colpa, perché ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo». È il contenuto di un messaggio audio che Giulia Cecchettin ha inviato a un’amica, e mette i brividi. Perché, in quelle parole, Giulia racconta dell’ex fidanzato Filippo Turetta, dell’ossessione di lui, dei suoi continui ricatti emotivi. In poche parole, spiega perché l’avrebbe ammazzata. «Mi sento in una situazione in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui» dice Giulia. È sconvolta: lo dimostra la sua voce. «Però lui viene a dirmi cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che pensa solo ad ammazzarsi, che vorrebbe morire, che non trova più un senso per andare avanti. Non me le viene a dire per forza, secondo me, come ricatto. Però suonano molto come ricatto. E, allo stesso tempo, mi viene a dire che l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con me o i momenti in cui io gli scrivo». Ecco come è nato il femminicidio di Giulia Cecchettin. Delitto confessato da Filippo Turetta alla polizia tedesca: «Ho ammazzato la mia fidanzata. Ho vagato questi sette giorni perché cercavo di farla finita. Ho pensato più volte di andarmi a schiantare contro un ostacolo e più volte mi sono buttato un coltello contro la gola. Ma non ho avuto il coraggio di farla finita». Si è consegnato ai poliziotti tedeschi con le mani in alto. E ha confessato. I vestiti e le scarpe macchiati di sangue. Le mani e le caviglie segnate dalle ferite. Gli agenti lo hanno trovato nella corsia d’emergenza dell’autostrada tedesca A9, all’altezza di Bad Dürrenberg. E lì ha confessato, in inglese. È la sua doppia ammissione: di quello che ha fatto e del perché lo ha fatto. Ha ammazzato Giulia, ma lei non era la sua fidanzata. Non lo era più, da quando la ragazza aveva deciso di lasciarlo, ad agosto. Lui non lo accettava. E l’ha uccisa. Ai poliziotti ne ha confessato l’omicidio e pure la sua incapacità di farla finita. Per provare ad ammazzarsi si sarà puntato addosso lo stesso coltello con cui aveva ucciso lei, con 26 coltellate. Da sabato, Filippo è detenuto nel penitenziario di Halle. Ha accettato la procedura semplificata per la consegna in Italia e ieri la Procura generale di Naumburg ne ha disposto l’estradizione. Turetta sarà consegnato alle autorità italiane, che andranno in Germania a prelevarlo. Probabilmente, arriverà a Fiumicino venerdì sera, a bordo di un aereo militare. In Italia gli sarà notificata l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, quindi potrà essere trasferito a Venezia per l’interrogatorio di garanzia del gip. «Non escludo di predisporre una perizia psichiatrica, per capire fino in fondo cosa gli è scattato in testa», diceva ieri il suo avvocato, Emanuele Compagno. Intanto emergono nuovi particolari sull’arresto di sabato. In una prima perquisizione, i poliziotti tedeschi hanno trovato nella borsa del 22enne un paio di guanti, un cellulare, una carta prepagata, 300 euro in contati. E, soprattutto, un coltello da cucina con una lama di dodici centimetri: l’arma del delitto. Gli inquirenti avrebbero trovato anche una sim straniera, forse acquistata per utilizzare il telefono senza venire tracciato, ma sul punto sono in corso delle verifiche. L’auto di Turetta è sotto la custodia giudiziaria tedesca, in un deposito in Germania. In un primo esame, gli inquirenti avevano trovato delle tracce di sangue. Ora ci sarà un secondo controllo, servirà a ricostruire la dinamica della violenza. E altrettanto importante sarà l’autopsia sul corpo di Giulia. Verrà eseguita l'1 dicembre, alle 9, nell’istituto di anatomia patologica della Clinica universitaria di Padova. Ci saranno l’anatomopatologo Antonello Cirnelli, nominato dalla famiglia, e i periti incaricati dalla procura e da Turetta. Per il funerale della ragazza, a Saonara, sarà prima necessario il nullaosta alla consegna del corpo. Poi Giulia potrà essere sepolta accanto alla mamma Monica, morta un anno fa.
focus killer
27 maggio 2017 Link Embed [[URL]] Copia Copia Napoli, riconosce il suo violentatore in un pub. I carabinieri lo trovano e lo arrestano Una notte di febbraio nel quartiere del Vomero, a Napoli, una ragazza, appena uscita da lavoro, viene seguita in auto fin sotto casa, dove tre uomini l’aggrediscono, la palpeggiano e la rapinano. I carabinieri il 22 marzo identificano due dei responsabili, due 33enni di Grumo Nevano e Aversa. Il terzo è stato preso oggi dai carabinieri della stazione Vomero-Arenella che hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Napoli. La vittima lo ha incontrato per caso circa 2 mesi dopo il fatto: era in un discopub, a Napoli. Si tratta di un 24enne incensurato di origine araba residente ai Quartieri Spagnoli. L’uomo quando ha incrociato lo sguardo della vittima si è dato alla fuga. La ragazza ha immediatamente riferito l’accaduto ai carabinieri descrivendo dettagliatamente le sue fattezze. I militari hanno cominciato le ricerche guidati dalla descrizione tra i frequentatori dei locali della movida riuscendo a dargli un nome. La vittima lo ha infine riconosciuto in un confronto “all’americana” ed è così finito a Poggioreale l’ultimo complice delle violenze.
focus killer
In questi giorni un violento femminicidio avvenuto in provincia di Milano è al centro delle pagine di cronaca nera dei giornali: è quello di Carol Maltesi, una donna 26enne che viveva a Rescaldina, vicino a Legnano, per cui ha confessato un suo vicino di casa di nome Davide Fontana, che aveva avuto con lei una relazione in passato. L’indagine sull’omicidio era iniziata il 20 marzo, quando presumibilmente Maltesi era già morta da più di due mesi. Quella domenica mattina un uomo che stava camminando lungo una strada in un bosco vicino a Borno, in Val Camonica, aveva trovato quattro sacchi neri lasciati vicini a un dirupo. Per capire che cosa contenessero, ne aveva spostato uno e aveva intravisto la mano di una donna. Aprendo i sacchi, i carabinieri avevano trovato i resti, sezionati in 15 parti, del corpo di una giovane donna. I resti erano stati portati all’istituto di medicina legale di Brescia ma l’identificazione era risultata particolarmente difficile: la donna aveva ricevuto molti colpi al volto che l’avevano sfigurata. È stato per questo che gli investigatori e gli inquirenti di Brescia avevano deciso di diffondere la descrizione di una parte degli undici tatuaggi che la donna aveva sul corpo. Alcuni di questi, tra l’altro, erano stati tagliati e scorticati nel tentativo di asportarli. La descrizione dei tatuaggi aveva spinto alcuni lettori del sito Bsnews a contattare il giornalista che si stava occupando della notizia e a segnalare che corrispondevano a quelli di una attrice porno conosciuta con il nome d’arte di Charlotte Angie. I giornalisti del sito avevano cercato in rete le immagini dell’attrice scoprendo che in effetti i tatuaggi corrispondevano a quelli descritti dall’informativa degli investigatori. Inoltre, le pagine social della donna non erano aggiornate dai primi di gennaio. Ai messaggi mandati su WhatsApp al numero della donna dai cronisti del sito erano comunque arrivate risposte. Il giornalista si era qualificato e la risposta era stata: «Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno». Quando poi il cronista di Bsnews aveva spiegato il motivo dei messaggi, e cioè indagare sulla presunta corrispondenza dei tatuaggi, la risposta era stata: «Ah, ho capito. Mi hanno già detto di quella ragazza». E ancora: «Io sto bene fortunatamente». A rispondere ai messaggi, si è scoperto dopo, era Fontana che stava usando il telefono di Maltesi. Bsnews aveva messo la chat con la presunta Charlotte Angie a disposizione dei carabinieri, che non ci avevano messo molto a scoprire che il nome di Charlotte Angie era Carol Maltesi, 26 anni, italo-olandese, madre di un bambino di sei anni che vive con il padre. La donna aveva lavorato in un negozio all’aeroporto di Malpensa e poi in un centro commerciale di Rescaldina, vicino a Legnano, in provincia di Milano, dove abitava da meno di un anno. Da meno di un anno aveva anche iniziato a lavorare nel cinema erotico, a cui si era avvicinata all’inizio pubblicando dei video sul sito Onlyfans. Nei video di Maltesi compariva spesso un uomo, che poi i carabinieri hanno identificato come Davide Fontana, vicino di casa ed ex compagno della donna per un breve periodo. Fontana è un bancario che lavora a Milano ma, dall’inizio della pandemia, è in smart working e quindi passava la maggior parte del tempo a casa. Con Maltesi aveva avuto una breve relazione, poi i due erano rimasti apparentemente in buoni rapporti, tanto che lei era andata a vivere nella stessa casa di Rescaldina. Era Fontana a girare i video pubblicati online da Maltesi. Due giorni fa, apparentemente convinto da una vicina di casa, Fontana è andato dai carabinieri di Rescaldina per denunciare la scomparsa di Maltesi che, ha spiegato, non vedeva da tempo. La sua dichiarazione, a quanto pare, è stata però estremamente confusa e contraddittoria tanto che poche ore dopo l’uomo è stato convocato a Brescia, in caserma. I carabinieri avevano intanto recuperato i video girati da alcune telecamere nella zona di Borno in cui la mattina del 20 marzo era stato ripreso il passaggio dell’auto di Maltesi, una Fiat Cinquecento grigia, guidata però da un uomo. Fontana è entrato in caserma a Brescia poco prima delle 23 di lunedì e ne è uscito alle 3.30, dopo aver confessato. Ha raccontato che la sera del 10 o 11 gennaio (non ricorda esattamente) era a casa di Maltesi per girare un video porno che prevedeva che la donna fosse legata mani e piedi e con un sacco in testa. A quel punto iniziò a colpirla con un martello alle gambe, poi alla testa e infine con un coltello alla gola. Raccontando l’omicidio ai carabinieri Fontana ha detto di non sapere perché lo fece. Nei giorni dopo l’omicidio, l’uomo aveva acquistato una sega e un’accetta al Bricoman di Rescaldina con cui ha raccontato di aver sezionato il cadavere e tentato di eliminare i tatuaggi. Quindi aveva comprato online un freezer a pozzetto per conservare il corpo. Qualche giorno dopo, sempre secondo il suo racconto, aveva tentato di bruciare i resti utilizzando alcol, in una zona barbecue di Vararo, sul lago Maggiore. Il tentativo era fallito, quindi Fontana aveva riportato i resti della donna in casa. Nel frattempo aveva risposto ai messaggi che arrivavano sul telefono di Maltesi da parte dell’ex compagno e della madre. Aveva anche risposto ai messaggi di un attore porno che invitava Maltesi a sostituirlo per una serata in un locale, declinando l’invito. Con l’app della banca sul telefono cellulare aveva anche pagato l’affitto di casa. Il 20 marzo Fontana aveva caricato cinque sacchi sull’auto di Maltesi e li aveva abbandonati vicino a Borno, un posto che ha detto di conoscere perché ci andava in vacanza da bambino. Dopo qualche giorno, sono iniziati i messaggi del giornalista di Bsnews. Fontana è accusato di omicidio volontario aggravato e di distruzione e occultamento di cadavere. Ora è nel carcere Canton Mombello a Brescia.
focus killer
Una ragazza di 26 anni è stata trovata impiccata con una sciarpa della squadra di calcio del Casarano, sulla terrazza di casa. E sul caso stanno indagando i carabinieri, con gli inquirenti che non escludono possa essersi trattato di un femminicidio. Questo è quanto avvenuto nelle scorse ore a Casarano, una cittadina situata in provincia di Lecce, per un episodio che ha impressionato la comunità locale e che promette di travalicare presto i confini regionali. Secondo la stampa locale il corpo della giovane, penzolante dal balcone dell'appartamento nel quale viveva in affitto, è stato notato da alcuni vicini di casa. Gli stessi che con tutta probbailità hanno allertato le forze dell'ordine. “Non abbiamo sentito urla provenire dall’abitazione – hanno raccontato al quotidiano La Repubblica – ci siamo affacciati e abbiamo visto la ragazza in quella posizione”. Il personale del 118, prontamente intervenuto dall'ospedale cittadino, non ha potuto far altro che constatare il decesso della ventiseienne, mentre sul posto confluivano rapidamente i carabinieri del Norm insieme ai colleghi della scientifica. Sul corpo della ragazza, ritrovato questa mattina, non risulterebbero segni di violenza. La giovane, originaria di Ugento, si era trasferita da poco sul territorio casaranese ed era impiegata in un'azienda calzaturiera della zona. Secondo l'ipotesi seguita in un primo momento dagli investigatori, potrebbe essersi trattato di un suicidio. Ma sono in corso ulteriori accertamenti, anche perché in casa sono stati trovati alcuni oggetti rotti. Ed è su queste basi che chi indaga non esclude l'ipotesi che porta ad un omicidio. Proprio la sopracitata sciarpa con i colori del Casarano potrebbe rappresentare un indizio. La svolta è arrivata in tarda mattinata, proprio mentre il corpo della ragazza veniva trasferito presso la camera mortuaria dove saranno eseguiti ulteriori accertamenti: i militari dell'Arma hanno accompagnato un giovane in caserma.
focus victim
“Vedi come è piccolo, rispetto ad altri testi sulla violenza o il femminicidio? In questo modo non intimidisce un ragazzo o una ragazza, se si propone di leggerlo”. Ha pensato anche a questo Cristina Obber, autrice di “Non lo faccio più”, libretto che raccoglie l’inedito intreccio tra le parole dei giovani stupratori e delle loro vittime, storie terribili che però possono aprire spazi di cambiamento. Più che un libro “Non lo faccio più” è uno strumento per entrare nelle scuole italiane a parlare, ma soprattutto far parlare, di violenza, sessualità e lacerazione. E sappiamo bene quanto ce ne sia bisogno, specialmente nella fascia d’età tra i 13 e i 25 anni. “Ciò che manca ai ragazzi, anche e soprattutto a quelli che hanno fatto violenza, spesso giovanissimi stupratori, talvolta in gruppo, di coetanee, è la consapevolezza della fisicità di quel gesto: si deve, e si può, con le parole giuste, parlare loro di lacerazione del corpo e dell’anima della vittima di stupro –racconta Obber-. Spesso invece si gira intorno a questo punto, non si nominano la carne e il sangue. Bisogna raccontare che c’è un corpo ferito, altrimenti si fa solo del falso pudore”. Il progetto del libro, che si accompagna con la proposta di momenti di incontro e formazione a partire dal secondo ciclo delle superiori fino all’università, è nato non a tavolino, ma durante un viaggio in auto. Obber racconta che qualche mese fa l’ennesima notizia di un nuovo stupro di gruppo che coinvolgeva giovanissimi carnefici e un altrettanto giovanissima vittima non l’ha attraversata in fretta, come purtroppo accade, anche per istinto di conservazione. Da quel momento è scattata la determinazione che qualcosa lei lo doveva fare. E così è stato: il bisogno di andare alla fonte, di guardare negli occhi i ragazzini stupratori, che non sono mostri, ma ragazzi che potrebbero essere figli tuoi, i nostri ragazzi, ha preso corpo nel testo. E se passare all’azione è stato certo più complicato che decidere, l’esperienza di Obber svela che, dietro alla cortina di silenzio, e spesso disinteresse mediatico per il quotidiano lavoro di chi si occupa di prevenzione della violenza, c’è una rete, in Italia, fitta e attivissima di persone, associazioni e gruppi che senza denaro a sufficienza (e spesso senza nemmeno quello insufficiente) formano il tessuto connettivo che resiste, che continua a creare luoghi e occasioni di ascolto, e che si attiva per riparare i danni. Maggiori informazioni a questo link.
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Nessuno mi può giudicare: già à metà anni ‘60 una canzone poneva la questione dell’equità di genere: la cantava una ragazza con caschetto biondo, Caterina Caselli. Caterina Caselli Caterina Caselli Aveva capito che la canzone era vessillo di libertà al femminile? «Lo è diventata. All’epoca non c’era questa consapevolezza né da parte degli autori né da parte mia, il femminismo come fenomeno di massa era ancora lontano, era piuttosto una affermazione caparbia del diritto di ognuno di “ vivere come può”. Credo di essere stata percepita come una sorella vivace, diretta, con le idee chiare sulla libertà. In fondo sono nata nel 1946 quando le donne italiane hanno potuto votare per la prima volta. Sarà un caso o un segno?». Allora come l’ha vissuta? «In quel fatidico 1966 vivevo come in una bolla felice, mi sentivo amata, avevo tante soddisfazioni, ho raggiunto l’autonomia economica, mia madre non mi osteggiava più. Ero a Ischia per i fanghi e una donna, non giovane, mentre mi spalmava il fango sulla schiena mi disse “Signurì, voi mi piacevate così tanto perché eravate prepotente”. Forse il più bel complimento che abbia mai avuto, una donna che in qualche modo si sentiva riscattata da quella canzone: possiamo anche sbagliare ma nessuno deve giudicarci male». Le donne hanno saputo comunicare il bisogno di parità? «Passi da gigante ne sono stati fatti, eppure il tasso di femminicidi è in crescita, ed è spaventoso perché nasconde una idea tribale dei rapporti basata sul possesso. Una parola chiave è: fare sistema». I diritti si ottengono marciando uniti, uomini e donne? «Senza fare tante storie qui si tratta di rivedere consuetudini e leggi per eliminare ogni differenza nei diritti fondamentali di accesso al lavoro, all’educazione, a una vita libera e auto-determinata… Uomini e donne insieme, il problema riguarda tutti». L’equilibrio con suo marito, Piero Sugar, su cosa era basato? «C’è sempre stato rispetto e questo l’ha rafforzata anche nei momenti delicati della nostra vita insieme, che non sono mancati». Prima cosa da fare per le donne? «Vorrei che ogni donna potesse essere libera di istruirsi, di scegliere la propria religione. A proposito di diritti mi viene in mente una canzone di Andrea Satta, che sintetizza: non è un diritto l’amore, “l’importante è lasciarsi bene, molto più che amarsi follemente, pensando al proprio passato insieme come un dono”». Il Tempo delle donne 2022 Leggi qui tutte le protagoniste e tutti i protagonisti della nona edizione del Tempo delle Donne. Qui il programma
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Ha confessato l’omicidio della ex fidanzata, da cui era stato lasciato solo da qualche giorno. “Le ho dato fuoco con un accendino dopo averla cosparsa di alcol mentre era ancora viva”, ha detto agli inquirenti Vincenzo Paduano, 27 anni, fermato all’alba dopo un lungo interrogatorio. Otto ore in cui “messo di fronte all’evidenza dei dati, ha provato a negare anche i dati certi, e poi alla fine ha ammesso di aver ucciso Sara“. È stato quindi l’uomo, guardia giurata, a dare fuoco a Sara Di Pietrantonio, 22enne trovata semicarbonizzata in via della Magliana a Roma. Il corpo era nascosto dietro a un cespuglio, in un parcheggio alla periferia della Capitale. A rendere ancora più disarmante la vicenda sono le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone, che nel corso della conferenza stampa sul fermo di Paduano ha detto: “Se qualcuno si fosse fermato Sara sarebbe ancora viva”. Secondo le ricostruzioni degli investigatori almeno due auto avrebbero visto la ragazza, probabilmente già cosparsa di alcol, chiedere aiuto mentre il suo ex stava dando alle fiamme la sua auto. Ma nessuno si è fermato né ha chiamato le forze dell’ordine. “Ci vuole coraggio da parte dei cittadini – ha aggiunto il capo della squadra mobile di Roma, Luigi Silipo – da parte di chi passa e vede qualcuno in difficoltà, una telefonata al 113 è gratis: se si vedono cose strane è dovere chiamare forze ordine”. La ricostruzione della notte dell’omicidio – Per prima era stata incendiata l’auto della madre sulla quale la ragazza viaggiava: stava tornando a casa dopo una serata trascorsa fuori. Le due si erano sentite intorno alle 3. “Mamma, sto tornando“, le aveva detto al telefono. Poi più nulla: alle 5 del mattino è stato ritrovato il corpo dai vigili del fuoco intervenuti per l’auto in fiamme. Da subito gli inquirenti hanno escluso si trattasse di un incidente. Dopo le prime ore, nelle quali sono stati sentiti parenti e amici della vittima, le indagini si sono concentrate su Paduano che nella notte è stato a lungo interrogato prima del fermo. La procura ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario. La confessione: “Non sopportavo fosse finita” – Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, a inizio serata l’ex fidanzato, indagato anche per stalking, è andato a trovare Sara a casa. I due hanno avuto una “discussione normale”. Poi la studentessa è andata con un’amica in un pub e dopo si è incontrata con il nuovo ragazzo, che frequentava da poco. Secondo le indagini, Paduano ha aspettato Sara sotto casa del nuovo ragazzo e poi, quanto ha visto che arrivava, si è allontanato conoscendo la strada che avrebbe fatto. Ha raggiunto la sua vittima in via della Magliana e l’ha costretta ad accostare. Dopo una lite in macchina, spiegano gli inquirenti, ha cosparso di alcol la Toyota e anche Sara, che però è scesa dalla vettura per mettersi in salvo. Ma lui l’ha inseguita a piedi, le ha dato fuoco quando era ancora viva mentre la ragazza chiedeva disperatamente aiuto. “Un po’ di tempo fa ci eravamo lasciati, ma io non sopportavo che fosse finita. Lei stava con un altro” ha confessato piangendo l’uomo. Al Messaggero la famiglia spiega che la relazione con Paduano – “molto geloso” – era durata due anni, ma che la ragazza, che lo aveva lasciato la settimana scorsa, vedeva già un’altra persona. Sara suonava il flauto traverso e aveva studiato al Conservatorio de L’Aquila. Tra le sue passioni anche la danza, coltivata fin da quando aveva sei anni. Dopo un tentativo fallito di entrare alla facoltà di Medicina e un anno a Chimica, aveva deciso di iscriversi a Economia all’Università di Roma Tre. Era cresciuta con la mamma, che aveva divorziato da suo padre quando la ragazza aveva appena tre anni. Con la figlia, però, era in buoni rapporti. Domani mattina la procura inoltrerà la richiesta di convalida del fermo dell’uomo per omicidio volontario premeditato e stalking. L’interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari potrebbe tenersi già mercoledì. Intanto il pm Maria Gabriella Fazi, titolare dell’inchiesta, ha disposto l’autopsia.
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Una donna è stata sfigurata con l’acido stamani a Genova. E’ accaduto intorno alle 6 nei pressi dell’ospedale Galliera dove la vittima – 46 anni, sposata e con figli – lavora come impiegata di una impresa di pulizie. L’aggressore al momento è sconosciuto. Secondo quanto appreso, ha atteso a volto coperto la donna in strada a fine turno e poi le ha gettato addosso il liquido. La vittima, portata d’urgenza al pronto soccorso dello stesso ospedale, ha ustioni al volto. La vittima è una genovese, che è stata ascoltata dai carabinieri del nucleo radiomobile impegnati nelle ricerche dell’aggressore. La donna è stata intanto trasferita d’urgenza all’Ospedale San Martino, nella clinica oculistica. Dalle prime ricostruzioni è emerso intanto che l’impiegata delle pulizie è stata aggredita all’interno dell’ospedale Galliera, e non in strada come era emerso in un primo momento. Dopo avere richiuso l’armadietto in una sala riservata al personale, si è incamminata verso l’uscita quando è stata affrontata da un uomo. Le sue urla hanno subito fatto accorrere alcune colleghe che hanno tentato di alleviarle il dolore con dell’acqua prima di portarla al pronto soccorso. “Ho sentito delle urla terribili, sono corsa e ho visto la mia collega con la divisa in parte lacerata, e dei segni sulle labbra e sul viso”. E’ la testimonianza di una collega della donna aggredita stamani con dell’acido da un uomo all’interno dell’Ospedale Galliera di Genova. Sulle condizioni della vittima, comunque, i medici del San Martino di Genova manifestano “cauto ottimismo”. Per il momento, la donna non sarà sottoposta ad alcun intervento chirurgico: la sostanza con la quale è stata aggredita ha colpito esternamente la palpebra dell’ occhio destro e la cornea mentre la lesione più importante sembra essere quella delle labbra e dell’epidermide del braccio destro con il quale ha cercato di ripararsi il volto al momento dell’aggressione. La donna resta comunque ricoverata nel reparto di oculistica. Da quanto si apprende, l’aggressore ha agito il volto coperto, non è ancora chiaro se da un passamontagna o da un altro indumento. L’uomo è riuscito a fuggire di corsa lungo i viali interni dell’ospedale, che sorge nel centro di Genova, prima che ai varchi di uscita arrivasse l’allarme delle colleghe della donna. La vittima non è riuscita finora a dare indicazioni precise per l’identificazione. I carabinieri del nucleo radiomobile indagano nella vita sentimentale della donna per cercare di risalire all’aggressore. “Se fosse confermata la pista sentimentale, si tratterebbe dell’ennesimo caso di violenza sulle donne da parte di una persona con cui è intercorsa una relazione . Spesso la volontà di troncare relazioni e rapporti di coppia, genera negli ex partner la ferocia e la volontà persecutoria, per non voler accettare ‘comportamenti insubordinati’ e affermazione dell’autonomia femminile”, ha dichiarato Isabella Rauti, consigliere del ministro dell’Interno per le politiche di Contrasto alla Violenza di Genere, ricordando l’importanza del decreto sul femminicidio approvato dal governo negli scorsi giorni. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando a Vicenza una ragazza di 31 anni era stata ustionata con acido da due uomini incapucciati. Ad aprile, invece, l‘avvocato Lucia Annibali di Pesaro era stata aggredita in casa da un uomo di origini albanesi, complice dell’ex fidanzato Luca Varani.
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Verso La 27enne, madre di una bimba di 4, è stata uccisa a colpi di pistola in strada. Era appena uscita da una pasticceria. L’uomo ha fatto perdere le tracce C’è un indagato per l’omicidio di Giovanna Cantarero, 27 anni, assassinata ieri sera a Lineri, una frazione di Misterbianco, nel Catanese. Dell’uomo si sono perse le tracce. Le indagini dei carabinieri hanno imboccato con decisione la pista del femminicidio. Si concentrano sulla relazione sentimentale della vittima, giovane mamma di una bimba di quattro anni, che poco dopo le 21.30 aveva finito il suo turno di lavoro in un panificio-pasticceria. È uscita dal locale con un’amica in attesa che la mamma venisse a prenderla in macchina. Ed invece è arrivato il suo assassino che da distanza ravvicinata ha sparato una raffica di colpi di pistola. Sono tre quelli che hanno raggiunto la vittima, due le hanno sfigurato il volto. Il corpo della ragazza è crollato sull’asfalto all’incrocio fra le vie Salvador Allende e Alfredo Nobel. Due strade buie, illuminate solo dai fari dell’attività commerciale. La busta con il pane Quando sono arrivati i carabinieri per terra c’era la busta con il pane che la giovane mamma stava portando a casa. Era inzuppato dall’acqua che da ieri cade piovosa sulla Sicilia. L’amica ha raccontato che l’assassino aveva il volto coperto e per questo non è riuscita a vederlo in faccia. Probabilmente c’è anche della reticenza nel suo racconto, dovuta alla paura. Gli investigatori coordinati dal procuratore Carmelo Zuccaro e dal sostituto Valentina Botta hanno interrogato parenti e amici. Per prima cosa hanno escluso la pista della criminalità organizzata, nonostante le modalità dell’agguato. Infine si sono concentrati sul femminicidio e s ull’ex fidanzato, che non è il padre della figlia della vittima. Di lui non c’è traccia. Ed è caccia all’uomo.
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Bisogna "agire sulla prevenzione con tempestività". Perché questo può "salvare delle vite" per davvero. Dopo gli episodi di violenza sulle donne registrati nelle ultime settimane, il ministro Eugenia Roccella ha fatto appello a tutte le forze politiche. Di fronte alla barbarie, serve unità. Lo strumento per rispondere all'urgenza "che ancora una volta e incessantemente le cronache ci propongono" - ha sottolineato l'esponente di governo - "c'è ed è il testo di legge varato dall'esecutivo, che mette in campo strumenti fortemente orientati alla prevenzione". Tale provvedimento, ha argomentato ancora Roccella, "è stato voluto come disegno di legge proprio perché su un tema come questo ci sia la massima condivisione". Femminicidi, il disegno di legge L'unione di intenti, in questo caso, può davvero essere la chiave di volta. Il segno di una politica vicina alle urgenze. Il suddetto disegno di legge è infatti già stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera e ora - ha auspicato Roccella - "siamo certi che ci sarà l'impegno di tutti, senza distinzioni di parte, affinché diventi presto legge dello Stato". Il ministro ha poi elencato all'Ansa le risoluzioni previste dal provvedimento: "il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'uso più stringente dell'ammonimento, il potenziamento del braccialetto elettronico, l'arresto in flagranza differita". E ancora, "la previsione di tempi rapidi e certi per la valutazione del rischio da parte dei magistrati e per l'applicazione delle misure dopo le tante condanne che l'Italia ha ricevuto per ritardi drammatici che sono costati la vita a tante donne". "Spezzare il ciclo di violenza" Si tratta di interventi che - ha proseguito Roccella - "possono risolvere le inadeguatezze delle norme attuali e spezzare il ciclo della violenza prima che sia troppo tardi". Da qui, l'ulteriore appello alla tempestività per salvare vite. Dall'inizio dell'anno, nei primi sette mesi e mezzo del 2023, sono state uccise 75 donne. Anna Scala, 56 anni, è solo l'ultima vittima in ordine di tempo e il suo nome ancora non compare negli algidi elenchi che fotografano il fenomeno. Ieri, 17 agosto, la donna è stata accoltellata a morte a Piano di Sorrento dall'ex compagno, che lei stessa aveva già denunciato due volte per stalking. Nelle scorse ore a Silandro (Bolzano) sono stati celebrati i funerali della 21enne Celine Frei Matzohl, uccisa dal suo ex Omer Cim con nove coltellate. Il suo corpo era stato trovato senza vita in casa dell'uomo, mentre questi tentava di fuggire in Austria. Celine a giugno lo aveva denunciato ai carabinieri dopo essere stata percossa e minacciata e subito era scattato il "codice rosso". Ma non era stato possibile chiedere le misure cautelari perché si trattava di un unico episodio. Anche Mariella Marino, 56 anni, si era rivolta alle autorità dopo le minacce dell'ex marito, che a luglio l'aveva attesa all'uscita di un supermercato e l'aveva rincorsa per poi ucciderla con tre colpi d'arma da fuoco. L'intenzione del governo è quella di fermare il "ciclo di violenza", di intervenire con la legalità per fermare la follia. Prima che sia troppo tardi.
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Omicidio-suicidio in via delle Ande. Una donna di 91 anni, Miranda Pomini, e il figlio di 56 anni, Marco De Marchi, sono stati trovati morti nella loro casa a Milano. Il ritrovamento è avvenuto nel pomeriggio di mercoledì 11 maggio. Madre e figlio vivevano in due piani diversi dello stesso stabile in zona Uruguay. L’uomo è stato trovato in bagno e, sin dall'inizio, i carabinieri hanno avuto pochi dubbi sulla sua morte: si è tolto la vita impiccandosi. L’anziana madre, invece, era sul divano e per le condizioni in cui è stata trovata dovrebbe essere morta per soffocamento: aveva del nastro adesivo su naso e bocca. Secondo quanto è stato ricostruito dai carabinieri, la donna viveva da sola in un appartamento al terzo piano nello stabile di via delle Ande ma, per quanto autosufficiente, era assistita quotidianamente dai due figli che abitavano al piano superiore. Marco De Marchi, probabilmente nel pomeriggio, è sceso nell'appartamento dell'anziana e l'ha uccisa, poi si è tolto la vita impiccandosi in bagno. E' stato l'altro fratello a scoprire la tragedia. Un elemento che è emerso, stando ad alcune testimonianze raccolte dai carabinieri, è il fatto che l'uomo era rimasto molto turbato dalla morte del padre, avvenuta nel 2018 al termine di un calvario per una malattia degenerativa.
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Lucca, ai funerali di Vania tutta la squadra della Lucchese Lucca, i funerali di Vania Vannucchi e il lungo abbraccio della città Chi porta un fiore, chi un palloncino o chi semplicemente indossa qualcosa di rosso, proprio come avevano chiesto le associazioni e i centri contro la violenza sulle donne. Un'intera città si stringe intorno ai familiari di Vania Vannucchi, l'operatrice sociosanitaria data alle fiamme e uccisa martedì 2 agosto. Ai funerali, nella chiesa di San Marco, ci sono i genitori, i figli e l'ex marito della donna. Ma ci sono anche tutti i giocatori della Lucchese calcio, che hanno voluto stare vicini al padre di Vania, Arturo Vannucchi, massaggiatore della squadra LEGGI L'ARTICOLO (Foto Riccardo Sanesi) Pisa, la rosa del governatore Rossi per Vania Una rosa per Vania Vannucchi. Questa mattina il governatore della Toscana Enrico Rossi ha portato un fiore all'obitorio dell'ospdeale Santa Chiara di Pisa in memoria della donna cosparsa di benzina e data alle fiamme martedì 2 agosto, a Lucca. Era stata portata al centro grandi ustionati, all'ospedale Cisanello (Pisa), dove è deceduta la mattina seguente. LUCCA - Le colleghe con le rose rosse in mano, le lacrime di chi l'ha conosciuta, la chiesa di San Marco strapiena di gente. Malgrado il caldo, malgrado agosto. Lucca dice addio a Vania Vannucchi nella chiesa di San Marco, la stessa parrocchia frequentata dalla donna uccisa con la benzina nel piazzale dell'ex ospedale Campo di Marte poco distante da qui. Le donne di varie associazioni e centri antiviolenza avevano chiesto di portare qualcosa di rosso: chi ha portato un fiocco al braccio, chi una cintura, piccoli segnali di solidarietà al dolore, segnali di solidarietà e rabbia verso una fine così tragica, così ingiusta. Un lungo applauso ha accompagnato l'ingresso del feretro in chiesa. A celebrare i funerali l'arcivescovo di Lucca, Italo Castellani: "Bisogna vivere le relazioni quotidiane senza possessione e saper dire no all'odio. Ora" ha detto. Erano presenti i genitori e i figli di Vania, e c'era anche l'ex marito. Tutti i giocatori della Lucchese calcio hanno voluto partecipare per stare vicino al padre di Vania, Alvaro Vannucchi, massaggiatore della squadra.Prima delle esequie è stata organizzata una manifestazione in memoria della donna e in memoria di tutte le altre vittime di femminicidio. Attraverso Facebook donne e uomini si sono dati appuntamento alle 15 al Caffè delle Mura di Lucca. Un minuto di silenzio e poi i palloncini liberati verso il cielo. Gli stessi palloncini che le colleghe e i colleghi che lavoravano con Vania al pronto soccorso di Lucca hanno portato di fronte alla chiesa.Vania sarà sepolta nel cimitero di Lucca. Intanto Pasquale Russo, l'ex collega della donna, accusato di aver ucciso l'operatrice sociosanitaria, resta in carcere . A deciderlo e a convalidare l'arresto, il gip Giuseppe Pezzuti. Russo, che ieri è stato sottoposto all'interrogatorio di garanzia, si è avvalso della facoltà di non rispondere. I legali dell'uomo hanno confermato la richiesta di perizia psichiatrica per il loro assistito. "Ci sono serie perplessità sulla sua capacità di intendere e di volere", ha dichiarato l'avvocato difensore, Gianfelice Cesaretti.Ieri mattina il governatore della Toscana Enrico Rossi ha portato una rosa rossa all'obitorio di Pisa, dove era custodito il corpo di Vania. Sposata, separata, madre di due giovani, una ragazza di 21 anni e un ragazzo di 17, Vania aveva frequentato per un breve periodo Pasquale Russo, come lei dipendente di una cooperativa che lavora in ambito ospedaliero nel trasporto dei farmaci. Lui si era invaghito di lei, ma lei da un anno non ne voleva più sapere. La gelosia di Russo però era, secondo quanto ha ricostruito la polizia e secondo la testimonianze di alcune amiche della vittima, sempre più invadente e sempre più aggressiva.Di fronte all'ennesimo femminicidio, la Regione, proprio ieri, ha deciso di aggiungere altri 200 mila euro ai 250 mila già stanziati per sostenere i servizi e le politiche contro la violenza sulle donne. Di questi, 50 mila saranno destinati alla formazione nelle scuole e gli altri saranno ripartiti tra i centri antiviolenze.
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Sono i 22 anni spezzati di Giulia Cecchettin, accoltellata e uccisa a 150 metri da casa, a Vigonovo, dal fidanzato Filippo Turetta, la sua laurea imminente, la sua voglia di vivere, lo strazio composto del padre e della sorella, un femminicidio che ha devastato l'Italia intera, a rendere quest'anno ancora più intensa la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Con l’avvicinarsi della data ufficiale, il 25 novembre, anche qui, a Torino e in provincia, il calendario con le già tantissime iniziative si arricchisce. Se la Mole Antonelliana sabato 25 si tinge di rosso, a Giaveno da venerdì 24 a domenica 26 saranno illuminate di rosso le fontane delle rotonde del centro e la fontana de Il Mascherone al Municipio. E tornando nel capoluogo, venerdì 24, dalle 15,30 alle 16,30, in via Montebello, le allieve e gli allievi dell’Accademia Cirko Vertigo saranno protagonisti di una performance-parata intitolata “L’amavo troppo e le ho sparato”. E tra le tante chiavi per declinare la manifestazione, sabato 25 alle 14,30, c’è anche quella all'ingresso del Cimitero Parco (via Bertani 80) che propone il reading per ricordare le donne vittime di violenza sepolte nei cimiteri di Torino, proprio di fronte alla panchina rossa a loro dedicata. A Pianezza,dal 23 al 25 novembre tra i vari appuntamenti - film,tavole di confronto e concerti al femminile - va in scena la camminata silenziosa in ricordo delle vittime: partenza sabato 25 alle 18 da via Maiolo 10 per giungere al Municipio. A Torre Pellice, invece, una fiaccolata: partenza venerdì 24 alle 17 da piazza San Martino, arrivo alla Galleria Scroppo dove va in scena "Viola d'amore". Per chi sceglie la musica, all'Educatorio della Provvidenza, corso Trento 13, sabato 25 alle 17 la pianista e compositrice Giuseppina Torre propone “Viaggio nel labirinto del cuore” (ingresso gratuito). Il Club Silencio, invece, dà appuntamento sabato 25 al Museo del Risorgimento: dalle 19 alle 24, all’interno di Palazzo Carignano, si va alla scoperta di storie di donne nel Risorgimento. Il Museo del Risparmio di Intesa Sanpaolo, invece, con gli Stati Generali delle Donne, organizza mercoledì 29 alle 18 un incontro per sensibilizzare sulla violenza economica: si assiste in presenza, al Museo di via San Francesco d’Assisi 8/A, o in modalità online, iscrizioni: [[URL]] Tra le presentazioni librarie, domenica 26 alle 17,30 al Ricetto per l’Arte di Almese, vicolo San Mauro, Enrica Tesio con "I sorrisi non fanno rumore", mentre giovedì 30 alle 18 al Centro delle Donne Laadan, via Vanchiglia 3, si parla di “Papà, ammazzarti avrei dovuto” di Clara Serra: dalla storia una bambina negli Anni Cinquanta, una riflessione della Casa delle Donne sulla violenza in famiglia. Non manca il contributo del teatro. Tra le iniziative a Rivarolo, e i vari spettacoli in cartellone, segnaliamo domenica 26 alle 21 nella Sala Lux-Beppe Bertinetti, via Trieste 43, Davide Giandrini che presenta “Come un fiore raro”, con racconti, canzoni e video intorno alla figura di Mia Martini.
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Il delitto della giovane attrice di film hard, la richiesta della Corte d'Assise. Per il food blogger Davide Fontana l'accusa è omicidio volontario aggravato dalla premeditazione La ricostruzione del pm Secondo la ricostruzione del pm Carlo Alberto Lafiandra è stato un femminicidio pianificato a monte, un delitto per la gelosia e il timore di perdere Carol, la vicina di casa uccisa a Rescaldina, nel Legnanese, il 10 gennaio 2022: una morte crudele, tenuta nascosta al mondo per quasi tre mesi, con un'atroce messinscena in cui l’assassino si era finto per settimane la vittima, rispondendo per lei al telefonino, accampando scuse e viaggi inesistenti per rassicurare sulla sua prolungata assenza amici e parenti. Una finzione agghiacciante: organizzata e attuata, secondo l’analisi del perito dei giudici Mara Bertini, da una persona, l’insospettabile bancario milanese, «lucida e sana di mente».
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Si sono conclusi, nel duomo di Castelfranco Veneto, i funerali di Vanessa Ballan, la 26enne uccisa a Treviso da Bujar Fandaj. Il feretro ha lasciato la chiesa tra gli applausi della gente che è accorsa per l’ultimo saluto alla giovane. Tanta la commozione dei presenti e della famiglia della giovane. Ad accompagnare la bara bianca, il compagno Nicola Scapinello, che ha lasciato la chiesa sorretto da due persone, e i genitori di Vanessa, che l’hanno salutata con un bacio sulla foto e sul feretro. Il Veneto ha proclamato il lutto regionale per tutta la giornata di oggi: disposta l’esposizione a mezz’asta della bandiera della Regione. L'invito agli enti pubblici veneti è di «unirsi nella manifestazione del cordoglio e promuovere occasioni di riflessione in tutte le sedi istituzionali sul tema della violenza di genere». Anche il presidente Luca Zaia, con il Gonfalone della Regione, ha partecipato al funerale, insieme al sottosegretario alla Giustiza, Andrea Ostellari, e a Roberto Ciambetti, presidente del Consiglio regionale veneto. Lutto regionale in Veneto oggi funerali Vanessa Ballan: bandiere listate a Castelfranco Veneto Oltre a Zaia, presenti anche tutti i comuni dell’Ipa Castellana, le vecchie amiche e compagne di scuola di Vanessa e i colleghi dell’Eurospin dove lavorava. Una collega di Vanessa Ballan, fuori dal Duomo, ha raccontato in lacrime: «Era così felice, per tutto, per la famiglia, per il bimbo che aspettava. Lavoravo con lei da due anni, ne abbiamo passate tante. Arrivare a una fine così è il peggio che possa esistere». Di Bujar, il 41enne kosovaro in carcere per l'omicidio, dice: «Lo vedevo, come tanti altri clienti, ma chi poteva dire che avrebbe mai fatto una cosa così? Vanessa con noi non si era confidata, andava avanti col sorriso, mai un segnale di paura. Lui l'ho visto l’ultima volta sabato, la cercava. Avevamo paura, perché si vedeva dalla faccia, è uno di cui non ti fidi già dallo sguardo. Mi chiedo ancora a cosa servano le leggi». L’arrivo al Duomo, la bara bianca e il silenzio della famiglia Tante le persone arrivate sul sagrato della chiesa, dove la bara bianca di Vanessa Ballan, coperta da tulipani e rose bianche, si è fermata qualche minuto a ricevere l'omaggio di amici e parenti, che indossano sui baveri delle giacche un fiocco rosso, simbolo della lotta contro la violenza di genere. Dietro la bara, il compagno Nicola Scapinello, i genitori e gli amici più cari. Prima dell'inizio del funerale, Nicola ha raggiunto il carro funebre e si è avvicinato alla bara, stringendo a sé i genitori di Vanessa. Tutti i partecipanti hanno deciso di rispettare le volontà della famiglia, del compagno in particolare: i familiari hanno infatti scelto il silenzio, di restare defilati e in disparte, durante la cerimonia. Niente spettacolarizzazioni o riflettori: solo un silenzio rispettoso del dolore di un compagno, Nicola, e del suo bambino, Mattia, di soli quattro anni. I familiari hanno comunicato la decisione nei giorni scorsi, tramite il loro legale, dichiarando di voler limitare la presenza di operatori video e fotografi di testate giornalistiche all'interno della chiesa. L’omelia del vescovo di Treviso, Michele Tomasi, ha rievocato il «silenzio dai clamori e dalle curiosità» chiesto dalla famiglia, e la necessità di una società che rifiuti la violenza sulle donne. Pronte le relazioni sul caso Nel frattempo, sono pronte due relazioni, una dei due pm Valmassoi e Sabattini e l’altra del procuratore Marco Martani, per gli uffici di Carlo Nordio: il ministro della Giustizia aveva infatti richiesto chiarimenti sull’operato dei magistrati che hanno seguito il caso della precedente denuncia di Vanessa Ballan, a cui non aveva fatto seguito nessuna misura cautelare. Il pubblico ministero Barbara Sabattini avrebbe infatti ritenuto non urgente l'adozione di provvedimenti di tutela dopo la denuncia, in attesa che arrivassero i tabulati relativi al traffico telefonico intercorso tra Ballan e l'indagato, visto che la donna aveva cancellato dal proprio dispositivo messaggi e chat. Secondo quanto ricostruito dal procuratore trevigiano Marco Martani, il giorno dopo la segnalazione alle forze dell'ordine la casa dell’uomo sarebbe stata perquisita: sequestrati alcuni telefoni cellulari contenenti il materiale video che Fundaj ha usato per ricattare Vanessa. L’analisi dei dispositivi elettronici, però, è arrivata al pm solo due giorni dopo il femminicidio: la valutazione di «non urgenza» del caso, motivata dall’assenza di molestie, di avvicinamenti o minacce dopo la denuncia, si è quindi rivelata inadeguata. La storia interrotta, il ricatto, la denuncia Il flirt tra Vanessa e Bujar era iniziato nel 2021 ed era stato poi interrotto nel 2023 dalla 26enne, legata al compagno Nicola e già madre di un bambino. A quanto pare, anche Nicola conosceva Bujar, ma non sapeva della relazione tra i due: ai suoi occhi, il 41enne kosovaro era solo un amico della compagna, che dava persino una mano andando a prendere il bambino all’asilo. Lo stesso Nicola avrebbe pranzato con Bujar e Vanessa, talvolta, ma questa situazione di precario equilibrio si era stravolta quando lei aveva deciso di interrompere la frequentazione con il 41enne. Da lì, un’escalation di minacce e pesanti ricatti: Fandaj minacciava di rivelare tutto a Nicola, inviandogli alcuni video dei loro incontri intimi, e di mettere a rischio persino l’affidamento del piccolo Mattia. Secondo la denuncia presentata da Vanessa, inoltre, tramite questi ricatti Bujar Fandaj sarebbe anche riuscito ad ottenere da lei altri rapporti sessuali. Fandaj aveva infine rivelato a Nicola quanto successo tra i due la sera prima della denuncia, inviandogli un messaggio e un video, in cui esplicitava la natura della sua relazione con Vanessa. A quel punto, le avrebbe confessato a Nicola di aver avuto una relazione con il 41enne, e che lui l’avrebbe poi ricattata per ottenere altri incontri e rapporti sessuali. Anche in ragione dell’esistenza di materiali intimi registrati, Vanessa e Nicola avrebbero deciso insieme di sporgere denuncia. La Procura ha inoltre deciso di effettuare un test di paternità sul feto: l’ipotesi è che anche l’assassino sapesse che lei era incinta.
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In città un terzo ambiente «confortevole e discreto» riservato alle donne vittime di violenza che vogliono denunciare e ai loro bambini. Al Tribunale di Napoli, invece, inaugurata una panchina rossa nella piazza coperta I carabinieri del Comando Provinciale di Napoli e Soroptimist International Club hanno inaugurato nella caserma Podgora, sede del comando Gruppo carabinieri di Napoli e della compagnia Stella, una nuova «Stanza tutta per sé» dedicata all'accoglienza e all'ascolto delle vittime di violenza di genere, la quarta della provincia dopo quelle di Capodimonte, Caivano ed Ercolano. Presente all'inaugurazione anche il procuratore aggiunto di Napoli, Raffaello Falcone. Si rinnova così l'intesa tra il Comando generale dell'Arma e la presidenza dell'associazione nell'ambito di un Protocollo nazionale sottoscritto il 22 novembre 2019. Cos'è la "Stanza": un ambiente riservato allestito con arredi più accoglienti e caldi, distinti da quelli degli uffici generalmente utilizzati per la raccolta delle denunce. In linea con gli obiettivi del Protocollo, il Soroptimist Club Napoli ha donato gli arredi e i materiali informatici offrendo mobili, illuminazione e altri arredi che richiamano quelli di un ambiente domestico, per favorire l'empatia tra le vittime e gli operatori della sicurezza. Questi progetti si inseriscono nelle iniziative adottate dall'Arma dei Carabinieri, con l'istituzione, a livello nazionale sin dal 2009, di una Sezione Atti Persecutori nell'ambito del Raggruppamento Investigazioni Scientifiche, con la realizzazione di una rete nazionale periferica di personale specializzato nella violenza di genere e con la diffusione di un Prontuario tecnico-operativo che fornisce al personale un riferimento qualificato per la gestione dei casi. La collaborazione comprende anche il «Mobile Angel», lo smartwatch che lo scorso 18 novembre ha concluso con successo il primo anno di sperimentazione garantendo alle vittime un contatto immediato con le Centrali Operative dell'Arma. Nell'occasione, il comandante provinciale dei Carabinieri, generale Enrico Scandone, spiega meglio: «Questo spazio rappresenta un impegno tangibile e umanitario nel contrasto alla violenza di genere. La sua apertura nel cuore di Napoli riflette la nostra volontà di fornire un luogo accogliente e sicuro per le donne vittime di violenza. La "Stanza tutta per sé" è concepita come un rifugio rassicurante, dove le donne possono condividere le proprie esperienze in un ambiente discreto e riservato. Vogliamo creare un legame di fiducia con la collettività, sottolineando che siamo qui non solo per preservare l'ordine, ma anche per difendere i diritti fondamentali e il benessere delle vittime». E la presidente del Soroptimist Club Napoli, Elvira Lenzi, così commenta l'inaugurazione della terza «Stanza tutta per sé» dopo quelle di Capodimonte ed Ercolano, «già da noi realizzate presso le rispettive Caserme con la collaborazione dell'Arma. L'arredo e l'allestimento sono stati curati scegliendo i colori suggeriti dalla cromoterapia, lo stile dei mobili e dei complementi d'arredo è all'insegna di una auspicabile atmosfera di distensione, senza dimenticare di attrezzare anche una parte del locale dedicata ai bambini che spesso si accompagnano alla madre». «Un segnale prezioso che arriva in giorni segnati da tanto dolore ma anche dalla crescita di consapevolezza. Complimenti ai Carabinieri del Comando Provinciale e al Soroptimist International Club Napoli». commenta infine in una nota la senatrice campana del Pd Valeria Valente, componente della Commissione bicamerale sul femminicidio. Sempre oggi, una panchina rossa è stata inaugurata stamani nel Tribunale di Napoli. All'iniziativa promossa nella piazza coperta del Palazzo di Giustizia dall'Adgi, l'Associazione donne giuriste Italia, erano presenti la presidente del tribunale Elisabetta Garzo, quelle degli ordini degli avvocati di Napoli e Benevento, Immacolata Troianiello e Stefania Pavone, Paola Russo della sezione napoletana dell'Adgi, la vicepresidente del Consiglio regionale Loredana Raia e Domenica Lomezzo consigliere di parità della Regione Campania. «Non a caso inauguriamo questa panchina all'interno del Tribunale - ha detto Troianiello - perché questo è il luogo frequentato tutti i giorni da avvocati e magistrati: siamo noi il primo baluardo a cui si rivolgono le vittime e siamo noi che dobbiamo indicare la via che porta alla giustizia e all'abbattimento di ciò che non deve esistere». La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici [[URL]]
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È stato fermato Fandaj Bujar, 41enne di origini kosovare, sospettato della morte di Vanessa Ballan, 26 anni, incinta del secondo figlio. La donna, stando ai primi esami condotti dal medico legale, è stata uccisa con numerose coltellate al torace. Lo scorso mese di ottobre, la vittima aveva denunciato per stalking Bujar. Da quella denuncia erano partiti gli accertamenti da parte dell'autorità giudiziaria. Il presunto killer era un cliente del supermercato, l'Eurospin, nel quale Vanessa Ballan aveva lavorato fino a qualche tempo fa quando, proprio perché in attesa da poco del secondo figlio, era andata in maternità. Su Facebook, in mattinata, l'uomo ha postato una storia nella quale viene ritratta un'autostrada. Dalle indicazioni, l'uomo sembra al confine tra Italia e Slovenia. Vanessa Ballan lascia un bambino di 4 anni e un compagno, Nicola Scapinello, con il quale aveva una storia che andava avanti da 11 anni. È stato lui a provare a rianimarla, quando, sotto shock ha trovato il corpo agonizzante della 27enne sull'uscio di casa. Ad allertare il 118, un vicino di casa, poi lo stesso Scapinello. I soccorsi, giunti sul luogo del delitto, in via Fornasette, frazione Spineda di Riese Pio X, hanno potuto solo constatare il decesso della donna. I carabinieri di Treviso hanno ascoltato Scapinella che è stato condotto in caserma, in stato di shock, mentre il loro bimbo di 4 anni era ancora all'asilo. La caccia al killer è iniziata subito in tutta la zona circostante, anche con l'ausilio di un elicottero dei carabinieri arrivato da Bolzano. Le indagini, coordinate dal pm Michele Permunian, e condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Treviso, guidati dal colonnello Massimo Ribaudo, proseguono senza sosta anche per comprendere il movente alla base dell'omicidio di vanessa Ballan. I primi esami autoptici, condotti dal medico medico legale Antonello Cirnelli, nominato dalla e il colonnello Massimo Ribaudo, comandante provinciale dei carabinieri di Treviso. ⚫️⚫️⚫️ In provincia di Treviso, a Riese Pio X, una ragazza è stata accoltellata e uccisa sulla porta di casa. La vittima è Vanessa Ballan, una giovane donna di 26 anni. L’omicida l’ha colpita con un coltello: è ricercato dai Carabinieri. NOTIZIA IN AGGIORNAMENTO pic.twitter.com/Tn3vYL5s86 — Luca Zaia (@zaiapresidente) December 19, 2023 «Sono sconvolto. Tutta la comunità lo è. Speriamo che al più presto si faccia chiarezza», ha detto Matteo Guidolin, sindaco di Riese Pio X, commuovendosi davanti all'abitazione dove è avvenuto il delitto. «È l'ora del silenzio – ha aggiunto monsignor Giorgio Piva, il parroco di Riese, al Corriere del Veneto – Una vita spezzata che lascia una bimba di solo 4 anni».
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BIELLA. Ci sono rabbia e sconcerto nelle parole di Tiziana Suman, la madre di Erika Preti, alla notizia che Dimitri Fricano, l’assassino della figlia, è stato trasferito agli arresti domiciliari per motivi di salute. Questo anche per il modo in cui la notizia è arrivata, all’improvviso. «Ero al lavoro, con il telefono spento e non ho saputo nulla fin quando non sono rientrata a casa». Ad annunciargliela un messaggio whatsapp da La Stampa. Prima risponde con un altro messaggio: «Sono rimasta senza parole e non riesco a esprimere il mio disgusto e il mio senso di ingiustizia». Poi chiama, un po’ per saperne di più oltre che probabilmente per sfogarsi. «All’inizio non capivo, mi sembrava impossibile che avessero preso un simile decisione senza dirci niente, mi sembra una cosa assurda». Sua figlia Erika è stata uccisa nell’estate del 2017 dal fidanzato con cui era in vacanza a casa di amici a San Teodoro, in Sardegna. Il corpo della ragazza è stato straziato da 57 coltellate e Fricano aveva continuato a colpirla anche quando era già a terra. Un femminicidio terribile, che l’uomo aveva cercato di mascherare denunciando l’aggressione da parte di uno sconosciuto, versione che aveva sostenuto per un mese prima di confessare. È stato condannato a trent’anni in via definitiva. Il trasferimento di Dimitri Fricano, trentacinque anni, nella sua casa di Biella, deciso dal Tribunale di Sorveglianza, è avvenuto martedì su richiesta dell’amministrazione penitenziaria, vista l’impossibilità di gestirne i problemi di salute all’interno della struttura carceraria. Fin dall’inizio, quando era ancora a Ivrea, Fricano aveva avuto problemi ad adattarsi alla vita da recluso, sia per problemi con gli altri detenuti, visto il delitto per cui era stato condannato, che per la cura a base di psicofarmaci a cui era sottoposto ancora prima di essere arrestato. Problemi che sarebbero aumentati dopo il trasferimento a Torino. Si tratta sempre di un disturbo psichiatrico di tipo depressivo. Negli ultimi mesi, trapela dal carcere, avrebbe iniziato a non lavarsi e a rifiutarsi di uscire dalla cella, peggiorando quindi i rapporti con gli altri detenuti. Sarebbe inoltre aumentato di peso fino a sfiorare i 200 chili, sviluppando una forte dipendenza per le sigarette, oltre a presentare episodi ricorrenti di epilessia. Il provvedimento ha la durata di un anno, dopo il quale verrà sottoposto a una nuova visita, nel corso della quale si deciderà se prorogare i domiciliari o farlo rientrare in carcere. Il suo rientro a casa ha reso più dolorosa la ferita per la morte della figlia che in Tiziana Suman non si è mai rimarginata. «Già l’anno scorso era stato contattato il nostro legale, ci avevano chiesto se eravamo d’accordo nel concedere gli arresti domiciliari a Dimitri. Subito abbiamo detto di no, quello che ha fatto è troppo grave e non mi rassegno all’idea che sia già tornato a casa, con sua madre che lo accudisce». Anche con la famiglia Fricano i rapporti si sono deteriorati fin dai tempi del processo che li ha visti su posizioni opposte. «Sui suoi è meglio che non parli». La voglia adesso è soprattutto di capire come possa essere successo che, dopo sei anni, chi ha ucciso sua figlia sia uscito dal carcere, pur restando ai domiciliari, e di dar sfogo a un malessere che gli anni passati da quella tragica estate non sembrano aver attenuato. Tanto che la donna si lascia andare anche a dichiarazioni forti: «Sta male? Spero di poter vedere il suo manifesto funebre. Mi verrebbe voglia di andare ad aspettarlo fuori da casa sua, poi naturalmente non lo farò ma è stato davvero un colpo sapere tutto senza che a noi o al nostro avvocato venisse comunicato in anticipo, senza che neppure ci abbiano chiesto cosa ne pensassimo. Che giustizia è questa? Già ero certa che non avrebbe passato in carcere tutti i trent’anni della condanna, ma non pensavo che potessero farlo uscire così presto». Anche nel suo caso, come per il marito Fabrizio Preti, apprendere la notizia della scarcerazione dell’assassino di loro figlia è stato «come ricevere una coltellata, il dolore per la morte di Erika è vivo oggi come sei anni fa e non se ne andrà mai». — © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Sono in arrivo a Vicenza, dopo il doppio femminicidio compiuto da Zlatan Vasiljevic che ha ucciso la sua ex moglie e la sua fidanzata, gli ispettori inviati dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Gli ispettori avranno il compito di visionare nei dettagli l'intero iter giudiziario del pluriomicida, che il 9 giugno ha sparato all'ex moglie Lidia Miljkovic e a quella che per qualche mese era stata la sua nuova compagna, Gabriela Serrano, prima di togliersi la vita in un'auto sulla tangenziale ovest di Vicenza. In particolare gli ispettori dovranno ricostruire il percorso nelle aule di giustizia dell'uomo di origine serba per capire se vi siano state negligenze nella valutazione del suo profilo personale e delle sue responsabilità. Ulteriori aspetti, utili anche agli investigatori, emergeranno dagli esami autoptici, all'ospedale di Vicenza. Dopo l'autopsia sul corpo delle due donne, sarà concesso il nulla osta per la sepoltura. I funerali si dovrebbero tenere tra mercoledì e giovedì in luoghi distinti: quello di Lidia Miljkovic a Vicenza (nella chiesa serbo-ortodossa, a ridosso del centro storico, che la vittima frequentava) mentre quello di Gabriela Serrano è previsto a Rubano (Padova), paese dove abitava. Nel giorno dei funerali sarà lutto cittadino a Schio dove Lidia risiedeva da qualche tempo, mentre a Vicenza per martedì sera è stato convocato un consiglio comunale straordinario sul tema dei femminicidi. Secondo quanto trapela, la salma di Vasiljevic dovrebbe essere rimpatriata in tempi brevi in Serbia, dove vivono attualmente la mamma e altri parenti. Anche in questo caso tutto potrà avvenire quando sarà concesso il nulla osta per la sepoltura.
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Investigatori al lavoro, foto Riccardo Siano (siano) Il palazzo dove è avvenuta la tragedia, foto Riccardo Siano (siano) Una donna di 33 anni è stata uccisa nel Napoletano, a Melito di Napoli. Il marito della donna ha chiamato il suo avvocato e si è costituito. Davanti agli investigatori ha confessato il delitto.Nella mattinata i carabinieri sono intervenuti d'urgenza in via Papa Giovanni XXIII per segnalazione al 112 di colpi d'arma da fuoco.Una volta sul posto hanno accertato che al quinto piano della palazzina al civico 49 era deceduta all'interno della propria abitazione una 33enne del luogo incensurata, con due figli, una ragazzina di 14 anni ed un maschio di sette anni.La donna viveva in un complesso di edilizia popolare della zona di via papa Giovanni non lontano dal centro storico di Melito di Napoli.Il marito della donna è andato nel primo pomeriggio con il suo legale negli uffici della Squadra mobile della questura di Napoli. Gli investigatori stanno sentendo l'uomo per ricostruire l'esatta dinamica dell'accaduto. L'assassino ha precedenti per camorra, era affiliato al clan Di Lauro
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TRENTO. Si chiamava Maria Antonietta Panico la donna trovata morta da almeno due giorni, riversa nel letto macchiato di sangue, nel suo appartamento di via Vicenza a Trento. Avrebbe compiuto 43 anni tra 4 giorni. A scoprire il corpo della donna, stamattina attorno alle 11, l'ex marito: è stato lui a dare l'allarme al numero unico per le emergenze. La donna nel 2018 si era candidata alle provinciali nella lista che ha portato all'elezione del governatore Maurizio Fugatti. Nel 2020 aveva poi tentato di entrare in consiglio comunale con la lista civica che sosteneva Andrea Merler, candidato sindaco di centrodestra. La scientifica sta passando al setaccio l'appartamento alla ricerca di elementi biologici utili alle indagini. Al lavoro i carabinieri e la pm Patrizia Foiera, che sta coordinando le indagini, che non escludono il femminicidio. Gli inquirenti stanno ora interrogando l’ex marito. Si cerca l’ultimo ex compagno Aveva il divieto di avvicinamento e attualmente non è stato ancora rintracciato dai carabinieri di Trento, l'ex compagno di Maria Antonietta Panico. Lo si apprende da fonti investigative. Sul corpo della donna, il cui cadavere è stato scoperto dall'ex marito, allertato dalla figlia 16enne che non riusciva a mettersi in contatto con la madre, non ci sarebbero evidenti ferite da arma da taglio. Il medico legale si è riservato di chiarire le cause del decesso solo dopo l'autopsia. Intanto la pm Patrizia Foiera, che coordina le indagini dei carabinieri che stanno esaminando i tabulati per verificare se ci sono messaggi o telefonate di interesse investigativo, ha sentito persone informate sui fatti e parenti. Da quanto si apprende la donna in alcune occasioni si era recata al pronto soccorso per «contusioni facciali». Per il momento la procura non esclude nessuna pista, femminicidio compreso.
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I giardini di piazza Monte Grappa, non distante da via Poma, dedicati alla segretaria assassinata nell’estate 1990 da mano ancora ignota. Nella targa sarà scritto: «Vittima di femminicidio» A oltre 30 anni dalla sua morte Roma ricorderà Simonetta Cesaroni dedicandole un’area pubblica. Una delle tre aree verdi che la Giunta capitolina ha deciso oggi di intitolare ad altrettante personalità che a diverso titolo hanno segnato la vita della città è dedicata a lei, la segretaria uccisa nell’agosto del 1990 da una mano assassina rimasta ancora sconosciuta. Prenderanno infatti il nome di «Simonetta Cesaroni, vittima di femminicidio» i giardini di piazza Monte Grappa, di fronte al ponte del Risorgimento, nel quartiere Della Vittoria, non lontano da via Carlo Poma, dove avvenne l’omicidio. «Molto presto, avremo finalmente un’area pubblica dedicata alla memoria di Simonetta Cesaroni – ha dichiarato l’assessore Gotor, che ha portato la delibera all’attenzione della Giunta Capitolina – la cui morte violenta nell’agosto del 1990, a poco più di vent’anni, a tutt’oggi ufficialmente senza colpevoli, ha segnato profondamente Roma. Un caso di femminicidio brutale che è una ferita ancora aperta per la nostra città». Le altre due aree interessate dal provvedimento sono il parco pubblico di via Gregorio XI, nel quartiere Aurelio, che avrà il nome di Umberto Lenzini, presidente della Lazio dello scudetto del 1974, mentre all’allenatore della Roma dello scudetto del 1983, Nils Liedholm, verranno intitolati i giardini di via Gustavo d’Arpe, a Trigoria.
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L'arringa dell'avvocato Claudio Strata in Corte d'assise d'appello: «Ha agito per istinto di sopravvivenza, per evitare l'ennesima strage familiare». La sentenza il 4 maggio Alex con la mamma dopo l'assoluzione di primo grado «Vi consegno Alex e chiedo a questa Corte di decidere, di farlo con il cuore e non solo con la mente. Ognuno con la propria coscienza». Sceglie queste parole l’avvocato Claudio Strada per chiudere la lunga arringa in difesa di Alex Cotoia (il giovane ha abbandonato il cognome del padre per prendere quello della mamma). Sono parole che vanno dritte al punto e che rimarcano quanto già detto dal pubblico ministero Alessandro Aghemo prima di chiedere una condanna a 14 anni: «È un caso che scuote le coscienze». In primo grado era arrivata un’assoluzione. Trentasei coltellate Il 30 aprile 2020 Alex ha ucciso il padre Giuseppe Pompa, 52 anni, sferrando 36 colpi con sei coltelli differenti. Il fatto è incontrovertibile e lui non ha mai negato la propria responsabilità, fin dalla telefonata che fece al 112 per chiamare i soccorsi: «Voleva uccidere mia madre, me e mio fratello. C’è stata una colluttazione, penso di averlo ucciso». Per il legale bisogna partire da questa frase per riuscire a entrare nella testa di questo giovane — all’epoca poco più che 18enne — costretto «a crescere in fretta» per trasformarsi «in scudo umano» e difendere la madre, costantemente vessata da un marito violento e ossessionato dalla gelosia. gli audio choc I 250 audio registrati da Alex e dal fratello maggiore Loris durante le sfuriate del genitore raccontano il clima di violenza e prevaricazione che per anni ha permeato la quotidianità di questa famiglia. «In tutto questo tempo — insiste il legale —, Alex ha sempre avuto un atteggiamento difensivo, ha agito sempre con l’intento di placare gli animi, di annientate il pericolo. Anche quando ha ucciso, l’intento era distruggere il pericolo». La sera del delitto, secondo il legale, Alex ha agito per istinto di sopravvivenza: «Questo ragazzo non deve farvi pena, ma dovete guardare con i suoi occhi. Solo così è possibile rendersi conto che è stata legittima difesa». E ancora: «Il padre era una furia, non riuscivano a contenerlo. C’era una situazione di pericolo permanente che in un qualsiasi momento poteva sfociare in tragedia: in un femminicidio». la richiesta di assoluzione Per rimarcare il concetto, Strata legge in aula i nomi di donne e figli vittime di 55 stragi familiari: «In Italia ce n’è una ogni 72 ore, con donne assassinate dal marito o dal compagno. Un ragazzo è morto per non avere avuto la stessa prontezza di Alex. Vicende tremende che sono sovrapponibili a quella dei Pompa». Da qui la richiesta di assoluzione per legittima difesa: «Alex non avrebbe mai voluto uccidere. Ed è lui stesso a dirvelo quando riemerge dall’abisso in cui era sprofondato: “Avrei preferito morire io”». Il legale, che assiste il giovane insieme con la collega Giancarla Bissattini, spiega in ultimo alla Corte d’assise d’appello di valutare eventualmente l’eccesso colposo di legittima difesa o lo stato di necessità. Infine, fa propria anche l’analisi già avanzata dalla Procura di sollevare la questione di legittimità costituzionale per potere, in caso di condanna, applicare ad Alex il più ampio spettro di attenuanti. La sentenza è attesa per il 4 maggio. Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
focus killer
Non sono 30 – come ricostruito in un primo momento – ma ben 115 le coltellate che hanno ucciso Clara Ceccarelli, commerciante 69enne assassinata il 19 febbraio nel suo negozio di pantofole in via Colombo, nel pieno centro di Genova. È il risultato dell’autopsia eseguita lunedì dal medico legale Lucrezia Mazzarella. Non solo, ma a quanto si apprende quasi tutti i colpi sferrati dall’ex compagno Renato Scapusi – che ha confessato nelle ore successive al delitto – non hanno colpito organi vitali, con la conseguenza che la vittima è morta solo dopo un lento dissanguamento: pare addirittura fosse ancora cosciente all’arrivo dei primi soccorsi, e abbia seguito, per qualche minuto, con gli occhi la scena di fronte a sé. Il reo confesso, 60 anni, ex installatore di parquet affetto da disturbo bipolare e borderline di personalità, è accusato dal pm Giovanni Arena di omicidio volontario con le aggravanti della premeditazione, dell’efferatezza e del passato legame affettivo con la vittima. Lunedì il magistrato ha affidato una consulenza tecnica psichiatrica al perito forense Gabriele Rocca, chiedendo di stabilire se Scapusi fosse o meno capace di intendere e volere al momento del gesto. Lo specialista si è riservato trenta giorni per rispondere e martedì ha incontrato l’omicida in carcere per il primo colloquio. Ed è proprio sulla perizia psichiatrica che punta la difesa – rappresentata dall’avvocato Stefano Bertone – per evitare l’ergastolo, pena prevista dal codice per l’omicidio aggravato. “Abbiamo totale fiducia nel consulente del pm, tanto da non averne indicato uno nostro”, dice il legale al fattoquotidiano.it, “ma è chiaro che Scapusi è un uomo affetto da problemi psichici diagnosticati, che lo hanno portato a un ricovero in ospedale nelle ore precedenti al delitto. Perché sia stato fatto uscire, e se in questo sia individuabile una responsabilità, è un aspetto su cui la procura dovrà far luce”. Due giorni prima dell’omicidio, infatti, l’ex artigiano aveva minacciato di buttarsi giù dalla scala antincendio di un istituto scolastico nel quartiere di Sturla, su cui si era arrampicato. Agli agenti accorsi sul posto aveva detto di volersi suicidare per il lavoro perso e i pesanti debiti da gioco. Ricoverato in psichiatria al Policlinico San Martino nella serata di mercoledì, era stato trasferito all’ospedale Galliera e dimesso dopo due giorni. “È estremamente confuso e da ciò che ha dichiarato mi pare difficile ipotizzare la premeditazione del delitto, in particolare se la consulenza dovesse riscontrare un vizio di mente anche parziale”, dice l’avvocato. Al tema della premeditazione si lega quello dell’arma del delitto, ancora non rinvenuta. Nell’interrogatorio di garanzia Scapusi ha sostenuto che il coltello si trovasse già nel negozio: durante una colluttazione, dice, lo ha strappato dalle mani di Clara per ucciderla, dopodiché non ricorda nulla di che fine abbia fatto. La versione non convince gli inquirenti, perché – trapela dalla Procura – in un primo momento l’indagato ha invece ammesso di aver portato l’arma da casa, correggendosi nelle risposte alle domande successive. Se si dimostrasse che l’ex compagno aveva con sé il coltello al proprio arrivo, diverrebbe difficile sostenere la tesi di un omicidio d’impeto. Tra i testimoni ascoltati dalla Squadra Mobile c’è però un negoziante di via Colombo che ha raccontato di un proprio coltello scomparso: non è escluso che Scapusi se ne sia impossessato con un blitz, per quanto l’ipotesi sia difficile da verificare. Nel frattempo l’amministrazione comunale, tramite la partecipata ai servizi funebri Asef, si è offerta di sostenere le spese del funerale di Clara, quello che lei stessa – secondo la testimonianza del suo commesso – si era pagata nell’ultimo periodo, forse temendo ciò che poi le è accaduto. Martedì mattina, in apertura del consiglio regionale, i consiglieri leghisti Mabel Riolfo e Brunello Brunetto hanno posizionato sui proprio scranni un paio di scarpe rosse per sensibilizzare sul tema del femminicidio, con un ordine del giorno sul tema è stato approvato all’unanimità. Il sindaco di Genova Marco Bucci, da parte sua, ha raccolto l’appello di decine di amici della donna uccisa assicurando sostegno al figlio Mauro, affetto da disabilità intellettiva: “Non sarà lasciato solo. Le strutture del Comune di Genova insieme al servizio sanitario hanno individuato diverse soluzioni per fare in modo che Mauro possa godere del sostegno adeguato, le giuste tutele e l’aiuto morale e materiale di cui avrà necessità”, ha scritto sui social.
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Una testimonianza importantissima è attesa il prossimo 27 ottobre. Si tratta del fratello di Saman Abbas, la 18enne pakistana eliminata secondo i pm dalla famiglia, perché si opponeva a un matrimonio combinato. E proprio a pochi giorni dall’audizione davanti ai giudici della Corte d’assise. La Procura di Reggio Emilia indaga su pressioni e minacce dal Pakistan sul ragazzo testimone chiave dell’accusa contro i familiari imputati, affinché ritratti le dichiarazioni fatte o eviti di testimoniare in processo. Il procuratore Gaetano Calogero Paci ha aperto un fascicolo contro ignoti e i carabinieri hanno acquisito copia di messaggi, forniti dallo stesso giovane. Dagli accertamenti emerge che ha mantenuto contatti con la madre e con familiari in Pakistan che, soprattutto quando c’è stata l’estradizione del padre, hanno portato avanti le pressioni. Il ragazzo, nel frattempo divenuto maggiorenne, con le sue parole inchioda i cinque familiari imputati, in particolare lo zio Danish Hasnain, accusandoli di aver ucciso la 18enne di Novellara, la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021. Intercettato nei giorni successivi alla scomparsa della ragazza (poi ritrovata sepolta in un casolare vicino a casa un anno e mezzo dopo) diceva quello che aveva già riferito ai carabinieri e che avrebbe ripetuto in incidente probatorio. In una telefonata del 28 maggio, con una zia, il ragazzo affermò: “Da oggi non parlerò più con tuo fratello Danish e non parlerò nemmeno con quel cane che ha i baffi e più nemmeno con Irfan, non parlerò più neanche con gli altri due che stanno con loro perché ha fatto tutto lo zio, ha fatto tutto lo zio“. La zia rispose: “Stai zitto”. Ma il giovane proseguì: “Sì ma io a questi qui gli darò una lezione che si ricorderanno tutta la vita. Se non è rimasta viva mia sorella, allora neanche loro hanno diritto di vivere. O mi ucciderò oppure farò qualcosa a questi“. In un’altra conversazione, del giorno prima, sempre il fratello parlava con una conoscente del tema: “Mio zio ha ucciso una persona, capito?”. “In Pakistan?”, domandò lei. Risposta: “Novellara”. Le trascrizioni dei dialoghi, depositate nei giorni scorsi agli atti del processo in Corte di assise a carico del padre, Shabbar Abbas, della madre, Nazia Shaheen (ancora irreperibile), dello zio Danish e dei cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, restituiscono anche la sofferenza e la disperazione del ragazzo, all’epoca sedicenne. Come il 5 giugno, parlando con la madre, fuggita in Pakistan: “Vanno all’inferno tutti, se non c’è più la mia sorella allora non c’è più nessuno. Stai in silenzio“. In un’altra telefonata, del 14 giugno, il padre invece sembra tentare di convincere il figlio ad addossare la colpa ad un altro parente, diverso dai cinque imputati: “Tu – rivolto al ragazzo – devi dire che Danish e gli altri non hanno nessuna colpa, lui (l’altro parente, ndr) è venuto a casa nostra e ha detto che ci penso io ad ammazzarla, tu così devi dire… adesso dobbiamo incastrare a questo qui”. Il giorno, dopo la madre sembra invece provare a dire al ragazzo che Saman non era morta: “Ascoltami, la tua sorella è qui. Dio farà il bene e verrà ritrovata anche lei. Lei tornerà”. Ma il ragazzo: “Se non c’è più la mia sorella non dovrò vivere nemmeno io… Lei non c’è, non dire le cose sbagliate”.
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Sottrarsi all’odio. Nella complessità degli scenari mondiali che caratterizzano il presente, la battaglia e lo sforzo intellettuale da compiere secondo la giornalista Lucia Annunziata è “non cadere nei cliché dell’odio”. Il dialogo su “Italia, occidente, guerre” con l’editorialista di Repubblica Massimo Giannini, all’Arena Repubblica Robinson alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, è iniziato parlando delle donne vittime di violenza e torture da parte di Hamas il 7 ottobre. Un odio estremo di cui però non si parla abbastanza: “Non c'è una ragione al mondo per cui non si debba e non si possa protestare considerando anche lo stupro, la decapitazione e la mutilazione delle donne israeliane, come un femminicidio di massa”. Per Lucia Annunziata si tratta di un silenzio “tra il cauto e l’opportunista”, perché “non si può non accettare, anche se si sostiene la causa palestinese, che le donne israeliane sono state anche loro vittime”. Alla domanda di Giannini sul perché questo silenzio venga soprattutto da sinistra, Annunziata ha risposto spiegando che “quello che sta succedendo oggi ha a che fare con 10 anni se non 15 di distruzione di ogni possibilità di pace in medioriente per via del premier israeliano Netanyahu. Nei territori palestinesi non c'è più lo spazio. I coloni hanno reso impossibile avere uno stato, ma anche il passaggio tra un paese palestinese e l'altro. Questo all'esterno si sente moltissimo”. Il che però non giustifica l’odio: “Se l'antisemitismo dipende dalle circostanze vuol dire che abbiamo un problema - continua Annunziata - Una vittima è una vittima. Se invece si comincia a dire che le vittime sono solo da una parte facciamo un'operazione per cui sdoganiamo l'odio”. Non aiuta il fatto che “il dibattito italiano è intossicato da un'urgenza di spaccare il fronte" ha aggiunto Giannini, secondo cui però “non si può non notare la reazione spropositata di Israele”. La questione mediorentale, dopo l’11 settembre e la guerra della Russia in Ucraina, è l’ultimo tassello di un cambiamento globale che “rende marginale l’occidente”, continua Giannini secondo cui “l’America non è più il gendarme del mondo”. Palla passata e schiacciata da Lucia Annunziata: "Lo schema che abbiamo in mente per cui esistono due grandi potenze una a Ovest e uno a Est è superato. Stanno diventando importanti soprattutto gli Stati del Sud del mondo e quindi Africa, Cina, Sud America, India, per ciò che aggiungono al mercato globale”, mentre il medioriente è ancora il cuore della produzione globale di petrolio. Ed ecco che torna il tema dell’odio, anticipato dalla paura. “Dell’instabilità energetica, della ‘congiura pluto giudaico massonica’, dei terroristi islamici, paure - conclude Giannini - su cui il populismo imprime la sua leva ideologica, convertendola in odio”. Così, mentre l’editorialista ricorda che il generale Vannacci “rivendica il suo diritto all’odio”, è proprio da questo sentimento che ora più che mai, conclude Annunziata, “bisogna sottrarsi”.
focus victim
Anche se ha confessato di aver ucciso Giulia Tramontano, la 29enne da cui aspettava un figlio, le indagini su Alessandro Impagnatiello proseguono. I carabinieri, coordinati dalla procura di Milano, intendono chiarire se il 30enne abbia agito da solo. L’avvocato Sebastiano Sartori, che lo ha incontrato nel carcere di San Vittore e che lunedì pomeriggio ha rinunciato al mandato, ha ribadito che l’indagato ha detto di aver fatto tutto da solo. “Lui lo esclude – ha detto Sartori alla Rai -. I dubbi degli investigatori, dovete chiederli a loro”. E il coltello utilizzato per colpire la fidanzata alla gola “non l’ha buttato. Ha detto specificatamente dove sia” . Per il legale è da valutare la sfera psicologica”. Il 30enne, definito “un narcisista manipolatore” dagli inquirenti, è apparso lucido e freddo durante la confessione. “Penso che lo abbiano visto anche i muri” ha detto ai microfoni della Rai il legale. “È sempre più lucido e ha preso coscienza” ha detto il legale che risponde “ma certo” alla domanda se abbia avuto un pensiero per Giulia. Sartori ha nel pomeriggio depositato l’atto di rinuncia in Procura a Milano spiegando che “è stata una questione fra me e il mio assistito” senza aggiungere altro. Alessandro Impagnatiello è in uno stato “di angoscia, che sta venendo fuori sempre di più” lo ha detto l’avvocato che stamattina ha fatto visita a San Vittore all’uomo in carcere. La famiglia della 29enne fin da subito ha temuto che fosse morta, “in quanto era difficile pensare che la loro figlia in attesa di un bimbo, nonostante il naufragio della relazione sentimentale, si fosse volontariamente allontanata da casa” ha spiegato all’Ansa Giovanni Cacciapuoti, l’avvocato del Foro di Napoli Nord nominato dai genitori di Giulia per gli accertamenti irripetibili disposti, ossia i rilievi scientifici di domani nella casa dove la giovane è stata uccisa da Alessandro Impagnatiello e l’autopsia di venerdì. Il legale ha spiegato che non hanno nominato alcun consulente di parte, “ci affidiamo a quelli del pm“. L’esame sul corpo della vittima è stato fissato per venerdì. Impagnatiello ha accoltellato la compagna tra le 19 circa e le 21 sabato 27 maggio e poi per due volte ha cercato di bruciare il corpo di cui poi si è sbarazzato gettandolo tra le sterpaglie nei pressi di alcuni box non molto lontano dalla loro abitazione a Senago (Milano). Per domani invece è previsto l’accesso all’appartamento in cui è avvenuto il delitto e al garage in cui è stato nascosto il corpo per i rilievi scientifici.
focus killer
Alessandra Carnaroli debutta nella narrativa con ‘La furia’: «Le protagoniste sono madri e figlie che si partoriscono a vicenda. Ho tre ossessioni e tre figli: anch’io ho vissuto la paura di non farcela» Dice che non serve/ Farsi chiamare architetta o avvocata/ Basta lavorare/ Prendiamo il nome dei maschi/ Come spose». «Dopo l’orsa/ Uccidiamo la pressa/ Che ha schiacciato l’operaia/ O il muletto/ Che già fa più bestia». «L’Italia è una repubblica/ Fondata sul lavoro/ Delle donne/ Che stanno a casa». Alessandra Carnaroli - classe 1979, poetessa marchigiana ora al debutto nella narrativa con La furia , Solferino, nella collana I pavoni diretta da Teresa Ciabatti -ha due ossessioni: la prima per la cronaca, per lo scrivere del qui e ora, aderire con voce bassa alla terra, ai corpi, ai fatti mentre si svolgono; la seconda per il racconto del quotidiano in presa diretta, senza filtri né mediazioni. Un esempio è il suo lavoro su Instagram, dove ha postato, fra le molte altre, le tre brevi composizioni poetiche che aprono questa intervista. «Lavoro sulle notizie che mi risuonano dentro producendo un rumore che mi spinge a scrivere», dice. «La mia necessità non è raccontare il mio punto di vita, ma quello della persona comune, la sua reazione di pancia, dettata dalla paura, dall’istinto di autodifesa». Per poi ribaltarla, con un effetto a volte ironico, sempre disturbante. Il passaggio dalla poesia alla narrativa com’è stato? « La furia ha avuto una gestazione molto lunga: la prima parte, composta da 27 racconti che hanno per protagonista Miranda (che può essere una donna sola o ventisette donne diverse) ho cominciato a scriverla una decina di anni fa, poi è rimasta lì, a decantare. La parte finale, invece, è frutto degli ultimi due anni. Passare dalla brevità della poesia a un respiro più ampio non è stato né semplice, né indolore». Non è narrativa pura, La furia è scritto con un linguaggio ibrido, che conserva molto della poesia. Se si andasse più spesso a capo, molti passaggi sembrerebbero versi: «Le mie figlie mi mangiano/ invece delle carezze mi danno i morsi/ usano la voce come un cucchiaino/ per scavarmi la fossa nel gelato». «Il ritmo e la musicalità della poesia restano, mi porto dietro un percorso di vent’anni, impossibile staccarmi completamente. Ha ragione quando dice che è un ibrido, lo stare con i piedi in due staffe, saltellare di qua e di là». Dove porta questo saltellare? «Mi dà la possibilità di esser immediata, anche nel senso di non-mediata. La poesia l’ho sempre intesa come la ricerca della voce comune, molto bassa, piana, concreta, che ci abita. Nella prosa ho dovuto fare uno sforzo in più, ma il linguaggio ibrido mi ha permesso di conservare quella voce. Ci sono tantissimi riferimenti a prodotti, marchi, oggetti, parti del corpo, cose concrete. La lingua è sgrammaticata, è quella che usiamo quando ci rivolgiamo a chi ci sta accanto, è il tentativo di ricalcare, con una mano il più fedele possibile, quello che accade tutti i giorni. In questa quotidianità poi si inseriscono ed esplodono bombe che portano la storia su un altro binario, più tragico». La copertina di “La furia” (Solferino) Da dove nascono le sue ossessioni? «Per me è un obiettivo riuscire a trascrivere quello che le donne - quasi sempre sono loro le protagoniste, madri, figlie, madri e figlie insieme, si partoriscono quasi a vicenda - fanno dentro casa e fuori, ho bisogno di riportare sulla pagina la verità di ciò che siamo in questo momento. Ciascuno di noi si porta addosso una ferita che in qualche modo ci accomuna e sono più le ferite a renderci simili che le gioie o i successi. Io tocco la tua ferita, ci metto il dito dentro e da lì ti riconosco e riconosco me stessa, ci riconosciamo. Questo girare sempre intorno ai piccoli e grandi traumi è quasi una danza. Il mio ultimo libro di poesia si intitola 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti , una lista della spesa, un manualetto con tutti modi possibili per uscire di scena. Prima di pubblicarlo ero spaventatissima perché non sapevo le reazioni di chi l’avrebbe letto, ma usare le parole concretissime del quotidiano, usare gli oggetti che tutti abbiamo attorno ha avuto un effetto catartico: mi avvicino alla possibilità del suicidio, guardo in fondo al baratro e, proprio perché vedo il fondo, riesco a fare un passo indietro, ad allontanarmene. È questo l’effetto che cerco quando scrivo». Le sue donne, le sue ventisette Mirande, però non si salvano, si guardano dentro e pensano «che è tutta colpa mia se non riesco a staccare la faccia dal pavimento, non ce la faccio proprio è come se le mie figlie più mia madre più mio marito mi sono saliti tutti sulla testa e stanno lì un po’ a ridere forte, un po’ a piangere, un po’ a starnutire, un po’ a provare a farmi aprire la bocca ma proprio non mi va giù niente...». «Sì, è vero, in questo momento la mia necessità di autrice è andare a scavare dove c’è il dolore. Spero in futuro di poter raccontare il momento in cui queste persone si alzano, si risollevano. Ora l’importante è poter dire: eccoci qua, ci siamo tutti, ci assomigliamo tanto, molto più di quello che vorremmo». I rapporti con gli uomini sono quasi sempre drammatici, come non esistesse un linguaggio comune. «Quando si parla di violenze sulle donne, e molte delle mie storie raccontano di questo, non c’è possibilità di incontro perché c’è troppo dolore. Un’altra delle mie ossessioni - la terza - è per le vittime di violenza: ho fatto una ricerca sugli articoli che parlano di femminicidio e mi sono resa conto che la vita della donna viene sempre liquidata in poche frasi, si racconta di lei definendola madre o moglie di, mentre a me interessa raccontare la sua vita, il quotidiano, i meccanismi di sopraffazione, di cui ci si accorge sempre troppo tardi. Alcune forme di violenza come quella psicologica, lo stalking, la riduzione della libertà, sono quasi accettate socialmente o comunque sminuite nella loro portata: così l’uomo che segue, che controlla, è solo geloso e non sta invece esercitando una forma di violenza». Nei suoi racconti c’è anche il problema della dipendenza dallo sguardo dell’altro, dagli uomini «che magari una sera arrivano che non li aspettavi e vogliono subito fare l’amore, non ti danno il tempo di spogliarti (...) tu con queste persone così non capisci più niente fai tutto quello che ti dicono perché speri che così un giorno ti dicono ti amo ma un giorno così non arriva mai». «Lo sguardo è centrale nella mia poetica, è un mio bisogno personale, quindi qui mi svelo tanto. Gli occhi ritornano e anche la malattia degli occhi torna in più racconti: se ti vedo tu ci sei, se non vedo te e i tuoi bisogni non sopravvivi». Neppure la maternità salva. «Sono cresciuta negli anni Ottanta con la famiglia del Mulino Bianco. Questa narrazione ci ha incatenato per troppo tempo producendo danni incalcolabili: se sei una madre perfetta, non puoi che avere figli perfetti e i figli che devono essere perfetti non possono che essere infelici. A me interessa invece vedere quando le cose non funzionano e dire: ok, c’è anche questo dolore, ma nel momento in cui ne parlo lo posso affrontare. Sono madre di tre figli, ho vissuto la paura di non farcela, di non sostenere il carico mentale e fisico di avere un neonato che magari non mangia, non dorme, non cresce come dovrebbe. Parlarne, scriverne, fa capire che quello che provi è condiviso, ti senti dentro qualcosa di più ampio, non so se ti senti confortata, ma quanto meno compresa». Lei ha percezione di vivere dentro qualcosa di più ampio? «Sì, altrimenti non scriverei».
focus victim
Si è appena concluso a Padova l’incontro del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza: secondo quanto stabilito, la data dell’ultimo saluto a Giulia Cecchettin è fissata per la prossima settimana e sarà decisa dal padre della ventiduenne uccisa, Gino Cecchettin. Le voci su un ipotetico funerale nella giornata di sabato 2 dicembre, nella Basilica di Santa Giustina a Padova, sono quindi state definitivamente smentite. Nonostante l’impegno della Chiesa, delle Forze dell’Ordine e del Comune di Padova per accelerare la data delle esequie per consentire alla famiglia Cecchettin di dare l’estremo saluto a Giulia quanto prima, l’organizzazione del funerale ha incontrato problemi di tempistiche: l’autopsia sul corpo della giovane è fissata per il 1 dicembre, ma prima della celebrazione è necessario attendere il nulla osta della procura di Venezia, per la restituzione della salma alla famiglia. I funerali È arrivata stamattina la definitiva comunicazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza: la cerimonia si svolgerà la settimana prossima, nella data scelta dal padre Gino, probabilmente lunedì o martedì. Definito oggi anche il piano sicurezza: si prevede che migliaia di persone, non solo dal Veneto, vorranno stringersi attorno alla famiglia Cecchettin. Per questo era stata esclusa a priori la possibilità che ad ospitare le esequie fosse la cittadina di Vigonovo, che non possiede uno spazio religioso abbastanza grande, e lo scorso 27 novembre la Diocesi di Padova aveva eseguito un sopralluogo nella basilica di Santa Giustina, pronta invece ad accogliere l’ondata di persone che vorranno dare a Giulia l’addio definitivo. Nel frattempo, il presidente della Regione, Luca Zaia, ha già indetto il lutto regionale nella giornata che sarà designata per i funerali. Il corpo di Giulia sarà sepolto nel cimitero di Saonara, accanto a quello della madre, morta l’anno scorso. Corteo a Vigonovo, il paese si mobilita per ricordare Giulia Cecchettin L’ipotesi della perizia psichiatrica La famiglia, nel frattempo, si trova a considerare l’ipotesi che a Filippo Turetta, in carcere accusato del femminicidio della giovane, possa essere concessa l’attenuante dell’incapacità di intendere e volere, anche parziale, al momento dei fatti. Tuttavia, sarà difficile, per la difesa, ottenere una perizia psichiatrica che possa accertare quanto accaduto: infatti, non ci sono agli atti diagnosi pregresse di problemi mentali, e sulla base delle prime valutazioni psicologiche e psichiatriche in carcere, è improbabile che un’istanza di perizia possa essere accolta. Sarà necessario un lavoro difensivo e la collaborazione di alcuni esperti che, attraverso degli incontri con Turetta, possano raccogliere del materiale utile ai fini di un possibile accoglimento della richiesta, probabilmente presentata più avanti o direttamente in sede di processo. L’interrogatorio e la linea difensiva Nelle sue dichiarazioni spontanee di ieri, davanti alla giudice Benedetta Vitolo, Turetta ha ammesso l’omicidio e si è detto pronto ad affrontare le conseguenze delle sue azioni; tuttavia, si è appellato alla facoltà di non rispondere alle domande. Le dichiarazioni spontanee fornite dal ventunenne, quindi, sono probabilmente state concordate con la difesa: nessun riferimento, infatti, ad elementi che possano far pensare ad una premeditazione del delitto. Questo, unitamente ad altri elementi, suggeriscono che la linea difensiva punterà, da un lato, ad escludere la premeditazione, su cui la Procura di Venezia ha diversi indizi, e dall’altro a verificare eventuali vizi di mente del giovane. Durante il processo potrà quindi essere valutata un’incapacità totale o un vizio parziale: nel primo caso, Turetta potrebbe ottenere l’assoluzione per la non imputabilità, nel secondo uno sconto di pena. Resta da capire se Turetta, in accordo con i suoi legali, deciderà di rispondere all’interrogatorio del pm Andrea Petroni, fissato nei prossimi giorni. Alla famiglia della giovane non resta che convivere con la consapevolezza che Giulia non tornerà mai più a casa e, in attesa del processo, anche con la possibilità che il suo assassino sconti una pena ridotta o persino nulla. L'avvocato di Turetta: "Ha confermato di aver ucciso Giulia Cecchettin" I genitori rinviano l’incontro con Turetta I genitori di Filippo Turetta non incontreranno oggi il figlio. Dopo l’interrogatorio di garanzia, le dichiarazioni spontanee di ieri, il colloquio al carcere di Montorio a Venezia era già stato autorizzato dai magistrati. Avrebbero potuto e tutti oggi nel carcere attendevano il loro arrivo. Ma, evidentemente, mamma Elisabetta e papà Nicola hanno preferito prendere altro tempo prima di incontrare il ventunenne accusato del sequestro e dell’omicidio volontario della ex fidanzata Giulia Checchettin. Sarebbe stato il legale Giovanni Caruso a comunicarlo direttamente alla direzione dell’istituto. E sarà sempre il difensore a tornare a trovare Turetta nelle prossime ore, probabilmente perché sia il giovane che i genitori hanno bisogno di prepararsi psicologicamente a questo faccia a faccia. Nel frattempo, da quel che emerge, Turetta in prigione da sabato scorso, sarebbe “tranquillo” seppur un po’ “stordito” e “spaesato”. Parla col suo compagno di cella e starebbe provando ad ambientarsi.
focus killer
Nella metà dei casi, la donna muore strangolata o a causa delle percosse. Una su tre viene uccisa dopo aver scelto di lasciare il proprio partner. Ma il segnale nuovo del rapporto della banca dati Eures è il forte aumento dei matricidi, compiuti “anche per effetto del perdurare della crisi”, ovvero per ragioni di denaro o per un’esasperazione dei rapporti in seguito a convivenze imposte da necessità. Sono infatti 23 le madri uccise nell’ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari. Dando uno sguardo generale al fenomeno, sono stati 179 i femminicidi nel 2013. Rispetto alle 157 vittime del 2012, l’anno scorso le donne uccise sono aumentate del 14%. Un anno nero, con la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, in pratica una ogni due giorni. In 7 casi su 10 i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare, una costante nell’interno periodo tra il 2000 e il 2013 (70,5%). “Inadeguata – secondo Eures – la risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne “, visto che nel 2013 più della metà delle future vittime (il 51,9%) aveva segnalato o denunciato le violenze subite. Più casi al sud, raddoppiano al centro Per dieci anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuta al nord. Ma dal 2013 c’è stata un’inversione di tendenza e il meridione ha visto una crescita del 27% degli omicidi di donne (75 casi), mentre al centro Italia le vittime sono raddoppiare, dalle 22 del 2012 a 44 dello scorso anno. Il nord, dove nel 2013 sono state uccide 60 donne, rimane il territorio dove si verificano più omicidi in famiglia, 8 su 10. La maglia nera spetta al Lazio e alla Campania, con 20 vittime ciascuno; solo a Roma sono state 11. Ma è l’Umbria a registrare l’indice più alto di mortalità con 12,9 femminicidi per milione di donne residenti. Aumentano i matricidi “per effetto della crisi” Resta la mano del partner quella dietro il 66% degli omicidi di donne. Dal 2000 sono 333 le compagne o mogli uccise perché “colpevoli di decidere“, come le definisce il dossier, ovvero le donne che avevano scelto di lasciare il loro compagno ma non sono riuscite a scappare in tempo dalla furia del partner. Ma il segnale nuovo che il report collega alla crisi economica è il forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro. Le madri uccise nell’ultimo anno corrispondono al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell’intero periodo tra il 2000 e il 2013 (215 matricidi). Uno su tre “a mani nude”. Tra moventi anche disagio economico A “mani nude”, per percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è stata uccisa una donna su tre. Il rapporto Eures, oltre a rilevare questo dato, lo mette in relazione ad un “più alto grado di violenza e rancore”. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49 casi, pari al 27%) e da taglio (45 vittime). Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello passionale continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale). Sembra quindi che il femminicidio sia spesso una “reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere un legame“, sottolinea il dossier, aggiungendo che la sfera del “conflitto quotidiano” e dei litigi anche banali è invece alla base del 20,8% dei femminicidi familiari. A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro (16%), prevalentemente matricidi.
focus victim
L’ambiente in cui viviamo – la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro ma anche la politica, il linguaggio, l’arte, gli esempi, i modi di dire e di fare: tutto quello che appunto definiamo col termine cultura – agiscono sul nostro cervello sin da quando siamo bambini. Nessuno di noi è impermeabile all’ambiente culturale nel quale cresce. Ed è difficilissimo riuscire a riconoscere i condizionamenti che abbiamo subito e, eventualmente, liberarsene. Fino alla soglia dei 40 anni, sulla questione del patriarcato, il mio pensiero non era forse troppo dissimile da quello di Giorgia Meloni. Ero una donna del sud del Paese, due volte madre, che senza aiuti e senza spintarelle ma con impegno e volontà, si era fatta strada da sola nel mondo scientifico, raggiungendo una solida reputazione e carriera. È vero, la maggior parte dei miei colleghi era dell’altro sesso, ma – pensavo – se io ce l’ho fatta significa che chiunque lo voglia e si impegni ce la può fare; e quindi dov’è il problema? Perché preoccuparci della scarsa presenza femminine nelle posizioni apicali? C’è il merito, e conta solo quello! Certo i miei colleghi maschi continuavano a ripetermi che io in realtà ero un uomo, che avevo gli attributi, che sapevo impormi nelle discussioni come un maschio…ma a me suonava persino come un complimento. Ritenevo una stupidaggine irrilevante la discussione che iniziava a farsi sentire sul linguaggio, una non-questione indegna del mio tempo, e probabilmente se avessi ottenuto la carica di Direttrice Scientifica che invece ho ottenuto qualche anno più tardi, avrei optato per Direttore, perché la parola Direttrice mi sarebbe sembrata non adatta. Nonostante io non abbia vissuto in una famiglia patriarcale e i miei genitori mi abbiano sempre lasciato la libertà di scegliere chi volessi essere, l’ambiente in cui ero vissuta aveva agito su di me, facendomi sembrare normale quello che normale non può essere. Poi, intorno ai 40 anni, sono casualmente entrata in contatto con una collega dell’Università di Padova che si occupa di linguaggio e questioni di genere. Confesso che davanti alle sue forti prese di posizione sulle pari opportunità, sulle quote rosa, sull’importanza del linguaggio giusto e inclusivoho dapprima sollevato un sopracciglio, pensando che bisogna avere proprio molto tempo libero per perdersi dietro a queste cose e che in fondo l’unica cosa che conta e fa la differenza è l’esempio ed io, con la mia realizzazione personale e professionale, facevo molto di più per le ragazze che lei con tante chiacchiere. Un po’ quello che dice oggi la nostra Presidente del Consiglio: io, donna e madre, partita dal basso e venuta su grazie alle mie capacità, volontà e impegno, non posso che essere la dimostrazione dell’assenza di una cultura patriarcale in Italia. Ma mi sbagliavo e parlavo - e pensavo - con superficialità e arroganza. Nel tempo, grazie ai nuovi stimoli culturali che ho trovato a Padova uscendo dalla mia stretta cerchia di colleghi, ho iniziato un’operazione di smantellamento degli stereotipi, condizionamenti e pregiudizi che operavano in me. Ho capito che l’eccezione non può essere la regola e che se in un Paese in cui la popolazione è divisa al 50% tra maschi e femmine solo l’8% delle posizioni dirigenziali è coperta da donne, il problema c’è. Ho guardato alla mia Università ed ho visto che a fronte di una netta maggioranza di ricercatrici precarie, le posizioni a tempo indeterminato vengono assegnate agli uomini. Ho notato che quando mi siedo al tavolo del consiglio degli ordinari del mio dipartimento, ci sono 3 donne e 10 uomini. Ho notato che nei concorsi si usano spesso due pesi e due misure, e che il lavoro delle donne è spesso sminuito da argomenti che risentono degli stereotipi di genere.
focus victim
Ha aggredito la moglie di 79 anni a martellate nella loro abitazione alle porte di Faenza, nel Ravennate. La donna, portata in elicottero in ospedale in condizioni disperate, è morta poco dopo l’arrivo al Bufalini di Cesena a causa delle gravi ferite riportate. I soccorsi sono stati subito allertati dalla figlia dei coniugi, alla quale il padre, di 87 anni, subito dopo l’aggressione aveva scritto un sms dicendo di volersi togliere la vita. L’uomo dovrà rispondere di omicidio volontario aggravato. Sono ancora sconosciuti i motivi del gesto.
focus killer
Ieri mattina a Radio 3, nel bel programma «Tutta la città ne parla», si è discusso sull’orripilante femminicidio riguardante la povera Giulia Tramontano uccisa col suo bambino in grembo. Una voce femminile diceva che non bisogna parlare di mostri, perché questi uomini che uccidono sono normali, fanno parte di una cultura che non considera le donne come persone, ma come proprietà di cui si può disporre. Un cane, un gatto si possono fare fuori e senza che nessuno venga a indagare. È la mia donna, sono io a decidere, cosa pretende una legge astratta, che non mi riguarda? Più o meno è questo il ragionamento. La voce insiste che si tratta soprattutto di una cultura di base, ancora molto resistente in un Paese che si pretende democratico ma in realtà ha antiche e possenti radici da cui non vuole staccarsi. L’amore per costoro è visto come presa di possesso dell’altra. Infatti quasi sempre, l’uomo presapiens uccide quando la donna che considera sua, mostra segni di autonomia. Un’altra voce alla radio ha denunciato lo sfruttamento mediatico. Secondo lei sarebbe meglio parlare di donne che escono dal servaggio per dare esempi positivi e non sempre di donne torturate e uccise. Qui però non sono d’accordo. Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle. Una terza voce ha sostenuto che indirizzare tutte le raccomandazioni alle donne: non uscire non fidarti di chi ti schiaffeggia una volta , tieni le distanze da chi ti insulta ecc…, è un modo di condizionare il comportamento femminile, mentre da vincolare, e anche urgentemente, cominciando dalle scuole, sarebbe quello maschile. Siamo d’accordo, ma teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi.
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Nella primavera del quinto secolo della nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di Stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d'Egitto per mandato di uno dei più potenti vescovi dell'allora giovane Chiesa. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme.
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Nelle principali città turche ci sono state proteste contro la decisione del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan di ritirare il paese dalla Convenzione del Consiglio d’ sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul. Le maggiori manifestazioni di protesta sono avvenute a Istanbul, Ankara e Smirne, sulla costa occidentale della Turchia, e sono state partecipate soprattutto da donne, con le bandiere viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”, secondo cui nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidi, e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. La decisione del ritiro è stata commentata anche dalla segretaria generale del Consiglio d’, Marija Pejčinović Burić, che ha definito la decisione della Turchia «una notizia devastante». Diversi leader europei inoltre hanno criticato il governo turco: «Non possiamo che rammaricarci fortemente ed esprimere la nostra incomprensione davanti alla decisione del governo turco», ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell. Anche i portavoce dei governi di Francia e Germania hanno criticato la decisione. La prossima settimana è previsto un summit tra la Turchia e i rappresentanti dell’Unione Europea per discutere di vari temi, tra cui l’immigrazione e i rapporti tesi nel Mediterraneo orientale, e il ritiro dalla Convenzione di Istanbul rischia di diventare un altro argomento di scontro. La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale che fu promosso dal Consiglio d’ nel 2011 ed entrò in vigore nel 2014 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. L’accordo è noto come Convenzione di Istanbul perché fu ratificato nella città turca e perché la Turchia fu il primo paese a firmarlo, quando già Erdogan era presidente. Negli anni successivi alla ratifica, Erdogan aveva citato spesso la Convenzione come dimostrazione dei presunti avanzamenti della Turchia nell’ambito della parità di genere, ma poi quando lo stile di governo di Erdogan è diventato più autoritario le cose sono cambiate. Il governo turco non ha spiegato ufficialmente i motivi del ritiro dalla Convenzione, ma secondo alcuni analisti c’entra la volontà del partito di ingraziarsi la base più conservatrice del suo elettorato. La Convenzione è stata firmata da 45 paesi in tutto il mondo più l’Unione Europea. L’anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica della Convenzione, mentre il governo della Polonia aveva annunciato l’intenzione di uscirne. I governi di Polonia e Ungheria sono entrambi semi-autoritari, populisti e di orientamento molto conservatore.
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Lunedì mattina in più di 40 città australiane ci sono state manifestazioni e proteste contro le violenze sessuali subite dalle donne e la cultura sessista che molti ritengono che ci sia nel paese. Le denunce di stupri, misoginia e comportamenti inappropriati nei confronti delle donne in Australia stanno mettendo sotto forte pressione il governo, perché in almeno due casi le accuse sono state rivolte proprio a importanti funzionari e politici: un collaboratore del Partito Liberale, forza politica attualmente al governo, e il procuratore generale dell’Australia. Le proteste arrivano circa un mese dopo che Brittany Higgins, una ex collaboratrice del Partito Liberale, aveva detto di essere stata stuprata da un collega all’interno della Camera dei rappresentanti del Parlamento, a Canberra, nel marzo del 2019. Durante le manifestazioni attiviste e attivisti di diversi gruppi femministi hanno chiesto ai politici maggiori tutele e di fare in modo che chi commette le violenze sia riconosciuto responsabile. Le principali manifestazioni del movimento contro la violenza sulle donne, chiamato “March 4 Justice” (marcia per la giustizia), si sono svolte a Sydney e a Canberra, e in totale le proteste hanno coinvolto circa 100mila persone, soprattutto donne. Molte femministe si sono vestite di nero e hanno esibito cartelli con scritte che dicevano: «Ne abbiamo abbastanza» o «Eliminiamo la cultura dello stupro». Nel corteo di Melbourne alcune attiviste hanno sfilato con uno striscione che indicava i nomi di più di 900 donne vittime di femminicidio. Dopo che un mese fa Higgins aveva denunciato di essere stata violentata, altre tre donne hanno detto di aver subìto molestie sessuali da parte dello stesso uomo, di cui non si conosce l’identità. Higgins aveva detto di essere stata stuprata da un collaboratore del Partito Liberale nell’ufficio della ministra della Difesa, Linda Reynolds, e aveva spiegato di non aver voluto denunciare subito lo stupro per proteggere il partito e il suo “lavoro dei sogni”, a pochi giorni dalle elezioni anticipate del maggio 2019. Dopo le elezioni, Higgins era stata trasferita al ministero del Lavoro; poi, nel gennaio del 2021, aveva dato le dimissioni, dicendo di non riuscire più a sostenere il peso di quanto le era accaduto. – Leggi anche: Le violenze della polizia di Londra durante la veglia per Sarah Everard Lunedì Higgins ha parlato davanti alle migliaia di attiviste e attivisti che si erano radunati davanti al Parlamento australiano, a Canberra. Ha detto che le violenze sessuali subite dalle donne in Australia vengono «terribilmente accettate» dalla società: secondo lei, ci sono «notevoli mancanze nelle strutture di potere all’interno delle istituzioni» e i movimenti contro la violenza sulle donne stanno «essenzialmente riconoscendo che il sistema è rotto». Brittany Higgins says she came forward with her story to 'protect other women' in a speech to March4Life protesters in front of Parliament House. pic.twitter.com/e2u5uYNtYS — SBS News (@SBSNews) March 15, 2021 Oltre al caso di Higgins, si parla molto anche del procuratore generale dell’Australia, Christian Porter, parlamentare del Partito Liberale, che è stato accusato di aver stuprato una donna nel 1988, quando lei aveva 16 anni e lui 17. La donna aveva denunciato lo stupro l’anno scorso e poi si era suicidata, ma alcune persone a lei vicine avevano inviato delle lettere a Morrison e ad altri politici per segnalare le violenze che aveva subìto. Gli avvocati di Porter, che attualmente è in congedo per malattia, hanno detto che l’uomo si sente sottoposto a un «processo mediatico»: pochi giorni fa Porter ha fatto causa per diffamazione alla tv australiana ABC e alla giornalista Louise Milligan per aver citato una lettera indirizzata a Morrison in cui si poteva dedurre facilmente che si stava parlando di lui. – Leggi anche: Le nuove prove che scagionerebbero la più nota serial killer australiana Tra le altre cose, il movimento March 4 Justice ha presentato una petizione per chiedere ai parlamentari di avviare inchieste indipendenti su ciascun caso di violenza di genere che coinvolga la politica e di togliere dalle posizioni di potere chi commette questi reati. Nella petizione, che ha già raccolto più di 90mila firme, si chiede anche di «mettere fine ai problemi legati a sessismo, misoginia, patriarcato, corruzione, alla cultura degli ambienti di lavoro pericolosi e alla mancanza di uguaglianza, in politica così come nelle comunità». Finora il primo ministro Morrison ha respinto le richieste di avviare un’indagine indipendente sulle accuse di stupro rivolte a Porter, sostenendo che sia un problema che vada risolto dalla polizia, che però aveva già chiuso il caso per assenza di prove. Domenica Morrison aveva invitato una delegazione di attiviste a un incontro al Parlamento, ma le attiviste hanno rifiutato di partecipare sostenendo invece che fosse il primo ministro a dover parlare pubblicamente davanti a tutte le manifestanti: Morrison non l’ha fatto, e durante la seduta di lunedì in Parlamento ha detto che vedere queste manifestazioni è stato «un trionfo della democrazia», perché in altri paesi «proteste di questo tipo vengono fermate coi proiettili». Le dichiarazioni di Morrison hanno provocato critiche e polemiche, sia da parte delle attiviste che degli oppositori politici. Il leader del Partito Laburista, Anthony Albanese, ha detto che Morrison «non è che non capisca, è che proprio non vuol sentire». Secondo un sondaggio pubblicato da The Australian – il giornale più letto del paese – il sostegno degli australiani alla coalizione di centro-destra al governo è calato di tre punti rispetto alle elezioni del 2019, anche per via della gestione degli scandali legati alle violenze sessuali in politica. Per la prima volta da due anni a questa parte, il partito Laburista e la coalizione di governo sono testa a testa, col 39 per cento delle preferenze ciascuno. *** Dove chiedere aiuto Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o una persona che conosci ha subito abusi puoi chiamare il numero anti-violenza e stalking 1522 oppure rivolgiti al centro antiviolenza più vicino.
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Giulia Cecchettin voleva allontanarsi dall’ex fidanzato Filippo Turetta che l’ha uccisa infliggendole 25 minuti di agonia, anzi voleva sparire. Alla studentessa, massacrata a poche ore dall’esame di laurea, pesava avere sempre intorno l’ex che la perseguitava emotivamente con il suo malessere. “Sono arrivata a un punto in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui” dice in un audio inedito recuperato dalla trasmissione Chi l’ha visto? e trasmesso dal Tg1. “Questa cosa – aggiunge con voce tremante -, con il fatto che io vorrei non vederlo più, perché comincio a non sopportarlo più, mi pesa”. “Lui mi viene a dire cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che pensa solo ad ammazzarsi, che vorrebbe morire”. Un comportamento che era vissuto con grande sensibilità dalla 22enne che quindi non riusciva a spezzare definitivamente il legame. Nell’audio messaggio, la giovane laureanda di Vigonovo prosegue: “Non me le viene a dire per forza, come ricatto, però suonano molto come ricatto”. “Allo stesso tempo mi viene a dire che l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con me, o i momenti in cui gli scrivo”. Quindi conclude: “Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo perché mi sento in colpa perché ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo”. Invece il giovane sabato notte 11 novembre, ha aggredito l’ex fidanzata, come testimoniato dalle immagini di una telecamera di videosorveglianza, nella zona industriale di Fossò, in provincia di Venezia. La vittima ha lottato: ha cercato di correre; accoltellata, inseguita e buttata a terra, ha battuto la testa sullo spigolo di un marciapiede. Agonizzante è stata buttata dentro la Punto nera che ha vagato tra Veneto e Friuli, infine abbandonata dentro un bosco, con sopra un sacco di tela.
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L’uomo accusato dell’ennesimo femminicidio, avvenuto ieri mattina a Piano di Sorrento, si chiama Salvatore Ferraiuolo e lavora in una pescheria. Ha confessato durante l’interrogatorio. E’ l’ex della vittima, Anna Scala, 56 anni, parrucchiera, uccisa da numerose coltellate mentre stava prendendo la spesa dall’auto parcheggiata. Il corpo è caduto nel bagagliaio, rimasto aperto: una persona ha […]
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Negli ultimi giorni su Instagram sono stati pubblicati milioni di fotografie in bianco e nero di donne – famose e non – accompagnate dall’hashtag #ChallengeAccepted e dai nomi di una o più amiche, per invitarle a partecipare alla campagna e a fare altrettanto. Finora sono state condivisi più di 3 milioni di foto, accompagnate anche dall’hashtag #womensupportingwomen: le donne si sostengono a vicenda. Sull’origine e lo scopo dell’iniziativa sono state fatte varie ipotesi, e spesso sembrano non essere chiare nemmeno a chi pubblica le fotografie: alcune la legano semplicemente alla solidarietà femminile (ma non è chiaro quale sarebbe il “challenge”, la sfida), un’altra la lega alle recenti manifestazioni in Turchia contro il femminicidio, criticando di conseguenza il fatto che il senso della “campagna” sia andato perso. Non ci sono conferme sull’origine turca, però, e le prime foto di questa campagna non hanno legami con la Turchia. La sostanza dell’iniziativa sembra essere esattamente quella che è: pubblicare una propria foto con un generico messaggio a sostegno delle donne. E se anche l’obiettivo dell’iniziativa fosse quello di promuovere in modo vago il cosiddetto “empowerment” femminile, non è chiaro come e se ci riesca. L’hashtag Un responsabile di Instagram ha fatto sapere che il primo post di questa “campagna” è stato pubblicato una settimana e mezzo fa dalla giornalista brasiliana Ana Paula Padrão, che taggando un’altra donna ha scritto in portoghese “Desafio aceito” (“sfida accettata”) con l’hashtag #womensupportingwomen. L’hashtag #ChallengeAccepted era già stato utilizzato in passato: nel 2016, per esempio, per una campagna di sensibilizzazione sul cancro. Il successo dell’iniziativa, oltre al fatto che vi hanno partecipato alcune attrici e celebrità, potrebbe poi avere a che fare con un episodio recente: Cristine Abram, dirigente di una società di marketing sui social media, ha spiegato che il video con la risposta della deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez alle offese di un collega ha portato a un picco di post che parlavano di femminismo e di emancipazione femminile. In molte e molti hanno poi condiviso il fatto – a partire dalla spiegazione di un attivista turco – che l’iniziativa avesse a che fare con le manifestazioni femministe in Turchia nate dal femminicidio, da parte del suo ex compagno, di Pinar Gültekin, studentessa universitaria di 27 anni il cui corpo è stato ritrovato la scorsa settimana in un bosco dentro a un bidone coperto di cemento. È stato fatto notare che sui giornali o nelle tv turche le immagini delle vittime di femminicidio vengono spesso pubblicate o mostrate in bianco e nero: e quindi, da qui, la condivisione di ritratti non a colori. Sul New York Times e poi su Twitter, però, la giornalista Taylor Lorenz ha raccontato di aver studiato l’hashtag #ChallengeAccepted in turco e in Turchia, scrivendo che non sembra avere alcuna correlazione con l’iniziativa diffusa in questo momento sui social. Alcuni in questi giorni stanno dicendo che le foto pubblicate in bianco e nero senza avere consapevolezza di quello che accade in Turchia avrebbero tradito il “significato originario” della campagna, ma sembra che non ci sia nessun “significato originario” legato alla Turchia. [[URL]] Qual è il senso? Lorenz scrive che i post che accompagnano le foto sono piuttosto insignificanti: danno la sensazione di essere parte di qualcosa senza che in realtà chi vi partecipa dica (o faccia) qualcosa di realmente efficace. Una critica, quest’ultima, che viene rivolta anche dalle attiviste femministe a un certo “femminismo mainstream”, patinato e molto popolare sui social, su alcuni giornali o tra le cosiddette celebrità: «Gli influencer e le celebrità adorano questo tipo di “sfide”, perché non richiedono un vero sostegno o una reale esposizione», scrive Lorenz. Al di là della sua origine e del suo senso, l’iniziativa in sé è stata criticata da molte donne e femministe: la scrittrice Alana Levinson ha suggerito di cominciare a praticare realmente il femminismo, anche facendo un semplice gesto nella propria vita quotidiana, piuttosto che fare cose che non hanno alcun significato o approfittarne per postare una propria foto. C’è chi ha chiesto di non condividere un selfie ma libri, articoli o informazioni sulle associazioni che lavorano con le donne; altre hanno scritto che se questa iniziativa includesse donne trans o diversamente abili, o se desse risalto alle donne nella storia avrebbe più senso; altre ancora si sono chieste se l’iniziativa non sia partita dagli uomini. [[URL]] Non è male parlare della Turchia, comunque Nonostante non ci siano correlazioni, l’iniziativa ha fornito comunque l’occasione di parlare della violenza contro le donne in Turchia. Secondo gli ultimi dati, lo scorso anno in Turchia ci sono stati almeno 474 femminicidi, e 40 solo nello scorso luglio. La Turchia ha sottoscritto nel 2011 la Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere e della violenza domestica. Tuttavia da allora il numero di donne uccise nel paese è più che raddoppiato: i movimenti femministi e le associazioni che lavorano con le donne denunciano da tempo la mancata attuazione della Convenzione da parte del governo. Inoltre – come in Polonia, in Ungheria e in Slovacchia, solo per citare gli esempi più recenti e di cui si è parlato – in Turchia ci sono gruppi e organizzazioni ultraconservatrici, antiabortiste, antifemministe e anti-LGBTQI che stanno esercitando una forte pressione politica affinché il governo esca dalla Convenzione, sostenendo che il suo contenuto influenzi negativamente i valori della famiglia tradizionale (cioè patriarcale ed eterosessuale). [[URL]]
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ANDRIA. «Ciao... scusami… hai ragione... purtroppo ho avuto una settimana molto particolare... sono andata in ospedale... mio marito mi ha alzato le mani e, veramente, non ero nei tempi per venire da te. Facevo casa di mia madre-casa mia, giravo per strada, cercavo di stare quanto più (possibile, ndr) lontana da casa». Sono le parole pronunciate da Vincenza Angrisano in un messaggio vocale che la donna ha inviato ad un'amica pochi giorni prima di venire uccisa a coltellate dal marito. Parole preziose per far luce su questo ennesimo femminicidio: l’uomo, nel corso dell'udienza di convalida del fermo, ha ammesso le proprie responsabilità, così come aveva fatto davanti al pm Procura di Trani, Francesco Chiechi, e ai carabinieri. Si svolgerà intanto sabato l'autopsia sul cadavere della Angrisano. In casa erano presenti i due figli di 6 e 12 anni che potrebbero aver assistito al delitto. Luigi Leonetti è accusato di omicidio volontario, con l'aggravante di aver commesso il fatto ai danni della coniuge. A scatenare la sua furia omicida (l'ha assassinata utilizzando un coltello da cucina e sferrando tre fendenti al torace e all'addome) sarebbe stata la sua incapacità di far fronte alla volontà della donna di lasciarlo. Secondo quanto raccontato già ieri dall'avvocato difensore di Leonetti, la donna avrebbe riferito al marito di avere un'altra relazione. Negli ultimi tempi sarebbero volati spesso insulti reciproci. I rapporti di coppia si sarebbero incrinati un mese fa. Nella notte tra il 21 e il 22 novembre l'uomo ha schiaffeggiato la moglie poiché era tornata tardi a casa, costringendola a recarsi in ospedale per farsi medicare. Lì avrebbe ricevuto una prognosi di 4 giorni. L'incarico dell'autopsia è stato affidato a Francesco Vinci dell'Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Bari. . Testo (ANSA) - BARI, 01 DIC - Femminicidi: 42enne uccisa ad Andria, marito resta in carcere Testo Andria (Bat), 1 dic. (LaPresse) - L
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Alle donne non è data l’implacabilità, non è concessa la freddezza. Non c’è eroina, icona, guru, principessa ribelle, che sia impermeabile all’amore romantico, alla passionalità febbrile, alla combattività tumultuosa. Non c’è regina delle nevi che non si sciolga, cuore in inverno che non conosca primavera. Non c’è donna che rifiuti l’amore. Tranne una: Turandot. La maestosa eccezione che stasera apre la stagione lirica del Teatro San Carlo di Napoli, con la regia di Vasily Barkhatov (fantastico: la capitale dell’Italia mediterranea e sciupafemmine, porta in scena un’opera raggelante, cyberpunk, una storia anfibia e futuribile, mentre la capitale del grande nord sceglie Verdi, la Spagna, l’Inquisizione, una lotta antica tra maschi antichi, un dramma caldo e d’assetto, inchiodato allo status quo: Napoli salta, Milano si siede). Turandot, ultima opera di Puccini, che muore prima di riuscire a ultimarla, è la principessa di Pechino che manda a morte chi non risolve i tre enigmi che propone a chi la chiede in moglie: il primo che li risolve, diventa marito. Naturalmente, è un’ecatombe. Gli enigmi sono raffinati, difficilissimi, tortuosi. E non c’è modo di convincere Turandot a concedere una grazia, oppure a scegliere una strada meno violenta, un duello più umano, e non perché lei sia una spietata sanguinaria, un’inclemente assassina assetata di potere, ma perché ha giurato di fare giustizia del femminicidio di una sua ava, assassinata molti anni prima da uno straniero durante la dominazione tartara. Sono gli anni Venti del Novecento. Puccini è consapevole della straordinarietà di un personaggio così, dell’unicità di una donna che escogita un trucco tanto spietato per fare giustizia senza perdono. È un uomo: sa che alle donne è assegnato il destino e il dovere della bontà, del sentimento (sempre lo stesso: l’amore). Sa, quindi, di aver dato vita a un’eroina che spegne invece di ardere, respinge invece di sedurre. La virtù di Turandot è la sua imperturbabilità, il cuore di ghiaccio bollente. Ed è per questo che Puccini non riesce a concludere l’opera: non sa decidersi sul finale perché sa che sciogliere quel suo cuore, facendola innamorare, significa snaturarla, omologarla. Significa dire: tutto l’universo obbedisce all’amore perché la natura delle donne obbedisce all’amore. Significa arrendersi alla narrazione consueta del femminile, quella che fece scrivere a Matilde Serao, in una lettera alla sua migliore amica: «Non credo al femminismo perché credo che nessuna donna rinuncerebbe a un uomo, all’amore e alla famiglia». Puccini sa altrettanto bene, però, che riconoscere alla freddezza di Turandot il valore di un sentimento nuovo e possibile, e di usarlo come fondamento di una nuova idea di femminile, comporta misura: quello che non può fare è tratteggiare un’eroina sopraffatta, inclemente fino alla cattiveria. Sa, Puccini, che proteggere l’unicità di Turandot significa anche non renderla prigioniera di sé, sorda alla vita, ottusa. Farla innamorare, in questo senso, offre una soluzione appropriata: cedendo all’amore, Turandot dimostrerebbe di non essere ottenebrata da se stessa, intontita dal suo scopo. Ma il punto non è cedere all’amore: il punto è rifiutarlo. Il punto è che Turandot ha progettato di vivere senza amore e, per difendere il suo progetto, ha ideato un terribile stratagemma, che le permette anche di compiere giustizia. Siamo autentici quando restiamo fedeli a noi stessi o quando ci tradiamo? Che succede quando, nella nostra vita, irrompe l’altro? Turandot è la più maestosa storia di un eroismo che consiste nella difesa della propria soggettività: gli eroi e le eroine (soprattutto le eroine) fanno ciò che devono e non ciò che vogliono, disonorano il desiderio, onorano la funzione. Il 25 aprile del 1926, quando la Turandot va per la prima volta in scena, alla Scala di Milano, Toscanini, che dirige l’orchestra, si ferma alla metà del terzo atto e dice: «Qui Giacomo Puccini morì». Il finale, con Turandot che sposa Calaf, l’unico che è riuscito a risolvere i tre enigmi, e quindi scioglie il suo cuore, è opera di Franco Alfano, il compositore napoletano al quale, dopo la morte di Puccini, nel 1924, viene affidata la conclusione del libretto, cui q il maestro s’era applicato negli ultimi mesi della sua vita, senza mai venirne a capo, forse perché aveva scelto di rappresentare l’ambiguità e di certo perché non era riuscito a scoprire quale fosse il bene di Turandot: preservarne l’innovazione, farne una capostipite, o usarla per raccontare che siamo umani nella cedevolezza e nella clemenza, anche quando l’altro ci rovina i piani, ci smentisce, e di fatto ci dimezza. La cosa più potente che Puccini fa per Turandot, però, non è salvarla dal lieto fine (dopotutto, ci ha pensato qualcun altro), ma fare innamorare di lei Calaf, al punto da spingerlo a rischiare la vita provando a risolvere i tre enigmi, quando la vede nella sua massima spietatezza. È il secondo atto, e lei entra finalmente in scena (in nessuna opera la protagonista entra in scena così tardi): ha appena deciso di non graziare il principe di Persia, sebbene la folla glielo abbia chiesto, impietosita, perché è un ragazzo giovanissimo, bello, dolcissimo. È la stessa folla che, quando si era saputo che quel principe aveva fallito, aveva esultato pregustando l’esecuzione in piazza: Turandot non cede alla volubilità del popolo. Ed è nel momento della sua massima spietatezza e implacabilità che Calaf si innamora di lei: la riconosce libera, unica, intoccabile. La ama nel momento in cui tutti, in lei, vedono soltanto un mostro. La ama quando non cede, perché non cede. Ed è questa la lezione che ci serve imparare.
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Vorrei parlare di un uomo, vorrei lodare un maschio nel paese dei femminicidi. Vorrei raccontarvi di un giovane normale che vive a Prato, la città-paese più Strapaese d’Italia e, suo malgrado, giganteggia come marito e come padre non biologico, civilissimo Geppetto pratese, nell’Italia degli incivili sconti di pena agli assassini e ai violentatori per gelosia. Vorrei dunque dire della sua paternità non spermatica rivendicata con la dolce fermezza dell’amore verso quel suo bimbo di 6 mesi e verso la propria moglie, che del bimbo è la madre, e quale che sia la sua colpa, ora è vittima del peggiore giornalismo italiano.
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Caltanissetta - Con me in questa vita e, se non è possibile, nell'altra. Sarà passato questo nella mente di Michele Noto, 27enne di Mussomeli (Caltanissetta) che non si dava pace per l'interruzione della relazione con Rosalia Mifsud, detta Rosy, più grande di lui di 11 anni. E allora, all'ennesimo «no» della donna, l'ha uccisa sparandole con un revolver, che era regolarmente detenuto e per il quale aveva un porto d'armi, e ha eliminato anche la figlia che Rosy aveva avuto da un precedente matrimonio, Monica Di Liberto. Quest'ultima, coetanea di Michele, non aveva digerito la storia della madre avviata a settembre con lui che, essendo proprio coetaneo, sarebbe potuto essere suo figlio e, allora, si era posta da ostacolo fra loro. E Rosy aveva ascoltato i consigli della figlia. Michele dopo avere ucciso le due donne, si è suicidato con la stessa arma. Secondo una prima ricostruzione del duplice femminicidio, sul quale indagano i carabinieri della cittadina siciliana e di Caltanissetta, probabilmente Michele giovedì sera, intorno alle 23.30, ha fatto un ultimo disperato tentativo di tornare con Rosy, ma non è andato in porto. Le due donne avevano trascorso la serata da un'amica di Rosy. Michele le aspettava. Malgrado l'interruzione della relazione, lui e Rosy erano in buoni rapporti e, quindi, è stato fatto entrare in casa. Il portone, infatti, non presenta nessuna effrazione. Del resto, nessuno sospettava nulla da quanto emerge dalla testimonianza di amici e parenti delle due vittime. I vicini non hanno sentito nessun litigio, se non qualche rumore. Poi, improvvisamente, gli spari che hanno squarciato la notte. Almeno quattro, dicono gli inquirenti. Rosy e Monica sono state colpite alla testa. Poi Michele ha rivolto l'arma contro di sé. A ritrovare i cadaveri sono stati il figlio 22enne di Rosy, chiamato dal fidanzato di Monica che, non riuscendo a mettersi in contatto con lei, era preoccupato. Il fidanzato era al corrente della presenza di Michele in casa, in quanto Monica lo aveva avvisato via whatsapp. Poi le comunicazioni si erano interrotte e la ragazza non gli aveva risposto più. I due si sono recati a casa di Rosy, dove la tragedia era già stata consumata. I cadaveri erano nella stanza da letto. Gli inquirenti stanno ricostruendo la dinamica del duplice omicidio. Non si sa ancora se inizialmente in stanza si trovassero solo Michele e Rosy e Monica sia sopraggiunta in un secondo momento oppure se fossero tutti e tre lì a discutere. Sarà l'autopsia a svelare qualche dettaglio in più. Per chi lo conosceva, Michele era un «ragazzo normale», il ragazzo della porta accanto, che dedica particolare attenzione alla cura del corpo, tanto che il suo profilo Facebook è pieno di sue foto in posa da culturista e mentre si allena in palestra. Anche giovedì sera era stato visto mentre passeggiava col suo cane Corso vicino alla casa di Rosy, che non dista molto dalla sua, in centro storico, per cui ciò non aveva destato alcun sospetto. «Non ci sono precedenti interventi per litigi o maltrattamenti dice il tenente colonnello Alessio Artioli, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Caltanissetta - È una tragedia inaspettata». Il sindaco della città ha indetto il lutto cittadino. Nel giro di due giorni sono tre le donne uccise in Sicilia per mano di chi avrebbe dovuto amarle. Soltanto il giorno prima a Mazara del Vallo il 53enne Vincenzo Frasillo ha ucciso di botte la moglie Rosalia Garofalo, 52 anni, mosso da una morbosa gelosia.
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Vito Cangini, 80 anni, nella notte tra il 25 e il 26 dicembre ha ucciso sua moglie a coltellate nella loro casa di Fanano di Gradara, in provincia di Pesaro e Urbino. I due erano sposati da 17 anni, ma agli inquirenti ha dichiarato che la motivazione del suo gesto è legata alla sua convinzione che la moglie lo tradisse: è questo, da quanto emerge, il movente dietro all’ennesimo femminicidio nel quale ad essere uccisa è stata Natalia Kyrychok. La donna, di origini moldave, lavorava come cameriera in un ristorante, aveva 61 anni ed era in Italia da più di 20 anni. L’uomo, incensurato, secondo i racconti di chi lo ha visto il 26 dicembre, ha passato tutto il giorno a bere, fino ad ubriacarsi. Ad avvisare le forze dell’ordine non è stato lui, ma il titolare del ristorante dove Kyrychok lavorava. Non vedendola arrivare e non ricevendo alcuna risposta al telefono, si è preoccupato ed ha avvisato i carabinieri. All’arrivo dei militari dell’Arma, Cangini non ha retto e ha confessato il femminicidio. Il corpo della donna si trovava ancora sul pavimento della camera da letto, raggiunto da quattro coltellate al petto, secondo quanto emerso da una prima analisi della scientifica. Le indagini sul corpo della 61enne sono durate tutta la notte ed è stato ritrovato anche il coltello da cucina usato per commettere l’omicidio. Cangini è stato condotto e rinchiuso nel carcere di Villa Fastiggi con l’accusa di omicidio volontario.
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Otto marzo. Nonostante non camminino come il loro cuore desidera le donne vogliono correre verso il sole nella «Action Woman Marathon» una gara podistica non competitiva di tre tragitti che partono dalla Cascina San Fedele nel parco di Monza, organizzata dall'associazione «Arte di amarsi». Nonostante sappiano che Milano è la prima città che twitta contro di loro, le donne aderiscono alla call del Comune «DonnexMilano - Milanoxle Donne» , un palinsesto di eventi che iniziano da domani per durare fino alla fine di Expo. Il mattino alle 10.30 nel cortile di Palazzo Marino «Milano incontra la poesia - poesie di donne lette da donne» è con le poetesse Donatella Bisutti, Annunciata Colombo, Erminia Dell'Oro, Vivian Lamarque. Dalle 14.30 alle 18.30 il consiglio di Zona 2 organizza alla cascina Turro un'edizione speciale di «Booksharing» e una conferenza «Le donne che leggono sono pericolose» alle ore 16. Dalle 16 alle 19 la Casa delle donne sarà aperta per reading di poesia, corsi di yoga e percorsi di gioco. Alle 17 al Wow Spazio Fumetto viene inaugurata la mostra «Donne resistenti» , un omaggio ai settant'anni della Liberazione dell'Italia dalla guerra e soprattutto a tutte le combattenti che scelgono sentieri vergini per portare la pace in un mondo che usa le bambine come bombe. La visita guidata per piccoli e famiglie al Grande Museo del Duomo propone «Donne al Museo del Duomo. Storie di coraggio e di determinazione» che hanno fatto la nostra storia. Nonostante il femminicidio e la morale tribale di una società che nel suo pansessismo le rende vittime sui social di scherzi sessuali di volgare natura, le adolescenti pronunciano la parola «amore», sinonimo di creazione e procreazione perché la donna è l'utero fecondo, tanto che l'azienda «Lenzuolissimi» ha pensato di donare agli ospedali di Lecco e Merate completini da culla ai bimbi nati l'8 marzo, e soprattutto al piccolo Mattia salvato al Manzoni di Lecco dalla sua nascita prematura. Al Tibi Bistrot , in via San Fermo 1, una mostra di fotografie di Marco Marini per raccogliere contributi per la onlus Karibuni, autrice di progetti finalizzati alle bambine del Kenja. Immagini di sorrisi e di giochi infantili dicono quanto sia importante per le donne la libertà. In Italia ci sono ancora quaranta carcerate con i loro figli tra le sbarre. Scatta l'8 marzo la campagna #maipiuinivisibile di Fondazione Pangea Onlus, con l'aiuto di Avon. È possibile effettuare donazioni con un sms solidale al 45591. Il ricavato è per cinque centri anti violenza del Sud Italia che sono a rischio chiusura a Bari, Olbia, Palermo, Caserta, Potenza. Alle 20.30 alla Società Umanitaria di Milano sarà proiettato il film muto «Salomè» . Nonostante questa terra arida, la mano femminile semina mimose. Lo ricorda il Fai che oggi e domani dalle 10 alle 18 ripropone «Un soffio di primavera» la mostra di piante, articoli da giardino che si svolge nella palazzina Appiani al parco Sempione.
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ROMA — Lo vedi negli occhi delle madri e delle figlie. Dei padri con i bambini in braccio. Dei maschi, davvero tanti, nella marea viola che sfila accanto al Colosseo. C’era ieri e c’è oggi. Il freddo, il sole, le bandiere, la rabbia e i fumogeni, ma in mezzo c’era lei, Giulia Cecchettin. E nulla sarà più come prima. Perché il suo femminicidio ha sconvolto l’Italia ed è diventato il simbolo di tutti i femminicidi, del sangue delle donne uccise ogni giorno, della paura, della sopraffazione, della apparente normalità in cui può celarsi la violenza feroce di un ragazzo. Era questo, ieri, il vero dato nuovo della manifestazione organizzata da “Non una di meno”. L’irrompere nel corteo immenso, transfemminista e intersezionale, antirazzista, antifascista e pacifista, tra bandiere palestinesi e curde, di intere famiglie con figli e figlie adolescenti, gruppi di bambine e bambini, classi con genitori e prof. Cinquecentomila in piazza, con Giulia Cecchettin nel cuore. «L’unico antidoto alla violenza è l’educazione alla parità e al rispetto tra i sessi, ma è dai piccoli che bisogna cominciare, per questo siamo qui con i nostri figli », dice Marica Rossi, mamma di una ragazzina dodicenne che sorride e fa gruppo insieme ai suoi amici della “Montessori”. «Quello che mi sorprende è la folla di maschi di tutte le età», aggiunge Marica, «ma l’omicidio di Giulia Cecchettin ha scosso un’onda, ci ha ricordato che questa violenza riguarda tutti, nessuno escluso». Educare, prevenire, per non morire. «Se domani non torno, sorella distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima»: le parole della poetessa peruviana Cristina Torres Caceres, diventate l’epitaffio dell’assassinio di Giulia, sono moltiplicate ovunque, su cartelli, striscioni, magliette, stendardi. C’erano Schlein e Landini, Gualtieri e Conte, e poi Paola Cortellesi, Fiorella Mannoia, Noemi, Malika Ayane, Luca Zingaretti e Ferzan Ozpetek. Non era mai successo che tra politica e spettacolo fossero tante e tanti: ma quella di ieri, nello spartiacque che il femminicidio di Giulia ha segnato, è stata una manifestazione speciale. Il corteo scorre al ritmo dei tamburi, suonano chiavi, pentole e maracas dietro il camion di “Non una di meno”, ci sono i centri antiviolenza, le case delle donne, i collettivi universitari, c’è la rappresentanza palestinese, si affollano ragazze giunte da tutta l’Italia con i “fucsia-bus”, qualche tensione arriva soltanto davanti alla sede di Pro Vita, casa di gruppi di integralisti cattolici antiabortisti e dichiaratamente antifemministi, oggi saldamente appoggiati dal governo Meloni. «La polizia ci ha caricato»,denunciano le attiviste di “Non una di meno”, così come la rappresentante degli studenti palestinesi, Maya Issa, ha raccontato di essere stata aggredita perché portava la sua bandiera. Note a margine però. I timori della vigilia, la grande frattura sul silenzio di parte del femminismo sugli stupri di Hamas e sulla piattaforma pro-Palestina del corteo, sono rimasti sullo sfondo. Anche se la frattura non si è composta e infatti la comunità ebraica ha ricordato il 25 novembre e le vittime di Hamas in una contromanifestazione al Ghetto. A Milano erano in 30mila, c’erano anche Chiara Ferragni e il sindaco Sala, con i nomi delle vittime di femminicidio scanditi lungo il corteo. Camminando si parla. La violenza affiora dalle vite di tanti. Olivia ad esempio, Capobianco di cognome, 22 anni, italo americana, studia al Dams di Roma. Ha un cartello in mano, i capelli rossi e dice: «Ho subito violenza a 16 anni. Pensavo di aver dimenticato, rimosso, ho lasciato Boston, sono venuta a Roma. Ma uno stupro ti resta dentro per sempre, non puoi dimenticarlo, tutto è di nuovo esploso dentro di me. Sono qui per quelle come me che sono rimaste in silenzio per troppo tempo». Poi ci sono i maschi ed è la grande novità. Come Sirio Pietromarchi, 25 anni, studente di Scienze motorie. «Giulia purtroppo non sarà l’ultima, il maschilismo è una cattiva pianta radicata in noi uomini,mi chiedo quanti Filippo Turetta ci siano tra chi ci cammina accanto. Ma non è solo un problema degli uomini. Ho diverse amiche che accettano relazioni violente, con fidanzati gelosi in modo ossessivo che dicono loro se possono andare in discoteca o no. Perché accettano tutto questo?». Perché il patriarcato è anche dentro le madri, figlie, sorelle, è attorcigliato alla nostra educazione, è l’abitudine a subire che le maltrattate riconoscono nei centri antiviolenza. «Siamo il grido di tutte quelle che più non hanno voce». «Sono cresciuta sentendomi dire: “Stai zitta”. I maschi della mia famiglia erano come gli uomini del film di Paola Cortellesi, dovevano comandare e picchiare», racconta Grazia Inglisa, napoletana, classe 1964. «Le donne della mia generazione subiscono ancora, io ho lottato per liberarmi, a questa manifestazione vengo ogni anno, lo faccio per mia figlia, questa volta anche per la povera Giulia, come fosse la figlia di tutte noi». Ci si commuove ad ascoltare questi frammenti di vita. Quanto dolore però. Ed è ciò che traspare dagli occhi di Magdal Flamini, 19 anni, sesso femminile assegnato alla nascita, oggi in transizione maschile. «Mio padre è un militare e mi ha cacciato di casa a 14 anni, gli facevo schifo, sono cresciuto in una casa famiglia per persone trans, oggi ci vediamo soltanto in tribunale, da pochi mesi ho iniziato la terapia ormonale. Mi sono sentito disperatamente solo, sono stato picchiato, la società ci tratta da rifiuti, questa è la violenza». Riprendiamoci la notte, dicevano gli oceanici cortei femministi alla fine degli anni Settanta, perché di notte le donne avevano paura di essere stuprate. Poco sembra cambiato a giudicare dalle parole di Adriana Palmeri e Francesca Ferriolo, 25 e 22 anni, arrivate da Firenze. «Vi sembra normale tornare a casa la notte guardandosi le spalle? O ritrovarsi una mano addosso sull’autobus? O dover cambiare strada per paura di essere molestate? Ecco noi viviamo così, nel 2023». Nella sera gelida di questo inverno tardivo l’immagine della speranza è quella di Elisabetta e Adelaide, mamma e figlia, che camminano abbracciate. Adelaide, 13 anni, è emozionata. Elisabetta Randaccio fa l’avvocata: «Ci stanno togliendo diritti e libertà. Sono qui per Adelaide, perché possa vivere libera dalla violenza maschile». Accadrà, forse, un giorno. Per Adelaide, Magdal, Olivia, Adriana, Per Giulia no, lei non c’è più.
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Alcuni lettori mi domandano perché l’altra sera, a Dimartedì, non ho risposto ad Alessandro Sallusti che mi dava del delinquente, diffamatore, condannato in Italia e pure “in Europa” (ma sì, abbondiamo: abbondantis abbondandum!). La risposta è semplice: il mio intervento era registrato, il suo in diretta. Meglio così, altrimenti saremmo finiti – come sempre, con […]
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"Le discriminazioni delle donne, i femminicidi, non sono solo un nostro problema; sono anche un vostro problema". Lo afferma la presidente della Camera Laura Boldrini in un'intervista al Corriere della Sera che chiede che "uomini e donne abbiano gli stessi diritti, tutti noi dobbiamo adoperarci e quindi dobbiamo essere tutti femministi", "soprattutto gli uomini". E rivolto ai violenti afferma: "Arrendetevi. Rassegnatevi. Non ci ridurrete a testa bassa. Noi e le nostre figlie non vi consegneremo la nostra libertà. Il male che fate vi si ritorcerà contro". "Il femminicidio purtroppo non ha confini: tocca tutti i Paesi, a ogni latitudine. Per questo bisogna coinvolgere gli uomini. Devono farsi sentire, devono condannare la violenza, devono far vergognare i violenti. Ci deve essere lo stigma sociale su di loro: gli altri uomini devono isolarli. Invece a vergognarsi a volte sono le donne che subiscono la violenza. È un mondo al contrario. Per questo è essenziale far arrivare al più presto i finanziamenti ai centri antiviolenza e alle case rifugio. Strutture che per molte donne rappresentano la salvezza". Quanto alle discriminazioni nel lavoro parlano i dati, dice Boldrini: "Solo il 47% delle italiane lavora. Al Sud la percentuale diminuisce drasticamente. Quando la donna lavora, a parità di qualifica, a volte - per non dire quasi sempre - guadagna di meno. Andiamo in senso contrario a quello che ci indicano le ricerche. Il Fondo monetario ha condotto un'indagine su 2 mila aziende europee: quando nei board ci sono le donne, il fatturato aumenta da 8 a 13 punti. In Italia solo il 21% delle aziende ha donne ai vertici. L'Italia perde il 15% di Pil potenziale perché non stimola l'occupazione femminile. Come si fa a non capire che si deve puntare sulle donne per la ripresa? E non per le donne; per il bene delle aziende e del Paese".
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La parola del 2023 secondo Treccani è femminicidio. Valeria della Valle — che con Giuseppe Patota dirige il Vocabolario Treccani — ha spiegato in una nota che la presenza della parola femminicidio sulla stampa e sui libri di saggistica si è fatta più rilevante “fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere”. Quando Michela Murgia, mi diceva e, soprattutto, scriveva che la parola femminicidio non indica il sesso della morta, ma il motivo per cui è stata uccisa e aggiungeva che la parola femminicidio non segnala solo che qualcuno è stato ammazzato, ma pure il perché è stato ammazzato, io non le credevo. Eccepivo che essere umano viene prima di qualsiasi distinzione di genere, sesso, razza e religione, che la vita viva precede la vita felice o la vita infelice, la vita delle donne e degli uomini, dei vecchi e dei bambini, di coloro che ci piacciono e degli altri che sono pure la maggioranza, bisogna dire omicidio — chiudevo la mia arringa maestosa e illuminista –, bisogna dire omicidio perché sia detto, a voce sempre più alta, che non si uccide. Ovviamente, aveva — e avrà — ragione Michela Murgia alla quale le questioni astratte non interessavano. Le interessava identificare e tentare di risolvere i problemi. E questo rimane un grande monito adesso che non posso più parlarle dall’altezza infantile della mia presunzione. Il femminicidio non è questione astratta, è la pratica attraverso la quale il sistema che chiamiamo società civile ed è formato e sostenuto da uomini e donne punisce i deboli, gli irregolari, i non conformi. Dove debole, irregolare e non conforme significa il contrario di maschio bianco eterosessuale. E dove il debole, irregolare e non conforme più diffuso è la donna. Le vittime concrete di questa pratica sono dunque le donne che, dall’inizio dell’anno 2023 e, direi, del tempo, vengono uccise, le vittime astratte di questa pratica siamo noi. Tutti noi. Con un problema che, nel nostro essere vittime astratte sottovalutiamo — i maschi bianchi eterosessuali, fuori e dentro di noi, di più, ma dicono “non si può dire niente/non si può fare niente” — e, con questa sottovalutazione, contribuiamo al fatto che i femminicidi crescano quasi indisturbati, le misure, già lasche, si rivelino prima inefficaci e poi inutili. Elena Cecchettin, dal giorno in cui è morta sua sorella Giulia, ribadisce col corpo e le parole che se è successo a Giulia, può succedere a tutte. Se Giulia Cecchettin è morta, tutte siamo a rischio e se siamo salve è per caso o fortuna, per una serie ininterrotta di gesti riusciti. Se caso e fortuna sono dirimenti allora la società che abbiamo costruito deve essere ripensata. Nell’anno 2014, Daniele Giglioli, studioso e critico, pubblicava per i tipi nottetempo Critica della vittima. Un esperimento con l’etica che cominciava così: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima... Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce... Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”. Così, quando Giorgia Meloni, primo ministro, tra le tante parole, sue e citate, del discorso ad Atreju ha detto che essere conservatori significa vivere di ciò che è eterno ed ha ribadito “siamo le stesse persone che eravamo ieri e saremo le stesse persone che siamo oggi”, l’eternità non ha rassicurato e la persistenza in ciò che si è mi ha raggelato. Perché in quelle eternità e persistenza affonda la radice di violenza per cui il femminicidio è prassi e le vittime astratte vantano le loro ragioni mentre le vittime concrete non possono più farlo perché morte.
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Presentazione in anteprima assoluta venerdì 6 ottobre alle 17.30, presso Palazzo Sant’Agostino, sede della Provincia di Salerno, del romanzo della scrittrice salernitana «La metrica dell’oltraggio» Sarà presentato in anteprima assoluta venerdì 6 ottobre alle 17.30, presso Palazzo Sant’Agostino, sede della Provincia di Salerno, il romanzo «La metrica dell’oltraggio», di Michela Bilotta (Jack Edizioni). Il libro dell’autrice salernitana si configura come un lungo viaggio da Milano alla Basilicata per indagare il fenomeno dei femminicidi. La protagonista, Beatrice De Sanctis, è una giornalista alla quale viene affidato l’incarico di andare a Valsinni, in provincia di Matera, per scrivere un articolo su Isabella Morra, poetessa del Cinquecento assassinata dai fratelli. Inizia, così, un viaggio dal Nord al Sud del nostro Paese, che è prima di tutto un simbolico percorso di crescita e di consapevolezza per parlare di violenza sulle donne da molteplici angolazioni: dalla strumentalizzazione mediatica del fenomeno all’influenza che gli stereotipi linguistici esercitano sui comportamenti quotidiani, dalla piaga delle spose bambine alla detenzione manicomiale delle donne prima della legge Basaglia. Sullo sfondo, la bellezza struggente e spesso oltraggiata dell’Italia minore, che si fa protagonista silenzioso del romanzo. Il destino di Isabella Morra «Con questo libro ho voluto rievocare il triste destino di Isabella Morra facendolo convergere con la sorte delle tante donne vittime di femminicidio oggi. Perché è tempo di sradicare la cultura patriarcale che crediamo superata e nella quale siamo, invece, ancora immersi, spesso inconsapevolmente” – afferma Bilotta. Ne parlano con l’autrice l’avvocata Stefania de Martino, esperta di politiche di genere, Maria Rosaria Pelizzari, professoressa di Storia delle donne e studi di genere presso l’Università di Salerno e Andrea Raguzzino, editore della Jack Edizioni. Al talento dell’attrice Maria Rosaria Marena è affidato il compito di emozionare il pubblico attraverso la lettura di alcuni brani del libro. Le ottanta vittime «Sono circa ottanta le donne vittime di femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno. Questo incontro diventa momento prezioso di riflessione e approfondimento su un fenomeno che ha assunto connotazioni di estrema gravità e che richiede interventi urgenti e trasversali, che chiamino in causa tutti, dalla scuola alle famiglie, dalla politica alle istituzioni» – conclude Stefania de Martino. La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici [[URL]]
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Matteo Montevecchi siede sui banchi dell'Assemblea legislativa nel gruppo del Carroccio: «Da lei solo propaganda». Piccinini (M5S): «Si vergogni e cancelli il post» Le parole di Elena Cecchettin «sono inaccettabili» e da «respingere con fermezza», perché «non è l'inesistente patriarcato a produrre queste violenze». A sostenerlo è Matteo Montevecchi, consigliere regionale della Lega in Emilia-Romagna, che sui social attacca la sorella di Giulia per le dichiarazioni su Filippo Turetta, definito «figlio sano della società patriarcale». Concetto che Montevecchi respinge, prendendo di mira Elena Cecchettin anche per i simboli considerati satanisti nelle sue immagini social, come già ha fatto il consigliere regionale del Veneto, Stefano Valdegamberi, finito nella bufera nella sua regione. «Discorso di Elena impregnato di ideologia» «Qualcuno dovrebbe spiegare perché Elena, per proferire il suo discorso impregnato di ideologia- attacca il leghista- si è presentata in mondovisione con una felpa della Thrasher che richiama il mondo dell'occulto e del satanismo (simbolo del pentacolo) e soprattutto per quale motivo sul suo profilo Instagram, che è pubblico e che chiunque potrebbe vedere in pochi secondi, sono presenti sue foto con croci rovesciate sul volto, collane sataniche, statue di Lucifero e quant'altro. In sostanza la rappresentazione del male, quello vero». «Parole della sorella di Giulia inaccettabili» Montevecchi riporta le parole di Elena. E incalza. «Tutti gli uomini e le donne che non sono ancora cascati con le mani e con i piedi nella trappola del vortice di questa preoccupante generalizzazione e retorica- afferma il consigliere regionale del Carroccio- dovrebbero ribadire che queste parole di Elena Cecchettin sono inaccettabili e che si tratta di pura propaganda funzionale alla diffusione di un determinato pensiero che impone di credere che sia una colpa il solo fatto di essere uomini e che quindi ci sia la necessità di una rieducazione di Stato. Si tratta di ideologia `woke´ all'ennesima potenza, che predica una incessante divisione tra uomo e donna da respingere con fermezza». Secondo Montevecchi, invece, è «utile andare a fondo per capire che non è l'ormai inesistente patriarcato a produrre queste violenze, ma la perdita di valori e la diffusione di una pericolosa cultura narcisistica che vede l'altro non più come una persona», sostiene il leghista. Poco dopo, Montevecchi ha precisato quanto scritto nel suo post: «Non attacco Elena Cecchettin per le dichiarazioni su Filippo Turetta, ma la contesto per le dichiarazioni sugli uomini che dovrebbero fare a suo dire mea culpa. Le due cose sono da non confondere». Piccinini (M5S): «Da Montevecchi elucubrazioni deliranti» Parole «vergognose», che sarebbero da «cancellare». Così Silvia Piccinini, consigliera regionale M5s in Emilia-Romagna, definisce le dichiarazioni di Montevecchi. «Mentre ci svegliavamo con l'ennesimo femminicidio- commenta Piccinini- c'è chi ha il coraggio riprendere le dichiarazioni vergognose del consigliere Valdegamberi, abbassando ulteriormente il livello con elucubrazioni deliranti che mescolano riferimenti all'ideologia woke e al satanismo». Per la destra, affonda il colpo la consigliera M5s, «le donne vanno bene solo quando si mostrano deboli, in difficoltà, vittime indifese da salvare». A Montevecchi, quindi, «dico solamente: si vergogni- sferza Piccinini- cancelli il post e mostri il doveroso rispetto al ruolo che ricopre».
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Interrogati i parenti e gli amici più stretti della diciassettenne per capire quale rapporto la legasse a un personaggio con il quale non aveva alcun legame. Convalidato il fermo Si è concluso con la convalida dell'arresto l'interrogatorio del sospettato dell'accoltellamento di Michelle Causo. L'assassinio della giovane è stato uno shock per i residenti che mostrano solidarietà alla famiglia e portano fiori davanti al luogo in cui mercoledì scorso è stato ritrovato il corpo all'interno di un carrello per la spesa, coperto da un grosso sacco nero. Molti fanno il segno della croce e dedicano una preghiera alla memoria dell'adolescente. I genitori portano per mano i figli sul posto. Come un padre sulla sessantina che commenta: «Questa è una zona difficile? No, ci sono persone difficili. Poi oggi con questi telefonini…postano tutti sui cellulari. Il ragazzo arrestato? Spero non trovi un avvocato bravo che gli faccia dare l'infermità mentale». Una ragazzina coetanea della vittima aggiunge il suo fiore alla catasta. La madre che è con lei si commuove: «Questi femminicidi devono finire. Non può morire una ragazza in questo modo, purtroppo Michelle non ce la ridarà più nessuno». La parola droga non viene pronunciata apertamente ma con il passare delle ore si fa largo nella tragica vicenda della morte di Michelle Causo. La polizia rimane cauta sul coinvolgimento della giovane vittima in una vicenda che potrebbe avere collegamenti con gli ambienti degli stupefacenti e dello spaccio di sostanze allucinogene o di droghe leggere. Al momento tutto ruota - dopo l’interrogatorio di garanzia del diciassettenne arrestato per l’omicidio volontario aggravato della coetanea di Primavalle convalidato il fermo presso il centro di accoglienza minorile in via Virginia Agnelli, al Portuense - attorno alle dichiarazioni dello stesso giovane rilasciate nella notte di mercoledì scorso quando ha fatto parziali ammissioni sulle sue responsabilità nel delitto. «Ero in debito con Michelle di 40 euro» «Ero in debito con Michelle di 40 euro», avrebbe dichiarato fin dall’inizio il ragazzo, a casa del quale gli investigatori hanno scoperto un vero e proprio laboratorio per la produzione di Purple Drank, lo stupefacente dei trapper, un mix micidiale di alcolici, anfetamine e farmaci capaci a lungo andare di provocare «sballi» difficili da smaltire. Il sospetto è perfino che lo stesso ragazzo fosse sotto effetto di questa sostanza nel momento in cui ha ucciso la giovane, cercando poi in modo assurdo di occultarne il cadavere in pieno giorno lasciandolo vicino ai cassonetti di via Stefano Borgia su un carrello della spesa. Un rapporto d'amicizia nato negli ultimi tempi Le dichiarazioni rilasciate da ragazzo arrestato - non si esclude un tentativo disperato di dare una spiegazione per quello che ha fatto e attenuare la propria posizione, ottenendo invece l’effetto contrario perché in questo modo rischia l’aggravante dei futili motivi - sono ora sotto esame, anche perché al momento gli investigatori della Squadra mobile non confermano il coinvolgimento della vittima in una storia di droga. Da capire quindi la natura di quel presunto debito che il killer ha messo al centro di tutta la vicenda. Per questo motivo fin dalle prime ore dopo la scoperta del diritto sono stati interrogati i parenti e gli amici più stretti della diciassettenne per cercare di capire quale rapporto la legasse a un personaggio con il quale non aveva alcuna relazione sentimentale ma un rapporto di amicizia nato all’improvviso negli ultimi tempi, estraneo alla sua cerchia di contatti abituali. Accertamenti sulla possibile delega a Michelle a riscuotere Accertamenti in corso anche per verificare se quel presunto debito fosse veramente con Michelle oppure con altre persone che potrebbero poi aver chiesto alla ragazza di risolvere la questione recandosi a casa del diciassettenne per farsi restituire quella esigua somma di denaro. A questo scopo sarà decisivo l’esame delle memorie dei telefonini dell’assassino, della vittima e sembra anche altri apparecchi cellulari che potrebbero contenere lo scambio di messaggi degli ultimi giorni fra tutti i protagonisti della vicenda che non si esclude siano proprio incentrati attorno alle dichiarazioni rese dal giovane detenuto. Un delitto maturato all'improvviso Quest’ultimo, dei riscontri della polizia, non è conosciuto come spacciatore almeno dalle forze dell’ordine perché ha un unico precedente per un’aggressione nei confronti di un altro ragazzo, mentre la diciassettenne risultava incensurata e senza alcun guaio con la giustizia. La pista principale seguita dalla polizia è sempre quella di un delitto maturato all’improvviso, in seguito forse a una lite o a un serrato scambio di battute nell’appartamento del giovane che a un certo punto, sotto effetto di stupefacenti, ha perso il controllo massacrando a coltellate l’amica che ha tentato di difendersi con la forza della disperazione senza riuscirci. Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di Roma iscriviti gratis alla newsletter "I sette colli di Roma". Arriva ogni giorno nella tua casella di posta alle 7 del mattino. Basta cliccare qui.
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(reuters) (ansa) (ap) (reuters) Migliaia di donne, soprattutto giovanissime, sono scese in strada a Buenos Aires armate di fazzoletti verdi, a tre anni di distanza dalla prima manifestazione contro i femminicidi in Argentina. Oggi la loro protesta è in sostegno della richiesta di una legge sull'aborto, che in Argentina non è legale salvo alcuni casi particolari. Perciò ieri pomeriggio, questa notte in Italia, la "marea verde" ha invaso Plaza de Majo con slogan come "Aborto legale in ospedale".E' fissata per il 13 giugno la seduta in cui il Parlamento argentino discuterà la proposta di legge sulla depenalizzazione dell'interruzione volontaria di gravidanza, attualmente illegale tranne in caso di stupro o se la vita della donna è in pericolo. Il voto, che arriva dopo mesi di discussioni in aula, non è scontato: 112 deputati hanno annunciato che voteranno a favore, 115 si dichiarano contrari. Gli indecisi, vero ago della bilancia, saranno 29. Il presidente argentinosi è detto contrario ma ha dichiarato che non porrà il veto se la legge verrà approvata. I sondaggi dicono che oltre la metà della popolazione sostiene la depenalizzazione dell'aborto, una percentuale che cresce tra i giovani. Gli anti-abortisti hanno la Chiesa al loro fianco, e anche loro sono scesi in piazza in questi giorni.Domenica, nella cerimonia di premiazione del Martín Fierro, che viene assegnato annualmente dall'Associazione dei giornalisti della televisione e radiofonia Argentina, giornalisti e attori, sia maschi che femmine, si sono espressi pubblicamente a favore della depenalizzazione. Molti di loro indossavano qualcosa di verde e hanno sventolato i fazzoletti simbolo della mobilitazione, come accaduto alla cerimonia hollywoodiana dei Golden Globe in favore del movimento "MeToo" a sostegno del rispetto delle donne.Il Ministero della Sanità argentino stima che circa mezzo milione di donne abortiscano ogni anno in Argentina nonostante il divieto. Le registrazioni ospedaliere mostrano che nel 2016 almeno 50mila donne sono state ricoverate in ospedale per complicazioni derivanti da aborti, e 43 di queste sono morte.Il movimento delle donne si è coalizzato ed è sceso in piazza la prima volta il 3 giugno 2015, per denunciare il femminicidio di una ragazza di 14 anni, Chiara Paez, picchiata a morte dal suo fidanzato di 16 anni, che l'ha poi seppellita nel cortile della casa dei nonni nella provincia di Santa Fe. Nel 2017 le vittime di femminicidio in Argentina sono state 251: secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio sulla Violenza domestica della Suprema Corte di Giustizia. Il 93% degli accusati aveva legami o conoscenze pregresse con le donne uccise e il 71% dei delitti sono accaduti nella casa della vittima.L'Argentina ha approvato il matrimonio omosessuale nel 2010, e una legge sull'identità di genere nel 2012. La campagna per l'aborto legale chiede che il Paese sia all'avanguardia anche con la legalizzazione delle interruzioni volontarie di gravidanza, in un continente in cui solo l'Uruguay e Città del Messico hanno una legge simile a quella della maggior parte dei paesi europei.
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Blocca l'auto in mezzo a un vigneto, le taglia la gola. Uccide la compagna dopo aver trascorso la serata a cena fuori, a Suvereto, Piombino, Nicola Stefanini, 48 anni, operaio in un'impresa edile. La uccide e subito dopo confessa, al telefono con il 112: «Non so dove sono, venite a prendermi». Quando arrivano i carabinieri del comando provinciale di Grosseto, a Campetroso, lungo la strada regionale 398, in piena Maremma, la donna è ancora seduta accanto al guidatore, corpo reclinato in avanti, in un mare di sangue. Sul tappetino l'arma del delitto, un coltello a serramanico. L'assassino in lacrime. Vittima Silvia Manetti, 46 anni, vedova e con due figli di 14 e 10 anni. «Mi sopporti da tre anni, auguri» scrive l'omicida sui social in occasione del loro anniversario, il 10 agosto scorso, postando una foto assieme a lei circondata da cuoricini e teschi. Succede tutto verso la mezzanotte di ieri tra Follonica e Monterotondo Marittima, dove i due vivevano da qualche tempo. Originario di Volterra lui, di Altopascio, Lucca, lei. Una storia e soprattutto, una relazione complicata la loro. Dopo la morte del marito la vittima dell'ennesimo femminicidio, tre in 24 ore, prova a ricostruirsi una vita trasferendosi nell'entroterra grossetano con Nicola, anche lui nuovo del posto. Il lavoro come lavapiatti in un locale del paese, i ragazzi da crescere e la speranza di ricominciare. Ma le cose non girano per il verso giusto. Con Nicola, in passato titolare di una paninoteca, i battibecchi sono all'ordine del giorno. Un carattere irascibile il suo: quando i militari arrivano sul posto e lo fanno salire in auto, Stefanini fa il diavolo a quattro sfondando a testate il vetro della macchina di servizio. Serviranno cinque carabinieri per calmarlo fino all'arrivo in caserma, a Massa Marittima, dove viene visitato e sedato dai medici del 118. Non è chiaro cosa abbia fatto scattare la furia omicida. Certo è che la poveretta non è riuscita nemmeno a difendersi: un solo fendente le recide la carotide. Il pm della Procura di Grosseto che coordina le indagini, Anna Pensabene, viste le sue condizioni non lo ha ancora interrogato. Preferisce attendere l'esito dell'autopsia, che sarà eseguita stamattina. Per il momento Stefanini è stato arrestato, in virtù della confessione oltre che delle evidenze (coltello e vestiti macchiati di sangue), per omicidio volontario. Sotto choc la cittadina del grossetano, che ha proclamato una giornata di lutto cittadino. Scatta la gara di solidarietà fra amici e parenti della vittima per aiutare i ragazzi rimasti orfani. Poche ore dopo e a Cazzago San Martino, Calino (Brescia) in un appartamento vengono trovati due cadaveri, moglie e marito di 56 e 57 anni di origini albanesi. Per gli inquirenti è omicidio - suicidio: lui la strangola a morte poi si impicca. La coppia ha tre figli, in questi giorni fuori per le vacanze. A lanciare l'allarme sono proprio i ragazzi preoccupati che i genitori non rispondono al telefono dalla sera prima. Quando i vigili del fuoco sfondano la porta si trovano davanti una scena straziante. In casa una lettera dell'uomo che spiega i motivi del gesto. Alla base, la gelosia nei confronti della donna. Delitti che seguono a poca distanza da quello scoperto mercoledì a Vigevano. Marco De Frenza, 59 anni pluripregiudicato, uccide la nuova compagna, Marylin Pera, 39 anni, a coltellate. Poi resta accanto al cadavere per più di 24 ore. I due era assieme appena da due settimane.
focus killer
Una ogni 72 ore, la strage infinita delle donne. Dal primo gennaio al 21 novembre di questo 2021, su 263 omicidi commessi in Italia, in 109 casi la vittima era una donna. E l’assassino qualcuno che avrebbe dovuto amarla: 93 sono state uccise in ambito familiare e affettivo, 63 di loro per mano del partner o di un ex. Va sempre peggio. Rispetto allo stesso periodo del 2020 — quando le vittime furono 101 — i femminicidi sono cresciuti dell’8%, rivela l’ultimo report della Direzione centrale della Polizia Criminale pubblicato dal Viminale in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra ogni 25 novembre. «I femminicidi non sono omicidi qualsiasi: sono donne uccise in quanto donne, vittime di una violenza che si nutre di ignoranza, pregiudizi e omertà», dice la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. «È una battaglia di libertà, giustizia e civiltà che non possiamo permetterci di perdere, in difesa di ogni donna costretta a vivere inaccettabili condizioni di paura, pericolo, solitudine o vergogna». Per la ministra della Giustizia Marta Cartabia i femminicidi sono «una vergogna della nostra civiltà. Troppe le donne uccise, troppe le richieste di aiuto non tempestivamente raccolte. La gravità dei fatti richiede di ripensare le norme. Siamo al lavoro per rafforzare gli strumenti di prevenzione». Nel pacchetto, aumento di pena per i delitti di percosse e di lesioni, procedibilità d’ufficio, estensione del braccialetto elettronico. Secondo la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese «la disciplina ha certo bisogno di ritocchi ma anche di maggior coordinamento tra le istituzioni». Chi denuncia «compie un atto di coraggio e non va lasciata sola», sostiene la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti. Secondo i dati del Viminale la maggior parte delle vittime (il 34%) ha più di 65 anni. Il 45% degli assassini ha un’età compresa tra 35 e 54 anni. In forte crescita i reati di deformazione dell’aspetto della persona con lesioni permanenti al viso (+35%), come i casi di revenge porn (1.099, +45%) e le violazioni dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare (+10%). Marta Cartabria, ministra di Giustizia (Ansa) Marta Cartabria, ministra di Giustizia (Ansa) Molte le iniziative in programma. Fino a stasera la facciata di Palazzo Madama, che alle 10 ospita l’evento «No alla violenza. Il grido delle donne» (presenta Barbara De Rossi, interventi di Claudia Gerini e Grazia Di Michele, diretta su Raiuno) è simbolicamente illuminata di rosso. Come l’aeroporto di Fiumicino, il Colosseo, la Piramide Cestia e il ministero dell’Istruzione: alle 10.30 flash mob sulle scale di viale Trastevere alla presenza del ministro Patrizio Bianchi: «La scuola dice no all’odio e agli abusi».
focus victim
Per un trentottenne, accusato di gravi e continuati maltrattamenti alla compagna, il questore Alessandra Simone ha disposto la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Il destinatario della misura, con diversi precedenti penali e già colpito da avviso orale del questore, si trova in carcere per scontare una pena definitiva di un anno ed otto mesi di reclusione per maltrattamenti nei confronti della convivente, che in quell’occasione aveva colpito con un casco da moto per poi sequestrarla all’interno di un capanno degli attrezzi fino a che non è stata liberata da un’amica a cui aveva chiesto aiuto. La notifica del decreto della sorveglianza speciale è avvenuta quindi nell’istituto di pena e l’anno e mezzo di durata della misura decorrerà dal momento della sua scarcerazione. «Si tratta di una misura – spiegano in questura – finalizzata a contenere persone ritenute ad elevata pericolosità sociale, introdotta dal c.d. Codice Rosso, che ha esteso ai soggetti maltrattanti l’applicazione della misura della sorveglianza speciale prevista agli esponenti della criminalità organizzata, allo scopo di prevenire che la spirale di violenza da loro intrapresa possa sfociare nella commissione di più gravi reati. Infatti, oltre ad alcuni obblighi, come il non potersi allontanare dalla propria abitazione nelle ore notturne, nel provvedimento vengono imposte delle prescrizioni a cui il soggetto dovrà attenersi, come, fissare la propria dimora e comunicarla all'Autorità di pubblica sicurezza, non potrà frequentare i luoghi normalmente frequentati dalla persona offesa, dovendosi allontanare immediatamente in caso di incontro occasionale e non potrà comunicare con lei con qualsiasi mezzo». «L’applicazione di queste misure – prosegue la nota della questura – rientra nel più ampio progetto di intensificazione dell’attività di prevenzione, in questo caso applicata al contrasto alla violenza di genere. Le misure di prevenzione sono infatti uno strumento indispensabile, a tutela delle donne vittime di violenza, particolarmente efficaci per bloccare l’escalation di violenza che purtroppo spesso conduce dai maltrattamenti al femminicidio».
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