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A Catania, in uno stabile al numero 1 di via Passo di Aci, una mattina del 24 luglio, Francesco va in camera, prende la pistola che tiene in un cassetto, torna in cucina e spara in faccia alla moglie. Era successo che andavano così d’amore e d’accordo, lui e Giuseppina, si erano sposati, avevano fatto anche tre figli, poi lui aveva deciso di lasciare il posto fisso alle ferrovie e mettersi a fare il commerciante. Non era andata come voleva, c’erano stati problemi economici, e allora Francesco – vuoi lo stress, vuoi le liti in casa con la moglie, vuoi tutto – aveva incontrato un’altra donna e si era fatto un’amante. Giuseppina se ne era andata dai suoi a Torino, Francesco aveva accolto in casa Rina detta la picurara, ma era durata solo un mese e allora Giuseppina era tornata. Ma c’era un problema. Giuseppina non riusciva a perdonare Francesco. Non riusciva a mandarla giù, questa cosa di quell’altra donna in casa sua, e così un giorno – vuoi una lite, vuoi un rimprovero, vuoi lo stress, vuoi tutto – lui non ce l’aveva fatta più, aveva preso la pistola e le aveva sparato. Due colpi. L’avevano preso subito e aveva confessato, con la testa tra le mani, disperato: è vero, in questi ultimi tempi ero diventato, forse, molto irascibile, ma chi non lo diventerebbe di fronte ad una donna che vi tortura ogni giorno con i suoi rimbrotti? La stampa specializzata nei casi di cronaca, i tabloid di nera, indulgono abbastanza sulle motivazioni che portarono Francesco all’insano gesto, perché sì, certo, lui era un tipo violento e anche molto egoista, però lei, insomma, dai: non sapeva perdonare. La verità, si scrive citando Alessandro Manzoni, ha due facce, e chissà qual è quella giusta, insomma, la verità sta sempre in mezzo, no? Insomma. In questo caso, per esempio, una delle due facce è quella di Francesco, magro, scavato, tormentato, va bene. L’altra, però, è quella di Giuseppina, e ha due buchi in fronte. Era il 1948, tanti anni fa. Non che il tempo passato sia una scusante, per carità, al massimo, se proprio vogliamo, è un’attenuante. Piccola piccola. O magari no, neanche quello. Ma che anche adesso, ai nostri giorni, ogni tanto scappi fuori che quella che sta per terra in cucina in un lago di sangue un po’ se l’è cercata, ecco, questa, invece, è un’aggravante. E bella grossa. Sul Venerdì del 21 luglio 2023
focus killer
“L’Italia è quel Paese strano dove quando sei indagato o imputato sei un mostro, sbattuto sui giornali, ti possono portare in cella senza passare dal via, senza che tu sappia neanche perché. Poi quando finalmente diventi condannato ti si aprono le porte di quel sinistro perdonismo, per cui lo stesso Cospito diventa l’influencer della sinistra, a cui vanno come se fosse la Mecca”. A dirlo, durante un evento di Fratelli d’Italia in Valle d’Aosta, è il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, rinviato a giudizio nei giorni scorsi per rivelazione di segreto in relazione alla vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41-bis e protagonista nei mesi scorsi di un lungo sciopero della fame. Delmastro, che in via Arenula ha la delega alle carceri, aveva rivelato al compagno di partito Giovanni Donzelli il contenuto di una relazione della polizia penitenziaria sui dialoghi di Cospito con alcuni boss mafiosi, suoi compagni di reparto a Sassari. E durante una seduta della Camera, Donzelli aveva usato quelle informazioni per attaccare quattro parlamentari del Pd (Debora Serracchiani, Walter Verini, Andrea Orlando e Silvio Lai) accusandoli di vicinanza alla mafia per aver fatto visita all’anarchico qualche settimana prima (video). Attacchi che Delmastro continua a cavalcare, rivendicando la legittimità del proprio comportamento e ricordando come l’anarchico avesse chiesto ai dem di parlare con gli altri detenuti del reparto prima che con lui. “Io rivendico tutto ciò che ho fatto in questo anno da sottosegretario alla Giustizia. Questa nazione è strana no, c’è qualcuno che va da Cospito come se fosse un influencer. Vanno a parlare con i camorristi, poi possono finalmente tornare da Cospito, parlano con Cospito, si offendono perché io lo racconto. È legittimo quello che hanno fatto. Ma è altrettanto legittimo che io lo racconti”, afferma. Già nel giorno del rinvio a giudizio, parlando in tv, l’esponente di FdI si era detto “straordinariamente fiero di non aver tenuto sotto segreto un fatto di gravità inaudita, cioè che terroristi anarchici in combutta con criminali mafiosi tentassero di fare un attacco concentrico al 41-bis“: nei dialoghi riportati nella relazione, infatti, Cospito parlava con i boss di piani per arrivare all’abolizione del carcere duro. L’indagine era stata aperta dopo un esposto presentato in Procura dal parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra Angelo Bonelli: l’inizio del dibattimento è stato fissato al prossimo 12 marzo. Nell’udienza preliminare di mercoledì scorso – il sottosegretario era presente in aula – la Procura di Roma, rappresentata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto il non luogo a procedere, in coerenza con l’interpretazione già adottata nei mesi scorsi. Lo scorso luglio infatti il gip aveva disposto l’imputazione coatta per Delmastro, non accogliendo la richiesta dei pm, che avevano invece sollecitato l’archiviazione ritenendo non ci fosse la prova dell’elemento soggettivo del reato (cioè della consapevolezza di stare violando un segreto amministrativo). Durante l’evento di lunedì il sottosegretario ha citato come esempio di “perdonismo” anche la vicenda del suo concittadino Dimitri Fricano, 35enne biellese condannato per femminicidio a cui sono stati concessi i domiciliari per la sua eccessiva stazza: “Oppure, per parlare di temi che non mi riguardano personalmente, tal Fricano che ficca 57 coltellate alla sua fidanzata e viene liberato perché è ingrassato”, ha riassunto.
focus killer
Ha impugnato un coltello da cucina e si scagliato contro la moglie e la suocera, entrambe italiane, accoltellandole a morte. E poi è andato incontro agli agenti delle forze dell'ordine allertate dal figlio maggiore, rivendicando il duplice femminicidio. Arezzo si è risvegliata nel sangue stamani, alla luce di un episodio nelle scorse ore che ha sconvolto la placida tranquillità della città Toscana. In manette è finito Jawad Hicham, un uomo di 38 anni di origini magrebine e residente da tempo sul territorio: è stato accusato di aver ucciso sia la consorte, ovvero la trentacinquenne Sara Ruschi, che la suocera, la settantaseienne Brunetta Ridolfi. Un doppio assassinio che avrebbe peraltro commesso davanti ai figli di 16 e 2 anni. Gli inquirenti stanno indagando per ricostruire una vicenda che appare sotto certi aspetti ancora poco chiara, in primis per quanto concerne i motivi che avrebbero portato lo straniero ad uccidere le due donne. Secondo le prime ricostruzioni riportate dalla stampa locale, il trentottenne potrebbe aver agito a seguito di una discussione particolarmente accesa. Secondo gli ultimissimi sviluppi, la presenza della pensionata in casa della coppia confermerebbe il momento difficile che i coniugi stavano attraversando, a causa di continue litigate. Una precauzione che purtroppo si sarebbe rivelata vana, dopo quell'ultimo confronto finito nel peggiore dei modi. Hicham avrebbe ad un certo punto afferrato un coltello da cucina ed avrebbe accoltellato prima la suocera e poi la moglie. L'anziana è morta a pochissimi minuti dall'accoltellamento, crollando al suolo in una pozza di sangue.
focus killer
È stata massacrata di botte dal marito, che aveva già denunciato in passato, per tre giorni fino alla morte. È successo in un appartamento a Mazara del Vallo (Trapani) dove la vittima, Rosalia Garofalo, 54 anni, viveva con il coniuge Vincenzo Frasillo di 53 anni. A dare l’allarme ieri sera verso le 20.30 sono stati i vicini di casa che hanno chiesto l’intervento della polizia dopo aver sentito le urla provenire dall’abitazione. Arrivati sul posto gli agenti e il personale medico del 118 non hanno potuto far altro che constatare il decesso della donna: il corpo, ricoperto da lividi, è stato trovato sul letto matrimoniale. L’uomo è stato portato nel carcere di Trapani e la Procura di Marsala ha disposto il fermo per omicidio volontario che ora dovrà essere convalidato dal giudice per le indagini preliminari. La polizia scientifica e il medico legale hanno confermato che Frasillo ha più volte picchiato selvaggiamente la donna negli ultimi tre giorni. Secondo gli investigatori, a scatenare la violenza omicida del marito sarebbe stata l’ossessione di essere tradito dalla donna. Dalle prime indagini è emerso anche che la donna in passato aveva già denunciato gli abusi e maltrattamenti del marito. L’ultimo esposto nell’aprile scorso: in almeno due occasioni la donna aveva deciso però di ritirare le denunce.
focus victim
“Femminicidio, siamo sicuri che esista?”, chiede Adriano Mazzola nel suo ultimo post. Sarebbe troppo semplice dare una risposta a questa domanda chiedendolo a Carmela Petrucci, 17 anni, uccisa a Palermo dalle 20 coltellate di Samuele Caruso, ex fidanzato della sorella Lucia, ancora ricoverata in ospedale e superstite, puramente casuale, dell’ultimo episodio di violenza ai danni di una donna. Sarebbe troppo semplice e nello stesso tempo impossibile visto che Carmela è morta nell’impeto generoso di salvare la sorella dalla furia calcolata di questo 23enne che non ha saputo accettare l’abbandono della ragazza amata. Ultima vittima in ordine di tempo, Carmela è diventata il simbolo inconsapevole di una battaglia tra falangi ideologicamente armate. Da una parte i maschi, dall’altra le femmine, in mezzo un dibattito tanto polemico quanto sterile sull’utilità di definire l’uccisione di una donna con il termine, appunto, di “femminicidio”. Strumenti di guerra, i numeri. “Sono cento le vittime dall’inizio del 2012” dicono le donne, “sì, ma sono numeri relativi”, rispondono gli uomini, bypassando del tutto il vero nocciolo del problema. Ossia, il motivo per cui, nel 2012, cento donne e più sono morte per mano di padri, fratelli, mariti o compagni. Per mano di coloro che, nel normale corso degli eventi, rappresentano la cerchia degli affetti più vicini e insieme più sicuri. Sarà forse utile allora, più che arrovellarsi sul significato e sull’applicazione del termine “femminicidio”, aprire un dibattito sulle cause, confrontarsi sulle modalità attraverso le quali oggi uomini e donne vivono la relazione affettiva e amorosa, interrogarsi infine sul concetto di possesso che troppo spesso si sovrappone e si sostituisce a quello di relazione. E’ in questa prospettiva che si deve tornare a parlare (parlare, non “ciarlare o “cianciare”) di “incivile soggezione, sopraffazione cruenta, violenza inaudita e perpetua, grave disparità di trattamento, terrore psicologico e fisico” subiti dalle donne ad opera di uomini incapaci di riconoscere alle loro figlie, madri, mogli e compagne un ruolo da protagoniste dotate di una propria individualità. Qui sta il compito informativo dei mass media, o almeno il nostro (de Il Fatto Quotidiano e di Donne di Fatto come sezione concentrata sulle tematiche di genere): nessun intento mistificatorio, nessuna caccia all’uomo cattivo, nessuna guerra tra i sessi. Quest’ultima è in corso da tempo e conta già troppe vittime.
focus victim
Alle 19 il corteo in piazza Santissima Annunziata a Firenze organizzato dal movimento «Non una di meno»: «Portate tutto quello che può fare rumore». Sabato alle 12 il presidio in piazza Signoria «Di fronte alla violenza non servono i minuti di silenzio, bisogna fare più rumore, essere più visibili, più presenti». È la denuncia-appello che lancia il movimento Non una di meno di Firenze, che dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin convoca tutte e tutti alle 19 per un corteo con partenza da piazza SS. Annunziata in cui si chiede di «portare tutto quello che può fare rumore: tamburi, strumenti, perfino pentole». «La violenza è un fenomeno strutturale e i numeri parlano chiaro. Esplode il desiderio di rispondere a quello che sta succedendo – ha detto intervistata a Controradio Isabella Bruni di Numd – sentiamo l’esigenza di esprimere la nostra rabbia in un momento di condivisione che vede nella pratica delle passeggiate anche un simbolo di riappropriazione degli spazi, della notte, che si oppongono alla narrazione del lupo e cappuccetto rosso e dell’attribuzione di responsabilità alla donna per l’essere vittima». Nudm tornerà in piazza anche il 25 novembre prossimo, Giornata internazionale per l’eradicazione della violenza contro le donne, con due manifestazioni nazionali a Roma e Messina: «Da Firenze sono già stati organizzati 2 pullman, ma le iscrizioni sono ancora aperte», spiegano. LEGGI ANCHE Femminicidi, i simboli sono il passato «Sto pensando di partecipare a più di una delle manifestazioni» contro la violenza sulle donne «perché io credo che sia importante la presenza delle istituzioni a queste manifestazioni anche spontanee. Sono iniziative che danno il senso di una reazione eccezionale della società civile che non può più assistere inerte a quello che si consuma ogni giorno nel nostro Paese. Siamo al fianco dei manifestanti, sabato realizzeremo un flash mob in piazza della Signoria (ore 12, piazza della Signoria), cercheremo di essere presenti in tutte le occasioni». Lo ha dichiarato il sindaco di Firenze Dario Nardella, a margine di una conferenza stampa a Palazzo Vecchio, a proposito della morte di Giulia Cecchettin. «Mi piace l'idea delle manifestazioni rumorose, partita da Padova, perché il silenzio non basta più per quanto il silenzio possa esser associato al dolore, al cordoglio, alla sofferenza - ha aggiunto -. Non basta più l'irritazione, la rabbia. Occorre anche agire: auspico che la proposta di Schlein di avere una legge che sia a 360 gradi orientata sul tema della prevenzione verso tutte le forme di violenza di genere possa essere raccolta dal Parlamento e dal governo con un'iniziativa bipartisan». La proposta del Governo di introdurre un'ora di lezione sessuale a scuola in risposta ai femminicidi «può essere una strada, però l'importante è che non ci si limiti a misure spot, ci vuole un piano complessivo che tocchi la scuola, la società civile, il mondo del lavoro perché il problema non è solo la scuola», continua il sindaco di Firenze, Dario Nardella. «Ognuno deve fare la sua parte: le istituzioni, le famiglie, il mondo del lavoro, la scuola, perché il problema è davvero trasversale e diffuso, e speriamo che almeno questa volta la morte della giovane Giulia serva davvero a qualcosa e non al solito fuoco di paglia di poca durata che poi ci fa ripiombare nell'ordinaria follia dei femminicidi», ha aggiunto Nardella.
focus victim
Dubois La ragazza stava salendo in auto con la spesa, quando ha aperto la portiera un uomo che voleva violentarla. La fuga, poi la denuncia Aggredita sessualmente in un parcheggio del supermercato a Reggio Emilia, dove stava salendo in auto con le borse della spesa, a fine pomeriggio. Ma la vittima, una ragazza di 23 anni , è stata veloce nel divincolarsi e fuggire. E denunciare il tutto ai carabinieri. E proprio le divise della stazione di Corso Cairoli hanno arrestato 55enne in esecuzione di ordinanza cautelare restrittiva richiesta dalla locale Procura, diretta da Gaetano Paci. Le testimonianze e i filmati I fatti risalgono al 12 ottobre: intorno alle 18.30 la vittima, una 23enne reggiana, era appena salita a bordo della sua auto, quando l'uomo ha aperto la portiera lato guida: da lì è entrato nell'abitacolo cercando di baciarla, toccarle i seni e spingerla sui sedili posteriori per avere un rapporto sessuale. La ragazza è riuscita però a divincolarsi e a fuggire in auto. Quindi la denuncia ai carabinieri della stazione di Corso Cairoli che hanno avviato le indagini. L'autore dell'aggressione, abitante a Reggio Emilia, è stato identificato grazie alle testimonianze e all'analisi dei filmati delle telecamere di videosorveglianza. Il presunto responsabile della violenza denunciato, è stato così arrestato e posto ai domiciliari. La notizia, uscita a poche ore dalla mobilitazione contro la violenza sulle donne (che anche a Reggio Emilia ha coinvolto più di diecimila persone) e a pochi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, ha suscitato nuova rabbia e commenti sui social.
focus victim
Vigonovo (Venezia). «Questa cosa - il fatto che io vorrei non vederlo più, perché inizio a non sopportarlo più - mi pesa. E non so come sparire. Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo, perché mi sento in colpa, perché ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo». È il contenuto di un messaggio audio che Giulia Cecchettin ha inviato a un’amica, e mette i brividi. Perché, in quelle parole, Giulia racconta dell’ex fidanzato Filippo Turetta, dell’ossessione di lui, dei suoi continui ricatti emotivi. In poche parole, spiega perché l’avrebbe ammazzata. «Mi sento in una situazione in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui» dice Giulia. È sconvolta: lo dimostra la sua voce. «Però lui viene a dirmi cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che pensa solo ad ammazzarsi, che vorrebbe morire, che non trova più un senso per andare avanti. Non me le viene a dire per forza, secondo me, come ricatto. Però suonano molto come ricatto. E, allo stesso tempo, mi viene a dire che l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con me o i momenti in cui io gli scrivo». Ecco come è nato il femminicidio di Giulia Cecchettin. Delitto confessato da Filippo Turetta alla polizia tedesca: «Ho ammazzato la mia fidanzata. Ho vagato questi sette giorni perché cercavo di farla finita. Ho pensato più volte di andarmi a schiantare contro un ostacolo e più volte mi sono buttato un coltello contro la gola. Ma non ho avuto il coraggio di farla finita». Si è consegnato ai poliziotti tedeschi con le mani in alto. E ha confessato. I vestiti e le scarpe macchiati di sangue. Le mani e le caviglie segnate dalle ferite. Gli agenti lo hanno trovato nella corsia d’emergenza dell’autostrada tedesca A9, all’altezza di Bad Dürrenberg. E lì ha confessato, in inglese. È la sua doppia ammissione: di quello che ha fatto e del perché lo ha fatto. Ha ammazzato Giulia, ma lei non era la sua fidanzata. Non lo era più, da quando la ragazza aveva deciso di lasciarlo, ad agosto. Lui non lo accettava. E l’ha uccisa. Ai poliziotti ne ha confessato l’omicidio e pure la sua incapacità di farla finita. Per provare ad ammazzarsi si sarà puntato addosso lo stesso coltello con cui aveva ucciso lei, con 26 coltellate. Da sabato, Filippo è detenuto nel penitenziario di Halle. Ha accettato la procedura semplificata per la consegna in Italia e ieri la Procura generale di Naumburg ne ha disposto l’estradizione. Turetta sarà consegnato alle autorità italiane, che andranno in Germania a prelevarlo. Probabilmente, arriverà a Fiumicino venerdì sera, a bordo di un aereo militare. In Italia gli sarà notificata l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, quindi potrà essere trasferito a Venezia per l’interrogatorio di garanzia del gip. «Non escludo di predisporre una perizia psichiatrica, per capire fino in fondo cosa gli è scattato in testa», diceva ieri il suo avvocato, Emanuele Compagno. Intanto emergono nuovi particolari sull’arresto di sabato. In una prima perquisizione, i poliziotti tedeschi hanno trovato nella borsa del 22enne un paio di guanti, un cellulare, una carta prepagata, 300 euro in contati. E, soprattutto, un coltello da cucina con una lama di dodici centimetri: l’arma del delitto. Gli inquirenti avrebbero trovato anche una sim straniera, forse acquistata per utilizzare il telefono senza venire tracciato, ma sul punto sono in corso delle verifiche. L’auto di Turetta è sotto la custodia giudiziaria tedesca, in un deposito in Germania. In un primo esame, gli inquirenti avevano trovato delle tracce di sangue. Ora ci sarà un secondo controllo, servirà a ricostruire la dinamica della violenza. E altrettanto importante sarà l’autopsia sul corpo di Giulia. Verrà eseguita l'1 dicembre, alle 9, nell’istituto di anatomia patologica della Clinica universitaria di Padova. Ci saranno l’anatomopatologo Antonello Cirnelli, nominato dalla famiglia, e i periti incaricati dalla procura e da Turetta. Per il funerale della ragazza, a Saonara, sarà prima necessario il nullaosta alla consegna del corpo. Poi Giulia potrà essere sepolta accanto alla mamma Monica, morta un anno fa.
focus killer
27 maggio 2017 Link Embed [[URL]] Copia Copia Napoli, riconosce il suo violentatore in un pub. I carabinieri lo trovano e lo arrestano Una notte di febbraio nel quartiere del Vomero, a Napoli, una ragazza, appena uscita da lavoro, viene seguita in auto fin sotto casa, dove tre uomini l’aggrediscono, la palpeggiano e la rapinano. I carabinieri il 22 marzo identificano due dei responsabili, due 33enni di Grumo Nevano e Aversa. Il terzo è stato preso oggi dai carabinieri della stazione Vomero-Arenella che hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Napoli. La vittima lo ha incontrato per caso circa 2 mesi dopo il fatto: era in un discopub, a Napoli. Si tratta di un 24enne incensurato di origine araba residente ai Quartieri Spagnoli. L’uomo quando ha incrociato lo sguardo della vittima si è dato alla fuga. La ragazza ha immediatamente riferito l’accaduto ai carabinieri descrivendo dettagliatamente le sue fattezze. I militari hanno cominciato le ricerche guidati dalla descrizione tra i frequentatori dei locali della movida riuscendo a dargli un nome. La vittima lo ha infine riconosciuto in un confronto “all’americana” ed è così finito a Poggioreale l’ultimo complice delle violenze.
focus killer
In questi giorni un violento femminicidio avvenuto in provincia di Milano è al centro delle pagine di cronaca nera dei giornali: è quello di Carol Maltesi, una donna 26enne che viveva a Rescaldina, vicino a Legnano, per cui ha confessato un suo vicino di casa di nome Davide Fontana, che aveva avuto con lei una relazione in passato. L’indagine sull’omicidio era iniziata il 20 marzo, quando presumibilmente Maltesi era già morta da più di due mesi. Quella domenica mattina un uomo che stava camminando lungo una strada in un bosco vicino a Borno, in Val Camonica, aveva trovato quattro sacchi neri lasciati vicini a un dirupo. Per capire che cosa contenessero, ne aveva spostato uno e aveva intravisto la mano di una donna. Aprendo i sacchi, i carabinieri avevano trovato i resti, sezionati in 15 parti, del corpo di una giovane donna. I resti erano stati portati all’istituto di medicina legale di Brescia ma l’identificazione era risultata particolarmente difficile: la donna aveva ricevuto molti colpi al volto che l’avevano sfigurata. È stato per questo che gli investigatori e gli inquirenti di Brescia avevano deciso di diffondere la descrizione di una parte degli undici tatuaggi che la donna aveva sul corpo. Alcuni di questi, tra l’altro, erano stati tagliati e scorticati nel tentativo di asportarli. La descrizione dei tatuaggi aveva spinto alcuni lettori del sito Bsnews a contattare il giornalista che si stava occupando della notizia e a segnalare che corrispondevano a quelli di una attrice porno conosciuta con il nome d’arte di Charlotte Angie. I giornalisti del sito avevano cercato in rete le immagini dell’attrice scoprendo che in effetti i tatuaggi corrispondevano a quelli descritti dall’informativa degli investigatori. Inoltre, le pagine social della donna non erano aggiornate dai primi di gennaio. Ai messaggi mandati su WhatsApp al numero della donna dai cronisti del sito erano comunque arrivate risposte. Il giornalista si era qualificato e la risposta era stata: «Non ho tempo adesso per i giornalisti e per spiegare perché ho lasciato il porno». Quando poi il cronista di Bsnews aveva spiegato il motivo dei messaggi, e cioè indagare sulla presunta corrispondenza dei tatuaggi, la risposta era stata: «Ah, ho capito. Mi hanno già detto di quella ragazza». E ancora: «Io sto bene fortunatamente». A rispondere ai messaggi, si è scoperto dopo, era Fontana che stava usando il telefono di Maltesi. Bsnews aveva messo la chat con la presunta Charlotte Angie a disposizione dei carabinieri, che non ci avevano messo molto a scoprire che il nome di Charlotte Angie era Carol Maltesi, 26 anni, italo-olandese, madre di un bambino di sei anni che vive con il padre. La donna aveva lavorato in un negozio all’aeroporto di Malpensa e poi in un centro commerciale di Rescaldina, vicino a Legnano, in provincia di Milano, dove abitava da meno di un anno. Da meno di un anno aveva anche iniziato a lavorare nel cinema erotico, a cui si era avvicinata all’inizio pubblicando dei video sul sito Onlyfans. Nei video di Maltesi compariva spesso un uomo, che poi i carabinieri hanno identificato come Davide Fontana, vicino di casa ed ex compagno della donna per un breve periodo. Fontana è un bancario che lavora a Milano ma, dall’inizio della pandemia, è in smart working e quindi passava la maggior parte del tempo a casa. Con Maltesi aveva avuto una breve relazione, poi i due erano rimasti apparentemente in buoni rapporti, tanto che lei era andata a vivere nella stessa casa di Rescaldina. Era Fontana a girare i video pubblicati online da Maltesi. Due giorni fa, apparentemente convinto da una vicina di casa, Fontana è andato dai carabinieri di Rescaldina per denunciare la scomparsa di Maltesi che, ha spiegato, non vedeva da tempo. La sua dichiarazione, a quanto pare, è stata però estremamente confusa e contraddittoria tanto che poche ore dopo l’uomo è stato convocato a Brescia, in caserma. I carabinieri avevano intanto recuperato i video girati da alcune telecamere nella zona di Borno in cui la mattina del 20 marzo era stato ripreso il passaggio dell’auto di Maltesi, una Fiat Cinquecento grigia, guidata però da un uomo. Fontana è entrato in caserma a Brescia poco prima delle 23 di lunedì e ne è uscito alle 3.30, dopo aver confessato. Ha raccontato che la sera del 10 o 11 gennaio (non ricorda esattamente) era a casa di Maltesi per girare un video porno che prevedeva che la donna fosse legata mani e piedi e con un sacco in testa. A quel punto iniziò a colpirla con un martello alle gambe, poi alla testa e infine con un coltello alla gola. Raccontando l’omicidio ai carabinieri Fontana ha detto di non sapere perché lo fece. Nei giorni dopo l’omicidio, l’uomo aveva acquistato una sega e un’accetta al Bricoman di Rescaldina con cui ha raccontato di aver sezionato il cadavere e tentato di eliminare i tatuaggi. Quindi aveva comprato online un freezer a pozzetto per conservare il corpo. Qualche giorno dopo, sempre secondo il suo racconto, aveva tentato di bruciare i resti utilizzando alcol, in una zona barbecue di Vararo, sul lago Maggiore. Il tentativo era fallito, quindi Fontana aveva riportato i resti della donna in casa. Nel frattempo aveva risposto ai messaggi che arrivavano sul telefono di Maltesi da parte dell’ex compagno e della madre. Aveva anche risposto ai messaggi di un attore porno che invitava Maltesi a sostituirlo per una serata in un locale, declinando l’invito. Con l’app della banca sul telefono cellulare aveva anche pagato l’affitto di casa. Il 20 marzo Fontana aveva caricato cinque sacchi sull’auto di Maltesi e li aveva abbandonati vicino a Borno, un posto che ha detto di conoscere perché ci andava in vacanza da bambino. Dopo qualche giorno, sono iniziati i messaggi del giornalista di Bsnews. Fontana è accusato di omicidio volontario aggravato e di distruzione e occultamento di cadavere. Ora è nel carcere Canton Mombello a Brescia.
focus killer
Una ragazza di 26 anni è stata trovata impiccata con una sciarpa della squadra di calcio del Casarano, sulla terrazza di casa. E sul caso stanno indagando i carabinieri, con gli inquirenti che non escludono possa essersi trattato di un femminicidio. Questo è quanto avvenuto nelle scorse ore a Casarano, una cittadina situata in provincia di Lecce, per un episodio che ha impressionato la comunità locale e che promette di travalicare presto i confini regionali. Secondo la stampa locale il corpo della giovane, penzolante dal balcone dell'appartamento nel quale viveva in affitto, è stato notato da alcuni vicini di casa. Gli stessi che con tutta probbailità hanno allertato le forze dell'ordine. “Non abbiamo sentito urla provenire dall’abitazione – hanno raccontato al quotidiano La Repubblica – ci siamo affacciati e abbiamo visto la ragazza in quella posizione”. Il personale del 118, prontamente intervenuto dall'ospedale cittadino, non ha potuto far altro che constatare il decesso della ventiseienne, mentre sul posto confluivano rapidamente i carabinieri del Norm insieme ai colleghi della scientifica. Sul corpo della ragazza, ritrovato questa mattina, non risulterebbero segni di violenza. La giovane, originaria di Ugento, si era trasferita da poco sul territorio casaranese ed era impiegata in un'azienda calzaturiera della zona. Secondo l'ipotesi seguita in un primo momento dagli investigatori, potrebbe essersi trattato di un suicidio. Ma sono in corso ulteriori accertamenti, anche perché in casa sono stati trovati alcuni oggetti rotti. Ed è su queste basi che chi indaga non esclude l'ipotesi che porta ad un omicidio. Proprio la sopracitata sciarpa con i colori del Casarano potrebbe rappresentare un indizio. La svolta è arrivata in tarda mattinata, proprio mentre il corpo della ragazza veniva trasferito presso la camera mortuaria dove saranno eseguiti ulteriori accertamenti: i militari dell'Arma hanno accompagnato un giovane in caserma.
focus victim
“Vedi come è piccolo, rispetto ad altri testi sulla violenza o il femminicidio? In questo modo non intimidisce un ragazzo o una ragazza, se si propone di leggerlo”. Ha pensato anche a questo Cristina Obber, autrice di “Non lo faccio più”, libretto che raccoglie l’inedito intreccio tra le parole dei giovani stupratori e delle loro vittime, storie terribili che però possono aprire spazi di cambiamento. Più che un libro “Non lo faccio più” è uno strumento per entrare nelle scuole italiane a parlare, ma soprattutto far parlare, di violenza, sessualità e lacerazione. E sappiamo bene quanto ce ne sia bisogno, specialmente nella fascia d’età tra i 13 e i 25 anni. “Ciò che manca ai ragazzi, anche e soprattutto a quelli che hanno fatto violenza, spesso giovanissimi stupratori, talvolta in gruppo, di coetanee, è la consapevolezza della fisicità di quel gesto: si deve, e si può, con le parole giuste, parlare loro di lacerazione del corpo e dell’anima della vittima di stupro –racconta Obber-. Spesso invece si gira intorno a questo punto, non si nominano la carne e il sangue. Bisogna raccontare che c’è un corpo ferito, altrimenti si fa solo del falso pudore”. Il progetto del libro, che si accompagna con la proposta di momenti di incontro e formazione a partire dal secondo ciclo delle superiori fino all’università, è nato non a tavolino, ma durante un viaggio in auto. Obber racconta che qualche mese fa l’ennesima notizia di un nuovo stupro di gruppo che coinvolgeva giovanissimi carnefici e un altrettanto giovanissima vittima non l’ha attraversata in fretta, come purtroppo accade, anche per istinto di conservazione. Da quel momento è scattata la determinazione che qualcosa lei lo doveva fare. E così è stato: il bisogno di andare alla fonte, di guardare negli occhi i ragazzini stupratori, che non sono mostri, ma ragazzi che potrebbero essere figli tuoi, i nostri ragazzi, ha preso corpo nel testo. E se passare all’azione è stato certo più complicato che decidere, l’esperienza di Obber svela che, dietro alla cortina di silenzio, e spesso disinteresse mediatico per il quotidiano lavoro di chi si occupa di prevenzione della violenza, c’è una rete, in Italia, fitta e attivissima di persone, associazioni e gruppi che senza denaro a sufficienza (e spesso senza nemmeno quello insufficiente) formano il tessuto connettivo che resiste, che continua a creare luoghi e occasioni di ascolto, e che si attiva per riparare i danni. Maggiori informazioni a questo link.
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Nessuno mi può giudicare: già à metà anni ‘60 una canzone poneva la questione dell’equità di genere: la cantava una ragazza con caschetto biondo, Caterina Caselli. Caterina Caselli Caterina Caselli Aveva capito che la canzone era vessillo di libertà al femminile? «Lo è diventata. All’epoca non c’era questa consapevolezza né da parte degli autori né da parte mia, il femminismo come fenomeno di massa era ancora lontano, era piuttosto una affermazione caparbia del diritto di ognuno di “ vivere come può”. Credo di essere stata percepita come una sorella vivace, diretta, con le idee chiare sulla libertà. In fondo sono nata nel 1946 quando le donne italiane hanno potuto votare per la prima volta. Sarà un caso o un segno?». Allora come l’ha vissuta? «In quel fatidico 1966 vivevo come in una bolla felice, mi sentivo amata, avevo tante soddisfazioni, ho raggiunto l’autonomia economica, mia madre non mi osteggiava più. Ero a Ischia per i fanghi e una donna, non giovane, mentre mi spalmava il fango sulla schiena mi disse “Signurì, voi mi piacevate così tanto perché eravate prepotente”. Forse il più bel complimento che abbia mai avuto, una donna che in qualche modo si sentiva riscattata da quella canzone: possiamo anche sbagliare ma nessuno deve giudicarci male». Le donne hanno saputo comunicare il bisogno di parità? «Passi da gigante ne sono stati fatti, eppure il tasso di femminicidi è in crescita, ed è spaventoso perché nasconde una idea tribale dei rapporti basata sul possesso. Una parola chiave è: fare sistema». I diritti si ottengono marciando uniti, uomini e donne? «Senza fare tante storie qui si tratta di rivedere consuetudini e leggi per eliminare ogni differenza nei diritti fondamentali di accesso al lavoro, all’educazione, a una vita libera e auto-determinata… Uomini e donne insieme, il problema riguarda tutti». L’equilibrio con suo marito, Piero Sugar, su cosa era basato? «C’è sempre stato rispetto e questo l’ha rafforzata anche nei momenti delicati della nostra vita insieme, che non sono mancati». Prima cosa da fare per le donne? «Vorrei che ogni donna potesse essere libera di istruirsi, di scegliere la propria religione. A proposito di diritti mi viene in mente una canzone di Andrea Satta, che sintetizza: non è un diritto l’amore, “l’importante è lasciarsi bene, molto più che amarsi follemente, pensando al proprio passato insieme come un dono”». Il Tempo delle donne 2022 Leggi qui tutte le protagoniste e tutti i protagonisti della nona edizione del Tempo delle Donne. Qui il programma
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Ha confessato l’omicidio della ex fidanzata, da cui era stato lasciato solo da qualche giorno. “Le ho dato fuoco con un accendino dopo averla cosparsa di alcol mentre era ancora viva”, ha detto agli inquirenti Vincenzo Paduano, 27 anni, fermato all’alba dopo un lungo interrogatorio. Otto ore in cui “messo di fronte all’evidenza dei dati, ha provato a negare anche i dati certi, e poi alla fine ha ammesso di aver ucciso Sara“. È stato quindi l’uomo, guardia giurata, a dare fuoco a Sara Di Pietrantonio, 22enne trovata semicarbonizzata in via della Magliana a Roma. Il corpo era nascosto dietro a un cespuglio, in un parcheggio alla periferia della Capitale. A rendere ancora più disarmante la vicenda sono le dichiarazioni del procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone, che nel corso della conferenza stampa sul fermo di Paduano ha detto: “Se qualcuno si fosse fermato Sara sarebbe ancora viva”. Secondo le ricostruzioni degli investigatori almeno due auto avrebbero visto la ragazza, probabilmente già cosparsa di alcol, chiedere aiuto mentre il suo ex stava dando alle fiamme la sua auto. Ma nessuno si è fermato né ha chiamato le forze dell’ordine. “Ci vuole coraggio da parte dei cittadini – ha aggiunto il capo della squadra mobile di Roma, Luigi Silipo – da parte di chi passa e vede qualcuno in difficoltà, una telefonata al 113 è gratis: se si vedono cose strane è dovere chiamare forze ordine”. La ricostruzione della notte dell’omicidio – Per prima era stata incendiata l’auto della madre sulla quale la ragazza viaggiava: stava tornando a casa dopo una serata trascorsa fuori. Le due si erano sentite intorno alle 3. “Mamma, sto tornando“, le aveva detto al telefono. Poi più nulla: alle 5 del mattino è stato ritrovato il corpo dai vigili del fuoco intervenuti per l’auto in fiamme. Da subito gli inquirenti hanno escluso si trattasse di un incidente. Dopo le prime ore, nelle quali sono stati sentiti parenti e amici della vittima, le indagini si sono concentrate su Paduano che nella notte è stato a lungo interrogato prima del fermo. La procura ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario. La confessione: “Non sopportavo fosse finita” – Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, a inizio serata l’ex fidanzato, indagato anche per stalking, è andato a trovare Sara a casa. I due hanno avuto una “discussione normale”. Poi la studentessa è andata con un’amica in un pub e dopo si è incontrata con il nuovo ragazzo, che frequentava da poco. Secondo le indagini, Paduano ha aspettato Sara sotto casa del nuovo ragazzo e poi, quanto ha visto che arrivava, si è allontanato conoscendo la strada che avrebbe fatto. Ha raggiunto la sua vittima in via della Magliana e l’ha costretta ad accostare. Dopo una lite in macchina, spiegano gli inquirenti, ha cosparso di alcol la Toyota e anche Sara, che però è scesa dalla vettura per mettersi in salvo. Ma lui l’ha inseguita a piedi, le ha dato fuoco quando era ancora viva mentre la ragazza chiedeva disperatamente aiuto. “Un po’ di tempo fa ci eravamo lasciati, ma io non sopportavo che fosse finita. Lei stava con un altro” ha confessato piangendo l’uomo. Al Messaggero la famiglia spiega che la relazione con Paduano – “molto geloso” – era durata due anni, ma che la ragazza, che lo aveva lasciato la settimana scorsa, vedeva già un’altra persona. Sara suonava il flauto traverso e aveva studiato al Conservatorio de L’Aquila. Tra le sue passioni anche la danza, coltivata fin da quando aveva sei anni. Dopo un tentativo fallito di entrare alla facoltà di Medicina e un anno a Chimica, aveva deciso di iscriversi a Economia all’Università di Roma Tre. Era cresciuta con la mamma, che aveva divorziato da suo padre quando la ragazza aveva appena tre anni. Con la figlia, però, era in buoni rapporti. Domani mattina la procura inoltrerà la richiesta di convalida del fermo dell’uomo per omicidio volontario premeditato e stalking. L’interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari potrebbe tenersi già mercoledì. Intanto il pm Maria Gabriella Fazi, titolare dell’inchiesta, ha disposto l’autopsia.
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Una donna è stata sfigurata con l’acido stamani a Genova. E’ accaduto intorno alle 6 nei pressi dell’ospedale Galliera dove la vittima – 46 anni, sposata e con figli – lavora come impiegata di una impresa di pulizie. L’aggressore al momento è sconosciuto. Secondo quanto appreso, ha atteso a volto coperto la donna in strada a fine turno e poi le ha gettato addosso il liquido. La vittima, portata d’urgenza al pronto soccorso dello stesso ospedale, ha ustioni al volto. La vittima è una genovese, che è stata ascoltata dai carabinieri del nucleo radiomobile impegnati nelle ricerche dell’aggressore. La donna è stata intanto trasferita d’urgenza all’Ospedale San Martino, nella clinica oculistica. Dalle prime ricostruzioni è emerso intanto che l’impiegata delle pulizie è stata aggredita all’interno dell’ospedale Galliera, e non in strada come era emerso in un primo momento. Dopo avere richiuso l’armadietto in una sala riservata al personale, si è incamminata verso l’uscita quando è stata affrontata da un uomo. Le sue urla hanno subito fatto accorrere alcune colleghe che hanno tentato di alleviarle il dolore con dell’acqua prima di portarla al pronto soccorso. “Ho sentito delle urla terribili, sono corsa e ho visto la mia collega con la divisa in parte lacerata, e dei segni sulle labbra e sul viso”. E’ la testimonianza di una collega della donna aggredita stamani con dell’acido da un uomo all’interno dell’Ospedale Galliera di Genova. Sulle condizioni della vittima, comunque, i medici del San Martino di Genova manifestano “cauto ottimismo”. Per il momento, la donna non sarà sottoposta ad alcun intervento chirurgico: la sostanza con la quale è stata aggredita ha colpito esternamente la palpebra dell’ occhio destro e la cornea mentre la lesione più importante sembra essere quella delle labbra e dell’epidermide del braccio destro con il quale ha cercato di ripararsi il volto al momento dell’aggressione. La donna resta comunque ricoverata nel reparto di oculistica. Da quanto si apprende, l’aggressore ha agito il volto coperto, non è ancora chiaro se da un passamontagna o da un altro indumento. L’uomo è riuscito a fuggire di corsa lungo i viali interni dell’ospedale, che sorge nel centro di Genova, prima che ai varchi di uscita arrivasse l’allarme delle colleghe della donna. La vittima non è riuscita finora a dare indicazioni precise per l’identificazione. I carabinieri del nucleo radiomobile indagano nella vita sentimentale della donna per cercare di risalire all’aggressore. “Se fosse confermata la pista sentimentale, si tratterebbe dell’ennesimo caso di violenza sulle donne da parte di una persona con cui è intercorsa una relazione . Spesso la volontà di troncare relazioni e rapporti di coppia, genera negli ex partner la ferocia e la volontà persecutoria, per non voler accettare ‘comportamenti insubordinati’ e affermazione dell’autonomia femminile”, ha dichiarato Isabella Rauti, consigliere del ministro dell’Interno per le politiche di Contrasto alla Violenza di Genere, ricordando l’importanza del decreto sul femminicidio approvato dal governo negli scorsi giorni. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando a Vicenza una ragazza di 31 anni era stata ustionata con acido da due uomini incapucciati. Ad aprile, invece, l‘avvocato Lucia Annibali di Pesaro era stata aggredita in casa da un uomo di origini albanesi, complice dell’ex fidanzato Luca Varani.
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Verso La 27enne, madre di una bimba di 4, è stata uccisa a colpi di pistola in strada. Era appena uscita da una pasticceria. L’uomo ha fatto perdere le tracce C’è un indagato per l’omicidio di Giovanna Cantarero, 27 anni, assassinata ieri sera a Lineri, una frazione di Misterbianco, nel Catanese. Dell’uomo si sono perse le tracce. Le indagini dei carabinieri hanno imboccato con decisione la pista del femminicidio. Si concentrano sulla relazione sentimentale della vittima, giovane mamma di una bimba di quattro anni, che poco dopo le 21.30 aveva finito il suo turno di lavoro in un panificio-pasticceria. È uscita dal locale con un’amica in attesa che la mamma venisse a prenderla in macchina. Ed invece è arrivato il suo assassino che da distanza ravvicinata ha sparato una raffica di colpi di pistola. Sono tre quelli che hanno raggiunto la vittima, due le hanno sfigurato il volto. Il corpo della ragazza è crollato sull’asfalto all’incrocio fra le vie Salvador Allende e Alfredo Nobel. Due strade buie, illuminate solo dai fari dell’attività commerciale. La busta con il pane Quando sono arrivati i carabinieri per terra c’era la busta con il pane che la giovane mamma stava portando a casa. Era inzuppato dall’acqua che da ieri cade piovosa sulla Sicilia. L’amica ha raccontato che l’assassino aveva il volto coperto e per questo non è riuscita a vederlo in faccia. Probabilmente c’è anche della reticenza nel suo racconto, dovuta alla paura. Gli investigatori coordinati dal procuratore Carmelo Zuccaro e dal sostituto Valentina Botta hanno interrogato parenti e amici. Per prima cosa hanno escluso la pista della criminalità organizzata, nonostante le modalità dell’agguato. Infine si sono concentrati sul femminicidio e s ull’ex fidanzato, che non è il padre della figlia della vittima. Di lui non c’è traccia. Ed è caccia all’uomo.
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Bisogna "agire sulla prevenzione con tempestività". Perché questo può "salvare delle vite" per davvero. Dopo gli episodi di violenza sulle donne registrati nelle ultime settimane, il ministro Eugenia Roccella ha fatto appello a tutte le forze politiche. Di fronte alla barbarie, serve unità. Lo strumento per rispondere all'urgenza "che ancora una volta e incessantemente le cronache ci propongono" - ha sottolineato l'esponente di governo - "c'è ed è il testo di legge varato dall'esecutivo, che mette in campo strumenti fortemente orientati alla prevenzione". Tale provvedimento, ha argomentato ancora Roccella, "è stato voluto come disegno di legge proprio perché su un tema come questo ci sia la massima condivisione". Femminicidi, il disegno di legge L'unione di intenti, in questo caso, può davvero essere la chiave di volta. Il segno di una politica vicina alle urgenze. Il suddetto disegno di legge è infatti già stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera e ora - ha auspicato Roccella - "siamo certi che ci sarà l'impegno di tutti, senza distinzioni di parte, affinché diventi presto legge dello Stato". Il ministro ha poi elencato all'Ansa le risoluzioni previste dal provvedimento: "il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'uso più stringente dell'ammonimento, il potenziamento del braccialetto elettronico, l'arresto in flagranza differita". E ancora, "la previsione di tempi rapidi e certi per la valutazione del rischio da parte dei magistrati e per l'applicazione delle misure dopo le tante condanne che l'Italia ha ricevuto per ritardi drammatici che sono costati la vita a tante donne". "Spezzare il ciclo di violenza" Si tratta di interventi che - ha proseguito Roccella - "possono risolvere le inadeguatezze delle norme attuali e spezzare il ciclo della violenza prima che sia troppo tardi". Da qui, l'ulteriore appello alla tempestività per salvare vite. Dall'inizio dell'anno, nei primi sette mesi e mezzo del 2023, sono state uccise 75 donne. Anna Scala, 56 anni, è solo l'ultima vittima in ordine di tempo e il suo nome ancora non compare negli algidi elenchi che fotografano il fenomeno. Ieri, 17 agosto, la donna è stata accoltellata a morte a Piano di Sorrento dall'ex compagno, che lei stessa aveva già denunciato due volte per stalking. Nelle scorse ore a Silandro (Bolzano) sono stati celebrati i funerali della 21enne Celine Frei Matzohl, uccisa dal suo ex Omer Cim con nove coltellate. Il suo corpo era stato trovato senza vita in casa dell'uomo, mentre questi tentava di fuggire in Austria. Celine a giugno lo aveva denunciato ai carabinieri dopo essere stata percossa e minacciata e subito era scattato il "codice rosso". Ma non era stato possibile chiedere le misure cautelari perché si trattava di un unico episodio. Anche Mariella Marino, 56 anni, si era rivolta alle autorità dopo le minacce dell'ex marito, che a luglio l'aveva attesa all'uscita di un supermercato e l'aveva rincorsa per poi ucciderla con tre colpi d'arma da fuoco. L'intenzione del governo è quella di fermare il "ciclo di violenza", di intervenire con la legalità per fermare la follia. Prima che sia troppo tardi.
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Omicidio-suicidio in via delle Ande. Una donna di 91 anni, Miranda Pomini, e il figlio di 56 anni, Marco De Marchi, sono stati trovati morti nella loro casa a Milano. Il ritrovamento è avvenuto nel pomeriggio di mercoledì 11 maggio. Madre e figlio vivevano in due piani diversi dello stesso stabile in zona Uruguay. L’uomo è stato trovato in bagno e, sin dall'inizio, i carabinieri hanno avuto pochi dubbi sulla sua morte: si è tolto la vita impiccandosi. L’anziana madre, invece, era sul divano e per le condizioni in cui è stata trovata dovrebbe essere morta per soffocamento: aveva del nastro adesivo su naso e bocca. Secondo quanto è stato ricostruito dai carabinieri, la donna viveva da sola in un appartamento al terzo piano nello stabile di via delle Ande ma, per quanto autosufficiente, era assistita quotidianamente dai due figli che abitavano al piano superiore. Marco De Marchi, probabilmente nel pomeriggio, è sceso nell'appartamento dell'anziana e l'ha uccisa, poi si è tolto la vita impiccandosi in bagno. E' stato l'altro fratello a scoprire la tragedia. Un elemento che è emerso, stando ad alcune testimonianze raccolte dai carabinieri, è il fatto che l'uomo era rimasto molto turbato dalla morte del padre, avvenuta nel 2018 al termine di un calvario per una malattia degenerativa.
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Lucca, ai funerali di Vania tutta la squadra della Lucchese Lucca, i funerali di Vania Vannucchi e il lungo abbraccio della città Chi porta un fiore, chi un palloncino o chi semplicemente indossa qualcosa di rosso, proprio come avevano chiesto le associazioni e i centri contro la violenza sulle donne. Un'intera città si stringe intorno ai familiari di Vania Vannucchi, l'operatrice sociosanitaria data alle fiamme e uccisa martedì 2 agosto. Ai funerali, nella chiesa di San Marco, ci sono i genitori, i figli e l'ex marito della donna. Ma ci sono anche tutti i giocatori della Lucchese calcio, che hanno voluto stare vicini al padre di Vania, Arturo Vannucchi, massaggiatore della squadra LEGGI L'ARTICOLO (Foto Riccardo Sanesi) Pisa, la rosa del governatore Rossi per Vania Una rosa per Vania Vannucchi. Questa mattina il governatore della Toscana Enrico Rossi ha portato un fiore all'obitorio dell'ospdeale Santa Chiara di Pisa in memoria della donna cosparsa di benzina e data alle fiamme martedì 2 agosto, a Lucca. Era stata portata al centro grandi ustionati, all'ospedale Cisanello (Pisa), dove è deceduta la mattina seguente. LUCCA - Le colleghe con le rose rosse in mano, le lacrime di chi l'ha conosciuta, la chiesa di San Marco strapiena di gente. Malgrado il caldo, malgrado agosto. Lucca dice addio a Vania Vannucchi nella chiesa di San Marco, la stessa parrocchia frequentata dalla donna uccisa con la benzina nel piazzale dell'ex ospedale Campo di Marte poco distante da qui. Le donne di varie associazioni e centri antiviolenza avevano chiesto di portare qualcosa di rosso: chi ha portato un fiocco al braccio, chi una cintura, piccoli segnali di solidarietà al dolore, segnali di solidarietà e rabbia verso una fine così tragica, così ingiusta. Un lungo applauso ha accompagnato l'ingresso del feretro in chiesa. A celebrare i funerali l'arcivescovo di Lucca, Italo Castellani: "Bisogna vivere le relazioni quotidiane senza possessione e saper dire no all'odio. Ora" ha detto. Erano presenti i genitori e i figli di Vania, e c'era anche l'ex marito. Tutti i giocatori della Lucchese calcio hanno voluto partecipare per stare vicino al padre di Vania, Alvaro Vannucchi, massaggiatore della squadra.Prima delle esequie è stata organizzata una manifestazione in memoria della donna e in memoria di tutte le altre vittime di femminicidio. Attraverso Facebook donne e uomini si sono dati appuntamento alle 15 al Caffè delle Mura di Lucca. Un minuto di silenzio e poi i palloncini liberati verso il cielo. Gli stessi palloncini che le colleghe e i colleghi che lavoravano con Vania al pronto soccorso di Lucca hanno portato di fronte alla chiesa.Vania sarà sepolta nel cimitero di Lucca. Intanto Pasquale Russo, l'ex collega della donna, accusato di aver ucciso l'operatrice sociosanitaria, resta in carcere . A deciderlo e a convalidare l'arresto, il gip Giuseppe Pezzuti. Russo, che ieri è stato sottoposto all'interrogatorio di garanzia, si è avvalso della facoltà di non rispondere. I legali dell'uomo hanno confermato la richiesta di perizia psichiatrica per il loro assistito. "Ci sono serie perplessità sulla sua capacità di intendere e di volere", ha dichiarato l'avvocato difensore, Gianfelice Cesaretti.Ieri mattina il governatore della Toscana Enrico Rossi ha portato una rosa rossa all'obitorio di Pisa, dove era custodito il corpo di Vania. Sposata, separata, madre di due giovani, una ragazza di 21 anni e un ragazzo di 17, Vania aveva frequentato per un breve periodo Pasquale Russo, come lei dipendente di una cooperativa che lavora in ambito ospedaliero nel trasporto dei farmaci. Lui si era invaghito di lei, ma lei da un anno non ne voleva più sapere. La gelosia di Russo però era, secondo quanto ha ricostruito la polizia e secondo la testimonianze di alcune amiche della vittima, sempre più invadente e sempre più aggressiva.Di fronte all'ennesimo femminicidio, la Regione, proprio ieri, ha deciso di aggiungere altri 200 mila euro ai 250 mila già stanziati per sostenere i servizi e le politiche contro la violenza sulle donne. Di questi, 50 mila saranno destinati alla formazione nelle scuole e gli altri saranno ripartiti tra i centri antiviolenze.
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Sono i 22 anni spezzati di Giulia Cecchettin, accoltellata e uccisa a 150 metri da casa, a Vigonovo, dal fidanzato Filippo Turetta, la sua laurea imminente, la sua voglia di vivere, lo strazio composto del padre e della sorella, un femminicidio che ha devastato l'Italia intera, a rendere quest'anno ancora più intensa la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Con l’avvicinarsi della data ufficiale, il 25 novembre, anche qui, a Torino e in provincia, il calendario con le già tantissime iniziative si arricchisce. Se la Mole Antonelliana sabato 25 si tinge di rosso, a Giaveno da venerdì 24 a domenica 26 saranno illuminate di rosso le fontane delle rotonde del centro e la fontana de Il Mascherone al Municipio. E tornando nel capoluogo, venerdì 24, dalle 15,30 alle 16,30, in via Montebello, le allieve e gli allievi dell’Accademia Cirko Vertigo saranno protagonisti di una performance-parata intitolata “L’amavo troppo e le ho sparato”. E tra le tante chiavi per declinare la manifestazione, sabato 25 alle 14,30, c’è anche quella all'ingresso del Cimitero Parco (via Bertani 80) che propone il reading per ricordare le donne vittime di violenza sepolte nei cimiteri di Torino, proprio di fronte alla panchina rossa a loro dedicata. A Pianezza,dal 23 al 25 novembre tra i vari appuntamenti - film,tavole di confronto e concerti al femminile - va in scena la camminata silenziosa in ricordo delle vittime: partenza sabato 25 alle 18 da via Maiolo 10 per giungere al Municipio. A Torre Pellice, invece, una fiaccolata: partenza venerdì 24 alle 17 da piazza San Martino, arrivo alla Galleria Scroppo dove va in scena "Viola d'amore". Per chi sceglie la musica, all'Educatorio della Provvidenza, corso Trento 13, sabato 25 alle 17 la pianista e compositrice Giuseppina Torre propone “Viaggio nel labirinto del cuore” (ingresso gratuito). Il Club Silencio, invece, dà appuntamento sabato 25 al Museo del Risorgimento: dalle 19 alle 24, all’interno di Palazzo Carignano, si va alla scoperta di storie di donne nel Risorgimento. Il Museo del Risparmio di Intesa Sanpaolo, invece, con gli Stati Generali delle Donne, organizza mercoledì 29 alle 18 un incontro per sensibilizzare sulla violenza economica: si assiste in presenza, al Museo di via San Francesco d’Assisi 8/A, o in modalità online, iscrizioni: [[URL]] Tra le presentazioni librarie, domenica 26 alle 17,30 al Ricetto per l’Arte di Almese, vicolo San Mauro, Enrica Tesio con "I sorrisi non fanno rumore", mentre giovedì 30 alle 18 al Centro delle Donne Laadan, via Vanchiglia 3, si parla di “Papà, ammazzarti avrei dovuto” di Clara Serra: dalla storia una bambina negli Anni Cinquanta, una riflessione della Casa delle Donne sulla violenza in famiglia. Non manca il contributo del teatro. Tra le iniziative a Rivarolo, e i vari spettacoli in cartellone, segnaliamo domenica 26 alle 21 nella Sala Lux-Beppe Bertinetti, via Trieste 43, Davide Giandrini che presenta “Come un fiore raro”, con racconti, canzoni e video intorno alla figura di Mia Martini.
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Il delitto della giovane attrice di film hard, la richiesta della Corte d'Assise. Per il food blogger Davide Fontana l'accusa è omicidio volontario aggravato dalla premeditazione La ricostruzione del pm Secondo la ricostruzione del pm Carlo Alberto Lafiandra è stato un femminicidio pianificato a monte, un delitto per la gelosia e il timore di perdere Carol, la vicina di casa uccisa a Rescaldina, nel Legnanese, il 10 gennaio 2022: una morte crudele, tenuta nascosta al mondo per quasi tre mesi, con un'atroce messinscena in cui l’assassino si era finto per settimane la vittima, rispondendo per lei al telefonino, accampando scuse e viaggi inesistenti per rassicurare sulla sua prolungata assenza amici e parenti. Una finzione agghiacciante: organizzata e attuata, secondo l’analisi del perito dei giudici Mara Bertini, da una persona, l’insospettabile bancario milanese, «lucida e sana di mente».
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Si sono conclusi, nel duomo di Castelfranco Veneto, i funerali di Vanessa Ballan, la 26enne uccisa a Treviso da Bujar Fandaj. Il feretro ha lasciato la chiesa tra gli applausi della gente che è accorsa per l’ultimo saluto alla giovane. Tanta la commozione dei presenti e della famiglia della giovane. Ad accompagnare la bara bianca, il compagno Nicola Scapinello, che ha lasciato la chiesa sorretto da due persone, e i genitori di Vanessa, che l’hanno salutata con un bacio sulla foto e sul feretro. Il Veneto ha proclamato il lutto regionale per tutta la giornata di oggi: disposta l’esposizione a mezz’asta della bandiera della Regione. L'invito agli enti pubblici veneti è di «unirsi nella manifestazione del cordoglio e promuovere occasioni di riflessione in tutte le sedi istituzionali sul tema della violenza di genere». Anche il presidente Luca Zaia, con il Gonfalone della Regione, ha partecipato al funerale, insieme al sottosegretario alla Giustiza, Andrea Ostellari, e a Roberto Ciambetti, presidente del Consiglio regionale veneto. Lutto regionale in Veneto oggi funerali Vanessa Ballan: bandiere listate a Castelfranco Veneto Oltre a Zaia, presenti anche tutti i comuni dell’Ipa Castellana, le vecchie amiche e compagne di scuola di Vanessa e i colleghi dell’Eurospin dove lavorava. Una collega di Vanessa Ballan, fuori dal Duomo, ha raccontato in lacrime: «Era così felice, per tutto, per la famiglia, per il bimbo che aspettava. Lavoravo con lei da due anni, ne abbiamo passate tante. Arrivare a una fine così è il peggio che possa esistere». Di Bujar, il 41enne kosovaro in carcere per l'omicidio, dice: «Lo vedevo, come tanti altri clienti, ma chi poteva dire che avrebbe mai fatto una cosa così? Vanessa con noi non si era confidata, andava avanti col sorriso, mai un segnale di paura. Lui l'ho visto l’ultima volta sabato, la cercava. Avevamo paura, perché si vedeva dalla faccia, è uno di cui non ti fidi già dallo sguardo. Mi chiedo ancora a cosa servano le leggi». L’arrivo al Duomo, la bara bianca e il silenzio della famiglia Tante le persone arrivate sul sagrato della chiesa, dove la bara bianca di Vanessa Ballan, coperta da tulipani e rose bianche, si è fermata qualche minuto a ricevere l'omaggio di amici e parenti, che indossano sui baveri delle giacche un fiocco rosso, simbolo della lotta contro la violenza di genere. Dietro la bara, il compagno Nicola Scapinello, i genitori e gli amici più cari. Prima dell'inizio del funerale, Nicola ha raggiunto il carro funebre e si è avvicinato alla bara, stringendo a sé i genitori di Vanessa. Tutti i partecipanti hanno deciso di rispettare le volontà della famiglia, del compagno in particolare: i familiari hanno infatti scelto il silenzio, di restare defilati e in disparte, durante la cerimonia. Niente spettacolarizzazioni o riflettori: solo un silenzio rispettoso del dolore di un compagno, Nicola, e del suo bambino, Mattia, di soli quattro anni. I familiari hanno comunicato la decisione nei giorni scorsi, tramite il loro legale, dichiarando di voler limitare la presenza di operatori video e fotografi di testate giornalistiche all'interno della chiesa. L’omelia del vescovo di Treviso, Michele Tomasi, ha rievocato il «silenzio dai clamori e dalle curiosità» chiesto dalla famiglia, e la necessità di una società che rifiuti la violenza sulle donne. Pronte le relazioni sul caso Nel frattempo, sono pronte due relazioni, una dei due pm Valmassoi e Sabattini e l’altra del procuratore Marco Martani, per gli uffici di Carlo Nordio: il ministro della Giustizia aveva infatti richiesto chiarimenti sull’operato dei magistrati che hanno seguito il caso della precedente denuncia di Vanessa Ballan, a cui non aveva fatto seguito nessuna misura cautelare. Il pubblico ministero Barbara Sabattini avrebbe infatti ritenuto non urgente l'adozione di provvedimenti di tutela dopo la denuncia, in attesa che arrivassero i tabulati relativi al traffico telefonico intercorso tra Ballan e l'indagato, visto che la donna aveva cancellato dal proprio dispositivo messaggi e chat. Secondo quanto ricostruito dal procuratore trevigiano Marco Martani, il giorno dopo la segnalazione alle forze dell'ordine la casa dell’uomo sarebbe stata perquisita: sequestrati alcuni telefoni cellulari contenenti il materiale video che Fundaj ha usato per ricattare Vanessa. L’analisi dei dispositivi elettronici, però, è arrivata al pm solo due giorni dopo il femminicidio: la valutazione di «non urgenza» del caso, motivata dall’assenza di molestie, di avvicinamenti o minacce dopo la denuncia, si è quindi rivelata inadeguata. La storia interrotta, il ricatto, la denuncia Il flirt tra Vanessa e Bujar era iniziato nel 2021 ed era stato poi interrotto nel 2023 dalla 26enne, legata al compagno Nicola e già madre di un bambino. A quanto pare, anche Nicola conosceva Bujar, ma non sapeva della relazione tra i due: ai suoi occhi, il 41enne kosovaro era solo un amico della compagna, che dava persino una mano andando a prendere il bambino all’asilo. Lo stesso Nicola avrebbe pranzato con Bujar e Vanessa, talvolta, ma questa situazione di precario equilibrio si era stravolta quando lei aveva deciso di interrompere la frequentazione con il 41enne. Da lì, un’escalation di minacce e pesanti ricatti: Fandaj minacciava di rivelare tutto a Nicola, inviandogli alcuni video dei loro incontri intimi, e di mettere a rischio persino l’affidamento del piccolo Mattia. Secondo la denuncia presentata da Vanessa, inoltre, tramite questi ricatti Bujar Fandaj sarebbe anche riuscito ad ottenere da lei altri rapporti sessuali. Fandaj aveva infine rivelato a Nicola quanto successo tra i due la sera prima della denuncia, inviandogli un messaggio e un video, in cui esplicitava la natura della sua relazione con Vanessa. A quel punto, le avrebbe confessato a Nicola di aver avuto una relazione con il 41enne, e che lui l’avrebbe poi ricattata per ottenere altri incontri e rapporti sessuali. Anche in ragione dell’esistenza di materiali intimi registrati, Vanessa e Nicola avrebbero deciso insieme di sporgere denuncia. La Procura ha inoltre deciso di effettuare un test di paternità sul feto: l’ipotesi è che anche l’assassino sapesse che lei era incinta.
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In città un terzo ambiente «confortevole e discreto» riservato alle donne vittime di violenza che vogliono denunciare e ai loro bambini. Al Tribunale di Napoli, invece, inaugurata una panchina rossa nella piazza coperta I carabinieri del Comando Provinciale di Napoli e Soroptimist International Club hanno inaugurato nella caserma Podgora, sede del comando Gruppo carabinieri di Napoli e della compagnia Stella, una nuova «Stanza tutta per sé» dedicata all'accoglienza e all'ascolto delle vittime di violenza di genere, la quarta della provincia dopo quelle di Capodimonte, Caivano ed Ercolano. Presente all'inaugurazione anche il procuratore aggiunto di Napoli, Raffaello Falcone. Si rinnova così l'intesa tra il Comando generale dell'Arma e la presidenza dell'associazione nell'ambito di un Protocollo nazionale sottoscritto il 22 novembre 2019. Cos'è la "Stanza": un ambiente riservato allestito con arredi più accoglienti e caldi, distinti da quelli degli uffici generalmente utilizzati per la raccolta delle denunce. In linea con gli obiettivi del Protocollo, il Soroptimist Club Napoli ha donato gli arredi e i materiali informatici offrendo mobili, illuminazione e altri arredi che richiamano quelli di un ambiente domestico, per favorire l'empatia tra le vittime e gli operatori della sicurezza. Questi progetti si inseriscono nelle iniziative adottate dall'Arma dei Carabinieri, con l'istituzione, a livello nazionale sin dal 2009, di una Sezione Atti Persecutori nell'ambito del Raggruppamento Investigazioni Scientifiche, con la realizzazione di una rete nazionale periferica di personale specializzato nella violenza di genere e con la diffusione di un Prontuario tecnico-operativo che fornisce al personale un riferimento qualificato per la gestione dei casi. La collaborazione comprende anche il «Mobile Angel», lo smartwatch che lo scorso 18 novembre ha concluso con successo il primo anno di sperimentazione garantendo alle vittime un contatto immediato con le Centrali Operative dell'Arma. Nell'occasione, il comandante provinciale dei Carabinieri, generale Enrico Scandone, spiega meglio: «Questo spazio rappresenta un impegno tangibile e umanitario nel contrasto alla violenza di genere. La sua apertura nel cuore di Napoli riflette la nostra volontà di fornire un luogo accogliente e sicuro per le donne vittime di violenza. La "Stanza tutta per sé" è concepita come un rifugio rassicurante, dove le donne possono condividere le proprie esperienze in un ambiente discreto e riservato. Vogliamo creare un legame di fiducia con la collettività, sottolineando che siamo qui non solo per preservare l'ordine, ma anche per difendere i diritti fondamentali e il benessere delle vittime». E la presidente del Soroptimist Club Napoli, Elvira Lenzi, così commenta l'inaugurazione della terza «Stanza tutta per sé» dopo quelle di Capodimonte ed Ercolano, «già da noi realizzate presso le rispettive Caserme con la collaborazione dell'Arma. L'arredo e l'allestimento sono stati curati scegliendo i colori suggeriti dalla cromoterapia, lo stile dei mobili e dei complementi d'arredo è all'insegna di una auspicabile atmosfera di distensione, senza dimenticare di attrezzare anche una parte del locale dedicata ai bambini che spesso si accompagnano alla madre». «Un segnale prezioso che arriva in giorni segnati da tanto dolore ma anche dalla crescita di consapevolezza. Complimenti ai Carabinieri del Comando Provinciale e al Soroptimist International Club Napoli». commenta infine in una nota la senatrice campana del Pd Valeria Valente, componente della Commissione bicamerale sul femminicidio. Sempre oggi, una panchina rossa è stata inaugurata stamani nel Tribunale di Napoli. All'iniziativa promossa nella piazza coperta del Palazzo di Giustizia dall'Adgi, l'Associazione donne giuriste Italia, erano presenti la presidente del tribunale Elisabetta Garzo, quelle degli ordini degli avvocati di Napoli e Benevento, Immacolata Troianiello e Stefania Pavone, Paola Russo della sezione napoletana dell'Adgi, la vicepresidente del Consiglio regionale Loredana Raia e Domenica Lomezzo consigliere di parità della Regione Campania. «Non a caso inauguriamo questa panchina all'interno del Tribunale - ha detto Troianiello - perché questo è il luogo frequentato tutti i giorni da avvocati e magistrati: siamo noi il primo baluardo a cui si rivolgono le vittime e siamo noi che dobbiamo indicare la via che porta alla giustizia e all'abbattimento di ciò che non deve esistere». La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici [[URL]]
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È stato fermato Fandaj Bujar, 41enne di origini kosovare, sospettato della morte di Vanessa Ballan, 26 anni, incinta del secondo figlio. La donna, stando ai primi esami condotti dal medico legale, è stata uccisa con numerose coltellate al torace. Lo scorso mese di ottobre, la vittima aveva denunciato per stalking Bujar. Da quella denuncia erano partiti gli accertamenti da parte dell'autorità giudiziaria. Il presunto killer era un cliente del supermercato, l'Eurospin, nel quale Vanessa Ballan aveva lavorato fino a qualche tempo fa quando, proprio perché in attesa da poco del secondo figlio, era andata in maternità. Su Facebook, in mattinata, l'uomo ha postato una storia nella quale viene ritratta un'autostrada. Dalle indicazioni, l'uomo sembra al confine tra Italia e Slovenia. Vanessa Ballan lascia un bambino di 4 anni e un compagno, Nicola Scapinello, con il quale aveva una storia che andava avanti da 11 anni. È stato lui a provare a rianimarla, quando, sotto shock ha trovato il corpo agonizzante della 27enne sull'uscio di casa. Ad allertare il 118, un vicino di casa, poi lo stesso Scapinello. I soccorsi, giunti sul luogo del delitto, in via Fornasette, frazione Spineda di Riese Pio X, hanno potuto solo constatare il decesso della donna. I carabinieri di Treviso hanno ascoltato Scapinella che è stato condotto in caserma, in stato di shock, mentre il loro bimbo di 4 anni era ancora all'asilo. La caccia al killer è iniziata subito in tutta la zona circostante, anche con l'ausilio di un elicottero dei carabinieri arrivato da Bolzano. Le indagini, coordinate dal pm Michele Permunian, e condotte dai carabinieri del Comando provinciale di Treviso, guidati dal colonnello Massimo Ribaudo, proseguono senza sosta anche per comprendere il movente alla base dell'omicidio di vanessa Ballan. I primi esami autoptici, condotti dal medico medico legale Antonello Cirnelli, nominato dalla e il colonnello Massimo Ribaudo, comandante provinciale dei carabinieri di Treviso. ⚫️⚫️⚫️ In provincia di Treviso, a Riese Pio X, una ragazza è stata accoltellata e uccisa sulla porta di casa. La vittima è Vanessa Ballan, una giovane donna di 26 anni. L’omicida l’ha colpita con un coltello: è ricercato dai Carabinieri. NOTIZIA IN AGGIORNAMENTO pic.twitter.com/Tn3vYL5s86 — Luca Zaia (@zaiapresidente) December 19, 2023 «Sono sconvolto. Tutta la comunità lo è. Speriamo che al più presto si faccia chiarezza», ha detto Matteo Guidolin, sindaco di Riese Pio X, commuovendosi davanti all'abitazione dove è avvenuto il delitto. «È l'ora del silenzio – ha aggiunto monsignor Giorgio Piva, il parroco di Riese, al Corriere del Veneto – Una vita spezzata che lascia una bimba di solo 4 anni».
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BIELLA. Ci sono rabbia e sconcerto nelle parole di Tiziana Suman, la madre di Erika Preti, alla notizia che Dimitri Fricano, l’assassino della figlia, è stato trasferito agli arresti domiciliari per motivi di salute. Questo anche per il modo in cui la notizia è arrivata, all’improvviso. «Ero al lavoro, con il telefono spento e non ho saputo nulla fin quando non sono rientrata a casa». Ad annunciargliela un messaggio whatsapp da La Stampa. Prima risponde con un altro messaggio: «Sono rimasta senza parole e non riesco a esprimere il mio disgusto e il mio senso di ingiustizia». Poi chiama, un po’ per saperne di più oltre che probabilmente per sfogarsi. «All’inizio non capivo, mi sembrava impossibile che avessero preso un simile decisione senza dirci niente, mi sembra una cosa assurda». Sua figlia Erika è stata uccisa nell’estate del 2017 dal fidanzato con cui era in vacanza a casa di amici a San Teodoro, in Sardegna. Il corpo della ragazza è stato straziato da 57 coltellate e Fricano aveva continuato a colpirla anche quando era già a terra. Un femminicidio terribile, che l’uomo aveva cercato di mascherare denunciando l’aggressione da parte di uno sconosciuto, versione che aveva sostenuto per un mese prima di confessare. È stato condannato a trent’anni in via definitiva. Il trasferimento di Dimitri Fricano, trentacinque anni, nella sua casa di Biella, deciso dal Tribunale di Sorveglianza, è avvenuto martedì su richiesta dell’amministrazione penitenziaria, vista l’impossibilità di gestirne i problemi di salute all’interno della struttura carceraria. Fin dall’inizio, quando era ancora a Ivrea, Fricano aveva avuto problemi ad adattarsi alla vita da recluso, sia per problemi con gli altri detenuti, visto il delitto per cui era stato condannato, che per la cura a base di psicofarmaci a cui era sottoposto ancora prima di essere arrestato. Problemi che sarebbero aumentati dopo il trasferimento a Torino. Si tratta sempre di un disturbo psichiatrico di tipo depressivo. Negli ultimi mesi, trapela dal carcere, avrebbe iniziato a non lavarsi e a rifiutarsi di uscire dalla cella, peggiorando quindi i rapporti con gli altri detenuti. Sarebbe inoltre aumentato di peso fino a sfiorare i 200 chili, sviluppando una forte dipendenza per le sigarette, oltre a presentare episodi ricorrenti di epilessia. Il provvedimento ha la durata di un anno, dopo il quale verrà sottoposto a una nuova visita, nel corso della quale si deciderà se prorogare i domiciliari o farlo rientrare in carcere. Il suo rientro a casa ha reso più dolorosa la ferita per la morte della figlia che in Tiziana Suman non si è mai rimarginata. «Già l’anno scorso era stato contattato il nostro legale, ci avevano chiesto se eravamo d’accordo nel concedere gli arresti domiciliari a Dimitri. Subito abbiamo detto di no, quello che ha fatto è troppo grave e non mi rassegno all’idea che sia già tornato a casa, con sua madre che lo accudisce». Anche con la famiglia Fricano i rapporti si sono deteriorati fin dai tempi del processo che li ha visti su posizioni opposte. «Sui suoi è meglio che non parli». La voglia adesso è soprattutto di capire come possa essere successo che, dopo sei anni, chi ha ucciso sua figlia sia uscito dal carcere, pur restando ai domiciliari, e di dar sfogo a un malessere che gli anni passati da quella tragica estate non sembrano aver attenuato. Tanto che la donna si lascia andare anche a dichiarazioni forti: «Sta male? Spero di poter vedere il suo manifesto funebre. Mi verrebbe voglia di andare ad aspettarlo fuori da casa sua, poi naturalmente non lo farò ma è stato davvero un colpo sapere tutto senza che a noi o al nostro avvocato venisse comunicato in anticipo, senza che neppure ci abbiano chiesto cosa ne pensassimo. Che giustizia è questa? Già ero certa che non avrebbe passato in carcere tutti i trent’anni della condanna, ma non pensavo che potessero farlo uscire così presto». Anche nel suo caso, come per il marito Fabrizio Preti, apprendere la notizia della scarcerazione dell’assassino di loro figlia è stato «come ricevere una coltellata, il dolore per la morte di Erika è vivo oggi come sei anni fa e non se ne andrà mai». — © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Sono in arrivo a Vicenza, dopo il doppio femminicidio compiuto da Zlatan Vasiljevic che ha ucciso la sua ex moglie e la sua fidanzata, gli ispettori inviati dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Gli ispettori avranno il compito di visionare nei dettagli l'intero iter giudiziario del pluriomicida, che il 9 giugno ha sparato all'ex moglie Lidia Miljkovic e a quella che per qualche mese era stata la sua nuova compagna, Gabriela Serrano, prima di togliersi la vita in un'auto sulla tangenziale ovest di Vicenza. In particolare gli ispettori dovranno ricostruire il percorso nelle aule di giustizia dell'uomo di origine serba per capire se vi siano state negligenze nella valutazione del suo profilo personale e delle sue responsabilità. Ulteriori aspetti, utili anche agli investigatori, emergeranno dagli esami autoptici, all'ospedale di Vicenza. Dopo l'autopsia sul corpo delle due donne, sarà concesso il nulla osta per la sepoltura. I funerali si dovrebbero tenere tra mercoledì e giovedì in luoghi distinti: quello di Lidia Miljkovic a Vicenza (nella chiesa serbo-ortodossa, a ridosso del centro storico, che la vittima frequentava) mentre quello di Gabriela Serrano è previsto a Rubano (Padova), paese dove abitava. Nel giorno dei funerali sarà lutto cittadino a Schio dove Lidia risiedeva da qualche tempo, mentre a Vicenza per martedì sera è stato convocato un consiglio comunale straordinario sul tema dei femminicidi. Secondo quanto trapela, la salma di Vasiljevic dovrebbe essere rimpatriata in tempi brevi in Serbia, dove vivono attualmente la mamma e altri parenti. Anche in questo caso tutto potrà avvenire quando sarà concesso il nulla osta per la sepoltura.
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Investigatori al lavoro, foto Riccardo Siano (siano) Il palazzo dove è avvenuta la tragedia, foto Riccardo Siano (siano) Una donna di 33 anni è stata uccisa nel Napoletano, a Melito di Napoli. Il marito della donna ha chiamato il suo avvocato e si è costituito. Davanti agli investigatori ha confessato il delitto.Nella mattinata i carabinieri sono intervenuti d'urgenza in via Papa Giovanni XXIII per segnalazione al 112 di colpi d'arma da fuoco.Una volta sul posto hanno accertato che al quinto piano della palazzina al civico 49 era deceduta all'interno della propria abitazione una 33enne del luogo incensurata, con due figli, una ragazzina di 14 anni ed un maschio di sette anni.La donna viveva in un complesso di edilizia popolare della zona di via papa Giovanni non lontano dal centro storico di Melito di Napoli.Il marito della donna è andato nel primo pomeriggio con il suo legale negli uffici della Squadra mobile della questura di Napoli. Gli investigatori stanno sentendo l'uomo per ricostruire l'esatta dinamica dell'accaduto. L'assassino ha precedenti per camorra, era affiliato al clan Di Lauro
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TRENTO. Si chiamava Maria Antonietta Panico la donna trovata morta da almeno due giorni, riversa nel letto macchiato di sangue, nel suo appartamento di via Vicenza a Trento. Avrebbe compiuto 43 anni tra 4 giorni. A scoprire il corpo della donna, stamattina attorno alle 11, l'ex marito: è stato lui a dare l'allarme al numero unico per le emergenze. La donna nel 2018 si era candidata alle provinciali nella lista che ha portato all'elezione del governatore Maurizio Fugatti. Nel 2020 aveva poi tentato di entrare in consiglio comunale con la lista civica che sosteneva Andrea Merler, candidato sindaco di centrodestra. La scientifica sta passando al setaccio l'appartamento alla ricerca di elementi biologici utili alle indagini. Al lavoro i carabinieri e la pm Patrizia Foiera, che sta coordinando le indagini, che non escludono il femminicidio. Gli inquirenti stanno ora interrogando l’ex marito. Si cerca l’ultimo ex compagno Aveva il divieto di avvicinamento e attualmente non è stato ancora rintracciato dai carabinieri di Trento, l'ex compagno di Maria Antonietta Panico. Lo si apprende da fonti investigative. Sul corpo della donna, il cui cadavere è stato scoperto dall'ex marito, allertato dalla figlia 16enne che non riusciva a mettersi in contatto con la madre, non ci sarebbero evidenti ferite da arma da taglio. Il medico legale si è riservato di chiarire le cause del decesso solo dopo l'autopsia. Intanto la pm Patrizia Foiera, che coordina le indagini dei carabinieri che stanno esaminando i tabulati per verificare se ci sono messaggi o telefonate di interesse investigativo, ha sentito persone informate sui fatti e parenti. Da quanto si apprende la donna in alcune occasioni si era recata al pronto soccorso per «contusioni facciali». Per il momento la procura non esclude nessuna pista, femminicidio compreso.
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I giardini di piazza Monte Grappa, non distante da via Poma, dedicati alla segretaria assassinata nell’estate 1990 da mano ancora ignota. Nella targa sarà scritto: «Vittima di femminicidio» A oltre 30 anni dalla sua morte Roma ricorderà Simonetta Cesaroni dedicandole un’area pubblica. Una delle tre aree verdi che la Giunta capitolina ha deciso oggi di intitolare ad altrettante personalità che a diverso titolo hanno segnato la vita della città è dedicata a lei, la segretaria uccisa nell’agosto del 1990 da una mano assassina rimasta ancora sconosciuta. Prenderanno infatti il nome di «Simonetta Cesaroni, vittima di femminicidio» i giardini di piazza Monte Grappa, di fronte al ponte del Risorgimento, nel quartiere Della Vittoria, non lontano da via Carlo Poma, dove avvenne l’omicidio. «Molto presto, avremo finalmente un’area pubblica dedicata alla memoria di Simonetta Cesaroni – ha dichiarato l’assessore Gotor, che ha portato la delibera all’attenzione della Giunta Capitolina – la cui morte violenta nell’agosto del 1990, a poco più di vent’anni, a tutt’oggi ufficialmente senza colpevoli, ha segnato profondamente Roma. Un caso di femminicidio brutale che è una ferita ancora aperta per la nostra città». Le altre due aree interessate dal provvedimento sono il parco pubblico di via Gregorio XI, nel quartiere Aurelio, che avrà il nome di Umberto Lenzini, presidente della Lazio dello scudetto del 1974, mentre all’allenatore della Roma dello scudetto del 1983, Nils Liedholm, verranno intitolati i giardini di via Gustavo d’Arpe, a Trigoria.
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L'arringa dell'avvocato Claudio Strata in Corte d'assise d'appello: «Ha agito per istinto di sopravvivenza, per evitare l'ennesima strage familiare». La sentenza il 4 maggio Alex con la mamma dopo l'assoluzione di primo grado «Vi consegno Alex e chiedo a questa Corte di decidere, di farlo con il cuore e non solo con la mente. Ognuno con la propria coscienza». Sceglie queste parole l’avvocato Claudio Strada per chiudere la lunga arringa in difesa di Alex Cotoia (il giovane ha abbandonato il cognome del padre per prendere quello della mamma). Sono parole che vanno dritte al punto e che rimarcano quanto già detto dal pubblico ministero Alessandro Aghemo prima di chiedere una condanna a 14 anni: «È un caso che scuote le coscienze». In primo grado era arrivata un’assoluzione. Trentasei coltellate Il 30 aprile 2020 Alex ha ucciso il padre Giuseppe Pompa, 52 anni, sferrando 36 colpi con sei coltelli differenti. Il fatto è incontrovertibile e lui non ha mai negato la propria responsabilità, fin dalla telefonata che fece al 112 per chiamare i soccorsi: «Voleva uccidere mia madre, me e mio fratello. C’è stata una colluttazione, penso di averlo ucciso». Per il legale bisogna partire da questa frase per riuscire a entrare nella testa di questo giovane — all’epoca poco più che 18enne — costretto «a crescere in fretta» per trasformarsi «in scudo umano» e difendere la madre, costantemente vessata da un marito violento e ossessionato dalla gelosia. gli audio choc I 250 audio registrati da Alex e dal fratello maggiore Loris durante le sfuriate del genitore raccontano il clima di violenza e prevaricazione che per anni ha permeato la quotidianità di questa famiglia. «In tutto questo tempo — insiste il legale —, Alex ha sempre avuto un atteggiamento difensivo, ha agito sempre con l’intento di placare gli animi, di annientate il pericolo. Anche quando ha ucciso, l’intento era distruggere il pericolo». La sera del delitto, secondo il legale, Alex ha agito per istinto di sopravvivenza: «Questo ragazzo non deve farvi pena, ma dovete guardare con i suoi occhi. Solo così è possibile rendersi conto che è stata legittima difesa». E ancora: «Il padre era una furia, non riuscivano a contenerlo. C’era una situazione di pericolo permanente che in un qualsiasi momento poteva sfociare in tragedia: in un femminicidio». la richiesta di assoluzione Per rimarcare il concetto, Strata legge in aula i nomi di donne e figli vittime di 55 stragi familiari: «In Italia ce n’è una ogni 72 ore, con donne assassinate dal marito o dal compagno. Un ragazzo è morto per non avere avuto la stessa prontezza di Alex. Vicende tremende che sono sovrapponibili a quella dei Pompa». Da qui la richiesta di assoluzione per legittima difesa: «Alex non avrebbe mai voluto uccidere. Ed è lui stesso a dirvelo quando riemerge dall’abisso in cui era sprofondato: “Avrei preferito morire io”». Il legale, che assiste il giovane insieme con la collega Giancarla Bissattini, spiega in ultimo alla Corte d’assise d’appello di valutare eventualmente l’eccesso colposo di legittima difesa o lo stato di necessità. Infine, fa propria anche l’analisi già avanzata dalla Procura di sollevare la questione di legittimità costituzionale per potere, in caso di condanna, applicare ad Alex il più ampio spettro di attenuanti. La sentenza è attesa per il 4 maggio. Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
focus killer
Non sono 30 – come ricostruito in un primo momento – ma ben 115 le coltellate che hanno ucciso Clara Ceccarelli, commerciante 69enne assassinata il 19 febbraio nel suo negozio di pantofole in via Colombo, nel pieno centro di Genova. È il risultato dell’autopsia eseguita lunedì dal medico legale Lucrezia Mazzarella. Non solo, ma a quanto si apprende quasi tutti i colpi sferrati dall’ex compagno Renato Scapusi – che ha confessato nelle ore successive al delitto – non hanno colpito organi vitali, con la conseguenza che la vittima è morta solo dopo un lento dissanguamento: pare addirittura fosse ancora cosciente all’arrivo dei primi soccorsi, e abbia seguito, per qualche minuto, con gli occhi la scena di fronte a sé. Il reo confesso, 60 anni, ex installatore di parquet affetto da disturbo bipolare e borderline di personalità, è accusato dal pm Giovanni Arena di omicidio volontario con le aggravanti della premeditazione, dell’efferatezza e del passato legame affettivo con la vittima. Lunedì il magistrato ha affidato una consulenza tecnica psichiatrica al perito forense Gabriele Rocca, chiedendo di stabilire se Scapusi fosse o meno capace di intendere e volere al momento del gesto. Lo specialista si è riservato trenta giorni per rispondere e martedì ha incontrato l’omicida in carcere per il primo colloquio. Ed è proprio sulla perizia psichiatrica che punta la difesa – rappresentata dall’avvocato Stefano Bertone – per evitare l’ergastolo, pena prevista dal codice per l’omicidio aggravato. “Abbiamo totale fiducia nel consulente del pm, tanto da non averne indicato uno nostro”, dice il legale al fattoquotidiano.it, “ma è chiaro che Scapusi è un uomo affetto da problemi psichici diagnosticati, che lo hanno portato a un ricovero in ospedale nelle ore precedenti al delitto. Perché sia stato fatto uscire, e se in questo sia individuabile una responsabilità, è un aspetto su cui la procura dovrà far luce”. Due giorni prima dell’omicidio, infatti, l’ex artigiano aveva minacciato di buttarsi giù dalla scala antincendio di un istituto scolastico nel quartiere di Sturla, su cui si era arrampicato. Agli agenti accorsi sul posto aveva detto di volersi suicidare per il lavoro perso e i pesanti debiti da gioco. Ricoverato in psichiatria al Policlinico San Martino nella serata di mercoledì, era stato trasferito all’ospedale Galliera e dimesso dopo due giorni. “È estremamente confuso e da ciò che ha dichiarato mi pare difficile ipotizzare la premeditazione del delitto, in particolare se la consulenza dovesse riscontrare un vizio di mente anche parziale”, dice l’avvocato. Al tema della premeditazione si lega quello dell’arma del delitto, ancora non rinvenuta. Nell’interrogatorio di garanzia Scapusi ha sostenuto che il coltello si trovasse già nel negozio: durante una colluttazione, dice, lo ha strappato dalle mani di Clara per ucciderla, dopodiché non ricorda nulla di che fine abbia fatto. La versione non convince gli inquirenti, perché – trapela dalla Procura – in un primo momento l’indagato ha invece ammesso di aver portato l’arma da casa, correggendosi nelle risposte alle domande successive. Se si dimostrasse che l’ex compagno aveva con sé il coltello al proprio arrivo, diverrebbe difficile sostenere la tesi di un omicidio d’impeto. Tra i testimoni ascoltati dalla Squadra Mobile c’è però un negoziante di via Colombo che ha raccontato di un proprio coltello scomparso: non è escluso che Scapusi se ne sia impossessato con un blitz, per quanto l’ipotesi sia difficile da verificare. Nel frattempo l’amministrazione comunale, tramite la partecipata ai servizi funebri Asef, si è offerta di sostenere le spese del funerale di Clara, quello che lei stessa – secondo la testimonianza del suo commesso – si era pagata nell’ultimo periodo, forse temendo ciò che poi le è accaduto. Martedì mattina, in apertura del consiglio regionale, i consiglieri leghisti Mabel Riolfo e Brunello Brunetto hanno posizionato sui proprio scranni un paio di scarpe rosse per sensibilizzare sul tema del femminicidio, con un ordine del giorno sul tema è stato approvato all’unanimità. Il sindaco di Genova Marco Bucci, da parte sua, ha raccolto l’appello di decine di amici della donna uccisa assicurando sostegno al figlio Mauro, affetto da disabilità intellettiva: “Non sarà lasciato solo. Le strutture del Comune di Genova insieme al servizio sanitario hanno individuato diverse soluzioni per fare in modo che Mauro possa godere del sostegno adeguato, le giuste tutele e l’aiuto morale e materiale di cui avrà necessità”, ha scritto sui social.
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Una testimonianza importantissima è attesa il prossimo 27 ottobre. Si tratta del fratello di Saman Abbas, la 18enne pakistana eliminata secondo i pm dalla famiglia, perché si opponeva a un matrimonio combinato. E proprio a pochi giorni dall’audizione davanti ai giudici della Corte d’assise. La Procura di Reggio Emilia indaga su pressioni e minacce dal Pakistan sul ragazzo testimone chiave dell’accusa contro i familiari imputati, affinché ritratti le dichiarazioni fatte o eviti di testimoniare in processo. Il procuratore Gaetano Calogero Paci ha aperto un fascicolo contro ignoti e i carabinieri hanno acquisito copia di messaggi, forniti dallo stesso giovane. Dagli accertamenti emerge che ha mantenuto contatti con la madre e con familiari in Pakistan che, soprattutto quando c’è stata l’estradizione del padre, hanno portato avanti le pressioni. Il ragazzo, nel frattempo divenuto maggiorenne, con le sue parole inchioda i cinque familiari imputati, in particolare lo zio Danish Hasnain, accusandoli di aver ucciso la 18enne di Novellara, la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021. Intercettato nei giorni successivi alla scomparsa della ragazza (poi ritrovata sepolta in un casolare vicino a casa un anno e mezzo dopo) diceva quello che aveva già riferito ai carabinieri e che avrebbe ripetuto in incidente probatorio. In una telefonata del 28 maggio, con una zia, il ragazzo affermò: “Da oggi non parlerò più con tuo fratello Danish e non parlerò nemmeno con quel cane che ha i baffi e più nemmeno con Irfan, non parlerò più neanche con gli altri due che stanno con loro perché ha fatto tutto lo zio, ha fatto tutto lo zio“. La zia rispose: “Stai zitto”. Ma il giovane proseguì: “Sì ma io a questi qui gli darò una lezione che si ricorderanno tutta la vita. Se non è rimasta viva mia sorella, allora neanche loro hanno diritto di vivere. O mi ucciderò oppure farò qualcosa a questi“. In un’altra conversazione, del giorno prima, sempre il fratello parlava con una conoscente del tema: “Mio zio ha ucciso una persona, capito?”. “In Pakistan?”, domandò lei. Risposta: “Novellara”. Le trascrizioni dei dialoghi, depositate nei giorni scorsi agli atti del processo in Corte di assise a carico del padre, Shabbar Abbas, della madre, Nazia Shaheen (ancora irreperibile), dello zio Danish e dei cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, restituiscono anche la sofferenza e la disperazione del ragazzo, all’epoca sedicenne. Come il 5 giugno, parlando con la madre, fuggita in Pakistan: “Vanno all’inferno tutti, se non c’è più la mia sorella allora non c’è più nessuno. Stai in silenzio“. In un’altra telefonata, del 14 giugno, il padre invece sembra tentare di convincere il figlio ad addossare la colpa ad un altro parente, diverso dai cinque imputati: “Tu – rivolto al ragazzo – devi dire che Danish e gli altri non hanno nessuna colpa, lui (l’altro parente, ndr) è venuto a casa nostra e ha detto che ci penso io ad ammazzarla, tu così devi dire… adesso dobbiamo incastrare a questo qui”. Il giorno, dopo la madre sembra invece provare a dire al ragazzo che Saman non era morta: “Ascoltami, la tua sorella è qui. Dio farà il bene e verrà ritrovata anche lei. Lei tornerà”. Ma il ragazzo: “Se non c’è più la mia sorella non dovrò vivere nemmeno io… Lei non c’è, non dire le cose sbagliate”.
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Sottrarsi all’odio. Nella complessità degli scenari mondiali che caratterizzano il presente, la battaglia e lo sforzo intellettuale da compiere secondo la giornalista Lucia Annunziata è “non cadere nei cliché dell’odio”. Il dialogo su “Italia, occidente, guerre” con l’editorialista di Repubblica Massimo Giannini, all’Arena Repubblica Robinson alla fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi, è iniziato parlando delle donne vittime di violenza e torture da parte di Hamas il 7 ottobre. Un odio estremo di cui però non si parla abbastanza: “Non c'è una ragione al mondo per cui non si debba e non si possa protestare considerando anche lo stupro, la decapitazione e la mutilazione delle donne israeliane, come un femminicidio di massa”. Per Lucia Annunziata si tratta di un silenzio “tra il cauto e l’opportunista”, perché “non si può non accettare, anche se si sostiene la causa palestinese, che le donne israeliane sono state anche loro vittime”. Alla domanda di Giannini sul perché questo silenzio venga soprattutto da sinistra, Annunziata ha risposto spiegando che “quello che sta succedendo oggi ha a che fare con 10 anni se non 15 di distruzione di ogni possibilità di pace in medioriente per via del premier israeliano Netanyahu. Nei territori palestinesi non c'è più lo spazio. I coloni hanno reso impossibile avere uno stato, ma anche il passaggio tra un paese palestinese e l'altro. Questo all'esterno si sente moltissimo”. Il che però non giustifica l’odio: “Se l'antisemitismo dipende dalle circostanze vuol dire che abbiamo un problema - continua Annunziata - Una vittima è una vittima. Se invece si comincia a dire che le vittime sono solo da una parte facciamo un'operazione per cui sdoganiamo l'odio”. Non aiuta il fatto che “il dibattito italiano è intossicato da un'urgenza di spaccare il fronte" ha aggiunto Giannini, secondo cui però “non si può non notare la reazione spropositata di Israele”. La questione mediorentale, dopo l’11 settembre e la guerra della Russia in Ucraina, è l’ultimo tassello di un cambiamento globale che “rende marginale l’occidente”, continua Giannini secondo cui “l’America non è più il gendarme del mondo”. Palla passata e schiacciata da Lucia Annunziata: "Lo schema che abbiamo in mente per cui esistono due grandi potenze una a Ovest e uno a Est è superato. Stanno diventando importanti soprattutto gli Stati del Sud del mondo e quindi Africa, Cina, Sud America, India, per ciò che aggiungono al mercato globale”, mentre il medioriente è ancora il cuore della produzione globale di petrolio. Ed ecco che torna il tema dell’odio, anticipato dalla paura. “Dell’instabilità energetica, della ‘congiura pluto giudaico massonica’, dei terroristi islamici, paure - conclude Giannini - su cui il populismo imprime la sua leva ideologica, convertendola in odio”. Così, mentre l’editorialista ricorda che il generale Vannacci “rivendica il suo diritto all’odio”, è proprio da questo sentimento che ora più che mai, conclude Annunziata, “bisogna sottrarsi”.
focus victim
Anche se ha confessato di aver ucciso Giulia Tramontano, la 29enne da cui aspettava un figlio, le indagini su Alessandro Impagnatiello proseguono. I carabinieri, coordinati dalla procura di Milano, intendono chiarire se il 30enne abbia agito da solo. L’avvocato Sebastiano Sartori, che lo ha incontrato nel carcere di San Vittore e che lunedì pomeriggio ha rinunciato al mandato, ha ribadito che l’indagato ha detto di aver fatto tutto da solo. “Lui lo esclude – ha detto Sartori alla Rai -. I dubbi degli investigatori, dovete chiederli a loro”. E il coltello utilizzato per colpire la fidanzata alla gola “non l’ha buttato. Ha detto specificatamente dove sia” . Per il legale è da valutare la sfera psicologica”. Il 30enne, definito “un narcisista manipolatore” dagli inquirenti, è apparso lucido e freddo durante la confessione. “Penso che lo abbiano visto anche i muri” ha detto ai microfoni della Rai il legale. “È sempre più lucido e ha preso coscienza” ha detto il legale che risponde “ma certo” alla domanda se abbia avuto un pensiero per Giulia. Sartori ha nel pomeriggio depositato l’atto di rinuncia in Procura a Milano spiegando che “è stata una questione fra me e il mio assistito” senza aggiungere altro. Alessandro Impagnatiello è in uno stato “di angoscia, che sta venendo fuori sempre di più” lo ha detto l’avvocato che stamattina ha fatto visita a San Vittore all’uomo in carcere. La famiglia della 29enne fin da subito ha temuto che fosse morta, “in quanto era difficile pensare che la loro figlia in attesa di un bimbo, nonostante il naufragio della relazione sentimentale, si fosse volontariamente allontanata da casa” ha spiegato all’Ansa Giovanni Cacciapuoti, l’avvocato del Foro di Napoli Nord nominato dai genitori di Giulia per gli accertamenti irripetibili disposti, ossia i rilievi scientifici di domani nella casa dove la giovane è stata uccisa da Alessandro Impagnatiello e l’autopsia di venerdì. Il legale ha spiegato che non hanno nominato alcun consulente di parte, “ci affidiamo a quelli del pm“. L’esame sul corpo della vittima è stato fissato per venerdì. Impagnatiello ha accoltellato la compagna tra le 19 circa e le 21 sabato 27 maggio e poi per due volte ha cercato di bruciare il corpo di cui poi si è sbarazzato gettandolo tra le sterpaglie nei pressi di alcuni box non molto lontano dalla loro abitazione a Senago (Milano). Per domani invece è previsto l’accesso all’appartamento in cui è avvenuto il delitto e al garage in cui è stato nascosto il corpo per i rilievi scientifici.
focus killer
Alessandra Carnaroli debutta nella narrativa con ‘La furia’: «Le protagoniste sono madri e figlie che si partoriscono a vicenda. Ho tre ossessioni e tre figli: anch’io ho vissuto la paura di non farcela» Dice che non serve/ Farsi chiamare architetta o avvocata/ Basta lavorare/ Prendiamo il nome dei maschi/ Come spose». «Dopo l’orsa/ Uccidiamo la pressa/ Che ha schiacciato l’operaia/ O il muletto/ Che già fa più bestia». «L’Italia è una repubblica/ Fondata sul lavoro/ Delle donne/ Che stanno a casa». Alessandra Carnaroli - classe 1979, poetessa marchigiana ora al debutto nella narrativa con La furia , Solferino, nella collana I pavoni diretta da Teresa Ciabatti -ha due ossessioni: la prima per la cronaca, per lo scrivere del qui e ora, aderire con voce bassa alla terra, ai corpi, ai fatti mentre si svolgono; la seconda per il racconto del quotidiano in presa diretta, senza filtri né mediazioni. Un esempio è il suo lavoro su Instagram, dove ha postato, fra le molte altre, le tre brevi composizioni poetiche che aprono questa intervista. «Lavoro sulle notizie che mi risuonano dentro producendo un rumore che mi spinge a scrivere», dice. «La mia necessità non è raccontare il mio punto di vita, ma quello della persona comune, la sua reazione di pancia, dettata dalla paura, dall’istinto di autodifesa». Per poi ribaltarla, con un effetto a volte ironico, sempre disturbante. Il passaggio dalla poesia alla narrativa com’è stato? « La furia ha avuto una gestazione molto lunga: la prima parte, composta da 27 racconti che hanno per protagonista Miranda (che può essere una donna sola o ventisette donne diverse) ho cominciato a scriverla una decina di anni fa, poi è rimasta lì, a decantare. La parte finale, invece, è frutto degli ultimi due anni. Passare dalla brevità della poesia a un respiro più ampio non è stato né semplice, né indolore». Non è narrativa pura, La furia è scritto con un linguaggio ibrido, che conserva molto della poesia. Se si andasse più spesso a capo, molti passaggi sembrerebbero versi: «Le mie figlie mi mangiano/ invece delle carezze mi danno i morsi/ usano la voce come un cucchiaino/ per scavarmi la fossa nel gelato». «Il ritmo e la musicalità della poesia restano, mi porto dietro un percorso di vent’anni, impossibile staccarmi completamente. Ha ragione quando dice che è un ibrido, lo stare con i piedi in due staffe, saltellare di qua e di là». Dove porta questo saltellare? «Mi dà la possibilità di esser immediata, anche nel senso di non-mediata. La poesia l’ho sempre intesa come la ricerca della voce comune, molto bassa, piana, concreta, che ci abita. Nella prosa ho dovuto fare uno sforzo in più, ma il linguaggio ibrido mi ha permesso di conservare quella voce. Ci sono tantissimi riferimenti a prodotti, marchi, oggetti, parti del corpo, cose concrete. La lingua è sgrammaticata, è quella che usiamo quando ci rivolgiamo a chi ci sta accanto, è il tentativo di ricalcare, con una mano il più fedele possibile, quello che accade tutti i giorni. In questa quotidianità poi si inseriscono ed esplodono bombe che portano la storia su un altro binario, più tragico». La copertina di “La furia” (Solferino) Da dove nascono le sue ossessioni? «Per me è un obiettivo riuscire a trascrivere quello che le donne - quasi sempre sono loro le protagoniste, madri, figlie, madri e figlie insieme, si partoriscono quasi a vicenda - fanno dentro casa e fuori, ho bisogno di riportare sulla pagina la verità di ciò che siamo in questo momento. Ciascuno di noi si porta addosso una ferita che in qualche modo ci accomuna e sono più le ferite a renderci simili che le gioie o i successi. Io tocco la tua ferita, ci metto il dito dentro e da lì ti riconosco e riconosco me stessa, ci riconosciamo. Questo girare sempre intorno ai piccoli e grandi traumi è quasi una danza. Il mio ultimo libro di poesia si intitola 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti , una lista della spesa, un manualetto con tutti modi possibili per uscire di scena. Prima di pubblicarlo ero spaventatissima perché non sapevo le reazioni di chi l’avrebbe letto, ma usare le parole concretissime del quotidiano, usare gli oggetti che tutti abbiamo attorno ha avuto un effetto catartico: mi avvicino alla possibilità del suicidio, guardo in fondo al baratro e, proprio perché vedo il fondo, riesco a fare un passo indietro, ad allontanarmene. È questo l’effetto che cerco quando scrivo». Le sue donne, le sue ventisette Mirande, però non si salvano, si guardano dentro e pensano «che è tutta colpa mia se non riesco a staccare la faccia dal pavimento, non ce la faccio proprio è come se le mie figlie più mia madre più mio marito mi sono saliti tutti sulla testa e stanno lì un po’ a ridere forte, un po’ a piangere, un po’ a starnutire, un po’ a provare a farmi aprire la bocca ma proprio non mi va giù niente...». «Sì, è vero, in questo momento la mia necessità di autrice è andare a scavare dove c’è il dolore. Spero in futuro di poter raccontare il momento in cui queste persone si alzano, si risollevano. Ora l’importante è poter dire: eccoci qua, ci siamo tutti, ci assomigliamo tanto, molto più di quello che vorremmo». I rapporti con gli uomini sono quasi sempre drammatici, come non esistesse un linguaggio comune. «Quando si parla di violenze sulle donne, e molte delle mie storie raccontano di questo, non c’è possibilità di incontro perché c’è troppo dolore. Un’altra delle mie ossessioni - la terza - è per le vittime di violenza: ho fatto una ricerca sugli articoli che parlano di femminicidio e mi sono resa conto che la vita della donna viene sempre liquidata in poche frasi, si racconta di lei definendola madre o moglie di, mentre a me interessa raccontare la sua vita, il quotidiano, i meccanismi di sopraffazione, di cui ci si accorge sempre troppo tardi. Alcune forme di violenza come quella psicologica, lo stalking, la riduzione della libertà, sono quasi accettate socialmente o comunque sminuite nella loro portata: così l’uomo che segue, che controlla, è solo geloso e non sta invece esercitando una forma di violenza». Nei suoi racconti c’è anche il problema della dipendenza dallo sguardo dell’altro, dagli uomini «che magari una sera arrivano che non li aspettavi e vogliono subito fare l’amore, non ti danno il tempo di spogliarti (...) tu con queste persone così non capisci più niente fai tutto quello che ti dicono perché speri che così un giorno ti dicono ti amo ma un giorno così non arriva mai». «Lo sguardo è centrale nella mia poetica, è un mio bisogno personale, quindi qui mi svelo tanto. Gli occhi ritornano e anche la malattia degli occhi torna in più racconti: se ti vedo tu ci sei, se non vedo te e i tuoi bisogni non sopravvivi». Neppure la maternità salva. «Sono cresciuta negli anni Ottanta con la famiglia del Mulino Bianco. Questa narrazione ci ha incatenato per troppo tempo producendo danni incalcolabili: se sei una madre perfetta, non puoi che avere figli perfetti e i figli che devono essere perfetti non possono che essere infelici. A me interessa invece vedere quando le cose non funzionano e dire: ok, c’è anche questo dolore, ma nel momento in cui ne parlo lo posso affrontare. Sono madre di tre figli, ho vissuto la paura di non farcela, di non sostenere il carico mentale e fisico di avere un neonato che magari non mangia, non dorme, non cresce come dovrebbe. Parlarne, scriverne, fa capire che quello che provi è condiviso, ti senti dentro qualcosa di più ampio, non so se ti senti confortata, ma quanto meno compresa». Lei ha percezione di vivere dentro qualcosa di più ampio? «Sì, altrimenti non scriverei».
focus victim
Si è appena concluso a Padova l’incontro del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza: secondo quanto stabilito, la data dell’ultimo saluto a Giulia Cecchettin è fissata per la prossima settimana e sarà decisa dal padre della ventiduenne uccisa, Gino Cecchettin. Le voci su un ipotetico funerale nella giornata di sabato 2 dicembre, nella Basilica di Santa Giustina a Padova, sono quindi state definitivamente smentite. Nonostante l’impegno della Chiesa, delle Forze dell’Ordine e del Comune di Padova per accelerare la data delle esequie per consentire alla famiglia Cecchettin di dare l’estremo saluto a Giulia quanto prima, l’organizzazione del funerale ha incontrato problemi di tempistiche: l’autopsia sul corpo della giovane è fissata per il 1 dicembre, ma prima della celebrazione è necessario attendere il nulla osta della procura di Venezia, per la restituzione della salma alla famiglia. I funerali È arrivata stamattina la definitiva comunicazione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza: la cerimonia si svolgerà la settimana prossima, nella data scelta dal padre Gino, probabilmente lunedì o martedì. Definito oggi anche il piano sicurezza: si prevede che migliaia di persone, non solo dal Veneto, vorranno stringersi attorno alla famiglia Cecchettin. Per questo era stata esclusa a priori la possibilità che ad ospitare le esequie fosse la cittadina di Vigonovo, che non possiede uno spazio religioso abbastanza grande, e lo scorso 27 novembre la Diocesi di Padova aveva eseguito un sopralluogo nella basilica di Santa Giustina, pronta invece ad accogliere l’ondata di persone che vorranno dare a Giulia l’addio definitivo. Nel frattempo, il presidente della Regione, Luca Zaia, ha già indetto il lutto regionale nella giornata che sarà designata per i funerali. Il corpo di Giulia sarà sepolto nel cimitero di Saonara, accanto a quello della madre, morta l’anno scorso. Corteo a Vigonovo, il paese si mobilita per ricordare Giulia Cecchettin L’ipotesi della perizia psichiatrica La famiglia, nel frattempo, si trova a considerare l’ipotesi che a Filippo Turetta, in carcere accusato del femminicidio della giovane, possa essere concessa l’attenuante dell’incapacità di intendere e volere, anche parziale, al momento dei fatti. Tuttavia, sarà difficile, per la difesa, ottenere una perizia psichiatrica che possa accertare quanto accaduto: infatti, non ci sono agli atti diagnosi pregresse di problemi mentali, e sulla base delle prime valutazioni psicologiche e psichiatriche in carcere, è improbabile che un’istanza di perizia possa essere accolta. Sarà necessario un lavoro difensivo e la collaborazione di alcuni esperti che, attraverso degli incontri con Turetta, possano raccogliere del materiale utile ai fini di un possibile accoglimento della richiesta, probabilmente presentata più avanti o direttamente in sede di processo. L’interrogatorio e la linea difensiva Nelle sue dichiarazioni spontanee di ieri, davanti alla giudice Benedetta Vitolo, Turetta ha ammesso l’omicidio e si è detto pronto ad affrontare le conseguenze delle sue azioni; tuttavia, si è appellato alla facoltà di non rispondere alle domande. Le dichiarazioni spontanee fornite dal ventunenne, quindi, sono probabilmente state concordate con la difesa: nessun riferimento, infatti, ad elementi che possano far pensare ad una premeditazione del delitto. Questo, unitamente ad altri elementi, suggeriscono che la linea difensiva punterà, da un lato, ad escludere la premeditazione, su cui la Procura di Venezia ha diversi indizi, e dall’altro a verificare eventuali vizi di mente del giovane. Durante il processo potrà quindi essere valutata un’incapacità totale o un vizio parziale: nel primo caso, Turetta potrebbe ottenere l’assoluzione per la non imputabilità, nel secondo uno sconto di pena. Resta da capire se Turetta, in accordo con i suoi legali, deciderà di rispondere all’interrogatorio del pm Andrea Petroni, fissato nei prossimi giorni. Alla famiglia della giovane non resta che convivere con la consapevolezza che Giulia non tornerà mai più a casa e, in attesa del processo, anche con la possibilità che il suo assassino sconti una pena ridotta o persino nulla. L'avvocato di Turetta: "Ha confermato di aver ucciso Giulia Cecchettin" I genitori rinviano l’incontro con Turetta I genitori di Filippo Turetta non incontreranno oggi il figlio. Dopo l’interrogatorio di garanzia, le dichiarazioni spontanee di ieri, il colloquio al carcere di Montorio a Venezia era già stato autorizzato dai magistrati. Avrebbero potuto e tutti oggi nel carcere attendevano il loro arrivo. Ma, evidentemente, mamma Elisabetta e papà Nicola hanno preferito prendere altro tempo prima di incontrare il ventunenne accusato del sequestro e dell’omicidio volontario della ex fidanzata Giulia Checchettin. Sarebbe stato il legale Giovanni Caruso a comunicarlo direttamente alla direzione dell’istituto. E sarà sempre il difensore a tornare a trovare Turetta nelle prossime ore, probabilmente perché sia il giovane che i genitori hanno bisogno di prepararsi psicologicamente a questo faccia a faccia. Nel frattempo, da quel che emerge, Turetta in prigione da sabato scorso, sarebbe “tranquillo” seppur un po’ “stordito” e “spaesato”. Parla col suo compagno di cella e starebbe provando ad ambientarsi.
focus killer
Nella metà dei casi, la donna muore strangolata o a causa delle percosse. Una su tre viene uccisa dopo aver scelto di lasciare il proprio partner. Ma il segnale nuovo del rapporto della banca dati Eures è il forte aumento dei matricidi, compiuti “anche per effetto del perdurare della crisi”, ovvero per ragioni di denaro o per un’esasperazione dei rapporti in seguito a convivenze imposte da necessità. Sono infatti 23 le madri uccise nell’ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari. Dando uno sguardo generale al fenomeno, sono stati 179 i femminicidi nel 2013. Rispetto alle 157 vittime del 2012, l’anno scorso le donne uccise sono aumentate del 14%. Un anno nero, con la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, in pratica una ogni due giorni. In 7 casi su 10 i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare, una costante nell’interno periodo tra il 2000 e il 2013 (70,5%). “Inadeguata – secondo Eures – la risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne “, visto che nel 2013 più della metà delle future vittime (il 51,9%) aveva segnalato o denunciato le violenze subite. Più casi al sud, raddoppiano al centro Per dieci anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuta al nord. Ma dal 2013 c’è stata un’inversione di tendenza e il meridione ha visto una crescita del 27% degli omicidi di donne (75 casi), mentre al centro Italia le vittime sono raddoppiare, dalle 22 del 2012 a 44 dello scorso anno. Il nord, dove nel 2013 sono state uccide 60 donne, rimane il territorio dove si verificano più omicidi in famiglia, 8 su 10. La maglia nera spetta al Lazio e alla Campania, con 20 vittime ciascuno; solo a Roma sono state 11. Ma è l’Umbria a registrare l’indice più alto di mortalità con 12,9 femminicidi per milione di donne residenti. Aumentano i matricidi “per effetto della crisi” Resta la mano del partner quella dietro il 66% degli omicidi di donne. Dal 2000 sono 333 le compagne o mogli uccise perché “colpevoli di decidere“, come le definisce il dossier, ovvero le donne che avevano scelto di lasciare il loro compagno ma non sono riuscite a scappare in tempo dalla furia del partner. Ma il segnale nuovo che il report collega alla crisi economica è il forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro. Le madri uccise nell’ultimo anno corrispondono al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell’intero periodo tra il 2000 e il 2013 (215 matricidi). Uno su tre “a mani nude”. Tra moventi anche disagio economico A “mani nude”, per percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è stata uccisa una donna su tre. Il rapporto Eures, oltre a rilevare questo dato, lo mette in relazione ad un “più alto grado di violenza e rancore”. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49 casi, pari al 27%) e da taglio (45 vittime). Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello passionale continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale). Sembra quindi che il femminicidio sia spesso una “reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere un legame“, sottolinea il dossier, aggiungendo che la sfera del “conflitto quotidiano” e dei litigi anche banali è invece alla base del 20,8% dei femminicidi familiari. A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro (16%), prevalentemente matricidi.
focus victim
L’ambiente in cui viviamo – la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro ma anche la politica, il linguaggio, l’arte, gli esempi, i modi di dire e di fare: tutto quello che appunto definiamo col termine cultura – agiscono sul nostro cervello sin da quando siamo bambini. Nessuno di noi è impermeabile all’ambiente culturale nel quale cresce. Ed è difficilissimo riuscire a riconoscere i condizionamenti che abbiamo subito e, eventualmente, liberarsene. Fino alla soglia dei 40 anni, sulla questione del patriarcato, il mio pensiero non era forse troppo dissimile da quello di Giorgia Meloni. Ero una donna del sud del Paese, due volte madre, che senza aiuti e senza spintarelle ma con impegno e volontà, si era fatta strada da sola nel mondo scientifico, raggiungendo una solida reputazione e carriera. È vero, la maggior parte dei miei colleghi era dell’altro sesso, ma – pensavo – se io ce l’ho fatta significa che chiunque lo voglia e si impegni ce la può fare; e quindi dov’è il problema? Perché preoccuparci della scarsa presenza femminine nelle posizioni apicali? C’è il merito, e conta solo quello! Certo i miei colleghi maschi continuavano a ripetermi che io in realtà ero un uomo, che avevo gli attributi, che sapevo impormi nelle discussioni come un maschio…ma a me suonava persino come un complimento. Ritenevo una stupidaggine irrilevante la discussione che iniziava a farsi sentire sul linguaggio, una non-questione indegna del mio tempo, e probabilmente se avessi ottenuto la carica di Direttrice Scientifica che invece ho ottenuto qualche anno più tardi, avrei optato per Direttore, perché la parola Direttrice mi sarebbe sembrata non adatta. Nonostante io non abbia vissuto in una famiglia patriarcale e i miei genitori mi abbiano sempre lasciato la libertà di scegliere chi volessi essere, l’ambiente in cui ero vissuta aveva agito su di me, facendomi sembrare normale quello che normale non può essere. Poi, intorno ai 40 anni, sono casualmente entrata in contatto con una collega dell’Università di Padova che si occupa di linguaggio e questioni di genere. Confesso che davanti alle sue forti prese di posizione sulle pari opportunità, sulle quote rosa, sull’importanza del linguaggio giusto e inclusivoho dapprima sollevato un sopracciglio, pensando che bisogna avere proprio molto tempo libero per perdersi dietro a queste cose e che in fondo l’unica cosa che conta e fa la differenza è l’esempio ed io, con la mia realizzazione personale e professionale, facevo molto di più per le ragazze che lei con tante chiacchiere. Un po’ quello che dice oggi la nostra Presidente del Consiglio: io, donna e madre, partita dal basso e venuta su grazie alle mie capacità, volontà e impegno, non posso che essere la dimostrazione dell’assenza di una cultura patriarcale in Italia. Ma mi sbagliavo e parlavo - e pensavo - con superficialità e arroganza. Nel tempo, grazie ai nuovi stimoli culturali che ho trovato a Padova uscendo dalla mia stretta cerchia di colleghi, ho iniziato un’operazione di smantellamento degli stereotipi, condizionamenti e pregiudizi che operavano in me. Ho capito che l’eccezione non può essere la regola e che se in un Paese in cui la popolazione è divisa al 50% tra maschi e femmine solo l’8% delle posizioni dirigenziali è coperta da donne, il problema c’è. Ho guardato alla mia Università ed ho visto che a fronte di una netta maggioranza di ricercatrici precarie, le posizioni a tempo indeterminato vengono assegnate agli uomini. Ho notato che quando mi siedo al tavolo del consiglio degli ordinari del mio dipartimento, ci sono 3 donne e 10 uomini. Ho notato che nei concorsi si usano spesso due pesi e due misure, e che il lavoro delle donne è spesso sminuito da argomenti che risentono degli stereotipi di genere.
focus victim
Ha aggredito la moglie di 79 anni a martellate nella loro abitazione alle porte di Faenza, nel Ravennate. La donna, portata in elicottero in ospedale in condizioni disperate, è morta poco dopo l’arrivo al Bufalini di Cesena a causa delle gravi ferite riportate. I soccorsi sono stati subito allertati dalla figlia dei coniugi, alla quale il padre, di 87 anni, subito dopo l’aggressione aveva scritto un sms dicendo di volersi togliere la vita. L’uomo dovrà rispondere di omicidio volontario aggravato. Sono ancora sconosciuti i motivi del gesto.
focus killer
Ieri mattina a Radio 3, nel bel programma «Tutta la città ne parla», si è discusso sull’orripilante femminicidio riguardante la povera Giulia Tramontano uccisa col suo bambino in grembo. Una voce femminile diceva che non bisogna parlare di mostri, perché questi uomini che uccidono sono normali, fanno parte di una cultura che non considera le donne come persone, ma come proprietà di cui si può disporre. Un cane, un gatto si possono fare fuori e senza che nessuno venga a indagare. È la mia donna, sono io a decidere, cosa pretende una legge astratta, che non mi riguarda? Più o meno è questo il ragionamento. La voce insiste che si tratta soprattutto di una cultura di base, ancora molto resistente in un Paese che si pretende democratico ma in realtà ha antiche e possenti radici da cui non vuole staccarsi. L’amore per costoro è visto come presa di possesso dell’altra. Infatti quasi sempre, l’uomo presapiens uccide quando la donna che considera sua, mostra segni di autonomia. Un’altra voce alla radio ha denunciato lo sfruttamento mediatico. Secondo lei sarebbe meglio parlare di donne che escono dal servaggio per dare esempi positivi e non sempre di donne torturate e uccise. Qui però non sono d’accordo. Perché raccontare le violenze sulle donne, naturalmente in modo non morboso, aiuta a creare coscienza, fa capire quanto sia pericoloso non denunciare, non tenere le distanze da chi si mostra possessivo in maniera maniacale e morbosa. È vero, da quanto mi dicono, che sui social molti approfittano di queste occasioni per versare valanghe di fango sulle donne. Ma non identificherei i social con l’Italia intera. Ormai tutti hanno capito che si tratta di uno sfogatoio anonimo e meschino da prendere con le molle. Una terza voce ha sostenuto che indirizzare tutte le raccomandazioni alle donne: non uscire non fidarti di chi ti schiaffeggia una volta , tieni le distanze da chi ti insulta ecc…, è un modo di condizionare il comportamento femminile, mentre da vincolare, e anche urgentemente, cominciando dalle scuole, sarebbe quello maschile. Siamo d’accordo, ma teniamo presente che le donne spesso sono sole, plagiate, divise fra il bisogno di mantenere unita la famiglia e la voglia di ribellarsi all’interno di una comunità che spesso le condanna a priori. Perciò insistiamo sulla necessità di raccontare, di fare sapere senza vergogna quello che succede in molte famiglie italiane e denunciare prima che sia troppo tardi.
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Nella primavera del quinto secolo della nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di Stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d'Egitto per mandato di uno dei più potenti vescovi dell'allora giovane Chiesa. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme.
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Nelle principali città turche ci sono state proteste contro la decisione del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan di ritirare il paese dalla Convenzione del Consiglio d’ sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, nota come Convenzione di Istanbul. Le maggiori manifestazioni di protesta sono avvenute a Istanbul, Ankara e Smirne, sulla costa occidentale della Turchia, e sono state partecipate soprattutto da donne, con le bandiere viola della piattaforma turca “Noi fermeremo il femminicidio”, secondo cui nell’ultimo anno in Turchia ci sono stati almeno 300 femminicidi, e 171 donne sono state uccise in circostanze sospette. La decisione del ritiro è stata commentata anche dalla segretaria generale del Consiglio d’, Marija Pejčinović Burić, che ha definito la decisione della Turchia «una notizia devastante». Diversi leader europei inoltre hanno criticato il governo turco: «Non possiamo che rammaricarci fortemente ed esprimere la nostra incomprensione davanti alla decisione del governo turco», ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell. Anche i portavoce dei governi di Francia e Germania hanno criticato la decisione. La prossima settimana è previsto un summit tra la Turchia e i rappresentanti dell’Unione Europea per discutere di vari temi, tra cui l’immigrazione e i rapporti tesi nel Mediterraneo orientale, e il ritiro dalla Convenzione di Istanbul rischia di diventare un altro argomento di scontro. La Convenzione di Istanbul è un accordo internazionale che fu promosso dal Consiglio d’ nel 2011 ed entrò in vigore nel 2014 per prevenire e combattere la violenza contro le donne, lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili. L’accordo è noto come Convenzione di Istanbul perché fu ratificato nella città turca e perché la Turchia fu il primo paese a firmarlo, quando già Erdogan era presidente. Negli anni successivi alla ratifica, Erdogan aveva citato spesso la Convenzione come dimostrazione dei presunti avanzamenti della Turchia nell’ambito della parità di genere, ma poi quando lo stile di governo di Erdogan è diventato più autoritario le cose sono cambiate. Il governo turco non ha spiegato ufficialmente i motivi del ritiro dalla Convenzione, ma secondo alcuni analisti c’entra la volontà del partito di ingraziarsi la base più conservatrice del suo elettorato. La Convenzione è stata firmata da 45 paesi in tutto il mondo più l’Unione Europea. L’anno scorso il parlamento ungherese aveva votato contro la ratifica della Convenzione, mentre il governo della Polonia aveva annunciato l’intenzione di uscirne. I governi di Polonia e Ungheria sono entrambi semi-autoritari, populisti e di orientamento molto conservatore.
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Lunedì mattina in più di 40 città australiane ci sono state manifestazioni e proteste contro le violenze sessuali subite dalle donne e la cultura sessista che molti ritengono che ci sia nel paese. Le denunce di stupri, misoginia e comportamenti inappropriati nei confronti delle donne in Australia stanno mettendo sotto forte pressione il governo, perché in almeno due casi le accuse sono state rivolte proprio a importanti funzionari e politici: un collaboratore del Partito Liberale, forza politica attualmente al governo, e il procuratore generale dell’Australia. Le proteste arrivano circa un mese dopo che Brittany Higgins, una ex collaboratrice del Partito Liberale, aveva detto di essere stata stuprata da un collega all’interno della Camera dei rappresentanti del Parlamento, a Canberra, nel marzo del 2019. Durante le manifestazioni attiviste e attivisti di diversi gruppi femministi hanno chiesto ai politici maggiori tutele e di fare in modo che chi commette le violenze sia riconosciuto responsabile. Le principali manifestazioni del movimento contro la violenza sulle donne, chiamato “March 4 Justice” (marcia per la giustizia), si sono svolte a Sydney e a Canberra, e in totale le proteste hanno coinvolto circa 100mila persone, soprattutto donne. Molte femministe si sono vestite di nero e hanno esibito cartelli con scritte che dicevano: «Ne abbiamo abbastanza» o «Eliminiamo la cultura dello stupro». Nel corteo di Melbourne alcune attiviste hanno sfilato con uno striscione che indicava i nomi di più di 900 donne vittime di femminicidio. Dopo che un mese fa Higgins aveva denunciato di essere stata violentata, altre tre donne hanno detto di aver subìto molestie sessuali da parte dello stesso uomo, di cui non si conosce l’identità. Higgins aveva detto di essere stata stuprata da un collaboratore del Partito Liberale nell’ufficio della ministra della Difesa, Linda Reynolds, e aveva spiegato di non aver voluto denunciare subito lo stupro per proteggere il partito e il suo “lavoro dei sogni”, a pochi giorni dalle elezioni anticipate del maggio 2019. Dopo le elezioni, Higgins era stata trasferita al ministero del Lavoro; poi, nel gennaio del 2021, aveva dato le dimissioni, dicendo di non riuscire più a sostenere il peso di quanto le era accaduto. – Leggi anche: Le violenze della polizia di Londra durante la veglia per Sarah Everard Lunedì Higgins ha parlato davanti alle migliaia di attiviste e attivisti che si erano radunati davanti al Parlamento australiano, a Canberra. Ha detto che le violenze sessuali subite dalle donne in Australia vengono «terribilmente accettate» dalla società: secondo lei, ci sono «notevoli mancanze nelle strutture di potere all’interno delle istituzioni» e i movimenti contro la violenza sulle donne stanno «essenzialmente riconoscendo che il sistema è rotto». Brittany Higgins says she came forward with her story to 'protect other women' in a speech to March4Life protesters in front of Parliament House. pic.twitter.com/e2u5uYNtYS — SBS News (@SBSNews) March 15, 2021 Oltre al caso di Higgins, si parla molto anche del procuratore generale dell’Australia, Christian Porter, parlamentare del Partito Liberale, che è stato accusato di aver stuprato una donna nel 1988, quando lei aveva 16 anni e lui 17. La donna aveva denunciato lo stupro l’anno scorso e poi si era suicidata, ma alcune persone a lei vicine avevano inviato delle lettere a Morrison e ad altri politici per segnalare le violenze che aveva subìto. Gli avvocati di Porter, che attualmente è in congedo per malattia, hanno detto che l’uomo si sente sottoposto a un «processo mediatico»: pochi giorni fa Porter ha fatto causa per diffamazione alla tv australiana ABC e alla giornalista Louise Milligan per aver citato una lettera indirizzata a Morrison in cui si poteva dedurre facilmente che si stava parlando di lui. – Leggi anche: Le nuove prove che scagionerebbero la più nota serial killer australiana Tra le altre cose, il movimento March 4 Justice ha presentato una petizione per chiedere ai parlamentari di avviare inchieste indipendenti su ciascun caso di violenza di genere che coinvolga la politica e di togliere dalle posizioni di potere chi commette questi reati. Nella petizione, che ha già raccolto più di 90mila firme, si chiede anche di «mettere fine ai problemi legati a sessismo, misoginia, patriarcato, corruzione, alla cultura degli ambienti di lavoro pericolosi e alla mancanza di uguaglianza, in politica così come nelle comunità». Finora il primo ministro Morrison ha respinto le richieste di avviare un’indagine indipendente sulle accuse di stupro rivolte a Porter, sostenendo che sia un problema che vada risolto dalla polizia, che però aveva già chiuso il caso per assenza di prove. Domenica Morrison aveva invitato una delegazione di attiviste a un incontro al Parlamento, ma le attiviste hanno rifiutato di partecipare sostenendo invece che fosse il primo ministro a dover parlare pubblicamente davanti a tutte le manifestanti: Morrison non l’ha fatto, e durante la seduta di lunedì in Parlamento ha detto che vedere queste manifestazioni è stato «un trionfo della democrazia», perché in altri paesi «proteste di questo tipo vengono fermate coi proiettili». Le dichiarazioni di Morrison hanno provocato critiche e polemiche, sia da parte delle attiviste che degli oppositori politici. Il leader del Partito Laburista, Anthony Albanese, ha detto che Morrison «non è che non capisca, è che proprio non vuol sentire». Secondo un sondaggio pubblicato da The Australian – il giornale più letto del paese – il sostegno degli australiani alla coalizione di centro-destra al governo è calato di tre punti rispetto alle elezioni del 2019, anche per via della gestione degli scandali legati alle violenze sessuali in politica. Per la prima volta da due anni a questa parte, il partito Laburista e la coalizione di governo sono testa a testa, col 39 per cento delle preferenze ciascuno. *** Dove chiedere aiuto Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o una persona che conosci ha subito abusi puoi chiamare il numero anti-violenza e stalking 1522 oppure rivolgiti al centro antiviolenza più vicino.
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Giulia Cecchettin voleva allontanarsi dall’ex fidanzato Filippo Turetta che l’ha uccisa infliggendole 25 minuti di agonia, anzi voleva sparire. Alla studentessa, massacrata a poche ore dall’esame di laurea, pesava avere sempre intorno l’ex che la perseguitava emotivamente con il suo malessere. “Sono arrivata a un punto in cui vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui” dice in un audio inedito recuperato dalla trasmissione Chi l’ha visto? e trasmesso dal Tg1. “Questa cosa – aggiunge con voce tremante -, con il fatto che io vorrei non vederlo più, perché comincio a non sopportarlo più, mi pesa”. “Lui mi viene a dire cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che pensa solo ad ammazzarsi, che vorrebbe morire”. Un comportamento che era vissuto con grande sensibilità dalla 22enne che quindi non riusciva a spezzare definitivamente il legame. Nell’audio messaggio, la giovane laureanda di Vigonovo prosegue: “Non me le viene a dire per forza, come ricatto, però suonano molto come ricatto”. “Allo stesso tempo mi viene a dire che l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con me, o i momenti in cui gli scrivo”. Quindi conclude: “Vorrei fortemente sparire dalla sua vita, ma non so come farlo perché mi sento in colpa perché ho troppa paura che possa farsi male in qualche modo”. Invece il giovane sabato notte 11 novembre, ha aggredito l’ex fidanzata, come testimoniato dalle immagini di una telecamera di videosorveglianza, nella zona industriale di Fossò, in provincia di Venezia. La vittima ha lottato: ha cercato di correre; accoltellata, inseguita e buttata a terra, ha battuto la testa sullo spigolo di un marciapiede. Agonizzante è stata buttata dentro la Punto nera che ha vagato tra Veneto e Friuli, infine abbandonata dentro un bosco, con sopra un sacco di tela.
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L’uomo accusato dell’ennesimo femminicidio, avvenuto ieri mattina a Piano di Sorrento, si chiama Salvatore Ferraiuolo e lavora in una pescheria. Ha confessato durante l’interrogatorio. E’ l’ex della vittima, Anna Scala, 56 anni, parrucchiera, uccisa da numerose coltellate mentre stava prendendo la spesa dall’auto parcheggiata. Il corpo è caduto nel bagagliaio, rimasto aperto: una persona ha […]
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Negli ultimi giorni su Instagram sono stati pubblicati milioni di fotografie in bianco e nero di donne – famose e non – accompagnate dall’hashtag #ChallengeAccepted e dai nomi di una o più amiche, per invitarle a partecipare alla campagna e a fare altrettanto. Finora sono state condivisi più di 3 milioni di foto, accompagnate anche dall’hashtag #womensupportingwomen: le donne si sostengono a vicenda. Sull’origine e lo scopo dell’iniziativa sono state fatte varie ipotesi, e spesso sembrano non essere chiare nemmeno a chi pubblica le fotografie: alcune la legano semplicemente alla solidarietà femminile (ma non è chiaro quale sarebbe il “challenge”, la sfida), un’altra la lega alle recenti manifestazioni in Turchia contro il femminicidio, criticando di conseguenza il fatto che il senso della “campagna” sia andato perso. Non ci sono conferme sull’origine turca, però, e le prime foto di questa campagna non hanno legami con la Turchia. La sostanza dell’iniziativa sembra essere esattamente quella che è: pubblicare una propria foto con un generico messaggio a sostegno delle donne. E se anche l’obiettivo dell’iniziativa fosse quello di promuovere in modo vago il cosiddetto “empowerment” femminile, non è chiaro come e se ci riesca. L’hashtag Un responsabile di Instagram ha fatto sapere che il primo post di questa “campagna” è stato pubblicato una settimana e mezzo fa dalla giornalista brasiliana Ana Paula Padrão, che taggando un’altra donna ha scritto in portoghese “Desafio aceito” (“sfida accettata”) con l’hashtag #womensupportingwomen. L’hashtag #ChallengeAccepted era già stato utilizzato in passato: nel 2016, per esempio, per una campagna di sensibilizzazione sul cancro. Il successo dell’iniziativa, oltre al fatto che vi hanno partecipato alcune attrici e celebrità, potrebbe poi avere a che fare con un episodio recente: Cristine Abram, dirigente di una società di marketing sui social media, ha spiegato che il video con la risposta della deputata statunitense Alexandria Ocasio-Cortez alle offese di un collega ha portato a un picco di post che parlavano di femminismo e di emancipazione femminile. In molte e molti hanno poi condiviso il fatto – a partire dalla spiegazione di un attivista turco – che l’iniziativa avesse a che fare con le manifestazioni femministe in Turchia nate dal femminicidio, da parte del suo ex compagno, di Pinar Gültekin, studentessa universitaria di 27 anni il cui corpo è stato ritrovato la scorsa settimana in un bosco dentro a un bidone coperto di cemento. È stato fatto notare che sui giornali o nelle tv turche le immagini delle vittime di femminicidio vengono spesso pubblicate o mostrate in bianco e nero: e quindi, da qui, la condivisione di ritratti non a colori. Sul New York Times e poi su Twitter, però, la giornalista Taylor Lorenz ha raccontato di aver studiato l’hashtag #ChallengeAccepted in turco e in Turchia, scrivendo che non sembra avere alcuna correlazione con l’iniziativa diffusa in questo momento sui social. Alcuni in questi giorni stanno dicendo che le foto pubblicate in bianco e nero senza avere consapevolezza di quello che accade in Turchia avrebbero tradito il “significato originario” della campagna, ma sembra che non ci sia nessun “significato originario” legato alla Turchia. [[URL]] Qual è il senso? Lorenz scrive che i post che accompagnano le foto sono piuttosto insignificanti: danno la sensazione di essere parte di qualcosa senza che in realtà chi vi partecipa dica (o faccia) qualcosa di realmente efficace. Una critica, quest’ultima, che viene rivolta anche dalle attiviste femministe a un certo “femminismo mainstream”, patinato e molto popolare sui social, su alcuni giornali o tra le cosiddette celebrità: «Gli influencer e le celebrità adorano questo tipo di “sfide”, perché non richiedono un vero sostegno o una reale esposizione», scrive Lorenz. Al di là della sua origine e del suo senso, l’iniziativa in sé è stata criticata da molte donne e femministe: la scrittrice Alana Levinson ha suggerito di cominciare a praticare realmente il femminismo, anche facendo un semplice gesto nella propria vita quotidiana, piuttosto che fare cose che non hanno alcun significato o approfittarne per postare una propria foto. C’è chi ha chiesto di non condividere un selfie ma libri, articoli o informazioni sulle associazioni che lavorano con le donne; altre hanno scritto che se questa iniziativa includesse donne trans o diversamente abili, o se desse risalto alle donne nella storia avrebbe più senso; altre ancora si sono chieste se l’iniziativa non sia partita dagli uomini. [[URL]] Non è male parlare della Turchia, comunque Nonostante non ci siano correlazioni, l’iniziativa ha fornito comunque l’occasione di parlare della violenza contro le donne in Turchia. Secondo gli ultimi dati, lo scorso anno in Turchia ci sono stati almeno 474 femminicidi, e 40 solo nello scorso luglio. La Turchia ha sottoscritto nel 2011 la Convenzione di Istanbul, il testo più avanzato e il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere e della violenza domestica. Tuttavia da allora il numero di donne uccise nel paese è più che raddoppiato: i movimenti femministi e le associazioni che lavorano con le donne denunciano da tempo la mancata attuazione della Convenzione da parte del governo. Inoltre – come in Polonia, in Ungheria e in Slovacchia, solo per citare gli esempi più recenti e di cui si è parlato – in Turchia ci sono gruppi e organizzazioni ultraconservatrici, antiabortiste, antifemministe e anti-LGBTQI che stanno esercitando una forte pressione politica affinché il governo esca dalla Convenzione, sostenendo che il suo contenuto influenzi negativamente i valori della famiglia tradizionale (cioè patriarcale ed eterosessuale). [[URL]]
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ANDRIA. «Ciao... scusami… hai ragione... purtroppo ho avuto una settimana molto particolare... sono andata in ospedale... mio marito mi ha alzato le mani e, veramente, non ero nei tempi per venire da te. Facevo casa di mia madre-casa mia, giravo per strada, cercavo di stare quanto più (possibile, ndr) lontana da casa». Sono le parole pronunciate da Vincenza Angrisano in un messaggio vocale che la donna ha inviato ad un'amica pochi giorni prima di venire uccisa a coltellate dal marito. Parole preziose per far luce su questo ennesimo femminicidio: l’uomo, nel corso dell'udienza di convalida del fermo, ha ammesso le proprie responsabilità, così come aveva fatto davanti al pm Procura di Trani, Francesco Chiechi, e ai carabinieri. Si svolgerà intanto sabato l'autopsia sul cadavere della Angrisano. In casa erano presenti i due figli di 6 e 12 anni che potrebbero aver assistito al delitto. Luigi Leonetti è accusato di omicidio volontario, con l'aggravante di aver commesso il fatto ai danni della coniuge. A scatenare la sua furia omicida (l'ha assassinata utilizzando un coltello da cucina e sferrando tre fendenti al torace e all'addome) sarebbe stata la sua incapacità di far fronte alla volontà della donna di lasciarlo. Secondo quanto raccontato già ieri dall'avvocato difensore di Leonetti, la donna avrebbe riferito al marito di avere un'altra relazione. Negli ultimi tempi sarebbero volati spesso insulti reciproci. I rapporti di coppia si sarebbero incrinati un mese fa. Nella notte tra il 21 e il 22 novembre l'uomo ha schiaffeggiato la moglie poiché era tornata tardi a casa, costringendola a recarsi in ospedale per farsi medicare. Lì avrebbe ricevuto una prognosi di 4 giorni. L'incarico dell'autopsia è stato affidato a Francesco Vinci dell'Istituto di Medicina Legale del Policlinico di Bari. . Testo (ANSA) - BARI, 01 DIC - Femminicidi: 42enne uccisa ad Andria, marito resta in carcere Testo Andria (Bat), 1 dic. (LaPresse) - L
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Alle donne non è data l’implacabilità, non è concessa la freddezza. Non c’è eroina, icona, guru, principessa ribelle, che sia impermeabile all’amore romantico, alla passionalità febbrile, alla combattività tumultuosa. Non c’è regina delle nevi che non si sciolga, cuore in inverno che non conosca primavera. Non c’è donna che rifiuti l’amore. Tranne una: Turandot. La maestosa eccezione che stasera apre la stagione lirica del Teatro San Carlo di Napoli, con la regia di Vasily Barkhatov (fantastico: la capitale dell’Italia mediterranea e sciupafemmine, porta in scena un’opera raggelante, cyberpunk, una storia anfibia e futuribile, mentre la capitale del grande nord sceglie Verdi, la Spagna, l’Inquisizione, una lotta antica tra maschi antichi, un dramma caldo e d’assetto, inchiodato allo status quo: Napoli salta, Milano si siede). Turandot, ultima opera di Puccini, che muore prima di riuscire a ultimarla, è la principessa di Pechino che manda a morte chi non risolve i tre enigmi che propone a chi la chiede in moglie: il primo che li risolve, diventa marito. Naturalmente, è un’ecatombe. Gli enigmi sono raffinati, difficilissimi, tortuosi. E non c’è modo di convincere Turandot a concedere una grazia, oppure a scegliere una strada meno violenta, un duello più umano, e non perché lei sia una spietata sanguinaria, un’inclemente assassina assetata di potere, ma perché ha giurato di fare giustizia del femminicidio di una sua ava, assassinata molti anni prima da uno straniero durante la dominazione tartara. Sono gli anni Venti del Novecento. Puccini è consapevole della straordinarietà di un personaggio così, dell’unicità di una donna che escogita un trucco tanto spietato per fare giustizia senza perdono. È un uomo: sa che alle donne è assegnato il destino e il dovere della bontà, del sentimento (sempre lo stesso: l’amore). Sa, quindi, di aver dato vita a un’eroina che spegne invece di ardere, respinge invece di sedurre. La virtù di Turandot è la sua imperturbabilità, il cuore di ghiaccio bollente. Ed è per questo che Puccini non riesce a concludere l’opera: non sa decidersi sul finale perché sa che sciogliere quel suo cuore, facendola innamorare, significa snaturarla, omologarla. Significa dire: tutto l’universo obbedisce all’amore perché la natura delle donne obbedisce all’amore. Significa arrendersi alla narrazione consueta del femminile, quella che fece scrivere a Matilde Serao, in una lettera alla sua migliore amica: «Non credo al femminismo perché credo che nessuna donna rinuncerebbe a un uomo, all’amore e alla famiglia». Puccini sa altrettanto bene, però, che riconoscere alla freddezza di Turandot il valore di un sentimento nuovo e possibile, e di usarlo come fondamento di una nuova idea di femminile, comporta misura: quello che non può fare è tratteggiare un’eroina sopraffatta, inclemente fino alla cattiveria. Sa, Puccini, che proteggere l’unicità di Turandot significa anche non renderla prigioniera di sé, sorda alla vita, ottusa. Farla innamorare, in questo senso, offre una soluzione appropriata: cedendo all’amore, Turandot dimostrerebbe di non essere ottenebrata da se stessa, intontita dal suo scopo. Ma il punto non è cedere all’amore: il punto è rifiutarlo. Il punto è che Turandot ha progettato di vivere senza amore e, per difendere il suo progetto, ha ideato un terribile stratagemma, che le permette anche di compiere giustizia. Siamo autentici quando restiamo fedeli a noi stessi o quando ci tradiamo? Che succede quando, nella nostra vita, irrompe l’altro? Turandot è la più maestosa storia di un eroismo che consiste nella difesa della propria soggettività: gli eroi e le eroine (soprattutto le eroine) fanno ciò che devono e non ciò che vogliono, disonorano il desiderio, onorano la funzione. Il 25 aprile del 1926, quando la Turandot va per la prima volta in scena, alla Scala di Milano, Toscanini, che dirige l’orchestra, si ferma alla metà del terzo atto e dice: «Qui Giacomo Puccini morì». Il finale, con Turandot che sposa Calaf, l’unico che è riuscito a risolvere i tre enigmi, e quindi scioglie il suo cuore, è opera di Franco Alfano, il compositore napoletano al quale, dopo la morte di Puccini, nel 1924, viene affidata la conclusione del libretto, cui q il maestro s’era applicato negli ultimi mesi della sua vita, senza mai venirne a capo, forse perché aveva scelto di rappresentare l’ambiguità e di certo perché non era riuscito a scoprire quale fosse il bene di Turandot: preservarne l’innovazione, farne una capostipite, o usarla per raccontare che siamo umani nella cedevolezza e nella clemenza, anche quando l’altro ci rovina i piani, ci smentisce, e di fatto ci dimezza. La cosa più potente che Puccini fa per Turandot, però, non è salvarla dal lieto fine (dopotutto, ci ha pensato qualcun altro), ma fare innamorare di lei Calaf, al punto da spingerlo a rischiare la vita provando a risolvere i tre enigmi, quando la vede nella sua massima spietatezza. È il secondo atto, e lei entra finalmente in scena (in nessuna opera la protagonista entra in scena così tardi): ha appena deciso di non graziare il principe di Persia, sebbene la folla glielo abbia chiesto, impietosita, perché è un ragazzo giovanissimo, bello, dolcissimo. È la stessa folla che, quando si era saputo che quel principe aveva fallito, aveva esultato pregustando l’esecuzione in piazza: Turandot non cede alla volubilità del popolo. Ed è nel momento della sua massima spietatezza e implacabilità che Calaf si innamora di lei: la riconosce libera, unica, intoccabile. La ama nel momento in cui tutti, in lei, vedono soltanto un mostro. La ama quando non cede, perché non cede. Ed è questa la lezione che ci serve imparare.
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Vorrei parlare di un uomo, vorrei lodare un maschio nel paese dei femminicidi. Vorrei raccontarvi di un giovane normale che vive a Prato, la città-paese più Strapaese d’Italia e, suo malgrado, giganteggia come marito e come padre non biologico, civilissimo Geppetto pratese, nell’Italia degli incivili sconti di pena agli assassini e ai violentatori per gelosia. Vorrei dunque dire della sua paternità non spermatica rivendicata con la dolce fermezza dell’amore verso quel suo bimbo di 6 mesi e verso la propria moglie, che del bimbo è la madre, e quale che sia la sua colpa, ora è vittima del peggiore giornalismo italiano.
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Caltanissetta - Con me in questa vita e, se non è possibile, nell'altra. Sarà passato questo nella mente di Michele Noto, 27enne di Mussomeli (Caltanissetta) che non si dava pace per l'interruzione della relazione con Rosalia Mifsud, detta Rosy, più grande di lui di 11 anni. E allora, all'ennesimo «no» della donna, l'ha uccisa sparandole con un revolver, che era regolarmente detenuto e per il quale aveva un porto d'armi, e ha eliminato anche la figlia che Rosy aveva avuto da un precedente matrimonio, Monica Di Liberto. Quest'ultima, coetanea di Michele, non aveva digerito la storia della madre avviata a settembre con lui che, essendo proprio coetaneo, sarebbe potuto essere suo figlio e, allora, si era posta da ostacolo fra loro. E Rosy aveva ascoltato i consigli della figlia. Michele dopo avere ucciso le due donne, si è suicidato con la stessa arma. Secondo una prima ricostruzione del duplice femminicidio, sul quale indagano i carabinieri della cittadina siciliana e di Caltanissetta, probabilmente Michele giovedì sera, intorno alle 23.30, ha fatto un ultimo disperato tentativo di tornare con Rosy, ma non è andato in porto. Le due donne avevano trascorso la serata da un'amica di Rosy. Michele le aspettava. Malgrado l'interruzione della relazione, lui e Rosy erano in buoni rapporti e, quindi, è stato fatto entrare in casa. Il portone, infatti, non presenta nessuna effrazione. Del resto, nessuno sospettava nulla da quanto emerge dalla testimonianza di amici e parenti delle due vittime. I vicini non hanno sentito nessun litigio, se non qualche rumore. Poi, improvvisamente, gli spari che hanno squarciato la notte. Almeno quattro, dicono gli inquirenti. Rosy e Monica sono state colpite alla testa. Poi Michele ha rivolto l'arma contro di sé. A ritrovare i cadaveri sono stati il figlio 22enne di Rosy, chiamato dal fidanzato di Monica che, non riuscendo a mettersi in contatto con lei, era preoccupato. Il fidanzato era al corrente della presenza di Michele in casa, in quanto Monica lo aveva avvisato via whatsapp. Poi le comunicazioni si erano interrotte e la ragazza non gli aveva risposto più. I due si sono recati a casa di Rosy, dove la tragedia era già stata consumata. I cadaveri erano nella stanza da letto. Gli inquirenti stanno ricostruendo la dinamica del duplice omicidio. Non si sa ancora se inizialmente in stanza si trovassero solo Michele e Rosy e Monica sia sopraggiunta in un secondo momento oppure se fossero tutti e tre lì a discutere. Sarà l'autopsia a svelare qualche dettaglio in più. Per chi lo conosceva, Michele era un «ragazzo normale», il ragazzo della porta accanto, che dedica particolare attenzione alla cura del corpo, tanto che il suo profilo Facebook è pieno di sue foto in posa da culturista e mentre si allena in palestra. Anche giovedì sera era stato visto mentre passeggiava col suo cane Corso vicino alla casa di Rosy, che non dista molto dalla sua, in centro storico, per cui ciò non aveva destato alcun sospetto. «Non ci sono precedenti interventi per litigi o maltrattamenti dice il tenente colonnello Alessio Artioli, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Caltanissetta - È una tragedia inaspettata». Il sindaco della città ha indetto il lutto cittadino. Nel giro di due giorni sono tre le donne uccise in Sicilia per mano di chi avrebbe dovuto amarle. Soltanto il giorno prima a Mazara del Vallo il 53enne Vincenzo Frasillo ha ucciso di botte la moglie Rosalia Garofalo, 52 anni, mosso da una morbosa gelosia.
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Vito Cangini, 80 anni, nella notte tra il 25 e il 26 dicembre ha ucciso sua moglie a coltellate nella loro casa di Fanano di Gradara, in provincia di Pesaro e Urbino. I due erano sposati da 17 anni, ma agli inquirenti ha dichiarato che la motivazione del suo gesto è legata alla sua convinzione che la moglie lo tradisse: è questo, da quanto emerge, il movente dietro all’ennesimo femminicidio nel quale ad essere uccisa è stata Natalia Kyrychok. La donna, di origini moldave, lavorava come cameriera in un ristorante, aveva 61 anni ed era in Italia da più di 20 anni. L’uomo, incensurato, secondo i racconti di chi lo ha visto il 26 dicembre, ha passato tutto il giorno a bere, fino ad ubriacarsi. Ad avvisare le forze dell’ordine non è stato lui, ma il titolare del ristorante dove Kyrychok lavorava. Non vedendola arrivare e non ricevendo alcuna risposta al telefono, si è preoccupato ed ha avvisato i carabinieri. All’arrivo dei militari dell’Arma, Cangini non ha retto e ha confessato il femminicidio. Il corpo della donna si trovava ancora sul pavimento della camera da letto, raggiunto da quattro coltellate al petto, secondo quanto emerso da una prima analisi della scientifica. Le indagini sul corpo della 61enne sono durate tutta la notte ed è stato ritrovato anche il coltello da cucina usato per commettere l’omicidio. Cangini è stato condotto e rinchiuso nel carcere di Villa Fastiggi con l’accusa di omicidio volontario.
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Otto marzo. Nonostante non camminino come il loro cuore desidera le donne vogliono correre verso il sole nella «Action Woman Marathon» una gara podistica non competitiva di tre tragitti che partono dalla Cascina San Fedele nel parco di Monza, organizzata dall'associazione «Arte di amarsi». Nonostante sappiano che Milano è la prima città che twitta contro di loro, le donne aderiscono alla call del Comune «DonnexMilano - Milanoxle Donne» , un palinsesto di eventi che iniziano da domani per durare fino alla fine di Expo. Il mattino alle 10.30 nel cortile di Palazzo Marino «Milano incontra la poesia - poesie di donne lette da donne» è con le poetesse Donatella Bisutti, Annunciata Colombo, Erminia Dell'Oro, Vivian Lamarque. Dalle 14.30 alle 18.30 il consiglio di Zona 2 organizza alla cascina Turro un'edizione speciale di «Booksharing» e una conferenza «Le donne che leggono sono pericolose» alle ore 16. Dalle 16 alle 19 la Casa delle donne sarà aperta per reading di poesia, corsi di yoga e percorsi di gioco. Alle 17 al Wow Spazio Fumetto viene inaugurata la mostra «Donne resistenti» , un omaggio ai settant'anni della Liberazione dell'Italia dalla guerra e soprattutto a tutte le combattenti che scelgono sentieri vergini per portare la pace in un mondo che usa le bambine come bombe. La visita guidata per piccoli e famiglie al Grande Museo del Duomo propone «Donne al Museo del Duomo. Storie di coraggio e di determinazione» che hanno fatto la nostra storia. Nonostante il femminicidio e la morale tribale di una società che nel suo pansessismo le rende vittime sui social di scherzi sessuali di volgare natura, le adolescenti pronunciano la parola «amore», sinonimo di creazione e procreazione perché la donna è l'utero fecondo, tanto che l'azienda «Lenzuolissimi» ha pensato di donare agli ospedali di Lecco e Merate completini da culla ai bimbi nati l'8 marzo, e soprattutto al piccolo Mattia salvato al Manzoni di Lecco dalla sua nascita prematura. Al Tibi Bistrot , in via San Fermo 1, una mostra di fotografie di Marco Marini per raccogliere contributi per la onlus Karibuni, autrice di progetti finalizzati alle bambine del Kenja. Immagini di sorrisi e di giochi infantili dicono quanto sia importante per le donne la libertà. In Italia ci sono ancora quaranta carcerate con i loro figli tra le sbarre. Scatta l'8 marzo la campagna #maipiuinivisibile di Fondazione Pangea Onlus, con l'aiuto di Avon. È possibile effettuare donazioni con un sms solidale al 45591. Il ricavato è per cinque centri anti violenza del Sud Italia che sono a rischio chiusura a Bari, Olbia, Palermo, Caserta, Potenza. Alle 20.30 alla Società Umanitaria di Milano sarà proiettato il film muto «Salomè» . Nonostante questa terra arida, la mano femminile semina mimose. Lo ricorda il Fai che oggi e domani dalle 10 alle 18 ripropone «Un soffio di primavera» la mostra di piante, articoli da giardino che si svolge nella palazzina Appiani al parco Sempione.
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ROMA — Lo vedi negli occhi delle madri e delle figlie. Dei padri con i bambini in braccio. Dei maschi, davvero tanti, nella marea viola che sfila accanto al Colosseo. C’era ieri e c’è oggi. Il freddo, il sole, le bandiere, la rabbia e i fumogeni, ma in mezzo c’era lei, Giulia Cecchettin. E nulla sarà più come prima. Perché il suo femminicidio ha sconvolto l’Italia ed è diventato il simbolo di tutti i femminicidi, del sangue delle donne uccise ogni giorno, della paura, della sopraffazione, della apparente normalità in cui può celarsi la violenza feroce di un ragazzo. Era questo, ieri, il vero dato nuovo della manifestazione organizzata da “Non una di meno”. L’irrompere nel corteo immenso, transfemminista e intersezionale, antirazzista, antifascista e pacifista, tra bandiere palestinesi e curde, di intere famiglie con figli e figlie adolescenti, gruppi di bambine e bambini, classi con genitori e prof. Cinquecentomila in piazza, con Giulia Cecchettin nel cuore. «L’unico antidoto alla violenza è l’educazione alla parità e al rispetto tra i sessi, ma è dai piccoli che bisogna cominciare, per questo siamo qui con i nostri figli », dice Marica Rossi, mamma di una ragazzina dodicenne che sorride e fa gruppo insieme ai suoi amici della “Montessori”. «Quello che mi sorprende è la folla di maschi di tutte le età», aggiunge Marica, «ma l’omicidio di Giulia Cecchettin ha scosso un’onda, ci ha ricordato che questa violenza riguarda tutti, nessuno escluso». Educare, prevenire, per non morire. «Se domani non torno, sorella distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima»: le parole della poetessa peruviana Cristina Torres Caceres, diventate l’epitaffio dell’assassinio di Giulia, sono moltiplicate ovunque, su cartelli, striscioni, magliette, stendardi. C’erano Schlein e Landini, Gualtieri e Conte, e poi Paola Cortellesi, Fiorella Mannoia, Noemi, Malika Ayane, Luca Zingaretti e Ferzan Ozpetek. Non era mai successo che tra politica e spettacolo fossero tante e tanti: ma quella di ieri, nello spartiacque che il femminicidio di Giulia ha segnato, è stata una manifestazione speciale. Il corteo scorre al ritmo dei tamburi, suonano chiavi, pentole e maracas dietro il camion di “Non una di meno”, ci sono i centri antiviolenza, le case delle donne, i collettivi universitari, c’è la rappresentanza palestinese, si affollano ragazze giunte da tutta l’Italia con i “fucsia-bus”, qualche tensione arriva soltanto davanti alla sede di Pro Vita, casa di gruppi di integralisti cattolici antiabortisti e dichiaratamente antifemministi, oggi saldamente appoggiati dal governo Meloni. «La polizia ci ha caricato»,denunciano le attiviste di “Non una di meno”, così come la rappresentante degli studenti palestinesi, Maya Issa, ha raccontato di essere stata aggredita perché portava la sua bandiera. Note a margine però. I timori della vigilia, la grande frattura sul silenzio di parte del femminismo sugli stupri di Hamas e sulla piattaforma pro-Palestina del corteo, sono rimasti sullo sfondo. Anche se la frattura non si è composta e infatti la comunità ebraica ha ricordato il 25 novembre e le vittime di Hamas in una contromanifestazione al Ghetto. A Milano erano in 30mila, c’erano anche Chiara Ferragni e il sindaco Sala, con i nomi delle vittime di femminicidio scanditi lungo il corteo. Camminando si parla. La violenza affiora dalle vite di tanti. Olivia ad esempio, Capobianco di cognome, 22 anni, italo americana, studia al Dams di Roma. Ha un cartello in mano, i capelli rossi e dice: «Ho subito violenza a 16 anni. Pensavo di aver dimenticato, rimosso, ho lasciato Boston, sono venuta a Roma. Ma uno stupro ti resta dentro per sempre, non puoi dimenticarlo, tutto è di nuovo esploso dentro di me. Sono qui per quelle come me che sono rimaste in silenzio per troppo tempo». Poi ci sono i maschi ed è la grande novità. Come Sirio Pietromarchi, 25 anni, studente di Scienze motorie. «Giulia purtroppo non sarà l’ultima, il maschilismo è una cattiva pianta radicata in noi uomini,mi chiedo quanti Filippo Turetta ci siano tra chi ci cammina accanto. Ma non è solo un problema degli uomini. Ho diverse amiche che accettano relazioni violente, con fidanzati gelosi in modo ossessivo che dicono loro se possono andare in discoteca o no. Perché accettano tutto questo?». Perché il patriarcato è anche dentro le madri, figlie, sorelle, è attorcigliato alla nostra educazione, è l’abitudine a subire che le maltrattate riconoscono nei centri antiviolenza. «Siamo il grido di tutte quelle che più non hanno voce». «Sono cresciuta sentendomi dire: “Stai zitta”. I maschi della mia famiglia erano come gli uomini del film di Paola Cortellesi, dovevano comandare e picchiare», racconta Grazia Inglisa, napoletana, classe 1964. «Le donne della mia generazione subiscono ancora, io ho lottato per liberarmi, a questa manifestazione vengo ogni anno, lo faccio per mia figlia, questa volta anche per la povera Giulia, come fosse la figlia di tutte noi». Ci si commuove ad ascoltare questi frammenti di vita. Quanto dolore però. Ed è ciò che traspare dagli occhi di Magdal Flamini, 19 anni, sesso femminile assegnato alla nascita, oggi in transizione maschile. «Mio padre è un militare e mi ha cacciato di casa a 14 anni, gli facevo schifo, sono cresciuto in una casa famiglia per persone trans, oggi ci vediamo soltanto in tribunale, da pochi mesi ho iniziato la terapia ormonale. Mi sono sentito disperatamente solo, sono stato picchiato, la società ci tratta da rifiuti, questa è la violenza». Riprendiamoci la notte, dicevano gli oceanici cortei femministi alla fine degli anni Settanta, perché di notte le donne avevano paura di essere stuprate. Poco sembra cambiato a giudicare dalle parole di Adriana Palmeri e Francesca Ferriolo, 25 e 22 anni, arrivate da Firenze. «Vi sembra normale tornare a casa la notte guardandosi le spalle? O ritrovarsi una mano addosso sull’autobus? O dover cambiare strada per paura di essere molestate? Ecco noi viviamo così, nel 2023». Nella sera gelida di questo inverno tardivo l’immagine della speranza è quella di Elisabetta e Adelaide, mamma e figlia, che camminano abbracciate. Adelaide, 13 anni, è emozionata. Elisabetta Randaccio fa l’avvocata: «Ci stanno togliendo diritti e libertà. Sono qui per Adelaide, perché possa vivere libera dalla violenza maschile». Accadrà, forse, un giorno. Per Adelaide, Magdal, Olivia, Adriana, Per Giulia no, lei non c’è più.
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Alcuni lettori mi domandano perché l’altra sera, a Dimartedì, non ho risposto ad Alessandro Sallusti che mi dava del delinquente, diffamatore, condannato in Italia e pure “in Europa” (ma sì, abbondiamo: abbondantis abbondandum!). La risposta è semplice: il mio intervento era registrato, il suo in diretta. Meglio così, altrimenti saremmo finiti – come sempre, con […]
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"Le discriminazioni delle donne, i femminicidi, non sono solo un nostro problema; sono anche un vostro problema". Lo afferma la presidente della Camera Laura Boldrini in un'intervista al Corriere della Sera che chiede che "uomini e donne abbiano gli stessi diritti, tutti noi dobbiamo adoperarci e quindi dobbiamo essere tutti femministi", "soprattutto gli uomini". E rivolto ai violenti afferma: "Arrendetevi. Rassegnatevi. Non ci ridurrete a testa bassa. Noi e le nostre figlie non vi consegneremo la nostra libertà. Il male che fate vi si ritorcerà contro". "Il femminicidio purtroppo non ha confini: tocca tutti i Paesi, a ogni latitudine. Per questo bisogna coinvolgere gli uomini. Devono farsi sentire, devono condannare la violenza, devono far vergognare i violenti. Ci deve essere lo stigma sociale su di loro: gli altri uomini devono isolarli. Invece a vergognarsi a volte sono le donne che subiscono la violenza. È un mondo al contrario. Per questo è essenziale far arrivare al più presto i finanziamenti ai centri antiviolenza e alle case rifugio. Strutture che per molte donne rappresentano la salvezza". Quanto alle discriminazioni nel lavoro parlano i dati, dice Boldrini: "Solo il 47% delle italiane lavora. Al Sud la percentuale diminuisce drasticamente. Quando la donna lavora, a parità di qualifica, a volte - per non dire quasi sempre - guadagna di meno. Andiamo in senso contrario a quello che ci indicano le ricerche. Il Fondo monetario ha condotto un'indagine su 2 mila aziende europee: quando nei board ci sono le donne, il fatturato aumenta da 8 a 13 punti. In Italia solo il 21% delle aziende ha donne ai vertici. L'Italia perde il 15% di Pil potenziale perché non stimola l'occupazione femminile. Come si fa a non capire che si deve puntare sulle donne per la ripresa? E non per le donne; per il bene delle aziende e del Paese".
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La parola del 2023 secondo Treccani è femminicidio. Valeria della Valle — che con Giuseppe Patota dirige il Vocabolario Treccani — ha spiegato in una nota che la presenza della parola femminicidio sulla stampa e sui libri di saggistica si è fatta più rilevante “fino a configurarsi come una sorta di campanello d’allarme che segnala, sul piano linguistico, l’intensità della discriminazione di genere”. Quando Michela Murgia, mi diceva e, soprattutto, scriveva che la parola femminicidio non indica il sesso della morta, ma il motivo per cui è stata uccisa e aggiungeva che la parola femminicidio non segnala solo che qualcuno è stato ammazzato, ma pure il perché è stato ammazzato, io non le credevo. Eccepivo che essere umano viene prima di qualsiasi distinzione di genere, sesso, razza e religione, che la vita viva precede la vita felice o la vita infelice, la vita delle donne e degli uomini, dei vecchi e dei bambini, di coloro che ci piacciono e degli altri che sono pure la maggioranza, bisogna dire omicidio — chiudevo la mia arringa maestosa e illuminista –, bisogna dire omicidio perché sia detto, a voce sempre più alta, che non si uccide. Ovviamente, aveva — e avrà — ragione Michela Murgia alla quale le questioni astratte non interessavano. Le interessava identificare e tentare di risolvere i problemi. E questo rimane un grande monito adesso che non posso più parlarle dall’altezza infantile della mia presunzione. Il femminicidio non è questione astratta, è la pratica attraverso la quale il sistema che chiamiamo società civile ed è formato e sostenuto da uomini e donne punisce i deboli, gli irregolari, i non conformi. Dove debole, irregolare e non conforme significa il contrario di maschio bianco eterosessuale. E dove il debole, irregolare e non conforme più diffuso è la donna. Le vittime concrete di questa pratica sono dunque le donne che, dall’inizio dell’anno 2023 e, direi, del tempo, vengono uccise, le vittime astratte di questa pratica siamo noi. Tutti noi. Con un problema che, nel nostro essere vittime astratte sottovalutiamo — i maschi bianchi eterosessuali, fuori e dentro di noi, di più, ma dicono “non si può dire niente/non si può fare niente” — e, con questa sottovalutazione, contribuiamo al fatto che i femminicidi crescano quasi indisturbati, le misure, già lasche, si rivelino prima inefficaci e poi inutili. Elena Cecchettin, dal giorno in cui è morta sua sorella Giulia, ribadisce col corpo e le parole che se è successo a Giulia, può succedere a tutte. Se Giulia Cecchettin è morta, tutte siamo a rischio e se siamo salve è per caso o fortuna, per una serie ininterrotta di gesti riusciti. Se caso e fortuna sono dirimenti allora la società che abbiamo costruito deve essere ripensata. Nell’anno 2014, Daniele Giglioli, studioso e critico, pubblicava per i tipi nottetempo Critica della vittima. Un esperimento con l’etica che cominciava così: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima... Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce... Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subìto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”. Così, quando Giorgia Meloni, primo ministro, tra le tante parole, sue e citate, del discorso ad Atreju ha detto che essere conservatori significa vivere di ciò che è eterno ed ha ribadito “siamo le stesse persone che eravamo ieri e saremo le stesse persone che siamo oggi”, l’eternità non ha rassicurato e la persistenza in ciò che si è mi ha raggelato. Perché in quelle eternità e persistenza affonda la radice di violenza per cui il femminicidio è prassi e le vittime astratte vantano le loro ragioni mentre le vittime concrete non possono più farlo perché morte.
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Presentazione in anteprima assoluta venerdì 6 ottobre alle 17.30, presso Palazzo Sant’Agostino, sede della Provincia di Salerno, del romanzo della scrittrice salernitana «La metrica dell’oltraggio» Sarà presentato in anteprima assoluta venerdì 6 ottobre alle 17.30, presso Palazzo Sant’Agostino, sede della Provincia di Salerno, il romanzo «La metrica dell’oltraggio», di Michela Bilotta (Jack Edizioni). Il libro dell’autrice salernitana si configura come un lungo viaggio da Milano alla Basilicata per indagare il fenomeno dei femminicidi. La protagonista, Beatrice De Sanctis, è una giornalista alla quale viene affidato l’incarico di andare a Valsinni, in provincia di Matera, per scrivere un articolo su Isabella Morra, poetessa del Cinquecento assassinata dai fratelli. Inizia, così, un viaggio dal Nord al Sud del nostro Paese, che è prima di tutto un simbolico percorso di crescita e di consapevolezza per parlare di violenza sulle donne da molteplici angolazioni: dalla strumentalizzazione mediatica del fenomeno all’influenza che gli stereotipi linguistici esercitano sui comportamenti quotidiani, dalla piaga delle spose bambine alla detenzione manicomiale delle donne prima della legge Basaglia. Sullo sfondo, la bellezza struggente e spesso oltraggiata dell’Italia minore, che si fa protagonista silenzioso del romanzo. Il destino di Isabella Morra «Con questo libro ho voluto rievocare il triste destino di Isabella Morra facendolo convergere con la sorte delle tante donne vittime di femminicidio oggi. Perché è tempo di sradicare la cultura patriarcale che crediamo superata e nella quale siamo, invece, ancora immersi, spesso inconsapevolmente” – afferma Bilotta. Ne parlano con l’autrice l’avvocata Stefania de Martino, esperta di politiche di genere, Maria Rosaria Pelizzari, professoressa di Storia delle donne e studi di genere presso l’Università di Salerno e Andrea Raguzzino, editore della Jack Edizioni. Al talento dell’attrice Maria Rosaria Marena è affidato il compito di emozionare il pubblico attraverso la lettura di alcuni brani del libro. Le ottanta vittime «Sono circa ottanta le donne vittime di femminicidio in Italia dall’inizio dell’anno. Questo incontro diventa momento prezioso di riflessione e approfondimento su un fenomeno che ha assunto connotazioni di estrema gravità e che richiede interventi urgenti e trasversali, che chiamino in causa tutti, dalla scuola alle famiglie, dalla politica alle istituzioni» – conclude Stefania de Martino. La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici [[URL]]
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Matteo Montevecchi siede sui banchi dell'Assemblea legislativa nel gruppo del Carroccio: «Da lei solo propaganda». Piccinini (M5S): «Si vergogni e cancelli il post» Le parole di Elena Cecchettin «sono inaccettabili» e da «respingere con fermezza», perché «non è l'inesistente patriarcato a produrre queste violenze». A sostenerlo è Matteo Montevecchi, consigliere regionale della Lega in Emilia-Romagna, che sui social attacca la sorella di Giulia per le dichiarazioni su Filippo Turetta, definito «figlio sano della società patriarcale». Concetto che Montevecchi respinge, prendendo di mira Elena Cecchettin anche per i simboli considerati satanisti nelle sue immagini social, come già ha fatto il consigliere regionale del Veneto, Stefano Valdegamberi, finito nella bufera nella sua regione. «Discorso di Elena impregnato di ideologia» «Qualcuno dovrebbe spiegare perché Elena, per proferire il suo discorso impregnato di ideologia- attacca il leghista- si è presentata in mondovisione con una felpa della Thrasher che richiama il mondo dell'occulto e del satanismo (simbolo del pentacolo) e soprattutto per quale motivo sul suo profilo Instagram, che è pubblico e che chiunque potrebbe vedere in pochi secondi, sono presenti sue foto con croci rovesciate sul volto, collane sataniche, statue di Lucifero e quant'altro. In sostanza la rappresentazione del male, quello vero». «Parole della sorella di Giulia inaccettabili» Montevecchi riporta le parole di Elena. E incalza. «Tutti gli uomini e le donne che non sono ancora cascati con le mani e con i piedi nella trappola del vortice di questa preoccupante generalizzazione e retorica- afferma il consigliere regionale del Carroccio- dovrebbero ribadire che queste parole di Elena Cecchettin sono inaccettabili e che si tratta di pura propaganda funzionale alla diffusione di un determinato pensiero che impone di credere che sia una colpa il solo fatto di essere uomini e che quindi ci sia la necessità di una rieducazione di Stato. Si tratta di ideologia `woke´ all'ennesima potenza, che predica una incessante divisione tra uomo e donna da respingere con fermezza». Secondo Montevecchi, invece, è «utile andare a fondo per capire che non è l'ormai inesistente patriarcato a produrre queste violenze, ma la perdita di valori e la diffusione di una pericolosa cultura narcisistica che vede l'altro non più come una persona», sostiene il leghista. Poco dopo, Montevecchi ha precisato quanto scritto nel suo post: «Non attacco Elena Cecchettin per le dichiarazioni su Filippo Turetta, ma la contesto per le dichiarazioni sugli uomini che dovrebbero fare a suo dire mea culpa. Le due cose sono da non confondere». Piccinini (M5S): «Da Montevecchi elucubrazioni deliranti» Parole «vergognose», che sarebbero da «cancellare». Così Silvia Piccinini, consigliera regionale M5s in Emilia-Romagna, definisce le dichiarazioni di Montevecchi. «Mentre ci svegliavamo con l'ennesimo femminicidio- commenta Piccinini- c'è chi ha il coraggio riprendere le dichiarazioni vergognose del consigliere Valdegamberi, abbassando ulteriormente il livello con elucubrazioni deliranti che mescolano riferimenti all'ideologia woke e al satanismo». Per la destra, affonda il colpo la consigliera M5s, «le donne vanno bene solo quando si mostrano deboli, in difficoltà, vittime indifese da salvare». A Montevecchi, quindi, «dico solamente: si vergogni- sferza Piccinini- cancelli il post e mostri il doveroso rispetto al ruolo che ricopre».
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Interrogati i parenti e gli amici più stretti della diciassettenne per capire quale rapporto la legasse a un personaggio con il quale non aveva alcun legame. Convalidato il fermo Si è concluso con la convalida dell'arresto l'interrogatorio del sospettato dell'accoltellamento di Michelle Causo. L'assassinio della giovane è stato uno shock per i residenti che mostrano solidarietà alla famiglia e portano fiori davanti al luogo in cui mercoledì scorso è stato ritrovato il corpo all'interno di un carrello per la spesa, coperto da un grosso sacco nero. Molti fanno il segno della croce e dedicano una preghiera alla memoria dell'adolescente. I genitori portano per mano i figli sul posto. Come un padre sulla sessantina che commenta: «Questa è una zona difficile? No, ci sono persone difficili. Poi oggi con questi telefonini…postano tutti sui cellulari. Il ragazzo arrestato? Spero non trovi un avvocato bravo che gli faccia dare l'infermità mentale». Una ragazzina coetanea della vittima aggiunge il suo fiore alla catasta. La madre che è con lei si commuove: «Questi femminicidi devono finire. Non può morire una ragazza in questo modo, purtroppo Michelle non ce la ridarà più nessuno». La parola droga non viene pronunciata apertamente ma con il passare delle ore si fa largo nella tragica vicenda della morte di Michelle Causo. La polizia rimane cauta sul coinvolgimento della giovane vittima in una vicenda che potrebbe avere collegamenti con gli ambienti degli stupefacenti e dello spaccio di sostanze allucinogene o di droghe leggere. Al momento tutto ruota - dopo l’interrogatorio di garanzia del diciassettenne arrestato per l’omicidio volontario aggravato della coetanea di Primavalle convalidato il fermo presso il centro di accoglienza minorile in via Virginia Agnelli, al Portuense - attorno alle dichiarazioni dello stesso giovane rilasciate nella notte di mercoledì scorso quando ha fatto parziali ammissioni sulle sue responsabilità nel delitto. «Ero in debito con Michelle di 40 euro» «Ero in debito con Michelle di 40 euro», avrebbe dichiarato fin dall’inizio il ragazzo, a casa del quale gli investigatori hanno scoperto un vero e proprio laboratorio per la produzione di Purple Drank, lo stupefacente dei trapper, un mix micidiale di alcolici, anfetamine e farmaci capaci a lungo andare di provocare «sballi» difficili da smaltire. Il sospetto è perfino che lo stesso ragazzo fosse sotto effetto di questa sostanza nel momento in cui ha ucciso la giovane, cercando poi in modo assurdo di occultarne il cadavere in pieno giorno lasciandolo vicino ai cassonetti di via Stefano Borgia su un carrello della spesa. Un rapporto d'amicizia nato negli ultimi tempi Le dichiarazioni rilasciate da ragazzo arrestato - non si esclude un tentativo disperato di dare una spiegazione per quello che ha fatto e attenuare la propria posizione, ottenendo invece l’effetto contrario perché in questo modo rischia l’aggravante dei futili motivi - sono ora sotto esame, anche perché al momento gli investigatori della Squadra mobile non confermano il coinvolgimento della vittima in una storia di droga. Da capire quindi la natura di quel presunto debito che il killer ha messo al centro di tutta la vicenda. Per questo motivo fin dalle prime ore dopo la scoperta del diritto sono stati interrogati i parenti e gli amici più stretti della diciassettenne per cercare di capire quale rapporto la legasse a un personaggio con il quale non aveva alcuna relazione sentimentale ma un rapporto di amicizia nato all’improvviso negli ultimi tempi, estraneo alla sua cerchia di contatti abituali. Accertamenti sulla possibile delega a Michelle a riscuotere Accertamenti in corso anche per verificare se quel presunto debito fosse veramente con Michelle oppure con altre persone che potrebbero poi aver chiesto alla ragazza di risolvere la questione recandosi a casa del diciassettenne per farsi restituire quella esigua somma di denaro. A questo scopo sarà decisivo l’esame delle memorie dei telefonini dell’assassino, della vittima e sembra anche altri apparecchi cellulari che potrebbero contenere lo scambio di messaggi degli ultimi giorni fra tutti i protagonisti della vicenda che non si esclude siano proprio incentrati attorno alle dichiarazioni rese dal giovane detenuto. Un delitto maturato all'improvviso Quest’ultimo, dei riscontri della polizia, non è conosciuto come spacciatore almeno dalle forze dell’ordine perché ha un unico precedente per un’aggressione nei confronti di un altro ragazzo, mentre la diciassettenne risultava incensurata e senza alcun guaio con la giustizia. La pista principale seguita dalla polizia è sempre quella di un delitto maturato all’improvviso, in seguito forse a una lite o a un serrato scambio di battute nell’appartamento del giovane che a un certo punto, sotto effetto di stupefacenti, ha perso il controllo massacrando a coltellate l’amica che ha tentato di difendersi con la forza della disperazione senza riuscirci. Se vuoi restare aggiornato sulle notizie di Roma iscriviti gratis alla newsletter "I sette colli di Roma". Arriva ogni giorno nella tua casella di posta alle 7 del mattino. Basta cliccare qui.
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(reuters) (ansa) (ap) (reuters) Migliaia di donne, soprattutto giovanissime, sono scese in strada a Buenos Aires armate di fazzoletti verdi, a tre anni di distanza dalla prima manifestazione contro i femminicidi in Argentina. Oggi la loro protesta è in sostegno della richiesta di una legge sull'aborto, che in Argentina non è legale salvo alcuni casi particolari. Perciò ieri pomeriggio, questa notte in Italia, la "marea verde" ha invaso Plaza de Majo con slogan come "Aborto legale in ospedale".E' fissata per il 13 giugno la seduta in cui il Parlamento argentino discuterà la proposta di legge sulla depenalizzazione dell'interruzione volontaria di gravidanza, attualmente illegale tranne in caso di stupro o se la vita della donna è in pericolo. Il voto, che arriva dopo mesi di discussioni in aula, non è scontato: 112 deputati hanno annunciato che voteranno a favore, 115 si dichiarano contrari. Gli indecisi, vero ago della bilancia, saranno 29. Il presidente argentinosi è detto contrario ma ha dichiarato che non porrà il veto se la legge verrà approvata. I sondaggi dicono che oltre la metà della popolazione sostiene la depenalizzazione dell'aborto, una percentuale che cresce tra i giovani. Gli anti-abortisti hanno la Chiesa al loro fianco, e anche loro sono scesi in piazza in questi giorni.Domenica, nella cerimonia di premiazione del Martín Fierro, che viene assegnato annualmente dall'Associazione dei giornalisti della televisione e radiofonia Argentina, giornalisti e attori, sia maschi che femmine, si sono espressi pubblicamente a favore della depenalizzazione. Molti di loro indossavano qualcosa di verde e hanno sventolato i fazzoletti simbolo della mobilitazione, come accaduto alla cerimonia hollywoodiana dei Golden Globe in favore del movimento "MeToo" a sostegno del rispetto delle donne.Il Ministero della Sanità argentino stima che circa mezzo milione di donne abortiscano ogni anno in Argentina nonostante il divieto. Le registrazioni ospedaliere mostrano che nel 2016 almeno 50mila donne sono state ricoverate in ospedale per complicazioni derivanti da aborti, e 43 di queste sono morte.Il movimento delle donne si è coalizzato ed è sceso in piazza la prima volta il 3 giugno 2015, per denunciare il femminicidio di una ragazza di 14 anni, Chiara Paez, picchiata a morte dal suo fidanzato di 16 anni, che l'ha poi seppellita nel cortile della casa dei nonni nella provincia di Santa Fe. Nel 2017 le vittime di femminicidio in Argentina sono state 251: secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio sulla Violenza domestica della Suprema Corte di Giustizia. Il 93% degli accusati aveva legami o conoscenze pregresse con le donne uccise e il 71% dei delitti sono accaduti nella casa della vittima.L'Argentina ha approvato il matrimonio omosessuale nel 2010, e una legge sull'identità di genere nel 2012. La campagna per l'aborto legale chiede che il Paese sia all'avanguardia anche con la legalizzazione delle interruzioni volontarie di gravidanza, in un continente in cui solo l'Uruguay e Città del Messico hanno una legge simile a quella della maggior parte dei paesi europei.
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Blocca l'auto in mezzo a un vigneto, le taglia la gola. Uccide la compagna dopo aver trascorso la serata a cena fuori, a Suvereto, Piombino, Nicola Stefanini, 48 anni, operaio in un'impresa edile. La uccide e subito dopo confessa, al telefono con il 112: «Non so dove sono, venite a prendermi». Quando arrivano i carabinieri del comando provinciale di Grosseto, a Campetroso, lungo la strada regionale 398, in piena Maremma, la donna è ancora seduta accanto al guidatore, corpo reclinato in avanti, in un mare di sangue. Sul tappetino l'arma del delitto, un coltello a serramanico. L'assassino in lacrime. Vittima Silvia Manetti, 46 anni, vedova e con due figli di 14 e 10 anni. «Mi sopporti da tre anni, auguri» scrive l'omicida sui social in occasione del loro anniversario, il 10 agosto scorso, postando una foto assieme a lei circondata da cuoricini e teschi. Succede tutto verso la mezzanotte di ieri tra Follonica e Monterotondo Marittima, dove i due vivevano da qualche tempo. Originario di Volterra lui, di Altopascio, Lucca, lei. Una storia e soprattutto, una relazione complicata la loro. Dopo la morte del marito la vittima dell'ennesimo femminicidio, tre in 24 ore, prova a ricostruirsi una vita trasferendosi nell'entroterra grossetano con Nicola, anche lui nuovo del posto. Il lavoro come lavapiatti in un locale del paese, i ragazzi da crescere e la speranza di ricominciare. Ma le cose non girano per il verso giusto. Con Nicola, in passato titolare di una paninoteca, i battibecchi sono all'ordine del giorno. Un carattere irascibile il suo: quando i militari arrivano sul posto e lo fanno salire in auto, Stefanini fa il diavolo a quattro sfondando a testate il vetro della macchina di servizio. Serviranno cinque carabinieri per calmarlo fino all'arrivo in caserma, a Massa Marittima, dove viene visitato e sedato dai medici del 118. Non è chiaro cosa abbia fatto scattare la furia omicida. Certo è che la poveretta non è riuscita nemmeno a difendersi: un solo fendente le recide la carotide. Il pm della Procura di Grosseto che coordina le indagini, Anna Pensabene, viste le sue condizioni non lo ha ancora interrogato. Preferisce attendere l'esito dell'autopsia, che sarà eseguita stamattina. Per il momento Stefanini è stato arrestato, in virtù della confessione oltre che delle evidenze (coltello e vestiti macchiati di sangue), per omicidio volontario. Sotto choc la cittadina del grossetano, che ha proclamato una giornata di lutto cittadino. Scatta la gara di solidarietà fra amici e parenti della vittima per aiutare i ragazzi rimasti orfani. Poche ore dopo e a Cazzago San Martino, Calino (Brescia) in un appartamento vengono trovati due cadaveri, moglie e marito di 56 e 57 anni di origini albanesi. Per gli inquirenti è omicidio - suicidio: lui la strangola a morte poi si impicca. La coppia ha tre figli, in questi giorni fuori per le vacanze. A lanciare l'allarme sono proprio i ragazzi preoccupati che i genitori non rispondono al telefono dalla sera prima. Quando i vigili del fuoco sfondano la porta si trovano davanti una scena straziante. In casa una lettera dell'uomo che spiega i motivi del gesto. Alla base, la gelosia nei confronti della donna. Delitti che seguono a poca distanza da quello scoperto mercoledì a Vigevano. Marco De Frenza, 59 anni pluripregiudicato, uccide la nuova compagna, Marylin Pera, 39 anni, a coltellate. Poi resta accanto al cadavere per più di 24 ore. I due era assieme appena da due settimane.
focus killer
Una ogni 72 ore, la strage infinita delle donne. Dal primo gennaio al 21 novembre di questo 2021, su 263 omicidi commessi in Italia, in 109 casi la vittima era una donna. E l’assassino qualcuno che avrebbe dovuto amarla: 93 sono state uccise in ambito familiare e affettivo, 63 di loro per mano del partner o di un ex. Va sempre peggio. Rispetto allo stesso periodo del 2020 — quando le vittime furono 101 — i femminicidi sono cresciuti dell’8%, rivela l’ultimo report della Direzione centrale della Polizia Criminale pubblicato dal Viminale in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra ogni 25 novembre. «I femminicidi non sono omicidi qualsiasi: sono donne uccise in quanto donne, vittime di una violenza che si nutre di ignoranza, pregiudizi e omertà», dice la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. «È una battaglia di libertà, giustizia e civiltà che non possiamo permetterci di perdere, in difesa di ogni donna costretta a vivere inaccettabili condizioni di paura, pericolo, solitudine o vergogna». Per la ministra della Giustizia Marta Cartabia i femminicidi sono «una vergogna della nostra civiltà. Troppe le donne uccise, troppe le richieste di aiuto non tempestivamente raccolte. La gravità dei fatti richiede di ripensare le norme. Siamo al lavoro per rafforzare gli strumenti di prevenzione». Nel pacchetto, aumento di pena per i delitti di percosse e di lesioni, procedibilità d’ufficio, estensione del braccialetto elettronico. Secondo la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese «la disciplina ha certo bisogno di ritocchi ma anche di maggior coordinamento tra le istituzioni». Chi denuncia «compie un atto di coraggio e non va lasciata sola», sostiene la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti. Secondo i dati del Viminale la maggior parte delle vittime (il 34%) ha più di 65 anni. Il 45% degli assassini ha un’età compresa tra 35 e 54 anni. In forte crescita i reati di deformazione dell’aspetto della persona con lesioni permanenti al viso (+35%), come i casi di revenge porn (1.099, +45%) e le violazioni dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare (+10%). Marta Cartabria, ministra di Giustizia (Ansa) Marta Cartabria, ministra di Giustizia (Ansa) Molte le iniziative in programma. Fino a stasera la facciata di Palazzo Madama, che alle 10 ospita l’evento «No alla violenza. Il grido delle donne» (presenta Barbara De Rossi, interventi di Claudia Gerini e Grazia Di Michele, diretta su Raiuno) è simbolicamente illuminata di rosso. Come l’aeroporto di Fiumicino, il Colosseo, la Piramide Cestia e il ministero dell’Istruzione: alle 10.30 flash mob sulle scale di viale Trastevere alla presenza del ministro Patrizio Bianchi: «La scuola dice no all’odio e agli abusi».
focus victim
Per un trentottenne, accusato di gravi e continuati maltrattamenti alla compagna, il questore Alessandra Simone ha disposto la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza. Il destinatario della misura, con diversi precedenti penali e già colpito da avviso orale del questore, si trova in carcere per scontare una pena definitiva di un anno ed otto mesi di reclusione per maltrattamenti nei confronti della convivente, che in quell’occasione aveva colpito con un casco da moto per poi sequestrarla all’interno di un capanno degli attrezzi fino a che non è stata liberata da un’amica a cui aveva chiesto aiuto. La notifica del decreto della sorveglianza speciale è avvenuta quindi nell’istituto di pena e l’anno e mezzo di durata della misura decorrerà dal momento della sua scarcerazione. «Si tratta di una misura – spiegano in questura – finalizzata a contenere persone ritenute ad elevata pericolosità sociale, introdotta dal c.d. Codice Rosso, che ha esteso ai soggetti maltrattanti l’applicazione della misura della sorveglianza speciale prevista agli esponenti della criminalità organizzata, allo scopo di prevenire che la spirale di violenza da loro intrapresa possa sfociare nella commissione di più gravi reati. Infatti, oltre ad alcuni obblighi, come il non potersi allontanare dalla propria abitazione nelle ore notturne, nel provvedimento vengono imposte delle prescrizioni a cui il soggetto dovrà attenersi, come, fissare la propria dimora e comunicarla all'Autorità di pubblica sicurezza, non potrà frequentare i luoghi normalmente frequentati dalla persona offesa, dovendosi allontanare immediatamente in caso di incontro occasionale e non potrà comunicare con lei con qualsiasi mezzo». «L’applicazione di queste misure – prosegue la nota della questura – rientra nel più ampio progetto di intensificazione dell’attività di prevenzione, in questo caso applicata al contrasto alla violenza di genere. Le misure di prevenzione sono infatti uno strumento indispensabile, a tutela delle donne vittime di violenza, particolarmente efficaci per bloccare l’escalation di violenza che purtroppo spesso conduce dai maltrattamenti al femminicidio».
focus killer
Rileggiamo quel capolavoro di Simone Weil intitolato “L’’Iliade poema della forza”. Separare la forza dalla violenza sembra non sia cosa facile. Che cosa vuole una donna? Vuole un uomo forte, non un uomo violento. Come possiamo farci capire? Forse dovremmo esercitarci di più davanti allo specchio per imparare a pesare le parole, a influenzare l’anima dell’interlocutore e non solo per sedurre, ma soprattutto per salvarci la pelle. Chi è un uomo forte? Probabilmente è quello che riesce a mantenere la calma nei momenti difficili, che conosce il suo valore anche quando gli altri non lo riconoscono, che è capace di sorridere, di resistere, di consolare, di proteggere. L’uomo forte è colui che conosce la sua stessa forza e che sa usarla a tempo e a luogo. L’uomo forte non è l’uomo violento. Noi invece, care, dolci e belle amiche siamo piene di qualità ma spesso inciampiamo nei nostri graziosi piedi, andiamo fuori tema, usiamo le parole con scarsa attenzione, il nostro coraggio è spesso imprudente, la nostra paura è spesso inutile. Dicevo dunque andiamo fuori tema, come è successo l’altra sera a ‘Servizio Pubblico‘ e dispiace dirlo visto che parliamo di un grande e generoso lavoro svolto da molte donne che hanno collaborato per aiutare le più sfortunate tra noi. Parlo di “Ferite a Morte” e sono qui per dire che l’ultima cosa da fare è criticarci a vicenda. Non è quindi una critica la mia ma solo un’osservazione marginale, dove è proprio sui margini che si gioca la vita o la morte, come tante storie ci raccontano. Paola Cortellesi con la sua faccia spiritosa e il suo sorriso irresistibile mi è sembra piaciuta come donna e come attrice, ma nel suo intervento ha ripetuto più di una volta una frase pericolosa: “Meglio morta che con te…”. Questa è la distrazione di cui parlavo prima, l’ingenuità che si paga anche in termini di comunicazione. Il tema è tale che non ammette margini di errore oltre quelli già accaduti, che hanno provocato la morte. “Meglio morta che con te” è la frase sbagliata, quella giusta, secondo me, è “meglio viva che con te”, e questo perché con quell’uomo, che ha confuso fatalmente la forza con la violenza, non si può essere che morte. Mi piacerebbe che ci accorgessimo tutte che nell’esercizio di raccontare l’orrore, nei dettagli, nella coazione a ripetere e persino nel tentativo di satira dell’orrore stesso, esiste il pericolo di partecipare inconsapevolmente al grande spettacolo mediatico della violenza in genere e in particolare della più gettonata, quella sulle donne. Lo facciamo spesso, ci sbagliamo e a volte colgo un lampo di ironico compatimento nell’atteggiamento di chi, uomo di potere illuminato, ci concede visibilità ed è dalla nostra parte. Spesso non siamo all’altezza delle poche occasioni che ci vengono offerte, prendiamo grandi e piccoli abbagli senza riuscire a sfruttare l’attimo fuggente. Se non ora quando? Una frase magnifica, un’altra straordinaria performance che alcune donne hanno inventato, moltissime hanno praticato per poi alla fine essere semplicemente rimandate a casa. Come può succedere che preziosi minuti concessi in prime time a “Servizio Pubblico” vengano adoperati con generosità ma senza la dovuta attenzione? Dicono che l’attenzione sopravviverà al deserto, ma temo che prima si debba attraversarlo.
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Ray Rice, celebre giocatore statunitense di football, è stato protagonista martedì di una storia molto dibattuta sui media americani e in generale su siti internet e social network. Il campionato NFL ha deciso di sospenderlo dopo la diffusione di un video registrato lo scorso febbraio in cui lo si vede picchiare la sua allora fidanzata e attuale moglie Janay Palmer Rice. Il fatto era già noto, ma il nuovo video lo ha reso più evidente, grave e inaccettabile: e dopo la sua diffusione si è discusso molto della violenza di Rice e dell’inadeguatezza dell’NFL nell’intervenire solo adesso. Ma dopo poche ore la stessa Janay Rice è intervenuta su quello che stava accadendo con un messaggio che ha spostato gran parte dell’attenzione su di lei e sui suoi pensieri e reazioni. Cosa ha scritto Janay Palmer Rice Fino a qualche tempo fa Janay Palmer era semplicemente la fidanzata di Ray Rice, da febbraio era stata la fidanzata picchiata di Ray Rice, da quest’estate la moglie picchiata di Ray Rice: Janay Rice, col cognome del marito che ha deciso di usare. Ma il giorno dopo la sospensione di Ray Rice, tramite il suo account Instagram Janay Rice – che ha 26 anni – è intervenuta infine su quello che stava succedendo: «Mi sono svegliata questa mattina come se avessi avuto un incubo orribile, come se fosse morto il mio migliore amico. Ma constatare che si tratta della realtà è un incubo a sua volta. Nessuno immagina il dolore che i media e le opinioni non richieste della gente hanno causato alla mia famiglia. Farci rivivere un momento della nostra vita del quale soffriamo ogni giorno è una cosa orribile. Togliere all’uomo che amo qualcosa su cui è spaccato il culo per tutta la vita, solo per guadagnare consensi è mostruoso. QUESTA È LA NOSTRA VITA! Com’è che non lo capite? Se quello che volevate era farci del male, imbarazzarci, renderci soli e portarci via la felicità, ci siete riusciti su tutta la linea. Ma sappiate che noi continueremo a crescere e a mostrare al mondo che cos’è l’amore». Janay Palmer, fino a qui Janay Palmer e Ray Rice si erano incontrati quando erano adolescenti, ma hanno cominciato a frequentarsi solo qualche tempo dopo, durante la prima stagione di Rice ai Ravens, nel 2008. Lei lo seguì a Baltimora, iscrivendosi alla Towson University. Baltimora era una città nuova, Janay Palmer era giovane, adattarsi alla nuova vita non fu semplice e manifestò qualche disagio. Nel 2010 venne accusata di aver rubato un abito da mille dollari in un centro commerciale e ottenne la libertà vigilata in cambio del pagamento di una multa. Nel frattempo rimase incinta. Riuscì a laurearsi, ma non cominciò a lavorare. Rice, per la laurea, le regalò una macchina e un anello di fidanzamento («Sono quasi svenuta quando mi ha detto che la macchina era mia», ha dichiarato lei). Nel 2012, Rice firmò un contratto di 5 anni da 35 milioni di dollari con i Ravens. Nel febbraio del 2014 il sito di gossip TMZ diffuse un primo video che mostrava Rice trascinare la fidanzata priva di sensi fuori dall’ascensore, nel corridoio dell’albergo di un casinò di Atlantic City, nel New Jersey. Rice fu incriminato a marzo per aggressione. Janay Palmer partecipò con il fidanzato a una conferenza stampa per chiarire quello che era successo e facendo anche sapere di avere avuto “un ruolo nell’incidente” di cui era “profondamente dispiaciuta” (l’account di Twitter dei Ravens diffuse la frase, ricevette molte critiche, e quel tweet è stato cancellato nei giorni scorsi). Il giorno dopo che a Rice venne formalizzata l’accusa di aggressione, Janay Palmer decise di sposarlo. L’8 settembre TMZ ha diffuso una seconda e più completa versione del video che mostra Rice colpire Janay Palmer violentemente al volto, tanto da farle perdere i sensi. Non è chiaro se ci siano stati altri episodi di violenza di Rice sulla moglie. Quello che si sa per certo, sono i contenuti di quel video e le parole di lei. Sulle quali ci sono state reazioni molto contrastanti tra loro, sui giornali e sui media. Alcuni si sono concentrati sul fatto che la pubblicazione del video ha rappresentato un nuovo caso di violazione della privacy nella vita di una donna, altri hanno sostenuto che invece è stata necessaria; altri ancora hanno provato a commentare o a spiegare il comportamento di Janay Palmer (e anche qui, con almeno due posizioni differenti). Pubblicare o non pubblicare? Tutti i maggiori siti di news e dei giornali del mondo hanno condiviso o pubblicato direttamente negli articoli che riguardavano questa storia il video con le immagini dell’aggressione di Rice alla moglie. In un secondo tempo, molte giornaliste e giornalisti (anche di quegli stessi siti) hanno sostenuto che il video non andava messo a disposizione del pubblico. Amy Davidson sul New Yorker e Juliet Macur sul New York Times si sono chieste se e perché la pubblicazione del secondo video fosse necessaria: certamente la scena completa mostra in modo innegabile quello che è successo. Ma non bastavano le prime immagini (le indagini della polizia e l’accusa di aggressione a Rice) per capire «che era stato commesso un reato?», scrive Macur. E non bastavano le prime immagini, scrive Davidson, per capire che tra un giocatore di football americano e sua moglie non sarebbe stata «una lotta alla pari?». Evidentemente il primo video non era sufficiente, per molti, ad assegnare fuori da ogni ragionevole dubbio la colpa a Rice, e il fatto che sia stato necessario mostrare loro il secondo è un segno della persistenza di «ostinate razionalizzazioni che proteggono la violenza domestica». Christopher Massie della Columbia Journalism Review ha paragonato la reazione dei media di fronte al caso del video di Palmer e a quelli delle decapitazioni dell’ISIS che mostrano la morte di James Foley e Steven Sotloff. Né il New York Times né il New Yorker hanno pubblicato il video di Foley sui loro siti web, ma entrambi hanno inserito il video di Rice nei loro articoli, dice Massie, anche dopo le parole di lei. «Naturalmente, le circostanze che hanno a che fare con il video di Rice sono molto diverse da quelle del video di Foley. Vi è, innanzitutto, una differenza fondamentale tra un’uccisione e un pugno, non importa quanto disgustoso sia». Mentre però il video della morte di Foley non ha fatto molto probabilmente cambiare a nessuno il parere nei confronti dei suoi assassini, «l’evidenza visiva della brutalità di Ray Rice ha contribuito alla sua sospensione a tempo indeterminato da parte della NFL». Molti editorialisti hanno scritto di essere contrari alla pubblicazione del video per due motivi in particolare: quelle immagini costituiscono un’ulteriore violenza su Janay Palmer, e non avranno effetti reali nella presa di coscienza delle persone sulla violenza di genere. Dave Zirin, giornalista sportivo di The Nation ha raccontato di essere venuto a sapere della pubblicazione del secondo video da una trasmissione radiofonica in cui si facevano molte domande: come reagirà la NFL? E i tifosi cosa diranno? Ma l’unica domanda che secondo lui avrebbe avuto un senso (e anche la più evidente) non veniva posta: cosa pensa e come sta Janay Rice? «L’assenza di preoccupazione per Janay Rice sulla stampa, sui social media, tra i miei stessi colleghi, è la parte più sconfortante di tutto questo calvario. Nessuno si preoccupa del fatto che lei ora è costretta a rivivere l’incidente più e più volte. Nessuno si preoccupa che il mondo sia venuto a conoscenza di quello che potrebbe essere il momento più umiliante di tutta la sua vita». Zirin scrive di aver passato quella stessa mattina a parlare con le persone che lavorano con le donne vittime di violenza e che tutte, senza eccezione, gli hanno spiegato la stessa cosa: e cioè che la pubblicazione del video sarebbe stata «terribilmente dannosa per Janay Palmer Rice. Come avremmo tutelato il nome di una presunta vittima di stupro, come non avremmo pubblicato un video di Ray Rice che commette una violenza sessuale, così non avremmo dovuto mostrare il video come se fosse un altro episodio di “Celebrità che si comportano male”». «Quello che conta», conclude Zirin, «sarebbe sapere che cosa vuole Janay Palmer». Qualche ora dopo aver scritto il suo articolo, è arrivata la risposta. Janay Palmer ha pubblicato su Instagram le sue dichiarazioni e Zirin ha aggiornato il suo pezzo dicendo che qualsiasi sito che si preoccupa davvero per la violenza contro le donne dovrebbe togliere quel video dalle proprie homepage. Una posizione molto simile è stata presa anche da due autrici femministe che scrivono sul Guardian: Jessica Valenti e Hannah Giorgis. Quest’ultima, in particolare, dice che «le vittime di abusi sono sempre state costrette a raccontare i loro traumi a un pubblico più intento a definire il loro essere vittime che non a fare giustizia». La pubblicazione di quei momenti comporta «avere milioni di persone che sezionano le tue ferite, non per guarirle, ma per decidere se le lesioni siano abbastanza profonde perché tutti possano soffrire per te». In tutto questo, il dolore di Janay Palmer è stato minimizzato e le sue parole messe in discussione: «Riproducendo il trauma delle vittime più e più volte, le abbiamo solo esposte a un male maggiore». Perché non l’ha lasciato? Hannah Giorgis e Jessica Valenti scrivono poi che l’esposizione della violenza che ha subito Palmer ha portato alle domande che vengono poste quotidianamente quando si parla di violenza domestica: “Perché l’ha sposato dopo che lui l’aveva picchiata?” “Perché non l’ha lasciato?”. Si tratta di «un’accusa mascherata da preoccupazione», dice Georgis. La prima vera preoccupazione non dovrebbe essere il motivo per cui lei è rimasta con lui – cosa che implica in qualche modo che la vittima sia responsabile di quello che ha subito – ma le azioni di lui: «Quando le vittime rivelano le loro esperienze (o le loro esperienze sono rivelate da qualcun altro), gli spettatori si formano delle risposte preconfezionate, piuttosto che ascoltare le vittime stesse: è più facile credere che una donna abbia “provocato” la violenza di un uomo apparentemente tranquillo. Ed è più facile concepire Palmer come complice della sua aggressione piuttosto che rendersi conto che quasi la maggior parte delle donne uccise dai loro partner sono state uccise proprio mentre cercavano di lasciarli». Su Cosmopolitan, Roxane Gay dice che tutti hanno molte idee su ciò che le donne intrappolate in relazioni violente dovrebbero fare: «Abbiamo opinioni su quello che avremmo fatto nella sua situazione, come se il nostro fare ipotesi avesse qualche somiglianza con l’esperienza vissuta. Avrebbe dovuto lasciarlo. Avrebbe dovuto sporgere denuncia. Avrebbe dovuto ottenere un ordine restrittivo. Sarebbe dovuta andare in un rifugio antiviolenza. E quando una donna non fa le scelte che approviamo, lei, piuttosto che il suo violentatore, deve assumersi la responsabilità della sua sofferenza. (…) Noi non vogliamo sentire storie vere su cosa vuol dire sopportare tali rapporti. Non vogliamo sentire come l’amore e la paura e l’orgoglio e la vergogna facciano parte delle decisioni che prendiamo nelle relazioni violente. Non vogliamo sentire la verità perché è troppo complicata. (…) Noi costringiamo queste donne al silenzio e all’invisibilità a meno che non facciano le scelte che vogliamo che facciano. In un mondo perfetto, sì, una donna dovrebbe uscire da un rapporto in cui viene abusata. Dovrebbe disporre dei mezzi emotivi, fisici e finanziari per farlo. Dovrebbe essere sostenuta dalle forze dell’ordine e dal sistema giudiziario. Dovrebbe ricevere consulenza e sostegno. Le dovrebbe essere dato un passaggio sicuro per una nuova vita. Il mondo perfetto è costituito da troppi “dovrebbe”. Non viviamo in un mondo perfetto. Noi viviamo in questo brutto pasticcio di mondo, un mondo in cui Janay Palmer non è stata davvero creduta finché non abbiamo avuto una testimonianza incontrovertibile». Sul New York Times è stato chiesto il parere di Karma Cottman, direttrice di DC Coalition, un’associazione contro la violenza domestica. Cottman spiega perché il dibattito pubblico che si è sviluppato intorno alla storia di Janay Palmer «potrebbe ritorcersi contro» di lei e potrebbe essere dannoso per tutte le donne in vittime di abuso: non fa che confermare una serie di stereotipi e luoghi comuni intorno a questi temi che sono sbagliati e controproducenti. Cottman dice che quando una vittima si rivolge alla sua associazione per chiedere aiuto, la domanda “Perché non l’hai lasciato?” è anche l’ultima da fare dato che aumenta il senso di isolamento e impotenza che sono parte del ciclo della violenza domestica. Su Time Craig Malkin, psicologo alla Harvard Medical School cerca di spiegare la dinamica della violenza domestica: «Le persone finiscono per incolpare loro stesse per il comportamento violento dei loro partner. Si convincono che se si avvicinano a quella persona in modo diverso, forse non subiranno abusi». Malkin paragona poi la relazione con un partner violento alla dipendenza da gioco: «La persona abusata è focalizzata sul positivo e in attesa di un prossimo positivo. Si tratta di un effetto psicologico, come nel gioco d’azzardo: i momenti di tenerezza e intimità sono imprevedibili, ma sono così intensi e appaganti che la vittima finisce per restare nella speranza che un momento del genere accadrà di nuovo». Jessica Valenti, sul Guardian, suggerisce quindi l’atteggiamento che si dovrebbe avere nei confronti di Janay Palmer: non di giudizio né, tantomeno, di accusa, ma di compassione: «Voglio che Ray Rice sia punito per quello che ha fatto, ma quello che voglio di più è che Janay Rice venga ascoltata, anche se non siete d’accordo con quello che dice o con la sua scelta di rimanere. Nessuno conosce la sua vita meglio di lei. La cosa migliore che possiamo fare con le sopravvissute è ascoltarle. Solo loro possono dirci quello di cui hanno bisogno». Molte “sopravvissute” hanno infatti parlato dopo la storia del video: su Twitter con l’hashtag #WhyIstayed (perché sono rimasta) e con quello #WhyIleft (perché l’ho lasciato) migliaia di donne hanno raccontato le loro esperienze. Il tema che evocano le parole di Valenti è quello di cosa si possa fare pubblicamente e per chi: e che mobilitazioni ed editoriali e commenti debbano forse avere come obiettivo l’educazione degli uomini (ma di tutti, su questo tema) piuttosto che la pretesa protezione delle donne, che forse non si ottiene con gli editoriali e i commenti da lontano. E Ray Rice Diversi articoli americani si sono occupati di Ray Rice, e non solo della sua carriera sportiva e delle implicazioni sul campionato NFL (a loro si è probabilmente rivolto Barack Obama commentando che “fermare la violenza domestica è più importante del football”). Sul Baltimore Sun Susan Reimer citando le diverse risposte date sulla situazione psicologica di Janay Palmer si chiede: «Scommetto che ognuno di questi esperti, se gli venisse chiesto, direbbe che forse la cosa peggiore che si può fare ad una famiglia che attraversa questo tipo di crisi è quella di rendere l’aggressore disoccupato e inabile, esattamente quello che i Ravens e la NFL hanno fatto con Rice. Non solo gli hanno portato via la sua vita – probabilmente per sempre – ma lo hanno isolato dai suoi amici e compagni di squadra e lo hanno bandito da un’organizzazione che ha le risorse per aiutare lui e la sua famiglia». Sul Washington Post Diana Reese scrive che lasciare un marito violento «non è un evento puntuale, ma un processo», che i Rice hanno una figlia e che questo rappresenta una forte motivazione a cercare di salvare il loro rapporto. E dice: «Janay Rice non vuole lasciare il marito. Quindi questo matrimonio può essere salvato? Dovremmo smettere di “demonizzare” Ray Rice, come ha suggerito Ben Carson?». Benjamin Carson, medico statunitense, ex direttore di neurochirurgia pediatrica al Johns Hopkins Hospital (e potenziale candidato alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2016, secondo recenti cronache) ha infatti consigliato di non saltare sul carro della demonizzazione di Rice: «Lui ha evidentmente dei problemi reali. E sua moglie li conosce, ovviamente, perché poi lo ha sposato. Entrambi hanno bisogno di aiuto».
focus killer
Michele Provvidenziale l'intervento della figlia dei due coniugi. La vittima, trasportata in ospedale, ha riportato ferite guaribili in 30 giorni (foto di repertorio) Ha inferto diversi colpi di mannaia al volto di sua moglie mentre dormiva: l’uomo, un anziano di 87 anni e affetto da demenza senile, è stato denunciato per tentato omicidio. La vittima, trasportata in ospedale, è stata già dimessa e ha riportato ferite guaribili in 30 giorni. I fatti sono avvenuti all’alba di sabato 15 luglio scorso in un appartamento di via Raffaello Sanzio a Settimo Torinese. È stato l’intervento provvidenziale della figlia dei due coniugi a scongiurare il peggio. Infatti, la donna che dormiva in casa con i genitori ha udito le urla disperate della madre e quando è giunta in camera da letto – stando alla ricostruzione fornita dai carabinieri – ha trovato il padre che impugnava ancora la mannaia e la madre sanguinante nel letto. E’ stata la donna a richiedere l’intervento delle forze dell’ordine e dell’ambulanza. Dagli accertamenti eseguiti dai carabinieri della Compagnia di Chivasso - guidati dal capitano Urbano Marrese – è ignaro il movente del tentato femminicidio. L’87enne, per le sue condizioni di salute mentale, al momento è stato solo denunciato e trasferito in una struttura sanitaria. Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
focus killer
La discussione sui fatti di Colonia è diventata una cosa tra maschi e per soli maschi. Nonostante non ci sia ancora chiarezza su quello che è successo, al centro del discorso ci sono loro: i barbari stupratori venuti da lontano, da una parte, e i maschi buoni di quel paradiso della libertà femminile che è l’Occidente, dall’altra. Non le donne, non la violenza contro le donne, non il sapere che le donne hanno accumulato su questa questione che le riguarda da sempre e ovunque. Cercare di capire Colonia è difficile, richiede ordine, ascolto e ben poche chiacchiere da bar. E richiede, ad alcuni e alcune, di non cedere a una sottovalutazione, a facili difese e contrapposizioni e, soprattutto, di abbandonare alcune posizioni “di maniera”. Se per capire Colonia è necessario uscire dai bar, è altrettanto necessario uscire dai salotti. Le “nostre donne” Gli attacchi di Capodanno sono stati strumentalizzati dai partiti politici di estrema destra e dai gruppi contro gli stranieri e contro l’Islam per criticare la politica dell’accoglienza: “stuprano le nostre donne, via di qui”. Sostenere questo significa cedere all’ideologia dello “scontro di civiltà”, lasciare il compito esclusivo di capire quello che è successo in Germania alla destra xenofoba e lasciare alla destra xenofoba il compito di immaginare delle risposte politiche. Poi c’è una versione salottiera della teoria “stuprano le nostre donne, via di qui” e dice così: “io non sono come loro, le mie donne le ho sempre rispettate, non voglio essere assimilato a un islamista misogino”. Questa risposta viene contrapposta a chi dopo i fatti di Colonia (e sono state in molte a farlo) ha cercato giustamente di ricordare che in Germania e nel mondo la maggior parte dei femminicidi è commessa da uomini che hanno legami con le vittime, che la violenza di genere è soprattutto domestica, che ci riguarda da vicino, che un branco è un branco. Composto da maschi biondi, mori, bianchi, gialli, giovani, vecchi, buddisti, cristiani, musulmani. La violenza contro le donne, il sessismo, la limitazione della libertà delle donne non ha declinazione, né tempo, né luogo. Ricordare questo non significa dire che la Germania è come l’Arabia Saudita, in tema di diritti. Significa però tener presente che le spiegazioni auto-rassicuranti non funzionano. Che non funziona cercare riparo nella retorica della “correttezza” e che non funziona ridurre la discussione a una nuova guerra tra maschi in cui le prede o il bottino da difendere, a seconda del fronte, restano le donne. Opporre i maschi barbari ai maschi occidentali significa opporre i maschi di un patriarcato ancora potente ai maschi dei rigurgiti patriarcali da salotto delle democrazie occidentali. Significa schiacciare le donne tra un branco di potenziali stupratori e quello di un branco di protettori o di cavalieri di un mondo evoluto. Insomma, riportare il punto sull’origine della violenza di genere è necessario perché i fatti di Colonia non finiscano nelle mani degli islamofobi ma anche perché, più in generale, non diventino un nuovo alibi per dire che le molestie e gli stupri sono qualcosa che “non ha a che fare con noi”. Questo non fa bene a nessuno. Il doppio tradimento Il timore di una risposta razzista ha portato i media tedeschi, l’amministrazione di Colonia e la polizia a sminuire quanto successo (e purtroppo, quello tedesco non è stato l’unico caso). Ma il loro balbettio ha fatto il gioco delle risposte razziste e della trappola di una riduzione dei fatti a una guerra tra maschi buoni e maschi cattivi. Questa reazione dimostra ignoranza e mancanza di sapere sulla violenza di genere: non la mette in scacco, la conferma. Il primo ministro svedese ha parlato giustamente di un “doppio tradimento” nei confronti delle donne. E noi, diciamoci la verità Ieri, a Ballarò, era presente una ragazza velata che negava risolutamente una peggiore condizione delle donne nei paesi di cultura islamica. Mi chiedo se il pensiero femminista non sia stato su questi temi troppo timido nel prendere una posizione. Siamo femministe o siamo di sinistra: possiamo dirlo chiaramente (e continuare a dirci femministe e di sinistra) che una questione che potremmo chiamare “i migranti maschi e le donne” esiste, eccome se esiste, e che l’arrivo in di tanti uomini che hanno codici tra i sessi “differenti” dai nostri è un problema, eccome se lo è? All’accoglienza non è concesso esistere senza integrazione e senza una specialissima considerazione di questo specifico problema. Tenerle separate, ma anche minimizzare i problemi sarebbe come intrappolare le donne, o intrappolarci, una seconda volta e costringerci a scegliere uno dei due fronti della guerra: devo rinunciare a un pezzetto della mia libertà per favorire la buona convivenza con i migranti? E se rispondo di no, sono razzista? Perché il femminismo non mette anche in questo caso a frutto quella grande e storica abilità di praticare uno scacco, una schivata rispetto alla traiettoria dominante del pensiero e delle sue trappole? Lo “scacco ragionato” dovrebbe innanzitutto rifiutare quelle due domande, perché sono delle false domande. E dunque: è sufficiente, seppur necessario, contrapporre alle risposte razziste gli stupri dei college americani o la condizione delle donne italiane negli anni Cinquanta in Sicilia o i maschi ubriachi dell’Oktoberfest? Perché fatichiamo così tanto a criticare l’Islam o alcuni dei codici tra uomini e donne che l’Islam impone, o lo facciamo solo con quelli più brutali? Possiamo schierarci con forza a sostegno di quelle coraggiose femministe musulmane che vivono sotto fatwa per aver raccontato l’orrore? Quante volte ho sentito dire che quelle usanze fanno parte della tradizione e che ci sono donne che scelgono liberamente di velarsi? Ne ho incontrate anch’io, le ho sentite dirlo e argomentarlo. E ne sono sempre uscita pensando che era quel “liberamente” a non tornarmi e che avessero scelto di (soprav)vivere e basta. Forse mi sbaglio e so bene di non potermi sostituire a un’altra nella sua ricerca di libertà. Ma un atteggiamento troppo a lungo “tollerante”, “rispettoso” e salottiero, anche questo, ha offerto una sponda ad almeno tre conseguenze poco feconde: rischia di essersi trasformato in indifferenza, è stato potentemente strumentalizzato e non ha saputo dare delle risposte efficaci. Rovesciare Colonia Quello che è capitato la notte di Capodanno a Colonia (che sia stato un atto organizzato o no, lo vedremo) ha mostrato una sola, chiarissima cosa: che sono le donne e i loro corpi ad essere il vero (e solito) campo di battaglia. La violenza sessuale è un dispositivo universale del patriarcato, che in guerra viene usato come arma. Lo hanno compreso molto bene i vari fondamentalismi: i movimenti estremisti che vanno dalla Nigeria all’Iraq, dalla Siria alla Somalia, dal Myanmar al Pakistan hanno un elemento in comune e cioè la violenza feroce contro le donne e il possesso dei loro corpi, e non come prodotti collaterali o incidenti di percorso. Una simile comprensione non accade invece nelle risposte e nelle interpretazioni poco ragionate o strumentali che ci vengono fornite di fronte ai fatti di Colonia, alla cosiddetta “crisi dei migranti” o agli estremismi. Se si rovescia Colonia, si capisce che è solo così che può andare: la migliore arma contro il terrorismo sono le donne, la loro promozione e il loro riconoscimento e sono le donne la chiave di una reale integrazione e convivenza. Riapriamo con urgenza una discussione senza timore delle risposte che si potrebbero trovare alla fine. Non abbiamo paura di essere scorrette e non lasciamo, come scrive molto bene Marina Terragni, il monopolio delle critiche alla destra o alla destra xenofoba che non è certo campionessa di libertà femminili. E gli uomini, per primi, comincino a pensare alla “questione maschile” e si impegnino finalmente, con un loro “scacco ragionato”, a considerare la libertà femminile come misura dello stato di una civiltà e il protagonismo delle donne come soluzione di questo “loro” mondo, che però è tutto nuovo.
focus killer
"Più del 70% delle donne nel mondo ha subito violenza almeno una volta nella vita". Con queste parole, pronunciate ieri, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha ricordato quella che è una delle piaghe delle società contemporanee. Oggi è la Giornata mondiale Onu contro la violenza sulle donne. In Italia, dall'inizio del 2013, le vittime di femminicidio sono state 128. La data scelta per celebrare la ricorrenza, il 25 novembre, è in onore delle tre sorelle Mirabel, eroine della lotta di liberazione della Repubblica Dominicana, torturate e uccise nel 1960 dagli agenti del dittatore Rafael Trujillo. Numerose le iniziative organizzate in tutte le città italiane. "Vive nella lotta" e "Stop femminicidio": sono questi i messaggi che i lavoratori della Cgil della Capitale hanno affidato a uno striscione appeso, nelle prime ore della mattina, a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza. "Aprite la porta di casa e denunciate": è l’appello di Rosaria Aprea, la miss di Macerata Campania (Caserta) presa a calci dal suo ex compagno lo scorso 12 maggio. "Oggi le donne italiane sono più tutelate - si legge in una nota del ministro dell'Interno Angelino Alfano - perché abbiamo lavorato per avere maggiori strumenti mirati a punire il reato e a prevenire il fenomeno. Questa tipologia di reato ha, infatti, un altissimo costo umano e sociale, nonchè economico, come la ricerca presentata nei giorni scorsi da Intervita onlus ha ampiamente dimostrato. Occorre, quindi, - ha proseguito il ministro - impegnarci con forza e insieme per sradicare ogni forma di sopraffazione e di soprusi attraverso le leggi, ma anche attraverso cfampagne di sensibilizzazione e azioni educative perché le violenza di genere non sono una questioone di donne, ma una questione di civiltà".
focus victim
Carlo d’Elia Stefania Chiarisse Staltari, residente a Carpiano (Milano), è stata uccisa a colpi di pistola il 22 agosto 2021 assieme alla madre Catherine Panis. I compagni e la preside: non ti dimenticheremo Il laboratorio di informatica Una tragedia immensa che ha sconvolto l’intera comunità e chi conosceva la giovane vittima. Martedì 8 marzo, alla presenza dei compagni della ragazza, dei professori, della preside Laura Majocchi e delle autorità, è stato dedicato alla memoria della 15enne il laboratorio di informatica dell’istituto. I compagni di classe, ancora sconvolti dalla tragedia, hanno preparato e letto durante l’inaugurazione una breve lettera rivolta alla giovane vittima: «Ciao Stefy, siamo qui per inaugurare il laboratorio di informatica dedicato a te, per averti sempre qui con noi — hanno scritto gli studenti —. Speriamo che lassù tu stia bene. Ci mancherà sempre il tuo sorriso e la tua generosità».
focus victim
Amare parole - Per Giulia e per Elena Cecchettin Un podcast sul linguaggio e i suoi cambiamenti, con Vera Gheno, ogni domenica. 03 Mar 2024 - 22 min La presidente, la presidentessa, il presidente o la presidenta? 25 Feb 2024 - 15 min Sul fallimento, e sulla possibilità di un cambio di tempo verbale 18 Feb 2024 - 17 min Sessismo in università 11 Feb 2024 - 17 min Avere una casa dove tornare e il concetto di domicidio 04 Feb 2024 - 15 min Per Ilaria Salis 28 Gen 2024 - 18 min Quello che non sappiamo dei corpi transgender 21 Gen 2024 - 18 min Ancora gogne mediatiche e metaforiche lapidazioni 14 Gen 2024 - 20 min Le parole di chi studia all’università e i titoli dei giornali 07 Gen 2024 - 17 min La mistica dell’essere madri 31 Dic 2023 - 16 min Replay – Neologismi o non neologismi? 24 Dic 2023 - 13 min REPLAY – Il diritto di affidare 17 Dic 2023 - 15 min Italo Calvino e la lingua 10 Dic 2023 - 20 min Architetta, avvocata e co. 03 Dic 2023 - 12 min Il patriarcato uccide 26 Nov 2023 - 15 min Per Giulia e per Elena Cecchettin 19 Nov 2023 - 14 min Il mio è diventato blu! 12 Nov 2023 - 16 min Dall’alluvione in Toscana al nuovo lessico della meteorologia 05 Nov 2023 - 17 min Artisti e artiste alle prese con la contemporaneità 29 Ott 2023 - 17 min Di gocce e di pietre 22 Ott 2023 - 22 min Anatomia di una shitstorm 15 Ott 2023 - 16 min Una citazione virale sul linguaggio giovanile e un po’ di Tullio De Mauro 08 Ott 2023 - 16 min Neologismi o non neologismi? 01 Ott 2023 - 16 min Prove tecniche di prevaricazione 24 Set 2023 - 17 min Asimmetrie linguistiche nei titoli dei giornali 17 Set 2023 - 22 min Da una lettera, contro l’ingiustizia epistemica 10 Set 2023 - 22 min Per chi preferisce un mondo non al contrario 1 2 » 26 Nov 2023 - 15 min Per Giulia e per Elena Cecchettin 00:00 00:00 questa puntata Stai regalando 26 Nov 2023 Per Giulia e per Elena Cecchettin
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Un uomo ha strangolato la compagna in casa, poi ha chiamato la polizia per costituirsi. Ennesimo femminicidio in un 2019 che segna un altro episodio che ha come vittima una donna. Il delitto è avvenuto in via Antonino Pecoraro Lombardo, vicino alla stazione Notarbartolo a Palermo. Zona residenziale, tranquilla e vicino alle vie dello shopping. Secondo le prime informazioni, sarebbe stato l'uomo stesso ad ammettere di aver strangolato la compagna dopo l'ennesimo litigio. La vittima, secondo quanto si apprende, è una donna palermitana. Si chiamava Elvira Bruno di 52 anni. L'uomo, cittadino tunisino, lavora in città come cuoco. Si chiama Moncef Naili e secondo la ricostruzione fatta dagli agenti avrebbe chiamato lui stesso il 113 per autodenunciarsi. Sul caso indaga la polizia, sul posto oltre l'ambulanza è arrivata anche la Scientifica che sta compiendo i rilievi del caso nell’appartamento. L'omicida è un 53enne tunisino che si è consegnato alla polizia facendosi trovare sul posto e indicando il corpo della donna steso a terra. L’uomo si trova in questo momento in Questura, interrogato dagli agenti della squadra mobile, dovrà spiegare i motivi che hanno portato all'uccisione della compagna. La coppia ha due figli. Tra i vicini nessuno ha sentito nulla, nessuna lite, niente urla: "Erano bravissime persone. Non ho mai sentito urla, liti... Lui una persona tranquillissima, lei una brava persona. La testa forse impazzisce...", racconta una vicina. "Non ero nel palazzo quando è accaduto. Sono arrivato qui e ho visto la polizia e quando mi hanno detto quello che era successo, ero incredulo". Alle 13 in molti rientrano nel palazzo tra incredulità per quello che è successo è la necessità di avere maggiori dettagli. "Cosa è successo", chiede una signora allarmata. Nella strada cala il silenzio. All'arrivo della Scientifica la zona viene chiusa e un silenzio surreale avvolge l'intera strada. Proseguono i rilievi della Scientifica al primo piano della palazzina di via Pecoraro. Gli investiagori stanno lavorando nelle stanze della casa tra la cucina e la sala da pranzo per stabilire l'esatta dinamica dell'omicidio. La zona è presidiata da quattro volanti della polizia e l'accesso è chiuso alle persone estranee.
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Collaboratore di giustizia, Tamburrino era il «vivandiere» del clan Di Lauro. Assassinò la ragazza a colpi di pistola nella casa dei genitori perché voleva separarsi. La sorella: «Questa diventerà una vittoria quando tutti i femminicidi saranno puniti così» «Abbiamo trovato una corte giusta - ha detto Elda Matuozzo, sorella di Norina - perché questo è stato un processo per un femminicidio dove non era giusto che l'imputato facesse valere il suo stato di collaboratore. È stata dura, ci siamo battuti molto per evitarlo. Quando è stata letta la sentenza, ho rivolto lo sguardo verso la foto di mia sorella e le ho detto: hanno dato il giusto valore alla tua perdita, valevi tanto come persona e anche lo Stato te lo ha riconosciuto. Comunque - conclude Elda - questa diventerà una vittoria a 360 gradi quando tutti i femminicidi saranno puniti con il massimo della pena». Al termine della requisitoria, invece, il sostituto procuratore generale Raffaele Marino aveva avanzato richiesta di attenuazione della pena a 30 anni di reclusione. La famiglia Matuozzo è stata difesa dall'avvocato Giuseppe Scafuro. Tra le parti civili anche l'associazione antiviolenza «Al posto tuo», rappresentata dall'avvocato Loredana Gemelli.
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Annalisa D'Auria, nel suo cuore, sapeva che la relazione con Agostino Annunziata non era sana. Troppe litigate, sempre più spesso sfociate in violenza verbale su di lei. Ad un'amica avrebbe confidato che allontanarsi da lui, però, era un rischio sotto il profilo economico. Lei, operatrice scolastica, sapeva che il suo lavoro non era stabile nel lungo periodo. In sostanza, in casa lo stipendio sicuro era quello del compagno, operaio alla Massifond di Orbassano. E con una bimba di tre anni da crescere Annalisa non voleva rivivere nuovamente un trauma da separazione. Come già avvenuto con il precedente compagno, con cui aveva avuto un figlio rimasto a Nocera con il padre. Più si scava nel femminicidio di Rivoli, più emergono dettagli di una coppia che da tempo era in crisi. Sebbene chi li vedesse pensava fossero felici. Quegli abbracci davanti alla ditta dove lui lavorava, quando si incontravano dopo la fine del turno di lavoro, nascondevano ben altro. E oltre alla gelosia di lui, ora spunta anche il fattore economico a raccontare una storia purtroppo troppo simile a tante altre. Ossia di donne legate a doppio filo al proprio compagno o marito per l'impossibilità di essere autosufficienti economicamente. E tirano avanti, magari per l'amore dei figli, sopportano un clima pesante, un'aria che giorno dopo giorno si fa sempre più irrespirabile. Il ritratto che le indagini hanno fatto di Agostino Annunziata è di un uomo fortemente possessivo e aggressivo verbalmente. Non ci sono mai state denunce da parte della donna e nemmeno richieste di intervento delle forze dell'ordine per casi di maltrattamenti. La domanda è: non ci sono mai stati gli estremi, oppure Annalisa non «poteva» mettere nei guai il papà della sua bambina per paura di non riuscire a tirare avanti? La coppia era in ritardo di due mesi con l'affitto. Le spese, la bambina che cresce, Agostino che cerca di fare i turni di notte per prendere qualche soldo in più. Pare che la donna, di nascosto, inviasse giù a Nocera qualche soldo per l'altra figlia rimasto con l'ex compagno. Non voleva però farlo sapere ad Agostino. Forse aveva paura della reazione. Alle persone con cui aveva legato qui, dopo l'arrivo dalla Campania, lei tentava di far trasparire una serenità che nel suo cuore non c'era più da tempo. In realtà non era nemmeno libera di uscire di casa decorosamente. Agostino non voleva che si curasse: smalto alle unghie, magari ciglia finte. Insomma, non aveva il diritto di sentirsi bella. Troppo geloso di chiunque provasse anche solo a parlarci. La storia del presunto amante continua a non trovare conferme. Semplicemente, non esisterebbe. Annalisa messaggiava sul cellulare con i suoi colleghi con fare sciolto, ma senza malizia. Parlava di organizzare cene con i colleghi, qualche battuta sarcastica o innocente con chi lavorava più a stretto contatto. Comportamenti normali di una trentenne che cercava qui di mettersi alle spalle il suo passato. Agostino Annunziata invece ci vedeva il torbido. Avrebbe dato di matto leggendo un messaggio in cui lei parlava proprio di una cena, pensando che si vedesse con un altro. Non era così. E lei subiva urla e insulti tra le mura di casa. Negli ultimi periodi le parole erano diventate sempre più pesanti, quasi a far sentire Annalisa una nullità. E forse proprio nella scuola lei cercava di trovare i suoi spazi. Ma Agostino non voleva nemmeno quello.
focus killer
Bufera sui social contro Barbara Palombelli. Durante la trasmissione «Forum», che conduce su Rete 4, ha pronunciato una frase imbarazzante. «Negli ultimi sette giorni ci sono state sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c'è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo anche dall'altra parte? È una domanda che dobbiamo farci per forza, soprattutto in questa sede, in tribunale bisogna esaminare tutte le ipotesi», ha detto la giornalista commentando gli ultimi casi di femminicidio in Italia. Su twitter l'hashtag Palombelli è diventato subito trend topic, con oltre 4.500 commenti. «7 #femminicidi in 10 giorni. Siamo il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce», scrive il movimento «Non una di meno». La Palombelli, nella puntata andata in onda su Rete 4 il 16 settembre, con la partecipazione della psicologa Adriana Mazzocchelli, affrontava la richiesta di una moglie, Rosa, che chiedeva al marito la separazione con addebito per essere stata negli anni sottoposta a violenze e umiliazioni. La donna voleva mantenimento mensile e assegnazione dell'uso della casa coniugale, ma il marito Mario ribatteva spiegando che gli scontri violenti con la coniuge erano occasionali e sempre legati alle provocazioni della consorte, tanto da essere assolto in sede penale. La domanda ipotetica della Palombelli, che le è costata la gogna mediatica, era l'introduzione a un racconto, quello di Mario, che ha dormito in macchina per tre giorni e i cui litigi sul pianerottolo con Rosa hanno portato all'intervento dei condomini. Ma le parole della giornalista sono comunque ritenute offensive. Le Commissioni pari opportunità della Federazione nazionale della stampa, dell'Usigrai e del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti hanno presentato un esposto alla presidente dell'Ordine dei Giornalisti del Lazio Paola Spadari chiedendo di aprire un procedimento disciplinare. «Sconvolta ed esterrefatta da tanta superficialità» si è detta Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, fondatrice di Telefono Rosa. Ma in serata la Palombelli ha replicato. «Non è giustificabile in alcun modo il femminicidio, voglio essere chiara, non intendevo dire quello che è stato compreso - ha spiegato nello spot di presentazione di Stasera Italia - qualcuno ha pensato che fossi quella persona lì, ma non sono quella persona lì, anche questo deve essere chiaro».
focus victim
La chiamavano tutti Delfina, anche se il suo nome era Guglielmina Pasetto. Aveva 71 anni. E' stata uccisa dal marito, ferroviere in pensione, Renzo Cavazze, 76 anni, il giorno dell'Epifania nella loro abitazione di Rovigo. L'uomo avrebbe prima soffocato la donna con un cuscino, poi si è impiccato. Da quanto è stato ricostruito, Cavazze - che assisteva da anni la moglie, parzialmente paralizzata dopo essere stata colpita da un ictus - soffriva particolarmente lo stato di bisogno della donna, situazione che lo aveva farlo cadere in un grave stato depressivo. A dare l'allarme, un nipote della coppia che aveva invano tentato di telefonare agli zii. "Mio zio aveva già espresso la volontà di togliersi la vita - ha raccontato - e il periodo di pandemia aveva aggravato le sue condizioni".
focus killer
Nel Regno Unito è stato pubblicato un esteso rapporto sul comportamento e la cultura della Polizia Metropolitana di Londra (MET), commissionato due anni fa dalla stessa MET dopo il rapimento, lo stupro e l’omicidio a Londra di Sarah Everard, il cui responsabile fu proprio un agente della MET poi condannato all’ergastolo. Il caso aveva provocato un grosso dibattito sulla violenza, la misoginia e il sessismo degli agenti di polizia: il rapporto appena pubblicato non solo conferma e documenta queste accuse, ma aggiunge ulteriori elementi sulla radicata omofobia e sul razzismo all’interno della MET. – Leggi anche: La misoginia istituzionale della polizia britannica Il rapporto appena pubblicato è lungo 363 pagine e le ricerche sono state coordinate da Louise Casey, funzionaria del governo britannico. Alcuni dei risultati più discussi del rapporto riguardano proprio la cultura sessista della MET: sono documentati episodi di molestie sessuali, molto spesso lasciati impuniti, senza che venissero presi adeguati provvedimenti nei confronti dei responsabili o per evitare che si verificassero di nuovo. Il 12 per cento delle agenti della MET ha sostenuto di aver subito molestie o aggressioni al lavoro, e nel rapporto ci sono testimonianze di quotidiani commenti sessisti e intimidatori rivolti dagli agenti alle agenti, così come di battute e scherzi sui casi di donne violentate o stuprate. Tra le altre cose, un’agente lesbica ha raccontato di un collega, noto per il proprio maschilismo tra i colleghi, che durante un turno serale in cui erano soli le ha detto di «scaldargli le palle», rendendole poi la vita impossibile al lavoro a fronte del suo rifiuto. Anche in quel caso l’agente si era lamentata coi superiori ma non era stato preso alcun provvedimento, e anzi l’agente era stato poi promosso. In generale, il rapporto dice che il 30 per cento degli agenti LGBT+ racconta di essere stato bullizzato per il proprio orientamento sessuale. – Leggi anche: Il poliziotto inglese che ha compiuto decine di violenze sessuali Nel rapporto sono incluse inoltre testimonianze sul bullismo interno al corpo di polizia, un problema che riguarda soprattutto gli e le agenti più giovani, con racconti di “riti di iniziazione” anche molto violenti. Si parla per esempio di una giovane agente costretta a mangiare quantità enormi di formaggio fino a vomitare, e uno aggredito sessualmente mentre faceva la doccia. Un altro grosso problema riguarda il razzismo. Un agente musulmano ha raccontato di aver trovato i propri stivali riempiti di pancetta (le persone musulmane non mangiano il maiale), un agente sikh di quando gli è stata forzatamente rasa la barba (nella religione sikh gli uomini portano tradizionalmente la barba lunga o comunque non rasata), un’agente nera di essere stata chiamata «scimmia». In generale, il rapporto dice che la Polizia Metropolitana continua a essere un corpo prevalentemente bianco, e in quanto tale poco rappresentativo della diversità etnica e culturale della città di cui deve occuparsi. Nel rapporto si cita poi una serie di problemi legati all’impreparazione e alla mancanza di risorse economiche della Polizia Metropolitana, che hanno contribuito a danneggiarne l’efficienza e la credibilità. Una delle situazioni più riprese dalla stampa riguarda i frigoriferi in cui la polizia conserva le prove di stupri o reati sessuali (come biancheria intima o campioni di sangue): sono «sovraccarichi, fatiscenti o rotti», e un funzionario della polizia che ha parlato in forma anonima a BBC ha detto che in alcuni casi questo ha portato ad abbandonare casi su cui si stava indagando. Ci sono gravi mancanze anche per quanto riguarda la preparazione e formazione degli agenti sui reati che riguardano gli abusi sui minori: nel 2021 il 50 per cento degli agenti specializzati in questo tipo di reato non ha seguito i corsi di aggiornamento previsti e altri agenti che se ne occupano raccontano di essere pochi e sovraccarichi di lavoro. Secondo Casey, tutto questo ha portato a un grosso calo di fiducia nei confronti della Polizia Metropolitana da parte del pubblico, con circa il 50 per cento dei londinesi che dicono di fidarsi del suo operato. La fiducia manca soprattutto da parte delle persone nere, nei cui confronti secondo Casey la polizia è sproporzionatamente aggressiva e sospettosa: stando a quanto indicato nel rapporto, e come in altri paesi, le persone nere hanno maggiori probabilità di essere fermate, perquisite, ammanettate o manganellate quando ci sono scontri.
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Un minuto di silenzio nelle scuole italiane per ricordare Giulia Cecchettin e tutte le donne vittime di violenza e i casi di femminicidio. Molti studenti, invece, hanno scelto, al contrario, «un minuto di rumore». Motivo? Far sentire la propria voce, urlando se necessario, per tenere alta l’attenzione su un tema spesso sottovalutato o per nulla trattato all’intrno delle scuola. Domani mattina, al Senato, i ministri dalla Famiglia, Natalità e Pari Opportunità Eugenia Roccella, dell'Istruzione e Merito Giuseppe Valditara e della Cultura Gennaro Sangiuliano, presenteranno il piano “Educare alle relazioni”. L’obiettivo? Promuovere azioni concrete di prevenzione e di diffusione della cultura del rispetto, di educazione alle relazioni e alla parità fra uomo e donna. Giulia Cecchettin, il 'minuto di rumore' degli studenti dell'università: "Per lei e per tutte le altre vittime non resteremo in silenzio" C’è chi ci ha già pensato, lavorando in silenzio – ma non troppo, perché il progetto ha già coinvolto migliaia di studenti – partendo proprio dalle scuole. Dalle elementari fino ai licei, toccando temi difficili e complessi, spesso scomodi e divisivi. L’associazione si chiama “Violetta – la forza delle donne” ed è nata a Ivrea, in provincia di Torino. Non è un nome scelto a caso, perché richiama la figura di Violetta, la Mugnaia, figura centrale del carnevale della città piemontese, che ad un certo punto (siamo in pieno Medioevo, sotto il regno di Re Arduino) uccide il tiranno che costringeva le giovani spose allo ius prime noctis. L’associazione nata nel 2017 in concomitanza con la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne da tempo è entrata nelle scuole parlando di educazione e rispetto, oltre che di prevenzione. Un pool di esperte, tra cui psicologhe, psicoterapeute, avvocate, che lavorano a stretto contatto con le scuole. Il femminicidio – l’ennesimo – di Giulia Cecchettin e le parole della sorella Elena riporta tremendamente d’attualità la necessità di educare nelle scuole al rispetto delle donne. Elena, la sorella di Giulia Cecchettin: "Ecco perché tutti gli uomini devono fare mea culpa. Anche chi non ha mai torto un capello a una donna" «Il nostro è un progetto pilota – spiega Barbara Bellardi, responsabile dell’associazione –, lavoriamo da tempo su temi di questo genere, siamo partiti con abbondante anticipo e si dovrebbe fare in tutte le scuole». Questo progetto rientra in quelle attività educative e formative il cui obiettivo è quello della prevenzione primaria. «Se parliamo di atteggiamenti riferibili alla violenza, possiamo certamente affermare che più si interviene in modo precoce maggiori sono le probabilità di contenere lo sviluppo di atteggiamenti sbagliati» dicono dall’associazione. L’efficacia della prevenzione primaria della violenza si basa sulla partecipazione di tutti gli attori coinvolti: bambini in primis, ma anche i loro genitori e i loro insegnanti, gli adulti di riferimento che possono assumere un ruolo preventivo e protettivo importante. «Con questa iniziativa si intende quindi rivolgersi ai bambini rafforzandoli, dando loro delle competenze attive in modo che sviluppino atteggiamenti orientati al rispetto e alla tutela di sé stessi e degli altri; allo stesso tempo si intende informare e formare anche gli adulti di riferimento affinché possano continuare nella quotidianità a trasmettere i messaggi fondamentali della prevenzione, soprattutto attraverso il loro esempio e, in caso di necessità, siano facilitati nel chiedere aiuto ai Servizi specialistici». In una società tanto razionale e mentale come la nostra, la sfida della prevenzione è quella di un’educazione ai sentimenti e alle emozioni. Si tratta dunque di far capire ai bambini – e agli adulti – che le emozioni hanno un senso: vanno prese sul serio e ascoltate. Lo scopo è quindi quello di allenare, sostenere e valorizzare la loro intelligenza emotiva, la capacità di dare ascolto alle emozioni per capire cosa significano e decidere come gestirle. L’èquipe Violetta, formata da 8 psicologhe psicoterapeute e 2 avvocate, presenterà l’attività clinica e di consulenza legale per le donne vittime di violenza e i familiari. Volontari che lavorando su due fronti. Il primo è il potenziamento di un percorso gratuito rivolto alle donne vittime di violenza che hanno trovato la forza di uscire dal silenzio e che proprio per questo necessitano di un sostegno continuativo per portare avanti la “loro battaglia”. Gli aiuti concreti sono una linea telefonica ‐ 327 4119977 ‐ di ascolto e accoglienza (è attiva due ore al giorno dal lunedì al venerdì, negli altri orari è possibile lasciare un messaggio nella segreteria telefonica), la consulenza psicologica e la psicoterapia, il sostegno alla genitorialità, una prima consulenza legale e il lavoro in rete con i Servizi e le Associazioni presenti sul territorio. Fino ad oggi sono state seguite oltre 90 donne attraverso una prima consulenza legale, percorsi di psicoterapia individuale o di gruppo. Il secondo punto è l’organizzazione e la promozione di azioni di sensibilizzazione e prevenzione della violenza domestica rivolte soprattutto alle nuove generazioni. «Tutte le nostre azioni partono dal presupposto che il fenomeno della violenza sulle donne possa essere affrontato e contenuto solo se si interviene preventivamente sui bambini e sulle bambine, sui ragazzi e sulle ragazze, sugli uomini e sulle donne, cercando non solo di contrastare il fenomeno là dove esso è presente, ma soprattutto di favorire lo sviluppo di dinamiche relazionali e di valori che possano favorire la crescita di buoni legami di coppia e una buona integrazione del femminile e del maschile». Temi complessi che, da tempo, attraverso questo progetto sono entrati nel mondo della scuola e che possono diventare un vero e proprio punto di partenza nel Paese.
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Diciotto mesi di carcere, 14 dei quali con la condizionale e 4 da scontare: questa la condanna inflitta oggi dal tribunale per direttissima a Damien Tarel, l'uomo che l'altro ieri ha dato uno schiaffo al presidente francese Emmanuel Macron mentre quest'ultimo era in missione in provincia, nel dipartimento della Drome. Nel processo per direttissima, il procuratore della Repubblica di Valence aveva chiesto 18 mesi di carcere per violenze dolose su pubblico ufficiale. L'uomo di 28 anni, che ha riconosciuto di aver schiaffeggiato il presidente, è stato incarcerato. La versione di Tarel "In cavalleria, non ci piacciono le bugie": aveva risposto Tarel alla presidente del tribunale, aggiungendo che secondo lui "Macron rappresenta benissimo la decadenza del nostro Paese" e ammettendo poi di aver compiuto un gesto "impulsivo", "non controllato a livello fisico". Voleva fare "qualcosa di clamoroso", ma poi ci aveva "ripensato". Il presidente minimizza Macron nel pomeriggio è tornato a minimizzare l'episodio, ritenendo che il Paese non è in una situazione di tensione come durante la crisi dei gilet gialli quanto piuttosto in un clima di ottimismo, anche per le progressive riaperture, in seguito ad un anno di restrizioni legate al coronavirus. "Ciò che sento nel Paese è dell'ottimismo, una volontà di ritrovare la vita, del dinamismo", ha dichiarato ai microfoni di BFM-TV. "Non facciamo dire a questo gesto imbecille e violento più di quanto non si debba dire", ha avvertito, aggiungendo che bisogna "relativizzare", pur "non banalizzando nulla": "Ricevere uno schiaffo quando vai verso una folla non è grave", ha dichiarato Macron, secondo cui "la vera violenza, non è questa". Quanto piuttosto quella subita dalle "donne che muoiono sotto ai colpi dei loro compagni o mariti", perché "ci sono ancora troppi femminicidi contro cui ci battiamo con forza".
focus killer
“È un compromesso virtuoso tra anima e corpo”. La recitazione? L’arrampicata sportiva. Rosa Diletta Rossi, si inerpica sulle rocce a mani nude? Con la corda. Abbiamo molta più forza nelle mani e nei piedi di quanto non si creda. Occorre disciplina per memorizzare un passaggio rischioso. E non serve a nulla lamentarsi. Lassù provi un […]
focus killer
«Secondo lei è stato un femminicidio?». È la prima domanda che mi rivolge Loredana quando arrivo nella piazza del castello di Tenno, un paese in provincia di Trento. Loredana è la mamma di Alba Chiara Baroni, una ragazza di 22 anni uccisa lo scorso 31 luglio a colpi di pistola da quello che era stato il suo fidanzato per sei anni, Mattia Stanga, 24 anni, che poi si è suicidato. Il caso è tornato su Repubblica e poi sulle pagine di altri giornali nazionali qualche settimana fa perché Gianluca Frizzi, che era il sindaco di Tenno, si è dimesso a causa di una complicazione su una stele dedicata ad “Alba Chiara, vittima di femminicidio”. La storia di Alba Chiara ha a che fare con le dinamiche di un piccolo paese di montagna, dove esistono stereotipi e pregiudizi vecchi e radicati, e dove in questa vicenda il dolore – per quello che è successo e per le persone coinvolte – si è tenuto tutto insieme e a tratti si è sovrapposto. Ma ha anche a che fare con le dinamiche più tipiche della violenza contro le donne, di come viene mal raccontata e spesso negata o messa in dubbio, nei discorsi da bar così come in tv e sui principali giornali nazionali: si privilegia il colpevole anziché la vittima, li si mette sullo stesso piano, si giustifica tutto in nome “dell’amore”, si mostra indulgenza verso le ragioni del femminicida tacendo le aggravanti, come la premeditazione: con il rischio di confondere la situazione, infierire sulle vittime e impedire che la parola femminicidio – con tutto il senso simbolico, politico e sociale che porta con sé – venga pronunciata. A Tenno vivono circa duemila persone, sparse in otto frazioni che salgono lungo la montagna da cui si vede il Garda, dal castello fino al lago: il “lago azzurro” a cui si arriva attraverso una lunga scalinata medioevale e che è frequentato da molti turisti. Alba Chiara Baroni era nata lì, aveva frequentato l’istituto Depero di Rovereto, si era diplomata disegnatrice orafa alla Scuola d’Arti e Mestieri di Vicenza, era stata capitana della squadra di hockey di Riva del Garda e lavorava in un hotel. Aveva 22 anni. Mattia Stanga faceva parte da anni del corpo dei Vigili del fuoco, per cui era maestro degli allievi, e lavorava come dipendente in una cartiera. «Per le donne qua», mi racconta Massimo Baroni, papà di Alba Chiara, «non ci sono molte opportunità, se non quelle di lavorare nel settore alberghiero: eppure Alba Chiara aveva studiato, e faceva la pittrice. Di Mattia si è scritto che era istruttore dei Vigili del fuoco, che era un operaio specializzato, che era stato ad Amatrice e anche dal Papa. Di lui abbiamo letto tutto questo, addirittura che era stato dal veterinario a portare un cagnolino e che quando gli avevano detto che non c’era niente da fare lui era tornato a casa piangendo. Di lei abbiamo letto che era solo una barista». Massimo Baroni ha 47 anni. Lui e Loredana si sono conosciuti al cinema guardando Dirty Dancing e stanno insieme da una vita. Mi dice che continua ad avere «un flash nella mente», che pensa spesso a un articolo che aveva letto qualche anno fa su un caso di femminicidio: «Sul giornale si diceva che quella donna faceva la barista, che aveva la minigonna e un top: leggendo sembrava che fosse sua la colpa di essere stata ammazzata». Alba Chiara Baroni e Mattia Stanga stavano insieme da sei anni, si conoscevano fin dalla scuola materna (lui, nella classe dei “grandi”, era stato assegnato proprio a lei per guidarla nella nuova scuola): dovevano andare a vivere insieme, ma da mesi avevano delle difficoltà. Lei lo aveva lasciato, ma aveva anche scelto di non rendere ufficiale e definitiva questa decisione finché alcuni problemi di salute in famiglia che c’erano in quei mesi non si fossero risolti. Il 31 luglio Alba Chiara aveva raggiunto Mattia Stanga dopo il lavoro nella casa in cui lui viveva con i genitori, e che a quell’ora non c’erano. Intorno alle 13.30 i vicini sentirono gli spari: lui, che aveva il porto d’armi sportivo e che due ore prima aveva comprato una nuova pistola, aveva sparato quattro colpi. «Dieci minuti prima ero con loro», dice Baroni. Ed è il momento più difficile del suo racconto: «Avevo raggiunto Alba Chiara per fumare una sigaretta con lei, dopo pranzo, come facevamo spesso. C’era anche Mattia. Abbiamo parlato di tante cose, lui era normale. Sono andato via. E da quel momento non so più niente». Che Alba Chiara Baroni e Mattia Stanga avessero dei problemi, e che lei lo avesse lasciato, non è una parte della storia che è circolata molto. Nella ricerca che ho fatto prima di arrivare a Tenno, l’ho trovata su un unico giornale locale, e solo di passaggio; in paese non se ne parla. La versione principale è che quello che è accaduto sia stato «una disgrazia»: come una calamità naturale, un disastro senza responsabili. In qualche modo è l’impressione che ho anche dal prete di quei posti, Franco Pavesi, che sta lì da diciotto anni. Lui vive nella piazza di Varone, il paese che sta ai piedi di Tenno: ci sono il bar dove da metà mattina si beve un bicchiere di bianco, la posta, la banca, il supermercato, l’asilo, la chiesa e una grande casa parrocchiale con la bandiera della pace appesa fuori. Franco Pavesi ha studiato teologia a Vienna ed è stato missionario in Ecuador («dove ho lasciato il cuore»). All’inizio non lo riconosco perché non si veste normalmente da prete. Lui ha celebrato i funerali sia di Alba Chiara che di Mattia. Ci sediamo nel suo appartamento, sorride molto, ma fatica a parlare apertamente: «C’è stato molto clamore, grazie a Dio nessuno è venuto a chiedermi niente, lei è la prima». Pavesi, il prete, mi dice che la gente di Tenno sa come sono andate le cose e che nessuno le mette in dubbio. Mi racconta che conosce bene le due famiglie, che Alba Chiara e Mattia erano felici, che «qualche volta il parroco è il primo a sapere le cose, qualche volta l’ultimo» e che «comunque stavano per andare a vivere insieme». Non pronuncia mai la parola femminicidio, non dice che si erano lasciati, quando parla dell’assassinio usa frasi generiche come «ha fatto quello che ha fatto» e dice che non bisogna giudicare (durante il funerale di Mattia ha parlato del “libro della vita” citato nell’Apocalisse dicendo che la parte finale del suo libro «Mattia la sfoglierà da solo davanti a Dio»). Mi parla anche dei giovani del posto e del catechismo; quando gli chiedo se sia intervenuto in qualche modo per rendere comprensibile ai bambini quello che è successo e di cui tutti parlavano, mi dice di no. «Sono sincero, non ci abbiamo pensato». «Se tu prendi un bambino e gli chiedi qual è la differenza tra il funerale di Alba Chiara e quello di Mattia, lui ti risponderà nessuna. Non abbiamo voluto accentuare il dolore, la famiglia di Mattia è innocente, non sarebbe stato umano», dice Massimo Baroni, il padre di Alba Chiara. «Però non c’è stata alcuna differenza». Inizialmente circolava persino l’ipotesi che i funerali venissero celebrati insieme, quello dell’assassino-suicida e quello della vittima, poi si è deciso diversamente e le due cerimonie si sono svolte una il giorno dopo l’altra, in due chiese diverse. Loredana – che considerava «Mattia come un figlio, veniva quotidianamente a mangiare da noi, e la sera prima di quel 31 luglio mi aveva chiamata per sapere quando sarei stata dimessa dall’ospedale dicendomi “Domani organizziamo una grigliata tutti insieme”» – ha chiesto addirittura e nonostante tutto che sulla tomba di lui fosse messo il cappello da Vigile del fuoco, come gesto di commemorazione e di riconoscimento. In chiesa c’erano anche i suoi colleghi in divisa, che hanno portato sulle spalle la sua bara. In quei primi giorni la confusione era di tutti, conferma l’ex sindaco di Tenno Gianluca Frizzi: e Mattia Stanga e Alba Chiara Baroni, in quanto morti entrambi, sono stati in qualche modo messi sullo stesso identico piano. «Abbiamo fatto saltare i protocolli. Per Alba Chiara non è stato indetto il lutto cittadino e in un primo momento anche io ho fatto degli errori non facendo immediatamente alcuna distinzione tra i due ragazzi». Ma aggiunge: «Eppure i Vigili del fuoco salvano le vite, non le tolgono». Né lui né i genitori di Alba Chiara si aspettavano però che quella storia non venisse più rimessa in ordine. Non si aspettavano che il legittimo dolore di tutti diventasse indifferenza per la responsabilità, né che il bisogno di ricordare chi fosse stata l’unica vittima in quella vicenda faticasse così tanto a essere riconosciuto: «Non si tratta di fare una gerarchia del dolore, qua si parla di un’altra cosa, ma in pochi l’hanno capito», dice Frizzi. Lui, direbbe qualcuno, è molto poco istituzionale: capelli rasati, cappellino, tatuaggi e molta schiettezza. Spiega le cose in modo esuberante, usa gli aneddoti delle sue montagne, ricorre spesso al dialetto, mi chiama “madame”, e dice le sue verità in un modo talmente semplice e diretto che non si può far altro che prenderle tutte intere. Dopo la morte di Alba Chiara in paese è stata organizzata quella che hanno definito la “serata del dolore”. Ci si aspettava molta partecipazione, ma come rappresentanti delle istituzioni c’erano solo il sindaco e tre consiglieri. Loredana mi chiede di scrivere esplicitamente che «non c’era nessuna donna del consiglio comunale» (l’assessora Giancarla Tognoni – che incontro più tardi – mi ha detto che aveva un altro impegno perché quel giorno era anche quello della giornata mondiale delle api; un’altra assessora, Valentina Bellotti – che ho sentito al telefono – mi spiega che aveva già comunicato la sua assenza per precedenti impegni). Alla serata si è arrivati dopo un percorso: cioè dopo che Gianluca Frizzi, insieme ai genitori di Alba Chiara, aveva partecipato a diversi incontri sulla violenza contro le donne. «Ma venivano fatti discorsi che qui non avrebbero capito: come posso chiamare qua Paolo Crepet o Umberto Galimberti? Non solo non abbiamo i codici per capirli, ma loro parlano pure in italiano e non li capiremmo. Qua serviva dell’altro: e allora abbiamo deciso di far parlare le persone che la cicatrice ce l’hanno sull’anima tutti i giorni e che devono convivere con l’assenza». La posizione di Gianluca Frizzi è chiarissima: «Qua è successa una cosa sconvolgente, e bisogna solo fermarsi. Tutti possono soffrire, ma non tutti sono sullo stesso piano: è questo che le istituzioni dovevano stabilire. E c’è solo una cosa da dire: lei è stata uccisa da lui. La comunità doveva prendere coscienza che certe cose sono inaccettabili, che lui è morto, ma ha fatto una scelta, lei no. Se non vieni da un altro pianeta, qua funziona così: non si decide di nascere, si è affidatari di una cosa che si chiama vita. Lui si è eretto a padrone della vita: finché è padrone della sua va bene, ma ha deciso anche per lei e questo è inaccettabile». E ancora: «Dicevano “poverini tutti”, i genitori di lei, di lui. E io dicevo no, poverina Alba Chiara. Poi continuavano a ripetere che Mattia era un bravo ragazzo, insistevano sul fatto che fosse un bravissimo istruttore dei Vigili del fuoco. E va bene. Ma se il migliore di loro ha fatto quella cosa, sono andato dal comandante e gli ho detto: ma con gli altri, come siamo messi? Insomma, mi spiego? Che cosa avrei dovuto fare? Intestargli la caserma? Scherziamo? Era un bravo ragazzo, sì. Ma fino a quel 31 luglio». All’inizio, continua Frizzi, «ho negato alla famiglia di Alba Chiara la richiesta di varie manifestazioni, perché era troppo presto, la comunità era ancora fragile, come neve al sole. Ma non volevo che il silenzio del rispetto diventasse il silenzio dell’indifferenza. A marzo ho cominciato a insistere per mettere una stele pubblica, in tempo per il 20 maggio, il giorno del compleanno di Alba Chiara». Di fronte alla decisione da prendere sono iniziate le difficoltà. La proposta della stele è arrivata prima in giunta, poi in un consiglio comunale informale dove erano emerse delle prudenze e infine, dopo uno stallo che ha spinto Frizzi a dimettersi, di nuovo in giunta. La stele in memoria di Alba Chiara era considerata da alcuni un simbolo divisivo: probabilmente perché ricordava che Alba Chiara era stata uccisa, che non era morta per una disgrazia e che qualcuno prima di uccidersi l’aveva uccisa. «Mi è stato detto che se i simboli sono usati per dividere allora non sono un bel ricordo. Ma non c’è un simbolo al mondo che unisca tutti: seguendo questa logica avrei dovuto togliere la targa dei partigiani che hanno sparato dopo il 25 aprile perché qua ci sono quattro famiglie di fascisti. Nel caso di Alba Chiara sono convinto che una divisione, un solco tra vittima e carnefice, andasse tracciato: fino al centro della terra. Mi è stato anche proposto di mettere una cosa generica, poi mi è stato detto che come sindaco potevo decidere anche da solo di fare la stele o che si poteva autorizzarne una privata. Ma qui non c’è niente di generico, la stele serve sia come ricordo che come monito. Ma soprattutto, non c’è niente di privato. Quel solco lo dovevamo fare noi tutti, collettivamente, come istituzione, perché la questione è sociale. Quello di Alba Chiara è stato un femminicidio e sulla stele c’è scritto in due lingue: in italiano e pure in inglese». Le assessore che ho incontrato e con cui ho parlato, Giancarla Tognoni e Valentina Bellotti, dicono che in realtà nessuno era contrario alla posa della stele in sé: la richiesta, spiegano, era di aspettare per capire quali fossero le modalità e i tempi più opportuni. Bisognava insomma almeno attendere la chiusura del procedimento penale, ma le indagini erano chiuse dal settembre 2017 e restavano solo i tempi tecnici perché gli atti venissero resi pubblici: la famiglia di Alba Chiara, tra l’altro, li aveva già inviati alla famiglia Stanga. Ma il consiglio comunale, mi hanno detto le assessore, non ne era stato informato. Al di qua dell’incastro dei tempi, la questione dell’attesa non convince per niente i genitori di Alba Chiara: lo considerano un pretesto e l’hanno messo accanto alla poca solidarietà che sentono di aver ricevuto in paese, oltre ad alcuni discorsi che circolavano sia tra le persone che sui giornali e che lasciavano intendere come la loro figlia fosse in qualche modo colpevole di ciò che era accaduto: “Se non l’avesse lasciato…”, “Chissà che cosa ha fatto per provocare un gesto del genere…”, e così via. Mi dicono che «il giorno dei morti il prete ha nominato Mattia ma non Alba Chiara», e che «non c’è stata alcuna reazione al cimitero. Si stavano dimenticando tutto e nessuno ha alzato la testa». Mi raccontano di essere stati criticati per aver parlato con i giornali e per aver reso pubblico il progetto di creare un progetto contro la violenza sulle donne a nome di Alba Chiara (realizzata poi con il sostegno della fondazione Famiglia Materna di Rovereto e di cui si possono trovare informazioni qui). Mi dicono, anche, di aver dovuto leggere «di tutto». In un’intervista del 4 agosto del 2017, Ivo Stanga, che a quel tempo era assessore di Tenno con deleghe all’agricoltura e alla caccia e che era anche lo zio di Mattia, negava ci fosse stata premeditazione nel femminicidio, nonostante la pistola comprata due ore prima, e diceva: «Non avevamo avuto alcun sentore di problemi tra i due ragazzi, tra loro non c’erano screzi, erano attaccati uno all’altro praticamente sempre. E si amavano (…) Non è stato il vero Mattia a premere il grilletto. È stato qualcosa uscito dal nulla che ha armato la sua mano». La richiesta di attendere è stata poi descritta da qualche giornale locale come «un pensiero comprensibile tra chi non può e non vuole dimenticare in un giorno l’altro protagonista di questa tragedia, Mattia. Per chi l’ha visto crescere pensarlo capace di quel gesto è stato difficile, soprattutto dopo averlo visto per anni fare il volontario e aiutare tanta gente dentro e fuori la valle con la divisa dei Vigili del fuoco». Loredana e Massimo raccontano di aver ricevuto risposte molto articolate per giustificare l’attesa della posa della stele: «Una persona ci ha spiegato che a Berlino non è stato messo per anni nessun simbolo dell’Olocausto: e questo perché servono anni per metabolizzare. Quindi era troppo presto. Era una questione di tempi». Non so se sia vera, la storia di Berlino, ma ascoltare quelle giustificazioni, lì davanti a loro, mi sembra una cosa senza senso. Quello che pensa e dice Loredana segue infatti altre logiche: non c’entrano né la burocrazia né i passaggi formali. Mi parla della sua famiglia e di come con quella di Mattia si siano sempre frequentati: «Siamo sempre andati da loro. Anche dopo, e per entrare in quella casa c’è voluto tutto il mio coraggio. Ho anche chiesto di poter andare al funerale di Mattia e al funerale sono uscita dal banco e sono andata a dare la mano alla Claudia, la mamma di Mattia. Anche quando ci siamo trovati dagli avvocati, seduti su quelle sedie che girano, era con loro che parlavo, non con gli avvocati». Ma dagli avvocati, dice, «ci siamo sentiti dire di tutto. Hanno negato che fosse femminicidio. Che chissà che cosa aveva fatto lei a lui. Ci siamo sentiti dire molte frasi così». Secondo Frizzi, il punto vero è che hanno cominciato a prevalere i “ma”: «Sì, lui ha ucciso lei, ma chissà perché, chissà che cosa lei gli aveva fatto. La verità è che qua i nonni sono quelli che picchiavano le loro mogli per legge e che i loro figli sono quelli hanno visto abrogare il delitto d’onore solo nel 1981. C’è il desiderio di voler nascondere, di voler nascondere tutto, è su questo che si è giocata la partita: sul voler dimenticare e non sul voler ricordare, sulla deresponsabilizzazione di tutti e non sul fatto che in questa storia abbiamo perso tutti». Sui giornali locali è circolato anche il fatto che c’erano già degli attriti all’interno del consiglio comunale, e che non avevano a che fare con la stele. Frizzi dice però che non poteva accettare che «su questioni così delicate si andasse sotto la soglia della dignità. Il 23 maggio mi sono dimesso, sono arrivati i giornali, le televisioni e penso che questo sia servito. La commissione pari opportunità del Trentino mi ha sostenuto: ha espresso solidarietà e apprezzamento civico, ha scritto che non si dovrebbe nemmeno sottolineare che questo riconoscimento non ha nulla a che vedere con i sentimenti di vendetta nei confronti degli assassini. Eppure lo si è dovuto sottolineare. Arrivati a quel punto è diventato più difficile tenere la parte per chi usava la questione dell’attesa come pretesto. Ho forzato la mano, mi sono dimesso, e poi con il sindaco reggente, dopo tutto questo casino, la stele è stata approvata: tutti a favore con una sola astensione, quella di Ivo Stanga, lo zio di Mattia, che dopo il voto si è dimesso». La stele, comunque, ancora non c’è. Restano dei problemi sul luogo dove posizionarla: «Nel primo posto che avevamo scelto ci è stato detto che tutti i giorni passava il trattore del nonno di lui, il secondo posto che ci piaceva era troppo turistico… insomma non si sa ancora dove sarà messa. Ormai il compleanno di Alba Chiara è passato e non abbiamo più così tanta fretta, ma a oggi non c’è ancora stato l’incontro che ci era stato promesso con le assessore del consiglio comunale. Evidentemente la questione femminicidio non è tra le priorità, si cerca di anestetizzare tutto, di non disturbare nessuno, e ci troviamo noi, con la poca forza che ci resta, nella condizione di dover sollecitare», dice Massimo Baroni. Aurora Baroni, la sorella di Alba Chiara, è stata ad ascoltare in silenzio per tutto il tempo: ha 19 anni, ed è riuscita a rientrare nella stanza in cui dormiva con la sorella solo poche settimane fa. Massimo e Loredana mi raccontano che a un certo punto è arrivata loro la notizia che sul “muro delle bambole di Milano” – un posto dove vengono ricordate le vittime di femminicidio anche se in un modo non del tutto condivisibile, dato che le donne sono rappresentate, appunto, come bambole – c’era anche la foto di Alba Chiara: «Perché loro hanno potuto usare quella parola e noi è come se avessimo dovuto chiedere il permesso per farlo?». E hanno ragione: quello di Alba Chiara è stato un femminicidio. La parola non indica solamente il sesso della persona che è morta, ma anche il motivo per cui è stata uccisa. Perché si rifiutava di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne, secondo le aspettative che quel ragazzo aveva di lei. Alba Chiara e Mattia non sono morti «uno accanto all’altra», nessuna mano divina è arrivata da fuori ad armare un’altra mano innocente. E dire questo, o «dare il giusto nome alle cose, non significa negare il dolore a nessuno», conclude Frizzi. «Qui c’è una sola vittima: Alba Chiara. E chi ha premuto il grilletto è stato lui. Fine della storia».
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Sono 71 le vittime di femminicidio in Italia nel 2022: un tragico elenco pubblicato da Femminicio Italia.info, e che si aggiorna con la morte di Alessandra Matteuzzi, uccisa dall'ex compagno Giovanni Padovani, in passato già stato denunciato per stalking e per il quale era stato anche emesso un divieto di avvicinamento disposto dall'autorità giudiziaria. Il primo caso dell'anno, il 6 gennaio scorso, la morte di Guglielmina Pasetto: la cronaca racconta di due anziani trovati morti nel loro appartamento a Rovigo. Si ipotizza un omicidio-suicidio. Le vittime, Renzo Cavazza, 76 anni e Guglielmina Pasetto di 71, sono stati trovati a terra, senza vita in una palazzina di viale Porta Po. A dare l'allarme alcuni vicini di casa che non li vedevano da qualche giorno. L'uomo avrebbe ucciso la moglie e poi si sarebbe tolto la vita. In mezzo a questi due estremi, tantissime storie di donne finite tragicamente, più o meno eclatanti, che in genere chiamano in causa mariti, compagni o ex conviventi. Recente è la morte di Silvana Arena, 74 anni, uccisa dal marito Giovenale Aragno, 73 anni, il 7 agosto 2022 a Venaria Reale in provincia di Torino. L'omicidio si è consumato all'interno dell'abitazione della coppia: a lanciare un primo allarme sono stati alcuni vicini di casa che hanno sentito delle forti urla provenire dall'appartamento dei due pensionati. È il 4 maggio: Stefania Pivetta, 56 anni, e sua figlia Giulia, 16 anni, vengon uccise dal marito e padre Alessandro Maja, 57 anni, all'interno dell'abitazione in cui risiedevano a Samarate in provincia di Varese. A dare l'allarme, nelle prime ore del mattino, i vicini di casa che hanno sentito delle forti urla provenire dall'appartamento familiare. Alcuni di loro avrebbero sentito l'uomo gridare: «Li ho uccisi tutti». I soccorsi giunti sul posto hanno trovato il cinquantasettenne ferito. In casa c'era anche il figlio Nicolò, 23 anni, gravemente ferito ma ancora in vita. Secondo le ricostruzioni, si sarebbe trattato di un duplice omicidio seguito da un tentativo di suicidio. Nell'elenco, si scorge anche il nome di Elena Del Pozzo, 4 anni, trovata morta il 14 giugno 2022 a Mascalucia in provincia di Catania. A uccidere la bambina, si scoprirà nel corso delle indagini, è stata la madre Martina Patti, 23 anni, residente nello stesso comune siciliano. La giovane, in forte tensione con l'ex convivente, il giorno precedente, 13 giugno, si era recata dai Carabinieri per denunciare un sequestro di persona. Un caso che ha commosso l'Italia intera.
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Gino e Elena Cecchettin hanno usato parole nette che toccano anche le coscienze più anestetizzate. Per questo educare le giovani generazioni alle relazioni sessuali è fondamentale Cara Lilli, ho grande stima e ammirazione per Gino Cecchettin, per il suo voler intensamente trasformare il dolore immenso in qualcosa di utile per la comunità, ma temo la sovraesposizione mediatica possa stritolarlo. Cosa ne pensa? Tiziana Montrasio [[EMAIL]] Cara Tiziana, Gino Cecchettin è finito nel tritacarne mediatico fin dal giorno della scomparsa di sua figlia Giulia. Le sue parole, il suo viso, la sua casa, i suoi figli sono rimbalzati sulle nostre televisioni e sui nostri telefoni mentre ancora erano in corso le ricerche di Giulia. In molti si sono chiesti perché proprio questo femminicidio - in un Paese come il nostro che soltanto quest’anno ne conta 109 - abbia risvegliato tanta partecipazione: credo questo sia dipeso anche, se non soprattutto, da come Gino Cecchettin e sua figlia Elena hanno scelto di affrontare questa tragedia. Hanno usato parole chiare, lucide, nette. Hanno saputo toccare le coscienze più anestetizzate, hanno contrastato il cinismo e la rassegnazione di molti, inchiodando ognuno di noi alle sue responsabilità, costringendo tutti a osservare una realtà su cui in troppi chiudono gli occhi. Hanno scelto di «fare rumore». Uno dei toccanti messaggi lasciati per Giulia, ammazzata dal suo ex ragazzo Come ha detto lo stesso Gino Cecchettin da Fabio Fazio: «Non voglio odiare, ho voluto essere e reagire come avrebbe voluto mia figlia». Facendo rumore. Il compito non sarà facile, la nostra cultura è incistata da secoli di maschilismo, patriarcato e stereotipi che sono difficili da abbattere. A questo si aggiungono le resistenze di certa politica, che fatica moltissimo a mettere in discussione slogan tradizionalisti su cui ha costruito parte del suo consenso. Ecco quindi che mentre all’unanimità si approva una meritoria legge che rafforza le tutele per le donne in pericolo, quando si va a parlare di educazione sessuale nelle scuole le cose cambiano. Il governo Meloni si è limitato a proporre l’istituzione di un’ora di «educazione alle relazioni» in via sperimentale solo per le scuole superiori, per 30 ore all’anno. Troppo poco. Senza contare il caos politico sulla nomina dei garanti della commissione che avrebbe dovuto guidare il progetto, che non fa onore né al governo né alla serietà del tema in esame. Per porre fine alla mattanza delle donne bisogna smantellare il patriarcato, portare l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, insegnare ai giovani il rispetto, la parità e il superamento degli stereotipi di genere. Serve l’impegno di donne e di uomini, della destra e della sinistra. Dividersi su questo vuol dire semplicemente non avere la volontà politica di affrontare il problema. Non sarà un percorso breve, ma è solo da questi interventi che può iniziare un cambiamento vero. «Quando ho sentito mia figlia Elena parlare di patriarcato all’inizio sono rimasto interdetto. Ma ha ragione, la supporterò in tutte le sue battaglie». Sono ancora parole di Gino Cecchettin: quando ognuno di noi farà suo il senso politico più profondo di queste parole, allora avremo cominciato sul serio a combattere questa barbarie. © RIPRODUZIONE RISERVATA Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.
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Massima pena per l’uomo che a ottobre del 2021 a Castegnato uccise con almeno 16 martellate l’ex compagna Elena Casanova, di 49 anni Poco più di un’ora prima di colpirla a morte la incrociò all’Obi, in paese. La vide ridere, tra le corsie. «E non ho più capito nulla. Mi è scattato qualcosa dentro, ho deciso che l’avrei uccisa». Perché «mi stressava», aggiunse in aula. Lo fece, verso le sette di sera, dopo essere passato da casa a recuperare il martello con il quale l’avrebbe massacrata. Era il 2o ottobre del 2021. In un parcheggio di Castegnato a meno di cento metri dall’ingresso di casa, Elena Casanova, operaia di 49 anni — mamma premurosa di Alice, che all’epoca ne aveva solo 17 — fu aggredita dall’ex compagno Ezio Galesi, dieci anni più grande di lei, due figli e un matrimonio alle spalle, qualche lavoretto saltuario nel settore edile, con il quale aveva avuto una relazione finita circa un anno prima. La aspettò, sfondò il finestrino della sua auto, la fece scendere, la insultò e iniziò a colpirla fino a sfondarle il cranio. Poi, «l’avevo detto che l’avrei fatto, e l’ho ammazzata. Chiama i carabinieri» urlò a un vicino affacciato alla finestra. Per l’omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, dal già esistente vincolo delle relazione affettiva, ma non dalla premeditazione — ma anche per i reati di calunnia e porto di oggetti atti a offendere — come chiesto dal sostituto procuratore Carlo Pappalardo, la Corte d’assise (presidente Roberto Spanò) ha condannato Galesi all’ergastolo. Ma lui, assente in udienza, il verdetto non l’ha sentito. Nella sua requisitoria, il pm ha ripercorso l’aggressione cruenta, il tentativo di Elena di difendersi e la sua sofferenza durata «circa una decina di minuti» come sostenne il medico legale. Lei e l’imputato avevano avuto una storia, «così come lui stesso ammise durante l’interrogatorio nelle ore successive al delitto, salvo poi cercare di sminuire questo rapporto nel corso dell’esame in aula». No, «non era solo un’amica, Elena, per lui». Per l’accusa, quindi, «è provato al di là di ogni ragionevole dubbio ci sia stato questo legame sentimentale, sfociato in una convivenza nei mesi di lockdown e naufragato poi a fine estate 2020: una fine alla quale, però, l’imputato non si è mai rassegnato». Stando all’ex marito e padre della figlia, «una volta Galesi si era inginocchiato implorando Elena di tornare con lui», per le amiche «lei era preoccupata, aveva paura di quell’uomo che la tormentava e lo credeva responsabile dei dispetti subiti (dalle scritte in paese alle gomme forate)». In sintesi, secondo la procura, «alla base di questo delitto c’è un uomo che non riesce ad accettare la fine della relazione e scaglia la sua ira contro la ex compagna, fino ad ucciderla». Non prima di calunniarla (e con lei l’uomo con cui stava) con due esposti anonimi inviati in questura il 9 aprile e il 30 settembre 2021 — accusandoli di appartenere a una fantomatica associazione per delinquere finalizzata all’emissione di fatture false e caporalato — oltre a una terza lettera, non ancora spedita, indirizzata al procuratore e ritrovata a casa sua, sempre a Castegnato. Addebiti «del tutto privi di ogni riscontro»: «Ho solo cercato di screditarla con le chiacchiere di paese» si era difeso in aula Galesi. Sostenendo addirittura di essere lui, a sentirsi «minacciato e pedinato», senza sapere da chi. Anche il suo difensore, l’avvocato Oscar Bresciani, ha cercato invano di ridimensionare questa imputazione: solo «accuse sgrammaticate e inverosimili» ha sostenuto chiedendo inoltre l’esclusioni delle aggravanti della crudeltà e del vincolo sentimentale («è assodato la storia fosse finita») — negata — ma non delle generiche, ammettendo il comportamento processuale di Galesi sia «andato peggiorando» rispetto alla «confessione, certamente più genuina, restituita in una prima fase». Stando alla versione più recente dell’imputato avrebbe ucciso Elena perché «mi prendeva in giro e non voleva pagarmi, come da accordi, i lavori che le avevo fatto in giardino». Non per l’accusa. E nemmeno per l'avvocato di parte civile, Mariapia Cimini — al fianco della figlia e l’anziana mamma di Elena — che ha chiesto invece venisse riconosciuta dai giudici anche l’agravante della premeditazione, «che, di fatto, si è andata costruendo negli anni», dopo la fine della storia: «In pochi minuti, Galesi ha ritenuto di ‘sistemare’ tutto ciò che gli dava fastidio», ha detto ricollegandosi alla conclusione della perizia psichiatrica, semplicemente annientandolo. «Ha eliminato i suoi problemi eliminando un altro essere umano». Il legale aveva chiesto provvisionali esecutive da 200 mila euro per ognuna delle sue assistite: la Corte le ha ridotte a 50 mila.
focus killer
Secondo uno studio recente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un terzo delle donne che hanno o hanno avuto una relazione di coppia hanno subito violenze fisiche e/o sessuali da parte del partner, e circa il 38 per cento degli omicidi di donne denunciati nel mondo sono commessi dal partner o dall’ex partner. In le morti causate da violenze domestiche sono una questione molto attuale, da tempo oggetto di dibattito pubblico e discussioni parlamentari, nonostante i disaccordi sulle definizioni e le difficoltà nella raccolta di dati pertinenti e nella stima esatta delle dimensioni del fenomeno. Da un’indagine ISTAT del 2006 – condotta su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni – risultava che in 2 milioni 938 mila donne hanno subito violenze domestiche, quasi tutte non denunciate. Fatti di cronaca recenti mostrano la gravità del problema e, in alcuni casi, le difficoltà di venirne a capo avvalendosi delle leggi esistenti: la settimana scorsa, a Palermo, una donna di 26 anni è stata uccisa dal suo ex compagno, che era già stato denunciato sei volte prima di commettere l’omicidio; e a Brescia, i due figli di un uomo denunciato dieci volte per stalking dalla ex moglie (e madre dei figli) sono morti in un incendio nella casa del padre, le cui cause non sono ancora state chiarite. Negli Stati Uniti, secondo una statistica del Dipartimento di Giustizia, una donna su quattro è vittima di violenze domestiche almeno una volta nella vita, e ogni giorno tre donne e un uomo sono uccisi dal proprio partner (circa l’85 per cento delle vittime di violenze domestiche sono donne). Tra il 2000 e il 2006 le violenze domestiche hanno causato 10 mila e 600 morti (7 mila e 400 in più dei soldati americani morti nello stesso intervallo di tempo). Tutti gli osservatori nazionali, gli enti internazionali e i centri di prevenzione concordano nel ritenere che i numeri delle violenze domestiche nel mondo siano sottostimati, perché sono solitamente ricavati a partire da dichiarazioni o denunce spontanee (mentre la difficoltà delle vittime ad ammettere e denunciare l’abuso è proprio uno degli aspetti più complessi e problematici del problema). La settimana scorsa il New Yorker ha raccontato in un lungo articolo di Rachel Louise Snyder alcuni casi di violenza domestica negli Stati Uniti, e in particolare la storia tragica di Dorothy Giunta-Cotter, un caso del 2002 che ha contribuito a sviluppare standard di prevenzione più severi, caratterizzati da un nuovo tipo di approccio al problema e dall’adozione di strumenti legislativi più efficaci. La storia di Dorothy Giunta-Cotter William Cotter e Dorothy Giunta si incontrarono nel 1982, quando lui aveva vent’anni e lei quindici, e nei vent’anni successivi trascorsi insieme nella loro casa ad Amesbury, Massachusetts, Dorothy subì spesso le violenze di lui: una volta Cotter tentò di strangolarla con il cavo del telefono; un’altra volta – quando era incinta della loro seconda figlia – la spinse giù dalle scale, e dopo la visita d’urgenza al pronto soccorso le vietò di indossare il collare e prendere gli antidolorifici. Cotter era molto violento anche con le due figlie Kaitlyn e Kristen: durante una lite si sedette sul torace di Kristen – che allora aveva undici anni – impedendole di respirare. Una volta Dorothy fuggì con Kristen in Maine, a 300 chilometri da casa, in una struttura di ospitalità per vittime di violenza domestica dove Cotter non avrebbe potuto trovarle (Kaitlyn, la figlia più grande, rimase ad Amesbury per continuare a frequentare il liceo e riuscire a diplomarsi). Dorothy cercò di ottenere lì un’ordinanza restrittiva – disse che il marito l’avrebbe uccisa, se l’avesse trovata – ma non riuscì a ottenerla perché il provvedimento non rientrava nella giurisdizione del Maine. Allora tornò ad Amesbury dove conobbe Kelly Dunne, direttrice del Jeanne Geiger Crisis Center (una struttura di ricovero e assistenza legale per le vittime di violenze domestiche), e riuscì ad ottenere l’ingiunzione nei confronti del marito. In base all’ordinanza, Cotter dovette abbandonare la casa: il “Jeanne Geiger” aiutò Dorothy a cambiare serrature e consegnò dei telefoni a lei e alle due figlie. Dieci giorni più tardi, Cotter violò l’ordinanza e si nascose nel garage di casa, aspettando la moglie: quando Dorothy rientrò dal lavoro, lui la afferrò, le chiuse la bocca con la mano e le disse: «smettila di urlare o ti ammazzo». Dopo due ore e mezzo se ne andò, e il giorno seguente Dorothy andò alla stazione di polizia a denunciare tutto: «ogni volta che parlo con lui, mi spaventa», disse al detective Robert Wile. Cotter fu arrestato ma, in attesa dell’udienza, uscì pagando una cauzione di 500 dollari: aveva un lavoro regolare (faceva l’antennista e allenava una squadra sportiva locale) e non aveva precedenti penali, solo qualche contravvenzione e qualche assegno scoperto. Il 26 marzo 2002, cinque giorni dopo esser stato rilasciato, Cotter si presentò di nuovo a casa di Dorothy, stavolta armato di uno spray al peperoncino, manette, un fucile a canne mozze e una cartucciera. Kristen aprì la porta al padre (Kaitlyn, la figlia più grande, era a casa di amici), Cotter la spinse via, si diresse verso la camera da letto di Dorothy, buttò giù la porta e trascinò la moglie fuori dalla stanza. Kaitlyn corse a nascondersi al piano di sopra e telefonò a un vicino di casa, che chiamò il 911 (il numero per le emergenze negli Stati Uniti). La polizia arrivò pochi minuti più tardi e circondò la casa: un’operatrice telefonò a casa di Dorothy per parlare con Kristen e confermare l’arrivo degli agenti, ma la telefonata fu presa prima da Kristen e poi subito da Cotter, dal telefono del piano di sotto. Operatrice: «Pronto? Signor Cotter? In questo momento ha un’arma?». Cotter: «Sì». Operatrice: «Ok, signore, ci sono degli agenti posizionati all’esterno della casa. Può mettere l’arma a terra?» Cotter: «No, no, devo parlare con Dorothy, devo parlare con Dorothy, ok?». Operatrice: «Capisco, signore, ma mi ascolti…». Cotter: «Se sfondano la porta qualcuno si farà molto male, intesi?».Operatrice: «Esattamente, signore, esattamen…». Cotter: «Diteglielo!». Operatrice: «Glielo dirò, signore…» (urla) Operatrice: «Pronto? Pronto?» (urla) (spari) L’agente David Noyes sentì le urla e corse verso l’ingresso della casa: sentì Dorothy urlare e trafficare alla porta, tentando di aprirla. Quando Noyes riuscì a sfondarla, Cotter sparò a distanza ravvicinata e il corpo di Dorothy cadde ai piedi di Noyes, che rimase accecato dal colpo per qualche secondo. Cotter ricaricò subito l’arma e si sparò. Kristen rimase tutto il tempo al piano di sopra, nascosta sotto il letto, col telefono all’orecchio. Dorothy Giunta-Cotter aveva 35 anni. Il centro di assistenza “Jeanne Geiger” Kelly Dunne è la direttrice operativa del centro “Jeanne Geiger” di Amesbury, la struttura a circa un’ora di macchina da Boston, che accoglie le vittime di violenze domestiche e offre loro assistenza economica e consulenza legale per ottenere e affrontare l’allontanamento dal partner violento. Per garantire la sicurezza degli ospiti e degli impiegati sull’edificio della sede non c’è nessuna insegna. Di fianco alla reception, racconta l’articolo del New Yorker, c’è una stanza dei giochi per i bambini, e nella sala d’attesa ci sono spazzolini da denti, vestiti di seconda mano, scatole di Kleenex e libri di sostegno psicologico. Il centro lavora in coordinamento con le stazioni di polizia locali, i tribunali e gli ospedali, ed è finanziato da contributi statali, donazioni private e raccolte fondi: ad autunno del 2012 ha ricevuto 450 mila dollari dal Dipartimento di Giustizia di Washington per promuovere e diffondere il proprio modello in altre città del Massachusetts. In più occasioni il tipo di lavoro svolto dal team di Kelly Dunne è stato pubblicamente apprezzato e sostenuto dall’amministrazione Obama e in particolare dal vicepresidente Joe Biden, molto attento al fenomeno della violenza domestica (il Violence Against Women Act – la legge federale approvata nel 1994 in difesa delle donne vittime di violenze – fu redatto dall’ufficio del vicepresidente Biden, allora senatore del Delaware). Dunne ha iniziato a lavorare come volontaria al “Jeanne Geiger” subito dopo il college, nel 1997, e ricorda che quando arrivò in ufficio il primo giorno c’erano già cinque donne in attesa: una di loro era stata chiusa dal marito nel seminterrato per tutto il weekend. Secondo Dunne, l’incidenza della violenza domestica è dovuta almeno in parte a una generale sottovalutazione del fenomeno e a una profonda disinformazione sulle dinamiche dei rapporti violenti: spesso si ritiene che la vittima incentivi gli abusi con i suoi comportamenti, o che potrebbe abbandonare il partner senza difficoltà se veramente lo volesse e ritenesse insostenibile la situazione in casa. L’altro grave errore è supporre che alla scadenza dei provvedimenti restrittivi nei confronti del partner le cose si siano sistemate da sole nel frattempo: «invece è esattamente il contrario», ha detto Dunne al New Yorker. Dunne cita spesso la storia di Dorothy Giunta-Cotter come uno spartiacque che cambiò radicalmente l’approccio del suo team ai casi di violenza domestica: dal 2005 il centro cominciò a impegnarsi non solo ad assistere le vittime ma anche – lavorando con la polizia e gli organi giurisdizionali – a cercare di prevenire gli omicidi domestici adottando un modello predittivo, sviluppato a partire da un questionario. Secondo Dunne, la storia di Dorothy si concluse tragicamente sebbene Dorothy avesse fatto ricorso a tutti i mezzi e gli aiuti disponibili, e sebbene non ci fossero state inadempienze formali da parte delle autorità coinvolte nella vicenda: tutti avevano fatto tutto quello che potevano, e bene, ma non era bastato a evitare che andasse a finire così. I rifugi per le vittime di violenze domestiche Nel caso di Dorothy Giunta-Cotter, secondo Kelly Dunne, il rischio che la situazione potesse volgere al peggio si presentò quando Dorothy, dopo l’immediata scarcerazione del marito, rifiutò la proposta del “Jeanne Geiger” di lasciare di nuovo casa e trasferirsi con le due figlie in un’abitazione di ricovero. La maggior parte dei rifugi di questo tipo, nel Massachusetts, sono delle case che le donne vittime di violenze domestiche condividono con altre cinque o sei famiglie. Fino a dieci anni fa, le donne potevano portare con sé soltanto i loro figli minori di 12 anni, e gli animali domestici non erano ammessi, mentre successivamente si è deciso che possano portare anche i loro figli adolescenti e tenere un animale. Alcuni centri permettono le visite di amici e parenti a casa, altri no, per ridurre il rischio che il potenziale aggressore possa venire a conoscenza del luogo in cui si trova l’ex compagna. Fin dagli anni Settanta, negli Stati Uniti, l’ospitalità in strutture di rifugio segrete è stata considerata a lungo il modo migliore per proteggere in tempi rapidi le donne vittime di violenza domestica, quando le vie legali si dimostrano insufficienti o intempestive. Spesso però si sottovalutano le ripercussioni che questa soluzione – per quanto provvisoria – comporta nella vita delle donne: rifugiarsi può spesso voler dire lasciare il lavoro, ritirare i bambini da scuola, non avere contatti con familiari e amici, e in genere dover rinunciare a tutti quei tragitti e luoghi quotidiani noti al partner. Secondo Kelly Dunne, i rifugi hanno contribuito a salvare molte vite ma recano inevitabili disagi alle vittime, e scaricano il peso del cambiamento sulle loro spalle, non su quelle dei loro persecutori. Per questo motivo – dal caso di Dorothy Giunta-Cotter in poi – Dunne ha spesso criticato il modello della casa-rifugio, attirandosi le critiche di una parte ancora consistente dell’opinione pubblica (che invece lo ritiene un buon approccio al problema). Il nuovo approccio e il modello predittivo Il “Jeanne Geiger” ha da tempo adottato un modello di prevenzione elaborato a partire dalle ricerche di Jacquelyn Campbell, che insegna alla scuola infermieristica della Johns Hopkins University di Baltimora, nel Maryland, ed è una delle maggiori esperte nazionali di omicidi in ambito domestico. Negli anni Ottanta, per la sua tesi di dottorato, Campbell intervistò duemila vittime di violenza domestica a Dayton (Ohio), a Detroit (Michigan) e a Rochester (New York), e –nel tentativo di individuare degli elementi ricorrenti – studiò molti rapporti stesi dalla polizia in casi di omicidi compiuti dal partner della vittima. Campbell scoprì che la metà delle vittime aveva cercato aiuto rivolgendosi alla polizia almeno una volta, e che nei casi di omicidio l’indicatore più frequente era la presenza di violenze fisiche precedenti. Il rischio di omicidio cresceva quando la vittima cercava di abbandonare il partner o quando si verificava un cambiamento importante nella vita della coppia (una gravidanza o un nuovo lavoro); nei casi di separazione, il pericolo rimaneva alto nei primi tre mesi, si abbassava leggermente nei successivi nove, e calava significativamente dopo un anno. Campbell identificò quindi venti fattori di rischio, alcuni prevedibili e scontati (possesso di armi da fuoco, uso di sostanze stupefacenti), e altri meno scontati: rilevò ad esempio che la disoccupazione cronica del persecutore (non la povertà) era un fattore di rischio, così come le minacce di morte e gli abusi sessuali. A partire da questi studi, il “Jeanne Geiger” e altre strutture di assistenza e protezione delle vittime di violenze domestiche adottarono un questionario elaborato da Jacquelyn Campbell, dalle cui risposte è possibile estrarre un coefficiente di probabilità: da 20 a 18 risposte positive al questionario indicano una probabilità molto elevata che si verifichi un omicidio, da 17 a 14 un rischio grave, da 13 a 8 un rischio importante, e meno di 8 indicano un rischio variabile. Se il questionario fosse stato utilizzato al “Jeanne Geiger” già dal 2002 – ha detto Kelly Dunne al New Yorker – Dorothy Giunta-Cotter avrebbe dato 18 risposte affermative. Oggi, nel Massachusetts, le risposte al questionario vengono regolarmente trasmesse ai diversi dipartimenti e condivise dai pubblici ufficiali che si occupano del caso specifico di violenza domestica, compresi gli agenti di polizia, i procuratori distrettuali e i giudici (fin dall’udienza preliminare). Il questionario di valutazione del pericolo (di Jacquelyn Campbell, 2004) 1. Le violenze fisiche sono aumentate – nel numero o nella gravità – nell’ultimo anno? 2. Lui possiede un’arma da fuoco? 3. Lo hai mai lasciato nell’ultimo anno vissuto insieme? 4. È disoccupato? 5. Ha mai usato un’arma contro di te o ti ha mai minacciata con un’arma letale? In questo caso, era un’arma da fuoco? 6. Ha minacciato di ucciderti? 7. Ha evitato in passato un arresto per violenza domestica? 8. Hai un figlio non suo? 9. Ti hai mai forzata a fare sesso con lui? 10. Ha mai tentato di strangolarti? 11. Fa uso di sostanze stupefacenti illegali (anfetamine, metanfetamine, speed, fenciclidina, cocaina, crack)? 12. È un alcolista o ha problemi con l’alcool? 13. Controlla la maggior parte delle tue attività quotidiane? Per esempio, ti dice chi può esserti amico e chi no, quando puoi vedere la tua famiglia, quanto denaro puoi spendere o quando puoi prendere la macchina? 14. È costantemente e violentemente geloso di te? Per esempio, ti dice cose come «se non posso averti io, non può averti nessuno»? 15. Sei mai stata picchiata da lui quando eri incinta? 16. Ha mai tentato di suicidarsi o minacciato di farlo? 17. Ha mai minacciato di fare del male ai tuoi figli? 18. Lo ritieni capace di ucciderti? 19. Ti segue o ti spia, ti lascia messaggi di minacce, distrugge le tue cose o ti chiama quando tu non vuoi che ti chiami? 20. Hai mai tentato di suicidarti o minacciato di farlo? Il caso di Lisa Morrison Il New Yorker ha raccontato anche la storia di una donna che ha chiesto aiuto al “Jeanne Geiger” più volte negli ultimi anni, e che rappresenta bene uno dei tanti casi problematici che Dunne e i colleghi hanno cercato di risolvere facendo tesoro dell’esperienza ricavata dal caso tragico di Dorothy Giunta-Cotter (Lisa Morrison è un nome fittizio, così come quello del suo ex marito, Glenn). La prima volta che Lisa Morrison si rivolse al “Jeanne Geiger” fu parecchi anni fa, perché il marito Glenn – a cui era stato diagnosticato un disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e che aveva iniziato a bere – la picchiava da tempo: una volta la scaraventò contro il muro davanti ai loro figli, un’altra volta la colpì a una gamba per impedirle di scappare. Nonostante le paure di Lisa per le conseguenze di un’eventuale separazione dal marito, il team di Kelly Dunne la aiutò a venir fuori dalla situazione critica e a ottenere il divorzio, due anni fa. Lisa trovò un lavoro a tempo pieno e un nuovo compagno, Thomas. Glenn – con cui Lisa era rimasta sostanzialmente in buoni rapporti – ottenne il diritto di vedere i figli nei weekend, ma cominciò a manifestare di nuovo atteggiamenti violenti quando seppe che Lisa e Thomas sarebbero presto andati a vivere insieme (con i figli di Glenn e Lisa). Glenn cominciò ad assillare Lisa per telefono e per messaggi, Lisa smise di rispondere e Glenn prese a minacciarla, dicendole che presto sarebbe tutto finito (un giorno lasciò più di quaranta messaggi nella segreteria di Lisa). Glenn avrebbe dovuto trascorrere il weekend da solo con i bambini – come stabilito dalla sentenza di divorzio – ma Lisa era molto preoccupata, e chiese ai consulenti del “Jeanne Geiger” se c’erano le condizioni per sospendere temporaneamente i diritti di Glenn senza richiedere un’ordinanza restrittiva (la riteneva una misura troppo drastica, che avrebbe solo provocato ulteriormente la collera di Glenn). Kelly Dunne cercò di ottenere dalla polizia che inviassero di nascosto una pattuglia a sorvegliare Glenn e i bambini per tutto il weekend, ma Glenn viveva in una zona che ricadeva sotto un’altra giurisdizione. Non c’erano altre vie legali a parte l’ordinanza, e Lisa decise di rinunciare e lasciare i figli a Glenn, venerdì pomeriggio. Da sabato Glenn smise di rispondere al telefono, Lisa corse subito alla stazione di polizia e ottenne un provvedimento restrittivo nei confronti di Glenn: andò a casa di lui con gli agenti e riportò i figli a casa con sé. Qualche giorno più tardi, ricevette da Glenn numerose email che alludevano a una morte imminente, e – poiché anche le email rappresentavano una violazione dell’ordinanza – la polizia arrestò Glenn, che rimase in carcere in attesa del processo: il procuratore distrettuale si avvalse di uno strumento giuridico che nel Massachusetts si chiama dangerousness hearing, un’udienza immediata che può determinare la carcerazione preventiva dell’imputato (per alcuni versi simile a quella disposta, in particolari circostanze, dalle misure cautelari personali previste dal diritto italiano). Glenn comparve davanti al giudice per l’udienza (dangerousness hearing) il giorno dopo l’arresto: il giudice dispose la custodia cautelare di Glenn – che in passato aveva spesso minacciato di suicidarsi – in un ospedale psichiatrico fino all’inizio del processo, che si sarebbe svolto il mese successivo. Glenn fu rilasciato dall’ospedale dopo che il giudice emanò una nuova ordinanza di restrizione da rispettare per tutto il tempo del processo, ma violò di nuovo l’ordinanza, e la corte lo condannò a diciotto mesi di carcere, poi tramutati in libertà vigilata a condizione che Glenn partecipasse a un programma di recupero (poté continuare a vedere i figli ma soltanto in presenza di una terza persona). Il dangerousness hearing e il bracciale GPS Il dangerousness hearing prevede che un imputato – anche senza precedenti penali – possa essere trattenuto agli arresti fino all’inizio del processo, e senza possibilità di rilascio sotto cauzione, se la sua libertà rappresenta una minaccia per qualcuno in particolare o per la comunità in genere. Secondo il New Yorker, è uno degli strumenti più efficaci a disposizione dei difensori delle vittime di violenze domestiche. Ai tempi delle minacce di William Cotter alla moglie Dorothy il dangerousness hearing veniva richiesto raramente per casi del genere: nell’area distrettuale del “Jeanne Geiger” veniva utilizzato non più di cinque volte all’anno, mentre oggi è convocato mediamente in due casi al mese. Secondo Kelly Dunne, il tempo trascorso dall’imputato in custodia cautelare prima del processo, permette di interrompere la spirale di violenza e offre alla vittima il tempo di trasferirsi, mettere da parte qualche soldo, cercare assistenza e magari trovare un lavoro. La carcerazione preventiva rimane una materia controversa e solleva molte questioni negli Stati Uniti (come anche in ): «la Costituzione non vede di buon occhio le pene inflitte per “possibili” comportamenti futuri», ha detto al New Yorker Ronald Sullivan Jr., direttore dello Harvard Criminal Justice Institute. L’uso del dangerousness hearing, inoltre, pregiudica fortemente la posizione dell’imputato nel processo, offrendo al giudice un quadro di partenza abbastanza netto e definito, prima di qualsiasi dibattimento. Un’altra forma di limitazione della libertà personale – già introdotta da quasi tutti gli stati americani – è l’utilizzo di dispositivi GPS per tracciare gli spostamenti dei condannati in libertà vigilata nei processi che riguardano violenze domestiche. Se il potenziale aggressore entra in determinate “zone di esclusione” – che possono essere pochi isolati o anche intere circoscrizioni – viene inviato un allarme alla stazione di polizia locale e viene disposto l’arresto immediato. I programmi di recupero per le persone violente Il gruppo di lavoro del “Jeanne Geiger” – tramite i funzionari legali del team di Kelly Dunne – suggerisce alla corte che l’imputato, per ottenere la libertà condizionale, venga obbligato a frequentare per quaranta settimane dei gruppi specializzati nel recupero di persone violente. Solitamente i centri di recupero forniscono alla corte un rapporto mensile sugli eventuali progressi dell’imputato e sulla bontà delle sue intenzioni: «noi possiamo essere gli occhi e le orecchie della corte, e anche della vittima, che può sapere da noi se l’ex partner dà ancora a lei la colpa», ha detto al New Yorker David Adams, co-fondatore di Emerge, uno dei centri di aiuto più noti del Massachusetts. Le strutture di recupero cercano di prevenire i maltrattamenti e le intimidazioni spingendo gli ospiti del centro a riconoscere le loro tendenze violente. Uno degli uomini obbligati dalla corte a frequentare il programma di Emerge ha detto al New Yorker: «quando ti ritrovi in una classe come quelle, non puoi mentire a te stesso sulle cose che hai fatto: la mia vita mi aveva portato a un punto in cui non potevo più continuare a dirmi che non ero poi così cattivo». Ad Amesbury, nei dieci anni precedenti la morte di Dorothy Giunta-Cotter, almeno un omicidio all’anno era legato a episodi di violenza domestica; dal 2005 – l’anno in cui Kelly Dunne cambiò l’approccio del suo centro di assistenza e formò il gruppo di lavoro speciale insieme ai pubblici ufficiali dei vari dipartimenti del distretto – nessun episodio di violenza domestica ad Amesbury si è più concluso con un omicidio. (AP Photo/The St. Joseph News-Press, Sait Serkan Gurbuz)
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“Filippo Turetta deve stare in carcere perché potrebbe uccidere altre donne“. A scriverlo è il giudice per le indagini preliminari di Venezia, Benedetta Vitolo, nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il 22enne accusato dell’omicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin. A convincere il gip è “l’inaudita ferocia” con la quale il ragazzo è accusato di aver preso a calci l’ex fidanzata, poi accoltellata e ritrovata in un dirupo. Intanto la richiesta delle autorità italiane di consegnare Turetta è stata trasmessa in Germania . Le aggressioni – Secondo l’attuale ricostruzione ci sarebbero due distinte aggressioni avvenute in circa 22 minuti, tra le 23.18 e le 23.40 dell’11 novembre, tra la casa della ragazza e quella la zona industriale di Fossò. La ricostruzione è contenuta nell’ordinanza trasmessa per l’emissione del mandato di arresto europeo nei confronti di Turetta, per i reati di omicidio aggravato e sequestro di persona. Il primo episodio viene ricostruito dal racconto di un testimone, il secondo dalle telecamere di sorveglianza della zona. Il racconto del testimone – In base a quanto è stato ricostruito finora, l’aggressione è iniziata la sera di sabato 11 novembre alle 23:18, in un parcheggio a 150 metri dalla casa della 22enne: la ragazza “viene aggredita con ripetuti calci mentre si trovava a terra, tanto da farle gridare, invocando aiuto” probabilmente accoltellata. Una voce femminile urla “così mi fai male” chiedendo ripetutamente aiuto, ha raccontato il testimone sottolineando di avere anche visto “calciare violentemente una sagoma che si trovava a terra” e poi la Punto allontanarsi. L’uomo ha chiamato il 112, ma all’arrivo della pattuglia delle forze dell’ordine la Fiat Grande Punto si era dileguata. In quel parcheggio che sono state trovate tracce di sangue e un coltello da cucina di 21 centimetri, senza manico, assieme un’impronta di calzatura, sporca probabilmente di sangue. Il video della seconda aggressione – Dopo la prima aggressione Giulia sarebbe stata costretta a risalire in auto e a continuare quel viaggio fino alla zona industriale, circa 4 chilometri che si percorrono in auto in sei minuti. Alle 23:29 l’auto di Filippo Turetta riparte per fermarsi nella zona industriale di Fossò. Dalle telecamere di sorveglianza di uno stabilimento è emerso che Giulia, ferita ma non gravemente, riesce a fuggire dall’auto. Filippo la insegue, la aggredisce nuovamente e la scaraventa a terra: la ragazza cade violentemente a terra, vicino al marciapiede, “e dopo pochi istanti non dà segno di muoversi”. L’aggressore la muove, poi va a prendere la macchina, la carica probabilmente nel sedile posteriore e fugge. Sul marciapiede sono stati poi trovati sangue con capelli sullo spigolo stradale e un pezzo di nastro telato argentato intriso di sangue e capelli “probabilmente applicato alla vittima per impedirle di parlare”, scrive il giudice. Nell’ordinanza si legge che Turetta l’ha “aggredita violentemente provocandone la caduta” – con la perdita di un’ingente quantità di sangue – “che ha determinato, insieme ad altre lesioni, anche derivanti da ripetuti colpi da arma da taglio” il decesso. Il nastro adesivo e la fuga – “Giulia è stata privata della libertà di movimento“, tanto che un testimone l’ha sentita urlare più volte. Gli specialisti dell’Arma hanno trovato anche del nastro adesivo che potrebbe essere stato utilizzato per zittire la vittima. Alle 23.50 l’auto di Filippo transita – con il corpo di Giulia nel bagagliaio – verso Varco Nord Uscita via Provinciale Nord. Poi l’ex fidanzato si dirige verso Zero Branco, in provincia di Treviso. Solo dopo più di cento chilometri si disferà del corpo della 22enne, in provincia di Pordenone, al Pian delle More a Piancavallo dove il cadavere viene trovato giorni dopo “nascosto in un anfratto roccioso a circa una decina di metri di profondità rispetto alla strada”. Giulia è morta dissanguata per i colpi inferti in più riprese con il coltello, al collo, al volto e alle braccia, e per il colpo alla testa. L’ultima inquadratura dell’auto in Italia è alle 9.07 del 12 novembre, da Cortina in direzione Dobbiaco, poi la fuga di oltre mille chilometri che si è conclusa in Germania. I colpi e il tentativo di difesa – I primi esiti dell’ispezione medica restituiscono tutti i dettagli dell’orrore: “plurimi colpi” inferti con il coltello alla testa e anche al volto, il “tentativo di difesa” di Giulia e poi la frattura del capo quando batte con forza contro l’asfalto, le escoriazioni alle braccia e alle ginocchia provocate probabilmente quando viene trascinata e caricata nell’auto per poi essere lasciata nel dirupo a oltre cento chilometri da casa. “L’inaudita ferocia” – “Turetta con questa aggressione a più riprese e di inaudita ferocia ai danni della giovane fidanzata, prossima alla laurea, ha dimostrato una totale incapacità di autocontrollo“. Il giudice Benedetta Vitolo ha definito con queste parole la dinamica dell’omicidio di cui è accusato il 22enne. Elementi idonei “a fondare un giudizio di estrema pericolosità e che desta allarme” dato che “i femminicidi sono all’ordine del giorno”. Il giovane appare “imprevedibile perché dopo aver condotto una vita all’insegna di un’apparente normalità ha improvvisamente posto in essere questo gesto folle e sconsiderato” che potrebbe ripetere “nei confronti di altre donne”, si evidenzia nel provvedimento.
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Il canale YouTube della torinese De Marco conta 630 mila iscritti. Ora lavoro al nuovo podcast per Radio Deejay Esiste ancora l’America. Intesa nella sua accezione di sogno, di aspirazione, di fortuna, di realizzazione. E la nuova America non è quella con la Statua della Libertà che vedi dalla nave. L’America, oggi, è la rete. È lì, trapassando il muro del «non si può fare, non c’è spazio, non ci sono risorse» che risiedono molte speranze per chi, magari senza troppe aspettative, prende una cosa che gli piace molto e prova a farne qualcosa. Elisa De Marco è diventata «Elisa True Crime», youtuber da 630 mila iscritti, nell’ottobre di due anni fa quando, per motivi di lavoro, insieme al marito Edoardo Coniglio erano appena arrivati a Shanghai. Era una settimana prima che scoppiasse il Covid. Oggi, per la nostra intervista, ci parla da Fuerteventura dove si è trasferita poco prima dell’estate. Elisa, cosa è successo in meno di due anni che l’ha portata a essere una lady del Crime? «In Cina è difficile in generale ricevere un visto lavorativo, figuriamoci durante il Covid. Mio marito lavorava e a un certo punto ho pensato di prendere il meglio da quella situazione. Mi sono detta: “Ho tempo e posso dedicarmi a quello che davvero mi piace”. E mi sono buttata». La sua passione è il crime. «Da sempre, sì. Non avevo neppure una ringlight, mi sono messa davanti a una finestra per avere un po’ di luce, con il cellulare poggiato a terra. E ho iniziato a raccontare. Il primo è stato un caso americano, molto brutto, quello di Chris Watts che uccise l’intera famiglia per stare con l’amante». Dicono che Torino sia una città magica e noir. Esserci nata e cresciuta l’ha influenzata in questo senso? «Più che altro la “colpevole” è mia mamma. Anche lei appassionatissima di questi temi. Fin da quando ero piccola abbiamo sempre guardato insieme film, programmi televisivi, documentari. Oggi è la prima a vedere i miei video. Ne esce uno ogni lunedì. Prima ne facevo uscire di più, ma adesso ne realizzo alcuni parecchio lunghi, anche di due ore l’uno, e richiedono una preparazione meticolosa». Ha avuto molto successo la versione podcast su Radio Deejay. La prima stagione era incentrata sulle donne, sia vittime sia carnefici. Da Emanuela Orlandi a Gloria Rosboch, da Ylenia Carrisi a Isabella Guzman, e molte altre. Com’è la versione femminile del crime? «La maggior parte dei casi che tratto, alla fine, hanno un serial killer maschio. Quando a esserlo è una donna le cose si fanno più interessanti, se così si può dire». In che modo? «Generalizzo: quando arrivano a compiere delitti tanto efferati lo fanno dopo un lungo calcolo, dietro ci sono storie molto intricate». Ci sarà una prossima stagione? «Non dico ancora nulla, ma stiamo lavorando. Mi piacerebbe, nel futuro, occuparmi di più di casi italiani». Cosa l’ha trattenuta finora? «Sono casi delicati che toccano la nostra pancia. Richiedono ancora più attenzione ed energia per riportare le cose al meglio, senza ledere la sensibilità delle famiglie». Con alcune di queste famiglie lei ha anche lavorato sul suo canale. «Mai avrei immaginato che avrei potuto avere questo successo. Oggi lavoro insieme a mio marito e pensiamo sia bello metterci a disposizione delle famiglie di alcuni casi irrisolti. In un certo senso “restituisco” ciò che sto ricevendo». C’è una storia che le piacerebbe affrontare? «Mi piacerebbe molto mettermi in contatto con la mamma di Denise Pipitone. C’è anche un caso torinese, di parecchio tempo fa, un femminicidio brutto che ancora non rivelo per rispetto della figlia della vittima che mi ha cercata». Perché piace così tanto? «Credo dipenda dal fatto che io racconto come se fossimo due amiche che stanno prendendo un caffè». E l’accento piemontese? «Ogni tanto qualcuno me lo fa notare nei commenti. Per me non è mai stato un problema. Amo gli accenti. E poi mi sembra che conferisca più personalità». Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
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Se l'amore non ha età, non ha età nemmeno l'amore malato. L'uomo violento uccide la compagna (o prova a farlo) a diciotto anni come a novant'anni. E non è una buona notizia per le donne vittime ma nemmeno per quelle bestie degli uomini, divisi magari da due, forse tre generazioni ma animati dagli stessi istinti ancestrali di violenza e dominio. Due femminicidi (uno putroppo riuscito, l'altro sfiorato) sono avvenuti a un centinaio di chilometri di distanza in linea d'aria, a Locri nel versante ionico della Calabria, e a Catania. Qui, nel capoluogo etneo, un uomo di 90 anni, Salvatore Plumari, ha ucciso a bastonate la moglie di 79 anni, Concetta Di Pasquale. Entrambi sono originari di Regalbuto, nell'entroterra siciliano, ma vivevano da anni nel capoluogo. L'aggressione è avvenuta lo scorso 3 gennaio nell'abitazione dei due anziani coniugi, in seguito a un litigio «per futili motivi», come si scrive in questi casi nei verbali delle forze dell'ordine. Salvatore è un uomo che i conoscenti descrivono come brutale, manesco. I vicini raccontano di aver spesso ascoltato i violenti litigi tra i due, e di aver spesso sospettato che lui picchiasse la donna frequentemente. Lo stesso è avvenuto venerdì scorso, con modalità particolarmente animalesche e con l'uso del bastone per compensare una forza ormai sbiadita a causa dell'età. La donna è stata ferita gravemente ed è stata ricoverata al Policlinico di Catania, dove è morta al termine di tre giorni di agonia. Il decesso della vittima ha aggravato di molto la posizione di Plumari, che inizialmente era stato arrestato e poi rilasciato e affidato ad una struttura riabilitativa per maltrattamenti in famiglia e per lesioni aggravate. Ora deve rispondere di omicidio volontario. Ma gli elementi a disposizione degli inquirenti scrivono il copione di una tragedia annunciata, che si poteva evitare se chi aveva le prove delle violenze quotidiane perpetrate dall'uomo avesse avvertito chi avrebbe potuto tutelare la povera moglie. Fortunatamente ha avuto un esito meno tragico un caso di cronaca simile avvenuto a Locri, dove un diciottenne, Giancarlo Martelli, è stato arrestato dai carabinieri con l'accusa di tentato omicidio della convivente ed è stato rinchiuso nel carcere di Locri. I militari sono intervenuti poco dopo la mezzanotte tra lunedì e ieri in un condominio in via Foggia dove hanno trovato, riversa sul pianerottolo, una ragazza ferita con almeno 14 coltellate, colpita tra l'altro alla giugulare, all'emitorace e all'addome. La donna, una cubana di 27 anni che lavora come estetista, è stata trasportata all'ospedale di Locri e dovrebbe cavarsela. I militari hanno impiegato poco a capire che l'autore del gesto doveva essere il giovane compagno, che è stato rintracciato nascosto all'interno di una intercapedine del sottotetto della sua abitazione con i vestiti ancora intrisi di sangue. I due stavano insieme da poco tempo ma proprio l'altro ieri avevano iniziato a convivere proprio nell'abitazione davanti alla quale è avvenuta l'aggressione.
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Il 23 marzo a Milano un uomo ha accoltellato la moglie alla gola, la notizia è stata diffusa ieri e sulla pagina locale di uno dei principali quotidiani italiani si titola “Coronavirus, accoltella la moglie dopo una lite per la convivenza forzata: arrestato a Milano” mentre nell’articolo si spiega la violenza come esito di una “lite” (al posto di aggressione si continuano ad adoperare le parole conflitto, litigio ecc) “nata a causa della permanenza prolungata tra le mura domestiche per le limitazioni alla mobilità”. Nel titolo si presenta la notizia con “coronavirus” invece che con le parole “femminicidio” o “violenza contro le donne”. Il 31 marzo scorso Antonio De Pace ha ucciso Lorena Quaranta, 27 anni, una studentessa in Medicina che sognava di unirsi presto ai sanitari che stanno combattendo l’epidemia da Covid-19. Non potrà mai farlo perché è stata uccisa dall’uomo con cui aveva una relazione da tre anni. La violenza contro le donne non viene fermata dall’epidemia ma il “coronavirus” sta sostituendo altri termini nelle narrazioni tossiche sulla violenza: sono cambiate le parole ma il risultato è lo stesso perché si dimenticano assorbite da una cortina di nebbia di facili risposte, tutte le domande che chi fa informazione dovrebbe farsi sulle cause della violenza. Nel sommario dell’articolo sul femminicidio di Lorena (“Messina, strangola la compagna e chiama i carabinieri”) si riporta il commento del Rettore dell’Università di Messina che dichiara “si è trattato del dramma della convivenza forzata“. Così la “convivenza forzata” a causa della quarantena per il coronavirus, si sta sostituendo negli articoli al “raptus”, al “dramma della gelosia”, “ai fantasmi del tradimento”, “all’elevato tasso della gelosia”, “alla disoccupazione”, “alla separazione”, “alla causa per l’affidamento dei figli”, “all’abbandono”, “alla depressione”, “alla paura dell’abbandono” eccetera eccetera eccetera. Sul sito blasting news la frase “dramma della convivenza forzata” si trova nel titolo ma anche in un paragrafo dell’articolo e a sostegno della tesi dell’improvvisa violenza causata dalla “convivenza forzata” ci sono le interviste di amici che raccontano di una relazione serena. Ogni volta nelle formazioni che svolgo per l’ordine dei giornalisti invito alla riflessione evitando di raccontare la realtà di una relazione sulla base di opinioni di amici, vicini di casa, familiari senza fare approfondimenti perché la violenza non capita improvvisamente. Il coronavirus non ha cambiato la violenza contro le donne nelle relazioni di intimità, la convivenza forzata può solo accelerare e far scattare aggressioni più frequentemente o violentemente, come avviene per esempio durante la festività o i weekend, ma ciò avviene per mano di uomini che sono violenti, che mettono in atto un controllo e un dominio nella relazione perché hanno introiettato profondamente una gerarchia di ruoli che vede la donna subordinata nella relazione, qualcosa che è invisibile anche agli occhi di chi amici, parenti o familiari. La violenza non sempre si esprime con aggressioni fisiche ma con il controllo, con la violenza psicologica, con la denigrazione spesso sottile e non è mai un fulmine a ciel sereno perché non ci sono improvvisi “drammi della gelosia” o “drammi della convivenza forzata” e anche per questo è inopportuno che molte testate insistano a pubblicare foto della coppia dopo l’ennesimo femminicidio spostando lo sguardo del lettore sull’amore, per mostrare a tutti quanto lui amasse lei poco prima di ammazzarla o sfregiarla o picchiarla così da perpetuare la con-fusione tra amore e violenza. Tutto ciò che noi ci rappresentiamo sull’amore è frutto di una costruzione culturale e possiamo cambiare solo se contribuiamo a smantellare ciò che abbiamo appreso e imparato sulle relazioni tra uomini e donne, sull’amore o la passione. In base all’articolo 17 della Convenzione di Istanbul i media sono responsabilizzati a partecipare ad un cambiamento culturale per prevenire la violenza contro le donne e già dal 2014 si svolgono corsi di formazione sul corretto uso del linguaggio eppure è ancora difficile affrontare il nocciolo del problema e nominare il dominio maschile e la sua violenza e prima di correre a dare delle risposte, “è stato il raptus” o “è stata la quarantena da Coronavirus”, poniamoci delle domande. #noicisiamo – D.i.Re emergenza Covid19 ???? I centri antiviolenza della rete D.i.Re Donne in Rete contro la violenza sono attivi anche durante l'emergenza Covid19. ????Al link ???? [[URL]] ???? ci sono tutti i numeri di telefono per trovare quello più vicino. #emergenzacovid19 #laviolenzanonsiferma #noicisiamo Gepostet von D.i.Re Donne in Rete contro la violenza am Dienstag, 24. März 2020 @nadiesdaa
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Antonella Zarri: «In una chiara visione patriarcale le colpe sono solo della madre. Ma il vero obiettivo è smontare l’altra indagine sul centro di salute mentale e i poliziotti» «Dopo un processo non sano non mi aspettavo altro che motivazioni costruite attorno a un teorema pregiudiziale. È un giudizio morale sulla mia persona, ma è anche un chiaro tentativo di isolarmi. Forse perché sono la più attiva nel denunciare e tenere viva la memoria». È più combattiva che mai Antonella Zarri, la mamma di Alice Scagni, uccisa dal fratello Alberto il primo maggio 2022. Nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Alberto a 24 anni e 6 mesi la Corte d’Assise di Genova ritiene che la sua pericolosità è risultata chiara solo dopo l’ultima telefonata di minacce al padre, la mattina del delitto. Dunque non avrebbero fondamento le denunce dei genitori che accusano il centro di salute mentale e le forze dell’ordine di avere sottovalutato i rischi, nonostante i loro ripetuti allarmi. Non solo. L’atteggiamento della madre viene definito «ambivalente», in quanto, a fronte degli allarmi di quei giorni, per un decennio non aveva mai denunciato il figlio. «È chiaro che tutto ciò serve a spianare la strada all’archiviazione nell’altra indagine sulle responsabilità di chi ha sottovaluto e non ha fatto nulla per salvare Alice». Sente di avere avuto una «condotta ambivalente» nei confronti di Alberto? «Noto che, in una chiara visione patriarcale, le colpe sono solo e sempre della madre. Ma detto ciò, il vero obiettivo è indebolire me per smontare l’altra inchiesta (l’8 febbraio i giudici decideranno sulla richesta di archiviazione del pm per i responsabili del centro di salute mentale e per due agenti, ndr). Forse perché faccio un po’ paura». Pensa proprio che l’abbiano presa di mira? «Le dirò di più. Questo concetto dell’ambivalenza è stato mutuato da una valutazione fatta proprio dalla responsabile del centro di salute mentale che poi è una delle persone che abbiamo denunciato e che è indagata. Nel 2023, quando andammo per Alberto, nella scheda lei scrisse proprio così: “madre ambivalente”. Una sorta di perizia psichiatrica su di me». I giudici dicono che per anni lei non lo ha denunciato? «Nelle motivazioni scrivono anche che Alberto abitava con noi e andava nella sua casa solo per dormire. E invece lui abitava da solo da quando aveva 18 anni. Un errore palese. Ma chiedo: come fai a imporre di curarsi a un 43enne che non vuole farlo? Con quali strumenti? Forse solo con un Tso o con la detenzione. E per quali motivazioni? La verità è che ci accusano di essere stati dei cattivi genitori per escludere le responsabilità di altri. Il problema della salute mentale di Alberto era solo un problema nostro». Anche lei pensa, come il suo legale, che siamo di fronte ad una vittimizzazione secondaria? «Certo. È sempre così, quando lo Stato fallisce nella prevenzione di un crimine la colpa è della vittima che si è esposta. Esattamente come per i femminicidi». Però nelle motivazioni si dice anche che l’allarme dato la mattina alle forze dell’ordine venne sottovalutato. «Su questo era un po’ difficile nascondere che nessuno si mosse dopo le telefonate a poche ore dal delitto». Alberto come sta? «Appena meglio. Non è più un vegetale, ma si muove e si nutre ancora con grande difficoltà. È sempre fuori di testa, ma nessuno lo cura e lo curerà per il resto della sua vita». Siete andati a trovarlo? «Sì, quando era intubato e e anche dopo. Non credo sia più recuperabile, se non in strutture adeguate. Da solo non ne può uscire. Neanche con l’amore materno potrei fare i miracoli che pensano i giudici. Davanti alla malattia mentale non c’è alternativa: va curata. In carcere è già tanto che non lo ammazzano. Ma di lui a chi vuole che importi?». Corriere della Sera è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati.
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Ciascun albero dedicato alla memoria di una donna vittima di femminicidio e violenza domestica. L'inaugurazione il 10 marzo Un albero di ulivo per ogni donna vittima di femminicidio e violenza domestica. Sarà inaugurato venerdì 10 marzo a Martano l'«Uliveto della Memoria», per ricordare tutte le donne uccise dalla mano dell'uomo. Promosso dalle associazioni Astrea, Casa di Noemi e Olivami, in collaborazione con l'Unione Sportiva Lecce, l'uliveto rappresenterà il simbolo della memoria viva, che non dimentica le vittime e dimostra vicinanza al dolore e alla ricerca di giustizia delle famiglie. Ogni albero dell'uliveto, destinato a diventare un giardino didattico per scuole e cittadini, sarà dedicato ad ogni vittima di femminicidio o violenza domestica e sarà dotato di un Qr code, che rimanderà alla storia di ciascuna vittima, affinché la conoscenza della loro tragedia possa accrescere nei giovani la consapevolezza che l'amore non è mai violento. I nomi delle vittime scanditi dagli studenti All'inaugurazione - oltre alle varie autorità e rappresentanti - parteciperanno pure gli studenti di 10 scuole del territorio, che scandiranno i nomi delle vittime affinché la memoria diventi impegno quotidiano: da Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal fidanzato che diceva di amarla, a Melissa Bassi, la quindicenne di Mesagne uccisa nell'attentato alla Morvillo-Falcone di Brindisi; da Graziella Mansi, la bimba di 8 anni di Andria bruciata viva da cinque ragazzi del posto, a Donatella Miccoli, la trentanovenne di Novoli uccisa dal marito e padre dei suoi due figli. E poi, ancora, Giada e Alessio (uccisi dal padre a Mesenzasa, Varese), Federica De Luca e il figlio Andrea (uccisi a Taranto dal marito della donna e padre del piccolo), Teresa Russo (uccisa dal marito a Trepuzzi), Raffaella Presta (uccisa dal marito a San Donaci), Sonia Maggio (uccisa a Minervino dall'ex fidanzato), Fiorenza De Luca (uccisa dal compagno a Grottaglie), Sonia Marra (scomparsa da Perugia e mai più ritrovata), Lauretta (uccisa a 10 anni dal padre in provincia di Catania), Giordana di Stefano, Fabiana Luzzi (bruciata viva a 16 anni), Desireè Mariottini (violentata e uccisa dal branco a Roma), Jennifer Sterlecchini, Teresa Di Tondo (uccisa dal marito a Trani) ed anche il piccolo Stefano, di 3 anni, ucciso dal padre. Il giardino di Martano come luogo di speranza «Il giardino che abbiamo realizzato a Martano sarà un luogo di speranza per le famiglie delle vittime e di comprensione per quanti lo visiteranno – dichiara la presidente dell’associazione Astrea, Valentina Presicce - venerdì saranno presenti genitori e familiari delle vittime che, con coraggio, hanno trasformato il loro dolore in forza per aiutare le nuove generazioni a comprendere che l’amore non è mai sopraffazione». La newsletter del Corriere del Mezzogiorno Se vuoi restare aggiornato sulle notizie della Puglia iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. Instagram Siamo anche su Instagram, seguici https://www.instagram.com/corriere.mezzogiorno/
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La procura anticorruzione dello stato di Morelos, in Messico, sta indagando sul procuratore locale dello stato, Uriel Carmona, accusato di aver coperto un presunto femminicidio per aiutare un amico, il principale sospettato. Il caso riguarda la morte di Ariadna López, una donna di 27 anni che era stata vista l’ultima volta lo scorso 30 ottobre a Città del Messico e il cui corpo era stato trovato la settimana scorsa lungo un’autostrada a sud della città. Secondo la procura di Morelos, López era morta per una «grave intossicazione da alcol». Una successiva investigazione della procura di Città del Messico, intervenuta dopo che i genitori della donna avevano segnalato alcune ferite sospette sul suo corpo, ha invece evidenziato che López sarebbe morta a causa di «traumi multipli», come mostrerebbero i segni di presunte percosse trovati sia sul suo collo che in altre parti del corpo. Un uomo e una donna sono stati arrestati con l’accusa di essere coinvolti nel presunto omicidio di López, che secondo le indagini della procura di Città del Messico sarebbe stato compiuto nell’appartamento dell’uomo, identificato come Rautel N. Un filmato di sicurezza ripreso il 31 ottobre mostra Rautel N portare fuori dall’appartamento il corpo della donna, che sembra già morta. Lunedì sera Carmona ha detto che la procura «non ha mai detto che non c’era stato un femminicidio, ma che non c’erano le prove per dimostrarlo»; ha aggiunto che le indagini sul caso sono ancora aperte. – Leggi anche: Gli scontri del marzo 2021 tra movimenti femministi e polizia a Città del Messico
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Sarebbe stato ossessionato dal Covid, questa la motivazione che ha portato Giovanni Fabbrocino un 65enne di Portici ad uccidere con svariate coltellate la convivente Maria Antonietta Nicolai di 59 anni, originaria di San Severino stimata ricercatrice di Scienze e Tecnologie Alimentaria al Dipartimento di Agraria dell’Università Federico II di Napoli, per poi togliergli alcuni organi vitali prima di uccidersi gettandosi dal balcone. Saranno i risultati dell’autopsia a fare luce su questo tragico femminicidio, ma da quanto si apprende l’uomo disoccupato, sarebbe stato ossessionato dal covid e avrebbe accusato la compagna per aver sottovalutato l’emergenza sanitaria. Negli ultimi mesi era rimasto chiuso in casa e quando la donna avrebbe organizzato un viaggio per andare a trovare alcuni familiari, sarebbe scattata la follia omicidio. È su questo che si stanno concentrando le indagini dei Carabinieri accorsi sul posto dopo che l’uomo si sarebbe gettato dal quarto piano per farla finita e sarebbe morto prima ancora dell’arrivo delle forze dell’ordine. Sconvolta l’intera comunità. Per i vicini di casa lei era “ una brava e splendida persona ”: ancora scossi dalla tragedia, non sanno darsi una spiegazione a quanto accaduto. Anche lui era considerato un uomo tranquillo, insomma una coppia che da più di cinque anni viveva senza litigi o dissapori. ” Anche in una comunità grande come quella di Portici una tragedia del genere sconvolge le coscienze per l’assoluta imprevedibilità e per la ferocia ” commenta l’assessore alla Sicurezza del Comune di Portici, Maurizio Capozzo, mentre il direttore del Dipartimento Agraria dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ ricorda la donna come: " stimata dai docenti e dal personale e amata dagli studenti, con circa trenta anni di anzianità accademica. Una persona mite, mai sopra le righe ed estremamente collaborativa. Fino al giorno prima della sua scomparsa ha fatto esami e assistenza studenti. Questa terribile tragedia, che rappresenta un ennesimo caso di femminicidio in un contesto domestico, lascia sbigottita l’intera comunità dell’Ateneo federiciano. Un Ateneo che da anni svolge un ruolo guida a livello nazionale nel mettere in campo azioni a contrasto della violenza e della sopraffazione, fisica e morale, nei confronti delle donne e dei più deboli.Ciò rende ancora più doloroso e inaccettabile quanto è accaduto ” Ancora oscuri i motivi che hanno portato l'uomo a togliere alla convivente gli organi vitali prima di farla finita.
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Durante una riunione del Consiglio dei ministri il governo ha approvato un decreto legge che tra le altre cose introduce nuove norme per contrastare la violenza di genere. I decreti legge possono essere approvati solo in casi di estrema necessità e urgenza ed entrano in vigore immediatamente, dal momento della firma del presidente della Repubblica: entro 60 giorni, però, il Parlamento deve convertirli in legge. Sulla base delle indicazioni provenienti dalla Convenzione del Consiglio d’, fatta ad Istanbul l’11 maggio 2011, concernente la lotta contro la violenza contro le donne e in ambito domestico di Istanbul, recentemente ratificata dal Parlamento, il decreto mira a rendere più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking). Vengono quindi inasprite le pene quando: – il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di minore degli anni diciotto; – il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza; – il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner. Un secondo gruppo di interventi riguarda il delitto di stalking: – viene ampliato il raggio d’azione delle situazioni aggravanti che vengono estese anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché a quelli perpetrati da chiunque con strumenti informatici o telematici; -viene prevista – analogamente a quanto già accade per i delitti di violenza sessuale – l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori, che viene, inoltre, incluso tra quelli ad arresto obbligatorio. Sono previste poi una serie di norme riguardanti i maltrattamenti in famiglia: – viene assicurata una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento dei relativi procedimenti penali; – viene estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno stato di particolare vulnerabilità; – viene esteso ai delitti di maltrattamenti contro famigliari e conviventi il ventaglio delle ipotesi di arresto in flagranza; – si prevede che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria – può richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa. Infine, è stabilito che i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di stalking sono inseriti tra i delitti per i quali la vittima è ammessa al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito. Ciò al fine di dare, su questo punto, compiuta attuazione alla Convenzione di Istanbul, recentemente ratificata, che impegna gli Stati firmatari a garantire alle vittime della violenza domestica il diritto all’assistenza legale gratuita. Sempre in attuazione della Convenzione di Istanbul, si prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione (Tutela vittime straniere di violenza domestica, concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari come già previsto dall’articolo 18 del TU per le vittime di tratta); Infine, a completare il pacchetto, si è provveduto a varare un nuovo piano straordinario di protezione delle vittime di violenza sessuale e di genere che prevede azioni di intervento multidisciplinari, a carattere trasversale, per prevenire il fenomeno, potenziare i centri antiviolenza e i servizi di assistenza, formare gli operatori.
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Si muove lenta Federica Pellegrini e non le era mai capitato prima, giusto a dieci giorni dallo scadere della gravidanza lascia che il ritmo lo detti la voluminosa pancia che ha cambiato pure la velocità dei pensieri. Quelli, adesso, dopo cinque meditate Olimpiadi e sei ori Mondiali forgiati nel tempo, viaggiano rapidi e urgenti. Ha fatto tutto quel che voleva prima di diventare mamma? «Direi di sì, Ho imparato a sciare al pelo e dovrei essermi tolta sfizi da brividi per un po’, ho ancora tanti viaggi in programma e li metto in pausa. Almeno smetto sentirmi dire “Pronta per un figlio? ”». Non è che poi le chiedono la seconda o il maschio? «No, penso di aver dato il mio contributo alla società (ride). Mi aspettavo che la gente si chiedesse quando sarei diventata mamma, non con tanta insistenza. Sono passata dal dover nuotare al dover figliare. C’erano messaggi invadenti sul profilo Instagram che fortunatamente si è automoderato con reazioni tipo “finitela”». Chi prevale? La parte evoluta o gli zotici? «C’era una quota di romanticismo nella curiosità, purtroppo pure tanta arretratezza: in Italia c’è ancora chi vede la donna nella casella mamma». Crescerà una figlia femmina in questo Paese, lo stesso dove i femminicidi, nel 2023, hanno superato i 100. «Già. La morte di Giulia Cecchettin ci ha segnato perché, quando abbiamo saputo che era sparita, speravamo fosse per un’altra ragione eppure, dentro di noi, già sapevamo. Siamo davanti a… un’epidemia, si può dire così? ». Si può. Come si ferma? «Educando gli uomini. Cecchettin ha rotto gli argini, anche per le parole della sorella che ha dato il giusto peso a ogni dettaglio e fatto arrivare il concetto di patriarcato alle orecchie di chi non l’ha mai voluto prendere in considerazione come problema». Quanto è un problema oggi? «È stato la base delle famiglie fino alla generazione precedente alla mia e io ho 35 anni. Non si cancella il retaggio di secoli in un attimo. Ci sono persone fragili che davanti a una rivoluzione femminile destinata a portare alla parità non reggono». È una scusa? «No, è un movente, assurdo quanto si vuole, ma reale». Se è questione di tempo, sua figlia avrà a che fare con persone più mature e risolte? «Non ho molto speranze. Preferisco darle gli strumenti per interagire con società come questa. Prenda il padre espulso da un palazzetto di basket dopo aver urlato all’arbitra che si meritava di fare la fine di Cecchettin… Lui come li tira su i figli?». Che cosa direbbe a quell’arbitra? «Di non fermarsi e ho letto che non lo farà. Non possiamo cambiare strada per paura o non andiamo avanti». Dirà mai a sua figlia come si deve vestire? «No, però io credo in una impostazione che, in questo momento storico, viene scambiata per limite ideologico. Sono stata educata all’etica del buongusto. Ringrazio mamma per avermela insegnata e voglio tramandarla a mia figlia: c’è un limite tra eleganza e volgarità». Non è soggettivo? Alcune sue foto hanno ricevuto attacchi moralisti. «Per certi bastano la gonna corta o il tacco 11 e stai provocando. No, mi riferisco alla consapevolezza: mostrarsi per chi si è, scegliere senza condizionamenti». Sua madre è per lei un modello da sempre. C’è la madre di un film, di un libro a cui ruberebbe qualche cosa? «Ho appena visto un film molto leggero, natalizio, “Bad Moms 2” con ste mamme che si accampano dalle figlie. Una è maniaca del controllo, l’altra rock e la terza nostalgica. Ho visto l’amore in tutte e tre: insegnare la vita, dare peso al divertimento e non perdere di vista chi ami sono qualità che, al netto dell’ironia, prendo». Quale è il primo ricordo di sua madre? «È mediato: lei con un costume a pois bianchi e azzurri a bordo piscina, una di quelle da bambini. Strano, so che è una fotografia e la percepisco come memoria». Cosa ha detto sua madre quando ha saputo che era incinta? «Ha pianto. Aspettava la nipote da quattro cani». Invece lei insisteva a nuotare. Parigi sarà la prima Olimpiade senza Pellegrini in vasca dal 2004. «Questi sarebbero stati i mesi in cui domandarsi se stessi facendo il massimo, in cui correggere particolari che portassero alla perfezione. Mi manca e insieme non vorrei mai più tornare a quell’agitazione. Vivi di uno stato d’animo per decenni, ne fai il perno e poi, di colpo, non ti appartiene più». Ceccon, detentore del record del mondo dei 100 dorso, è uno dei nomi più importanti della nazionale e pure uno che ama stare per i fatti propri. Ci si rivede? «Parzialmente, ha un infinito talento, ovvio. Io avevo fasi in cui abitavo un mondo a parte, in altre sentivo il gruppo e l’energia delle staffette, pure se le mie non potevano ambire al podio mentre le sue sì. Lui però è il prototipo del campione contemporaneo: è centrato e penso abbia molta fame, caratteristica fondamentale. Lo spiego alla Fede Academy che ho aperto con mio marito Matteo Giunta, lì vedo atteggiamenti che preoccupano». Quali? «Adolescenti che vogliono essere i numeri uno prima di scoprire chi sono. Motivati forse dalle ambizioni dei genitori o dall’emulazione». Lei non voleva essere la numero uno? «Sì, ma ero affamata di quel desiderio, era mio, radicato. Respiravo per quello. Qui parliamo di raggiungere un successo immaginario, quel tipo di confusione che ti porta a dire cento cose su come senti di poter nuotare e poi lasci la cuffia in camera». Il suo collega Paltrinieri è stato ad Atreju, alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia e ha dovuto rispondere a qualche contestazione social. «C’ero stata anche io, altro periodo, si notava meno. Il pubblico deve capire che lo sportivo è un animale strano: andare alla festa di un partito non significa rappresentarlo: siamo super partes per definizione». Per Alberto Tomba, Sinner è pronto a entrare nel vostro esclusivo club di trascinatori. Fino a qui sareste in tre, voi due e Valentino Rossi. «Me lo ha annunciato. Mi ha fatto piacere sapere di esserci. Sinner è come Ceccon: quelli pronti che fanno tutto in progressione costante. Quando io salivo sul blocco poteva succedere di tutto, loro possono perdere, non sballare. Sinner farà meno fatica di noi, il tennis è mediatico, io e Alberto siamo partiti da nuoto e sci e diventati simbolo. Ci va carattere». Un flirt passeggero con Tomba c’è mai stato? «No, siamo diventati veri amici tardi. Io stavo quasi per ritirarmi, ero impegnata e nonostante qualche bislacco gossip Matteo non è mai stato geloso di lui. Quella gelosa sono io». La paternità cambierà suo marito? «Spero. Quando nuotavo riuscivo a destabilizzarlo ogni tanto, ora è tornato imperturbabile come è di carattere… Una figlia femmina qualche cardine glielo toglie».
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Si doveva tenere in giornata, in video collegamento dal carcere di Gela dove è detenuto, l’interrogatorio di convalida del fermo di Omar Edgar Nedelkov, il romeno 24enne accusato del duplice omicidio di Delia Zarniscu, 58 anni e Maria Rus, 54 anni, massacrate nelle loro abitazioni, distanti 150 metri, nel centro storico di Naro, nell’Agrigentino. Ma il confronto è stato rimandato a domani. Il giudice per le indagini preliminari Iacopo Mazzullo, dopo l’interrogatorio di convalida del fermo, disposto dal procuratore aggiunto Salvatore Vella e dal pm Elettra Consoli, dovrà pronunciarsi sulla ratifica del provvedimento e sulla misura da adottare. Il giovane, in occasione dell'interrogatorio con i pm, si era avvalso della facoltà di non rispondere. L’esito dell’autopsia Lesioni plurime e ripetute. L’autopsia eseguita dal medico legale Cataldo Ruffino, sui cadaveri delle due donne uccise a Naro, conferma la brutalità del massacro ai danni di Delia Zarniscu, 58 anni e Maria Rus di 54, uccise nella notte tra giovedì e venerdì nelle loro abitazioni a Naro, nell’Agrigentino. L’esame, disposto dal procuratore aggiunto Salvatore Vella e dal pm Elettra Consoli, ha confermato le lesioni plurime e i ripetuti colpi. Ieri sera le salme erano state sottoposte a un primo esame ovvero alla tac. L’uomo è un pregiudicato Il ventiquattrenne romeno, Omar Edgar Nedelkov, sottoposto a fermo per il duplice omicidio e vilipendio di cadavere delle due cinquantenni romene, uccise nella notte fra giovedì e ieri a Naro, era noto ai carabinieri e alla Procura della Repubblica di Agrigento perché in un recente passato era stato indagato perchè accusato di furto ai danni della ditta agricola del paese dove lavorava e di avere anche appiccato, utilizzando gasolio, un incendio ad una delle serre dell'impresa. Il giovane romeno ieri sera si è avvalso della facoltà di non rispondere alle domande di pm e carabinieri, si trova in carcere ad Agrigento e verosimilmente lunedì verrà sottoposto all'interrogatorio per la convalida del provvedimento di fermo. Quale suo difensore di fiducia ha nominato l'avvocato Diego Giarratana.
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Giovedì 5 settembre migliaia di donne sudafricane hanno manifestato per le strade di Città del Capo per protestare contro la violenza sulle donne e contro l’incapacità del governo di affrontare il problema. Erano vestite di nero e di viola, alcune indossavano delle catene come simbolo della repressione e hanno marciato verso la sede del Parlamento e il centro congressi dove è in corso il Forum Economico Mondiale gridando «È il mio corpo, non la tua scena del crimine». Ogni giorno in Sudafrica, dicono i dati ufficiali, vengono commesse almeno 137 aggressioni sessuali. Qualche giorno fa la ministra delle Donne, Maite Nkoana-Mashabane, ha detto che soltanto lo scorso agosto più di 30 donne sono state uccise dai loro mariti e compagni. Durante la protesta, l’attivista Lucinda Evans ha detto che la lotta contro la violenza di genere deve essere un impegno quotidiano, e rivolgendosi alle ministre del proprio governo ha detto: «Quando comincerete a considerare responsabili questi uomini che ci hanno così tanto deluso?». E ancora: «Se questo governo non ci protegge, noi, come donne del Sudafrica, li porteremo davanti alla Corte costituzionale». Il presidente Cyril Ramaphosa, in un discorso improvvisato davanti alle manifestanti, ha promesso una serie di misure contro stupri e femminicidi dicendo che «gli uomini che uccidono e violentano devono rimanere in prigione per tutta la vita» e che «la legge deve cambiare». Le proteste sono state raccontate sui social con gli hashtag #NotInMyName #AmINext e #SAShutDown e sono state organizzate dai movimenti femministi del paese dopo alcuni recenti casi di femminicidio. Lo scorso 24 agosto una studentessa universitaria di Città del Capo è scomparsa mentre andava a ritirare un pacco presso l’ufficio postale locale: il suo corpo è stato ritrovato dopo qualche giorno. Un impiegato ha confessato in tribunale di averla violentata e picchiata all’interno dell’ufficio, che si trova proprio accanto a una stazione di polizia. Il 22 agosto il corpo di Lynetter Volschenk è stato fatto a pezzi da un vicino di casa e trovato in alcuni sacchi della spazzatura nel suo appartamento. Sempre a fine agosto una campionessa sudafricana di boxe, Leighandre Jegels, è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco dal fidanzato, un poliziotto.
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È ricoverata in Rianimazione all'ospedale Santissima Annunziata di Sassari e rischia la vita Piera Muresu, 48enne di Sennori, nel Sassarese, ferita dal compagno che le sparato un colpo di pistola provocandole gravissime ferite al collo e al torace. L'uomo, Adriano Piroddu, 42 anni, è stato trovato poco dopo impiccato nel garage dello zio. Piroddu, secondo la ricostruzione dei carabinieri, avrebbe litigato con la fidanzata nelle campagne di Sennori, circostanza confermata anche da un testimone che ha sentito i due discutere animatamente e che ha visto poi la donna ferita. Il 42enne dopo averle sparato ha accompagnato Piera Muresu con l'auto verso il centro abitato, a qualche centinaio di metri da un'ambulanza del 118 che che era in servizio a bordo del campo sportivo di Sennori in cui si stava disputando una partita. "Mi hanno sparato", ha detto la donna, una volta raggiunta la postazione di soccorso, ai volontari che l'hanno trasportata d'urgenza al Pronto soccorso. Qui i medici hanno allertato i carabinieri che si sono messi sulle tracce del fidanzato che nel frattempo si era suicidato. A confermare il quadro del tentato femminicidio il ritrovamento, vicino all'abitazione dello zio, dell'auto di Piroddu ancora sporca di sangue, così come gli abiti che indossava. La donna ha riportato una ferita gravissima al polmone e la prognosi è riservata.
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Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Oltre 400mila bambini in Italia hanno assistito a episodi di violenza in famiglia ma per i tribunali e i servizi sociali conta poco. La violenza in presenza dei minorenni, infatti, non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio in vigore dall’anno scorso. Eppure un genitore violento davanti ai figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva. “Sono pieni di rabbia, hanno disturbi psicosomatici, dal mal di pancia a mal di testa e asma, spesso sono aggressivi con i coetanei, non si fidano degli adulti, sono indotti al senso di colpa, con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, da stress postraumatico. Il rischio più grave è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando da vittime ad autori di molestie”, spiega Daniela Truffo, educatrice del Centro donna Lilith di Latina, che nel 2012, insieme alla Fondazione Pangea, ha presentato il progetto “B-side: a barrier to stop the in-door domino effect” (una barriera per fermare l’effetto domino della violenza domestica sui minori) nell’ambito del programma Daphne III finanziato dalla Commissione europea. L’obiettivo è aiutare contemporaneamente la madre vittima di gesti violenti e il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. “Il tribunale dei minori – precisa l’educatrice – di solito dispone il sostegno psicologico dei figli solo se ricevono violenze. Questo significa che la gravità del danno subìto come spettatori, di aggressioni fisiche o anche solo di molestie psicologiche, non è riconosciuta”. A questo punto, il quadro peggiora. “Il lavoro dei servizi sociali è quello di garantire al figlio un legame con entrambi i genitori. Ma forzare la frequentazione con il padre violento – insiste l’educatrice – non fa bene al bambino, che è terrorizzato da lui”. Proprio oggi, a Roma, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani, Pangea onlus e Centro Donna Lilith illustrano i risultati del progetto. Ecco il bilancio: “In due anni abbiamo ospitato trenta donne con rispettivi figli, che hanno seguito un percorso ludo pedagogico attraverso attività creative”. Per esempio, la produzione di oggetti, la scrittura di una storia, la sua messa in scena, cineforum, sostegno scolastico, l’accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri. “Lo scopo è spezzare le catene del passato”. Come? “Facendo riscoprire alle madri il piacere di prendersi cura dei propri figli. Prima erano impegnate a sopravvivere, riuscivano a garantire solo cure primarie, trascurando il resto. Mentre i bambini imparano a esprimere con la parola i loro sentimenti, non più ricorrendo alla forza, a chiedere aiuto, a portare rispetto verso gli adulti”. Il percorso va affiancato con la psicoterapia. Non per tutti i figli è stato possibile, però. “Serve l’autorizzazione del padre, nel 30 per cento dei casi non è c’è stata”. L’intervento è stato portato avanti con altri tre Paesi europei, Spagna, Ungheria e Romania. Dal confronto delle diverse esperienze, l’Unione europea intende realizzare programmi di recupero (e quindi linee guida) e un metodo unico di valutazione, monitoraggio e impatto sui diretti interessati. Oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica. “Il progetto scade a gennaio 2015 – conclude l’educatrice di Latina -, speriamo di trovare altre risorse per mandarlo avanti”. Dal 2008 il centro donne Lilith accoglie madri e figli e li aiuta a rifarsi una vita. Il tempo di permanenza varia dai sei ai 12 mesi, finché la donna non è in grado di mantenersi economicamente ed è fuori pericolo. Ci sono 15 stanze, sempre piene. Ne servirebbero molte di più: ogni anno ci sono una ventina di richieste scartate.
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Quanto si sta osservando nel Paese in questi giorni che seguono l'omicidio di Giulia Cecchettin desta preoccupazione sotto diversi aspetti. Le femministe integraliste che puntano il dito contro il "patriarcato" italiano come responsabile della morte della ragazza, senza rendersi conto (e questa è una delle rilevanze più gravi) stanno deresponsabilizzando il vero colpevole di questo cruento omicidio, ovvero Filippo Turetta. Addossando l'intera responsabilità alla società e alla politica si solleva moralmente l'autore dalle sua colpe e si ingenera un cortocircuito in cui chiunque commetta un reato efferato può trovare attenuanti al di fuori della sua sfera di volontà. " Qui l'unico colpevole è Filippo Turetta, non è né il patriarcato, né l'educazione sessuale che non c'è, né gli uomini in quanto tali. Il colpevole è uno stronzo assassino maledetto che dovrebbe stare in galera tutta la vita ", ha detto Giuseppe Cruciani durante un intervento effettuato durante la trasmissione La Zanzara. I modi sono quelli ben noti del conduttore radiofonico ma la sostanza è condivisibile nella misura in cui viene sottolineato che il reato di uno non può ricadere su tutti. Colpevolizzare tutti gli uomini bianchi e occidentali, come stanno facendo le femministe del nostro Paese guidate da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, è sbagliato al pari di incolpare ogni straniero per i reati che compiono alcuni di loro. Ma sembra esserci uno sbilanciamento in questa equazione dalle parti dei progressisti. Quando la sorella di Giulia, il cui dolore dev'essere rispettato e compreso, dice che " gli uomini devono fare un mea culpa, anche chi non ha mai torto un capello " e che " tutti gli uomini devono stare attenti ", sbaglia. Come sbagliano gli uomini che chiedono scusa in nome di Filippo Turetta, perché anche questa, se si vuole seguire il flusso di pensiero del femminismo, che però pretende le scuse, è una sfumatura del patriarcato, di quel cameratismo maschile che vede gli uomini fare squadra e compattarsi, distribuendo le colpe di uno su tutti. " La vicenda è tragica ovviamente, ma ripetete con me: 'Io non mi sento colpevole, io non mi sento colpevole, io non mi sento colpevole, io in quanto uomo non mi sento colpevole!'. Io non mi sento colpevole di un emerito cazzo ", ha detto ancora Cruciani nel suo intervento.
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Ieri mattina Padova si è svegliata avvolta da un grigiore diffuso e un’aria gelida e umida. Era come se tutta la città fosse congelata e non riuscisse a mettersi in movimento, come invece sempre accade nelle prime ore dei giorni lavorativi. Tutto era fermo e silenzioso ma si avvertiva ovunque la tensione: la città era chiusa in sé stessa, quasi a concentrarsi per trovare così la forza di accompagnare Giulia e la sua famiglia nella cerimonia funebre. Non è scontato scegliere di accostarsi al dolore e di partecipare ad esso, accogliendone una parte in sé. Eppure ai funerali di Giulia, in chiesa o in piazza, c’erano migliaia di donne e uomini che hanno voluto esserci. Io ci sono andata perché donna, madre e docente, chiamata in causa quindi sotto molteplici aspetti da questo femminicidio. Ma anche perché membro di una comunità che di fronte ad un dolore così grande sente il bisogno di stringersi e farsi coraggio. Sentimento che è stato colto con grande sensibilità umana e politica dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che ha firmato l’ordinanza per il lutto regionale e mobilitato i sindaci dei Comuni veneti. Quando una tragedia così grande colpisce una comunità è importante sapere di esserci l’uno per l’altra, senza se e senza ma; e devo ammettere che in questo contesto si è sentita la mancanza della presidente del Consiglio: la sua presenza, in quanto donna, madre e guida del Paese sarebbe stata importante. Importanti invece sono state le parole del papà di Giulia. Con una lucidità e una pacatezza fuori dal comune, Gino Cecchettin ha tenuto un discorso perfetto. Ha detto tutto quello che si doveva dire, esattamente come lo si doveva dire. Dall’altare, davanti alla bara bianca della figlia, ha fatto risuonare le parole «femminicidio» e «patriarcato», due parole che una parte della stampa e della politica tenta di evitare, nascondere, negare. E le ha usate con la fermezza di chi sa che il cambiamento non può che nascere dall’analisi e dalla comprensione della realtà; e che il primo atto d’amore verso Giulia e tutte le donne vittime di femminicidio sta nel rendere loro giustizia. Giustizia che deve partire dal superamento di quella cultura patriarcale che è un terreno fertile per la violenza di genere. Giustizia che chiama ad un’azione politica forte, bipartisan, per prevenire le violenze, proteggere le vittime e punire i colpevoli. Gino Cecchettin ha chiamato in causa tutti: famiglie, scuola, società civile e mondo dell’informazione. Per quest’ultimo ha riservato parole molto forti che mi hanno profondamente colpita, forse perché io stessa ho sperimentato sulla mia pelle la violenza di chi usa i media per fomentare odio e creare contrapposizione, anche brutale. Il papà di Giulia, richiamando le parole di un meraviglioso album di Fabrizio De André, ci ha ricordato che anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti. E così, tra le lacrime e l’impotenza, l’indignazione e la rabbia, in un silenzio irreale ed assordante, rotto solo da lunghi applausi, la città di Padova ha abbracciato la sua giovane studentessa strappata alla vita da chi la voleva solo per sé, come un oggetto che non ha alcun diritto alla libertà e al proprio progetto di vita. E sono certa che in molti, lasciando la cerimonia, si siano portati dietro quella angosciosa sensazione di sapere che in fondo sì, siamo tutti per sempre coinvolti.
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