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L'avvocata-attivista con Vera Gheno e Elena Loewenthal al Circolo dei lettori in ricordo della scrittrice morta ad agosto: «Serve un nuovo femminismo» Sabato soffiava un vento freddo, ma c’era il sole. E il cielo era azzurro. A Torino, ma non solo. In quasi tutte le città d’Italia splendeva, spirava, invocava giustizia. Michela Murgia. Come ha detto in maniera forte e poetica (il correttore automatico cambia poetica in politica e, per una volta, ha ragione), Chiara Valerio durante il funerale del 13 agosto scorso: «Per dire “tempo”, gli inglesi hanno tre parole oltre a time: hanno tense e weather. Allora siccome Michela Murgia se ne andrà via prima del tempo, perché non c’è tempo e siccome siamo stati tutti bambini e sappiamo che è difficile coniugare il verbo, tense, allora per Michela usiamo il tempo atmosferico». Parole per Michela Murgia ce ne sono state e ce ne saranno ancora molte. Anche oggi, mercoledì, alle 19 al Circolo dei lettori se ne pronunceranno tante, insieme a Vera Gheno e a Cathy La Torre, in dialogo con Elena Loewenthal. Avvocata La Torre, lei è una delle «eredi» del pensiero di Michela Murgia, di cui era molto amica. Quali sono le parole più giuste per ricordarla? «Nessuno di noi è erede delle parole di Michela Murgia, per un motivo molto semplice: Michela era una scrittrice, sono i suoi libri che portano avanti il suo sapere. Nei 51 anni che ha vissuto, Michela Murgia ha scritto una vera e propria enciclopedia dei diritti fondamentali, del linguaggio rispettoso, inclusivo e femminista che ha lasciato all’Italia e al mondo. Usciranno altre cose sue postume, ne sono certa». Il suo funerale ha ricordato quello di grandi personaggi uccisi. In qualche modo è stata «di più» della morte di un’intellettuale. «Da un certo punto di vista, Murgia è stata uccisa da tutto l’odio che ha subito». In questo momento di strazio, ma anche di rivoluzione di piazza, quanto manca Michela Murgia? «Mi e ci manca. Il pensiero di Michela Murgia femminista, intellettuale, scrittrice, attivista, lascia un vuoto incolmabile che può essere coperto solo dalle sue parole. Non è un caso se in questi giorni del femminicidio di Giulia Cecchettin stia girando un suo video di sette anni fa, in cui affermava che non esiste la neutralità di fronte all’ingiustizia — riferendosi al patriarcato, che sulla base di una differenza biologica genera una differenza sociale — o la combatti oppure la sostieni. Gli uomini non hanno paura di morire per mano di una donna, temono la microcriminalità, i furti. Hanno paura dei reati commessi dagli altri uomini». I nuovi media hanno contribuito a risvegliare la piattaforma sopra la quale si muove, in larga parte, il nuovo femminismo. Alcune delle critiche mosse a questo movimento riferiscono però che non sta portando a casa dei risultati concreti. Cosa ne pensa? «Non criticherò mai nessuna forma di femminismo. Non sono in grado di dire se esista un femminismo più o meno efficace di altri. Oggi c’è bisogno di passare da un’innovazione del linguaggio. Per raggiungere mia madre è meglio una rivista femminile, per arrivare a mia nipote è meglio TikTok. C’è un’ottica intergenerazionale. Se le piazze erano piene il 25 novembre c’entra molto il digitale. Io ho fatto una chiamata alla piazza, senza il digitale non ci sarei riuscita. E poi è importante anche abbracciarsi, compiere atti politici collettivi. Il femminismo, rispetto a un tempo, si muove in un contesto completamente diverso». L’esempio più emblematico? «La legge sul cambiamento di sesso è passata nel 1982 votata dalla Dc. Oggi, penso che non voterebbero neppure l’aborto». Cosa rende il femminicidio di Giulia Cecchettin la goccia che fa traboccare il vaso? «Turetta è il ragazzo uguale a migliaia di altri. È il figlio che ognuno potrebbe avere in casa, il fratello, l’amico. Nell’audio Giulia dice di avere paura per l’incolumità di lui, non per la sua. È sconvolgente per milioni di persone». Su Instagram Siamo anche su Instagram, seguici: [[URL]]
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26 novembre 2016 Link Embed [[URL]] Copia Copia Milano, 'Women in run' contro la violenza: "Il branco siamo noi" Alla convention 2016 di Actionaid che si tiene in Palazzo Lombardia a Milano le "Woman in run" arrivano, naturalmente, di corsa e lanciano un messaggio: "Corriamo contro la violenza sulle donne, lo facciamo in gruppo e non abbiamo paura: Quando siamo insieme, il branco siamo noi" Video di Francesco Gilioli e Antonio Nasso
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Il Covid prima causa di morte e con gli over 70 nella fascia d’età più colpita. Uomini più delle donne e nelle residenze per anziani più che in tutti gli altri luoghi. Il Nord Italia l’area geografica con più vittime. L’Istat fotografa i due mesi più terribili della pandemia che ha sconvolto il mondo in un report sulla prima ondata del virus con un’analisi sul numero e i luoghi dei decessi nel periodo 1 marzo-30 aprile 2020. Più decessi causati dal Covid I decessi in Italia in quei due mesi sono stati 49mila in più rispetto al 2019 pari al 45% in più su un totale di 159.310 e di questi il 60% è stato causato dal Covid. L’85% è stato tra gli over 70, ma sono stati oltre 4 mila i morti anche sotto i 70 anni con il 18% dei decessi nella fascia 50-59 anni. Il Covid ha poi triplicato le morti nelle residenze per anziani (+155%) , salite del 47% quelle negli istituti di cura (ospedali e cliniche) e salite del 27% nelle abitazioni. L’aumento dei morti per demenza e Alzheimer Ma oltre al Covid, i due mesi in esame mostrano una crescita di decessi causata anche da altre patologie, come le polmoniti, l’influenza, le malattie cardiache e le demenze: + 49% per demenze e malattia di Alzheimer; +40% per le malattie cardiache ipertensive; +41% per il diabete. Meno morti per tumore e incidenti stradali, ma più femminicidi In calo invece le morti per tumore e quelle per altri fattori esterni, come ad esempio gli incidenti stradali, calati, grazie al lockdown di quei due mesi, del 60% rispetto alla media 2015-2019. Diminuiti i suicidi, sia tra gli uomini (-19%) sia tra le donne (-27%), e gli omicidi e le aggressioni: meno 36% sotto i 65 anni. Ma il calo è soprattutto dovuto agli uomini (-58%) perché i femminicidi sono invece cresciuti. Spiega l’Istat: «L’obbligo di permanenza nelle abitazioni a marzo e aprile 2020 sembra avere prodotto un effetto negativo, anche se esiguo nei numeri, ul fenomeno a carico delle donne, diversamente da quel che è accaduto per quasi tutte le altre cause esterne». Aumentate infine anche le morti per cadute accidentali tra gli over 65: +46% negli uomini e + 34% nelle donne. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Bufera sul web per l'ultima canzone del rapper Emis Killa. Il tema è quello del femminicidio e il titolo è "3 messaggi in segreteria..." ma a leggere bene il testo le polemiche sembrano pretestuose. Le frasi sono molto forti perché la canzone inizia raccontando le paranoie dello stalker. "Lo che sei in casa però non rispondi/ Finestre chiuse tu lì che mi ascolti/ Io con le idee confuse, tu che confondi /Tutte le mie scuse per stalking”, si legge. E ancora: “Ieri era il mio compleanno lo sanno anche i muri/ Io ti aspettavo, tu nemmeno mi hai fatto gli auguri/ Eri stata avvertita, ricordi quegli scleri/ Io te l’avevo detto vengono i problemi seri/ E ora hai paura perché tutti quei brutti pensieri/ Da qualche giorno hanno iniziato a diventare veri". Per finire con: “Lo so sono egoista, un bastardo, ma preferisco saperti morta che con un altro”.
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Oggi che Silvio Berlusconi non è più un senatore della Repubblica italiana, mi piace ricordare il giorno in cui il suo regno ha cominciato a scricchiolare.Era il 13 febbraio 2011 e nelle piazze italiane un milione di donne all'unisono gridarono "basta": a ministre uscite da cene eleganti, alle finte nipoti di capi di Stato, a certe signorine che si proponevano come modello assoluto dagli schermi della televisione. Alle strizzatine d'occhio e agli ammiccamenti, di destra come di sinistra. Quel giorno le donne ruppero l'incantesimo magico in cui sembrava precipitata l'Italia di re Silvio.Poi sono arrivati i referendum, Beppe Grillo, gli scissionisti: e tutto quello a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni, che ci sia piaciuto o meno. Ma prima c'erano state le donne.Cosa hanno fatto negli ultimi due anni quel milione di giovani e anziane che avevano invaso le piazze? Molte sono tornate nelle loro case: parecchie con una consapevolezza maggiore, qualcuna come se nulla fosse cambiato. Se non ora quando - il gruppo che aveva organizzato quell'evento - si è diviso, perduto in tanti rivoli, alimentati da interessi diversi, divisioni, rivalità politiche e personali in cui le donne sono specialiste: ma parte di quel nucleo originario - soprattutto quella che aveva radici in città grandi e piccole, ma lontano da Roma e Milano - ha resistito, ed è stato fra le forze che hanno costretto i media ad accettare il concetto di femminicidio per indicare la morte violenta di una donna da parte di un uomo: usare questa parola oggi sembra scontato ma solo due anni fa quasi nessuno lo faceva.Altre hanno ripreso a lavorare da sole, in silenzio, ma per obbiettivi condivisi. Dietro alle tante iniziative che hanno sottolineato la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre, c'erano spesso le donne che erano scese in piazza l'11 febbraio del 2011. Personalmente, non le ho apprezzate tutte quelle iniziative: non mi sono piaciuti i manifesti con le ragazze dagli occhi pesti, le frasi fatte che invitavano a proteggere e accudire le donne, quasi fossimo deboli animali in via di estinzione.Mi è piaciuta invece la scelta fatte da Snoq Factory, un collettivo di artiste, intellettuali e donne comuni nato da una costola del gruppo che aveva organizzato la manifestazione del 13 febbraio: al museo Macro di Roma per parlare di violenza, hanno scelto di ridere, ballare, recitare e sottolineare, una volta per tutte, la forza e l'energia delle donne, non il loro essere vittime. La stessa forza e energia che avevano invaso le piazze italiane quasi tre anni fa, la stessa che ci servirà da oggi stesso per girare pagina davvero. Questo video la riassume benissimo: lo prendo in prestito per usarlo come augurio per un domani diverso.Twitter: @francescacaferr
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“Nelle sentenze bisogna occuparsi di fatti e non dare giudizi morali o estetici, e fare questo potrebbe costituire illecito disciplinare. Le sentenze devono essere risolte ed espresse in termini tecnici e deve essere rispettata la dignità delle persone e la correttezza verso le parti del processo“. Il Procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio è intervenuto a margine della presentazione del “Bilancio di responsabilità sociale” davanti al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Il riferimento è alle polemiche per le sentenze di alcune sentenze su casi di violenza di genere, sui quali sono in corso acquisizioni di documentazione per valutare eventuali iniziative disciplinari. L’11 marzo scorso il Guardasigilli ha avviato verifiche sul verdetto emesso dalla Corte d’appello di Ancona, relativo a un’accusa di violenza sessuale su una 22enne: i due accusati sono stati assolti e nelle motivazioni si fa riferimento alla “mascolinità” della vittima che avrebbe reso non credibile l’ipotesi di uno stupro. Per quanto riguarda ad esempio, la sentenza emessa a Bologna che per la “tempesta emotiva” ha dimezzato la condanna per un femminicidio avvenuto a Riccione, il Pg Fuzio ha detto che lo stesso ufficio giudiziario bolognese ha provveduto a mandare alla Cassazione la sentenza. Inoltre il Procuratore generale – che è competente per l’azione disciplinare – ha aggiunto che “sembra che lo stesso estensore della sentenza abbia fatto una conferenza stampa e questo è un fatto censurabile“. Fuzio ha anche dichiarato che il suo ufficio valuterà tutte queste ultime decisioni della magistratura – compreso il verdetto di Genova, anche questo finito sotto accusa per aver dimezzato la pena a un uxoricida – e che il suo intento è quello di “ricostruire per bene tutte queste vicende per valutare“. Nel merito è intervenuto a margine anche il ministro Bonafede: “Non si tratta di stare a vedere le singole sentenze, il problema vero è che sulla violenza di genere c’è un degrado, ogni giorno un fatto nuovo, una degenerazione culturale gravissima: in questa situazione il legislatore deve mettere mano alla legge e faccio appello a che la riforma ‘Codice rosso’ sia approvata all’unanimità”. Oggi per la prima volta, la Procura generale della Suprema Corte nell’Aula magna ha presentato il ‘Bilancio di responsabilità sociale’, una raccolta della sua attività con i ‘suggerimenti’ al legislatore su temi ‘aperti’ come i figli delle coppie omosessuali.
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ROMA. Ancora una volta la politica e gli italiani appaiono lontani. A parte la segretaria del Pd Elly Schlein, gli altri leader di partito hanno scelto di non partecipare alla manifestazione contro la violenza sulle donne organizzata a Roma da Non Una Di Meno. Non erano d’accordo con la piattaforma che consideravano troppo filo-palestinese al contrario di oltre mezzo milione di persone che, pur non condividendo tutte le idee espresse nella piattaforma, per un pomeriggio hanno messo da parte la guerra in corso tra Israele e Hamas per far sentire la rabbia nei confronti di un Paese dove ogni tre giorni c’è un femminicidio. La ministra alle Pari opportunità, Eugenia Roccella, ha riconosciuto che il caso di Giulia Cecchettin ha «coinvolto l’opinione pubblica in maniera straordinaria» e ha aggiunto che poi «c’è evidentemente una soglia che è stata raggiunta: questa volta forse la ribellione delle donne è tornata a essere un fatto. Con il disegno di legge sulla violenza sessuale intensifichiamo la prevenzione». Ma ha condannato la piazza di sabato anche se ha radunato un numero di persone superiore a ogni altro evento organizzato in precedenza per le donne. È stata «una occasione sprecata», ha spiegato. «Mi dispiace che la manifestazione promossa da Non Una Di Meno, che poteva essere una grande occasione, sia stata sprecata per motivi ideologici». Secondo la ministra è stato «grave» avere inserito nella cornice dell’evento «la questione palestinese» e a suo dire «la mobilitazione delle donne non deve essere inquinata da ideologia e troppa partigianeria politica». Non è d’accordo l’opposizione. Per il responsabile della cultura del Pd, Sandro Ruotolo è l’opposto: «A Roccella dico: non sporcare quanto è avvenuto con una polemica così bassa. Purtroppo, le sue parole confermano che questa classe dirigente al governo non è all’altezza. C’è stata una mobilitazione in tutta Italia, piazze invase, pacifiche, per dire no alla violenza sulle donne. Anche io ero a Roma. Non ce lo meritiamo un governo così». Per il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, «Roccella parla di occasione rovinata perché parlavano di Palestina e Israele: quando dici patriarcato loro dicono che sei ideologico». Secondo Anna Ascani, vicepresidente della Camera ed esponente Pd, con il ddl Roccella «è stato fatto uno sforzo da entrambe le parti, maggioranza e opposizione, ma si deve fare di più sul fronte della prevenzione. Da un lato è necessario investire di più sulla formazione delle forze dell’ordine e di chi poi deve avere a che fare con queste storie nei momenti più difficili. E, dall’altro, maggiori risorse devono essere dedicate all’educazione delle nuove generazioni». Il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha assunto una posizione diversa da quella del resto del governo. Ha spiegato che «le norme, anche le più evolute, non bastano». Per l’esponente di Forza Italia è necessaria «la prevenzione, con percorsi formativi fin dalla più tenera età che insegnino non solo a rispettare il proprio interlocutore in tutte le sedi e in tutti i modi, ma a rispettare il valore della vita». Di una necessaria «rivoluzione culturale» ha parlato dal fronte dell’opposizione anche Italia viva. «Le pene ci sono e sono severe – ha ricordato la senatrice Silvia Fregolent –, ora serve una vera rivoluzione culturale che si fondi sulla prevenzione e sull’educazione, iniziando dalle scuole, dai più piccoli. Un’educazione e una formazione che devono essere estese anche alle forze dell’ordine e ai magistrati affinché supportino le donne in condizione di fragilità, con l’ascolto e l’accompagnamento alla denuncia. Ma soprattutto servono risorse».
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Roma - Gli ultimi fatti di cronaca parlano di un'emergenza senza precedenti. La violenza sulle donne assume contorni aberranti e inaspettati. E l'allarme sociale è dietro l'angolo. Poco importa se la fredda verità delle statistiche dice altro (secondo i dati Istat nei primi sei mesi dell'anno si sono consumati 60 omicidi di donne, mentre nel 2015 sono stati 128 e nel 2013 addirittura 179). L'impatto mediatico di queste ultime vicende fa capire che qualcosa si deve fare e subito. Come denuncia Mara Carfagna (Forza Italia), già ministro delle Pari opportunità nel quarto governo Berlusconi. Onorevole Carfagna si può parlare di emergenza? «Non si può. Ormai è un problema strutturale. Rosaria Lentini e Vania Vannucchi sono state barbaramente uccise e noi siamo qui a piangerle ma dobbiamo dire basta a tutto questo». Di questa drammatica situazione cosa la colpisce di più? «Rimango sorpresa quando il governo si limita a parlare di cabina di regia da attivare a settembre». Insomma per il governo non è proprio un'emergenza. «Non lo è mai stata. Il governo Renzi ci ha messo due anni per scegliere un responsabile delle Pari opportunità. Anzi non l'ha nemmeno scelto. Ha consegnato soltanto a maggio scorso la delega al ministro Boschi. Sembra che per questo governo la difesa della donna non sia una priorità. La strada da seguire non è questa. Non può essere questa». Cosa bisognerebbe fare? «Intanto bisognerebbe considerarla una priorità. Come abbiamo fatto noi quando eravamo al governo. Ricordo soltanto un paio di traguardi che abbiamo raggiunto allora, ma che non sono stati accompagnati da ulteriori passi in avanti da parte di chi è arrivato dopo di noi. Abbiamo fatto approvare una legge contro lo stalking e abbiamo aggiunto aggravanti contro i reati di violenza sessuale. Di fatto, insomma, abbiamo rafforzato la tutela pena contro questi reati». Da più parti si suggerisce che anche le campagne di sensibilizzazione potrebbero essere utili allo scopo. «Sicuramente sono utili noi le abbiamo promosse, ma oggi sono interrotte basti pensare che tante donne ignorano che c'è un numero per chiedere aiuto: il 1522. E soprattutto devono essere mirate ed efficaci. Noi abbiamo ospitato a Roma una Conferenza mondiale sul tema e abbiamo introdotto nelle scuole programmi e lezioni per far conoscere il tema della violenza sulle donne ai ragazzi». Cosa suggerisce a chi oggi può prendere delle decisioni in merito? «Di non rimandare queste decisioni settembre, innanzitutto. La battaglia contro la violenza sulle donne si combatte 365 giorni l'anno. Altrettanto importante è ripristinare poi i fondi per i centri antiviolenza (altra nostra conquista). E poi tutti devono fare la loro parte. Dai magistrati, alle istituzioni e al governo. Ognuno di noi è, infatti, soltanto un ingranaggio in questo complesso sistema ma non si deve fermare altrimenti tutto si inceppa».
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Con questa storia della «miss anti femminicidio», alias «miss anti stalker», riali as «miss coraggio» più di qualcuno ci ha marciato. Risultato, quando la Ventura domenica notte, nella serata finale di Miss Italia, ha avuto la sventura di comunicare a Rosaria Aprea che era stata eliminata, la 22enne di Macerta Campania (Caserta) non ha avuto la forza neppure di dire una parola. Lei, Rosaria, «nota» per la brutta storia delle aggressioni subite da un fidanzato vigliacco, aveva creduto di poter conquistare la corona della più bella d'Italia. Glielo avevano fatto credere in molti. Invece è arrivata la fatidico frase: «Per te il concorso è finito qui». Anche se poi, colta forse dai sensi di colpa, la giuria le ha assegnato la fascia di «Miss Eleganza». Quella «eleganza» che alcune colleghe di Rosaria hanno mostrato di non avere, e ci riferiamo alle concorrenti che a Jesolo l'hanno bollata come «favorita» in quanto «caso umano». Un atteggiamento che, al di là dell'ipocrita solidarietà di facciata, ha ferito Rosaria. Che però - e anche questo va detto francamente - un po' se l'è andata a cercare, tentando ostinatamente di entrare in uno showbiz che non fa sconti a nessuno. Figuriamoci a una giovane che sognava di essere illuminata dai riflettori del successo dopo essere stata oscurata dall'ombra della cronaca nera: il suo ragazzo che la picchia fino; lei che lo perdona; lui che la ripicchia fino a spappolarle la milza; lei che lo denuncia e lo fa arrestare. Era questo il «portato» simbolico di Rosaria sulla passerella della presunta gloria: un dramma a tinte forti buono evidentemente per colorare il battage pubblicitario, ma non sufficiente per dipingere sul petto di Rosaria la fascia di «regina» del concorso più bello d'Italia. Che poi di «bello» ha davvero poco, se ha finito - più o meno inconsapevolmente - con lo strumentalizzare parole già fin troppo strumentalizzate come «femminicidio» e «stalker». Ma ieri, nel day after , Rosaria si è tolta qualche sassolino dalla scarpa tacco 12. Ai giornalisti ha detto di essere rimasta «delusa» dalla «falsità» di alcune persone che hanno condiviso con lei questi giorni di gara a Jesolo. In privato, lontano dai cronisti, con sua madre e il suo avvocato di fiducia, Carmen Posillipo (pure lei non meno avvenente di una miss ndr ), ha usato termini ben più duri, riciclando il termine «stalker» ma non in riferimento a quanto patito per colpa della brutalità dell'ex convivente, ma in relazione alle «cattiverie» subite dalle «amiche» miss. Il tutto ben sintetizzato dallo sfogo di Rosaria: «Ho nettamente avvertito sulla mia pelle il mugugno delle altre colleghe che mi hanno accusato ingiustamente di essere “favorita“ dalla mia cicatrice sulla pancia, simbolo nella lotta delle donne contro la violenza». Perfino la neo Miss Italia, Clarissa Marchese, alla vigilia del verdetto finale, appariva infastidita dall'attenzione mediatica nei riguardi di Rosaria, tanto da dichiarare al quotidiano Leggo : «Mi chiede di Rosaria Aprea? Mi permette di non risponderle, di lei se n'è parlato anche troppo». Sulla stessa «linea» anche un'altra aspirante miss, Michelle, 28 anni, madre casertana, padre venezuelano, modella e istruttrice di fitness e veterana dei concorsi di bellezza (ma non ammessa alla finale di Jesolo): «Ho conosciuto Rosaria durante le prefinali. Sono solidale con lei, ma il suo caso è oggettivamente un vantaggio. O meglio, diciamo, pure è un suo punto a favore». Alla faccia della «solidarietà» femminile. Fischiano le orecchie a Rosaria: «Intorno a me - conferma al Giornale - ho avvertito tanta ipocrisia: solidarietà di facciata davanti e giudizi negativi alle spalle. Mi sarebbe piaciuto proseguire nella mia battaglia, ma non è stato possibile». A parziale consolazione arrivano le rassicurazioni di Simona Ventura e Patrizia Mirigliani: «Rosaria ha portamento, classe, quando sfila. Non ci dimenticheremo certo di lei». Giù le mani dal politically correct.
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Tra la birra, le automobili e Victoria’s Secret, durante il Super Bowl di ieri è stato trasmesso uno spot contro la violenza sulle donne, ed era la prima volta (e sì, è solo uno spot, ma era la prima volta). Lo spot è dell’associazione No More, che si occupa di abusi domestici, ed è stato prodotto con il sostegno della National Football League (NFL) che ha messo a disposizione la propria agenzia pubblicitaria. Dura 60 secondi e si sente una donna chiamare il 911, il servizio USA per le emergenze, e ordinare una pizza: “911, ha bisogno di aiuto?” “123 Main St.” “Ok, cosa sta succedendo?” “Vorrei ordinare una pizza” “Signora, ha chiamato il 911” “Sì, lo so. Potrei avere una pizza grande con salamino piccante, funghi e peperoni?” “Mi dispiace, sa di aver chiamato il 911?” “Certo. Quanto tempo ci vorrà?” “Signora, va tutto bene? Ha bisogno di aiuto?” “Sì” “Non ne può parlare perché c’è qualcuno nella stanza con lei, giusto?” “Sì, esatto. Quanto tempo pensa ci vorrà?” “Abbiamo un agente a un miglio da casa sua. Ci sono armi in casa?” “No” “Può rimanere al telefono?” “No. A presto, grazie” Lo slogan finale dello spot è: «Quando è difficile parlare, tocca a noi saper ascoltare». Dopo il caso Ray Rice (il giocatore che aveva tirato un pugno alla sua fidanzata ed era stato sospeso soltanto per due partite) la NFL si è data molto da fare contro la violenza sulle donne. Ha ad esempio collaborato con l’associazione No More per una serie di video intitolati “Speechless“, in cui si vedono giocatori ed ex giocatori parlare di violenza domestica. Quello del Super Bowl fa però riferimento ad una storia realmente accaduta: la conversazione dello spot è stata pubblicata dallo stesso operatore del 911 che ha ricevuto la chiamata su Reddit, circa 8 mesi fa. BuzzFeed l’ha rintracciato e dopo aver verificato la sua storia, l’ha intervistato: la telefonata è avvenuta 10 anni fa, intorno a mezzanotte. L’uomo ha detto che all’inizio pensava si trattasse di uno scherzo, che poi ha controllato l’indirizzo e l’archivio, e che ha visto come da quel numero fossero partite altre chiamate di aiuto per violenza domestica: «Alla fine l’agente è arrivato, ha trovato un uomo e una donna: lei aveva i segni delle botte, lui era ubriaco. Il poliziotto l’ha arrestato. La donna ha spiegato che il fidanzato la picchiava spesso. Penso sia stata molto intelligente a usare la storia della pizza. È stata una chiamata memorabile».
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Il momento più coinvolgente nella Marcia delle Panchine Rosse di ieri è arrivato davanti al Tribunale, quando i performer dell’Opificiodellarte hanno invitato tutti a muoversi, a seguire il ritmo e a dimostrare anche in questo modo la propria adesione alla lotta contro la violenza sulle donne. E' seguita la performance teatrale da parte degli studenti del Liceo Scientifico di Cossato, ispirata al monologo «Lo stupro» di Franca Rame. Prima il centinaio di studenti arrivati da Bona, Liceo Artistico e Scientifico aveva assistito all’inaugurazione della panchina davanti alla Provincia voluta dai sindacati. «Il nostro impegno vuol essere teso a contrastare la cultura della violenza contro le donne e formare ragazze e ragazzi consapevoli che l’amore non è controllo, non è possesso o violenza ma libertà e spensieratezza – hanno spiegato Daniele Mason, Elena Ugazio e Alessandra Sitzia -. Abbiamo scelto l’opera realizzata da Francesca Palma che ben simboleggia questo pensiero, rappresentando una donna che piange con le mani posate sul corpo che aiutano ad evocare la violenza subita. I corpi dei riquadri sono altre fotografie di donne soggette a violenze, il nastro adesivo simboleggia i cerotti usati per stigmatizzare il dolore e di nascondere le ferite». Tra gli interventi particolarmente sentito quello del presidente della Provincia Emanuela Ramella, che ha chiesto un applauso per il dipendente, ora in pensione, Fabrizio Preti, padre di Erika, vittima di femminicidio, che ha accompagnato tutto il corteo per le vie del centro cittadino. Fino al giardino del Fondo Tempia, dove la presidente Simona Tempia ha inaugurato la seconda panchina. «Da mesi – ha detto - avevamo in mente di dare una testimonianza anche nel giardino della nostra sede di quanto sia importante sostenere la causa femminile anche su questo fronte – ha spiegato -. Mai come in questi giorni se ne sta parlando, con il dolore di un’ennesima tragedia: se anche solo una persona, leggendo il cartellino che sarà accanto alla panchina, trovasse una via per ottenere aiuto, sarebbe un successo. Anche se il vero successo sarebbe arrivare a una società in cui questo aiuto non sia più necessario». Il tempo di attraversare via Marconi e davanti al palazzo di giustizia terza inaugurazione, per la panchina voluta dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati. «Questo è forse il luogo in cui più mancava una panchina rossa – ha spiegato la presidente Erica Vallera - che io vedo come un promemoria. Dove mettiamo i post it per ricordarci le cose importanti? Io li attacco al frigo così a forza di leggerli me li ricordo. Questa panchina è un promemoria per tutti ma soprattutto per gli operatori della giustizia, per tutto quello che essa rappresenta. Ogni giorno prima di entrare nelle aule di giustizia serve a tutti noi».
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Elena Gaiardoni Grazie a Jo Squillo il «Muro della bambole» di via De Amicis diventa un film documentario di 40 minuti, presentato con successo al festival del cinema di Roma. «The wall of dolls - Il muro delle bambole contro il femminicidio» verrà proiettato allo spazio Oberdan venerdì alle 18.45 nella sala Alda Merini, per ricordare la giornata mondiale contro la violenza sulla donna. Durante la serata il Comune di Milano e l'associazione «Fermati Otello» lanceranno l'iniziativa: «Il muro delle bambole per ogni Municipio di Milano». Non è un caso che la parola wall, muro, sia associata alla parola pink, rosa, come insegnano i Pink Floyd nel loro successo più riuscito. La muraglia più forte che l'umanità abbia mai eretto è coperta di sangue rosa, il sangue delle donne, che per varcare l'ostacolo che impedisce loro la libertà perdono la vita. Bambole di ogni dimensione e colore sono state appese allo schermo di mattoni e cemento in via De Amicis: vi stanno inchiodate, come ogni tre giorni, questa è la statistica, una donna subisce violenza. Sul grande schermo di Jo Squillo parlano donne come Lucia Annibali, l'avvocato sfigurata dall'acido da un uomo mandato dal suo ex fidanzato. Proprio stasera su Rai1 andrà in onda Io ci sono, con Cristina Capotondi, il film che racconta la storia di Lucia. «Il muro delle bambole sta diventando uno dei luoghi più fotografati di questa città, impegnata a contrastare i soprusi contro la dignità della donna su vari fronti» ha detto l'assessore alle Politiche produttive Cristina Tajani. Arte e creatività sono indispensabili per sensibilizzare le coscienze e cercare di comprendere la rabbia e l'odio che l'uomo sviluppa verso l'individuo più diverso, il vero diverso da lui, la donna. «Ottanta casi di femminicidio dall'inizio dell'anno - ha dichiarato Angelica Vasile, presidente della commissione politiche sociali - un numero che ci spinge ad avviare un'educazione fin dalle scuole». Saranno proprio le scuole ad essere presenti venerdì. I muri vanno abbattuti fin dalla più tenera età. Per Rosaria Iardino, presidente di Donne in rete onlus «è un orgoglio che riprendano il nostro muro delle bambole in altre città, come Bologna e Roma». «Il nostro prossimo passo - ha annunciato Francesca Savoldini dell'associazione Fermati Otello - sarà di portare questo documentario all'interno delle classi». Perché Milano «deve essere in prima linea in questa battaglia, deve assumersi la responsabilità di rappresentare l'inizio di una città movimento». Se lo è augurato Daria Colombo, delegata del sindaco per le pari opportunità. A Jo Squillo è stata consegnata una bambola da Marinella Rognoni, presidente dell'Udi (Unione donne italiane) di Quarto Oggiaro.
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Classe 1980, veronese, grande tifoso dell’Hellas, una moglie, una figlia, una laurea in Scienze politiche, una in Storia e filosofia. Vicesegretario federale della Lega, consigliere comunale a Verona dove sarà anche vicesindaco e poi due volte europarlamentare dal 2009 al 2018, anno in cui viene eletto deputato, vicepresidente della Camera e ministro con deleghe alle Politiche per la Famiglia, Disabilità, Infanzia e Adolescenza e Politiche Antidroga. Nel 2019, sempre nel governo Conte I, per tre mesi sarà anche ministro per gli Affari Europei. Oggi, 14 ottobre 2022, Lorenzo Fontana è il nuovo presidente della Camera dei deputati. Ma ciò che preoccupa una parte dell’opposizione e più in generale chi si batte per i diritti delle minoranze, delle donne, della comunità Lgbt, degli stranieri, non è il suo curriculum. Piuttosto un pensiero ultraconservatore e tradizionalista ultracattolico, che fa di lui il rappresentante più in vista dell’ala dura della Lega di Matteo Salvini. Per non parlare dell’appoggio al presidente russo Vladimir Putin e ai “patrioti repubblicani” di Donald Trump, “un modello anti-globalista” dal quale l’Europa “ha tanto da imparare”, ha twittato. Basta scorrere il suo account twitter per capire la sua vicinanza alla storia della Chiesa e dei santi. Quasi ogni gionro twitta il santo del giorno allegando una sua foto e una bereve nota esplicativa. Pochi giorni fa, il 7 ottobre, ha celebrato l’anniversario della battaglia di Lepanto. Quel giorno, sono le parole di Fontana, la Lega Santa riportava la vittoria “contro l’avanzata ottomana. L’ Europa cristiana – aggiunge – fiera della sua identità, otteneva una straordinaria vittoria. Oggi si ricorda la Madonna del Rosario”. Perché “senza tradizione non c’è progresso”, ama ripetere. A proposito, a unirlo in matrimonio alla moglie Emilia Caputo è un sacerdote tradizionalista, il brasiliano Vilmar Pavesi, trapiantato in Italia e consacrato con la Fraternità di San Pietro. Di che si tratta lo spiega lo stesso Pavesi: “Sono i cattolici che erano seguaci del vescovo Lefebvre e con un accordo con Giovanni Paolo II hanno accettato l’autorità del papa, mantenendo però il rito tridentino”. Insomma, non è la solidarietà universale di Papa Francesco a ispirare il neoeletto presidente della Camera. Piuttosto quella tradizione cristiana a cui guardano formazioni come il Fronte Nazionale di Marine Le Pen: “È un’alleanza storica che ho contribuito a stipulare”, ha più volte rivendicato. “La crisi demografica in Italia sta producendo numeri da guerra. È come se ogni anno scomparisse dalla cartina geografica una città come Padova. Noi non ci arrendiamo all’estinzione e difenderemo la nostra identità contro il pensiero unico della globalizzazione, che oggi ci vuole tutti omologati e schiavi. La politica deve produrre un cambiamento culturale, con azioni che guardino ai prossimi 20-30 anni: ne va della sopravvivenza della nostra civiltà”, aveva detto nel 2018 alla presentazione del suo libro “La culla vuota della civiltà. All’origine della crisi”, scritto con l’economista Ettore Gotti Tedeschi. Quello della denatalità, prova della crisi in Occidente e anticamera di un neocolonialismo culturale che ci invade di cittadini extracomunitari, è un chiodo fisso. E le sue posizioni sono sempre nette, monolitiche. “La nostra azione politica sull’immigrazione si ispira al catechismo: ‘ama il prossimo tuo‘ ovvero in tua prossimità e per questo dobbiamo occuparci prima dei nostri poveri“. Quando l’allora premier Paolo Gentiloni dichiarava che “l’Europa che invecchia ha bisogno di migranti“, lui lo rimbeccava che “no, che c’è bisogno di nuovi figli”. E se l’Onu dichiarava che le migrazioni sono un fenomeno positivo, lui da Bruxelles alzava subito la voce: “Il Piano delle Nazioni Unite va fermato subito”. Figlio della Lega in salsa nazionale, quella che ha messo da parte i “terroni” per chiedere il voto ai meridionali in nome dell’italianità, Fontana si considera un patriota e in difesa di tale identità respinge le “contaminazioni esterne”, soprattutto se religiose e islamiche. Nella sua biblioteca-web consiglia di leggere il libro Eurabia, che dimostrerebbe l’esistenza di un piano guidato dai Paesi Arabi di costruire una realtà politico-culturale omogenea attorno al Mediterraneo. “Il nostro Paese non ha bisogno dello ius soli”, dice. E aggiunge: “Ecco che cosa marca la differenza tra noi e le sinistre: loro pensano agli immigrati, noi agli italiani. Ci sono gravi responsabilità delle sinistre negli sbarchi di miliziani dell’Isis”. A Verona il sindaco Sboarina, di cui Fontana fu il vice, volle introdurre il “fattore famiglia”. “Siamo il primo Comune capoluogo che lo introduce. L’obiettivo è redistribuire servizi e ricchezza a favore delle famiglie che hanno più bisogno”. Di più, nel 2020 Fontana ha presentato una proposta di legge contro la cristianofobia e un ordine del giorno per impegnare il governo a occuparsi delle discriminazioni anti–cristiane. In perfetta coerenza combatte le sue battaglie contro l’aborto – “prima causa di femminicidio nel mondo”, disse nel 2018 durante la Marcia per la Vita per abrogare la legge 194 – e contro i diritti delle persone Lgbt. Perché la famiglia è “quella naturale“, mentre le famiglie arcobaleno “per la legge non esistono“. Le contaminazioni non gli piacciono. Sul suo sito ha campeggiato a lungo la foto del “Bus antigender”, ovvero il bus della libertà su cui campeggia una scritta: “Non confondete l’identità sessuale dei bambini”, diceva, convinto che nelle scuole italiane si faccia educazione sessuale “pro-Lgbt”, certo che si insegni la teoria gender, “una grave minaccia, assieme all’immigrazione e al matrimonio gay”. Questo, in sintesi, il Fontana-pensiero da sempre, chiarito una volta di più nelle interviste che concesse a giugno 2018, appena diventato ministro della Famiglia: “Il matrimonio è solo tra mamma e papà, le altre schifezze non le voglio sentire”. E ancora: “Più figli, meno aborti”. Tanto che all’epoca costrinse anche Matteo Salvini a prendere le distanze. Ma Fontana ha posizioni nette anche in politica estera, tema che lo vede responsabile esteri nella Lega. Pochi giorni dopo il voto criticò le parole del neopresidente Joe Biden. “Probabilmente, il presidente democratico è consapevole di quanto accadrà nelle elezioni di metà mandato, dove i patrioti Repubblicani vinceranno”, twittò commentando le parole di Biden che dopo l’affermazione del centrodestra italiano disse: “Avete visto cosa è accaduto in Italia, non possiamo essere troppo ottimisti”. Del resto, le affinità con la destra repubblicana non mancano anche sul fronte della legittima difesa, dove Fontana non poteva che essere in prima linea: “La legge sulla legittima difesa va cambiata. Uno Stato serio premia chi si difende e chiede scusa per non essere stato capace di provvedere direttamente alla tutela dei cittadini in pericolo. Oggi invece viviamo in un mondo rovesciato dove i criminali spesso la fanno franca e le vittime vengono ingiustamente inquisite. Bisogna risvegliare il buon senso”. Del resto, il vicesegretario della Lega si è spinto fino a definire il suo partito una “cerniera tra Trump e Putin“, come ha twittato lui stesso a maggio del 2018. Non solo, negli anni h affidato al suo profilo su Twitter elogi agli estremisti tedeschi di destra dell’AFD e alla brexit, “inizio di una nuova epoca”. E per non farsi mancare nulla, la Russia di Putin. Un caso fu il patrocinio del ministero della Famiglia da lui presieduto al Convegno Mondiale sulla Famiglia di Verona. Fontana diede il suo appoggio e partecipò anche alla manifestazione, costringendo anche l’allora premier Giuseppe Conte a intervenire per chiarire che la presidenza del Consiglio non aveva niente a che fare con il patrocinio del World congress of families. A Verona insieme a Fontana (e Salvini), furono presenti anche Alexey Komov, presidente onorario di quell’associazione Lombardia–Russia, e Dmitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa. Tutti esponenti vicini al Cremlino, uniti in nome della lotta contro i diritti Lgbt. E del resto Fontana non ha mai nascosto la sua ammirazione per Vladimir Putin: “Da parte mia sono stato favorevolmente impressionato da tante dichiarazioni di Putin e dal grande risveglio religioso cristiano“, ha detto del presidente russo. E ancora: “Ho visto in questo una luce anche per noi occidentali, che viviamo la grande crisi dei valori”. Da europarlamentare e insieme a Salvini, Fontana ha sempre condannato le sanzioni alla Russia. All’epoca in cui entrambi occupavano le poltrone del Parlamento europeo, diverse foto li ritraggono con la stessa maglietta bianca con la scritta “no sanzioni per Mosca“. Nel 2018 chiese apertamente al governo M5s-Lega di cui era parte di “ritirare le sanzioni alla Russia perché contrarie ai nostri interessi”. Un appello che rinnova su twitter, fino a dieci giorni prima dell’attacco di Mosca all’Ucraina.
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Luiza Helena Trajano è una delle donne più ricche del Brasile. È la presidente di Magazine Luiza, una grande catena di negozi conosciuta come Magalu in cui si vende un po’ di tutto, dagli articoli per la casa all’abbigliamento, dagli elettrodomestici ai prodotti di bellezza. Trajano – che dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro, populista e di estrema destra, è stata definita in modo spregiativo una “socialista” – ha avviato e consolidato nel tempo una politica aziendale piuttosto coraggiosa basata su programmi concreti contro il razzismo e soprattutto contro la violenza domestica, arrivando a sostenere più di 700 dipendenti vittime di abusi in quattro anni. Di lei si sono occupati nelle ultime settimane diversi giornali internazionali, raccontando non solo i suoi successi con Magalu e i suoi programmi assai innovativi, soprattutto in un paese come il Brasile dove le discriminazioni razziali e la violenza contro le donne sono problemi enormi e scarsamente affrontati; ma anche le sue preferenze politiche, che hanno spinto alcuni osservatori a ipotizzare un suo eventuale coinvolgimento nella prossima campagna presidenziale brasiliana, che precederà le elezioni previste per il prossimo ottobre. Trajano ha 70 anni ed è nata a Franca, una città di medie dimensioni circa 300 chilometri a nord di San Paolo. Da adolescente cominciò a lavorare in un piccolo negozio di articoli da regalo aperto nel 1957 da una zia: «Quando avevo 17 o 18 anni avevo escogitato delle piccole rivoluzioni per i dipendenti. Ho iniziato a portare uno psicologo al negozio», ha raccontato al New York Times. Quando nel 1991 assunse la guida di Magalu, l’azienda era ancora una catena di negozi a conduzione familiare presente solo negli stati di San Paolo e Minas Gerais, nel sud est del paese. Gli anni Novanta furono molto complicati per l’economia del Brasile a causa della recessione e dell’elevata inflazione, e molti negozi e attività furono costrette a chiudere. Trajano cominciò allora ad essere contattata dai sindaci delle piccole città che avevano perso il loro unico negozio e che le chiedevano di aprire una filiale di Magalu. A sua volta colpita dalla crisi, trovò una soluzione all’epoca innovativa: aprì piccoli negozi in varie province brasiliane, con pochi dipendenti e nessun prodotto in esposizione. Gli acquirenti andavano fisicamente al negozio, potevano vedere i prodotti su filmati registrati e gli ordini venivano consegnati a domicilio. «Mia madre mi ha educata a pensare alle soluzioni», ha raccontato: «Quando tornavo a casa da scuola dicendo che l’insegnante mi aveva fatto qualcosa, lei rispondeva: “Cosa farai perché l’insegnante ti accetti?”» Da lì in poi l’azienda ebbe un’espansione enorme, e oggi Magalu – che è diventata una società con un valore di mercato di quasi 8 miliardi di dollari – ha 1.400 negozi in tutto il paese e 50 mila dipendenti, di cui il 75 per cento circa sono donne. Trajano attribuisce parte del suo successo al fatto di essere una donna: dice di aver portato una prospettiva differente, che fino a quel momento era mancata nella dirigenza delle aziende brasiliane: «Ho sempre avuto un modo femminile di gestire le cose», ha detto. Nel 2016 Trajano cedette il ruolo di amministratrice delegata al figlio e da allora è la presidente del consiglio di amministrazione e la figura più visibile della società. Nel 2019 la rivista statunitense Forbes la inserì nella lista delle persone più ricche del mondo e nel 2021 il settimanale Time la incluse in “Time 100”, tra le 100 persone più influenti dell’anno. Oltre al successo, la cosa che ha attirato molte attenzioni su Trajano è stata la politica aziendale da lei perseguita, in particolare i programmi per promuovere pratiche non discriminatorie e quelli per le donne che subiscono violenza domestica. «Sono molto grata di essere stata cresciuta da donne solide», ha raccontato: «Poiché sono nata in una culla di donne imprenditrici, sentivo di avere la missione di aiutare anche altre donne». L’impegno di Magalu a sostegno delle vittime di violenza iniziò nel 2017, dopo che la responsabile di uno dei negozi nello stato di San Paolo, Denise Neves dos Anjos, 37 anni, venne uccisa dal marito. Luiza Trajano registrò un video in cui denunciava il fatto e annunciava la creazione di “Canal Mulher”, una linea telefonica gratuita a disposizione delle dipendenti per incoraggiarle a non tacere di fronte alla violenza. L’azienda ricevette, da subito, decine di chiamate e da lì in poi ampliò il suo programma di prevenzione e aiuto. Sono poche le aziende che hanno una linea diretta di questo tipo e quelle che ce l’hanno solitamente indirizzano le persone ai servizi sociali o ad altre strutture già esistenti. Il modello di Magalu era già allora diverso, come dimostra la storia della prima dipendente a cercare aiuto tramite “Canal Mulher” (la sua identità non è nota, perché la donna ha voluto rimanere anonima). Dopo quasi dieci anni di molestie, minacce e percosse da parte del marito, la donna trovò il coraggio di parlare rivolgendosi direttamente all’azienda. Dopo aver appreso del suo caso, Magalu si mobilitò molto velocemente aiutandola a trovare un nuovo appartamento a San Paolo in modo da potersi allontanare dal marito. Si occupò dei pagamenti dell’affitto e fece da garante per il contratto. Le fornì inoltre aiuto psicologico e legale. «Per la prima volta ho sentito che non ero da sola, che avrei ricevuto un aiuto per l’intero processo di liberazione da un marito violento», ha raccontato. La donna è stata la prima di quasi 700 dipendenti che negli ultimi quattro anni sono state aiutate da Magalu a uscire da relazioni abusive, attraverso un sostegno legale, finanziario, emotivo, oltre che da un punto di vista pratico: occupandosi di trovare loro una nuova casa, assistendole con il trasloco o trasferendole lontano in altri negozi del paese. Oggi a coordinare questo programma c’è un gruppo composto da specialisti: psicologi, assistenti sociali e altri professionisti. «Una volta che mio marito ha saputo che Magalu stava intervenendo, ha capito che non poteva competere con un’azienda del genere, e questo ha giocato un ruolo importante nel suo fare un passo indietro», ha raccontato la donna: «Tutto l’appoggio e le informazioni che ho ricevuto mi hanno impedito di diventare un numero nelle statistiche dei femminicidi». In Brasile, in media, più di 500 donne sono vittime di aggressioni ogni ora e ogni 11 minuti una donna viene stuprata. Magalu ha anche stabilito delle quote lavorative riservate alle donne maltrattate, sulla base della consapevolezza che avere un lavoro ed essere indipendenti è il primo passo per lasciare una situazione di violenza domestica. La società ha inoltre creato delle campagne di vendita per raccogliere fondi a favore delle organizzazioni non governative che sostengono le donne. Il programma di Magalu che più di recente ha attirato l’attenzione dei giornali internazionali ha a che fare con i corsi di formazione per alti dirigenti riservati solo a persone nere. La scelta ha causato molte critiche e accuse di discriminazione al contrario, e un deputato vicino a Jair Bolsonaro ha chiesto ai pubblici ministeri di avviare un’indagine sulla società, sostenendo che il programma violasse la Costituzione. Trajano ha difeso la sua decisione definendola necessaria per colmare un divario storico: «Al di là degli aspetti economici e sociali, la schiavitù ha lasciato un segno emotivo molto forte, creando una società di colonizzatori e colonizzati. Molte persone non hanno mai sentito che questo è il loro paese». Nonostante le critiche ricevute, Magalu è dunque andata avanti con il suo programma e altre aziende ne hanno seguito l’esempio: «Si può parlare di meritocrazia solo quando ci sono opportunità per tutti», ha detto Trajano. Trajano è comunque andata ben oltre i limiti della sua azienda, discutendo regolarmente su questioni come la razza, la disuguaglianza, la violenza contro le donne e le carenze del sistema politico brasiliano. Diversi partiti le hanno chiesto di entrare in politica e di essere coinvolta nella campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. «In un mondo in cui i miliardari bruciano le loro fortune in avventure spaziali e yacht, Luiza si è dedicata a un diverso tipo di odissea», ha scritto lo scorso settembre l’ex presidente di sinistra Luiz Inácio Lula da Silva: «Ha accettato la sfida di costruire un gigante commerciale mentre costruiva un Brasile migliore». Ci sono molte speculazioni sul fatto che Trajano possa essere coinvolta nella campagna elettorale di Lula, che ha deciso di candidarsi e che per ora è anche il favorito. Trajano ha però negato: «Credo nella trasformazione del paese attraverso una società civile organizzata e determinata». – Leggi anche: Il ritorno di Lula L’attuale presidente populista e di destra Jair Bolsonaro considera Trajano una minaccia per la sua rielezione. A novembre aveva commentato con una certa soddisfazione il fatto che il prezzo delle azioni della società fosse diminuito negli ultimi mesi e aveva definito Trajano, in modo spregiativo, una “socialista”. Lei aveva risposto di non sentirsi particolarmente offesa, dall’etichetta che le era stata data: «Penso che la disuguaglianza sociale debba essere affrontata. Se questo significa essere una socialista, allora sono una socialista». Trajano non si è mai pronunciata in modo esplicito a favore di un candidato o dell’altro, non lasciando comunque molti dubbi sulle sue preferenze. Quando Bolsonaro si presentò alle elezioni del 2018 ispirandosi esplicitamente a Donald Trump, usando nazionalismo, populismo, maschilismo e notizie false per aumentare il proprio consenso, lei disse: «Non ci piace nessun discorso, di un politico o meno, che degradi la diversità razziale o di genere, e che offenda le donne». Nel 2013 Trajano ha fondato “Mulheres do Brasil”, un gruppo che ha l’obiettivo di promuovere la parità di genere e di aumentare la percentuale di donne nei consigli di amministrazione delle società brasiliane, che attualmente è pari al 7 per cento (in siamo intorno al 30 per cento). Il suo ultimo impegno riguarda la campagna vaccinale. All’inizio del 2021, mentre il governo brasiliano era coinvolto in una serie di casi di corruzione legati all’acquisto dei vaccini e Bolsonaro diffondeva dubbi sulla loro efficacia, Trajano ha mobilitato la sua rete di donne per fare pressione sul governo e avviare un’iniziativa per raccogliere fondi e contribuire ad accelerare la campagna vaccinale.
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Niente giustifichi un femminicidio. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha voluto commentare, sul suo profilo Facebook le ultime sentenze riguardanti casi di violenza sulle donne, spesso culminate nella morte delle vittime. " Nessuna reazione emotiva, nessun sentimento, pur intenso, può giusticiare o attenuare la gravità di un femminicidio ", scrive il capo dell'esecutivo giallo-verde. Che ha aggiunto: " Le sentenze dei giudici si possono discutere. Anzi, in tutte le democrazie avanzate il dibattito pubblico si nutre anche di questa discussione. L'importante è il rispetto dei ruoli e, in particolare, la tutela dell'autonomia della magistratura ". " Negli ultimi giorni ", ha continuato Conte, " sui giornali, abbiamo letto di sentenze per episodi di femminicidio, nelle quali è stata tirata in ballo una presunta reazione 'emotiva' e la relativa intensità, ai fini di un'attenuazione della pena. Si è fatto riferimento a una 'tempesta emotiva', a un sentimento 'molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile'. In realtà, per cogliere appieno e criticare il significato di una sentenza occorrerebbe una specifica competenza tecnica. Ma vi è un aspetto di più ampia portata culturale, che riguarda il dibattitgo pubblico e su cui la forza politica può e anzi deve legittimamente intervenire ".
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