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@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Pluto (mitologia).\n### Descrizione: Pluto, la cui etimologia deriva dal greco antico Πλοῦτος?, Plū̀tos ('ricco'), è una figura della mitologia greca, dio della ricchezza, il cui culto, di carattere agrario, aveva come sede principale l'isola di Samotracia.\n\nOrigini.\nEra figlio di Demetra e Iasione, nipote di Dardano fondatore di Troia.\nLa sua figura, dapprima legata alla prosperità dei campi, si estese ad ogni forma di benessere, accrescendo il suo valore augurale. Quale dio agrario, era legato alle ricchezze minerarie e al sottosuolo in generale, quindi spesso confuso e identificato con Plutone (divinità degli inferi corrispondente ad Ade), in particolar modo col diffondersi dei Misteri Eleusini.\nGià presso i romani si trovano ben pochi riferimenti diretti a Pluto, perlopiù identificandolo con Dite, anch'esso poi confluito in Plutone.\n\nPluto nella Teogonia di Esiodo.\nPluto, quale Dio dell'abbondanza, appare nella Teogonia di Esiodo come figlio di Demetra e Giasione:.\n\nL'unione di Demetra e Giasione è descritta anche nell'Odissea.\n\nPluto nella commedia di Aristofane.\nA lui si intitola una famosa commedia di Aristofane del 388 a.C. ed è incentrata sulla diseguale distribuzione tra gli uomini del denaro, movente principale delle azioni umane.\n\nPluto nella Divina commedia.\nNella Divina Commedia, Dante lo pone come guardiano del IV cerchio dell'Inferno (Canto VII), in cui vengono puniti avari e prodighi. La sua descrizione è molto vaga (non si sa nemmeno se il poeta si confondesse con Plutone), ma gli fa recitare uno dei versi più famosi dell'intero poema: 'Pape Satàn, pape Satàn aleppe'.\n\nIconografia.\nGli antichi lo rappresentavano con una cornucopia per la ricchezza, obeso per l'intrinseca abbondanza, bendato o cieco per l'imparzialità e la casualità nel distribuire le ricchezze, zoppicante per la lentezza dell'accumulo, alato per la rapidità del dispendio.\n\nDivinità greche correlate.\nAde - Dio dei morti e dell'Oltretomba.\nDemetra - Madre di Pluto, Dea del grano e dell'agricoltura.\nRea - Dea impersonificatrice della Terra, madre di Demetra.\n\nDivinità latine correlate.\nPlutone - Signore dell'Averno.\nDis Pater - antico e benevolo Dio romano della ricchezza agraria.\nOrco - antico ed oscuro Dio romano del sottosuolo.
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### Titolo: Podalirio.\n### Descrizione: Podalirio (in greco antico: Ποδαλείριος?, Podalèirios) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Asclepio ed Epione. Celebre medico imparò le sue arti guaritrici dal padre e dal maestro Chirone.\nEra tra i pretendenti di Elena.\nCoinvolto nella guerra di Troia poiché vincolato dal giuramento di Tindaro giunse al porto di Aulide insieme al fratello Macaone, portando con sé trenta navi.\n\nMitologia.\nGiunto a Troia si distinse tra le file achee come brillante medico liberando i Greci da una violenta epidemia sotto le mura della città ed insieme al fratello curò l'ulcera di Filottete, portato via dal suo isolamento nell'isola di Lesbo.\nMacaone veniva considerato un chirurgo mentre lui un medico generico.\nPodalirio vendicò la morte di Macaone uccidendo l'amazzone che l'aveva trafitto anche se secondo la tradizione più accreditata fu invece Euripilo figlio di Telefo ad uccidere Macaone e quest'ultimo venne poi ucciso a sua volta da Neottolemo.\nDopo la guerra Podalirio si stabilì in Caria, perché un oracolo (si presume l'oracolo di Delfi) gli aveva predetto di stabilirsi in un paese dove il cielo cade sulla terra ed in Caria ci sono montagne così alte che sembrano sostenere il cielo.\nQui, il re Dameto lo accolse felice in quanto aveva una figlia malata di un male che pareva incurabile ma il giovane riuscì facilmente a guarirla e Dameto in segno di riconoscenza gli diede in moglie la figlia Sirna, dalla quale denominò la città che fondò nella regione, Sirno.\nI nomi di Podalirio e di suo fratello Macaone sono stati attribuiti da Linneo a due specie di farfalle: Iphiclides podalirius e Papilio machaon.
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### Titolo: Poema a fumetti.\n### Descrizione: Poema a fumetti è un romanzo a fumetti dello scrittore e pittore italiano Dino Buzzati edito nel 1969; l'opera sperimentale è considerata uno dei primi graphic novel mai pubblicati.L'opera ripropone i classici temi buzzatiani del mistero, della poesia, dell'erotismo, della melanconia e le riflessioni sulla vita rielaborando in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice.\n\nStoria editoriale.\nDino Buzzati era un artista poliedrico e il suo approccio al mondo dei fumetti, e prima a ancora a quello dell'illustrazione, è ben documentato; la moglie, Almerina Antoniazzi, ricordava che il marito era solito leggere Diabolik e lo stesso artista dichiarava la sua incondizionata stima nei confronti degli eroi disneyani, in particolare di Paperino e di Paperon de' Paperoni, affermando: 'La loro statura, umanamente parlando, non mi sembra inferiore a quella dei famosi personaggi di Molière, o di Goldoni, o di Balzac, o di Dickens.'L'idea di realizzare un romanzo a fumetti traspare da una lettera dell'autore del novembre 1965 indirizzata a Vittorio Sereni, l'allora direttore letterario della Mondadori, nella quale Buzzati anticipa il progetto, ispirato al mito di Orfeo ed Euridice, basato sulla rielaborazione grafica di fotografie, pitture e altro materiale iconografico appositamente raccolto. Il progetto, inizialmente, non accoglie lo sperato consenso presso la casa editrice e Buzzati, seppure continui a lavorare al romanzo a fumetti, decide di non insistere a volerlo pubblicare e affida il manoscritto nelle mani della moglie, con la raccomandazione di non pubblicarlo per almeno vent'anni. La moglie di Buzzati, invece, convinta della bontà dell'opera, inizialmente intitolata La cara morte, insiste presso Mondadori affinché la pubblichi; ciò avviene nel 1969 ma l'editore volle un titolo meno 'lugubre' e convinse lo stesso Buzzati a modificarlo in Poema a fumetti. Mentre la critica si divise in merito, ritenendo alcuni critici, uno fra tutti Indro Montanelli, i disegni troppo licenziosi, al contrario il pubblico accolse subito positivamente quest'esperimento espressivo, considerato oggi uno dei primi graphic novel (romanzi grafici) mai realizzati.\n\nTrama.\nLa trama ricalca quella del mito ma in chiave moderna: Orfi è un cantautore rock che suscita l'entusiasmo dei giovani frequentatori del locale milanese 'Polypus'. Una sera, casualmente, vede l'amata Eura Storm attraversare una misteriosa porta, ubicata nell'inesistente via Saterna, della centrale Milano. Il giorno dopo assiste a una lunga parata di carri funebri e da un misterioso uomo verde riceve la tremenda notizia della morte della fidanzata; Orfi non si dà pace e quella sera, recatosi a via Saterna, trova la porta serrata, presidiata dallo stesso uomo verde che aveva conosciuto la mattina. A nulla valgono i tentativi di aprire la porta, fino a quando Orfi non si mette a cantare. La porta si apre finalmente e il giovane, scendendo una buia scalinata, si trova in un giardino in cui avvenenti ragazze lo dissuadono dal continuare la ricerca di Eura, proponendosi in cambio. In particolare la bella Trudi lo porta al cospetto di un diavolo che assume le sembianze di un cappotto. Il 'Diavolo custode' spiega che l'aldilà è pieno di anime il cui maggiore rammarico è di non poter più aspirare a morire ancora e quindi di essere costrette a vivere in eterno.Orfi convince il Diavolo custode, con le sue canzoni, a farsi concedere un giorno intero per cercare Eura. La lunga ricerca dà finalmente i suoi frutti: i due giovani si ricongiungono ma il tempo sta per terminare e i due devono varcare la soglia per tornare alla vita prima che le ventiquattr'ore siano trascorse. Eura non è convinta di poter tornare in vita ma il giovane insiste; il tempo però non è sufficiente e solo Orfi ritorna alla luce mentre Eura rimane nell'aldilà. Dietro la porta c'è l'uomo verde che tenta di convincere Orfi che l'avventura sotterranea altro non era che un sogno. Orfi, però, ha la prova che l'incontro con Eura era reale: nella sua mano è rimasto l'anello della giovane, sfilatosi durante un ultimo abbraccio prima della separazione.Il titolo originariamente pensato (La cara morte) era stato scelto a sintetizzare il tema centrale dell'opera, ossia la tristezza dei defunti e il loro unico rimpianto: il non poter più ambire alla morte.\n\nTemi e influenze.\nLe 208 tavole a colori, copertina inclusa, del Poema a fumetti sono una serie di dichiarate citazioni ad artisti le cui esatte opere, fonte di ispirazione e rielaborazione di Buzzati, sono oggetto di costante ricerca da parte degli appassionati: le tavole anatomiche di Waldemar Weiman e Otto Prokop tratte dal loro Atlante di medicina legale, le foto dell'indossatrice Runa Pfeiffer (ispirazione per il personaggio di Trudi), il progetto della Torre Velasca di Milano dello Studio BBPR, Salvador Dalí e il suo Telefono aragosta, la stripper Mademoiselle Féline, ritratta nel libro Métaphysique du strip-tease dal fotografo Irving Klaw e altre foto fetish tratte da riviste da questi pubblicate, il pittore Caspar David Friedrich, l'illustratore Arthur Rackham, il dipinto simbolista Il diavolo mostra al mondo la sua donna di Max Klinger, la celebre scena di Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau, alcune tavole dell'illustratore italiano Achille Beltrame, il disegnatore Wilhelm Busch, le bambole di Hans Bellmer, alcune idee tratte dalla sceneggiatura realizzata con Federico Fellini per il film, mai realizzato, Il viaggio di G. Mastorna.Il poema nel suo ibridismo compositivo riflette anche trame cinematografiche sul mito di Orfeo. Un'influenza si può cogliere nel momento della catabasi di Orfi, precisamente nell'illustrazione della scala. Per l'impostazione essa rievoca la scala nell'Orfeo Negro di Marcel Camus (1958).
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### Titolo: Poiné.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Poiné (in greco antico: Ποινή, Poinḗ), in italiano Poina, Poena o Pena, era il demone delle pene, delle vendette, delle condanne e delle espiazioni, specialmente per omicidi colposi. Nella mitologia romana, corrisponderebbe a Ulzione, dea della vendetta il cui culto era associato a Marte.\n\nEtimologia.\nIl nome viene dal termine poinḗ, che in greco antico significa «pena, multa, penitenza».\nDa questa parola deriva il sostantivo latino poena, da cui derivano pena, cioè «tristezza, dolore, afflizione», penale, come nell'espressione diritto penale («branca del diritto che riguarda l'erogazione di sanzioni»), e il verbo punire in italiano e pain, cioè «dolore», e sub poena, espressione specifica del diritto anglosassone, in inglese.
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### Titolo: Polemos.\n### Descrizione: Polemos (in greco antico: Πόλεμος?), nella mitologia greca, era il demone della guerra - e probabilmente della guerra civile - , padre di Alalà, personificazione del grido di battaglia. Faceva parte del gruppo di entità guerresche che infestavano i campi di battaglia, tra le quali, oltre alla figlia Alala, c'erano il dio della guerra Ares, le Makhai, gli Hysminai, le Androctasie, Enio, Eris e le Chere.\nSecondo alcuni studiosi, Polemos non sarebbe un'entità a sé stante, ma si tratterebbe di uno degli epiteti di Ares.\nDa polemos deriva la parola italiana 'polemica'.\n\nVoci correlate.\nDivinità della guerra.\n\nCollegamenti esterni.\n(EN) Polemos in Theoi.com, su theoi.com.\nPolemos in Disinformazione.it, su disinformazione.it.
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### Titolo: Polibo di Corinto.\n### Descrizione: Pólibo (in greco antico: Πόλυβoς?, Pόlybos), re di Corinto, è una figura della mitologia greca.\nSposò Peribea. Secondo la leggenda, un giorno un servitore gli portò un bambino che aveva trovato legato nel bosco. A causa dei legacci, i piedi del bambino si erano gonfiati; per questo Polibo gli diede il nome di Edipo, che in greco antico voleva dire colui che ha i piedi gonfi. Il re e sua moglie lo allevarono come un figlio.\nNella sua opera Storie d'amore (Erotika Pathémata), Partenio di Nicea racconta le vicende della figlia di Polibo, Alcinoe.
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### Titolo: Polidamante.\n### Descrizione: Polidamante (in greco antico: Πολυδάμας -αντος?, Poludámas -antos) è un personaggio della mitologia greca. Fu un indovino, consigliere e valoroso guerriero che combatté nella guerra di Troia.\n\nGenealogia.\nFiglio di Pantoo e di Frontide o di Pronoe (o Pronome), fu padre di Leocrito.\n\nMitologia.\nPolidamante fu un indovino troiano, amico e luogotenente di Ettore nella guerra di Troia, le cui gesta sono narrate soprattutto nell'Iliade.\nSi dimostrò un valoroso guerriero uccidendo numerosi greci come Protoenore, Mecisteo, Oto,Eurimaco. Secondo il libro XVII egli trafisse il capitano Peneleo, trapassandogli la spalla con la lancia: Peneleo sopravvisse, benché rimasto seriamente ferito. In precedenza, come narrato nel dodicesimo libro dell'Iliade, Polidamante trovò il modo corretto di attraversare il largo e pericoloso fossato che faceva parte della difesa al porto acheo e inoltre interpretò il segno inviato da Zeus (un'aquila vola con un serpente tra gli artigli, ma questo le si ritorce contro e la morde) come un presagio funesto, per cui consigliò a Ettore di non continuare l'assedio.\nL'ultima apparizione di Polidamante nel poema omerico è nel XVIII libro, dove si dice che dopo la morte di Patroclo egli esortò Ettore a non impegnare le truppe troiane nella battaglia presso le navi, non venendo però ascoltato.\nLa morte dell'eroe è descritta dagli autori successivi. Fu ucciso da Aiace Telamonio, con un colpo di lancia che gli trapassò l'inguine.
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### Titolo: Polidamna.\n### Descrizione: Polidamna (Πολύδαμνα) è una figura della mitologia greca.\nMenzionata nell'Odissea di Omero, è la moglie del nobile Tone (Θῶν). Entrambi sono egiziani. Polidamna dette a Elena, moglie di Menelao, il nepente, una droga con 'il potere di spazzare via ogni angoscia e ira e di cancellare ogni ricordo doloroso' che Elena versò nel vino che Telemaco e Menelao stavano bevendo.
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### Titolo: Polifemo (argonauta).\n### Descrizione: Polifemo (in greco antico: Πολύφημος?, Polúphemos) è un personaggio della letteratura greca antica. Compare nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, come partecipe della spedizione argonautica alla ricerca del vello d'oro.\n\nBiografia.\nGioventù.\nNel catalogo degli argonauti, presente nel primo libro del poema: si dice che suo padre è Elato, proveniente da Larissa, località tessala. Da giovane si scontrò gloriosamente contro i centauri, essendo alleato dei Lapiti.\n\nSpedizione argonautica.\nNella spedizione argonautica è però già abbastanza anziano. Egli è il testimone uditivo della scomparsa di Ila, di cui sente il grido disperato in Misia, per poi cercarlo ed avvertire Eracle, che lo sostiene nella ricerca. Durante questa la nave Argo parte e, pur sempre per volere divino, rimane a terra con Eracle e lo scomparso Ila. Successivamente fonda in Misia una città e parte alla ricerca degli Argonauti, per ricongiungersi a loro, ma muore presso il popolo dei Calibi.
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### Titolo: Polifemo.\n### Descrizione: Polifemo (in greco antico: Πολύφημος?, Polýphēmos, letteralmente «che parla molto, chiacchierone» oppure «molto conosciuto»), è un ciclope della mitologia greca citato da vari autori antichi: Omero, Teocrito, Euripide, Ovidio, Virgilio.\n\nNell'Odissea.\nPolifemo è figlio del dio del mare Nettuno e di Toosa, una bellissima ninfa. Ma non assomiglia alla madre. È altissimo, ha il corpo massiccio coperto di peli rossi, i capelli aggrovigliati e un unico occhio in mezzo alla fronte. Appartiene alla famiglia dei Ciclopi, giganti con un occhio solo. Polifemo si nutre con il formaggio che ricava dal latte delle sue pecore. Quando però capitano dalle sue parti degli stranieri, li divora senza pietà.\n\nOmero narra che Ulisse, durante il suo lungo viaggio di ritorno dalla guerra di Troia, sbarcò nella Terra dei Ciclopi. Spinto dalla curiosità, Ulisse raggiunse e visitò la grotta. Curioso di conoscere il padrone di casa di tale rifugio, Ulisse decise di restare in attesa. Al sentire la terra tremare sotto i passi del gigante, l'eroe e i suoi compagni si nascosero, venendo però presto scoperti. Ulisse si fece pertanto avanti, chiedendo ospitalità al ciclope. Polifemo era tuttavia il più grande, il più forte e il più feroce della sua specie e in quanto figlio di Poseidone si vantava di essere più forte persino di Zeus (dimostrando di peccare di hybris). In segno di disprezzo verso la Xenìa, afferrò e divorò quattro compagni del re di Itaca e imprigionò i Greci nella grotta, intenzionato a mangiarli uno per uno.\nIntrappolato con i suoi compagni nella caverna del Ciclope, il cui ingresso era bloccato da un masso enorme, Ulisse escogitò un piano per sfuggire alla prigionia di Polifemo. Come prima mossa, egli offrì del vino dolcissimo e molto forte al Ciclope, per farlo cadere in un sonno profondo. Polifemo gradì così tanto il vino che promise a Ulisse un dono, chiedendogli però il suo nome. Ulisse, astutamente, gli rispose allora di chiamarsi 'Nessuno'. 'E io mangerò per ultimo Nessuno', fu il dono del ciclope.\nDopodiché Polifemo si addormentò profondamente, stordito dal vino. Qui Ulisse mise in atto la seconda parte del suo piano. Egli infatti, insieme ai suoi compagni, aveva preparato un bastone di notevoli dimensioni ricavato da un ulivo che una volta arroventato fu piantato nell'occhio del Ciclope dormiente dai Greci. Polifemo urlò così forte da destare dal sonno i ciclopi suoi fratelli. Essi corsero allora alla porta della sua grotta mentre Ulisse e i suoi compagni si nascondevano vicino al gregge del ciclope Polifemo. I ciclopi chiesero a Polifemo perché avesse urlato così forte e perché stesse invocando aiuto, ed egli rispose loro che 'Nessuno' stava cercando di ucciderlo. I ciclopi, pensandolo ubriaco o in preda al dolore di Zeus, lo lasciarono allora nel suo dolore e gli raccomandarono di pregare aiuto a suo padre. La mattina dopo, mentre Polifemo faceva uscire il suo gregge per liberarlo, giacché lui non sarebbe stato più in grado di guidarlo, Ulisse e i suoi soldati scapparono grazie a un altro abile stratagemma, che faceva parte della terza parte del suo piano. Ognuno di loro si aggrappò infatti al vello del ventre di una pecora per sfuggire al tocco di Polifemo, poiché il Ciclope si era posto davanti alla porta della caverna, tastando ogni pecora in uscita per impedire ai Greci di fuggire. Ulisse, ultimo ad uscire dalla grotta, la fece aggrappato all'ariete più grande, il preferito del Ciclope.\nAccortosi della fuga dei Greci, Polifemo si spinse su un promontorio, dove, alla cieca, iniziò a gettare rocce contro il mare, nel tentativo di affondare la nave. Qui Ulisse commise un errore. All'ennesimo tiro a vuoto del Gigante, Ulisse, ridendo, ebbe a gridare: «Se qualcuno ti chiederà chi ti ha accecato, rispondi che non fu Outis ('Nessuno'), ma Ulisse d'Itaca!», rivelando così il suo vero nome. Polifemo, venuto allora a conoscenza dell'identità del Greco, ebbe a maledirlo, invocando il padre suo Poseidone e pregandolo di non farlo mai ritornare in patria oppure, se scritto nel destino che debba tornare, di far durare il suo viaggio per anni, che perda tutti i compagni e che in patria trovi solo sciagure (che è esattamente quanto capiterà al figlio di Laerte).\n\nNelle opere antiche successive.\nPolifemo è il protagonista dell'unico dramma satiresco a noi pervenuto, Il ciclope, di Euripide, dove viene caratterizzato in modo conforme al poema omerico, esagerando nei caratteri grotteschi e comici che già erano presenti nella Odissea.\nNel III secolo a.C. Teocrito, nell'idillio XI, descrive Polifemo in un modo più amichevole e simpatico, dipingendolo con un carattere gentile, come innamorato non corrisposto di Galatea, per la quale intona un canto pastorale. Da Teocrito e dalla storia di Polifemo e Galatea riprendono lo spunto Metamorfosi di Ovidio, raccontando di Aci, un pastore siciliano innamorato della bella Nereide, ricambiati. Il ciclope Polifemo, che ama anch'egli la ninfa, venuto a sapere della storia, uccide con un grande masso Aci, dal cui sangue nascerà l'omonimo fiume siciliano.\nIl ciclope fa, poi, una brevissima apparizione nel terzo libro dell'Eneide. Enea e i suoi compagni sbarcano nell'isola dei ciclopi, dove sulla riva incontrano Achemenide, un compagno di Ulisse che non era riuscito a fuggire con lui; i Troiani fanno salire quindi Achemenide a bordo della loro flotta, proprio mentre Polifemo avverte la loro presenza.\n\nLocalizzazione del paese dei Ciclopi.\nSin dall'antichità, i Greci situavano il paese dei Ciclopi in Sicilia, ai piedi dell'Etna, così come del resto attesta lo stesso Tucidide: «La più antica popolazione che la tradizione riconosce come aver vissuto una parte della Sicilia sono i Ciclopi». In effetti lo storico non fece altro che riprendere le conoscenze diffuse dai navigatori greci sin dai tempi delle prime spedizioni coloniali nell'VIII secolo a.C., conoscenze che riflettono la loro rappresentazione dei mari e delle terre occidentali.\nDi fronte alla 'terra dei Ciclopi' Ulisse ed i suoi uomini sbarcano su un'isola disabitata ma peraltro ricca di risorse: terre fertili, pascoli per il bestiame, colline per i vigneti, sorgenti di acqua limpida, porto naturale dal facile ancoraggio, senza ormeggio difficoltoso né manovre lunghe e delicate. Tutto questo sviluppo del poema dell'Odissea sembra progettato per suggerire come l'isola offra ogni possibile vantaggio per mercanti in cerca di approdi e punti vendita. Ellenisti e studiosi hanno dunque cercato di individuare quale fosse effettivamente il paese dei Ciclopi.\n\nI nomi che appaiono su tutte le carte marine ed i dati di navigazione situano il paese dei Ciclopi alle pendici dell'Etna, di fronte ai Faraglioni dei Ciclopi presso Aci Trezza. Molti studi permettono di assimilare il ciclope Polifemo ad un vulcano dall'unico cratere tondeggiante, l'Etna: del resto, come il vulcano, Polifemo sprofonda nel sonno dopo un'eruzione e nei suoi terribili risvegli erutta e scaglia lontano massi e rocce.\n\nA sua volta Victor Berard, basandosi su una breve indicazione di Tucidide, situa la terra dei Ciclopi lievemente a nord di Napoli, laddove si trova l'isola di Nisida e, fra le scogliere di Posillipo, molte grotte servirono come abitazioni rupestri sino al ventesimo secolo. Una di queste grotte, particolarmente grande, erroneamente chiamata Grotta di Seiano, potrebbe essere, secondo l'ellenista, la grotta di Polifemo.\nInfine, fra le varie ipotesi, Ernie Bradford opta per l'arcipelago delle Egadi, composto da Marettimo, Favignana e Levanzo; su quest'ultima isola si trova la Grotta dei Genovesi, abitata sin dal Paleolitico e dal Neolitico. L'isola montagnosa di Marettimo in particolare, costellata di grotte, ha un aspetto piuttosto impressionante. Dinnanzi, sulla costa della Sicilia, le rovine dell'antica città di Erice attestano peraltro una presenza greca molto antica.\nNessuna di queste tre differenti ipotesi si è tuttora affermata definitivamente. Vi sono però dei dati certi: dei navigatori Greci provenienti da Eubea, Calcide ed Aulide in Beozia dall'VIII secolo a.C. promuovono spedizioni coloniali verso le terre d'Occidente ed arricchiscono il mito arcaico tramite le proprie effettive esperienze marittime; nel suo racconto, l'autore dell'Odissea arricchisce questa materia tramite una forma epica. Nella vicenda di Ulisse in quanto navigatore e del ciclope Polifemo in quanto luogo e popolazione locale si ritrova dunque una rappresentazione del mondo Mediterraneo e dei suoi confini, limiti e rischi, quali i Greci conoscevano nei secoli VII secolo a.C. e VI secolo a.C..\n\nInfluenza culturale.\nA Polifemo è intitolato il cratere Polifemo su Teti.\nIl ciclope compare in Il mare dei mostri, secondo libro della saga Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo di Rick Riordan, del quale è l'antagonista principale, avendo catturato il satiro Grover, migliore amico del protagonista Percy.
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### Titolo: Poliido.\n### Descrizione: Poliido (in greco antico Πολύειδος, 'che vede molte cose') o Polido è un personaggio della mitologia greca e fu un celebre indovino della mitologia greca. Divenuto famoso per il mito che lo vede protagonista della resurrezione di Glauco.\nLe sue origini sono avvolte dal mistero, infatti esistono due diverse possibili ascendenze per lui.\n\nGenealogia.\nPoliido era discendente di Melampo, un altro veggente di grande fama e dato che quest'ultimo era padre di Abante e Mantio, diverse fonti dicono che Cerano era il padre di Poliido e quindi uno di questi due era suo nonno. Secondo uno scoliaste di Omero Iliade, Poliido aveva due figli, Euchenore e Clito, da Euridamia, figlia di Fileo. Pausania, invece, dice che Poliido era padre di Cerano, Mantio (che presero parte alla guerra di Troia, nonostante le tetre predizioni che il padre rivolgeva al primo di questi) e Asticrateia ed inoltre racconta che da suo figlio Cerano aveva avuto un nipote di nome Euchenore. In breve, le due linee alternative sono:.\n\nMelampo – Abante – Cerano – Poliido.\nMelampo – Mantio – Clito – Cerano – Poliido.\n\nIl mito di Poliido e Glauco.\nGlauco, figlio di Minosse, quando era piccolo, mentre cercava di catturare un topo, cadde in una botte di miele e vi morì. Minosse lo cercò invano dappertutto, così alla fine decise di affidarsi alla divinazione dei Cureti. Questi parlarono per enigmi e gli dissero la seguente frase: 'A che cosa rassomiglia il vitello delle mandrie del re, capace di cambiare colore ogni quattro ore, passando attraverso il bianco, il rosso e il nero? Chi saprà paragonare nel modo più esatto questo colore a qualcos'altro, sarà capace di riportarti Glauco ancora vivo!'.\nVennero così radunati al palazzo di Minosse tutti i saggi e gli indovini che ci fossero in circolazione e tra questi vi era Polido, che riuscì nell'intento di paragonare il colore del vitello alla mora del rovo che inizialmente è bianca, poi diventa rossa e infine, quando raggiunge il colmo della maturazione, raggiunge il colore nero. Per questo gli fu ordinato di cercare Glauco.\nL'indovino, siccome poteva contare su alcuni segni divinatori, riuscì a trovare il figlio del re. Minosse, nonostante ciò, non era ancora pienamente soddisfatto e così ordinò a Polido di resuscitare il bambino, rinchiudendolo in un sepolcro (secondo altre versioni in un giardino-prigione) con il cadavere e con la minaccia di non farlo uscire fino a quando non fosse riuscito a ridonargli la vita. Ovviamente l'indovino non aveva idea di come si potesse fare.\nPoliido si disperò per la situazione, inoltre, ad un tratto, vide un serpente avvicinarsi e ciò lo turbò molto e così, temendo che l'animale potesse nuocergli, con una spada che gli aveva lasciato Minosse (secondo altri con un sasso raccolto) e, scagliandolo contro la biscia, la uccise.\nDopo poco un altro serpente arrivò e si accostò a quello morto, lo guardò e se ne andò, per poi fare ritorno con un rametto magico con il quale risuscitò l'altro animale. Allora Poliido, estremamente sorpreso, prese il ramo e poggiandolo su Glauco riuscì a farlo tornare in vita.Secondo un'altra versione del racconto, Glauco fu resuscitato non da Poliido ma da Asclepio.\n\nDopo il ritorno in vita di Glauco.\nL'avventura alla corte di Minosse di Poliido, purtroppo per lui, non finisce qui. Infatti il re nella sua arroganza non volle che partisse nemmeno dopo aver adempito al suo compito e lo trattenne ad Creta cosicché potesse insegnare a Glauco l'arte della divinazione e della predizione del futuro. Dopo aver fatto ciò, gli fu finalmente consentito di allontanarsi dal palazzo di Minosse, ma prima di partire chiese al giovane Glauco di sputargli dentro la bocca: il fanciullo, stupito dalla richiesta, obbedì e di colpo dimenticò tutto quello che gli era stato insegnato dall'indovino.\n\nInterpretazione.\nSecondo alcuni questo mito cela la formula per la fusione del rame, infatti, il vitello è paragonato ad una mora (in greco συκάμινον 'sykàminon'), ma in questo caso si pensa che sia stato usato un gioco di parole proprio perché in greco il termine κάμινος ('kàminos') è usato per indicare il forno del fonditore. Glauco (dal greco Γλαῦκος, 'Glàukos') significa anche verde (dal greco γλαυκός 'glaukòs') e rappresenta simbolicamente la malachite. La botte contenente il miele in cui cade il ragazzo è il crogiolo. La giovenca dei tre diversi colori è il mantice composto dal cuoio che permette di dare le tre varie colorazioni al forno: il nero per l'arrostimento, il bianco per la fusione e il rosso per l'affinazione. Anche il ramo magico ha un significato importante, infatti rappresenta l'usanza dei fonditori di ridurre gli ultimi ossidi del metallo in fusione mescolando con un bastone di legno appena intagliato. Tutta la misteriosità del procedimento consiste nel trasformare una pietra verde (la malachite) in un metallo rosso 'vivo'.\n\nOmonimi.\nPoliido era anche il nome di un guerriero troiano, figlio di Euridamante e fratello di Abante. I due fratelli vennero uccisi in combattimento da Diomede durante la guerra di Troia.\nUno dei Proci che insidiano Penelope durante l'assenza di Ulisse si chiamava Poliido.
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### Titolo: Polimestore.\n### Descrizione: Nella mitologia greca Polimestore, detto anche Poli(m)nestore (dal greco Πολυμήστωρ, latinizzato in Polymnestor), era il nome di uno dei re del Chersoneso di Tracia.\n\nIl mito.\nPolimestore si imparentò con Priamo, il re di Troia, sposando Iliona, una sua parente (figlia o cognata a seconda delle fonti). Il re troiano affidò a Polimestore uno dei suoi figli, Polidoro, affinché lo proteggesse durante la guerra di Troia. Agamennone, prima che la guerra iniziasse, cercò di corromperlo e di farlo schierare dalla propria parte, offrendogli oro e sua figlia, la bella Elettra, per moglie. Secondo la versione più comune, il re riuscì a fare uccidere Polidoro. In altri autori uccise per sbaglio il suo amato figlio, Deipilo, al posto del principe troiano: quando poi questi comprese la realtà delle cose prima rese cieco il traditore e poi lo uccise.\nIn realtà altri miti raccontano che sia stata Iliona stessa ad uccidere Polimestore, da sola o insieme a Ecuba.\n\nFonti.\nIgino, Fabulae 109,240.\nAnna Ferrari, Dizionario di mitologia, Litopres, UTET, 2006, ISBN 88-02-07481-X.\n\nVoci correlate.\nAgamennone.\nIliona.\nPolidoro (figlio di Ecuba).\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Polimestore.
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### Titolo: Polinice.\n### Descrizione: Polinice (in greco antico: Πολυνείκης?, Polynèikēs) è un personaggio della mitologia greca (parte integrante del ciclo tebano), figlio di Edipo e di Giocasta, fratello di Eteocle, Antigone, Ismene e padre di Tersandro, Adrasto e Timea.\n\nLa cacciata di Edipo e la diarchia.\nNel dodicesimo anno in cui Edipo regnava su Tebe, una virulenta pestilenza colpì la città: interrogando l'indovino Tiresia, Edipo scoprì che la città era contaminata da un μίασμα (mìasma, in greco, 'contaminazione') inviato dal dio Apollo, e che questi non l'avrebbe richiamato fino a che non fosse stato scoperto e punito l'assassino di Laio, predecessore di Edipo sul trono. L'indagine portò a un risultato agghiacciante: Edipo scoprì di essere il figlio di Laio e Giocasta, di aver ucciso inconsapevolmente suo padre per una lite a un crocicchio, ed essendo divenuto re al suo posto, dopo aver sconfitto la Sfinge, di aver sposato e aver giaciuto con sua madre Giocasta. Sconvolto per il parricidio e l'incesto, Edipo si cavò gli occhi e, per allontanare la pestilenza, fu bandito ed esiliato dalla città; sulla porta cittadina, pressato dalla folla, avrebbe scagliato maledizioni sugli dèi, su Creonte e in particolare sui suoi figli, 'augurando' loro di uccidersi vicendevolmente. Secondo una variante del mito Edipo non avrebbe abbandonato Tebe dopo essersi accecato, ma si sarebbe rinchiuso in una delle camere più remote del palazzo. Giocasta, invece, disgustata dalla relazione avuta con il figlio e omicida del precedente marito, si impiccò.\nIl regno, dunque, fu gestito da Creonte, il fratello di Giocasta, per un breve periodo d'interregno. Una volta raggiunta l'età per regnare, Eteocle e Polinice, essendo gemelli e non potendo vantare un diritto certo sul trono, si accordarono per istituire una forma di diarchia, regnando insieme, a turno, un anno alla volta. Fu estratto a sorte chi avrebbe iniziato per primo: Eteocle.\n\nEsilio di Polinice ad Argo.\nE la spartizione avrebbe funzionato, se, nel momento in cui Polinice doveva salire al trono, Eteocle non l'avesse fatto imprigionare e allontanare dalla città, tacciandolo d'incompetenza e malvagità ed escludendolo dalla successione al trono.\nIniziò così l'esilio di Polinice, che allontanandosi dalla Beozia raggiunse il Peloponneso e quindi la rocca di Argo, dove regnava Adrasto. Qui era radunato uno stuolo di pretendenti che si contendeva le figlie di Adrasto, Argia (o Egia) e Deipile; per non farsi nemici potenti, Adrasto aveva domandato alla Pizia di Delfi quale pretendente dovesse scegliere, ottenendo questa risposta:.\n'Aggioga a un carro a due ruote il cinghiale e il leone che combattono nel tuo palazzo.' Essendo un leone l'emblema di Tebe e un cinghiale quello di Calidone, da cui proveniva un altro principe esiliato, Tideo, quando Adrasto vide i due principi litigare e giungere quasi ad uccidersi per motivi futili, memore della profezia assegnò Egia a Polinice e diede Deipile a Tideo. Non solo: promise ai due principi di restaurare il potere che era stato loro usurpato.\n\nLa guerra contro Tebe.\nRiunì dunque i capi argivi: Capaneo, Ippomedonte, il veggente Anfiarao, l'arcade Partenopeo; pose se stesso e il genero Polinice al comando.\nMarciarono verso Tebe, nonostante le resistenze di Anfiarao, il quale aveva previsto che quella spedizione non avrebbe portato nulla di buono ai suoi comandanti; fu convinto da sua moglie Erifile, sorella di Adrasto, corrotta da Polinice con il dono della collana magica di Afrodite, che si diceva capace di conservare l'eterna bellezza, e che la dea aveva in passato donato all'ava tebana Armonia.\nAttestatisi gli argivi sul monte Citerone, Adrasto inviò Tideo come messo a Eteocle, affinché questi rinunciasse al trono in favore di Polinice. Vedendo la richiesta respinta, Tideo sfidò a duello tutti i capi tebani, li sconfisse uno dopo l'altro incutendo in essi un forte timore. Vedendo fallire le vie diplomatiche, l'esercito di Adrasto e Polinice si dispose ad attaccare la città: un campione per ciascuna delle sette porte di Tebe.\nTiresia, consultato dai tebani, garantì che i tebani sarebbero stati vittoriosi se un principe di sangue reale si fosse volontariamente offerto in sacrificio ad Ares; si dice allora che Meneceo, uno dei figli di Creonte, si uccise davanti alle porte. La profezia di Tiresia si rivelò veritiera: pur essendo i tebani sconfitti in una scaramuccia e respinti in città, nel momento in cui Capaneo appoggiò una scala alle mura e cominciò a salirvi, gloriandosi della propria forza, fu abbattuto da un fulmine inviato da Zeus. I tebani ripresero vigore, si scagliarono fuori dalle porte uccidendo altri tre dei sette eroi; il tebano Melanippo ferì al ventre Tideo; Atena, profondamente affezionata al suo protetto, si affrettò a ottenere da Zeus un miracoloso filtro che gli avrebbe consentito immediatamente di riprendersi: ma Anfiarao, che odiava Tideo per l'impegno con cui aveva spinto a favore di questa spedizione, uccise Melanippo staccandogli la testa, che offrì astutamente all'alleato comandandogli di spaccarne il cranio e inghiottirne le cervella. Tideo obbedì e Atena, disgustata, rovesciò a terra il filtro e fuggì via.\nSolo Anfiarao, Adrasto e Polinice restavano in vita: proprio il principe tebano si offrì di stabilire la successione al trono in duello con il fratello, che accettò la sfida. Nel corso di un'aspra battaglia, i due contendenti si uccisero a vicenda. Creonte, il loro zio, assunse la reggenza e si scagliò con l'esercito contro i nemici, ormai demotivati e demoralizzati. Anfiarao, che fuggiva con un cocchio lungo le rive del fiume Ismeno, fu inghiottito da un buco scavato nel terreno da una folgore divina, e divenne uno dei sovrani del regno dei morti.\n\nI cadaveri insepolti: l'eroismo di Antigone, l'astuzia di Teseo.\nPolinice, dichiarato nemico della patria, doveva restare, per ordine di Creonte, insepolto, alla mercé di vermi e animali; Antigone, impietosita dalla sorte dell'amato fratello, disobbedì, accingendosi a salutarlo con una sepoltura simbolica (secondo altre versioni, invece, allestendo una pira e cremando il cadavere). Arrestata dalle guardie, ammise di fronte allo zio le proprie responsabilità, richiamandosi alle 'norme non scritte degli dèi', che prevalgono sempre su quelle poste dagli uomini. Condannata a essere sotterrata viva, l'adolescente Antigone non resse di fronte alla sua sventura, e s'impiccò; il suo promesso sposo, Emone, che aveva tanto insistito perché venisse graziata e aveva infine ottenuto di andare a liberarla, la scoprì suicida e si tolse a sua volta la vita.\nAdrasto era sfuggito dalla disfatta in sella al suo cavallo alato, Arione. Quando scoprì che, per editto di Creonte, vigeva il divieto di dar sepoltura ai corpi dei nemici, si recò ad Atene e impetrò da Teseo che marciasse contro Tebe e punisse l'empietà del nuovo tiranno. Teseo lo fece immediatamente, attaccò la città di sorpresa, fece prigioniero Creonte e affidò i cadaveri insepolti al rogo funebre. Evadne, moglie di Capaneo, si gettò sul rogo comune e arse viva, per giacere vicino al luogo in cui era stato fulminato suo marito.\nA distanza di anni, furono i figli degli eroi sconfitti nella prima spedizione a impadronirsi di Tebe (nel corso della spedizione degli Epigoni, vale a dire 'discendenti'), guidata da Tersandro, figlio di Polinice ed Egia, che riconquistò così il trono, riuscendo nell'impresa che il padre aveva fallito.\n\nGenealogia.\nCuriosità.\nBen duecento anni prima che nascesse il detto vittoria di Pirro, per indicare una vittoria pagata a caro prezzo i greci si servivano dell'espressione vittoria cadmea (cfr. Erodoto, Storie I, 166).\nIl suicidio per impiccagione di Giocasta deriva forse da un'immagine trasfigurata nel mito: quella delle mezzelune che i tebani appendevano agli alberi per onorare la dea Selene.
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### Titolo: Polipete.\n### Descrizione: Polipete (in greco antico: Πολυποίτης?, Polypoítēs) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Piritoo e di Ippodamia, re dell'antica città di Ghirtòne in Tessaglia.\n\nMitologia.\nFu fra i pretendenti di Elena e partecipò alla guerra di Troia con 40 navi da Argisa, dove uccise alcuni guerrieri troiani minori come Pilone, Astialo ed Ormeno, ma soprattutto il giovane e valoroso eroe Damaso:.\n\nPolipete fu tra coloro che entrarono nel Cavallo di Troia. Dopo la presa di Troia, egli seguì Calcante, che non salpò con gli altri eroi greci bensì preferì viaggiare a piedi, prevedendo un ritorno a casa difficile per causa dell'ira di Atena. Arrivò così a Colofone, dove, assieme al compagno lapita Leonteo, seppellì Calcante, morto di crepacuore dopo una sfida con Mopso l'indovino. Al seguito di Mopso quindi, Polipete e Leonteo fondarono la città di Aspendo, nella regione della Panfilia.
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### Titolo: Polissena.\n### Descrizione: Polissena (in greco: Πολυξένη) è una delle figlie di Priamo e di Ecuba, principessa troiana di mirabile bellezza. La si ritiene responsabile della vaticinata e precoce uccisione di Achille, eroe mitico di proverbiale coraggio. Figura assente nell'Iliade, fu sviluppata dai poeti tragici, che ne temperarono la leggenda sino a definirla un personaggio corrispondente a Ifigenia, la fanciulla con la quale condivise la sorte di vittima di un sacrificio umano per la propiziazione del favore degli dèi.\nIl suo mito fu ripreso da Euripide in due fortunate tragedie, Le Troiane e l'Ecuba, nonché nella Polissena di Sofocle, di cui rimangono pochi frammenti.\n\nMito.\nPolissena era la figlia più giovane di Priamo e di Ecuba. Darete Frigio, nella stesura del capitolo in cui esamina i protagonisti del conflitto troiano, ha delineato il ritratto di una giovinetta graziosa, alta, ben proporzionata, che con la sua bellezza superava molte altre donne. I suoi capelli erano sciolti, il collo esile, le gambe aggraziate e le mani sottili, ma la sua indole era ingenua e nascondeva un temperamento da bambina.Polissena era legata da un affetto morboso al bellissimo fratellino Troilo, la cui folgorante avvenenza aveva fatto sorgere dibattiti sulla sua effettiva natura umana. Alcuni autori lo definiscono persino il frutto di un amplesso della regina Ecuba con Apollo, ma in ogni modo l'anziano Priamo lo pose sotto la sua protezione, annoverandolo tra i suoi rampolli favoriti. La figlia di Priamo pare già godesse di liete prospettive di matrimonio, ma solo una di queste sarebbe stata presa in seria considerazione dal padre, quella di Eurimaco, figlio di Antenore, che l'ospitò nella sua dimora in attesa delle regali nozze.Venne l'inverno del decimo anno di guerra e gli eroi greci si imbattevano nei notabili troiani quando si recavano al tempio di Apollo Timbreo, che era territorio neutro; un giorno, mentre Ecuba stava sacrificando al dio, Achille arrivò al tempio con il medesimo proposito e si innamorò perdutamente della stessa Polissena.\nOra, era destino che Troia non potesse cadere se Troilo avesse compiuto venti anni di età. Nei primi nove anni di assedio, Achille tese un agguato al principe troiano per impedire che la profezia si avverasse. Troilo, che era solito riservare ogni sorta di amore ai suoi cavalli, si era recato ad abbeverarne uno con sua sorella Polissena presso una fontana che si trovava vicina al tempio di Apollo Timbreo. Mentre il giovinetto e sua sorella attingevano acqua, Achille, che attendeva nascosto il loro arrivo alla fontana, si precipitò fuori dal suo nascondiglio e assalì Troilo rovesciandolo dal suo cavallo, prendendolo per i capelli. Ma il figlio di Priamo sfuggì all'assalto dell'eroe e riuscì a nascondersi nel santuario di Apollo, trovando asilo sull'altare del dio. Achille, incurante di commettere un sacrilegio in un luogo consacrato al dio, trafisse Troilo con la sua lancia sullo stesso altare e lo decapitò sul posto.\nLa raffigurazione vascolare ha colto Polissena di frequente mentre in piedi e con un'anfora sul capo si reca presso una fontana insieme a Troilo giovinetto, l'uno per abbeverare i cavalli e la stessa per attingere l'acqua.\nUna delle leggende sulla morte di Achille racconta come l'eroe, innamorato della fanciulla, si sarebbe recato al Tempio di Apollo a Timbra per averla in sposa; qui avrebbe trovato la morte per mano delle frecce, forse avvelenate, di Paride.\nIl figlio di Achille, Neottolemo (noto anche come Pirro), immolò sulla sua tomba Polissena per onorare la memoria del padre.\n\nPolissena nelle Arti.\nSebbene non particolarmente frequentata nelle arti e nella letteratura, la vicenda di Polissena ne è rimasta comunque un tema fin dai tempi più antichi.\nGià dal VI secolo a.C. ci sono pervenuti alcuni vasi a figure nere, sicuramente ispirati dai Canti Ciprii, attenti ora ad un particolare ora ad un episodio. Abbiamo Achille in agguato di Troilo mentre Polissena riempie l’anfora d’acqua nella hydria del “Pittore di Londra B 76” al Metropolitan o il dinos del “Pittore dei Cavalieri” al Louvre, oppure i due fratelli che fuggono da Achille nel kylix detto Coppa di Siana del “Pittore C” , o semplicemente Achille che spia Polissena alla fonte nel lekythos del “Pittore di Athena”, ambedue al Louvre, oppure la scena sanguinosa di Neottolemo che sgozza la giovane principessa nell'anfora del British Museum attribuita alternativamente al “Pittore di Timiades” oppure al “Gruppo Tirrenico”. Una rappresentazione del sacrificio estremamente simile a quest'ultima, ma di più raffinata fattura, è scolpita a bassorilievo sul cosiddetto Sarcofago di Polissena del Museo Archeologico di Çanakkale.\nUn centinaio d’anni dopo furono composte le già citate delle tragedie di Euripide e quella perduta di Sofocle. Più o meno contemporaneamente Polignoto di Taso dipinse, fra le altre, la scena di «Polissena, che sta per essere sacrificata vicino alla tomba di Achille» in un edificio dell'Acropoli di Atene.\nDall’epoca romana ci è giunta in primis la scena del sacrificio in un riquadro della Tabula Iliaica Capitolina (I secolo a.C.) cui seguono la tragedia di Seneca Le Troadi e, soprattutto, le Metamorfosi di Ovidio che resteranno una fonte primaria fino ai tempi moderni. Molto interessante è il sarcofago scolpito ad altorilievo con le storie di Achille e Polissena (250 d.c. circa) ora Museo del Prado, proveniente probabilmente da Napoli.\nAgli albori della letteratura italiana la storia di Polissena viene indirettamente citata da Dante nella Divina Commedia, quale causa della morte di Achille, per questo condannato tra i lussuriosi, e come una delle cause della folle disperazione della madre Ecuba, considerata tra i superbi quale rappresentante della sfida troiana ai greci.\n\nPrima di Dante la vicenda era stata ripresa da Guido delle Colonne nella Historia destructionis Troiae. Poi anche Boccaccio ricordò Polissena dedicandole un capitolo delle sue De mulieribus claris ed in un passaggio dei De casibus virorum illustrium dove narra, come già Dante, la disperazione di Ecuba alla morte dei figli. Nelle codici manoscritti delle opere di Guido delle Colonne e Boccaccio ci sono pervenute alcune miniature a rappresentare il Sacrificio di Polissena.\nLa vicenda riscosse una fortuna sempre maggiore tra barocco, classicismo e rococò in Italia e Francia. Per la pittura si possono ricordare tre opere dedicate al Sacrificio di Polissena eseguite da Pietro da Cortona (1623-1624, Musei Capitolini), Giovanni Francesco Romanelli (dopo il 1630) e Charles Le Brun (1647, ambedue al Metropolitan Museum of Art) e quella di Nicolas Prevost al Musée des Beaux-Arts d'Orléans.\nMolto varia è la ripresa nella letteratura a cominciare dal genere epistolare. Pietro Michiel nel suo Dispaccio di Venere (1649) immagina una serie di epistole in versi tra amorosi, una serie di domande e risposte, iniziata nel 1632: nelle epistole III e IV immagina prima le profferte di Achille e quindi la ingannevolmente seducente risposta di Polissena. Più impegnata nei significati è Madeleine de Scudéry nelle sue Les Femmes illustres ou les Harangues héroïques. All’inizio della seconda più estesa edizione (1644) mette la severa lettera di Polissena a Pirro. Qui la giovinetta afferma di preferire la morte che vivere come schiava, che mai ha voluto essere l’amante dell’uccisore dei fratelli Ettore e Troilo e di considerarlo soltanto un nemico. Chiede solo che il suo corpo sia restituito alla madre e di non essere legata in quanto si offre volontariamente alla morte. Alla fine con un moto d’orgoglio rivendica di essere una principessa e ordina a Neottolemo di affondare il pugnale rinfacciandogli d’essere esperto nello spandere sangue reale.Nel teatro abbiamo diversi approcci piegati ad esigenze degli autori. Samuel Coster nel suo dramma letterario Polyxena (1619) si mantiene fedele alle fonti storiche invece Tomas Corneille ne La Mort d’Achille cambia parzialmente il ruolo del personaggio: Polissena è amata da Pirro senza ricambiare ma con una serie di intrighi diplomatici viene promessa sposa ad Achille, alla fine la principessa esce di scena meditando il suicidio mentre Paride uccide Achille.Nelle tragedie liriche venne utilizzata la variante del suicidio di Polissena così fa Jean Galbert de Campistron nel libretto di Achille et Polixène di Lully e Collasse (1687) ripresa da Jean-Louis-Ignace de La Serre nel Polyxène et Pirrhus scritto per Pascal Collasse nel 1706. Anche lo sconosciuto Fermelhuis adotta questa soluzione per l’opera Pyrrhus di Pancrace Royer che sebbene incentrata sulla figura di Polissena evita di citarla nel titolo in quanto l’atto unico Polixéne di Jean Dumas d'Aigueberre, in scena con successo l’anno precedente, era stato troppo presto ripreso in farsa dalla Comédie-Italienne.Le pitture del Sacrificio di Polissena della prima metà del Settecento, pur mantenendo lo stesso impianto teatrale tipico del rococò, restano indecise tra supplizio e suicidio, preferendo mostrare una dignitosa principessa accompagnata davanti all’urna di Achille alla presenza di Pirro. È reso sicuro il supplizio dal carnefice con il coltello sguainato nel dipinto di Sebastiano Ricci (1720/30) ad Hampton Court ma in quello di Giovanni Antonio Pellegrini a Poznan (1730) il finale resta aperto. Giambattista Pittoni, il più prolifico e richiesto in questo soggetto sia negli originali che nelle repliche, presentò soluzioni alterne. Nel grande quadro (1720), distrutto nella seconda guerra mondiale, di Palazzo Caldogno Tecchio a Vicenza mostrava un anziano con un coltello pronto alla mano e Polissena in atteggiamento di abbandono e con le mani legate, nel piccolo quadro dell’Ermitage e nella replica del Getty Museum (1733/34) il carnefice veste un abito sacerdotale e sembra discutere con Pirro se affidare l’arma ad una altezzosa Polissena. In quello della Staatsgalerie di Stoccarda, e nelle repliche della Národní Galerie di Praga e del Walters Art Museum (1735 circa), Polissena attende paziente che i sacerdoti preparino l’incenso mentre in disparte un paggio reca, quasi dissimulato in un piatto, il coltello scarificale. Negli altri dipinti le armi destinate al sacrificio non sono visibili: in quello della Residenza di Würzburg Polissena si offre inginocchiata all’altare sacrificale ed in quello gigantesco di Palazzo Taverna a Roma, come nella più piccola replica del Louvre (1730 circa), si fa dignitosamente accompagnare al sacrificio da Neottolemo. In tutti resta invariabile l’atteggiamento autoritario di Pirro.\nAi primi dell’Ottocento la vicenda viene ancora più rivoluzionata nell’opera Ecuba (1812) di Nicola Manfroce su libretto di Giovanni Schmidt. Polissena si innamora di Achille nonostante la recente morte di Ettore e Priamo accetta che si sposino in cambio della pace sebbene Ecuba cerchi di convincere la figlia ad uccidere l’amato. Durante la cerimonia delle nozze giunge la notizia che i greci hanno invaso Troia e Achille, che tenta invano di convincere tutti di non essere partecipe dell’inganno, viene fatto uccidere da Ecuba. Infine i greci entrano nel tempio, uccidono Priamo e rapiscono Polissena. Ecuba rimane sola a lanciare maledizioni mentre la città viene distrutta.\nIl mito di Polissena continua ad essere un soggetto nelle arti visive romantiche e tardo-romantiche in maniera più limitata e con connotazioni retoriche diverse. Si va dal bel dipinto di Blondel al Lacma con lo svenimento di Ecuba contrapposto all’atteggiamento contrito ma dignitoso di Polissena, al violento contrasto tra Ecuba e Pirro, che ghermisce la principessa, nella scultura (1865) di Pio Fedi nella Loggia dei Lanzi a Firenze. per finire nel gusto simbolistico che ritrae la principessa morta ai piedi dell’urna di Achille nella versione notturna di Joseph Stallaert (1875) al Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa e in quella arcadica di Paul Quinsac (1882 - ubicazione ignota).\nPolissena ritorna marginalmente come uno dei personaggi nella pièce pacifista di Jean Giraudoux La Guerre de Troie n'aura pas lieu. A Polissena è dedicata anche una delle tavole disegnate da Pablo Picasso per illustrare le Metamorfosi di Ovidio (1931, Musée national Picasso).\nUna interpretazione originale del personaggio di Polissena, come prototipo della bellezza indifesa, si trova nel romanzo Cassandra di Christa Wolf. Nell'interpretazione dell'autrice tedesca la ragazza, costretta a cedere al rude Achille per non meglio precisate 'ragioni di stato', trascorre quel che le resta da vivere (prima di essere uccisa da Neottolemo) in una sorta di pazzia che tollera soltanto suoni bassi e luci sfumate.
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### Titolo: Polisso (moglie di Tlepolemo).\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Polisso (in greco antico: Πολυξώ) era la moglie dell'eraclide Tlepolemo, re di Rodi.\n\nMito.\nPolisso era nativa di Argo, e fuggi a Rodi assieme a suo marito, diventandone regina; Tlepolemo morì durante la guerra di Troia, lasciandola vedova. Polisso, considerando Elena responsabile della morte di suo marito, la invitò a Rodi con lo scopo di ucciderla: accoltala con finta gentilezza, successivamente fece travestire alcune sue ancelle da Erinni che, dopo averla prelevata nuda dall'acqua dove era solita fare il bagno, la impiccarono ad un albero.
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### Titolo: Polite (figlio di Priamo).\n### Descrizione: Polite, (in greco Πολίτης, [la pronuncia è polítes], letteralmente 'cittadino') è un personaggio della mitologia greca.\n\nIl mito.\nPolite fu uno dei diciannove figli di Priamo e di Ecuba, citato in diversi passi dell'Iliade. Si racconta che durante la guerra ebbe un figlio, che chiamò Priamo come suo padre. Nei combattimenti che si susseguirono presso Troia nel decimo anno di guerra, aiutò Deifobo, suo fratello, ad abbandonare la battaglia, essendo questi stato ferito da Merione. Durante l'assalto alle navi achee uccise un guerriero acheo, Echio.\nLa morte del principe troiano è narrata da Virgilio nel secondo libro dell'Eneide. Nella notte della presa di Troia, Polite, rimasto ferito, cerca di raggiungere il padre per salvargli la vita, ma inseguito viene ucciso da Neottolemo, figlio di Achille, sotto gli occhi del re.\n\n(Virgilio, Eneide, II, traduzione di Luca Canali).\nSuo figlio Priamo sopravvive invece alla caduta della città: Virgilio cita il fanciullo tra le persone che vengono messe in salvo da Enea e che si uniscono a lui.\n\nNell'arte.\nTra i dipinti dove appare il principe troiano, si ricordano Polite in osservazione di Hyppolite Flandrin e La morte di Priamo di Léon Perrault, nel quale il giovane è appena stato ucciso.\n\nVoci correlate.\nFigli di Priamo.\nPriamo.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Polite.
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### Titolo: Pollon.\n### Descrizione: Pollon (ポロン,?, Poron) è la protagonista del manga omonimo giapponese (intitolato in originale Olympus no Pollon) e dell'anime C'era una volta... Pollon di Azuma Hideo.\n\nBiografia.\nPollon è una semi-dea di circa 6-7 anni con riccioli biondi, vispa, intelligente e curiosa. È l'unica figlia del dio Apollo, che ha messo al mondo con una mortale che l'ha poi lasciato per un tassista, e vuole a tutti i costi diventare una dea a tutti gli effetti. In qualità di figlia di un dio, abita sull'Olimpo e vive storie ispirate a quelle della mitologia greca. Suo compagno di avventure e giochi è Eros, il dio dell'amore (ironicamente racchio considerando la professione e la madre).\nSia nel manga che nell'anime, le sue disavventure relative ai tentativi di diventare dea la vedono co-protagonista di miti pre-esistenti (che crescono di numero nella serie animata) con una certa vena comica e un po' moderna sia nei personaggi che negli eventi, che hanno perlopiù anche un finale meno tetro che nei miti. Tuttavia, entrambi i media culminano in punti diversi.\nNel manga, Pollon è alfine sottoposta a una serie di prove che suo nonno Zeus e gli altri dei le preparano, ma l'ultima sfida (battere Zeus in duello) viene truccata da Apollo, che si sostituisce alla figlia per il timore che ella possa essere ferita dai fulmini. Non appena Zeus lo scopre, lo licenzia (a tempo indeterminato) dal suo ruolo di dio del Sole e nomina Pollon come sostituta.\nNell'anime, a metà della serie Pollon entra in possesso di un fermaglio che la mette in contatto con la 'Dea delle Dee', la quale le conferisce dei poteri magici che userà per aiutare gli altri protagonisti dei miti. Scoperto ciò, Zeus le fa dono di un salvadanaio a forma di trono che cresce ad ogni moneta: quando il trono sarà abbastanza grande da permetterle di sedercisi, Pollon sarà nominata dea. Come ultima prova, Zeus le chiede di sbarazzarsi dell'Idra di Lerna, ma, sebbene Pollon riesca a distruggere il corpo del mostro, le sue teste continuano a seminare zizzania per la Grecia ed è indirizzata dalla Dea delle Dee verso il Vaso di Pandora, dentro il quale dovrà trovare qualcosa che le faciliti la sconfitta dell'Idra, finendo però in questo modo per liberare dei demoni. Sul fondo del vaso trova tuttavia la speranza, che scopre essere la Dea delle Dee in persona, e con il suo potere sbaraglia l'Idra e i mostri del vaso, diventando così la nuova dea della speranza.
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### Titolo: Poltide.\n### Descrizione: Poltide è un personaggio mitico, figlio di Poseidone, che regnò su Eno, in Tracia.\nOffrì generosa ospitalità ad Eracle che, di ritorno dalla sua vittoriosa spedizione contro le Amazzoni, era passato attraverso la Troade. L'eroe fu sul punto di imbarcarsi per riprendere il viaggio, quando fu infastidito da Sarpedonte, insolente fratello di Poltide, che uccise sulla costa trace.\nUn mito racconta che i Troiani si rivolsero a lui in un'ambasciata per richiedere il suo sostegno nella guerra di Troia, in cambio di ricchi doni. Poltide offrì il suo soccorso se Paride avesse acconsentito a donargli Elena, promettendogli di risarcirlo con due belle fanciulle della sua città. Le autorità troiane respinsero naturalmente la condizione e Poltide rifiutò di intervenire in guerra.
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### Titolo: Pomo della discordia.\n### Descrizione: Il pomo della discordia o mela della discordia è, secondo il mito, la mela lanciata da Eris, dea della discordia, sul tavolo dove si stava svolgendo il banchetto in onore del matrimonio di Peleo e Teti che causò una lite tra le dee presenti e che condusse, per una serie di eventi, alla Guerra di Troia.\nIn senso figurato, il pomo della discordia è un oggetto o un fatto che è causa di disaccordo, di contrasto e di lite fra le persone.\n\nIl pomo d'oro.\nLa dea Eris, furiosa per l'esclusione dal banchetto nuziale, per vendicarsi, incise sulla mela d'oro (secondo alcuni presa nel giardino delle Esperidi) la frase 'Alla più bella' e la lanciò non vista, sul tavolo imbandito, causando così una lite furibonda fra Era, regina degli dei, Afrodite, dea della bellezza, e Atena, dea della saggezza.\nLe tre dee andarono da Zeus, ma lui si astenne dal pronunciare il giudizio su chi fosse la più bella, perché avrebbe scatenato le ire delle dee 'perdenti' in eterno. Zeus decise quindi di affidare il compito ad un mortale. Scelse Paride principe di Troia, perché, come avevano testimoniato eventi passati, il giovane era abile e giusto nel giudicare.\nLe tre dee, per ingraziarsene il giudizio, promisero svariate ricompense: Atena lo avrebbe reso sapiente e imbattibile in guerra, consentendogli di superare ogni guerriero; Era promise ricchezza e poteri immensi, tanto che a un suo gesto interi popoli si sarebbero sottomessi, e tanta gloria che il suo nome sarebbe riecheggiato fino alle stelle; Afrodite gli avrebbe concesso l'amore della donna più bella del mondo. Paride scelse come vincitrice Afrodite ed ottenne così l'amore della donna più bella della terra. La dea dell'amore aiutò quindi Paride a rapire Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, e il fatto fu la causa scatenante della guerra di Troia.
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### Titolo: Ponos.\n### Descrizione: Ponos (in greco: Πόνος) era lo spirito del lavoro duro e della fatica. Sua madre era la dea Eris (discordia), che era la figlia di Nyx (notte). Era il fratello di Algos, Lete, Limos, e Horkos.
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### Titolo: Popoli mostruosi.\n### Descrizione: Con il termine popoli mostruosi viene designato un corpus mitologico omogeneo, sviluppatosi esclusivamente nella mitologia occidentale greco-latina e medioevale, che include diversi tipi di popolazioni fantastiche che abitano terre lontane o sconosciute (al lettore e all'autore che li descrive), quelle regioni che le mappe del tempo designano con la nota locuzione latina hic sunt leones.\n\nOgni popolo di questa categoria è caratterizzato da una deformità fisica che è specchio di un comportamento o di comportamenti umani precisi, che vengono enfatizzati e stereotipati in queste creature.\n\nCaratteristiche.\nIn dettaglio, i caratteri omogenei di queste popolazioni sono:.\n\nsono composte da esseri umanoidi con una o più specifiche ed evidenti deformazioni del corpo, che conferiscono il nome proprio alla popolazione stessa. Le deformazioni sono le più varie, dall'assenza di alcuni organi (occhi, naso, bocca, testa, giunture, mani) alla duplicazione o moltiplicazione degli stessi, dall'ipertrofia (torso, piedi, collo, orecchie enormi) all'accostamento di membra di diverse proporzioni (corpo gigantesco e testa minuscola), per terminare con ibridi, comunque sempre umanoidi, che hanno parti del corpo animalesche (teste di cane, di gallo, corna di capra, corpo peloso).\nsono, generalmente, privi di qualità divine o sovrannaturali.\ngli sono attribuiti, generalmente, comportamenti ed emozioni umane negative.\nabitano terre lontane o sconosciute.\nvivono, generalmente, in modo abbrutito, senza creare società o insediamenti più che primitivi.\n\nElenco dei popoli mostruosi.\nPer ogni popolazione viene indicata la mostruosità caratteristica. Nomi diversi affiancati, come per esempio Panozi e Pande indicano il nome più comune e la variante più significativa del mito. I nomi sono italianizzati e si rimanda alle rispettive voci per i termini originali.\n\nAigipani (Pan caprini: corna caprine sulla fronte e zampe di capra).\nAmicteri o Arrini (privi di narici o privi di naso).\nAntipodi o Abarimo (con i piedi rivolti all'indietro).\nArimaspi o Monoculi (con un solo occhio sulla fronte).\nArtabatici (quadrupedi).\nAstomi (privi di bocca).\nBlemmi (privi di testa e con la faccia sul ventre).\nBrachistomi (dalle labbra saldate).\nCiclopi (giganteschi con un solo occhio. Il riferimento è limitato ai ciclopi omerici e ai ciclopi costruttori di Tirinto e Argo, non ai figli di Urano. Si veda anche la voce Arimaspi).\nCinocefali (con la testa di cane).\nFomori (con la testa di capra).\nGegetoni (con corna sulla testa).\nGorgadi o Gorille (col corpo coperto di peli. Generalmente solo popolazioni di sesso femminile).\nImantipodi (hanno le gambe fini e piatte come delle 'strisce di cuoio').\nIppopodi (zoccoli di cavallo al posto dei piedi).\nNuli (piedi dotati di otto dita rivolti all'indietro).\nNāga (uomini serpente).\nNisicaste (tre o quattro occhi).\nPanozi o Pande (con enormi orecchie).\nPigmei (alti un cubito, in greco πυγμή).\nSciapodi o Monopodi (con una sola gamba e un unico grande piede).\n\nSignificato, diffusione e fonti storiche del mito.\nTra i riferimenti più antichi, troviamo le opere di Ctesia, di cui rimangono pochi frammenti originali e i riassunti contenuti nella Biblioteca, un vasto compendio storico-letterario redatto da Fozio nel IX secolo. Nella sua Indikà e nella storia della terra, Ctesia traccia una prima mappa dei popoli fantastici elencandoli. L'elenco verrà ripreso, in parte o del tutto, modificato e ampliato, da diversi autori greci e latini, tra cui: Esiodo, Strabone, Megastene, Gaio Plinio Secondo, Tertulliano.\nPur essendo le narrazioni di popolazioni con deformità fisiche abitanti luoghi favolosi o lontani, diffuse nelle mitologie di tutto il mondo, solo nella mitologia occidentale, si configurano chiaramente come un insieme compatto e ben omogeneo.\nNel periodo storico che va dal termine della classicità al termine del Medioevo, il corpus dei popoli mostruosi si struttura in modo compiuto: sono riconoscibili tutti i caratteri omogenei sopra descritti e viene sancita esplicitamente, nelle fonti, la relazione fra questi popoli e le terre lontane e incognite.\nIn questo lungo periodo, in cui si diffonde il Cristianesimo in Europa, si matura un duplice atteggiamento verso i popoli mostruosi.\nPrincipalmente, come già per gli autori classici greco-latini, i popoli mostruosi rappresentano tutto ciò che ostile, lontano e alieno, al mondo dell'uomo europeo; la caratterizzazione mostruosa di questi popoli rimarca la loro diversità; i loro comportamenti ferini, la loro sostanziale inferiorità. Come conseguenza, i popoli mostruosi, vengono, per estensione, identificati o accomunati da alcuni autori cristiani medievali, a popolazioni conosciute, ma ostili alla Cristianità, come i Mongoli o i Saraceni.\nIn secondo luogo, tuttavia, altri autori cristiani come Ratramno, sull'esempio di Agostino, cercano di ricondurre queste popolazioni all'interno della Cosmogonia biblica. Agostino d'Ippona in De Civitate Dei, infatti, pur nel dubbio se riconoscerne l'esistenza, essendo un mito pagano, afferma che queste creature, se esistono, devono avere necessariamente un loro posto nel disegno divino, attenuandone quindi l'aspetto negativo.\nLe fonti medioevali più significative sul corpus dei popoli mostruosi sono il Liber Monstrorum, di un Anonimo dell'VIII secolo, il Liber de Monstruosis Hominibus Orientis di Thomas van Bellenghem, lo Speculum Maius di Vincent de Beauvais, gli Ethimologiarum libri, sive Origines di Isidoro di Siviglia.\nL'identità fra mostruosità e popoli che vivono in terre sconosciute, si manterrà costante nei secoli successivi, mentre l'ubicazione geografica di questi popoli si sposterà, mano a mano che il confine delle terre conosciute viene ampliato.\nQuesto processo di traslazione del confine geografico del mito è simile a quello che interessa gli animali favolosi dei Bestiari, in special modo dopo il XV secolo, quando con le esplorazioni delle Americhe, dell'Africa e in seguito dell'Oceania, diversi animali reali subiscono, fino a che non vengono ben conosciuti e descritti dai naturalisti, un processo di mitizzazione, tanto più elaborato quanto più scarse sono le notizie che li riguardano.
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### Titolo: Porte Scee.\n### Descrizione: Le porte Scee erano, secondo il mito, le porte della città di Troia, riportata alla luce nell'Ottocento dal tedesco Heinrich Schliemann. Erano la maggiore forza difensiva di Troia e devono la loro fama a Omero e alla sua Iliade.\nErano le porte monumentali della città ed era un luogo di culto del Sole. Erano state costruite, come il resto delle mura, dagli dei Poseidone e Apollo. Sotto di esse, si svolsero alcune tra le battaglie più importanti della guerra di Troia e fu proprio qui che Achille trascinò il cadavere di Ettore dopo averlo sconfitto in duello e attaccato al suo carro; sempre qui, secondo la predizione fattagli in punto di morte dallo stesso Ettore, Achille sarebbe stato ucciso per mano di Paride guidato dal dio Apollo:.\n\nResistettero sempre agli attacchi degli Achei, ma furono distrutte dagli stessi Troiani per far entrare in città il gigantesco cavallo di legno col quale i Greci alla fine espugnarono la città e vinsero la guerra.\n\nSignificato attuale.\nLe porte troiane hanno dato il nome a un elemento architettonico; propriamente una porta scea è un'apertura sghemba che presenta il suo lato destro più avanzato e a quota superiore rispetto a quello sinistro; in tal modo, in primo luogo, non si poteva arrivare al suo fornice secondo una direzione perpendicolare, quindi con la massima forza d'urto, ma obliqua e, in più, si sarebbe mostrato il lato del corpo non protetto dallo scudo (che, se si brandisce la spada con la mano destra, si porta con il braccio sinistro proteso in avanti), proprio verso l'avancorpo difensivo; questo permetteva un migliore controllo degli attacchi esterni e, in definitiva, una tattica difensiva più efficace.\nUn esempio di porta scea in Italia è l'arco di ingresso all'Acropoli di Arpino, visitata anche da Heinrich Schliemann nel settembre del 1875 e la porta scea di Siracusa, nonché quella di Monte Vairano, in Molise, area archeologica che ha messo in evidenza un centro abitato osco-sannita, frequentato già a partire dal VI e V sec. a.C., di cui è stato possibile individuare le mura, risalenti al IV sec. a.C., e che visse il maggior periodo di sviluppo tra il IV e il II sec. a.C., prima del suo totale abbandono.
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### Titolo: Porte del Sonno.\n### Descrizione: Le Porte del Sonno sono le due uscite dall'Ade nel VI libro dell'Eneide di Virgilio (893-897); i Mani concedono anche l'invio ai mortali di sogni veri (dalla porta di corno) e falsi (dalla porta d'avorio). L'ombra di Anchise indirizza la Sibilla ed Enea, che stanno uscendo dall'oltretomba, alla porta d'avorio, dei sogni falsi.Virgilio riprende le Somni portae dalle due vie di uscita dei sogni descritte nel XIX libro dell'Odissea di Omero, secondo le parole di Penelope:.\n\nLa porta Cornea è fatta di corno (ovvero di osso oppure di cheratina), e da essa fuoriescono i sogni veri. La porta Eburnea è fatta di avorio, e da essa escono sogni falsi. Virgilio quindi attraverso questo esempio vuole sottolineare la questione delle false apparenze e di non fidarsi mai di esse.\nAnchise farà uscire Enea e la Sibilla dalla porta eburnea: essendo ancora vivo, infatti, Enea non può uscire dalla porta di corno, da dove escono le immagini dei defunti per apparire in sogno agli uomini e annunciare loro la verità.\n'Ivi Anchise, parlando, accompagna il figlio e insieme la Sibilla, e li fa uscire dalla porta eburnea: quello s'affretta alle navi e torna a vedere i compagni'.\n(Eneide, VI 897-899).
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### Titolo: Porto marittimo di Poti.\n### Descrizione: Il porto marittimo di Poti (in georgiano ფოთის საზღვაო ნავსადგური?, p’ot’is sazghvao navsadguri) è un importante porto marittimo della costa orientale del Mar Nero, nei pressi della foce del fiume Rioni a Poti, in Georgia. Il codice UN/LOCODE è GEPTI e si trova alle coordinate geografiche 42°09′18″N 41°39′16″E.\nIl porto marittimo di Poti è un punto d'incrocio del corridoio trans-caucasico/TRACECA, un progetto multinazionale che collega il porto rumeno di Constanţa e il porto bulgaro di Varna con i paesi senza sbocco sul mare della regione del Caspio e dell'Asia centrale.\n\nStoria.\nLa costruzione di un porto marittimo a Poti fu concepita poco dopo il 1828, quando l'Impero Russo conquistò la città dall'Impero Ottomano che la controllava sin dal frazionamento del Regno di Georgia. Nel 1858 Poti ottenne lo status di città portuale, ma fu solo nel 1899 quando, sotto il patrocinio del suo sindaco Niko Nikoladze, la costruzione fu accelerata e infine completata nel 1907. Da allora il porto marittimo è stato ricostruito più volte, l'ultimo con il patrocinio del governo olandese e dell'Unione Europea.Nel 2007, la portata totale era di 7,7 milioni di tonnellate e la movimentazione dei container si aggirava sui 185.000 TEU.\n\nPrivatizzazione.\nNell'aprile 2008, la Georgia ha venduto una quota del 51% dell'area portuale di Poti alla Ras Al Khaimah Investment Authority (RAKIA), una società di proprietà dell'emirato di Ras al-Khaimah, appartenente agli Emirati Arabi Uniti (EAU). RAKIA è stata incaricata alla gestione del nuovo terminal portuale e, attraverso la sua controllata georgiana RAKIA Georgia Free Industrial Zone LLC, per lo sviluppo di una Zona Industriale Libera (FIZ) e per una concessione della durata di 49 anni. La nuova FIZ è stata ufficialmente inaugurata dal presidente della Georgia Mikheil Saakashvili il 15 aprile 2008. Nel 2009, RAKIA UAE ha acquisito la restante quota del 49% del porto. Tuttavia, a seguito della crisi del debito di Dubai del novembre 2009, lo sceicco Sheikh Saud Bin Saqr ha deciso di vendere la maggior parte delle attività detenute all'estero nell'ottobre 2010. Questa attenzione alle priorità interne è stata spiegata dalla controversa successione a Ras al-Khaimah in seguito alla morte del padre di Saud, lo sceicco Saqr Bin Muhammad Al Qasimi. Successivamente, l'80% del porto è stato venduto nell'aprile 2011 ad APM Terminals, un'unità della danese AP Moller-Maersk. L'8 settembre 2011, RAKIA Georgia FIZ ha deciso di alienare il 15 per cento delle sue azioni a favore dell'uomo d'affari georgiano Gela ('Zaza') Mikadze in riconoscimento della sua gestione, rendendolo un partner di minoranza nella FIZ. Mikadze possiede queste azioni attraverso la società britannica Manline Projects LLP, di proprietà di società offshore appartenenti a Mikadze.
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### Titolo: Poti.\n### Descrizione: Poti (in georgiano: ფოთი), è una città portuale di 41.498 abitanti appartenente al Mkhare di Samegrelo-Zemo Svaneti in Georgia.\nPoti è la principale base navale e sede del quartier generale della Marina militare georgiana.\nSecondo gli accordi sottoscritti nell'aprile 2008 l'area portuale di Poti è destinata ad essere parte di una zona di libero scambio fra Georgia ed Emirati Arabi Uniti.\n\nStoria.\nFondata nei pressi del sito dell'antica colonia greca di Phasis (in greco: Φάσις) sul mar Nero, la città nel corso del XX secolo è divenuta un importante centro industriale ed il principale porto della Georgia.\nSituata a poca distanza dalla regione contesa dell'Abcasia, Poti è stata coinvolta nel conflitto fra Russia e Georgia dell'agosto 2008 ed è stata occupata da truppe russe sino al mese successivo.\n\nSport.\nCalcio.\nLa squadra principale della città è il K'olkheti-1913 Poti.\n\nVoci correlate.\nPorto marittimo di Poti.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Poti.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(KA) Sito ufficiale, su poti.gov.ge.\n(EN) Poti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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### Titolo: Pramno.\n### Descrizione: Il pramno (o pramnio) era un vino proverbialmente noto per la sua finissima qualità e per le proprietà curative, di cui si fa cenno nell'Iliade e nell'Odissea.\nAteneo di Naucrati utilizza il termine in maniera generica per riferirsi a un vino rosso corposo, invecchiato, di buona qualità.\n\nOrigini e caratteristiche.\nUtilizzato come dono di ospitalità (xenia), era prodotto soprattutto nell'isola di Lesbo, ma anche nella città di Smirne e nell'isola di Icaria. Secondo Omero era prodotto nella terra di Pramnos, che era probabilmente una zona montuosa della Caria (attuale Turchia) o la vicina isola Icaria (Grecia).\nEra un vino corposo, dolce e profumato (ἀνθοσμίας, anthosmías).\n\nIn Omero.\nNell'Iliade (XI, 836-863) Ecaméde, figlia di Arsínoo, lo miscela a formaggio e cipolle e miele per togliere ai suoi ospiti 'la sete ardente'.Nell'Odissea (X, 303-310) il vino di Pramnio, mescolato a latte rappreso, farina e miele, fu offerto dalla maga Circe ai compagni di Ulisse prima di trasformarli in porci.
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### Titolo: Prassidiche.\n### Descrizione: Con l'appellativo di prassidiche o triade divina, venivano definite le tre dee dell'antica religione ellenica, nutrici di Atena, dispensatrici della 'giusta punizione'.\nLa triade era costituita dalle sorelle Alalcomenea, Telsinia (o Delcinia) e Aulide, figlie del leggendario eroe greco Ogigo, re di Tebe.\nAl culto delle Prassidiche era consacrato un tempio nella città di Aliarto, in Beozia, dove si prestavano i giuramenti di vendetta.\nA loro è stata dedicata una delle lune di Giove del gruppo di Ananke.
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### Titolo: Prati di asfodelo.\n### Descrizione: I prati di asfodelo sono un luogo dell'oltretomba greco.\n\nDescrizioni.\nSecondo Omero, le ombre dei trapassati si aggirano nell'Ade su prati di asfodelo. Nel libro XI dell'Odissea, in cui Ulisse evoca gli spiriti dei defunti, si hanno brevi scorci dell'oltremondo. Si ha un primo accenno quando si allontana Achille:.\n\ne un secondo quando appare Orione:.\n\nNel libro XXIV, le anime dei morti giungono a prati di asfodelo immortale:.\n\nLa classicista Edith Hamilton scrive di questi asfodeli che sono 'presumibilmente strani, pallidi, spettrali'.\nNell'antica Grecia, l'asfodelo era inoltre coltivato sulle tombe, forse anche per la credenza che i morti se ne cibassero.\nCorrado Govoni, in Poesie Elettriche, nella poesia Tristezze Notturne, cita l'asfodelo in relazione ai morti:.\n'Da una casa si sente un gramolare;.\ne sono i poveri i pallidi morti.\nche laggiù fanno il loro triste pane.\nil loro bianco pane d'asfodelo.'.\n\nInfluenza culturale.\nI prati di asfodelo compaiono anche nel videogioco Hades, in cui il protagonista, il dio ctonio Zagreus, cerca di evadere dall’oltretomba, dovendo attraversare anche i Prati d’Asfodelo. In questo videogioco l’uscita dei Prati è sorvegliata dalle ossa della leggendaria Idra di Lerna. Sconfiggendola riuscirà ad emergere nei Campi Elisi.
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### Titolo: Priamo.\n### Descrizione: Priamo (in greco antico: Πρίαμος?, Príamos; in latino Priamus) è un personaggio della mitologia greca. Fu il Re di Troia durante la guerra di Troia e morì nella notte della caduta della città.\n\nGenealogia.\nPriamo era il figlio ultimogenito di Laomedonte e di Strimo o Placia (figlia di Otreo) o Leucippe.\n\nMatrimoni, concubine e progenie.\nPriamo si sposò tre volte ed ebbe numerose concubine e schiave. La sua progenie fu numerosissima. Secondo la versione più diffusa il numero totale dei suoi figli arriverebbe al numero tondo di cinquanta mentre altre fonti parlano di cinquanta maschi e cinquanta femmine.\nIn prime nozze sposò Arisbe da cui nacque il figlio Esaco : i due erano giovanissimi e a quanto pare Priamo non era ancora re. Priamo in seguito ripudiò Arisbe in favore di Ecuba (o Ecabe) da cui ebbe Ettore (l'eroe dell'Iliade ed erede al trono), Paride, Deifobo, l'indovino Eleno, Pammone, Polite, Antifo, Hipponoo, il primo Polidoro, Troilo e le figlie Creusa, Laodice, Polissena, Cassandra (gemella di Eleno) e Iliona.\nL'ultima moglie fu Laotoe (da lui sposata senza ripudiare Ecuba), che gli diede i maschi Licaone e il secondo Polidoro che fu il suo ultimogenito.\nTra i figli avuti da schiave o concubine i più noti sono Democoonte, Gorgitione (avuto da Castianira), Cebrione, Mestore e Medesicaste.\n\nMitologia.\nLa guerra di Eracle.\nApollodoro scrive che fu il quinto ed ultimogenito avuto dal padre (re Laomedonte) con la moglie Strimo e che fu chiamato con il nome Podarce (il pié veloce).\n\nDurante la sua infanzia, suo padre non mantenne la parola data ad Eracle (riguardo al pagamento di un debito) e da costui fu attaccato, subendo così una guerra dove finì ucciso assieme ad alcuni dei suoi figli.\nEracle inoltre, finita la guerra, premiò il compagno Telamone con Esione (una figlia di Laomedonte e Strimo) alla quale permise di portare con sé un prigioniero (Podarce) per il quale fu però deciso che doveva essere riscattato come schiavo: così lei, come prezzo del riscatto diede il velo che le copriva la testa ed il giovane Podarce fu chiamato Priamo vale a dire ' il riscattato '.\nIn seguito a questi fatti Priamo salì al trono della città di Troia. Diodoro Siculo scrive invece che Priamo si oppose alla guerra con Eracle e che disse al padre di pagare il debito ad Eracle.\n\nLa guerra di Troia.\nOmero racconta che prima della guerra di Troia, re Priamo ebbe una rispettabile carriera militare combattendo a fianco del re Migdone di Frigia contro le Amazzoni (quest'ultime divenute sue alleate nel conflitto contro gli Achei) e che fu un esperto guidatore di carri bellici.\n\nNella guerra di Troia era invece già anziano e non combatté sul campo di battaglia ma la osservò seduto sulle mura delle Porte Scee della città assieme ai suoi fratelli (Lampo, Clizio ed Icetaone) e con altri vecchi saggi del Consiglio.\nPriamo era inoltre un uomo buono e giusto ed a differenza dei suoi consiglieri si rifiutò di attribuire ad Elena la responsabilità dello scoppio della guerra (dandola invece a sé stesso); nell'Iliade si legge che addirittura le chiese di essere presentato ai comandanti nemici.\nL'unica volta che scese sul campo di battaglia fu per giurare i patti del duello tra il figlio Paride e Menelao; un'altra sua uscita dalle mura fu quando si recò all'accampamento dei nemici greci per chiedere ad Achille la restituzione del corpo del figlio Ettore (ucciso in precedenza da Achille) che riportò indietro su un carro..\nPrima della caduta di Troia perse quasi tutti i suoi figli maschi, uno dei quali, Licaone, subì anche il disonore della mancata sepoltura essendo finito nelle acque del fiume Scamandro.\n\nLa morte.\nLa morte di Priamo non è narrata nei poemi omerici, ma in altre opere come l'Eneide di Virgilio o la tragedia Le troiane di Euripide.\nNella notte in cui i greci riuscirono a penetrare a Troia, che venne data alle fiamme, Priamo rivestì la sua vecchia armatura desiderando cercare la morte nella mischia, ma la moglie Ecuba in lacrime lo convinse a rifugiarsi con le donne sull'altare di Zeus Erceo. Così egli vide la morte del figlio Polite, inseguito da Pirro Neottolemo fin sui gradini dell'altare. Il vecchio re vibrò allora debolmente l'asta contro Neottolemo, senza riuscire a colpirlo: l'acheo lo afferrò e gli conficcò la spada in un fianco, uccidendolo. Sempre secondo il testo latino, al cadavere venne poi recisa la testa, ma non si dice se fu Neottolemo l'esecutore di tale atto.\n\n(Virgilio, Eneide, libro II, traduzione di Luca Canali).\nIn alcune raffigurazioni artistiche (vasi e anfore del VI secolo avanti Cristo), invece, il re troiano viene percosso a morte da Neottolemo col cadavere di Astianatte. Nessuna fonte letteraria pervenutaci descrive questa versione del mito.\n\nIl tesoro di Priamo.\nIl tesoro di Priamo è un insieme di oggetti in metalli preziosi che Heinrich Schliemann scoprì nel sito dell'antica Troia e che egli attribuì al re Priamo. Gli oggetti, ritrovati nel livello denominato Troia II, appartengono in realtà alla seconda metà del III millennio a.C. e sono dunque molto più antichi degli avvenimenti narrati nell'Iliade (che secondo la tradizione risalgono all'inizio del XII secolo a.C.).
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### Titolo: Priapea.\n### Descrizione: I Priapea sono una raccolta anonima di 95 carmi latini, per lo più inni ed epigrammi di carattere salace dedicati a Priapo, dio agreste della fertilità.\n\nStruttura e contenuto.\nNei Priapea è quasi sempre il dio stesso che prende la parola per esibirsi in scherzose variazioni su pochi temi, continuamente ricorrenti: commenti alle enormi dimensioni dei suoi attributi virili e alle sue iperboliche prestazioni erotiche, minacce di punizioni ai ladri, consistenti in violenze sessuali di vario tipo; descrizioni di offerte votive a lui dedicate; attacchi contro le donne troppo vecchie o troppo libidinose. Ovviamente, tutto è giocato attraverso doppi sensi e giochi di parole.\nI metri sono gli stessi di Marziale: distici elegiaci, endecasillabi falecèi e coliambi; i componimenti sono per lo più molto brevi (dai due ai sei versi; il più lungo ne conta 38).\n\nAutore e datazione.\nTradizionalmente gli studiosi ritenevano che i Priapea fossero un'antologia di componimenti di diversi autori, poi raccolti perché accomunati dal medesimo argomento. Tuttavia alcuni studi più recenti hanno cercato di dimostrare che i primi 80 carmi costituirebbero un'opera unitaria di un singolo ignoto autore, cui in seguito furono aggiunti in coda altri 15 componimenti.\nLa datazione dell'opera è tuttora discussa, ma generalmente collocata nel corso dell'intero I secolo d.C.: motivazioni di carattere linguistico tenderebbero a collocarli in età neroniana o successiva. Nel XX secolo fu sostenuta una datazione di poco posteriore a Marziale.\n\nAltri Priapea.\nLa raccolta, comunque notevole per la sua particolare unitarietà, non lo è invece per quanto riguarda l'argomento; infatti ci sono giunti altri componimenti 'priapei' nella produzione letteraria antica: sia nell'Antologia greca sia nei poeti latini Catullo, Orazio, Tibullo e Marziale.\nAnche nella cosiddetta Appendix Vergiliana figurano tre carmi priapei.\n\nTradizione.\nIl più antico testimone dei Priapea che ci sia pervenuto è un codice vergato dalla mano di Giovanni Boccaccio: si tratta del Laur. 33.31.
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### Titolo: Priapismo.\n### Descrizione: Il priapismo è un'erezione persistente involontaria ed anomala (di durata superiore a 4 ore), spesso dolorosa, dei soli corpi cavernosi del pene, non accompagnata dal consueto desiderio sessuale o eccitazione, che invece contraddistinguono la normale erezione maschile. La locuzione priapismo è talora impiegata, in modo più generico ma inesatto, come sinonimo di satiriasi.\n\nEtimologia.\nIl termine deriva dal nome della divinità greca della potenza virile Priapo, spesso rappresentato con un fallo di proporzioni esagerate. Opposta al priapismo (in termini medici e non figurativamente) è la disfunzione erettile o impotenza.\n\nEziologia.\nSi distinguono due tipi di priapismo a eziologia somatica, uno a basso flusso (o priapismo venoso) e uno ad alto flusso (o priapismo arterioso), oltre a una terza forma di origine psicogena. Ci può anche essere una causa farmacologica (Trazodone, antidepressivo atipico).\n\nIl priapismo venoso è dovuto ad affezioni organiche come leucemia, anemia falciforme, lesioni midollari o neurologiche, infiltrazioni tumorali, abuso di psicofarmaci (ad esempio Fluoxetina), o può essere dovuto a cause iatrogene come un'imperfetta terapia contro la disfunzione erettile.\nIl priapismo arterioso è di solito di natura traumatica, da rottura di un'arteria cavernosa (una delle arterie che si trovano all'interno dei corpi cavernosi del pene e che permettono la normale erezione).\nIl priapismo doloroso essenziale, qualificato anche come “idiopatico”, non è dovuto a cause organiche ma a fattori psicologici.\n\nTerapia.\nIl priapismo arterioso spesso non necessita di interventi in urgenza mentre il priapismo di tipo venoso è sempre un'urgenza urologica. L'erezione, che non riguarda l'uretra spongiosa, è spesso dolorosa e può rappresentare un'urgenza chirurgica che va trattata possibilmente entro le 6-8 ore dalla sua insorgenza, poiché si potrebbe verificare una scarsa ossigenazione dei tessuti che degenererebbero nella perdita, a volte definitiva, della funzione erettile. La procedura chirurgica d'urgenza, segue quella medica con vasocostrittori, una volta verificata la scarsa ossigenazione del sangue e dei tessuti tramite prelievo con siringa. Essa consiste principalmente nella tecnica dello shunt trans-glandale in anestesia totale, che permette di aspirare il sangue non ossigenato dai tessuti penieni, con successivi lavaggi a base di soluzione fisiologica. Il recupero post-operatorio, che può protrarsi anche per alcuni mesi, può essere totale o parziale.
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### Titolo: Priapo.\n### Descrizione: Priapo (in greco antico: Πρίαπος?, Príapos) è un dio della mitologia greca e romana, noto per la lunghezza del suo pene.\n\nGenealogia.\nEra figlio di Afrodite e, secondo buona parte delle fonti, di Dioniso. Leggende minori lo vogliono invece figlio di Afrodite e di Ermes, o Ares, o Adone, o Zeus, o Pan.\n\nMitologia.\nSecondo uno scholium alle Argonautiche di Apollonio Rodio, il suo aspetto derivava da una maledizione inflittagli da Era, gelosa perché Paride l'aveva giudicata meno bella di Afrodite. La dea si vendicò su Priapo, di cui Afrodite era incinta, e gli diede un aspetto grottesco, con enormi organi genitali, particolarmente pronunciati nelle dimensioni del pene e del glande, ritenuti nell'antichità l'origine della vita. All'eccezionale dote virile rispondevano però l'impotenza, un aspetto orribile e una certa debolezza mentale.\nPriapo, che si vuole proveniente dall'Ellesponto o dalla Propontide, dominava l'istinto, la forza sessuale maschile e la fertilità della natura. Non fu accettato fra gli dèi olimpici poiché tentò, ubriaco, di abusare di Estia e venne espulso. Anche l'asino, simbolo di lussuria, gli ragliò contro per farlo scappare, così da sottolineare quale intento criminoso avesse. Ad espiazione dell'accaduto il dio pretese il sacrificio annuale di un asino. Infatti ogni anno a Priapo veniva sacrificato un asino.\n\nCulto.\nIl culto di Priapo risale ai tempi di Alessandro Magno e fu largamente ripreso anche dai Romani, soprattutto collegato ai riti dionisiaci e alle orge dionisiache. Il suo culto era anche fortemente associato al mondo agricolo ed alla protezione delle greggi, dei pesci, delle api, degli orti. Spesso infatti, cippi di forma fallica o erme con in aggiunta simboli fallici nella parte inferiore venivano usati a delimitare gli agri di terra coltivabile. Questa tradizione è continuata nel corso dei secoli ed è resistita alla moralizzazione medievale del monachesimo. Infatti ancora oggi, possiamo trovare diversi esempi di cippi fallici in Italia, nelle campagne di Sardegna, Puglia (soprattutto nella provincia di Lecce) e Basilicata o nelle zone interne di Spagna, Grecia e Macedonia del Nord.\nIl suo animale era l'asino, sia a causa dell'importanza che esso aveva nella vita contadina, sia per una sorta di analogia fra il pene di Priapo e dell'asino.\nGià molto diffuse in Grecia e poi a Roma, le feste in onore di Priapo, definite falloforie, avevano un grande rilievo nel calendario sacro.\n\nArte.\nNell'arte romana, veniva spesso raffigurato in affreschi e mosaici, generalmente posti anche all'ingresso di ville ed abitazioni patrizie. Il suo enorme membro era infatti considerato un amuleto contro invidia e malocchio (fascinus). Inoltre, il culto del membro virile eretto, nella Roma antica era molto diffuso tra le matrone di estrazione patrizia a propiziare la loro fecondità e capacità di generare la continuità della gens. Per questo, il fallo veniva usato anche come monile da portare al collo o al braccio. Sempre a Roma, le vergini patrizie, prima di contrarre matrimonio, facevano una particolare preghiera a Priapo, affinché rendesse piacevole la loro prima notte di nozze.
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### Titolo: Processione del cavallo di Troia.\n### Descrizione: Processione del cavallo di Troia è un dipinto di Giandomenico Tiepolo, conservato nella National Gallery di Londra.\n\nDescrizione.\nL'opera raffigura il celebre episodio del 'cavallo di Troia', descritto nell'Odissea di Omero e nell'Eneide di Virgilio. Dopo dieci lunghi anni di guerra, i Troiani trovano l'enorme cavallo di legno sulla spiaggia, lasciato dagli Achei: credendo che si tratti di un dono degli dei, decidono di portarlo dentro la città, ma la sacerdotessa Cassandra cerca di fermarli, in quanto con le sue doti profetiche ha capito che dentro il cavallo sono nascosti i migliori soldati Achei. La profetessa rimane inascoltata e il cavallo viene introdotto a Troia: quella stessa notte, i soldati Achei escono e aprono le porte al resto dell'esercito, conquistando quindi la città, che infine verrà data alle fiamme.\nLa scena qui rappresentata è proprio l'entrata del cavallo di legno nella città di Troia. Sul cavallo è riconoscibile la scritta PALADI VOTVM, che in latino significa 'dono per Pallade', ovvero la dea Atena. Sullo sfondo si nota Cassandra, che viene bloccata dai suoi concittadini.Oltre a questo quadro Giandomenico Tiepolo ne realizzò uno raffigurante la costruzione del cavallo di legno, anche questo conservato alla National Gallery.
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### Titolo: Proci.\n### Descrizione: I Proci sono personaggi dell'Odissea, 108 giovani nobili di Itaca e delle isole e territori vicini che aspiravano al trono di Ulisse, contendendosi la mano di Penelope, sposa del re (Odisseo).\nIl termine è latino (procus, proci) ed è usato per tradurre letteralmente il termine originale μνηστῆρες mnēstḕres 'pretendenti'.\nLa narrazione di Omero, che li mostra come parassiti, dimoranti nella reggia per anni, sarebbe incomprensibile a noi contemporanei se non considerassimo la sacralità della ospitalità presso la civiltà greca. Perciò è rilevante lo stratagemma di Penelope, la quale, per ritardare il momento della scelta, inventa l'astuzia della tela. Infatti la moglie di Ulisse dice ai Proci che ne avrebbe scelto uno solo quando avesse finito di tessere la tela stessa, ma, segretamente, di notte, la disfa ogni volta, dovendo così sempre ricominciare il lavoro da capo e ritardando così il momento della scelta.\nAl ritorno, Ulisse, che si presenta sotto mentite spoglie vestendosi da mendicante, prevale sui Proci in una gara di tiro con l'arco organizzata da Penelope per scegliere definitivamente il futuro sposo. Solo Ulisse infatti si dimostra capace di tendere l'arco, incoccare e centrare il bersaglio. Quindi, col medesimo arco, inizia la strage dei Proci, con l'aiuto dei servitori fedeli Eumeo e Filezio, del figlio Telemaco e della dea Atena. Questi eliminano a uno a uno tutti i pretendenti e i traditori itacesi; soltanto l'aedo Femio e l'araldo Medonte, rimasti fedeli al re di Itaca, vengono risparmiati.\n\nI Proci citati nell'Odissea.\nAgelao: figlio di Damastore. È ucciso da Ulisse.\nAnfimedonte: figlio di Melaneo. È ucciso da Telemaco. In fonti non omeriche il padre di questo pretendente avrebbe ospitato Agamennone e suo fratello Menelao quando vennero ad Itaca per convincere Ulisse ad unirsi alla spedizione contro Troia.\nAnfinomo: il più bello dei Proci, principe di Dulichio. Prudente e assennato, mostra cortesia verso Ulisse travestito, che cerca di convincerlo ad abbandonare la reggia. L'avvertimento tuttavia non viene ascoltato e Anfinomo condivide il destino degli altri pretendenti; verrà ucciso da Telemaco.\nAntinoo: figlio di Eupite. Uno dei capi dei Proci; ordisce il complotto per uccidere Telemaco durante il suo ritorno dal continente, ed è tra quelli che istigano la lotta tra Ulisse travestito e il mendicante Iro. È la prima vittima di Ulisse.\nCtesippo: figlio di Politerse, è uno dei Proci più arroganti e scortesi. Possessore di una grande ricchezza, si prende gioco di Ulisse travestito da mendicante tirandogli una zampa di bue come dono d'ospitalità. Ulisse la schiva e Telemaco minaccia Ctesippo che se lo avesse colpito lo avrebbe trafitto con la sua lancia. È ucciso da Filezio.\nDemoptolemo: ucciso da Ulisse.\nElato: ucciso da Eumeo.\nEuriade: ucciso da Telemaco.\nEuridamante: ucciso da Ulisse.\nEurimaco: uno dei capi dei Proci, è raffinato e ingannevole. Dopo che Antinoo viene ucciso, egli vigliaccamente lo accusa di tutto quello che era successo, affermando che i Proci avrebbero potuto ripagare Ulisse di ciò che gli avevano fatto, ma viene ucciso dalla seconda freccia scagliata dal re.\nEurinomo: figlio di Egizio, non si sa da chi è ucciso. Suo fratello Antifo aveva accompagnato Ulisse nella guerra di Troia ed era stato divorato da Polifemo.\nLeocrito: ucciso da Telemaco.\nLeode: pretendente dotato di veggenza, predice l'uccisione dei Proci, compresa la propria. Durante la strage si getta ai piedi di Ulisse implorando pietà, ma il re rimane insensibile e gli taglia la testa.\nPisandro: uno dei Proci più ricchi, offre una collana a Penelope. È ucciso da Filezio.\nPolibo: omonimo del padre di Eurimaco. È ucciso da Eumeo.
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### Titolo: Proioxis.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Proioxis (In greco: Προΐωξις) era la personificazione dell'impeto in battaglia (al contrario di Palioxis). Viene citata insieme ad altre personificazioni che hanno a che fare con la guerra.\n\nVoci correlate.\nMakhai.\n\nCollegamenti esterni.\nTheoi Project - Proioxis, su theoi.com.
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### Titolo: Promanteia.\n### Descrizione: Promanteia era il privilegio, conferito a città o individui dall'Oracolo di Delfi, di chiedere priorità alla Pizia.\n\nStoria.\nNel corso del periodo classico i sacerdoti di Delfi stabilirono una serie di onori conferiti a coloro che offrivano benefici al santuario, sia che fossero città o individui. L'istituzione della promanteia era uno dei privilegi offerti inizialmente alle città che avevano offerto un aiuto finanziario al santuario. La promanteia aveva infatti il diritto di acquisire un oracolo prima degli altri (eppure ancora dopo i sacerdoti e i cittadini di Delfi). Dato che il dare oracoli si svolgeva in periodi specifici e limitati, questo diritto poteva essere davvero molto importante. Dall'inizio del IV secolo a.C., questo diritto continuava ad essere accordato agli individui e ad essere combinato con altri privilegi, come la prothysi e la prossenia.
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### Titolo: Pronoo (Iliade).\n### Descrizione: Pronoo, (in greco Ρρόνοος), fu un guerriero troiano citato nell'Iliade nel libro relativo a Patroclo (XVI, v. 399).\nPronoo fu ucciso da Patroclo nell'azione bellica descritta nel libro XVI dell'Iliade.
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### Titolo: Prosimno.\n### Descrizione: Prosimno o Polimno (in greco antico: Πρόσυμνος?/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna (nell'Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in acqua.\nQuando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto.\nDioniso volle comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di fallo utilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano 'rivelati' nel corso dei Misteri dionisiaci.\nQuesta storia non è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana.\nRiti notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però di descriverceli.\nIl mito di Prosimno è stato studiato da Bernard Sergent in L'omosessualità nella mitologia greca (1984), ristampato nella sua Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei (1996). Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco.
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### Titolo: Prostomiaion.\n### Descrizione: Il Prostomiaion era il luogo dell'Acropoli di Atene, nei pressi dell'area nord dell'Eretteo, in cui erano visibili le impronte del tridente di Poseidone.\nDa quest'impronta era sgorgata la fonte di acqua salata, dono del dio agli Ateniesi durante la disputa con Atena per diventare la divinità protettrice della città.
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### Titolo: Protogenia.\n### Descrizione: Protogenia (in greco antico: Πρωτογένεια?, Prōtoghèneia) è un personaggio della mitologia greca. Il suo nome significa la Prima Nata ed è la prima donna mortale nata dopo il Diluvio.\n\nGenealogia.\nFiglia di Deucalione e Pirra, fu madre di Etlio (avuto da Zeus) e di Opo.\n\nMitologia.\nNacque mentre il Diluvio era in corso e, dopo che l'arca si arenò sul monte Parnaso, discese con i genitori dalla montagna e si fermò vicino alla città di Oponte, in Tessaglia, chiamata anche, da Pindaro, la città di Protogenia.\nSecondo Strabone crebbe a Cino (Κῦνος Kýnos) dove si dice che sua madre Pirra sia stata sepolta.\nOpo ha come nipote un altro Opo, figlio di Locro (a sua volta figlio di Fisco, Φύσκος Phýskos) e di Cambise o un'altra Protogenia. Quest'ultima probabilmente è una discendente di questo personaggio.
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### Titolo: Psiche (mitologia).\n### Descrizione: Psiche (in greco antico: Ψυχή?) è un personaggio della mitologia greca, personificazione dell'omonimo concetto (psyché) con cui si indicava l'anima, i suoi moti sentimentali, e per estensione l'anima gemella, ossia l'amore umano.\n\nMito.\nFanciulla di straordinaria bellezza, Psiche scatena la terribile invidia di Afrodite, la quale ordina al figlio Amor (Eros) di suscitare in lei la passione per un uomo della più vile condizione.\nIl dio stesso però si innamora della fanciulla e la fa condurre in un favoloso palazzo dove ogni notte si reca a farle visita nell'oscurità più totale per non rivelare la sua identità. Eros (amore) chiede alla giovane di non tentare di conoscere la sua identità o sarebbe stato costretto ad abbandonarla.\nUna notte, tuttavia, Psiche, a causa della sua inarrestabile curiosità, si avvicina a Eros che dorme facendosi luce con una lampada ad olio. Nel vedere la sua bellezza e notando che era una divinità, rimane estasiata ed inavvertitamente fa cadere una goccia d'olio bollente dalla lucerna sulla spalla di Amore, che, ustionato e svegliatosi di soprassalto, abbandona subito la fanciulla.\n\nQuando Psiche disse alle sue sorelle maggiori che cosa era successo, esse gioirono in segreto e ognuna si recò in cima alla montagna per ripetere il modo in cui Psiche era entrata nella caverna, sperando che Eros avrebbe scelto loro. Il vento Zefiro, invece non le prese ed entrambe morirono precipitando fino ai piedi della montagna.\nPsiche andò in cerca del suo amante vagando per la Grecia, quando infine giunse a un tempio di Demetra, il cui pavimento era coperto da mucchi di granaglie mischiate. Psiche iniziò a suddividere i semi per tipo e quando ebbe finito, Demetra le parlò, dicendole che il modo migliore per trovare Eros era quello di trovare la madre di costui, Afrodite, e guadagnarsi la sua benedizione. Psiche trovò un tempio di Afrodite e vi entrò. Afrodite le assegnò un compito simile a quello del tempio di Demetra, ma le diede anche una scadenza impossibile per terminarlo. Eros intervenne, dato che la amava ancora, e fece sì che delle formiche sistemassero i semi per lei. Afrodite si infuriò per il successo e quindi inviò Psiche in un prato dove pascolavano delle pecore dorate per procurarsi della lana dorata. Psiche andò al pascolo e vide le pecore, ma venne fermata dal dio del fiume che avrebbe dovuto attraversare per entrare nel pascolo. Egli le disse che le pecore erano cattive e pericolose e l’avrebbero uccisa, ma se avesse aspettato fino a mezzogiorno, le pecore sarebbero andate a cercare l’ombra dall’altra parte del campo per mettersi a dormire; Psiche avrebbe quindi potuto raccogliere la lana rimasta impigliata tra i rami e sulle cortecce degli alberi. Psiche fece così e Afrodite si infuriò ancor più per lo scampato pericolo ed il successo. Alla fine Afrodite sostenne che lo stress del doversi prendere cura del figlio, depresso e malato per via dell'infedeltà di Psiche, le aveva fatto perdere parte della sua bellezza.\n\nPsiche doveva recarsi nell’Ade a chiedere a Persefone, la regina degli Inferi, un po’ della sua bellezza da mettere in una scatola nera che le era stata consegnata da Afrodite. Psiche andò fino ad una torre, avendo deciso che il modo più rapido per raggiungere gli inferi era quello di morire. Una voce la fermò all’ultimo minuto e le rivelò un percorso che le avrebbe permesso di entrare e fare ritorno ancora viva, oltre a dirle come passare oltre Cerbero, Caronte e altri pericoli sul percorso. Psiche placò Cerbero, il cane a tre teste, con un dolce al miele e pagò a Caronte un obolo perché la portasse nell’Ade. Lungo il percorso vide delle mani che spuntavano dall'acqua. Una voce le disse di lanciare loro un dolce al miele. Una volta arrivata, Persefone le disse che sarebbe stata lieta di fare un favore ad Afrodite. Al ritorno Psiche pagò nuovamente Caronte, gettò un dolce alle mani e ne diede un altro a Cerbero.\nPsiche lasciò gli Inferi e decise di aprire la scatola e prendere per sé una piccola parte della bellezza, credendo che così facendo Eros l'avrebbe sicuramente amata; nella scatola c'era però un 'sonno infernale' che la sopraffece. Eros, che l’aveva perdonata, volò da Psiche e le tolse il sonno dagli occhi, quindi implorò Zeus e Afrodite affinché dessero il loro consenso a sposarla. Essi accettarono; il re degli dei ordinò quindi a Ermes di andare a prendere Psiche e di condurla sull'Olimpo tra gli immortali, e trasformandola nella dea protettrice delle fanciulle. Afrodite danzò alle nozze di Eros e Psiche e i due ebbero una figlia chiamata Edoné, o (nella mitologia romana) Volupta che significa piacere.\n\nNell'arte.\nLa storia di Eros e Psiche, in particolare la versione presente nei libri IV, V, VI delle Metamorfosi di Apuleio, affascinò particolarmente gli artisti rinascimentali che la raffigurarono in tutti i suoi episodi nelle decorazioni dei palazzi nobiliari.\n\nRiprese letterarie del mito in età moderna.\nSulla favola di Amore e Psiche si basa la Psyche di Molière.\n\nVoci correlate.\nAmore e Psiche.\nApuleio.\nL'asino d'oro.\nClive Staples Lewis.\nA viso scoperto.\nPsyché.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Psiche.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Psyche, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.\n(EN) Psiche, su Theoi Project.\n(EN) Psiche, su Goodreads.\nPiù di 430 immagini di Amore e Psiche nel Database Iconografico del Warburg Institute, su warburg.sas.ac.uk. URL consultato il 25 maggio 2012 (archiviato dall'url originale il 17 maggio 2013).
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### Titolo: Psychro.\n### Descrizione: La grotta di Psychro, conosciuta anche come grotta di Zeus, è un'antica grotta sacra minoica situata nel distretto di Lasithi, nella parte orientale di Creta. Essa viene associata alla grotta Dittea, quella che si dice essere stata il luogo di nascita di Zeus. Secondo Esiodo, Rea diede alla luce Zeus in una grotta del monte Egeo, nei pressi di Litto. Dalla fine del XIX secolo, la grotta che sovrasta l'attuale villaggio di Psychro è stata identificata con questa. Un'altra grotta tradizionalmente legata alla nascita di Zeus è quella sul monte Ida.\n\nGeografia.\nPsychro si trova a 1025 metri sul livello del mare, nel territorio della prefettura di Lasithi.\n\nMitologia.\nLa grotta Dittea è famosa nella mitologia greca per essere il luogo in cui la capra Amaltea nutrì il neonato Zeus col suo latte. Gli scavi archeologici hanno dimostrato un lungo utilizzo del sito come luogo di culto religioso. La nutrice di Zeus, che Rea incaricò di allevare qui in segreto per nasconderlo al padre Crono (Krónos), viene chiamata anche Adrastea in alcuni contesti.\nLa grotta Dittea si trova sul monte Ditte.\n\nArcheologia.\nLa grotta fu scavata la prima volta nel 1886 da Joseph Hatzidakis, presidente del Syllogos di Candia, e da F. Halbherr. Nel 1896, Arthur Evans studiò il sito. Nel 1899 J. Demargne e David George Hogarth della British School ad Atene effettuarono ulteriori studi. Il breve resoconto di Hogarth del 1900 fornisce una descrizione della distruzione operata da primitivi metodi archeologici: immensi blocchi caduti dal soffitto della grotta furono fatti saltare prima di essere rimossi; la preziosa terra nera era stata portata via. L'altare stuccato della grotta superiore fu scoperto nel 1900, circondato da strati di cenere, ceramiche e 'altri rifiuti', tra cui vi erano offerte votive in bronzo, terracotta, ferro e osso, con frammenti di trenta vasi per libagioni e innumerevoli ciotole coniche in ceramica per le offerte di cibo. Le ossa ritrovate tra la cenere dimostrano l'esistenza di sacrifici di tori, pecore, capre, cervi e cinghiali.\nLo strato inferiore della caverna superiore rappresenta la transizione tra la ceramica di stile Kamares del Tardo Minoico e i primi livelli micenei, fino ad alcuni reperti di stile geometrico del IX secolo a.C. Scavi più recenti fanno risalire l'uso della grotta fino al Minoico Antico, e gli oggetti votivi dimostrano che si trattava del più frequentato santuario del Minoico Medio (MM IIIA).La grotta inferiore scende rapidamente grazie a una scala scavata nella roccia fino a un lago, accanto al quale vi sono stalattiti e stalagmiti. 'Molta terra è stata buttata di sotto da chi scavò la grotta superiore', disse Hogarth, 'e in essa furono rinvenuti numerosi piccoli oggetti in bronzo'. Nelle fessure verticali delle stalattiti più basse la squadra di Hogarth trovò modellini di 'bipenni, lame di coltelli, aghi e altri oggetti in bronzo, posti qui come oggetti votivi. Anche il fango posto accanto al lago sotterraneo era ricco di oggetti simili, di statuette maschili e femminili e di pietre intagliate'.\nNel 1961 John Boardman pubblicò una descrizione dei reperti trovati in questi e altri scavi.\nNonostante le statuette umane in argilla siano comuni nei santuari montani, la grotta di Psychro e quella del Monte Ida sono le sole a contenerne. Psychro è anche nota per il ritrovamento di una gamba di bronzo, unico oggetto votivo rappresentante una parte del corpo mai trovato in un santuario di grotta. Tra i più comuni reperti della grotta sacra di Psychro vi sono lampade in pietra e in ceramica.\nPsychro ha fornito numerose pietre semi-preziose, tra cui corniola, steatite, ametista, diaspro ed ematite.\nI reperti recuperati a Psychro sono in mostra presso il museo di Candia, l'Ashmolean Museum, il Louvre e il British Museum.
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### Titolo: Ptocheia.\n### Descrizione: Ptocheia o Ptokheia (in greco: Πτωχεία) era l'antico spirito femminile della mendicanza. Lei era considerata come una compagna (e una sorella) di Penia e Amechania. I suoi opposti erano Euthenia e Pluto. È stata citato da Aristofane nella sua opera intitolata Pluto.
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### Titolo: Ptoion.\n### Descrizione: Il monte Ptoion (in greco antico: Πτώϊον?, Ptóïon) o Ptoon (in greco antico: Πτῷον/Πτῶον?, Ptôon) o Ptoo (in greco Πτώο?, Ptóo) è una catena montuosa della Beozia situata ad est dell'antico lago Copaide e a nord del lago Yliki, un po' ad est dell'antica città di Acrefia. Le vette più alte sono il Petalás (781 m) ad est e lo Hagia Pelagia (726 m) ad ovest.\nQuesta catena montuosa era nota nell'antichità per un importante oracolo di Apollo, che era posto presso la sorgente di Perdikovrysi. Gli scavi, inizialmente portati avanti (con alcune interruzioni) da Maurice Holleaux tra il 1884 e il 1935, hanno riportato alla luce statue arcaiche (in particolare kouroi) del VI secolo a.C. e tripodi collocati in varie posizioni nell'area del santuario.\n\nStoria dell'oracolo di Apollo.\nL'oracolo di Apollo Ptoo (in greco antico: Πτώϊος?, Ptóïos) era collocato 3 km a nord-est di Acrefia. Pausania il Periegeta riferisce che originariamente era l'oracolo di Ptoo, un eroe locale figlio di Atamante e di Temisto, in seguito rimpiazzato da Apollo, che acquisì il nome Ptoo come epiteto locale. L'eroe, dunque, ricevette un suo piccolo santuario sul Kastraki, circa un km a ovest della collocazione originale, che mostra segni di attività umana dal VII fino al IV secolo a.C.Sul monte Ptoion ci sono resti di un insediamento neolitico-elladico e di una fortezza micenea, abbandonata durante il periodo arcaico.L'oracolo di Apollo è menzionato da Erodoto, che descrive una visita ad esso da parte di Mis di Europo, mandato dal generale persiano Mardonio per ottenere responsi da vari oracoli:.\n\nLo stesso episodio è menzionato anche da Pausania.L'area, compreso il santuario, fu controllata da Tebe fino alla fine del periodo classico, come dimostrano i resti di fortificazioni tebane sulle varie vette della catena montuosa (anche se non sul monte Ptoion). In seguito il santuario fu sotto il controllo della lega beotica e più tardi di Acrefia. All'epoca in cui Pausania visitò il sito, nel II secolo d.C., l'oracolo 'infallibile' non era più attivo.Secondo un decreto dell'anfizionia delfica, dal 228/226 a.C. in poi ogni cinque anni vicino all'oracolo si tennero le feste Ptoie (in greco antico: Πτώϊα?, Ptóïa), una competizione musicale in onore di Apollo. Queste feste in seguito si estinsero, ma furono ripristinate sotto gli imperatori della dinastia giulio-claudia come Ptoie e Cesaree (in greco antico: Πτώϊα καὶ Καισάρεια?, Ptóïa kài Kaisáreia) e continuarono ad essere celebrate fino all'inizio del III secolo d.C.In epoca bizantina il santuario fu rimpiazzato dal monastero cristiano di Santa Pelagia, che si spostò sulla cima del monte Ptoion durante il periodo ottomano.\n\nRitrovamenti archeologici.\nI resti del santuario dell'eroe Ptoo mostrano la presenza di due terrazze, quella inferiore dedicata all'eroe, quella superiore dedicata a una divinità femminile ancora non identificata; si tratta di uno stretto tempio del IV secolo a.C. costruito sopra un edificio preesistente risalente al VII/VI secolo a.C.Il santuario di Apollo Ptoo, invece, si sviluppava su tre terrazze. In cima al sito c'era un tempio di ordine dorico periptero con 8 × 13 colonne risalente alla fine del IV secolo a.C., costruito sulle fondamenta di un tempio arcaico; la sede dell'oracolo era nella grotta orientale della sorgente, dove i sacerdoti davano i responsi. Ci sono tracce di edifici ausiliari in quel luogo e nei livelli inferiori. L'importanza transregionale del santuario nel periodo arcaico è resa evidente dall'alto numero di kouroi e di tripodi rinvenuti negli scavi, oggi conservati al Museo archeologico di Tebe e al Museo archeologico nazionale di Atene. Il sito del santuario fu scoperto e scavato tra il 1884 e il 1891 da Maurice Holleaux.
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### Titolo: Quattro Fontane.\n### Descrizione: Quattro Fontane è un incrocio di Roma tra le antiche Via Pia (oggi via del Quirinale-via XX Settembre, che prendeva il nome da Pio IV) e Via Felice (il percorso che da Trinità dei Monti porta alla Basilica di Santa Maria Maggiore, oggi via Sistina-via Quattro Fontane-via A.Depretis, che prendeva il nome di battesimo di Sisto V) è caratterizzato dalla presenza ai quattro angoli di quattro fontane, che danno il nome all'incrocio, all'omonima strada ed alla Chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, che Francesco Borromini costruì tra il 1638 e il 1663 (talvolta chiamata San Carlino).\nCaratteristica unica a Roma, dall'incrocio si possono vedere, in lontananza, l'Obelisco Esquilino presso Santa Maria Maggiore (a sud-est), l'Obelisco Sallustiano presso Trinità dei Monti (a nord-ovest), l'Obelisco del Quirinale (a sud-ovest) e la michelangiolesca facciata interna di Porta Pia (a nord-est).\n\nStoria.\nSin dagli inizi del secolo XVI il colle Quirinale o, come in età contemporanea era conosciuto, Monte Cavallo, era interessato da una crescente attività edilizia a partire da quello che diventerà il palazzo papale, che a più riprese era fatto oggetto di ampliamenti condizionando tutta l'attività edilizia nell'area circostante. Successivamente ai grandi lavori di livellamento e rettificazione del percorso di crinale della Alta Semita iniziati e condotti a termine da Pio IV (sulla lapide di Porta Pia si legge: PIVS IIII / PONT. MAX. / SVBLATA NOMENTANA EXSTRVXIT / VIAM PIAM / AEQVATA ALTA SEMITA DVXIT), e alla vigorosa attività edilizia e urbanistica di Sisto V con il tracciamento di nuovi assi viari nella zona nord-orientale della città ancora in gran parte disabitata, venne successivamente terminato nel 1587 il restauro ed il ripristino dell'antico Acquedotto alessandrino, chiamato da allora “Acqua Felice” dal nome del papa, al secolo Felice Peretti, sotto il cui pontificato venne terminata l'opera. Come era stato fatto in precedenza per l'Aqua Virgo, furono iniziati i lavori per una ramificazione sotterranea secondaria del condotto, in modo da assicurare l'approvvigionamento idrico delle zone dei colli Viminale e Quirinale, allora scarsamente serviti, e venne di conseguenza progettata anche l'edificazione di un certo numero di fontane. Dopo la Fontana del Mosè e contemporaneamente alla Fontana dei Dioscuri posta davanti al palazzo del Quirinale, Sisto V volle che l'incrocio tra quelle due importanti arterie, pressoché ortogonale, avesse un degno ornamento. Inizialmente gli vennero proposte quattro statue sacre, ma il pontefice era talmente entusiasta del “suo” acquedotto che preferì una fontana. Il progetto (il cui autore ci è ignoto) sviluppò invece una fontana per ogni angolo del quadrivio, anche per non intralciare il traffico urbano.\nSisto V aveva però speso talmente tanto per la realizzazione dell'acquedotto e per la Fontana del Mosè che per questa nuova opera ricorse ad un espediente che in futuro riscosse un certo favore: affidarsi alla munificenza dei privati, in modo che le fontane fossero “semipubbliche”. Del resto dell'acqua fornita dall'acquedotto sistino fino a Monte Cavallo non godevano solo i proprietari del Quirinale, ma anche i proprietari dei terreni che insistevano in prossimità del percorso dell'acquedotto. Sicché Muzio Mattei, che già qualche anno prima aveva insistito ed ottenuto che si costruisse la Fontana delle Tartarughe davanti al suo palazzo di Sant'Angelo, e che possedeva, in corrispondenza dell'incrocio, terreni che la via oggi delle Quattro Fontane aveva ben valorizzato pur tagliandoli in due, offrì il suo finanziamento per la costruzione di due delle quattro fontane. Le altre due vennero finanziate da monsignor Grimani, e da un Giacomo Gridenzoni (o Gridenzani) cremonese, che avevano proprietà sull'incrocio.\nLe quattro opere in travertino (ma in realtà è più corretto parlare di una sola opera suddivisa in quattro parti) furono realizzate tra il 1588 e il 1593, sfruttando delle nicchie rettangolari di diversa dimensione, appositamente ricavate negli angoli dei palazzi. I soggetti, tutti diversi, sono però raggruppati a coppie analoghe: due figure maschili barbute, allegorie del Tevere e dell'Arno, che fronteggiano rispettivamente due femminili, che rappresentano Diana e Giunone. Le prime due simboleggiano Roma e Firenze, mentre quelle di Diana e Giunone sono simbolo rispettivamente di Fedeltà e Fortezza. Tutte le figure sono sdraiate su un fianco, con l'acqua che si riversa in piccole vasche semicircolari. Tevere e Giunone hanno un ricco sfondo decorato (nel primo gruppo è ovviamente presente la lupa), mentre quello dell'Arno è molto più piccolo, con un semplice rilievo di vegetazione da cui spunta un leone, e Diana non ne possiede affatto, ma è fornita di alcuni elementi caratteristici delle insegne di papa Sisto V (la stella e la testa di leone scolpiti sulla vasca e il trimonzio su cui la figura poggia il gomito).\nIl disegno delle fontane del Tevere, dell'Arno e di Giunone è forse di Domenico Fontana, che aveva progettato la via, anche se ormai gli storici dell'arte tendono ad attribuire a Pietro Paolo Olivieri l'Arno e il Giunone (ma esistono diversi dubbi sull'attribuzione del Tevere). La quarta, quella di Diana che volge le spalle a nord, è attribuita a Pietro da Cortona. Le realizzazioni sono state affidate a scultori sconosciuti.\nL'incrocio sul quale insistono le fontane è oggi il punto di raccordo di tre rioni diversi: Monti, Trevi e Castro Pretorio.\nNell'estate 2009 la fontana rappresentante il Tevere è stata danneggiata; il ritrovamento del frammento mancante ha tuttavia permesso l'avvio dei lavori di restauro.\n\nAltre immagini.
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### Titolo: Questione omerica.\n### Descrizione: La questione omerica si riferisce al dibattito che interessa filologi e storici della lingua greca arcaica circa l'attendibilità della composizione dell'Iliade e dell'Odissea da parte di Omero e sull'esistenza stessa di quest'ultimo.\nIl dibattito ha origini molto antiche, perché già in età classica si discuteva sulla paternità dell'Odissea di Omero. Negli ultimi secoli del medioevo, e nei primi del rinascimento, vi sarà uno sviluppo di questo dibattito, ma si potrà parlare di questione omerica solo con Wolf e con la suddivisione degli studiosi in unitari ed analitici (i primi riconoscono Omero come autore di almeno uno dei poemi o entrambi; i secondi disconoscono completamente la paternità omerica dei poemi).\nEssa è motivata, anzitutto, dall'interesse per la figura del poeta Omero, di cui gli antichi non dubitavano ma, allo stesso tempo, di cui avevano notizie insicure e che era al centro di vere e proprie rivendicazioni (per esempio sul luogo di nascita); soprattutto, però, trae origine dai dubbi testuali suscitati dagli stessi poemi omerici: in essi, infatti, si riscontrano incongruenze (per esempio l'uso del duale nel libro IX dell'Iliade, quando i membri dell'ambasceria sono in realtà tre), contraddizioni (per esempio Pilemene, condottiero dei Paflagoni, che muore in Iliade V 576 ma ritorna in XIII 658), frequenti ripetizioni di espressioni e interi blocchi di versi.\n\nIl dibattito presso gli antichi.\nTutti gli autori antichi ci informano che una fissazione per iscritto dei due poemi era avvenuta già al tempo di Pisistrato, ad Atene nel VI secolo a.C.: si trattò di una sorta di edizione nazionale che finì per prevalere su quelle dovute a singole comunità cittadine, che già da tempo circolavano in tutta la Grecia affiancate da quelle nate a cura di privati. La suddivisione dei poemi in 24 canti, contrassegnati da lettere maiuscole per l'Iliade e da minuscole per l'Odissea, è di età alessandrina.\nProprio a partire dalla redazione pisistratea e dalla composizione orale dei due poemi, nasce e si sviluppa la questione omerica.\nInoltre, a seguito di studi, si è scoperto che tra la scrittura dell'Iliade e dell'Odissea passarono alcuni secoli.\nSi pensa dunque che Omero possa aver scritto solo uno dei due poemi.\n\nI grammatici alessandrini.\nChi propende per un'origine antica fa risalire la questione omerica al III secolo a.C., in epoca ellenistica, quando due grammatici alessandrini, Xenone ed Ellanico, basandosi su discrepanze di contenuto fra Iliade e Odissea, giunsero a pensare che fossero stati scritti da due persone diverse, meritandosi così l'appellativo di χωρίζοντες (chorizontes), ovvero separatori. Le loro idee, che non arrivavano quindi alla decostruzione dei poemi, furono aspramente contrastate qualche secolo dopo da Aristarco di Samotracia insieme a Zenodoto di Efeso e Aristofane di Bisanzio. Questi, dall'alto della sua autorità di direttore della Biblioteca di Alessandria, con lo scritto Contro il paradosso di Xenone, liquidò le tesi come eresie. Le diversità fra i due poemi, però, permasero e furono spesso giustificate con motivazioni fantasiose ed ingenue; ad esempio l'anonimo autore del Sul sublime (chiamato Pseudo-Longino, del I secolo d.C.), attribuisce l'Iliade ad un Omero più giovane e l'Odissea ad una fase matura e senile della vita del poeta, giustificando questa affermazione con la diversità caratteriale dei protagonisti dei due poemi: da un lato l'irruente e iroso Achille e dall'altra il saggio ed accorto Odisseo.\n\nD'Aubignac e Vico.\nNel 1664 François Hédelin, abate d'Aubignac, lesse in pubblico un suo scritto dal titolo Conjectures accadémiques ou dissertation sur l'Iliade. La dissertazione, che fu pubblicata postuma solo nel 1715, nasceva dall'esigenza di difendere la qualità letteraria del poema dalla sottovalutazione e dal disprezzo allora imperante in Francia. D'Aubignac credeva che Omero non esistesse e che l'Iliade fosse una incoerente mescolanza di vari canti (petite tragedie) composti in età diverse; il valore letterario non andava quindi valutato con riferimento all'opera complessiva ma ricercato in relazione alle singole parti.\nD'Aubignac non conosceva il greco, ed aveva avuto, con i poemi omerici, solo rapporti mediati da traduzioni latine (in particolare quelle di Jean de Sponde), e basterebbe questo a indebolire le sue argomentazioni. Egli sosteneva inoltre che, dato che al tempo di Omero la scrittura non esisteva, l'Iliade, a motivo della sua lunghezza, non avrebbe potuto essere tramandata oralmente. Tuttavia d'Aubignac basava la sua intera tesi su una visione assolutamente antistorica (come del resto fecero altri dopo di lui).\nFu invece opposto il giudizio di Giambattista Vico che, anticipando teorie riprese poi dai Romantici, affermava che la poesia omerica non potesse essere opera di un solo autore ma di tutto il popolo greco nel suo Tempo Favoloso. Dopo aggiunte da parte di intere generazioni di cantori popolari, che si celavano sotto il nome di Omero, sarebbero nati i poemi omerici. Entrambi quindi, pur avendo visioni diverse della creazione dei poemi sostengono l'inesistenza di Omero.\n\nWolf.\nL'incomprensione del razionalismo dominante di Vico, da parte dei contemporanei, rese scarsamente popolare il pensiero del filosofo, e quindi le sue supposizioni sui poemi omerici. La stessa cosa non accadde per gli scritti di D'Aubignac, che coinvolsero la celebre opera del filologo tedesco Friedrich August Wolf (1759 – 1824), Prolegomena ad Homerum (Introduzione ad Omero), apparsa nel 1795 e considerata ancora oggi la prima trattazione del poema a livello scientifico.\nL'opera, che vuole essere un'introduzione ad un'edizione critica dei due poemi, è per circa metà costituita da un'approfondita omerologia antica, mentre nella seconda metà si affronta più direttamente la questione; la tesi dell'abate francese (l'inesistenza della scrittura e la cucitura di piccole rapsodie) è accompagnata da citazioni e testimonianze, che danno originalità all'opera laddove invece essa, senza ammetterlo esplicitamente, è sostanzialmente debitrice all'opera non solo di D'Aubignac, ma anche di T. Blackwell e R. Wood. Le quotazioni dell'opera wolfiana, dopo un'iniziale freddezza, cominciarono a salire fino a far proclamare Wolf padre della questione omerica.\nLa fortuna del filologo tedesco fu anche accidentalmente legata ad un evento letterario che aveva avuto un'influenza particolare sulla cultura contemporanea: l'anno successivo alla pubblicazione dello scritto di Wolf moriva il poeta scozzese James MacPherson, autore dei Canti di Ossian, una raccolta di poemetti che egli diceva esser stati tramandati per via orale da Ossian, un bardo (il corrispondente celtico dell'aedo greco) vissuto molti secoli prima (III secolo d.C.). MacPherson affermava di aver raccolto quei canti dalla viva voce dei contadini e pastori della sua terra: in realtà l'opera era un abile falso letterario, che ricreava l'atmosfera delle saghe celtiche, ma che era quasi integralmente dovuta alla mano dello scrittore moderno.\nQuesta opera offriva una precisa conferma della tesi di Wolf, equiparando Omero ad Ossian e colui che riportò in forma scritta i due poemi all'epoca di Pisistrato a MacPherson. Tuttavia, va riconosciuto a Wolf il merito di aver sviluppato tesi e spunti offertigli dai suoi predecessori e di aver indicato ai suoi successori una strada analitica. Da lui derivò un'intera corrente di filologi che portò ad una vera e propria vivisezione dei due poemi con l'intento di individuare qualsiasi elemento che potesse avvalorare la tesi anti-unitaria. Inoltre si delineeranno due strade diverse di pensiero che faranno da base agli studi omerici dell’'800 e '900. Nacquero così gli unitari (studiosi che attribuiscono ad Omero almeno uno dei due canti, generalmente l'Iliade, se non entrambi) e gli analitici (coloro che disconoscono Omero come padre dei due poemi).\n\nLa critica analitica.\nSi delineano, all'interno della critica analitica, due teorie, una di un nucleo a cui si legano altri canti, l'altra di canti autonomi uniti insieme. Secondo la teoria del nucleo primitivo inaugurata da Hermann, in origine ci sarebbero stati due canti sull'ira di Achille e sul ritorno di Odisseo, poco per volta ampliati da intere generazioni di rapsodi.\nBethe e Mazon sostengono che questo primo nucleo dovesse contenere almeno quattordici libri: l'ira di Achille, la cacciata dei Greci da Troia, l'uccisione di Ettore e la celebrazione di un eroe (i canti XIX, XX, XXI, XXII sono incentrati su quella di Achille). Secondo la teoria dei canti sparsi introdotta da Karl Lachmann e dal suo discepolo Kirchhoff, vi erano canti autonomi o poemetti minori, che formarono un agglomerato di canti che, ad opera di un ulteriore poeta, sarebbero stati cuciti nei due poemi epici attuali.\nVi è poi il tentativo di conciliare le teorie analitiche e quelle unitarie, da parte di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, con il suo scritto del 1916 Die Ilias und Homer. Egli accetta le teorie di Lachmann e Kirchhoff, afferma che, attorno all'VIII secolo, in ambiente ionico, un poeta (forse di nome Omero) attingendo alla tradizione rapsodica della sua terra avrebbe fuso i Kleinepen (primi nuclei) in un Grossepos (grande poema epico). A questo lavoro si sarebbero aggiunti poi nuovi canti; in questo modo si prova l'esistenza di Omero e della sua opera, al di là delle aggiunte e del materiale già esistente.\n\nParry: la teoria oralistica.\nLa questione omerica ebbe un'importante svolta con le teorie di Milman Parry (1902-1935). Secondo tale studioso i poemi omerici nacquero in una cultura orale, ossia in una società che non conosceva la scrittura. Egli esaminò le cosiddette 'formule' dei poemi omerici, ossia gruppi di due o più parole (talvolta svariati versi) che si ripetono in numerosi punti dei poemi omerici, immutati o con minime variazioni per adeguarsi al racconto e alla metrica. Tali formule erano spesso legate a temi anch'essi ricorrenti (la battaglia, il consiglio, lo scudo dell'eroe e altri) e spesso prevedibili. In questo modo Parry e i successivi studiosi arrivarono a dimostrare che le parti dei poemi omerici non legate a formule erano in realtà molto poche. Secondo tali studiosi, le formule erano legate alla cultura dell'oralità, poiché facilitavano ai rapsodi la memorizzazione di lunghi poemi.Tali rapsodi infatti non imparavano i poemi a memoria, ma erano in grado di ripeterli, ogni volta con poche variazioni, appunto cucendo insieme la varie formule. Questo sistema formulare non poteva essere il risultato della composizione (puramente orale) da parte di un singolo autore, ma era venuto formandosi col passare dei secoli e con il contributo di un numero indefinito di anonimi rapsodi. Secondo la teoria di Parry insomma i poemi omerici sono il prodotto della cultura di tutto un popolo e non avrebbero dunque un autore preciso.Questo modo di poetare favorirebbe quindi la ripetizione di formule precostituite, ossia gli epiteti. L'idea che opere poetiche di eccelso valore fossero essenzialmente costituite da stereotipi risultò sorprendente e poco credibile a molti studiosi, ma Parry spiegò che in una cultura orale, che non può mettere nulla per iscritto, le nozioni devono essere costantemente ripetute per evitare che vadano perse, e questo porta quindi allo stereotipo, al continuo ribadire concetti e parole già espressi. Insomma i poemi omerici contenevano stereotipi per il semplice fatto che la cultura orale era essenzialmente basata sullo stereotipo.
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### Titolo: Racconto di Orfeo.\n### Descrizione: Il Racconto di Orfeo (The Tale of Orpheus and Erudices his Quene), conosciuto anche con il titolo di Orfeo ed Euridice (Orpheus and Eurydice), è un poema dello scrittore scozzese Robert Henryson.\nL'opera - che viene fatta derivare da Boezio - fu pubblicata nel 1508 e tratta - come altri lavori coevi - il mito di Orfeo che, neppure un secolo dopo, sarebbe stato uno dei soggetti preferiti per le origini dell'opera.
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### Titolo: Radamanto.\n### Descrizione: Radamanto (in greco antico: Ῥαδάμανθυς?, Rhadámanthys) o Radamante, è un personaggio della mitologia greca. Fu un re dell'isola di Creta.\nEra un semidio che godette di culto eroico a Creta, nelle isole egee ed in Beozia.\n\nGenealogia.\nFiglio di Zeus e di Europa o di Efesto, così come i due fratelli (Minosse e Sarpedonte), fu adottato da Asterio dopo che questi sposò la madre.\nSposò Alcmena (la vedova di Anfitrione) e fu padre di Gortis (associato al paese di Gortina) ed Erythrus, che secondo Pausania era il fondatore di Eritre.\n\nMitologia.\nSecondo le leggende, forse dal periodo minoico, era un re potente e durante la sua vita, portò la legge e la giustizia a Creta e dopo la sua morte continuò nel Tartaro come un sovrano e giudice giusto.\nInizialmente era considerato un pronipote di Kres (l'eponimo dell'isola Creta) ma successive genealogie lo collocano accanto a Minosse e Sarpedonte come figlio di Zeus e di Europa.\nA volte si possono trovare riferimenti ai tre fratelli e giudici della morte indicati come Radamante, Minosse ed Eaco. Eaco però non è Sarpedonte, che sarebbe il vero terzo fratello.\nSecondo Omero, i Feaci lo portarono una volta su una delle loro navi da Scheria verso Eubea.\nSi recò anche a Calea, dove sposò Alcmena e si meritò la reputazione di legislatore sapientissimo.\nSecondo Omero dimora nei Campi Elisi (Isole dei Beati) e per questo fu considerato Signore del mondo ultraterreno.\nIn Platone troviamo una tradizione che fa di Radamanto, assieme ad Eaco, Minosse e Trittolemo, un giudice dei morti. Quando gli antichi volevano esprimere un giudizio giusto, quantunque severo, lo chiamavano 'giudizio di Radamanto', proprio a significare la sua grande equità. Nel Tartaro esso inquisiva sui delitti e li puniva, obbligava i colpevoli a rivelare gli errori della loro vita ed a confessare i delitti la cui espiazione doveva avvenire dopo la morte. Radamantini erano i giuramenti che si facevano invocando a testimoni animali o cose inanimate.Socrate ad esempio, giurava per il cane o per il papero e Zenone per la capra.\nRadamanto è rappresentato seduto su un trono al fianco di Crono con uno scettro in mano e sulla porta dei Campi Elisi.\n\nAltri media.\nRadamanto appare come boss da sconfiggere nel videogioco God of War III.\nNel manga Saint Seiya - I Cavalieri dello zodiaco, nell'anime tratto da esso e nel prequel Saint Seiya - The Lost Canvas, Radamante (a volte chiamato alla greca, Rhadamanthis) è, come Eaco e Minosse, uno dei 3 Giganti degli Inferi, (detti anche i 3 Giudici) che guidano gli Specter, le armate di Ade il dio dell'Oltretomba.
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### Titolo: Rario.\n### Descrizione: Rario (Ράριον πεδίον) era un terreno che si trovava a Eleusi, e si supponeva fosse la prima porzione di terra dedicata alla coltivazione del grano dopo che Demetra aveva insegnato l'agricoltura all'umanità tramite Trittolemo. Questo luogo era associato ai Misteri di Eleusi.\nDemetra aveva come soprannome Rharias per il campo, o per il suo mitico eponimo Raro. (Ρᾶρος).
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### Titolo: Ratto di Elena (Reni).\n### Descrizione: Il Ratto di Elena è un dipinto realizzato tra il 1628 ed il 1629 da Guido Reni, attualmente conservato presso il Museo del Louvre di Parigi.\n\nStoria.\nNel 1627, per il tramite dei suoi emissari in Italia, precisamente a Roma, Filippo IV di Spagna aveva commissionato a Guido Reni una tela di grandi dimensioni raffigurante il rapimento di Elena di Troia. Trascorso poco tempo l'artista rientrò nella sua città natale, Bologna, dove peraltro si trovava anche il cardinale Bernardino Spada, lì presente in qualità di legato pontificio. Questa circostanza rese possibile per il cardinale seguire personalmente la realizzazione della tela, operazione di particolare interesse, soprattutto tenendo conto del rango del committente, che comportava implicazioni politiche di rilevanti per la corte pontificia. Alcuni storici dell'arte ipotizzano che - nella cornice della Guerra dei trent'anni - Papa Urbano VIII, notoriamente filofrancese, abbia colto l'occasione della tela per mandare dei messaggi al suo arcinemico spagnolo. Taluni ritengono che questo dipinto e la Morte di Didone del Guercino siano un'allegoria congiunta volta a veicolare messaggi diplomatici diretti a Filippo IV e Maria de' Medici.\n\nDopo aver portato a termine l'opera, gli emissari spagnoli non furono d'accordo sul suo pagamento e il dipinto rimase invenduto: di questo alterco colse l'occasione il cardinale Spada, che suggerì a Maria de' Medici di acquistare la tela. La regina consorte accettò il consiglio, pertanto il dipinto partì per la Francia. Quando il Ratto raggiunse il territorio francese non poté essere acquisito dalla regina Maria, che nel frattempo non aveva più alcun ruolo di rilevanza politica, e fu quindi acquistato nel 1654 (o antecedentemente) dal marchese Louis Phélypeaux de La Vrillière, che lo collocò nella sua galleria parigina, oggi non più esistente, commissionando un pendant a Pietro da Cortona, avente come titolo Cesare rimette Cleopatra sul trono di Egitto. Comparve in un inventario postumo del suo patrimonio e fu venduto dal nipote Louis III de La Vrillière (1672-1725) a Louis Raulin Rouillé, controllore generale delle poste, la cui vedova lo vendette a sua volta a Luigi Alessandro di Borbone, conte di Tolosa (1678-1737), figlio legittimo del re di Francia Luigi XIV e della sua amante Madame de Montespan. La tela fu ereditata dal figlio Luigi Giovanni Maria (1725-1793) nel 1737 e sequestrata durante la Rivoluzione francese insieme al resto della sua collezione. Trasferita al Louvre, fu inizialmente esposta nel Musée Central des Arts nel 1801 e poi, durante la Prima guerra mondiale, posta in sicurezza nel castello di Maisons-Laffitte.
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### Titolo: Ratto di Ganimede (Correggio).\n### Descrizione: Il Ratto di Ganimede è un dipinto a olio su tela (163,5x70,5 cm) di Correggio, databile al 1531-1532 circa e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.\nFa parte di una serie realizzata per il duca di Mantova Federico II Gonzaga avente per tema gli amori di Giove.\n\nStoria.\nLa serie degli Amori di Giove venne concepita dopo il successo riscosso dalla tela di Venere e Amore spiati da un satiro. L'artista fece in tempo ad eseguire quattro tele, accoppiabili a due a due per le dimensioni, e forse altre ne erano state programmate. La cronologia delle quattro tele è argomento alquanto controverso. Ciò che importa però è soprattutto il fondamentale contributo che esse diedero allo sviluppo della pittura a soggetto mitologico e profano, grazie al nuovo e straordinario equilibrio tra resa naturalistica e trasfigurazione poetica.\nNella prima edizione delle Vite (1550), Giorgio Vasari citò solo due delle opere del Correggio dedicate agli amori di Giove: la Leda (oggi alla Gemäldegalerie di Berlino) e la Venere (verosimilmente la Danae della Galleria Borghese di Roma), delle quali fece una descrizione piuttosto imprecisa. D'altronde, lo scrittore non conosceva tali opere se non attraverso le parole di Giulio Romano.\nL'aretino riferì che tali dipinti vennero commissionati all'artista emiliano dal duca di Mantova Federico II Gonzaga, che intendeva farne dono al Carlo V: malgrado egli non faccia menzione del Ratto di Ganimede e di Giove e Io, dal fatto che queste due tele si trovassero in Spagna a metà del XVI secolo insieme all'altra coppia di dipinti, è possibile dedurre che facessero tutte parte di un unico ciclo.\nCecil Gould ipotizzò che il Gonzaga abbia commissionato le tele con Io e Ganimede per sé e che le abbia cedute all'imperatore solo quando questi, verosimilmente durante la visita del 1532, ebbe modo di vederle e apprezzarle, promettendogli di ottenergliene altri due (Danae e Leda); per Verheyen i quattro dipinti sarebbero stati realizzati dal Correggio per la sala di Ovidio in palazzo Te a Mantova e sarebbero passati a Carlo solo dopo la morte del duca Federico (1540), forse in occasione delle nozze di suo figlio, l'infante Filippo, con Maria Emanuela d'Aviz.Tra il 1603 e il 1604 il dipinto venne fatto acquistare in Spagna da un intermediario di Rodolfo II d'Asburgo con il Cupido che fabbrica l'arco del Parmigianino, e portato a Praga. La tela è conservata a Vienna almeno dagli anni '10 del Seicento, quando, insieme alla Io, è menzionata in un inventario delle collezioni imperiali.\n\nDescrizione e stile.\nSecondo il mito greco, Ganimede era un bellissimo fanciullo troiano. Giove, innamoratosi di lui, prese le sembianze di un'aquila, lo rapì mentre era intento al pascolo sul monte Ida e lo condusse con sé sull'Olimpo, facendone il coppiere degli dei: mentre Senofonte leggeva nell'episodio l'allegoria morale della superiorità della mente sul corpo (il nome di Ganimede è formato dalle parole greche γάνυσθαι, 'gioire', e μήδεα, 'intelligenza'), per Platone il mito era stato inventato dai cretesi per giustificare le relazioni tra uomini adulti e ragazzi adolescenti, ma nel Rinascimento il ratto di Ganimede era arrivato a simboleggiare l'estasi dell'amore platonico, che 'libera l'anima dai suoi legami fisici e la solleva a una sfera di beatitudine olimpica'.Quella di Correggio è la prima grande rappresentazione del mito dell'età moderna (contemporaneamente Michelangelo stava pensando allo stesso tema per la decorazione della cupola della Sagrestia Nuova della basilica fiorentina di San Lorenzo, ma non portò a compimento l'opera). Difficile dire quale interpretazione l'artista desse del mito: la sua versione del tema, pur estremamente sensuale, è piuttosto diretta; il cane serve a ricordare l'attività terrena e il fatto che la sua figura sia ritagliata sull'orlo inferiore della composizione crea un effetto di maggiore immediatezza. L'estremo realismo con cui è resa l'aquila, animale araldico presente nello stemma di casa Gonzaga e, al contempo, emblema dell'autorità imperiale, potrebbe essere interpretato come un omaggio del duca Federico a Carlo V.\nL'iconografia rappresentò quindi per il Correggio una sfida per esibire la propria bravura. Se là si trattava di rappresentare la consistenza impalpabile di una nuvola, qui la difficoltà maggiore stava nel rappresentare convincentemente una figura in volo. Forse non c'era artista a questa data in Italia e all'estero che fosse più abile del Correggio per un compito siffatto. L'esperienza della decorazione della cupola di San Giovanni Evangelista e di quella del Duomo di Parma avevano fatto dell'artista un esperto in materia. Proprio dagli affreschi del Duomo è stato notato che deriva la figura del Ganimede, particolarmente da uno degli angeli efebici in volo sulle nuvole.\nRimane la delicatissima e solare invenzione figurativa del Correggio, giocata sulle tenere fattezze del Ganimede in volo, sulla sua fanciullesca ingenuità, sul mirabile giro – continuamente spostato – del punto di vista lungo la verticale della visione, e sui colori eccezionalmente preziosi. La tecnica infatti di sottili, calibratissime pellicole di colore conferma la datazione della scena agli stessi anni della Io.
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### Titolo: Ratto di Ganimede (Rembrandt).\n### Descrizione: Ratto di Ganimede è un dipinto olio su tela (177x130 cm) realizzato nel 1635 da Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, conservato nella Gemäldegalerie Alte Meister facente parte della Staatliche Kunstsammlungen Dresden.\nL'opera è firmata e datata 'REMBRANDT. FT 1635'.\nGanimede venne rapito da Zeus per la sua bellezza e portato sull'Olimpo: qui divenne il coppiere degli dei.\nL'artista raffigura il momento del rapimento del fanciullo da parte di Zeus, sotto forma di aquila. Ganimede stringe ancora in mano delle ciliegie: il suo terrore si legge sia nei lineamenti distorti del viso, sia nel fiotto di urina che scende incontrollata.
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### Titolo: Ratto di Ganimede (Rubens).\n### Descrizione: Il ratto di Ganimede è un dipinto a olio su tela (181x87 cm) realizzato tra il 1636 ed il 1638 dal pittore Pieter Paul Rubens.\nÈ conservato nel Museo del Prado.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ratto di Ganimede.\n\nCollegamenti esterni.\nMuseo del Prado – Sito Ufficiale.
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### Titolo: Ratto di Proserpina (Bernini).\n### Descrizione: Il Ratto di Proserpina è un gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini, eseguito tra il 1621 e il 1622 ed esposto nella Galleria Borghese di Roma.\n\nStoria.\nL'opera, in candido marmo di Carrara, fu eseguita tra il 1621 e il 1622 dallo scultore ventitreenne Gian Lorenzo Bernini, su commissione del cardinale-protettore Scipione Caffarelli-Borghese. Scipione Borghese, che iniziò a retribuire il giovane Bernini a partire dal giugno del 1621, avrebbe infine collocato l'opera ultimata nella propria villa fuori Porta Pinciana il 23 settembre dell'anno successivo.La presenza di tale favola pagana nella casa del cardinale fu giustificata con un distico moraleggiante in latino di Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII e futuro committente di Bernini, che impressionato dalla qualità del marmo scrisse:.\n\nIl Ratto di Proserpina, tuttavia, rimase poco tempo a villa Borghese, poiché nel 1623 Scipione fece dono dell'opera al cardinale Ludovico Ludovisi, che la espose nella propria villa. È lo stesso inventario di Ludovisi ad attestare lo spostamento, includendo la descrizione di «una Proserpina di marmo che un Plutone la porta via alto palmi 12 in circa et un can trifauce con piedistallo di marmo con alcuni versi di faccia». Non si sa ancora perché Scipione abbia regalato il gruppo scultoreo a Ludovisi: c'è chi suppone che si sia trattato di un gesto mosso da considerazioni di opportunità politica, oppure chi ritiene sia stata una semplice attestazione di «buona volontà» da parte del Borghese.Il Ratto di Proserpina, in ogni caso, fu acquistato dallo Stato italiano solo nel 1908, e ricollocato nello stesso anno presso la galleria Borghese su un piedistallo disegnato da Pietro Fortunati.\n\nDescrizione dell'opera.\nMateria narrativa.\nIl mito della dea Proserpina.\nAll'inizio dei tempi, la dea Cerere seminava, innaffiava le piante e faceva sì che gli alberi fiorissero e dessero frutti. Secondo diverse antiche fonti letterarie, mentre Cerere lavorava, sua figlia Proserpina giocava in compagnia delle sue tre ancelle Ligea, Leucosia e Partenope e la sera tornava a casa insieme alla madre, cantando e ridendo con lei.\nPlutone, il dio dei morti, non viveva sul Monte Olimpo, ma regnava sotto terra, al freddo e al buio, da solo. Nessuna donna aveva infatti mai voluto rinunciare allo splendore della luce, al calore del sole e alle bellezze della natura per diventare regina dell'Oltretomba.\nUn giorno, Plutone scorse Proserpina mentre ella raccoglieva fiori nel verde della antica Hipponion (odierna Vibo Valentia), e quando la vide se ne innamorò. Sapendo però che se fosse andato a chiederla in sposa a Cerere, entrambe avrebbero rifiutato la sua proposta, decise di rapirla, col consenso di Giove. Salì quindi sul suo carro nero e, sporgendosi da questo, afferrò Proserpina per i capelli. Quando giunsero al fiume Acheronte, che divide il regno dei vivi dal regno dei morti, Proserpina gridò al punto che anche il fiume s'impietosì, e cercò di far cadere Plutone afferrandolo per le gambe. Proserpina, disperata, si tolse la cintura di fiori che indossava e la lanciò nel fiume, affinché le acque potessero portare alla madre il suo messaggio.\nPlutone e Proserpina giunsero nel regno dei morti e, mentre Plutone cercava di consolarla dicendole che sarebbe diventata regina, sulla Terra era sceso il tramonto. Cerere invano la cercò disperatamente in giro per il mondo, e intanto, per il dolore e la disperazione, lasciò appassire i fiori e smise di seminare, sicché il frumento e i frutti smisero di crescere. Dopo nove giorni e nove notti vissuti senza sonno e senza cibo alla ricerca della figlia scomparsa, il decimo giorno Cerere si sedette stanca e disperata lungo la riva di un fiume, e in quel momento scorse, accanto a lei, una piccola cintura di fiori. La verità le fu quindi raccontata da Elios, il dio Sole. Egli le rivelò lo svolgimento dei fatti avvenuti con il consenso di Giove. Per il dolore, Cerere non si curò più della terra, e quindi cessò la fertilità dei campi.\nGiove, vedendo la fame sterminare intere popolazioni, mandò i suoi messaggeri a rabbonire l'indignata Cerere, la quale, irremovibile, rispondeva che sarebbe tornata alle cure della terra solo se Proserpina fosse tornata con lei. Giove decise allora d'inviare immediatamente Mercurio ad avvisare la figlia affinché non toccasse cibo. Plutone infatti aveva fatto preparare un pranzo succulento e appetitoso, e malgrado Proserpina fosse troppo infelice per mangiare, infine, su insistenza di Plutone, cedette per la fame davanti a rossi e succosi chicchi di melograno che il dio dei morti, furbamente, le aveva messo in mano. Plutone gliene porse una dozzina e, quando arrivò Mercurio, Proserpina purtroppo ne aveva già assaggiati sei.\nLa fanciulla scoppiò in lacrime quando venne a conoscenza della legge divina per cui colui che mangia anche un solo boccone mentre si trova nel regno dei morti non può più ritornare sulla Terra. Giove, mosso a compassione, decise che Proserpina, avendo mangiato sei soli chicchi di melograno, avrebbe vissuto nel regno dei morti insieme a Plutone sei mesi all'anno e i rimanenti sei mesi avrebbe vissuto sulla Terra insieme alla madre Cerere.\n\nIl mito di Proserpina vuole quindi che l'arrivo della primavera sia sancito dall'arrivo di Proserpina sulla Terra, e che il suo ritorno nell'Ade, sei mesi dopo, coincida con l'arrivo dell'autunno. La primavera ritornerebbe allora l'anno successivo, assieme alla fanciulla.\n\nAnalisi.\nL'opera di Bernini coglie l'azione al culmine del suo svolgimento e offre all'osservatore il massimo del pathos: le emozioni dei personaggi sono infatti perfettamente rappresentate e leggibili attraverso la gestualità e l'espressività dei volti. Plutone è contraddistinto dai suoi attributi regali (la corona e lo scettro) mentre dietro di lui, il feroce guardiano dell'Ade, Cerbero, controlla che nessuno ostacoli il percorso del padrone, girando le sue tre teste in tutte le direzioni. Proserpina lotta inutilmente per sottrarsi alla furia erotica di Plutone spingendo la mano sinistra sul volto del dio, il quale, invece, la trattiene con forza, affondando letteralmente le sue dita nella coscia e nel fianco della donna. Con questo dettaglio, attraverso cui Bernini ha reso con notevole verosimiglianza la morbidezza della carne di Proserpina, lo scultore ha dimostrato il suo stupefacente virtuosismo.\nIl potente dio dell'Oltretomba sta guardando la fanciulla avidamente, con una bramosia suggerita dalle linee d'ombra e dalle puntine bianche presenti nei suoi occhi, profondamente scavati dall'artista; la visione della fanciulla, tuttavia, gli è impedita perché ella sta premendo con la mano sopra il suo sopracciglio sinistro. Proserpina, invece, è colta nell'attimo in cui sta gridando un'invocazione disperata alla madre Cerere e alle compagne. I suoi occhi, tumidi di commoventi lacrime di marmo per la perdita dei fiori, rivelano un caleidoscopio di emozioni: vi si legge, infatti, la vergogna per la sua nudità profanata dalla ferrea presa del rapitore, ma anche il terrore per l'oscurità degli Inferi, e la paura per la brutale violenza di Plutone.\nLa composizione del gruppo segue delle direttrici dinamiche sottolineate dai movimenti degli arti e delle teste, accentuate dal moto dei capelli e del drappo che scopre il corpo giovanile e sensuale della dea. Il corpo di Plutone è invece possente e muscolare e la sua virilità è accentuata dalla folta barba e dai riccioli selvaggi dei capelli, le cui ciocche, nettamente definite e in forte rilievo, rivelano un abbondante uso del trapano.\nBernini si prefiggeva di realizzare opere il cui virtuosismo fosse tale da far sì che i personaggi mitici raffigurati quasi sembrassero figure reali. Tuttavia, ciò che conferisce una certa artificiosità alla scena è la natura del movimento. La posa dei due è piuttosto innaturale e, idealmente, spiraliforme: un espediente, quello del moto a spirale, già utilizzato nel manierismo per esprimere al meglio un senso di moto e di dinamica all'interno di un'opera che, ovviamente, è caratterizzata dalla staticità. Tuttavia, pur essendo innaturale, la posa, nell'insieme, è indubbiamente molto teatrale e di grande impatto emotivo e visivo.\nIl gruppo, capolavoro di scultura barocca, ha un punto di vista privilegiato, ovvero quello frontale, che rende riconoscibili i personaggi e comprensibile la scena. L'opera, tuttavia, è leggibile da tutte le visuali, poiché ciascun punto di vista è in grado di continuare la narrazione della scultura: guardando Plutone da sinistra, infatti, si scopre che il dio sta iniziando appena a correre, mentre guardando Proserpina dalla diagonale del suo plinto si vede come i suoi occhi da quella posizione sembrino guardare esclusivamente lo spettatore. La scultura è anche perfettamente rifinita in tutte le sue parti e ricca di particolari che, ancora oggi, catturano l'attenzione dell'osservatore.
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### Titolo: Ratto di Proserpina (Rembrandt).\n### Descrizione: Il Ratto di Proserpina è un dipinto a olio su tavola (84,5x79,5 cm) realizzato nel 1632 circa dal pittore Rembrandt Harmenszoon Van Rijn.\nÈ conservato nel Staatliche Museen di Berlino.\nProserpina, figlia di Cerere, viene rapita da Plutone, dio degli inferi, che si era invaghito di lei, il quale emerge dall'oltretomba da una grotta situata nel Lago di Pergusa nei pressi di Enna, dove secondo il mito Proserpina era intenta a cogliere fiori. La scena raffigurata è molto forte: il dio ha ghermito la fanciulla sul suo carro, mentre le fanciulle che la accompagnavano cercano disperatamente di trattenerla. Proserpina lotta, ma ormai i cavalli stanno già varcando le soglie del regno dei morti.\nLa drammaticità della scena è evidenziata dalla luce, che divide a metà il quadro: a sinistra, il mondo dei vivi, a destra, il buio dell'Ade.
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### Titolo: Reso.\n### Descrizione: Reso (in greco antico Ῥῆσος Rhḕsos) è un personaggio della mitologia greca, signore di Tracia. Nella letteratura occidentale ha inizio con lui la serie dei giovani guerrieri destinati a venire uccisi nel sonno. La leggenda che lo riguarda si conclude con la sua singolarissima risurrezione.\n\nEtimologia.\nIl nome Reso (un antroponimo tracio) probabilmente deriva dalla radice Indoeuropea *reg-, 'governare' mutata secondo le caratteristiche tipiche di una lingua Satem. In Bitinia c'era anche un fiume chiamato Reso, al quale la mitologia greca attribuisce una divinità protettrice che porta lo stesso nome. Il semidio trace fu parimenti associato alla Bitinia grazie alla sua storia d'amore con la cacciatrice bitina Argantone, da lui sposata poco prima della partenza per Troia, come riportato dagli Erotika Pathemata (Pene d'amore) di Partenio di Nicea.\n\nIl mito.\nLe origini.\nReso era un giovane re della Tracia che, secondo l'Iliade, nel corso della guerra di Troia si alleò con i troiani di Priamo. Omero afferma che suo padre era Eioneo, un personaggio altrimenti sconosciuto, sebbene il suo nome sia evidentemente connesso con la città di Eione che si trova nella Tracia occidentale, alla foce dello Strimone. Scrittori di epoche successive attribuirono a Reso come padre il re trace Strimone, che era originario della città trace di Eione, il che può fare pensare che, in Omero, Eioneo non sia nome proprio di persona ma voglia dire in realtà 'l'uomo di Eione', ovvero appunto Strimone. Sempre nelle fonti postomeriche venne data a Reso anche un'origine semidivina, in quanto ritenuto figlio, come già Orfeo, di una delle nove Muse (le fonti oscillano tra Clio, Euterpe e Tersicore), che l'avrebbe fatto allevare da alcune Naiadi; in una variante invece l'eroe è figlio di una donna mortale e di Strimone dopo la trasformazione di costui in dio-fiume.\n\nLa morte.\nReso salì ancora adolescente sul trono di Tracia, succedendo al padre che aveva abdicato in suo favore. Era da poco diventato re quando giunse la notizia della guerra scoppiata tra greci e troiani, e allora inviò in aiuto del re Priamo un grande contingente di uomini guidati da due nobili in età matura, Acamante (zio di Cizico, il defunto sovrano dei Dolioni) e Piroo: se egli non poté subito intervenire direttamente in prima persona fu perché nel contempo si trovò a dover difendere il suo regno da un attacco degli abitanti della Scizia. Passarono così dieci anni, e finalmente Reso arrivò a Troia con un cocchio decorato in oro e argento, trainato da due cavalli bianchi che gli erano stati donati da Ares, dotati di una grandissima velocità. Gli Achei, preoccupati di questo, inviarono Ulisse e Diomede per rubarglieli. I due eroi, penetrati nell'accampamento con il favore del buio, si introdussero nella tenda di Reso: Diomede con la spada colpì alla gola il re e dodici suoi uomini mentre dormivano, per poi allontanarsi con i preziosi animali trafugati nel frattempo da Odisseo. Ironia della sorte, il giovane condottiero stava sognando di essere ucciso da Diomede, il che aveva contribuito ad agitare ulteriormente il suo sonno, essendo egli già di per sé grande russatore. Alla strage sopravvisse Ippocoonte, cugino e coetaneo di Reso, nonché suo consigliere. Questi fatti sono raccontati nel libro X dell'Iliade.\nNella tragedia Reso, la cui attribuzione ad Euripide è tuttora incerta e contestata, si dice che il giovane signore dei Traci fu ucciso la notte stessa del suo arrivo a Troia senza che egli avesse avuto il tempo di dissetare i cavalli con l'acqua dello Scamandro, nel qual caso la città sarebbe divenuta inespugnabile: esausto per le fatiche del viaggio, si era posto a dormire nel suo letto. In quest'opera viene inoltre celebrata la straordinaria bellezza dell'eroe, definito 'simile a un nume' mentre incede sul suo splendido carro da combattimento.\nEcco il passo omerico:.\n\n(Omero, Iliade X, traduzione di Vincenzo Monti).\nManca, nell'opera teatrale, la figura di Ippocoonte: la descrizione dell'uccisione di Reso viene fatta dal suo auriga, che nella strage è rimasto ferito:.\n\n(Pseudo-Euripide, Reso, traduzione di Ettore Romagnoli).\n\nLa risurrezione.\nStando al finale della tragedia pseudoeuripidea, la Musa madre di Reso (non se ne fa mai il nome) prese con sé il cadavere dell'eroe, e pur straziata per la sua morte prematura ne profetizzò l'imminente risurrezione ad opera degli dei inferi, che dopo aver riunito corpo e anima gli avrebbero anche dato l'immortalità facendolo però per sempre restare nelle viscere della terra, lontano dunque dagli uomini viventi ma anche dal regno dei morti, in un luogo misterioso e inaccessibile a tutti, divinità comprese, con un'oscurità inferiore a quella dell'Ade ma non luminoso come i Campi Elisi. Egli dunque diventerà un demone sotterraneo, e come tale verrà venerato dai Traci.\n\n(Pseudo-Euripide, Reso, traduzione di Ettore Romagnoli).\n\nFortuna dell'episodio.\nLetteratura latina e moderna.\nIl tragico assassinio di Reso è ben noto a Virgilio, che nel libro I dell'Eneide pone una sua raffigurazione in un tempio di Cartagine: Enea, che l'ha riconosciuto, non riesce a trattenersi dal pianto. Virgilio non si rifà solo a Omero ma anche all'opera teatrale, in quanto accenna alla fatale dimenticanza dell'eroe.\n\n(Virgilio, Eneide, libro I, traduzione di Annibal Caro).\nMa soprattutto il poeta latino crea, nel libro IX del poema, un episodio quasi del tutto analogo, in cui i due grandi amici troiani Eurialo e Niso seminano un'ingente strage nelle tende dei guerrieri italici addormentati. Due di questi in particolare richiamano il re trace: il condottiero Remo, che ha un cocchio da guerra trainato da cavalli, e l'augure Ramnete ('Amnete' nella traduzione di Adriano Bacchielli), sovrano come Reso, oltre a essere caratterizzato dal russare affannoso. Costituisce invece un'innovazione, rispetto al modello omerico, la morte, mediante decapitazione, di alcune vittime, Remo, Lamiro e Lamo, e il bellissimo Serrano: spettacolare quella di Remo, col sangue che intride tutto il letto su cui è coricato l'eroe.\n\n[...].\n\n(Virgilio, Eneide, libro IX, traduzione di Adriano Bacchielli).\nNon si deve dimenticare, nel poema virgiliano, il passo del sesto libro in cui l'anima di Deifobo racconta ad Enea, sceso vivo nell'Ade, la propria uccisione, avvenuta per mano di Ulisse e Menelao, che lo trucidarono nel sonno dopo essere entrati in casa sua la notte della caduta di Troia. L'episodio era narrato già nella Iliou Persis, opera perduta del ciclo troiano, che fu composta dopo l'Iliade, sicché la figura di Reso è alla base anche dello sviluppo del mito concernente Deifobo, benché le varie mutilazioni subite da costui siano un elemento di cui non si trova traccia nel modello di partenza.\n\n(Virgilio, Eneide, libro VI, traduzione di Luca Canali).\nOvidio rievoca la morte del semidio trace in due differenti opere. Nel tredicesimo libro delle Metamorfosi viene descritta la 'querelle' tra Aiace Telamonio e Ulisse per il possesso delle armi del defunto Achille; tra le ragioni addotte da Ulisse, c'è anche il merito per la strage ai danni di Reso e dei suoi uomini, che a suo dire sarebbe stata compiuta proprio da lui e non da Diomede.\n\n(Ovidio, Metamorfosi, libro XIII).\nL'altro riferimento ovidiano a Reso si trova nell' Ibis, in un passo dove l'episodio omerico viene accostato a quello dell'eccidio compiuto da Eurialo e Niso nell' Eneide.\n« Possa tu riposare di un sonno non migliore di quello di Reso e dei guerrieri, compagni di Reso prima nel viaggio e poi nella morte, e di quelli che col rutulo Ramnete furono uccisi dal non pigro figlio di Irtaco e dal compagno del figlio di Irtaco ».\n(Ovidio, Ibis, vv.627-31, traduzione di Francesco Della Corte).\nIn età moderna Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso si ispira a Omero e in parte anche a Virgilio facendo dei due guerrieri saraceni Cloridano e Medoro gli autori di un massacro notturno di cui restano vittime diversi nemici cristiani sorpresi nel sonno. Qui le figure più vicine a Reso sono i due giovani fratelli Malindo e Ardalico, che come lui si sono appena aggiunti al resto dell'esercito.\n\n(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto XVIII, ottave 174-77, 180).\n\nArte.\nIn campo artistico va ricordato il dipinto Ulisse e Diomede nella tenda di Reso di Corrado Giaquinto, basato sulla versione del mito riferita dallo Pseudo-Euripide. Si trova custodito nella Pinacoteca di Bari.\n\nCinema.\nTobias Santelmann presta il proprio volto a Reso nel film del 2014 Hercules - Il guerriero, dove il protagonista (interpretato da Dwayne Johnson) interagisce con l'eroe trace, il che è un'evidente forzatura in quanto nel mito greco i due semidei appartengono a saghe differenti.
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### Titolo: Romolo e Remo.\n### Descrizione: Romolo e Remo (o, secondo alcuni autori antichi, Romo) sono, nella tradizione mitologica romana, due gemelli, uno dei quali, Romolo, fu il fondatore eponimo della città di Roma e suo primo re. La data di fondazione è indicata per tradizione al 21 aprile 753 a.C. (detto anche Natale di Roma e giorno delle Palilie). Secondo la leggenda, erano figli di Rea Silvia (Rhea Silvia), discendente di Enea, e di Marte.\n\nLa leggenda nelle fonti antiche.\nEsistono innumerevoli versioni della leggenda di Romolo e Remo e della fondazione di Roma, tutte tese alla glorificazione degli antenati dei Romani e della gens Iulia. Ci sono stratificazioni tra diverse leggende, dettagli diversi e 'rami laterali', di volta in volta tesi a togliere o ad aggiungere onore e diritti ai Romani. La leggenda della fondazione di Roma è riportata dallo storico romano Tito Livio nel libro I della sua Storia di Roma. Di essa riferiscono anche Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Varrone.\nQuesto racconto è da sempre stato ritenuto una favola, risalente al periodo fra il IV e il III secolo a.C.. Per alcuni critici la città vera e propria si sarebbe addirittura formata soltanto centocinquanta anni più tardi, all'epoca dei re Tarquini (fine del VII secolo a.C.). Tuttavia, sul colle del Palatino, durante alcuni lavori esplorativi, nel 2007 sarebbe stato ritrovato il lupercale: questo santuario, dove i Romani veneravano il Dio Luperco (Faunus lupercus), è collegato al racconto dell'allattamento di Romolo e Remo da parte della leggendaria lupa.\n\nDa Troia ad Alba Longa.\nCome si racconta nell'Eneide, Enea, figlio della dea Venere, fugge da Troia, ormai occupata dagli Achei, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio; mentre la moglie Creusa, figlia del re Priamo, perisce nell'incendio della città.\nDopo varie peregrinazioni nel Mediterraneo, tra le quali l'approdo a Cartagine dove viene accolto da Didone, Enea approda nel Lazio nel territorio di Laurento. Qui venuto in contatto con gli Aborigeni del re Latino, si scontra con Turno, re dei Rutuli, che resterà ucciso. Enea decise poi di fondare una nuova città, dandole il nome di Lavinium, in onore di sua seconda moglie, Lavinia.In seguito il figlio di Enea, Ascanio, fondò una nuova città di nome Alba Longa (trenta anni dopo la fondazione di Lavinium, secondo Tito Livio), sulla quale regnarono i suoi discendenti per numerose generazioni (dal XII all'VIII secolo a.C.), fino a quando si arrivò al regno di Amulio, che aveva usurpato il trono al fratello Numitore.\n\nRomolo e Remo.\nNumitore, essendo più vecchio di Amulio, aveva ricevuto in eredità l'antico regno della dinastia Silvia. Ma il fratello usurpò il trono, arrivando anche a commettere delitti:.\n\nCostrinse, infine, l'unica figlia femmina del fratello, Rea Silvia, a diventare vestale e a fare quindi voto di castità, togliendole la speranza di diventare madre. Tuttavia il dio Marte s'invaghì della fanciulla e le fece violenza in un bosco sacro, dove era andata ad attingere acqua. Da quel rapporto nacquero i gemelli Romolo e Remo. Al secondo di questi due neonati fu dato lo stesso nome del condottiero rutulo decapitato nel sonno da Niso durante la guerra fra troiani e italici:.\n\nPer ordine dello zio, Rea Silvia fu seppellita viva, come prevedeva la legge per le vestali che non rispettavano il voto di castità. Il re Amulio, in seguito, affidò i bambini a due schiavi con l'ordine di metterli in una cesta, portarli nella parte più alta del fiume, e affidarli alla corrente. Per le piogge recenti il fiume era straripato e aveva allagato i campi nella zona del Velabro, quindi uno dei due uomini pensò di lasciarli nel punto dove erano arrivati. L'altro accettò la proposta e spiegò ai due bambini cosa stava per succeder loro; i due piccoli, allora, emisero un vagito come se avessero capito e vennero affidati alla corrente. La cesta nella quale i gemelli erano stati adagiati si arenò in una pozza d'acqua sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus. Quando le acque del fiume si ritirarono, la cesta rimase all'asciutto ai piedi di un albero di fico (il ficus ruminalis). Altre fonti fanno coincidere il punto dove si fermò la cesta con i gemelli con una grotta collocata alla base del Palatino, detta 'Lupercale' perché sacra a Marte e a Fauno Luperco.\n\nUna lupa, scesa dai monti al fiume per abbeverarsi, fu attirata dai vagiti dei due bambini, li raggiunse e si mise ad allattarli. Vuole la tradizione che anche un picchio portò loro del cibo (entrambi gli animali sono sacri ad Ares). In seguito furono trovati da un pastore di nome Faustolo (porcaro di Amulio), il quale insieme alla moglie Acca Larenzia decide di crescerli come suoi figli. Esiste una supposizione sulla figura di Acca Larenzia. Alcune interpretazioni la identificano con la 'lupa', parola che in latino significa anche prostituta (da cui, 'lupanare', luogo dove si svolge la prostituzione). I Greci, anche se vinti e conquistati dai Romani, considerarono questi sempre dei rozzi barbari non all'altezza della loro raffinata civiltà e per loro la verità era che Romolo e Remo erano stati non raccolti ma figli di una prostituta, la quale, appena nati, li aveva esposti e abbandonati, e a raccoglierli e ad allevarli era stata non la leggendaria lupa ma una donna comune; tanto leggiamo infatti per esempio nella Suida, dizionario in lingua greca scritto nel X secolo d.C.\nIn ogni caso, incertezza della nascita a parte, i bambini crebbero inizialmente nella capanna di Faustolo e Larenzia, situata sulla sommità del Palatino, nella zona del colle chiamata 'Germalo' (o 'Cermalo'). Plutarco racconta infatti:.\n\nSi racconta che i due fratelli, un giorno furono assaliti dai banditi, i quali volevano vendicarsi dei bottini più volte perduti. Romolo si difese energicamente, ma Remo fu catturato e condotto di fronte al re Amulio, con l'accusa di furto e di aver compiuto numerose scorribande nelle terre di Numitore. Per questi motivi fu consegnato a quest'ultimo.\n\nNel frattempo, Faustolo aveva raccontato a Romolo delle loro origini e del sangue reale. Romolo radunò, pertanto, un gruppo consistente di compagni e si diresse da Amulio, raggiunto da Remo, che era stato liberato dallo stesso Numitore. Amulio venne ucciso e Numitore ritornò re di Alba Longa.\n\nMorte di Remo e fondazione di Roma.\nOttenuto dal nonno Numitore il permesso, Romolo e Remo lasciarono Alba Longa e si recarono sulla riva del Tevere per fondare una nuova città nei luoghi dove erano cresciuti. Lo stesso Livio aggiunge che del resto la popolazione di Albani e Latini era in eccesso, e riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:.\n\nLa versione raccontata da Plutarco è molto simile a quella di Livio, con la sola eccezione che Romolo potrebbe non aver avvistato alcun avvoltoio. La sua vittoria sarebbe pertanto stata per alcuni, frutto dell'inganno. Questo il motivo per cui Remo si adirò e ne nacque la rissa che portò alla morte di quest'ultimo.\n\nUna versione alternativa racconta che Romolo fece costruire sul solco (urvum/urbum, manico dell'aratro con il quale viene tracciato il confine; da qui Urbs, Città) tracciato con l'aratro, una cinta muraria, mettendovi a guardia Celere, cui impartì l'ordine di uccidere chiunque avesse osato scavalcarla. Purtroppo Remo non era venuto a conoscenza dell'ordine imposto dal fratello e quando si avvicinò alla cinta, notando quanto essa era bassa, la scavalcò con un salto. Il fedele Celere gli si avventò contro e lo trapassò con la spada. Romolo, saputo della disgrazia, ne rimase sconvolto, ma non osò piangere di fronte al suo popolo, essendo ormai un sovrano.\nFaustolo, il pastore che li aveva allevati fu inumato presso l'allora Comizio, mentre Remo fu seppellito sull'Aventino in una località chiamata Remoria, in ricordo del quale ogni 9 maggio era celebrata una festa Remuria (o Lemuria) per ricordare i defunti, come ci racconta Ovidio. Romolo diventava così il primo re di Roma.\n\nAlbero genealogico.\nLa tradizione letteraria e antiquaria.\nLa formazione di un'articolata “leggenda” riguardo alla fondazione di Roma conobbe un decisivo impulso in età augustea. Le ragioni di questo sviluppo sono abbastanza chiare: Roma era ormai diventata il centro politico, economico e culturale di tutto il Mediterraneo e Augusto, nella sua vasta opera di riorganizzazione della compagine statale romana, mirava ovviamente a nobilitarne il passato e a dare così ragioni “culturali” del suo dominio sul mondo. Frutto di questa politica propagandistica e culturale furono in particolare tre opere, ossia l'Eneide di Virgilio (modellata sui poemi omerici, l'Iliade e l'Odissea), gli Annali (chiamati anche Ab Urbe condita libri) di Tito Livio, e le Antichità romane di Dionisio di Alicarnasso. Questi tre autori concorsero a fornire un resoconto dettagliato e particolareggiato sulla fondazione di Roma, risalendo a tempi molto antichi (addirittura precedenti alla guerra di Troia, all'inizio del XIII secolo a.C.) e presentando una successione continua e omogenea di fatti per loro “storici” e attestati.\n\nLa critica storica moderna.\nAnche la leggenda di Romolo e Remo, all'inizio separata da quella di Enea, viene successivamente integrata nel suo mito. In un primo momento i due gemelli vengono indicati come suoi figli o nipoti. Eratostene di Cirene si accorse tuttavia che, essendo la data della caduta di Troia tra il 1250 e il 1196 a.C., né Enea né i suoi più diretti discendenti potevano aver fondato Roma attorno a queste date. Catone il Censore rende plausibile la storia. Secondo la sua versione, accettata poi come definitiva, Enea fugge da Troia e giunge nel Lazio. Qui, dopo aver sposato Lavinia, fonda Lavinium. Ascanio è invece il fondatore di Alba Longa e i suoi successori danno origine alla dinastia dalla quale, dopo varie generazioni, Rea Silvia darà alla luce Romolo e Remo e in seguito la gens Julia, con Giulio Cesare e il primo imperatore Augusto. In questo modo, la discendenza divina dei Romani e della stirpe Julia sarebbe rafforzata dalla discendenza da Venere e da Marte. Lo stesso Livio cercò, infatti, di colmare questo lasso di tempo di circa quattro/cinque secoli, 'creando' appositamente una dinastia albana dei Silvi, che regnò su Alba Longa da Ascanio (figlio di Enea) fino ad Amulio e Numitore (quest'ultimo nonno di Romolo e Remo).\n\nRomolo e Remo nell'arte, letteratura, teatro e cinema.\nStorie della fondazione di Roma (o Storie di Romolo e Remo), affreschi di Annibale, Agostino e Ludovico Carracci, (1590-1591), salone d'onore di Palazzo Magnani a Bologna.\nRomolo e Remo, dipinto di Pieter Paul Rubens (1615-1616).\nRomolo e Remo, film del 1961 di Sergio Corbucci con Steve Reeves nel ruolo di Romolo e Gordon Scott in quello di Remo.\nRemo e Romolo - Storia di due figli di una lupa, film del 1976 di Mario Castellacci e Pier Francesco Pingitore con Pippo Franco nel ruolo di Romolo e Enrico Montesano in quello di Remo.\nIl primo re, film del 2019 di Matteo Rovere.\nRomulus, serie televisiva del 2020 di Matteo Rovere.
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### Titolo: Sabazio.\n### Descrizione: Sabazio (greco antico: Σαβάζιος, romanizzato: Sabazios, pronuncia moderna Savázios; in alternativa, Sabadios) è il cavaliere e dio padre del cielo dei Frigi e dei Traci. Nelle lingue indoeuropee, come il frigio, l'elemento -zios nel suo nome deriva da dyeus, il comune precursore del latino deus (' dio ') e del greco Zeus. Sebbene i greci interpretassero Sabazio frigio sia come Zeus che come Dioniso, le sue rappresentazioni, anche in epoca romana, lo mostrano sempre a cavallo, come un dio cavaliere nomade, che brandisce il suo caratteristico bastone del potere.\n\nSabazio tracio/frigio.\nSembra probabile che i Frigi migratori abbiano portato con sé Sabazio quando si stabilirono in Anatolia all'inizio del primo millennio a.C., e che le origini del dio siano da ricercare in Macedonia e Tracia. Si ritiene che l'antico santuario di Perperikon nell'odierna Bulgaria sia quello di Sabazio. I macedoni erano anche noti cavalieri, allevatori di cavalli e adoratori di cavalli fino al tempo di Filippo II, il cui nome significa 'amante dei cavalli'.\nUn possibile conflitto iniziale tra Sabazio e i suoi seguaci e la dea madre indigena della Frigia (Cibele) può riflettersi nel breve riferimento di Omero alle imprese giovanili di Priamo, che aiutò i Frigi nelle loro battaglie con le Amazzoni.\nUna delle creature della religione nativa era il toro lunare. I rapporti di Sabazio con la dea possono essere ipotizzati dal modo in cui il suo cavallo pone uno zoccolo sulla testa del toro, in un rilievo marmoreo romano al Boston Museum of Fine Arts. Sebbene di data romana, l'immagine iconica sembra essere molto precedente.\n\nDio cavaliere.\nAltre stele del 'dio cavaliere' si trovano al Museo Burdur, in Turchia. Sotto l'imperatore romano Gordiano III il dio a cavallo compare sulle monete coniate a Tlos, nella vicina Licia, e a Istrus, nella provincia della Bassa Mesia, tra la Tracia e il Danubio. Si pensa generalmente che il nonno del giovane imperatore provenisse da una famiglia anatolica, a causa del suo insolito cognome, Gordianus. L'iconica immagine del dio o eroe a cavallo che combatte contro il serpente ctonio, sul quale il suo cavallo calpesta, compare su colonne votive celtiche e con l'avvento del cristianesimo fu facilmente trasformata nell'immagine di San Giorgio e il drago, le cui prime raffigurazioni conosciute risalgono alla Cappadocia del X e XI secolo e alla Georgia e all'Armenia dell'XI secolo.\n\nIconografia, raffigurazioni ed associazioni ellenistiche.\nTra le iscrizioni romane di Nicopoli ad Istrum, Sabazio è generalmente equiparato a Giove e menzionato insieme a Mercurio. Allo stesso modo nei monumenti ellenistici, Sabazio è esplicitamente (tramite iscrizioni) o implicitamente (tramite iconografia) associato a Zeus. Su una lastra di marmo di Filippopoli, Sabazio è raffigurato come una divinità centrale con i capelli ricci e la barba tra diversi dei e dee. Sotto il suo piede sinistro c'è una testa di ariete, e tiene nella mano sinistra uno scettro puntato con una mano nel gesto della benedictio latina. Sabazio è accompagnato da busti alla sua destra raffiguranti Luna, Pan e Mercurio, e alla sua sinistra Sol, Fortuna e Dafne. Secondo Macrobio, Liber ed Elio erano venerati presso i Traci come Sabazio; questa descrizione si adatta ad altri resoconti classici che identificano Sabazio con Dioniso. Sabazio è anche associato a numerosi reperti archeologici raffiguranti una mano destra in bronzo nel gesto della benedictio latina. La mano sembra avere un significato rituale e potrebbe essere stata apposta su uno scettro (come quello portato da Sabazio sulla lastra di Filippopoli). Sebbene ci siano molte varianti, la mano di Sabazio è tipicamente raffigurata con una pigna sul pollice e con un serpente o una coppia di serpenti che circondano il polso e sormontano l'anulare piegato e il mignolo. Ulteriori simboli occasionalmente inclusi nelle mani di Sabazio includono un fulmine sull'indice e sul medio, una tartaruga e una lucertola sul dorso della mano, un'aquila, un ariete, un ramo senza foglie, il tirso e l'Eroe a cavallo.\n\nI riti estatici orientali praticati in gran parte dalle donne ad Atene furono messi insieme per scopi retorici da Demostene per indebolire il suo avversario Eschine per aver partecipato alle associazioni di culto di sua madre:Quando hai raggiunto l'età adulta hai aiutato tua madre nelle sue iniziazioni e negli altri rituali, e hai letto ad alta voce gli scritti del culto... Hai strofinato i serpenti dalle guance grasse e li hai oscillati sopra la tua testa, piangendo Euoi saboi e hues attes, attes hues.\n\nTrasformazione in Sabazius.\nIl trasferimento di Sabazio nel mondo romano sembra essere stato mediato in gran parte da Pergamo. L'approccio naturalmente sincretico della religione greca offuscava le distinzioni. Scrittori greci successivi, come Strabone nel I secolo d.C., collegarono Sabazio con Zagreo, tra i ministri frigi e gli assistenti dei sacri riti di Rea e Dioniso. Il contemporaneo siciliano di Strabone, Diodoro Siculo, confuse Sabazio con il segreto 'secondo' Dioniso, nato da Zeus e Persefone, una connessione che non è confermata dalle iscrizioni sopravvissute, che sono interamente a Zeus Sabazio. Il cristiano Clemente di Alessandria era stato informato che i misteri segreti di Sabazio, come praticati presso i romani, riguardavano un serpente, una creatura ctonia estranea al dio celeste a cavallo della Frigia: ' 'Dio nel seno' è un contrassegno dei misteri di Sabazio agli adepti'. Clemente riferisce: 'Questo è un serpente, è passato in seno agli iniziati'.\n\nMolto più tardi, l'enciclopedia greca bizantina, Suda (X secolo), afferma categoricamenteSabazio... è lo stesso di Dioniso. Ha acquisito questa forma di indirizzo dal rito a lui spettante; perché i barbari chiamano il grido bacchico 'sabazein'. Quindi anche alcuni Greci seguono l'esempio e chiamano il grido 'sabasmos'; così Dioniso [diventa] Sabazio. Chiamavano anche 'saboi' quei luoghi che erano stati dedicati a lui e alle sue Baccanti... Demostene [nel discorso] 'Per conto di Ktesifonte' [li cita]. Alcuni dicono che Saboi sia il termine per coloro che sono dedicati a Sabazios, cioè a Dioniso, così come quelli [dedicati] a Bakkhos [sono] Bakkhoi. Dicono che Sabazio e Dioniso siano la stessa cosa. Così alcuni dicono anche che i greci chiamano i Bakkhoi Saboi. Nei siti romani, sebbene un'iscrizione murata nel muro della chiesa abbaziale di San Venanzio a Ceparana suggerisse ad un umanista rinascimentale che fosse stata edificata sulle fondamenta di un tempio dedicato a Giove Sabazio, secondo gli studiosi moderni non un solo tempio consacrato a Sabazio, il dio cavaliere dell'aria aperta, è stato localizzato. Piccole mani votive, tipicamente di rame o bronzo, sono spesso associate al culto di Sabazio. Molte di queste mani hanno una piccola perforazione alla base che suggerisce che potrebbero essere state attaccate a pali di legno e portate in processione. Il simbolismo di questi oggetti non è ben noto.\n\nCollegamento ebraico.\nI primi ebrei che si stabilirono a Roma furono espulsi nel 139 a.C., insieme agli astrologi caldei da Cornelio Hispalus secondo una legge che vietava la propagazione del culto 'corruttore' di 'Giove Sabazio', secondo l'epitome di un libro perduto di Valerio Massimo:Gneo Cornelio Hispalus, pretore peregrinus nell'anno del consolato di Marco Popilius Laenas e Lucius Calpurnius, ordinò agli astrologi con un editto di lasciare Roma e l'Italia entro dieci giorni, poiché per una falsa interpretazione degli astri turbavano le menti volubili e sciocche, così traendo profitto dalle loro bugie. Lo stesso pretore costrinse i Giudei, che tentavano di infettare l'usanza romana col culto di Giove Sabazio, a ritornare alle loro case. Con ciò si ipotizza che i romani identificassero l'ebreo YHVH Tzevaot ('sa-ba-oth', 'degli eserciti') come Giove Sabazius.\nQuesta connessione sbagliata di Sabazio e Sabaos è stata spesso ripetuta. Allo stesso modo, Plutarco sosteneva che gli ebrei adorassero Dioniso e che il giorno di sabato fosse una festa di Sabazio. Plutarco discute anche dell'identificazione del Dio ebraico con il Tifone 'egiziano', identificazione che però in seguito rifiuta. Gli Ipsistari monoteisti adoravano l'Altissimo con questo nome, che potrebbe essere stato una forma del Dio ebraico.
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### Titolo: Sacrificio d'Ifigenia (Giambattista Tiepolo).\n### Descrizione: Il Sacrificio d'Ifigenia è un affresco realizzato nel 1759 da Giambattista Tiepolo per la Villa Valmarana 'Ai Nani', a Vicenza. Occupa la parete centrale della Sala di Ifigenia, il locale costituente l'atrio della residenza.\n\nDescrizione.\nLe fonti letterarie di riferimento per l'affresco sono l'Ifigenia in Aulide di Euripide e Le Metamorfosi ovidiane: al centro della scena, la giovane Ifigenia denudata, sta per essere immolata da Calcante, che tende il coltello verso il suo collo, mentre un inserviente è pronto a ricevere il capo su un piatto; a sinistra invece appaiono su una nube degli amorini con una cerva - inviata da Artemide -, che sostituirà la fanciulla come vittima sacrificale, tra lo stupore dell'esercito acheo; sulla destra, infine, Agamennone disperato, si copre gli occhi col mantello per non guardare il sacrificio della figlia, non rendendosi pertanto ancora conto, unico tra tutti, dell'intervento divino. La scena riprende un famoso quadro del pittore greco Timante.
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### Titolo: Sacrificio di Ifigenia (Pietro Testa).\n### Descrizione: Il Sacrificio di Ifigenia è il tema di una incisione e di un dipinto del pittore lucchese Pietro Testa.\n\nStoria.\nCome si evince nell'iscrizione contenuta nel primo stadio dell'incisione (eliminata poi nelle tirature successive), la stampa con il sacrificio di Ifigenia fu dedicata da Pietro Testa a Mario Albrizzi (o Alberici), ecclesiastico titolare della carica di referendario delle Due Segnature, organo giudiziario dell'amministrazione pontificia.\nLa complessa dedica all'alto prelato contiene un elogio alla purezza del disegno talora corrotta dall'uso inadeguato del colore.\nMenzionata dal Passeri come una delle prove più alte del Testa in ambito grafico (campo nel quale il lucchese fu tra gli artisti più apprezzati del suo tempo), l'incisione (come si legge sul gradino del basamento dell'altare) fu impressa nella stamperia impiantata da Giovanni Giacomo de Rossi a Roma, in via della Pace.\nLa stampa è firmata con il monogramma usato dall'artista (che sovrappone una P, una T e una L, Petrus Testa Lucensis, cioè lucchese) seguito dalle parole pinx.[it] e sculp.[sit].\nLa matrice in rame incisa dal Testa si è conservata ed è custodita presso l'Istituto nazionale per la grafica a Roma.\n\nDescrizione.\nL'episodio raffigurato è riportato da varie fonti antiche: l'Ifigenia in Aulide di Euripide, l'Agamennone di Eschilo (una delle tragedie dell'Orestea), Le metamorfosi di Ovidio.\nLa sostanza dei fatti è così sintetizzabile: i Greci, sotto il comando di Agamennone, si sono riuniti presso la città di Aulide, in Beozia, dalla quale poi salpare alla volta di Troia.\nLa perdurante bonaccia dei venti però impedisce alle navi greche di prendere il mare e la forzata promiscuità degli eserciti nella città favorisce il diffondersi di un'epidemia. Il malcontento monta e l'autorità di Agamennone vacilla. Il re allora interroga l'indovino Calcante per avere lumi sul da farsi.\nQuesti gli rivela che la difficile situazione è frutto dell'ira di Artemide verso lo stesso Agamennone reo di aver ucciso, durante una caccia, una cerva cara alla dea. Il solo modo per superare l'impasse – prosegue Calcante – è sacrificare ad Artemide Ifigenia, figlia di Agamennone.\nIl capo dei Greci accetta e fa in modo che la fanciulla, accompagnata dalla madre Clitennestra, raggiunga la Beozia: per indurre madre e figlia al viaggio Agamennone, mentendo, fa sapere loro che Achille ha chiesto Ifigenia in sposa.\nAll'arrivo di Ifigenia in Beozia l'inganno di Agamennone è presto svelato, ma la ragazza accetta egualmente di immolarsi per consentire all'esercito greco di raggiungere Troia.\nIfigenia è così condotta all'altare di Artemide per essere sacrificata mentre Clitemnestra e, nonostante tutto, lo stesso Agamennone si disperano.\nPartecipa al rito anche Achille pronto a strappare Ifigenia ai suoi carnefici se questa all'ultimo momento cambiasse proposito.\nQuando l'atto sacrificale sta per compiersi irrompe sulla scena la stessa Artemide che, mossa a pietà dalla abnegazione di Ifigenia, le salva la vita imponendo che in luogo della giovane principessa venga immolata una cerva.\nOgni elemento della storia trova posto nella stampa del Testa. Al centro, seduta, c'è Ifigenia, seminuda e con le spalle poggiate all'ara di Artemide, identificata anche dall'iscrizione in greco, che placidamente accetta il suo destino. All'estrema destra vi è Achille in posizione stante e con la mano alla spada. Sulla sinistra Clitemnestra ed Agamennone sono straziati dal dolore e non possono reggere la vista del sacrificio della loro figlia: il re di Micene si copre il volto col mantello mentre la madre di Ifigenia volge il capo in direzione opposta all'altare.\n\nQuando l'aguzzino si accinge a sgozzare la giovane vittima cala dal cielo Artemide che con la mano destra indica in direzione di una cerva, miracolosamente apparsa sul luogo, con la quale sostituire Ifigenia nel sacrificio. L'improvvisa apparizione della dea suscita lo stupore dei sacerdoti e dei carnefici che sorpresi volgono repentinamente lo sguardo in direzione di lei.\nSullo sfondo le navi greche alla fonda e una distesa di cadaveri sulla spiaggia - i morti mietuti dalla pestilenza che ha colpito Aulide - rammentano la causa della tragedia appena sventata. Nel cielo si addensano le nubi: la sfavorevole bonaccia sta per cedere il passo all'alzarsi dei venti.\nVari aspetti della composizione evidenziano l'erudizione per la quale Pietro Testa era apprezzato dai suoi contemporanei. La già menzionata figura di Agamennone che si fa schermo col mantello per non vedere la morte della figlia deriva dalle descrizioni di un dipinto di Timante, parimenti dedicato al sacrificio di Ifigenia, fatte da Plinio ed altri autori latini che concordemente riferiscono della velatura del viso del re.\nQuesto antichissimo dipinto, evidentemente celebre nel mondo antico, è ovviamente perduto ma una sua possibile derivazione è rinvenibile in un affresco pompeiano ove si vede, per l'appunto, Agamennone celato sotto il mantello mentre Ifigenia è condotta al sacrificio.\n\nAnche nella figura di Ifigenia raffigurata nella stampa del Testa si coglie un colto rimando, questa volta di tipo figurativo. Essa è infatti è una ripresa pressoché letterale della stessa Ifigenia scolpita in rilievo sul fregio di un pregevole cratere neoattico noto come Vaso Medici, ora agli Uffizi, ma nel Seicento ancora a Roma, nella villa pinciana dei Medici.\nLa familiarità del Testa con questo prezioso reperto, del resto, sembra essere provata anche da alcuni documenti relativi all'attività del pittore lucchese di riproduzione di antiche sculture romane da lui svolta su incarico di Cassiano dal Pozzo per la realizzazione del celebre Museo Cartaceo raccolto da quest'ultimo.\nPresso la Royal Library di Windsor Castle, inoltre, si conversa un disegno con una parziale riproduzione del fregio del cratere mediceo (probabilmente riferibile alle ricerche antiquarie promosse da Cassiano dal Pozzo) che secondo alcuni spetterebbe proprio al pittore lucchese.\nAnche il bel dettaglio del vaso della stampa (a sinistra, tra Ifigenia e Achille) decorato da un rilievo raffigurante Artemide impegnata nella caccia ad un cervo evoca le conoscenze e le passioni antiquarie di Pietro Testa.\n\nIl dipinto.\nIl sacrificio di Ifigenia fu oggetto anche di un dipinto del Testa - conservato nella Galleria Spada di Roma - che è nello stesso verso dell'incisione, mentre tutti i disegni preparatori noti della composizione sono in controparte (cioè speculari) sia all'incisione che al dipinto: se ne è dedotto che l'incisione fu realizzata per prima e che la tela è una derivazione della stampa.\nNella versione su tela sono state individuate alcune tangenze con la pittura di Pietro da Cortona, maestro nel cui entourage il Testa, anni addietro, aveva brevemente gravitato. Oltre ad alcuni dettagli decorativi - come le navi dorate e riccamente istoriate -, assimilabili ad alcuni precedenti cortoneschi, sembra possibile cogliere una certa assonanza compositiva con un'opera del Berrettini di tema analogo, il Sacrificio di Polissena, da questi realizzata una ventina di anni prima del sacrificio di Ifigenia del lucchese.\n\nSi ignorano le circostanze di realizzazione del dipinto ma è documentato che Mario Albrizzi, dedicatario dell'incisione, fosse in rapporti con il cardinale Bernardino Spada, iniziatore della celebre collezione di famiglia che si è quindi ipotizzato possa essere stato l'acquirente della tela di Pietro Testa.\nL'analisi degli inventari della collezione Spada tuttavia lascia pensare che questa tela del Testa (unitamente all'Allegoria della strage degli innocenti, altro dipinto del pittore lucchese conservato a Palazzo Spada) sia stata acquistata diverso tempo dopo la morte sia dell'artista che di Bernardino Spada. Di qui la diversa ipotesi che il dipinto sia entrato in possesso degli Spada per iniziativa di Fabrizio Spada, nipote di Bernardino e come questi cardinale.\nL'opera sarebbe stata comprata, in questa chiave di lettura, per comporre un ciclo pittorico collettaneo (secondo una moda all'epoca) dedicato alle donne illustri dell'antichità. Ciclo formato da opere già da tempo di proprietà degli Spada - come la Morte di Didone del Guercino e il Ratto di Elena di Giacinto Campana (copia da Guido Reni e da questi personalmente rifinita) -, da opere appositamente acquistate (come, per l'appunto, l'Ifigenia del Testa) e infine da dipinti commissionati ad hoc dal cardinal Fabrizio come il Banchetto di Antonio e Cleopatra di Francesco Trevisani.\n\nGalleria d'immagini.\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n\n
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### Titolo: Saga degli Atridi.\n### Descrizione: La saga degli Atridi o dei Pelopidi è formata dalla lunga serie di miti della mitologia greca riguardanti Atreo e i suoi figli (gli Atridi sono in effetti propriamente i figli di Atreo, Agamennone e Menelao). Essa include dunque le dispute e le terribili vendette reciproche di Atreo col fratello Tieste, figli di Pelope e nipoti di Tantalo (entrambi colpiti a loro volta dalla maledizione divina per i loro crimini), figlio di Zeus, l'ascesa al trono e poi l'uccisione di Agamennone (capo della spedizione greca contro Troia), le vicende di Menelao (sposo di Elena di Troia) e numerose altre storie come la vendetta di Elettra e Oreste con il matricidio contro Clitennestra, su ordine di Apollo, in quanto responsabile con Egisto della morte di Agamennone, con l'assoluzione finale del giovane grazie ad Atena, e la liberazione dalla maledizione della stirpe, per grazia di Zeus e Apollo.\nViene qui riportato un riassunto delle vicende raccontate dal mito. Va tuttavia tenuto presente che il mito stesso si presenta in varie versioni differenti ed è dunque inevitabile una cernita, a volte arbitraria, nell'impossibilità di dare conto di ognuna delle varianti. Si è comunque in generale cercato di riportare la versione più nota.\n\nGenealogia.\nIl mito.\nTantalo e Pelope.\nLe origini: Tantalo.\nTantalo, figlio di Zeus, per provare l'onniscienza degli dei li invitò a un banchetto in cui offrì loro le carni del giovane figlio Pelope. Essendosi accorti del macabro inganno, tutti i celesti allontanarono i piatti, eccetto Demetra che, sconvolta dalla perdita della figlia Persefone, non vi badò e si cibò di una spalla. Dopo aver punito Tantalo (condannandolo ad avere per sempre nel Tartaro una fame e una sete impossibili da placare) gli dei resuscitarono Pelope, fornendogli una spalla d'avorio, creata da Efesto. Secondo altri autori Pelope era nato con quella malformazione e dopo essere stato assassinato, Rea, la divinità della terra gli diede con un soffio nuovamente la vita. Secondo un'altra versione, al banchetto indetto dal padre Tantalo, al quale partecipavano anche gli dei, Poseidone vedendo Pelope se ne innamorò, portandolo con sé sull'Olimpo. A causa della colpa del padre venne però rispedito sulla terra. Ma anche i figli, Niobe e Pelope, incorsero in seguito nell'ira divina.\n\nPelope e la maledizione di Mirtilo.\nPelope, inizialmente viveva nella terra lasciata dal padre, la Paflagonia, dove governava con giustizia sia la Frigia sia la Lidia. Costretto da un'invasione di barbari, intraprese un viaggio attraverso la Grecia alla ricerca di un regno da governare. Giunse quindi alla corte del re Enomao. Questi, re di Pisa (in Elide) e figlio del dio Ares, non aveva mai acconsentito a concedere la mano della figlia Ippodamia ai giovani che la corteggiavano perché un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto per mano del proprio genero. Enomao possedeva dei cavalli divini, Psilla (pulce) e Arpinna (razziatrice), perciò, sapendo di non poter essere mai battuto, proponeva ai pretendenti della figlia di gareggiare con lui in una corsa di carri: se avessero vinto, avrebbero sposato Ippodamia; in caso contrario sarebbero stati uccisi. Già tredici giovani avevano perso la vita (Pausania elenca diciotto nomi). Quando Pelope arrivò a Pisa con un carro leggerissimo munito di cavalli alati datigli da Poseidone, vide Ippodamia e se ne innamorò.\nTerrorizzato però dalla vista delle teste inchiodate alle porte del palazzo d'Enomao e mozzate agli sfortunati pretendenti, decise di vincere la gara slealmente: corruppe Mirtilo (figlio di Hermes, auriga del sovrano e anch'egli infatuato di Ippodamia), promettendogli che non appena avesse vinto la corsa, gli avrebbe permesso di passare una notte con la principessa.\nMirtilo, accettando l'offerta di Pelope, tolse i perni degli assali del carro di Enomao e li sostituì con dei pezzi di cera; durante la corsa le ruote si staccarono, il carro si rovesciò e Enomao morì. Successivamente Pelope, certamente geloso dell'amore d'Ippodamia, annegò l'auriga che, in punto di morte e invocando Ermes, maledisse l'usurpatore e tutta la sua discendenza. Pelope, diventato re, accumulò sì ricchezze e onori ma fu causa della rovina dei suoi figli (Atreo e Tieste) e della sua intera stirpe; e questo nonostante avesse tentato di procurarsi i favori di Zeus istituendo le Olimpiadi. L'auriga di Pelope era Cilla. Per placare l'ira di Hermes, Pelope eresse subito un tempio per onorarlo e, tentando di soffocare il rimorso della propria coscienza tributò onori eroici a Mirtilo, dando onori anche ai tanti morti che avevano sfidato Enomao e avevano perso, ma questo non pose fine alla maledizione divina. Dalla moglie Ippodamia ebbe venti figli, tra cui Pitteo, Alcatoo, Atreo, Tieste, Ippalco, Copreo, Scirone, Ippalcimo, Cleonte e Lisidice. Dalla ninfa Astioche ebbe invece Crisippo.\n\nAtreo e Tieste.\nL'uccisione di Crisippo.\nAtreo e Tieste erano due dei figli di Pelope, re di Pisa (in Elide), a sua volta figlio di Tantalo. Essi erano gelosi di un loro fratellastro, Crisippo, che il padre Pelope aveva avuto dalla ninfa Astioche. Temendo che, essendo il figlio prediletto del padre, il trono di Pisa potesse andare a lui, Atreo e Tieste uccisero Crisippo con l'aiuto della loro madre Ippodamia. Per questo motivo, essi furono banditi dalla città da Pelope, il quale pronunciò anche lui una maledizione contro di loro. Essi si rifugiarono ad Argo (o Micene), presso il loro parente Stenelo, re della città.\n\nL'ascesa al trono.\nQuando Stenelo morì senza figli, un oracolo consigliò agli abitanti di Argo di prendere come nuovo sovrano uno dei figli di Pelope. Ci si trovò quindi nella necessità di scegliere tra Tieste e Atreo: qui cominciarono le ostilità e i raggiri tra i due fratelli. Infatti, tempo prima, Atreo aveva trovato nel suo gregge un agnello dal vello d'oro, che aveva deciso di tenere per sé. Ma sua moglie Erope aveva trafugato il vello e l'aveva dato a Tieste, di cui era segretamente diventata amante. Così, quando Tieste propose ad Atreo che a prendere la corona di Argo fosse colui che avesse posseduto un vello d'oro, Atreo accettò rallegrandosene, poiché credeva di avere quell'oggetto. Ma a possedere il vello era in realtà Tieste, che venne così designato sovrano di Argo. Tuttavia Atreo, che godeva del favore degli dei, venne avvertito da Zeus tramite Hermes di proporre al fratello un altro patto: se il sole avesse invertito il suo corso e fosse tramontato a est, allora Tieste avrebbe dovuto cedere la corona ad Atreo, in quanto chiaramente prescelto dagli dei. Tieste accettò e quel giorno il sole effettivamente tramontò ad est, costringendo Tieste a rinunciare alla sovranità e proclamando Atreo re di Argo.\n\nLa vendetta di Atreo.\nUna volta divenuto re di Argo, Atreo si affrettò ad esiliare il fratello, per prevenire eventuali sue brame sul trono. Quando però venne a sapere della relazione che c'era stata tra sua moglie Erope e Tieste, escogitò una tremenda vendetta. Fece cercare e uccidere tre dei figli di Tieste (Aglao, Orcomeno e Callileonte) e ne fece cucinare le carni. Poi richiamò Tieste ad Argo con la scusa di una riconciliazione e, invitatolo ad un banchetto, gli servì come pietanza la carne dei suoi figli. Quando Tieste ebbe mangiato, Atreo gli mostrò le loro teste, rivelandogli di cosa si era cibato, poi lo cacciò dalla città.\n\nLa rivincita di Tieste.\nSconvolto dalla rabbia e dall'orrore, Tieste si rifugiò a Sicione, dove viveva un'altra sua figlia, Pelopia. Chiese a un oracolo in che modo avrebbe potuto vendicarsi del fratello e ottenne come responso che l'unico modo era generare un figlio con sua figlia Pelopia: da questa unione sarebbe nato colui che l'avrebbe vendicato. Rassegnatosi a dover compiere quell'atto incestuoso, Tieste decise di commetterlo senza farsi riconoscere. In una notte in cui Pelopia (che era una sacerdotessa) stava tornando a casa da sola dopo aver compiuto dei sacrifici, Tieste, mascherato, la violentò e la mise incinta. La ragazza riuscì però a sottrargli la spada.Atreo, nel frattempo, temeva che con i suoi crimini potesse essersi inimicato gli dei e si rivolse quindi all'oracolo di Delfi per un responso in merito. Esso gli intimò di richiamare Tieste da Sicione, sicché Atreo si recò personalmente in quella città, ma il fratello si era già allontanato. Qui si innamorò di Pelopia, che credette figlia del re Tesproto (ed era invece nipote dello stesso Atreo, essendo figlia di Tieste). Atreo giacque con lei, la chiese in sposa e il re la concesse, lieto di rendere un buon servigio a Pelopia e di amicarsi un re così valido, tacendo la verità. Vennero quindi celebrate le nozze con la fanciulla, che, alcuni mesi dopo, partorì il bambino che aveva precedentemente concepito con Tieste e lo abbandonò sulle montagne. Qui fu rinvenuto da alcuni pastori che si presero cura di lui e lo nutrirono. Atreo, una volta saputa la storia da Pelopia, decise di recuperare il bambino (chiamato Egisto) e allevarlo, poiché era convinto che egli fosse in realtà figlio suo.Quando Egisto divenne adulto, Atreo lo incaricò di andare a cercare Tieste, poiché aveva deciso di eliminarlo. Egisto eseguì l'ordine, rintracciò Tieste e lo riportò ad Argo, dove ricevette da Atreo l'ordine di ucciderlo. Quando già Egisto si apprestava a compiere l'atto, però, Tieste riconobbe quella che anni prima era stata la sua spada. Chiese a Egisto come se la fosse procurata e questi rispose che era una spada di sua madre. Allora Tieste supplicò di far convocare quella donna, poiché aveva capito essere sua figlia Pelopia, e rivelò ai presenti il segreto della nascita di Egisto. In seguito a queste notizie, Pelopia si tolse la vita, avendo scoperto di essere una madre incestuosa, mentre Egisto decise di uccidere Atreo, e così fece, mettendo al suo posto Tieste come sovrano di Argo. Si avverò così la profezia dell'oracolo, che aveva visto in Egisto, figlio incestuoso, colui che avrebbe vendicato Tieste.\n\nAgamennone e Menelao.\nL'esilio a Sparta.\nDopo la morte di Atreo, i suoi due figli Agamennone e Menelao furono esiliati e si rifugiarono presso il re di Sparta, Tindaro. Qui i due figli di Atreo si sposarono con due delle figlie di Tindaro, Elena e Clitennestra. Agamennone sposò Clitennestra dopo aver ucciso il suo primo marito Tantalo (che era un figlio di Tieste) ed aver ottenuto, sia pure a malincuore, il consenso della donna al matrimonio. A quel punto Agamennone, con l'aiuto militare di Tindaro, poté marciare su Argo e riprendersi il trono, dove regnò insieme alla moglie Clitennestra, cacciando Tieste (che morirà poco dopo) ed Egisto. Ebbe tre figlie, Elettra, Ifigenia e Crisotemi, e un figlio, Oreste. Menelao invece, sposo di Elena, ebbe il trono di Sparta.\n\nLa guerra di Troia.\nIn seguito al giudizio di Paride, la dea Afrodite indusse Elena ad abbandonare il marito Menelao, sovrano di Sparta, e ad unirsi a Paride, un bel giovane che abitava nella città di Troia. Secondo alcuni, Elena fu spinta ad andare a Troia dalla dea e non aveva quindi colpe, mentre per altri Elena era in realtà una donna di facili costumi, fuggita con Paride per lussuria. Venne quindi organizzata una grande spedizione, che coinvolse tutto il mondo greco, per andare a riprendere Elena. Tale spedizione, in cui Menelao era la parte lesa, era guidata da Agamennone.Prima di arrivare a Troia, la flotta si ritrovò però bloccata in Aulide da una bonaccia di vento. Interrogato l'indovino Calcante, Agamennone seppe che la dea Artemide era in collera con lui e l'unico modo per placarla era sacrificarle la figlia Ifigenia. Dapprima Agamennone rifiutò, ma poi, spinto da Menelao e Ulisse, si lasciò convincere e fece in modo di far arrivare la figlia in Aulide, col pretesto di farla fidanzare con Achille. Poco prima che venisse compiuto il sacrificio però, la dea Artemide, impietosita, sostituì la giovane con una cerva e portò Ifigenia in Tauride, dove ne fece una sua sacerdotessa. La flotta poté così ripartire.Ebbe così inizio la guerra di Troia, durante la quale Agamennone e Menelao compirono numerose azioni eroiche. Dieci anni dopo, alla fine della guerra, dopo aver saccheggiato la città Agamennone poté tornare ad Argo, portando con sé come schiava la profetessa Cassandra, con la quale aveva intrecciato una relazione, mentre Menelao poté ripartire per Sparta con Elena.\n\nIl ritorno di Menelao ed Elena.\nDopo il sacco di Troia, Menelao si mise in mare per il ritorno insieme alla sua flotta, ma al momento di doppiare Capo Malea, una tempesta li sbatté sull'isola di Creta, dove la maggior parte delle navi affondò. Menelao ed Elena scamparono alla morte e sbarcarono infine in Egitto, dove rimasero ben cinque anni e dove Menelao accumulò ingenti ricchezze. Infine lasciarono l'Egitto, ma fu un viaggio assai breve, perché una bonaccia di vento li costrinse a fermarsi sull'isola di Faro, presso le foci del Nilo. Rimasero per venti giorni sull'isola e quando già la fame cominciava a farsi sentire, il dio Proteo, che su quell'isola risiedeva, consigliò a Menelao di tornare in Egitto e lì offrire sacrifici agli dei. Menelao così fece e in questo modo poté tornare a Sparta. Erano passati otto anni dalla sua partenza da Troia e diciotto da quando la guerra era cominciata.Una volta tornato a Sparta, Menelao regnò per molti anni insieme a Elena, da cui ebbe i figli Ermione e Nicostrato. Alla fine della sua lunga vita egli fu portato nei Campi Elisi senza morire, onore accordatogli da Zeus per essere stato suo genero.\n\nIl ritorno e l'uccisione di Agamennone.\nAgamennone ritornò in patria poco dopo la fine della guerra (nonostante l'ombra di Achille avesse tentato di trattenerlo predicendogli le sue future disgrazie), portando con sé Cassandra e il bottino di guerra. Venne accolto con grandi festeggiamenti dalla moglie Clitemnestra, la quale però aveva nel frattempo intessuto una relazione con il già incontrato Egisto, figlio di Tieste. I due ordirono dunque un complotto per uccidere Agamennone. Secondo alcune versioni del mito fu Egisto a compiere materialmente l'omicidio, secondo altre fu Clitennestra a colpi di scure; in ogni caso, eliminando Agamennone i due si assicurarono il dominio su Argo. La stessa sorte toccò anche a Cassandra. Per paura che l'unico figlio maschio di Agamennone e Clitennestra, il piccolo Oreste, potesse essere coinvolto nel massacro, la sorella Elettra lo portò in Focide, affidandolo al sovrano Strofio, che lo crebbe assieme a suo figlio Pilade.\n\nLa vendetta di Oreste.\nDieci anni dopo l'omicidio del padre, Oreste, ormai divenuto adulto, ricevette l'ordine dal dio Apollo di tornare ad Argo insieme a Pilade, per vendicare la morte di Agamennone uccidendo i suoi assassini, spinto anche dalla sorella Elettra che odiava la madre ed Egisto. Travestito, Oreste riuscì a introdursi con l'inganno nel palazzo dove vivevano Egisto e Clitemnestra e li uccise entrambi. Invano la donna si scoprì il seno, ricordandogli di essere colei che gli aveva dato la vita.Una volta compiuta la vendetta, però, le Erinni, vendicatrici dei delitti tra consanguinei, cominciarono a perseguitarlo. Oreste allora si rifugiò ad Atene, dove la dea Atena, ascoltata la sua storia, decise di organizzare un processo, da celebrarsi davanti al tribunale dell'Areopago (il tribunale ateniese competente per i crimini di sangue), con Atena nei panni del presidente della giuria, le Erinni come accusa e Apollo come difesa. Alla contestazione di aver ucciso un consanguineo, Oreste poteva contrapporre l'argomento di aver ucciso su ordine del dio Apollo e per vendicare un crimine altrettanto odioso. Alla fine quest'ultima tesi prevalse e Oreste venne assolto.Dopo l'assoluzione, allo scopo di essere completamente riabilitato, Oreste fu mandato da Apollo in Tauride insieme a Pilade, a recuperare una statua di Artemide. Lì giunti, però essi furono fatti prigionieri dalla popolazione locale ed il re Toante decise di offrirli in sacrificio ad Artemide. Ma quando arrivò la sacerdotessa per compiere il sacrificio, Oreste subito la riconobbe: era Ifigenia, sua sorella (infatti, come già raccontato, ella era stata portata in Tauride da Artemide prima dell'inizio della guerra di Troia). Oreste allora le spiegò il motivo del suo arrivo in Tauride e venne ideato un piano per scappare. Con la scusa di purificare in mare secondo un rituale segreto l'uomo da sacrificare, Ifigenia congedò le guardie e poi scappò via mare insieme a Oreste e Pilade. Tornato a casa, Oreste regnò per lunghi anni ad Argo e anche a Sparta (come successore di Menelao). Sposò infatti la cugina Ermione, figlia di Menelao ed Elena, ed ebbe come figlio Tisameno, mentre Elettra sposò Pilade.\nTisameno regnò fino al ritorno degli Eraclidi a Sparta, evento simboleggiante l'invasione dei Dori e la fine dell'epoca micenea in cui sono ambientati molti miti greci, e l'inizio dell'epoca propriamente storica più antica.
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### Titolo: Salmoneo.\n### Descrizione: Salmoneo (in greco antico: Σαλμωνεύς?, Salmōnèus) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Eolo e di Enarete (ma a volte viene indicata Ifi), Fu re dell'Elide.\nSposò Alcidice dalla quale ebbe la figlia Tiro ed in seguito si risposò con Sidero.\n\nMitologia.\nInizialmente abitava in Tessaglia, ma si trasferì nell'Elide dove fondò la città di Salmonia.\nConsiderandosi pari a Zeus, volle che gli fossero tributati onori divini pretendendo sacrifici e la costruzione di un tempio in suo onore. Giunse persino ad imitare Zeus, procedendo per le vie della città su un carro trainato da quattro cavalli, tenendo in mano una fiaccola e imitando con la sua voce il rombo del tuono.\nPer tale motivo la sua città fu distrutta e venne mandato negli Inferi, dove, secondo Virgilio, lo incontrò Enea:.
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### Titolo: Sangue di toro.\n### Descrizione: Il sangue di toro è spesso menzionato nelle mitologie antiche, come elemento portante della variegata simbologia taurina.\nNella mitologia greca veniva talora considerato un veleno mortale, anche se è in realtà completamente innocuo.\n\nFonti antiche.\nMolte fonti antiche parlano di sangue di toro.Diodoro Siculo parla del giuramento di fedeltà che Temistocle avrebbe prestato a Serse I di Persia: sacrificando un toro, l'ateniese promise che avrebbe combattuto contro i Greci e la propria città natale; in compenso, Serse non doveva iniziare la battaglia senza la partecipazione di Temistocle. Subito dopo i giuramenti, Temistocle riempì una patera di sangue del toro sacrificato, bevve e morì.\nLa fonte più antica a riportare la morte di Temistocle per il sangue di toro è Aristofane ne I cavalieri (424 a.C.).\nIl Faraone egizio Psammetico III nel 525 a.C. provocò una guerra contro Cambise II di Persia e dovette come punizione bere sangue di toro; di conseguenza morì.Il persiano Smerdi, fratello di Cambise II, e anche il generale cartaginese Annibale sarebbero morti a causa del sangue di toro. Quest'ultimo caso però è molto controverso.\n\nSangue di toro nella mitologia greca.\nNella mitologia greca sia Giasone che Mida sarebbero stati vittime di sangue di toro. Esone voleva commettere suicidio; come sacrificio bevve sangue di toro e morì di conseguenza. Verso la fine del primo libro delle Argonautiche, anche Esone e sua moglie (Alcimede) commettono suicidio bevendo sangue di toro, seguendo il consiglio di Creteo, padre di Esone.\n\nSangue di toro nella Bibbia.\nIl sangue di toro è menzionato nella Torah. In Levitico 16,14 si legge: 'Poi prenderà un po' di sangue del giovenco e ne aspergerà con il dito il coperchio dal lato d'oriente e farà sette volte l'aspersione del sangue con il dito, davanti al coperchio.' Per gli ebrei il sangue non è casher. Viene solamente usato per il sacrificio, però in nessun caso bevuto.\n\nSangue di toro nel culto di Mitra.\nNel mitraismo, schizzare qualcuno con il sangue di un toro sacrificato era un importante rito di iniziazione. Questo uso nel concorrente culto di Mitra potrebbe aver ispirato in Paolo di Tarso il rito del vino nella liturgia cristiana.Nel sacro testo persiano Avestā, alla fine dei tempi appare un Messia che vince il male. Tramite un unguento fatto di grasso di toro ed ephedra darebbe l'immortalità. Sugli altari di Mitra nel Taurobolium si vede la raffigurazione di questa divinità che si lava con sangue di toro; la descrizione suona Voi ci avete salvati tramite lo spargimento del sangue eterno. Gli iniziati dei misteri di Mitra si mettevano a sedere sotto un'inferriata nel tempio mentre sopra un toro venne sacrificato: bagnati dal sangue gli iniziati raggiungevano la vita eterna; poi il toro sacrificato veniva anche mangiato. Per la gente povera invece esisteva un rituale simile nel Criobolium, in cui si usava il sangue di pecore; questi discepoli venivano detti 'lavati nel sangue di agnello'.Diversi simboli e espressioni del mitraismo trovarono applicazione anche nella prima Cristianità.
@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Saoco.\n### Descrizione: Saoco o Soco (in greco antico: Σῶκος?, Sôkos) è un personaggio della mitologia greca. È a volte descritto come una divinità rustica dell'isola di Eubea, altre volte come un sovrano mortale della stessa isola.\nFu il consorte della ninfa Combe, con la quale generò i sette Coribanti. In alcune versioni i figli della coppia erano invece cento.\nEspulse la moglie e i figli da Eubea, e alla fine fu ucciso da Cecrope di Atene, nel cui regno si rifugiarono i Coribanti.
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### Titolo: Sarcofago di Raffadali.\n### Descrizione: Il sarcofago di Raffadali è un sarcofago di età romana che presenta una classica raffigurazione del ratto di Proserpina.\n\nStoria.\nFu ritrovato nel Cinquecento in contrada Grotticelle a Raffadali, nel cui territorio sono note anche altre testimonianze del periodo romano.Il sarcofago venne custodito prima nel palazzo dei principi di Montaperto, che in seguito lo donarono alla chiesa madre del paese, dove è tuttora conservato. Il sarcofago fu posizionato a destra dell’ingresso principale della chiesa, e lì rimase per secoli.Nella seconda metà del XIX secolo, l’arciprete Di Stefano fu sul punto di venderlo a un antiquario a un prezzo irrisorio, incurante del suo alto valore storico. Il sindaco del tempo, Salvatore D’Alessandro riuscì però a impedirlo.\n\nDescrizione.\nLa scena centrale raffigura il momento in cui Plutone rapisce Proserpina, protetta da Diana. L'estremità destra è occupata da Mercurio, che tiene con una mano i cavalli infernali e con l'altra il suo scettro, accanto a lui vi è Atena che punta il dito indice sulla bocca. Sul lato sinistro si vede Cerere, la madre di Proserpina, che brandisce due fiaccole. La biga sulla quale si trova è guidata da due figure allegoriche, Trepidatio e Amore. Nella parte bassa si trovano due figure, la Terra e l'Oceano. Nella parte alta invece si trova Venere che riceve da un amorino una corona di ghirlande.La figura di Venere e l'amorino rappresentano aggiunte successive. L’amorino fu realizzato dopo che lo scettro di Marte si era spezzato, forse durante il trasporto. Il volto della dea, disposto frontalmente, fu scolpito in modo da somigliare alla defunta.
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### Titolo: Sarpedonte (figlio di Europa).\n### Descrizione: Sarpedonte (in greco antico: Σαρπηδών?, Sarpēdṑn) è un personaggio della mitologia greca. Fu un re della Licia.\n\nGenealogia.\nFiglio di Zeus e di Europa e così come i due fratelli (Minosse e Radamanto), fu adottato da Asterio dopo che questi sposò la madre.\nFu padre di Evandro.\n\nMitologia.\nSarpedonte combatté contro il fratello Minosse, secondo alcuni per il trono di Creta ma secondo altri perché erano entrambi innamorati di un giovane di nome Mileto.\nIl ragazzo preferiva Sarpedonte e così Minosse per vendicarsi conquistò l'intera isola e costrinse i due amanti a fuggire per riparare in Licia, dove il giovane fondò la città che oggi porta il suo nome.Nella stessa parte della leggenda il nome del giovane era Atminio, figlio di Zeus e Cassiopea, ma non fu con Atminio che Sarpedonte fuggì.In un'altra leggenda, Sarpedonte giunto in Licia si alleò con Cilice (suo zio, in quanto la madre Europa era sorella di Cilice), e conquistò la regione della Licia dove in seguito regnò come re.\nEbbe così un figlio che chiamò Evandro, il quale sposò Laodamia e divenne padre del Sarpedonte che prese parte alla guerra di Troia e che venne ucciso da Patroclo.
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### Titolo: Sarpedonte (figlio di Laodamia).\n### Descrizione: Sarpedonte (in greco antico: Σαρπηδών?, Sarpēdṑn) è nella mitologia greca il nome di un semidio alleato di Troia durante la famosa guerra della mitologia greca: era figlio di Zeus e di Laodamia, a sua volta figlia di Bellerofonte e sorella di Isandro e Ippoloco.\n\nIl mito.\nNascita e infanzia.\nAncora giovane, Laodamia fu amata da Zeus, e da lui generò un figlio, il piccolo Sarpedonte. Gli zii del bambino, Isandro e Ippoloco, quando egli era ancora un bambino stabilirono di disputare una gara per vedere chi di loro sarebbe salito al trono. Insieme proposero di appendere al petto di un bambino un anello d'oro e di scoccare una freccia attraverso quel difficile bersaglio. Sorse tuttavia una lite a proposito del bambino da utilizzare come vittima; ciascuno di loro infatti reclamò il figlio dell'altro.\nPer impedire una lotta fratricida, Laodamia intervenne, offrendosi di legare al collo del figlio Sarpedonte il fatidico anello. Di fronte a questo gesto di puro coraggio, i due fratelli rinunciarono alle loro pretese e affidarono il regno a Sarpedonte, il quale, cresciuto, regnò sul suo popolo associando poi al trono il giovane cugino Glauco, figlio di Ippoloco.\n\nNella guerra di Troia.\nQuando Paride, figlio di Priamo, rapì da Sparta la regina Elena, moglie di Menelao e sorellastra di Sarpedonte, provocando una dichiarazione di guerra da parte di Agamennone e di tutti i capi Achei, il figlio di Zeus, pur avanti negli anni, abbandonò la moglie e il figlio ancora neonato nella sua terra per accorrere in aiuto dei Troiani. Egli partì insieme al figlio illegittimo Antifate (avuto da una schiava), ai due fratellastri Claro e Temone (figli di Laodamia e di un mortale non noto) e a Glauco (che gli fu sempre fedelissimo compagno) con grandi truppe di guerrieri della Licia, provenienti dall'intera regione dell'Asia Minore.\n\nCombattimento contro Tlepolemo.\nNel bel mezzo della battaglia, quando Pandaro venne ucciso ed Enea fu colpito gravemente da Diomede, Sarpedonte avanzò verso Ettore e lo rimproverò aspramente per il suo comportamento privo di ferocia e foga nei confronti dei nemici; le sue parole provocatorie irritarono particolarmente l'eroe troiano, il quale tornò in battaglia e continuò a fare vittime. Ad un certo punto Tlepolemo, il valoroso guerriero acheo, figlio di Eracle, quasi spinto dalla Moira, si apprestò a raggiungere Sarpedonte e lo oltraggiò, criticandolo per la sua vigliaccheria e il timore della battaglia.\n\nFurente, Sarpedonte replicò duramente in risposta. Poi scagliò l'asta di frassino contro di lui, nello stesso momento in cui Tlepolemo ricambiava il colpo. Sarpedonte colse il nemico in pieno collo, coprendogli gli occhi con la morte tenebrosa; l'asta scagliata da Tlepolemo non fu comunque vana, ma colpì l'avversario alla coscia, penetrando fino all'osso, tanto che la Moira passò davanti al giovane eroe, ma venne subito allontanata dal padre Zeus, che molto teneva alla vita del figlio.\nQuando i compagni di Sarpedonte videro il loro comandante caduto e ferito gravemente, accorsero e lo condussero fuori dalla battaglia per farlo riprendere.\nSarpedonte, accortosi ben presto che molti dei suoi uomini cadevano uccisi per mano di Ulisse, invocò Ettore, chiedendo al colmo delle lacrime il suo aiuto; ma l'eroe troiano rifiutò duramente, scavalcando il suo corpo e procedendo nei combattimenti. Ben presto il capo licio venne portato in salvo dai compagni e disteso sotto la sacra quercia del padre; qui, il fedele amico Pelagonte gli trasse fuori l'arma e, grazie al soffio di Borea, egli poté riacquistare i sensi.\nPartecipò allo scontro presso le navi, dove brillò per coraggio ed eroicità. Protetto dal padre Zeus, incitò i guerrieri lici a superare le mura di cinta greche e uccidendo il guerriero greco Alcmaone, figlio di Testore, mentre cercava di fermarlo ad ogni costo. Infine riuscì addirittura a respingere, senza uccidere, Aiace Telamonio e suo fratello Teucro e ad uccidere Euripilo trafiggendolo a morte. Insieme agli altri comandanti troiani portò soccorso ad Ettore ferito a causa di un macigno.\n\nContro l'accampamento acheo.\nNonostante i presagi e le condizioni fossero perlopiù sfavorevoli ai Troiani, Ettore contò solo sul suo valore in battaglia e sulla paura che incuteva nei nemici e stabilì di attaccare direttamente l'accampamento acheo, per giungere sino alle loro navi. Il suo consigliere Polidamante lo convinse ad essere più cauto nelle sue mosse, invitandolo a dividere in gruppi l'esercito e a posizionarne ciascuno di fronte alle varie porte della muraglia.\nL'eroe troiano ascoltò il saggio consiglio dell'amico e impartì a ciascun capitano troiano l'ordine di organizzare un proprio gruppo.\n\nLa morte.\nAffrontò Patroclo, che indossava le armi d'Achille, ma riuscì soltanto a uccidere Pedaso (l'unico cavallo mortale del Pelide) e finendo però egli stesso trafitto dalla lancia dell'eroe greco. Quando i greci iniziarono ad infierire sul corpo senza vita, intervenne Zeus che inviò Ipno (il Sonno) e Tanato (la Morte), i quali lo portarono in Licia dove ricevette gli onori funebri, come era stato stabilito dagli dei.\n\nApprofondimenti.\nGuerrieri lici giunti a Troia.\nL'elenco seguente nomina i più importanti guerrieri lici che accompagnarono Sarpedonte alla guerra di Troia.\n\nAgide, che si aggregò ad Enea dopo la caduta di Troia, morendo nella guerra italica (Virgilio, Eneide, libro X).\nAlastore, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 677).\nAlcandro, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 678).\nAlio, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 678).\nAntifate, figlio illegittimo di Sarpedonte, unitosi ad Enea dopo la caduta di Troia; ucciso da Turno nella guerra italica (Virgilio, Eneide, libro IX).\nAtimnio, ucciso da Antiloco (Omero, Iliade, libro XVI, versi).\nClaro, fratellastro di Sarpedonte, unitosi ad Enea dopo la caduta di Troia; ucciso da Turno nella guerra italica (Virgilio, Eneide, libri X, XII).\nCerano, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 677).\nCromio, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 677).\nEpicle, ucciso da Aiace Telamonio (Omero, Iliade, libro XII, versi 378-386).\nGlauco, cugino di Sarpedonte.\nMaride, ucciso da Trasimede (Omero, Iliade, libro XVI).\nMenete, ucciso da Achille (Ovidio, Metamorfosi, libro XII).\nNoemone, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 678).\nOronte, che divenne capo militare delle truppe licie dopo le uccisioni di Sarpedonte e Glauco; unitosi a Enea dopo la caduta di Troia, morì nel naufragio della sua nave (Virgilio, Eneide, libri I e VI).\nPelagonte, intimo amico di Sarpedonte (Omero, Iliade, libro V, versi 695-696).\nPritani, ucciso da Odisseo (Omero, Iliade, libro V, verso 678).\nScilaceo, ferito da Aiace d'Oileo (Quinto Smirneo, Posthomerica, libro X, versi 147 ss.).\nTemone, fratellastro di Sarpedonte, unitosi ad Enea dopo la caduta di Troia e ucciso da Turno nella guerra italica (Virgilio, Eneide, libri X, XII).\nTrasidemo, scudiero e auriga di Sarpedonte, ucciso da Patroclo (Omero, Iliade, libro XVI, versi 463-465).Atimnio e Maride erano i due giovani figli di Amisodaro, il custode della Chimera, che era stata uccisa da Bellerofonte, avo di Sarpedone.\n\nVittime di Sarpedonte.\nL'elenco seguente fa menzione dei guerrieri achei che Sarpedonte uccise lottando contro gli Achei: secondo Gaio Giulio Igino, egli uccise due guerrieri, ma le versioni riguardo a ciò sono piuttosto contrastanti.\n\nAntifo, capitano acheo, figlio di Tessalo e nipote di Eracle, fratello di Fidippo (Igino, Fabula, 113).\nTlepolemo, figlio di Eracle, rifugiatosi a Rodi dopo aver commesso un delitto involontario (Omero, Iliade, libro V, versi 655-659).\nAlcmaone, guerriero acheo, figlio di Testore (Omero, Iliade, libro XII, versi 393-396).\nFere, figlio di Admeto, valoroso guerriero acheo (Darete il Frigio, 26).\nPedaso, non si tratta di un guerriero nemico ma dell'unico cavallo mortale di Achille, a differenza di Balio e Xanto, cavalli immortali. Sarpedonte uccise l'equino (credendo che Patroclo fosse Achille, poiché aveva indosso le sue armi), finendo però egli stesso trafitto dalla lancia dell'eroe (Omero, Iliade, libro XVI, versi 466-469).\n\nCulto.\nNella Licia il suo nome era oggetto di culto eroico, a suo nome furono fondate diverse città del tempo a conferma dell'importanza che avesse il suo nome (o quello degli omonimi).\n\nSarpedonte nell'Eneide.\nVirgilio ricorda varie volte Sarpedonte nell'Eneide: nel libro I Enea, evocando i grandi morti di Troia, lo definisce 'grande' (ingens, v.100); nel IX libro è descritta la morte del figlio illegittimo Antifate, ucciso da Turno nel corso della guerra tra troiani e italici (v. 697); nel X libro, Giove rievoca con commozione ad Alcide (Ercole) la morte del proprio figlio Sarpedonte Troiae sub moenibus altis, come altri figli di dèi (vv. 469-471); nel XII, Turno uccide in combattimento anche i due fratellastri del re licio, Claro e Temone.
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### Titolo: Satiro versante.\n### Descrizione: Il Satiro versante era una statua bronzea, capolavoro giovanile dello scultore greco Prassitele (Atene, 400/395 a.C. – 326 a.C.), oggi perduta e nota attraverso copie.\n\nDescrizione.\nSi tratta della prima opera nota dello scultore, considerato il maggiore dei maestri del periodo tardo classico della scultura greca, databile attorno al 370 a.C. Secondo la testimonianza di Pausania, l'originale si trovava sulla via dei Tripodi ad Atene.\nOggi è noto grazie ad un cospicuo numero di copie romane in quanto, come tutte le opere di Prassitele, godette grande fama nella Roma antica. Fra le copie meglio conservate, vi è innanzitutto quella oggi conservata presso il Museo archeologico regionale Antonio Salinas di Palermo, proveniente dalla Villa romana di Sora a Torre del Greco, rinvenuta durante gli scavi del periodo borbonico. Altre copie notevoli si trovano presso l'Altes museum di Berlino, l'Albertinum di Dresda, il museo di Palazzo Altemps a Roma, il Louvre, il British Museum e il Walters Art Museum di Baltimore.\nLa statua raffigura un satiro, distinguibile grazie alle orecchie a punta, unico particolare che lo distingue da un efebo. La figura è rappresentata con il braccio destro sollevato nell'atto di versare il vino da un'oinochoe nella sottostante kylix, retta dalla mano sinistra abbassata. La testa è inclinata in avanti, mentre i capelli sono tenuti da una tenia e intrecciati con un tralcio di edere con corimbi.\nPur essendo un'opera giovanile, mostra già le caratteristiche che resero famoso Prassitele, quali il modellato finissimo che restituisce la morbidezza delle carni, l'atteggiamento e l'espressione meditativa e trasognata della figura, la delicatezza dei passaggi chiaroscurali sul corpo del giovane, in questo caso un adolescente molto distante dai giovani dalla muscolatura scolpita tipica delle sculture della precedente generazione di Fidia e Policleto.
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### Titolo: Satnio.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Satnio era un giovane semidio troiano, figlio di Enope, il quale prese parte alla guerra di Troia per combattere gli Achei. Il conflitto ebbe origine dal rapimento di Elena, regina spartana, figlia di Zeus, da parte del principe troiano Paride; Menelao, re di Sparta e marito della giovane, infatti, si vendicò di tale oltraggio riunendo un considerevole esercito e dichiarando guerra alla città asiatica. I momenti cruciali di questa guerra sono raccontati da Omero nell'Iliade.\n\nIl mito.\nOrigini e nascita.\nSatnio aveva origini semidivine, dato che suo padre, un pastore di buoi chiamato Enope aveva avuto una relazione amorosa con una Naiade, di cui non si sa il nome. Enope infatti, mentre era intento al suo lavoro sulle rive del Satnioento, un fiume della Troade, aveva intravisto la ninfa che, come racconta Omero, era di una straordinaria avvenenza. Innamoratosene, Enope non pensò ad altro che a stuprarla sul posto, cosicché la ninfa si ritrovò dopo alcuni mesi incinta di Satnio.\n\nLa morte in guerra.\nScoppiata la guerra che oppose per ben dieci anni Troiani e Achei, Satnio decise di prendervi parte, intenzionato a difendere la sua patria. Nel corso dei combattimenti nel decimo anno di guerra, il giovane venne preso di mira dal veloce e crudele Aiace d'Oileo, il quale aveva deciso di approfittare della mancanza di Ettore, capitano troiano, ferito dal grande Aiace, per seminare strage nelle file troiane. Il figlio di Oileo balzò dunque contro di loro e trafisse per primo Satnio, al fianco, con la sua lancia. Colpito mortalmente, il giovane guerriero cadde a terra.\n\nAlla vista del compagno morto, Polidamante, capitano troiano, si vendicò a sua volta trafiggendo con la sua asta Protoenore, un capo acheo, proveniente dalla Beozia.
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### Titolo: Scamandro (divinità).\n### Descrizione: Scamandro (in greco antico: Σκάμανδρος?, Skámandros) o Xanto è un personaggio della mitologia greca.\nSecondo Esiodo, è figlio di Oceano e Teti. mentre secondo altri sarebbe figlio di Zeus e padre di Teucro (la quale madre sarebbe la ninfa Idea).\nScamandro è riconosciuto anche come padre di Glaucia che a sua volta ebbe da Dimaco (uno degli amici di Eracle) un bambino a cui fu dato lo stesso nome del nonno (Scamandro).\n\nMitologia.\nSuo padre gli diede l'onore di festeggiare le giovani donne che in seguito al matrimonio andavano a bagnarsi nelle sue acque ed appena uscite dall'acqua, Scamandro usciva dal suo letto e le accompagnava nel suo palazzo.\nDurante la guerra di Troia, quando Patroclo viene ucciso da una lancia scagliata da Ettore, Achille, furioso, fa strage dei troiani e dei loro alleati; non essendo riuscito ad uccidere Ettore si rivolge contro i nemici superstiti che cercano di rifugiarsi sulla sponda opposta del fiume Scamandro. Achille si getta nel fiume inseguendo e falciando i fuggiaschi, riempiendo l'acqua di cadaveri, armi e scudi.\nIl dio Scamandro, sdegnato per la carneficina, scaglia le sue acque contro di lui ed Achille, appesantito dall'armatura, rischia di annegare e viene salvato dall'intervento di Efesto che prosciuga le acque del fiume con una tremenda pioggia di fuoco.
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### Titolo: Scamandro.\n### Descrizione: Lo Scamandro è un fiume situato presso la città di Troia e menzionato nei poemi omerici. Chiamato anche Xanto, il fiume è identificato con l'attuale fiume Karamenderes, a sud della collina di Hissarlik, sebbene il suo corso odierno sia più arretrato rispetto a quello dello Scamandro omerico.\nA questo fiume e al dio fluviale della mitologia greca Scamandro è dedicato il XXI canto dell'Iliade: il fiume si scaglia contro Achille, adirato per i molti corpi di giovani peoni gettati dall'eroe acheo tra le sue acque, ma viene fermato da Efesto con una pioggia di fuoco.\nEttore volle dare al suo unico figlio il nome del fiume: il bimbo si chiamò dunque Scamandrio, ma ebbe anche un altro nome, Astianatte. Sempre nell'Iliade viene narrata la morte in battaglia di Ipsenore, guerriero troiano che era anche il giovane sacerdote preposto al culto del dio fiume: a ucciderlo fu Euripilo.
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### Titolo: Sciapode.\n### Descrizione: Gli sciapodi (σκιάποδες — dal greco σκιά 'ombra' e ποὑς 'piede') o monopodi sono esseri mitologici dotati di una sola gamba e di un solo enorme piede, che si supponeva abitassero l'India.\nCon questo termine s'indicavano in epoca greca (ad esempio in Alcmane, ma anche in Erodoto) alcuni leggendari abitanti dell'India caratterizzati da un solo enorme piede, col quale all'occorrenza essi si sarebbero fatti ombra.\n\nStoria.\nI monopodi compaiono nella commedia di Aristofane Gli uccelli, come vicini di casa di Socrate, eseguita per la prima volta nel 414 a.C.\nSono menzionati da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, un trattato naturalistico, in cui attribuisce a Ctesia la loro prima descrizione nel suo libro Indika (India), un resoconto basato sulle storie portate in Persia dai commercianti che percorsero la via della seta da Seri. Plinio li descrive in questo modo:.\n\nFilostrato cita i monopodi nella Vita di Apollonio di Tiana, e crede che vivano in India e in Etiopia e chiede al saggio indiano Iarchas della loro esistenza.\nSant'Agostino (354–430) li menziona nel sedicesimo libro della città di Dio, e afferma che non è sicuro dell'esistenza di tali creature.\nIn epoca medievale di essi si parla nei vari libri di storia, di geografia antropica o di zoologia e nei bestiari, particolarmente ricchi di esseri mostruosi e comunque straordinari che avrebbero abitato zone poco conosciute della Terra. Come, ad esempio:.\n\nLa Mappa di Hereford, disegnata tra il 1276 e il 1283, mostra uno sciapode su un lato del mondo, così come nella mappa del mondo disegnata da Beato di Liébana.\n\nNella cultura di massa.\nNella saga di Erik il Rosso, il gruppo di Thorvald Eriksson viene attaccato da un uomo con un piede solo.\nDegli Sciapodi compaiono anche nel libro di C. S. Lewis, Il viaggio del veliero.\nUmberto Eco, conoscitore delle letterature medievali, cita sciapodi, blemmi, panozi ed altre creature fantastiche nei romanzi Baudolino e Il nome della rosa.
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### Titolo: Scilaceo.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Scilaceo fu un guerriero della Licia, nel contingente di Glauco, giunto a Troia per difendere la città dall'assedio dei Greci.\nFu uno dei pochi Lici che sopravvissero alla caduta di Troia, benché fosse rimasto gravemente ferito da Aiace d'Oileo; ma mentre gli altri preferirono aggregarsi a Enea, egli decise di tornare in patria.\nAl suo ritorno dovette annunciare alle donne la terribile sciagura avvenuta, cioè che quasi tutti i loro congiunti erano morti o rimasti dispersi durante le battaglie.\nLe donne, avendo nel frattempo appreso che Scilaceo a Troia non aveva combattuto valorosamente, disperate e arrabbiate lo uccisero lapidandolo senza pietà nei pressi del santuario del culto eroico di Bellerofonte.
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### Titolo: Scilla (mostro).\n### Descrizione: Scilla (in greco antico: Σκύλλα?, Skýlla) è un mostro marino della mitologia greca.\nSecondo la versione più comune, Scilla è figlia delle divinità marine Forco e Ceto. Secondo la tradizione riportata dall'Odissea, invece, sua madre è la ninfa Crateide. Altre leggende la dicono nata da Forbate e da Ecate, oppure da quest'ultima e Forco. La si considerava anche figlia di Tifone ed Echidna, oppure di Zeus e di Lamia, a sua volta figlia di Poseidone.\nScilla viene descritta da Omero nell'Odissea, XII, 112, da Ovidio nei libri XIII-XIV delle Metamorfosi e da Virgilio nell'Eneide, III.\n\nMito.\nSecondo i commenti di Servio e di Giovanni Tzetzes all'Eneide Scilla era una bellissima naiade rivendicata da Poseidone, ma la gelosa nereide Anfitrite, sposa del dio del mare, la trasformò in un terribile mostro versando una pozione nello specchio d'acqua dove Scilla era solita fare il bagno. Sempre Giovanni Tzetzes, così come fa anche Eustazio, registra un mito tardo greco nel quale Eracle uccise Scilla dopo averla incontrata durante un viaggio. Così suo padre Forco pose sul suo corpo delle torce fiammeggianti che la riportarono in vita.\nSecondo quanto raccontato da Igino e Ovidio, all'inizio Scilla era una ninfa dagli occhi azzurri, che viveva in Calabria ed era solita recarsi sulla spiaggia di Zancle e fare il bagno nell'acqua del mare. Una sera, vicino alla spiaggia, vide apparire dalle onde Glauco, che un tempo era stato un mortale, ma oramai era un dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, terrorizzata alla sua vista, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva vicino alla spiaggia. Il dio, vista la reazione della ninfa, iniziò ad esclamare il suo amore, ma Scilla fuggì lasciandolo solo nel suo dolore.\nAllora Glauco si recò dalla maga Circe e le chiese un filtro d'amore per far innamorare la ninfa di lui, ma Circe, desiderando il dio per sé, gli propose di unirsi a lei. Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e Circe, furiosa per essere stata respinta al posto di una ninfa, volle vendicarsi. Quando Glauco se ne fu andato, preparò una pozione malefica e si recò presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.\nQuando Scilla arrivò e s'immerse in acqua per fare un bagno, vide crescere molte altre gambe di forma serpentina accanto alle sue, che nel frattempo erano diventate uguali alle altre. Spaventata fuggì dall'acqua, ma, specchiandosi in essa, si accorse che si era completamente trasformata in un mostro enorme ed altissimo con sei enormi teste di cane lungo il girovita, un busto enorme e delle gambe serpentine lunghissime. Secondo alcuni dalla vita in su manteneva il corpo di una vergine, mentre per altri possedeva sei teste serpentine altrettanto mostruose. Per l'orrore Scilla si gettò in mare e andò a vivere nella cavità di uno scoglio vicino alla grotta dove abitava anche Cariddi.\nNel XII libro dell'Odissea di Omero, Circe consiglia a Ulisse di navigare più vicino a Scilla, perché Cariddi potrebbe affondare l'intera nave, suggerendogli anche di chiedere a Crateide, madre di Scilla, di impedire alla figlia di balzare sulle navi più di una volta. Ulisse naviga con successo nello stretto, ma quando lui e il suo equipaggio vengono momentaneamente distratti da Cariddi, Scilla cattura sei marinai e li divora vivi.\n\nCultura di massa.\nNel videogioco Age of Mythology Scilla appare come unità mitica dei greci ed è la controparte acquatica dell'idra: entrambi i mostri hanno in comune l'abilità di acquisire più teste ogni volta che uccidono unità nemiche.\nIn God of War: Ghost of Sparta è il primo boss e si presenta come un mostruoso squalo corazzato con tentacoli sul torace.\nAppare in C'era una volta... Pollon.\nIo di Scilla, uno dei sette Generali degli abissi del manga dell'anime e manga I Cavalieri dello zodiaco, indossa un'armatura ispirata a Scilla.\nNella serie TV Prison Break, Scilla è il progetto della compagnia nella quale si incentra tutta la quarta stagione. È un progetto di livello mondiale ed è rappresentata da 6 schede.\nIn Castlevania: Symphony of the Night, titolo per PSX della Konami che riprende molte figure mitologiche e della narrativa, Scilla è uno dei boss del gioco, al termine di uno stage percorrendo il quale si deve evitare di rimanere sommersi dall'acqua che sale e scende. Il suo aspetto è quello di una donna fino al busto e, al di sotto, un groviglio di enormi serpenti e cani feroci.\nNel MOBA Smite Scilla (col nome di Scylla dato che il gioco è interamente in inglese) appare, ma è rappresentata come una bambina e non come una ninfa, i suoi poteri tuttavia derivano dalle teste di cane attaccate al suo corpo tramite un collo serpentino, proprio come racconta il mito.\nIn Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo - Il mare dei mostri. Nel film viene solo menzionata, mentre nel romanzo ghermisce alcuni dei soldati-zombie della nave di Clarisse mentre lei, Percy ed Annabeth stanno attraversando lo Stretto.\nIn Godzilla II - King of the Monsters e in Godzilla x Kong: The New Empire appare un mostro di nome Scylla, ispirato in parte alla creatura mitologica (nei film Scylla si presenta come una ammonite con le zampe da granchio).\nin Circe di Madeline Miller, possiamo trovare la storia di come la maga abbia trasformato l'aitante ninfa nel mostro mitologico.
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### Titolo: Scrittoio di Enrico VIII.\n### Descrizione: Lo scrittoio di Enrico VIII è uno scrittoio portatile, realizzato tra il 1525 e il 1526 per Enrico VIII d'Inghilterra. È esposto al Victoria and Albert Museum di Londra.\nLa scrivania è un prodotto delle officine reali ed è sontuosamente decorata con motivi ornamentali introdotti nel Regno d'Inghilterra da artisti continentali. La fodera di cuoio dorata è dipinta con figure e teste di profilo che sono vicine alle contemporanee miniature, mentre la figura di Marte in armatura e di Venere con Cupido sono tratte dalle xilografie dell'artista tedesco Hans Burgkmair (1473-1531), pubblicate nel 1510.\nLo scrittoio, inoltre, reca lo stemma e i distintivi personali di Enrico e della sua prima regina Caterina d'Aragona. Tali messaggi trasmettevano forti messaggi di fedeltà ed erano ampiamente utilizzate negli schemi decorativi dei palazzi reali di Enrico VIII. L'iscrizione latina sul coperchio interno recita 'Il grande Protettore dell'autorità della Chiesa Cristiana, il Dio dei Regni, dà al tuo servitore Enrico VIII Re d'Inghilterra una grande vittoria sui suoi nemici'.\nLa parte esterna dello scrittoio è coperta con della pelle di zigrino e munito di supporti angolari in metallo dorato, manici ad anello e piedi rotondi, tutti aggiunti nel corso del XVIII secolo. Le superfici interne dei cassetti sono rivestite con velluto in seta rossa, probabilmente aggiunto nel XIX secolo. Il piano di scrittura e lo scomparto maggiore sono stati rivestiti in modo molto approssimativo con velluto in seta cremisi, il cui aspetto è considerevolmente più antico rispetto al velluto rosso.
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### Titolo: Scrofa di Crommio.\n### Descrizione: La scrofa crommionia, o di Crommio, chiamata Fea (in greco antico: Φαια?, Phaia) dal nome della vecchia che la allevò, è una creatura leggendaria della mitologia greca. Si trattava di un ferocissimo maiale, che si diceva discendesse da Tifone ed Echidna. Ebbe come figlio da un normale cinghiale, il Cinghiale calidonio. Altre dicono che lo abbia avuto dal cinghiale di Erimanto.\n\nStoria.\nLa creatura, che aveva già ammazzato molti uomini, fu affrontata da Teseo e uccisa con un colpo di spada.\nApollodoro riporta che la scrofa era detta essere figlia di Tifone ed Echidna.\nStrabone riporta che era detta essere madre del cinghiale calidonio.
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### Titolo: Scudo di Achille.\n### Descrizione: Lo scudo di Achille è lo scudo, utilizzato dall'eroe greco Achille per vendicare il compagno Patroclo uccidendo l'eroe troiano Ettore, descritto in un celebre passaggio del libro XVIII (versi 478-608) dell'Iliade.\nIl passaggio nel quale Omero descrive lo scudo è uno dei primi esempi di ekphrasis (lett. descrizione di un'opera d'arte figurativa) della letteratura occidentale e funse da modello di riferimento per altri autori: gli esempi più famosi di contaminatio omerica sono il poema Lo scudo di Eracle (Ἀσπὶς Ἡρακλέους - Aspìs Hēraklèūs), attribuito ad Esiodo, e la descrizione dello scudo di Enea nel libro VIII dell'Eneide di Virgilio.\nNel 1952, il poeta britannico Wystan Hugh Auden riscrisse, in chiave moderna, la descrizione dello scudo nel poema The Shield of Achilles (ital. 'Lo scudo di Achille').\n\nIl contesto mitologico.\nPerdute le sue armi dopo averle prestate a Patroclo, eroe ucciso da Ettore (grazie all'aiuto di altre due divinità), Achille è impossibilitato a vendicare la morte dell'amico. La madre Teti intercede per lui presso il dio del fuoco Efesto, affinché possa forgiare delle nuove armi per l'eroe. Il dio-fabbro riempie così il suo crogiuolo di rame e stagno (componenti del bronzo) frammisti ad oro e argento, realizzando una nuova, sontuosa panoplia per l'eroe. Tra i manufatti, spicca un grande scudo, del quale Omero fornisce un'accuratissima descrizione:.\n\nDescrizione.\nI soggetti secondo la descrizione omerica sono:.\nla terra, il cielo ed il mare, il sole, la luna e le costellazioni (483-489);.\n«due belle città di creature mortali», una scena di nozze ed un processo, un assedio e la battaglia che ne segue (490-540);.\nun campo arato per la terza volta (541-549);.\nla tenuta del re, dove vengono raccolte le messi (550-560);.\nun vigneto con dei raccoglitori di grappoli (561-572);.\nuna mandria di giovenche, attaccata da due leoni (573-586);.\nun bianco gregge di pecore al pascolo (587-589);.\nuna danza di giovani (590-606);.\nil gran fiume di Oceano (607-608).
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### Titolo: Segugio infernale.\n### Descrizione: Il segugio infernale o cane infernale (in inglese, Hellhound) è una creatura leggendaria presente nelle mitologie di tutto il mondo. Sono esseri dalle fattezze canine, descritti come guardiani o servitori dell'inferno, del diavolo o degli inferi. Le caratteristiche fisiche specifiche variano da cultura a cultura, ma spesso includono il colore nero, il pelo innaturalmente folto, la forza sovrannaturale e gli occhi rossi o fiammeggianti. Tra gli esempi più noti di segugio infernale si possono senz'altro citare Cerbero, il cane di Ade nella mitologia greca, e Garmr, guardiano degli inferi nella mitologia norrena.\n\nNel mondo.\nEuropa.\nBelgio.\nOude Rode Ogen ('Vecchi Occhi Rossi'), conosciuto anche come Bestia delle Fiandre, era un demone che si credeva si aggirasse nelle Fiandre e in Belgio nel XVIII secolo. Secondo la leggenda era in grado di assumere la forma di un grande segugio nero dagli occhi rossi come fuoco. In Vallonia i racconti popolari menzionano poi il Tchén al tchinne (in vallone, 'Segugio incatenato'), un segugio infernale legato a una lunga catena, che si dice si aggiri per i campi durante la notte.\n\nCatalogna.\nNei miti catalani il Dip è un segugio malvagio, nero e irsuto, un emissario del diavolo che si nutre di sangue umano e che, come altri esseri demoniaci del folklore della Catalogna, è zoppo. La creatura è raffigurata sullo stemma del comune catalano di Pratdip.\n\nFrancia.\nNella Francia dell'856 d.C. si raccontava di un cane nero che si era materializzato all'interno di una chiesa le cui porte erano chiuse. Secondo il racconto, l'edificio si fece buio mentre il segugio setacciava la navata, come per cercare qualcuno, per poi scomparire improvvisamente. In Normandia si racconta invece di come uno spirito chiamato Rongeur d'Os (rosicchiatore d'ossa) vaghi per le strade di Bayeux nelle notti d'inverno assumendo la forma di un cane fantasma, masticando ossa e trascinandosi dietro delle catene. Nella Bassa Bretagna vi sono infine racconti che narrano di una nave fantasma il cui equipaggio è composto da anime di criminali, sorvegliati e torturati da diversi segugi infernali.\n\nGermania.\nIn Germania era credenza che il diavolo stesso potesse apparire sotto forma di segugio nero, soprattutto in occasione della Notte di Valpurga.\n\nGrecia.\nNella mitologia greca Cerbero è un cane policefalo, il cui compito è quello di sorvegliare le anime degli inferi e di impedire loro la fuga. Figlio dei mostri Tifone ed Echidna, è il segugio del dio Ade e viene spesso descritto come dotato di tre teste e di un serpente come coda. Numerosi serpenti emergono inoltre da diverse parti del suo corpo.\n\nRegno Unito.\nGalles.\nIl gwyllgi (termine composto da gwyllt, selvaggio o gwyll, crepuscolo e ci, cane) è un cane nero della mitologia gallese che ha l'aspetto di un mastino inglese dal fiato minaccioso e dagli occhi rosso fuoco.\n\nCŵn Annwn.\nNella mitologia gallese i Cŵn Annwn erano i cani spettrali dell'Annwn, l'aldilà. Erano associati a una forma della caccia selvaggia, presieduta da Gwynn ap Nudd. I cristiani soprannominarono queste mitiche creature come 'Segugi dell'Inferno' o 'Cani dell'Inferno' teorizzando quindi che fossero proprietà di Satana. Tuttavia, l'Annwn della tradizione gallese medievale non è una sorta di Inferno o di dimora per le anime dei defunti, bensì un vero e proprio paradiso ultraterreno.\nIn Galles, erano poi associati alle migrazioni delle oche, presumibilmente per via del loro verso udito durante la notte, che ricorda quello dei cani. Si diceva andassero a caccia in specifiche notti (le vigilie di San Giovanni, San Martino, San Michele Arcangelo, Ognissanti, Natale, Capodanno, Sant'Agnese, San Davide di Menevia e il Venerdì Santo), oppure, più semplicemente, in autunno e inverno. Il Cŵn Annwn venne anche considerato come scorta delle anime nel loro viaggio verso l'aldilà. Questi segugi sono talvolta accompagnati da una temibile megera di nome Malt-y-Nos, ossia 'Matilda della notte'. Un altro nome per queste creature è Cŵn Mamau,'Segugi delle madri'.\n\nInghilterra.\nIl mito è diffuso in tutta la Gran Bretagna nella forma dei cosiddetti cani neri del folklore inglese. Il primo riferimento scritto agli hellhound si trova nella versione di Peterborough della Cronaca anglosassone, risalente all'XI-XII secolo.\n\nScandinavia.\nNella mitologia norrena, Garmr o Garm (termine che in antico norvegese significa straccio) è un lupo o un cane associato sia alla dea degli inferi Hel che al Ragnarök. Viene descritto come un guardiano macchiato di sangue che sorveglia il cancello di Hel, il regno degli inferi.\n\nTerre ceche.\nSi riportano numerosi avvistamenti di segugi infernali in tutte le terre ceche.\n\nAmerica.\nAmerica Latina.\nSi racconta di segugi infernali neri dagli occhi infuocati in tutta l'America Latina, dal Messico all'Argentina. Queste creature vengono chiamate in vari modi, che includono Perro Negro (in spagnolo,'cane nero'), Nahual, Huay Chivo e Huay Pek(Messico), Cadejo (America Centrale), il cane fa (Argentina) e il Luison (Paraguay e Argentina). Si dice siano incarnazioni del Diavolo o, alternativamente, stregoni in grado di cambiare forma.\n\nStati Uniti.\nUna leggenda relativa a un segugio infernale persiste a Meriden, nel Connecticut, fin dal XIX secolo. Si racconta di come il cane infesti le Hanging Hills, una popolare area ricreativa che consiste in un sistema di creste rocciose e gole. Il primo resoconto non proveniente da un locale è arrivato da W.H.C. Pychon, che nella rivista The Connecticut Quarterly lo descrive come un presagio di morte. Si dice che incontrare questo cane nero per la prima volta porterà gioia, la seconda dolore, la terza morte.Il termine hellhound appare spesso anche nella musica blues americana, ad esempio nella canzone di Robert Johnson del 1937, 'Hellhound on My Trail'.\n\nAsia.\nArabia.\nIn Arabia si crede che i Jinn, entità non necessariamente malvagie ma spesso considerate tali, si servano di cani neri come destrieri. La rappresentazione negativa dei cani si deve probabilmente alla loro abitudine di masticare ossa (associata al 'mangiare i morti') e disseppellire tombe. Si dice anche che gli stessi jinn vaghino per i cimiteri nutrendosi di cadaveri, caratteristica che rende tale relazione ancora più stretta.\n\nIndia.\nIl Mahākanha Jātaka del canone buddista Pali contiene un racconto riguardo ad un segugio nero, chiamato con il nome di Mahākanha (in lingua pāli, 'grande nero'). Guidato dal dio Śakra sotto le spoglie di un abitante delle foreste, Mahākanha spaventa i malvagi, spingendoli verso la rettitudine in modo che meno persone rinascano all'inferno.\nLa sua apparizione è sintomo della degenerazione morale del mondo umano, quando monaci e monache non si comportano correttamente e l'umanità è corrotta e malvagia.\n\nNella cultura di massa.\nLetteratura.\nNel Faust di Goethe, il diavolo Mefistofele appare per la prima volta al protagonista sotto forma di un barboncino nero che lo segue fino a casa attraverso un campo.\nNe Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle, il mastino ha caratteristiche assimilabili a quelle di alcune descrizioni dei segugi infernali.\nNel romanzo di Thomas Mann del 1947 Doctor Faustus, l'eroe faustiano Adrian Leverkuhn possiede due segugi, Suso e Kaschperl, entrambi segugi infernali inviati da Mefistofele.\nNel romanzo fantasy di Piers Anthony On A Pale Horse, Satana manda dei segugi infernali ad attaccare Zane (la Morte) e riportarlo all'inferno. I cani sono immortali ma vengono eliminati dalla magica falce della Morte.\nI segugi infernali sono gli animali domestici delle arpie nella serie The Black Jewels di Anne Bishop. I segugi infernali (chiamati Shadow Hounds, segugi d'ombra) appaiono anche nella trilogia di Tir Alainn della medesima autrice.\nNe Le streghe di Roald Dahl, i barghest sono creature demoniache che appaiono insieme alle streghe. Questi non vengono mai descritti nel romanzo, ma potrebbero essere visti come cani.\nI segugi infernali sono presenti nella serie Merry Gentry di Laurell K. Hamilton.\nNel libro di Anthony Horowitz Raven's Gate, il protagonista, Matt, viene inseguito nella foresta da canidi demoniaci, dopo essere stato scoperto mentre origliava un rituale.\nCon il nome di Segugi neri (Darkhound nell'originale) compaiono più volte nella serie di libri fantasy di Robert Jordan, La ruota del tempo.\nGli Hellhound appaiono nel romanzo fantasy new wave di Roger Zelazny Nine Princes in Amber (1970).\nNel romanzo Buona Apocalisse a tutti! di Neil Gaiman e Terry Pratchett Adam (l'Anticristo) riceve un compagno segugio infernale che chiama semplicemente 'Cane'.\n\nCinema.\nNella webserie Helluva Boss, una dei protagonisti è una segugia infernale.\nDue segugi infernali di nome Zuul e Vinz sono elementi fondamentali della trama nel film Ghostbusters (1984), nel quale sono i tirapiedi dell'antica entità Gozer.\nUn cane infernale di nome Sammael è uno dei principali antagonisti del primo film di Hellboy.\nI segugi infernali appaiono nel film Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo - Il ladro di fulmini, come animali domestici di Persefone e Ade.\nUn cane infernale di nome Thorn è il guardiano del vampiro Max in Ragazzi perduti.\nI segugi appaiono anche nel film d'animazione di Don Bluth Charlie - Anche i cani vanno in paradiso. In un incubo, Charlie finisce all'inferno e incontra una bestia chiamata Hellhound, che lo umilia insieme ai suoi tirapiedi.\nNella fiction televisiva fantasy horror Maneater I segugi infernali appaiono come animali domestici di Ade.\nNei film Predators e The Predator, i segugi infernali sono i cani extraterrestri degli alieni Yautja.\n\nTelevisione.\nI segugi infernali appaiono nello show televisivo Supernatural, ad esempio nell'episodio della quinta stagione Lasciate ogni speranza....\nL'episodio 13 di Lost Tapes stagione 1, parla di cani infernali e del fatto che chi ne vede uno per tre volte è destinato a morire.\nI cani infernali appaiono nel ventesimo episodio della terza stagione di Buffy l'ammazzavampiri, Il ballo.\nI segugi infernali compaiono anche nella seconda stagione della serie Monsters and Mysteries in America, in cui vengono visti terrorizzare una comunità della California.\nUno dei personaggi della serie di MTV Teen Wolf è un segugio infernale.\nNella serie televisiva The X-Files un segugio infernale riveste un ruolo importante nell'episodio Famiglio (2018). Nell'episodio custodisce i cancelli degli inferi in un cimitero puritano segreto nel Connecticut e attacca diverse vittime.\n\nGiochi.\nIn Call of Duty: World at War, Call of Duty: Black Ops, Call of Duty: Black Ops II, Call of Duty: Black Ops III, Call of Duty: Black Ops IIII e Call of Duty: Black Ops Cold War, nella modalità Zombie, dei segugi infernali infuocati fanno un'apparizione come nemici. Appaiono per la prima volta all'inizio dei round 5, 6 o 7 e ricompaiono ogni 4 o 5 round.\nIn Heroes of Might and Magic III, il segugio infernale è un'unità di 3º livello reclutabile nella città dell'Inferno che può essere potenziata in un Cerbero.\nL'Hellhound è anche una creatura del caos nel gioco Master of Magic.\nIn Neverwinter Nights, il segugio infernale è disponibile come famiglio per maghi e stregoni.\nIn Eye of the Beholder, i segugi infernali appaiono in uno dei livelli più profondi dei dungeon.\nNel videogioco NiGHTS: Journey of Dreams, uno dei boss del sogno di Will si chiama Cerberus ed è, come affermato da Reala, un segugio infernale.\nNella serie Pokémon, i Pokémon Houndour e Houndoom sono ispirati al segugio infernale.\nNel MMORPG RuneScape, i segugi infernali sono una tipologia di demone, ma non sono legati al mondo sotterraneo.\nIl segugio infernale è un boss di The Witcher.\nI segugi infernali appaiono in The Elder Scrolls: Arena.\nI segugi Infernali sono servitori della Legione Infuocata in Warcraft III: Reign of Chaos.\nI cani infernali appaiono in The Elder Scrolls IV: Shivering Isles, un DLC per The Elder Scrolls IV: Oblivion.\nSegugi infernali chiamati Death Hounds (segugi della morte) appaiono in Dawnguard, il primo DLC per The Elder Scrolls V: Skyrim.\nIn War Commander, gioco di strategia in tempo reale su Facebook, Hellhounds è il nome di una fazione canaglia controllata dal computer.\nIn Dungeon Keeper appaiono esseri canini a due teste in grado di sputare fuoco.\nIn Dragon's Dogma, i segugi infernali sputafuoco iniziano ad apparire dopo aver sconfitto il drago.\nIn Ultima Online, i segugi infernali sono un tipo di creatura ostile che appare in alcune aree di dungeon.\nIn Don't Starve gli Hounds, nemici simili a lupi, sono basati sui segugi infernali.\nIn Age of Mythology i segugi infernali sono evocati dal potere divino di Ecate Tartarian, che crea un portale per il Tartaro.\nGli Hellhound appaiono nel MMORPG Anarchy Online, come cani bianchi particolarmente difficili da sconfiggere.\nI segugi infernali appaiono nel MMORPG Wizard101.\nIn Devil May Cry 3, uno dei primi boss è Cerbero.\nIn Fire Emblem: The Sacred Stones vi sono due segugi infernali nemici, Mauthe Dhoog e Gwyllgi.\nNella serie Final Fantasy Cerbero fa un'apparizione come un boss e in alcuni casi può essere evocato per combattere al fianco del giocatore con una mossa speciale. Allo stesso modo, altri segugi infernali fanno a volte la loro comparsa, come Garm di Final Fantasy VI .\nIn Ogre Battle: The March of the Black Queen, il segugio infernale è un mostro che può essere reclutato dai maghi e potenziato in un Cerbero. Quest'ultimo ha tuttavia ancora una sola testa, a causa delle limitazioni degli sprite.\nIn Blood, i segugi infernali sono presenti come nemici regolari a partire dall'episodio 3. Inoltre, Cerbero è presente come il boss dell'episodio 3 e fa apparizioni occasionali in seguito. In particolare, due di essi costituiscono lo scontro finale dell'espansione Cryptic Passage.\n\nDungeons & Dragons.\nNel gioco di ruolo fantasy di Dungeons & Dragons, il segugio infernale è una creatura simile a una iena che caccia in branco, in grado di sputare fuoco. È classificato come un esterno dei Nove Inferi. Il segugio infernale è stato introdotto nel gioco nel suo primo supplemento, Greyhawk, nel 1975.In Dungeons and Dragons, un segugio infernale assomiglia a una creatura rognosa, magra, per certi aspetti demoniaca, dall'aspetto simile a quello di una iena, con occhi rossi e orecchie da drago, con la capacità di sputare fuoco. Tuttavia, la Quarta Edizione li descrive come canidi quasi scheletrici avvolti dalle fiamme. Il segugio infernale adora causare dolore e sofferenza, cacciando di conseguenza. La tattica del branco è quella di circondare silenziosamente la preda, quindi far avvicinare due segugi infernali a spingere la vittima nel soffio infuocato di un terzo segugio. Attaccheranno con i loro artigli e denti, se necessario. Se la preda riesce a sfuggire, i segugi infernali la inseguiranno senza sosta, grazie anche alla loro velocità e agilità. Un altro tipo di segugio infernale è il segugio da guerra Nessian, un mastino nero come carbone grande quanto un cavallo da tiro, spesso protetto da una cotta di maglia. I segugi infernali non possono parlare, ma comprendono l'Infernale, una delle lingue del gioco.
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### Titolo: Sehnsucht (sentimento).\n### Descrizione: Sehnsucht è una parola-chiave dello spirito romantico tedesco, che incarna un concetto tipico della cultura romantica, reso in italiano per lo più con il termine 'struggimento'.Deriva dall'antico alto tedesco Sensuht, nel senso di 'malattia del doloroso bramare' e indica un desiderio interiore rivolto ad una persona o una cosa che si ama o si desidera fortemente.\nQuesto stato d'animo è direttamente collegato al doloroso struggimento che si prova nel non potere raggiungere l'oggetto del desiderio.\nIn alcuni casi specifici, come per le persone che si lasciano consumare dalla Sehnsucht, essa può assumere tratti patologici e psicopatologici, molto simili alle molteplici forme di desiderio di morte, che possono raggiungere un proposito di suicidio.\n\nEtimologia ed uso linguistico.\nNell'uso linguistico in epoca altomedievale, la parola Sehnsucht ha uno stretto rapporto con il dolore, come attestato dalla 'visione' delle persone coinvolte in questo stato d'animo. In seguito, sotto alleviamento del significato patologico, il termine descrive un alto grado di forte e spesso doloroso desiderio verso qualcosa, in particolare laddove non ci sono speranze di raggiungerla o quando tale raggiungimento è ancora molto lontano.La parola Sehnsucht verrà accolta come 'germanismo' in numerose lingue. Proprio a causa della sua indeterminatezza, è infatti difficile trovare vocaboli che esprimano concetti analoghi o equivalenti a quelli legati a questo specifico termine.\n\nDefinizione.\nSecondo Ladislao Mittner, indica l''anelito' verso qualcosa di ancora mai attinto. Può ricordare la nostalgia (Heimweh), ma mentre la nostalgia è il desiderio di riappropriarsi del passato, spesso legato ad oggetti precisi, la Sehnsucht è la ricerca di qualcosa di indefinito nel futuro.\nPiù precisamente, si potrebbe tradurre Sehnsucht con 'desiderio del desiderio': deriva infatti dai termini das Sehnen, il desiderio ardente, e die Sucht, la dipendenza. Letteralmente, quindi, Sehnsucht potrebbe essere tradotto come dipendenza dal desiderio, ovvero il costante anelito che porta l'essere umano a non accontentarsi mai di ciò che raggiunge o possiede, ma lo spinge sempre verso nuovi traguardi. Un concetto affine è quello di malinconia. Heidegger, invece, ne individua un diverso significato, poiché Sucht è da intendere nel suo significato originario come 'dolore' : 'La nostalgia (Sehnsucht) è il dolore della vicinanza del lontano' (Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, p.71).\nC.S. Lewis descrive la Sehnsucht come 'l'inconsolabile desiderio' nel cuore dell'uomo 'per non si sa che cosa'.\n\nSehnsucht nella mitologia.\nNella mitologia greca è Pothos il Dio della Sehnsucht, che è da ricercarsi nel rapporto tra Eros ed Afrodite. La personificazione dei sentimenti umani, che secondo una spiegazione in chiave psicologica vengono rappresentati dai Miti, è piuttosto chiara nel mito degli androgini, creature con connotati maschili e femminili, dalle quali derivano gli uomini. Gli androgini sono descritti come esseri molto coraggiosi, poiché avevano osato prendere d'assalto l'Olimpo, riuscendo persino a sottomettere Zeus per un certo periodo di tempo. Dopo che Zeus riuscì a scacciarli non volle però annientarli, come fece con i giganti, ma decise di dividerli in due metà: una maschile ed una femminile. Diede ad Apollo il compito di guarire i nuovi esseri nati dalla loro divisione, gli uomini, che dopo la separazione persero la loro forza. Da quel momento furono eternamente legati dall'amore (Eros) e dalla lieve forma di Sehnsucht (Pothos).
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### Titolo: Semele.\n### Descrizione: Sèmele (in greco antico: Σεμέλη?, Semèlē) è un personaggio della mitologia greca. Era figlia di Cadmo e di Armonia e amante di Zeus, con cui concepì Dioniso.\nIl culto di Sèmele potrebbe avere origini tracio-frigie ed essere connesso a una divinità ctonia.\n\nMitologia.\nSecondo il mito, Era, gelosa della relazione del suo sposo divino con Semèle, si trasformò in Beroe, nutrice della giovane e la convinse a chiedere a Zeus di apparirle come dio e non come mortale.\nZeus, conscio del pericolo che Semèle correva, tentò di dissuaderla, ma Semèle insistette per vederlo in tutto il suo splendore. Così il dio, che le aveva promesso di accontentare ogni sua richiesta, si trasformò e Semèle morì folgorata dal fulmine.\nZeus riuscì a salvare il bambino che Semèle aveva in grembo e nascose il piccolo Dioniso nella coscia. Diventato immortale grazie al fuoco divino, Dioniso discese nell'Ade e portò la madre sull'Olimpo, dove fu resa immortale con il nome di Tione.\nUn'altra tradizione narra che Semèle fu amata da Atteone, per questo punito da Zeus, che lo fece sbranare dai suoi cani.\n\nGenealogia (Esiodo).
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### Titolo: Sfinge.\n### Descrizione: La sfinge (in greco antico: σφίγξ) è una figura mitologica raffigurata come un mostro con il corpo di leone e testa umana (androsfinge), di falco (ieracosfinge) o di capra (criosfinge), talvolta dotato di ali.\nSolitamente il ruolo delle sfingi è associato a strutture architettoniche come le tombe surreali o i templi religiosi; secondo alcuni articoli presenti sul web la più antica raffigurazione di sfinge conosciuta (una scultura) sarebbe stata trovata vicino a Göbekli Tepe, nel sito di Nevali Çori, e datata al 9.500 a.C., ma non si hanno interpretazioni ufficiali o accademiche a conferma di tale ipotesi che rimane confinata nel campo della pseudo-archeologia.\n\nEtimologia.\nLa parola sfinge deriva dal termine in greco antico σφίγξ (sphínx; gen. σφιγγός, sphingós, beotico: φίξ (phíx), φικός (phikós)), termine che nella coscienza linguistica dei Greci viene messo in relazione col verbo σφίγγω che significa strangolare e quindi col senso di strangolatrice. Tuttavia è possibile avanzare l'ipotesi che il termine σφίγξ sia un adattamento fonetico dell'egizio šps-ˁnḫ da ricondurre all’antico nome egiziano 'Sps Ankh', ovvero immagine vivente, in cui il geroglifico che raffigura il leone (cane) è sovente sostituito dall'immagine della sfinge stessa.\n\nLa sfinge Egiziana.\nLa sfinge nella mitologia egizia era un monumento che veniva costruito vicino alle piramidi come simbolo protettivo, per augurare una serena vita nell'aldilà al faraone. Ha corpo canino (o leonino) e testa umana. La sfinge poteva essere maschile o femminile, a seconda del faraone o della regina che doveva proteggere.\nLa sfinge egizia più grande e famosa è la Grande Sfinge di Giza, situata sul plateau di Giza adiacente alle Grandi Piramidi. Si trova sulla riva occidentale del Nilo ed è rivolta verso est (29°58′31″N 31°08′15″E). La sfinge è situata nella parte nord del complesso delle piramidi e ai loro piedi anche se la data della sua costruzione è incerta, si pensa che la testa della Grande Sfinge sia quella del faraone Chefren.\nI nomi che i loro costruttori diedero a queste statue non sono noti. Presso il sito della Grande Sfinge è stata trovata un'iscrizione su una stele o.\nThutmose IV, datata 1400 a.C., che elenca i nomi dei tre aspetti della divinità locale del Sole di quel periodo, Khepri - Ra - Atum.\nThutmose IV, datata 1400 a.C., che elenca i nomi dei tre aspetti della divinità locale del Sole di quel periodo, Khepri - Ra - Atum.\nL'inclusione delle sfingi nelle tombe e nei complessi templari divenne una tradizione in maniera rapida. Molti faraoni fecero scolpire le loro teste in cima alle statue custodi delle loro tombe anche per mostrare la loro stretta relazione con la potente divinità solare Sekhmet, una leonessa. Famose sfingi egiziane comprendono quella recante la testa del faraone Hatshepsut, ora al Metropolitan Museum of Art di New York, e la sfinge di Menfi, situata all'interno del museo a cielo aperto di Menfi.\nGli egizi fecero anche corsi di sfingi custodi terminanti agli ingressi di tombe e templi. Una di queste avenue comprende novecento sfingi con teste di ariete (criosfingi), che rappresentano Amon. Il viale si trova a Tebe, dove il culto di Amon era infatti forte.\nLa prima sfinge egizia è stata quella raffigurante la Regina Hetepheres II della quarta dinastia, che regnò dal 2623 al 2563 a.C. La regina è stata uno dei membri più longevi della famiglia reale di quella dinastia.\nLa Grande Sfinge è diventata un emblema dell'Egitto, e viene frequentemente rappresentata su francobolli, monete e documenti ufficiali.\n\nLa sfinge nella cultura greca.\nGli Elleni hanno avuto scambi culturali e commerciali con l'Egitto fin dall'Età del Bronzo. 'Sfinge' è un nome greco (si veda Etimologia) e in Egitto venne applicato a queste statue da prima che Alessandro Magno occupasse la regione. I nomi di criosfingi per le sfingi a testa d'ariete e di ieracosfingi per quelle a testa di falco vennero coniati da Erodoto.\nStrabone riporta di aver visto varie sfingi egiziane.Nella mitologia greca vi era una singola sfinge, un demone di distruzione e mala sorte. La sua prima comparsa a noi pervenuta è nel mito di Edipo come descritto da Esiodo (il primo a parlare di Edipo fu Omero, che però non sembra consapevole di un qualche collegamento con la sfinge), secondo cui la Sfinge era la figlia di Ortro e di qualcuno tra Echidna, la Chimera e Ceto (Pseudo-Apollodoro riporta che la sfinge era figlia di Echidna e di Tifone). Tutte queste sono divinità ctonie appartenenti a epoche antecedenti a che gli dei dell'Olimpo governassero il panteon greco.\nEsiodo indica la sfinge anche come sorella del leone Nemeo e 'rovina dei Cadmei'. Non propone descrizioni fisiche e la parola che adopera per nominarla è φίξ, secondo lo scoliasta vocabolo del dialetto beotico.Sebbene l'etimologia della Sfinge possa portare a pensare allo strangolamento, Eschilo afferma che mangiasse uomini vivi (σφίγγ᾽ ὠμόσιτος).Da un punto di vista scultorio la sfinge risulta presente sia nel periodo miceneo che in quello minoico; in entrambi questi periodi le rappresentazioni sono sia maschili che femminili. Solo successivamente la figura femminile prese il sopravvento. Inizialmente poteva essere alata o non alata, con barba, con zampe di altri animali oltre al leone; Erodoto specifica la mascolinità di alcune sculture di sfingi, chiamandole ἀνδρόσφιγγες (androsphìnghes). La sfinge divenne alata e femminile solo dal VI secolo a.C. Una coppa del 550-540 a.C. prodotta da Glaukytes ed Archikles mostra sfingi femminili alate con accanto il nome ΣΦΙΧΣ (sebbene con forme arcaiche di sigma e phi).Pseudo-Apollodoro la descrive in modo classico, ossia come un leone con volto da donna ed ali da uccello.Fu l'emblema della città-stato di Chio e comparve sui sigilli e sul lato rovescio delle monete della città dal VI secolo a.C. al III secolo d.C.\n\nL'indovinello della sfinge.\nNel mito di Edipo la sfinge custodiva l'ingresso alla città greca di Tebe. Per consentire il passaggio ai visitatori poneva loro un indovinello cui si doveva rispondere correttamente. Nelle versioni più antiche di tale mito tale indovinello non viene specificato, mentre nei racconti più tardi venne standardizzato in quello citato di seguito.Era o Ares trasferirono la Sfinge dalla sua terra natale in Etiopia (l'origine straniera della Sfinge veniva sempre ricordata dai Greci) a Tebe in Grecia, dove questa chiedeva a tutti i passanti quello che forse è il più famoso enigma della storia: 'chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, tripede e bipede?' Il mostro strangolava o divorava chiunque non fosse in grado di rispondere. Nel mito Edipo risolse l'enigma rispondendo 'l'Uomo, che nell'infanzia cammina a quattro zampe, poi su due piedi in età adulta, e infine utilizza un bastone per sorreggersi in età avanzata'. Secondo alcuni resoconti c'era anche un secondo indovinello (molto più raro): 'Ci sono due sorelle: la prima dà alla luce l'altra e questa, a sua volta, dà vita alla prima. Chi sono le due sorelle?' La risposta è: 'il giorno e la notte' (in greco entrambe le parole sono femminili). Quest'ultimo enigma si trova anche in una versione guascone del mito di Edipo e potrebbe essere molto antico.Una volta battuta la sfinge, il racconto prosegue con la sfinge che si getta dalla sua alta roccia e muore. Una versione alternativa afferma invece che ella divorò se stessa. Edipo può quindi essere riconosciuto come una figura 'liminale' o di soglia, con l'effetto di aiutare la transizione tra le vecchie pratiche religiose e quelle nuove degli dei dell'Olimpo, transizione rappresentata dalla morte della Sfinge.\nNella rivisitazione della leggenda di Edipo di Jean Cocteau La machine infernale ('La macchina infernale'), la Sfinge riferisce a Edipo la risposta all'enigma, in modo da uccidersi e da non dover quindi più uccidere, e anche da far sì che egli la amasse. Egli però la lascia senza mai ringraziarla per avergli dato la risposta all'enigma. La scena termina con la Sfinge e Anubi che ascendono al cielo.\nCi sono interpretazioni mitiche, antropologiche, psicoanalitiche e parodistiche dell'enigma della Sfinge e della risposta di Edipo. Numerosi libri e riviste di enigmistica utilizzano la Sfinge nel titolo o nelle illustrazioni.Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli è custodito un cratere apulo che si ritiene illustri un altro mito (a noi non pervenuto) avente la Sfinge come protagonista: un sileno che porge al mostro un uccello chiuso nel palmo della sua mano. L'analogia con una favola di Esopo (la n. 55, in cui un contadino, per dimostrare l'onniscienza dell'oracolo di Delfi, si reca presso di lui con un passero in mano, e gli chiede se ha con sé una cosa vivente o non vivente, pronto ad uccidere l'uccellino nel caso la risposta sia la prima) ha fatto pensare che il sileno stia sottoponendo alla sfinge un enigma, cosa che rovescerebbe il mito di Edipo; ma i due potrebbero anche essere intenti ad una gara pacifica, antecedente all'episodio edipeo. Si è anche supposto che la figurazione possa essere collegata al dramma satiresco di Eschilo La sfinge, ma la sua interpretazione è ancora controversa. In ogni caso il cratere testimonia la diffusione del mito della Sfinge nell'area greco-italica.\n\nLa sfinge nel sud e nel sud-est asiatico.\nNella tradizione, mitologia e arte del Sud e Sud-Est asiatico è presente un essere mitologico composto da corpo di leone e testa umana. Esso è variamente noto come purushamriga (Sanscrito, 'uomo-bestia'), purushamirugam (Tamil, ancora 'uomo-bestia'), naravirala (sanscrito, 'uomo-gatto') in India, o come nara-simha (Sanscrito, 'uomo-leone') in Sri Lanka, manusiha o manuthiha (Pali, 'uomo-leone') in Birmania, e norasingh (pali, 'uomo-leone', in una variazione del sanscrito 'nara-simha') o thep norasingh ('dio uomo-leone'), o nora nair in Thailandia.\nIn contrasto con le sfingi egiziane, mesopotamiche e greche, le cui caratteristiche culturali sono andate largamente perdute per via delle discontinuità nella civilizzazione di queste regioni, le tradizioni relative alle sfingi asiatiche sono ancora oggi molto vive.\nLe prime raffigurazioni artistiche di sfingi del subcontinente dell'Asia meridionale sono state in qualche misura influenzate dall'arte e dagli scritti dell'età ellenistica; difatti l'arte buddista ha subito una fase di influenza da parte dell'ellenismo.\nNel sud dell'India, la sfinge è nota come purushamriga (in sanscrito) o purushamirugam (in Tamil); entrambi i termini significano 'uomo-bestia'. Si trova raffigurata nell'arte scultorea in templi e palazzi dove serve a scopo apotropaico, in maniera simile a quanto accadeva con le sfingi di altre parti del mondo antico. La tradizione afferma che tale sfinge tolga i peccati dei devoti che entrano nel tempio e in generale allontani il male. Si trova quindi spesso in una posizione strategica sul gopuram o sull'entrata del tempio.\n\nLa purushamriga gioca un ruolo significativo sia nei riti giornalieri che in quelli annuali che si svolgono nei templi scivaiti del sud dell'India. Nel rituale shodhasha-upakaara (o 'delle sedici lodi'), effettuato da 1 a 6 volte in momenti sacri significativi attraverso il giorno, la sfinge decora una delle lampade del diparadhana o lampada da cerimonia. E in molti templi la purushamriga è anche uno dei vahana o veicoli della divinità durante le processioni della Brahmotsava.\nNel Distretto di Kanyakumari, sulla punta più meridionale del subcontinente indiano, durante la notte del Shiva Ratri, i devoti corrono per 75 chilometri mentre visitano i dodici templi dedicati a Shiva. Questa Shiva Ottam (o 'corsa per Shiva') viene eseguita in commemorazione della storia della gara tra la sfinge e Bhima, uno degli eroi dell'epopea Mahābhārata.\nLa concezione indiana di sfinge che più si avvicina alla classica idea greca è il concetto di Sharabha, una creatura mitica, parte leone, parte uomo e parte uccello, in cui il dio Shiva si incarnò per contrastare la violenza di Narasiṃha.\nNello Sri Lanka la sfinge è conosciuta come narasimha, uomo-leone. In quanto sfinge, ha il corpo di un leone e testa di un essere umano, e non deve essere confusa con Narasiṃha, la quarta reincarnazione della divinità Visnù; quest'ultimo avatar o incarnazione è infatti raffigurato con corpo umano e testa di leone. Il Narasimha sfinge è parte della tradizione buddista ed è un guardiano della direzione nord; viene raffigurato anche sulle bandiere.\nIn Birmania la sfinge è conosciuta come manussīha (manuthiha). È raffigurata sugli angoli della stupa, e le sue leggende raccontano di come sia stata creata dai monaci buddisti per proteggere un neonato reale dalla morte per mano di orchi.\n\nNora nair, norasingh e thep norasingh sono tre delle denominazioni con le quali la sfinge è conosciuta in Thailandia. Questi esseri sono rappresentati come camminanti in posizione eretta, con la parte inferiore del corpo di leone o di cervo e la parte superiore in forma di esseri umani. Spesso si trovano in coppie di sesso femminile-maschile. Anche qui, le sfingi hanno funzione protettiva. Inoltre vengono enumerate tra le creature mitologiche che popolano la montagna sacra Himapan.\n\nLa sfinge in Europa.\nDurante il Rinascimento la sfinge ha goduto di un grande revival nell'arte decorativa europea.\nLe sfingi sono state fatte rivivere quando le decorazioni grottesche della Domus Aurea di Nerone sono state portate alla luce nel tardo XV secolo a Roma. La sfinge fu da allora incorporata nel vocabolario classico dei disegni arabescati che si diffuse in tutta Europa nell'ambito dell'incisione dei secoli XVI e XVII. La bottega di Raffaello incluse delle sfingi nella decorazione della loggia di Palazzo Vaticano (1515-1520), e anche tali sfingi aggiornarono il vocabolario delle grottesche romane.\nLa sfinge manieristica del XVI secolo è a volte chiamata sfinge francese. La sua testa, pettinata, è eretta e ha il seno di una giovane donna. Spesso indossa orecchini e perle come ornamenti. Il suo corpo è naturalisticamente reso come una leonessa reclinata.\nLa prima comparsa di sfingi nell'arte francese avvenne nella Scuola di Fontainebleau negli anni 1520 e 1530. Le sfingi permarranno poi anche nello stile francese tardo barocco della Régence (1715–1723).\nDalla Francia la sfinge si diffuse in tutta Europa, diventando una normale caratteristica della scultura decorativa all'aperto dei giardini di palazzo del XVIII secolo. Esempi di sfingi in tale ambito li si possono ritrovare nel Belvedere di Vienna, nel Parco di Sanssouci a Potsdam, nel Palazzo Reale della Granja de San Ildefonso in Spagna, a Palazzo Branicki a Białystok, o nel portoghese Palazzo Nazionale di Queluz (forse del 1760), in cui si trovano esempi del tardo Rococò con gorgiere e vestiti che terminano con un piccolo mantello.\nLe sfingi sono una caratteristica delle decorazioni interne nell'architettura neoclassica di Robert Adam e dei suoi seguaci, dove tornano ad essere più vicine allo stile svestito delle grottesche. Le usarono anche gli artisti e i designer del romanticismo e successivamente i movimenti del simbolismo del XIX secolo. La maggior parte di queste sfingi alludono alla sfinge greca, piuttosto che a quella egiziana, anche se non possiedono mai delle ali.\n\nLa sfinge nella massoneria.\nL'immagine della sfinge è stata adottata anche nell'architettura massonica. Tra gli Egizi le sfingi erano collocate all'ingresso dei templi per custodirne i misteri, avvertendo coloro che vi penetravano che avrebbero dovuto celare la loro conoscenza ai non-iniziati. Jean-François Champollion afferma che successivamente la sfinge diventò il simbolo di ciascuno degli dèi, e in tal modo avrebbe simboleggiato il fatto che gli dèi erano in generale nascosti al popolo e si rivelavano solo agli iniziati. La sfinge è stata adottata dalla massoneria nel suo carattere egiziano di simbolo del mistero, e come tale viene spesso ritrovata come decorazione scolpita sul fronte dei templi massonici, o incisa sull'intestazione di documenti massonici. Tuttavia non può essere definita correttamente come un antico simbolo riconosciuto dell'ordine. La sua introduzione è stata di data relativamente recente, e piuttosto come decorazione simbolica che come simbolo di un particolare dogma.\n\nCreature simili.\nLa Dea Löwenfrau dell'Aurignaziano, datata a 32 000 anni fa, è la più antica statua antropomorfa conosciuta. Un tempo nota come uomo leone, ha corpo umano e testa di leone.\nNon tutti gli animali con testa umana dell'antichità sono sfingi. Nell'antica Assiria, si facevano bassorilievi di shedu, tori con le teste barbute coronate dei re, agli ingressi dei templi.\nNella classica mitologia olimpica della Grecia, tutte le divinità avevano forma umana, anche se potevano assumere la forma di animali. Tutte le creature dei miti greci che combinano forma umana e animale - i centauri, Tifone, la Medusa, le lamie, ad esempio - sono sopravvivenze di miti più arcaici.\nIl Narasiṃha ('uomo-leone') è descritto come una incarnazione (avatara) di Visnù nei testi purāṇa dell'induismo, dove prende la forma di un mezzo uomo-mezzo leone asiatico, con torso e parte inferiore del corpo umani, ma con volto e artigli di leone.\nLa manticora è una creatura simile alla sfinge, che dispone di corpo di leone e volto umano.\nAnche la chimera (nella tradizione medievale) è una creatura simile alla sfinge, dotata di corpo di leone e volto femminile.\n\nGalleria d'immagini.
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### Titolo: Sfodri.\n### Descrizione: Sfodri è un personaggio della mitologia greca, presente nelle Argonautiche di Apollonio Rodio.\n\nMito.\nCizico, giovanissimo sovrano dell'omonima città asiatica nella Propontide, aveva accolto gli Argonauti durante il loro viaggio con destinazione la Colchide. Gli eroi quindi ripartirono, durante una notte di luna nuova: una violenta tempesta sospinse però la nave di nuovo sulla costa della città che essi avevano appena lasciato. Il re, affacciatosi dal suo palazzo, scambiò gli Argonauti per pirati, e con le sue guardie personali, tra i quali c'era anche Sfodri, mosse in armi per assalirli; gli Argonauti da parte loro non riconobbero Cizico. Gli uni e gli altri erano stati ingannati dalle avverse condizioni del tempo, oltre che dalla mancata luminosità della luna: lo scontro fu dunque inevitabile, e terminò con l'uccisione di Cizico e delle sue guardie. Sfodri cadde per mano di Acasto.
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### Titolo: Sibari (mitologia).\n### Descrizione: Sibari o Lamia del Monte Cifri, in Grecia, era una leggendaria bestia gigante che abitava nelle caverne, divorando sia il bestiame che gli umani. Fu scagliato da una roccia strapiombante e ucciso dall'eroe Euribaro.\nSebbene nella fonte primaria sia fornita una descrizione fisica precisa, è stato ipotizzato dai commentatori moderni che dovesse essere un drago o un vampiro.\n\nMito.\nSecondo il mito, registrato da Antonino Liberale, Sibari o Lamia era una bestia gigante (in greco antico: θηρίον μέγα και υπερφυές?) che abitava sul monte Cirfi e terrorizzava le campagne di Krisa, antico nome di Delfi, divorando bestiame e persone.\nLa gente della regione chiese all'Oracolo di Delfi come porre fine alle depredazioni. Il dio Apollo rispose che un giovane doveva essere offerto alla bestia per ottenere la pace da essa. Il giovane e affascinante Alcioneo, figlio di Diomo e Meganeira, fu scelto per essere la vittima, ma l'eroe Euribaro, figlio di Eufemo e discendente del dio fluviale Axios, fu sopraffatto dall'amore per Alcioneo e decise di salvarlo prendendo il suo posto di vittima. Una volta lì lottò e scagliò il drago dal fianco della montagna, colpendolo contro le rocce dove sgorgava una fontana.\nQuesta sorgente fu poi chiamata 'Sibari' dagli abitanti del luogo, ed era l'omonima città di Sibari (nell'attuale Italia).\n\nInterpretazioni.\nSebbene il testo principale si riferisca solo a Sibari come a una bestia gigante, e non fornisca dettagli sulla sua descrizione fisica per quanto riguarda le caratteristiche serpentine, i commentatori moderni hanno fornito prove circostanziali che suggeriscono che fosse una dragonessa, a causa del parallelismo/delle storie del drago maschio, come il Pitone che spogliò anche la regione di Delfi.Antonino Liberale diede 'Lamia' come nome alternativo per la creatura, forse confondendo Sibari con la più nota Lamia.
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### Titolo: Sibilla Appenninica.\n### Descrizione: La Sibilla Appenninica (detta anche Sibilla Picena o Sibilla di Norcia) è una figura dell'immaginario collettivo diffusasi a partire dal Medioevo nell'area montana del Piceno e di Norcia, in particolare appunto sui Monti Sibillini, ai quali questa ha dato il nome.\nNei testi medievali si parla di Sibilla o Regina Sibilla, la cui dimora è collocata sulle montagne tra Norcia e Montemonaco; mentre la definizione di Sibilla Appennina compare per la prima volta solo nel 1938, nel libro di Augusto Vittori Montemonaco nel Regno della Sibilla Appennina, con prefazione di Fernand Desonay.Probabilmente a causa di complessi processi di sincretismo culturale e letterario viene identificata come sibilla; ma in realtà essa non rientra nel canone delle dieci Sibille classiche riportato da Varrone.\n\nLeggenda e letteratura.\nSecondo la leggenda popolare, la Sibilla è una maga, incantatrice e indovina; regina di un mondo sotterraneo paradisiaco al quale si accede attraverso la grotta che si apre sulla vetta del Monte Sibilla.\nLe prime fonti scritte riguardanti questa leggenda risalgono al basso medioevo; i testi che contribuiscono alla definizione della figura della Sibilla Appenninica come la si conosce oggi sono fondamentalmente due:.\n\nIl Paradiso della Regina Sibilla (Le Paradis de la Reine Sibylle in La Salade), Antoine de La Sale, 1420.\nIl Guerrin Meschino, Andrea da Barberino, steso intorno al 1410, ma stampato postumo solo nel 1473Le due opere quattrocentesche riportano per iscritto voci e racconti provenienti dalla tradizione orale locale del tempo, delle cui origini non si hanno però ulteriori notizie, in quanto dal I secolo fino al Medioevo non esiste ancora alcun tipo di fonte storica o riferimento archeologico che possa aiutare nella ricostruzione dei processi culturali avvenuti in quel periodo.\nAltri aspetti e prerogative della Sibilla e delle sue damigelle, identificate nel folklore come fate, si apprendono dai racconti degli anziani di Montegallo, Montemonaco, Montefortino, Castelsantangelo sul Nera, Norcia, raccolti e messi per iscritto nel corso del XX secolo da molti autori, umbro marchigiani e non.\n\nIl racconto di Antoine de La Sale.\nIl gentiluomo francese Antoine de la Sale, in un capitolo de La Salade, redige la relazione di un viaggio che egli compì in Italia nella primavera del 1420, durante il quale visitò Montemonaco e la grotta del Monte Sibilla.\nLo scritto è dedicato alla duchessa Agnese di Borgogna (moglie di Carlo I di Borbone, sorella di Filippo il Buono, principessa Borgogna), alla quale l'autore sta inviando il suo resoconto per onorare una promessa fatta: da questo si evincerebbe la curiosità di detta signora di conoscere meglio la leggenda sul lago e la grotta dei Monti Sibillini, della quale era già a conoscenza per averli veduti raffigurati in un arazzo in suo possesso.\nDe La Sale descrive innanzitutto i luoghi e la prima parte accessibile della grotta, che egli stesso ha verosimilmente esplorato; poi riporta i racconti orali degli abitanti di Montemonaco (tra cui un sacerdote, tale Antonio Fumato) i quali narrano di varie spedizioni all'interno della grotta, più o meno fantastiche, compiute dagli abitanti locali e da un cavaliere tedesco e il suo scudiero che si avventurarono nella grotta giungendo al paradiso della Sibilla.\n\nEntrati nella grotta tramite uno stretto pertugio in parte occluso da una roccia, si giunge facilmente ad un primo vano quadrato dove tutt'intorno vi sono dei sedili intagliati nella roccia delle pareti. Da questa stanza si prosegue solo scendendo per stretti e ripidi cunicoli, i quali scoraggiarono de La Sale, che non proseguì oltre.\nTuttavia, dai racconti degli abitanti di Montemonaco, si apprende che questi cunicoli scendano per circa tre miglia per poi allargarsi in un ampio corridoio, fino a giungere ad una fessura dalla quale scaturisce un vento procelloso che ricaccia indietro anche i più audaci; quindici tese oltre la vena del vento la corrente d'aria cessa, dopodiché, proseguendo per ancora altre tre tese, si arriva sul ciglio di un baratro senza fondo dove scorre un fiume fragorosissimo, attraversabile solo tramite un ponte di materia indefinita, lunghissimo e non più largo di un piede. Ma come per incanto, appena imboccato il ponte questo si allarga e l'abisso si rimpicciolisce sempre più, finché ci si trova in una galleria fantasmagorica attraversata da una strada comodissima. Al termine della strada si trovano due statue di dragoni dagli occhi fiammeggianti che illuminano tutt'intorno; superati i dragoni si prosegue per ancora cento passi lungo un corridoio strettissimo, fino ad uno spiazzo quadrangolare dove si trovano due porte di metallo che sbattono violentemente l'una contro l'altra rischiando di schiacciare chi dovesse tentare di attraversarle.\nOltre le porte metalliche vi è una porta fastosissima e luminosissima che immette nel regno della Sibilla, la quale accoglie festosa l'intrepido viaggiatore insieme ad una moltitudine di soavi damigelle e giovani, tra lo sfolgorio abbagliante di vesti e gioielli.\nColoro che abitano nella grotta imparano a comprendere tutte le lingue del mondo dopo nove giorni, e dopo trecento giorni sanno parlarle tutte. Ed essi restano immortali fino alla fine dei tempi.\nChi entra nella grotta può decidere di andarsene solo dopo l'ottavo, il trentesimo o il trecentotrentesimo giorno, e chi dovesse decidere di rimanere nella grotta per un anno non potrà più tornare al mondo terreno.\nNella grotta non esistono vecchiaia e dolore, né sofferenza del caldo o del freddo, ma si gode fino al sommo della delizia. Tutti gli abitanti della grotta vivono immersi nelle più fastose ricchezze, allietati dalle splendide damigelle della Sibilla. Tuttavia alla mezzanotte di ogni venerdì essi si trasformano serpenti schifosi, e tali restano fino alla mezzanotte del sabato.\nIl cavaliere tedesco dei racconti di De La Sale si rende presto conto di vivere in un paradiso demoniaco, e decide infine di uscire prima dello scadere dell'anno, per salvare la sua anima dalla dannazione eterna. Egli si recò a Roma per chiedere l'assoluzione del Papa, il quale non la concesse immediatamente a salutare ammonimento; ma il cavaliere disperato lasciò delle lettere di addio ai pastori dei Monti Sibillini e si rituffò per sempre nel paradiso della Regina Sibilla.Un'altra storia riportata da Antoine de La Sale è quella del Sire di Pacs (o di Pacques) che si disperò dopo aver trovato incisa la firma del fratello all'interno dell'antro della Sibilla. Il De La Sale riferisce verosimilmente la presenza di queste firme di cavalieri Europei nel primo vano della grotta: il che testimonierebbe un importante flusso di visitatori anche durante il medioevo.\n\nIl Guerrin Meschino.\nQuasi in concomitanza al viaggio di Antoine de La Sale (circa una trentina di anni prima), il letterato fiorentino Andrea da Barberino compone Il Guerrin Meschino: un romanzo cavalleresco ambientato nell'anno 824 in cui si raccontano le gesta di Guerino, cavaliere presso la corte di Costantinopoli, soprannominato 'meschino' a causa del fatto che egli non conosceva i propri genitori, ragione per cui egli si mette in viaggio per l'Europa alla ricerca delle proprie origini. Durante le sue peripezie Guerino si ritrova a Norcia, dal qual paese parte alla volta della grotta della Sibilla per chiedere alla veggente di rivelargli il nome dei suoi genitori.\nLa descrizione che Andrea da Barberino dà della corte della Sibilla è molto simile a quella dei racconti popolari trascritti dal De La Sale, e anche le vicende del cavaliere all'interno della grotta non sono troppo dissimili da quelle del cavaliere tedesco di Antoine de La Sale.\nLa Sibilla trattiene Guerino senza rivelargli il nome dei suoi genitori, tentandolo a peccare e rinnegare Dio. Il cavaliere riuscirà infine a resistere alle tentazioni della maga grazie alla sua fede cristiana, e dopo un anno lascerà la grotta, ma senza aver raggiunto il suo scopo. Quando Guerino si recherà poi a Roma a chiedere perdono al Papa, il pontefice concederà l'assoluzione e lo invierà come penitenza lungo la via di Santiago de Compostela a proteggere i pellegrini.\nInfine Guerino scoprirà la sua identità in Irlanda, presso il Pozzo di San Patrizio.\nNella versione originale del romanzo si parla esplicitamente di Sibilla, mentre nelle versioni successive, sottoposte alla censura dell'Inquisizione, diversi capitoli vengono soppressi e il termine Sibilla viene sostituito con Alcina (maga dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, datato 1516). Il motivo di questa modifica è da ricercarsi nel fatto che nel XIV-XV sec. la figura della sibilla era già completamente affermata nella cultura cristiana come profetessa della nascita del Messia, e non poteva perciò ricoprire il ruolo demoniaco attribuitole nell'opera e nelle leggende popolari.\n\nAltri riferimenti letterari.\nSimplicianus.\nIn De nobilitate et rusticitate dialogus (redatto tra il 1444 e il 1450) Felix Hemmerlin racconta di un certo Simplicianus che si sarebbe recato alla grotta con due compagni. Egli descrive le asperità della montagna e delle caverne, parlando delle grandinate e delle tempeste scaturite dal monte quando qualcuno vi si reca presso. Hemmerlin parla esplicitamente di 'monte della Sibilla', posto tra Norcia e Montefortino, e lo paragona al 'monte di Venere' dove succubi e incubi sotto aspetto di avvenenti fanciulle irretiscono gli uomini inducendoli al peccato. L'autore riferisce che nel periodo in cui si trovava a Bologna si trovava lì anche il papa Giovanni XXII, il detto Simplicianus si presentò al pontefice confessando di aver vissuto per un anno tra i piaceri terreni con le dame della dea Venere: lui e i suoi compagni erano saliti al monte nel mese di marzo ed entrarono nella grotta a settembre, dove saziandosi di delizie paradisiache, avevano vissuto immersi in profumi e mollezze inebrianti, fin quando era apparso loro un vecchio che li ragguagliò sul fatto che allo scadere dell'anno non sarebbero più potuti uscire. Infatti Simplicianus afferma di aver incontrato gente proveniente dall'Inghilterra e da molte altre regioni condannata a restare in eterno in quel mondo meraviglioso: tra loro riferisce ci fosse un vecchio con suo figlio che se ne stava sempre in disparte dai piaceri mondani, preoccupato per il suo destino supremo. Simplicianus otterà la remissione dei peccati da un confessore del papa a San Petronio, e chiederà l'intercessione per i suoi due compagni rimasti imprigionati nel monte.I fatti narrati sarebbero riferibili agli anni 1410-1413.\n\nArnaldo di Harff.\nNella primavera del 1497 il nobile di Colonia Arnaldo di Harff (1471-1505), dopo aver visitato Roma, si incamminò per le Marche e la Romagna verso Venezia, da dove si sarebbe imbarcato per l'Oriente. La relazione di questo viaggio presenta imprecisioni geografiche tali da metterne in dubbio la veridicità; tuttavia in essa sono evidenti le tracce di un racconto simile a quello di Antoine de La Sale:.\n\nLa descrizione accenna al monte di Norcia, forse confusa con Nocera nelle cui vicinanze non vi sono luoghi riconducibili ad 'Arieet' e 'Norde' (forse Rieti e Norcia?); da queste ed altre considerazioni, Alfred Reumont sospetta che Arnaldo di Harff non si sia recato personalmente alla grotta della Sibilla, ma ne riporti un racconto di cui sarebbe venuto a conoscenza. Comunque il paragone tra le grotte descritte dal viaggiatore e quelle di Falkenberg (Fauquemont) o quelle del monte San Pietro presso Maastricht (Traiectum ad Mosam), potrebbero far credere che si tratti di cose viste di persona, anche se in altri punti della relazione si incontrano descrizioni altrettanto evidenti, ma delle quali non si può affermare che il viaggiatore sia stato testimone oculare. Comunque nella relazione si dice che i viaggiatori abbiano abbandonato la strada maestra dopo Nocera, il che potrebbe spiegherebbe l'assenza di un riferimento a Gualdo Taldino, borgo posto tra Nocera e Fossato, e l'imprecisione nel riportare le distanze tra i paesi, mentre nel resto dello scritto in genere si è molto esatti nelle indicazioni di luoghi e distanze.\n\nLa tradizione popolare.\nSecondo la tradizione locale, la Sibilla (nel dialetto locale indicata come 'Sibbilla') è una fata buona, Maga bella e maliarda, 'veggente e incantatrice,', ma non perfida e neppure demoniaca. Ella vive nella grotta circondata dalle sue ancelle, ovvero fate dai piedi caprini che escono dalla grotta per ballare il saltarello con i pastori, o scendono a valle per insegnare alle fanciulle del posto a filare e tessere le lane.\nSecondo un racconto locale, fu la Sibilla a provocare un intenso evento tellurico nel paese di Colfiorito, antico nome di Pretare, che distrusse il sito riducendolo ad un mucchio di pietre. Questo avvenne quando le sue fate rimasero a ballare nel borgo oltre l'orario consentito per il rientro nella grotta.\n\nIl lago di Pilato.\nOltre alle leggende legate alla Sibilla e alla sua grotta, si tramandano fatti e storie anche riguardo al lago di Pilato a lei intimamente legato e situato nel vicino Monte Vettore. Infatti nel XV secolo veniva ancora chiamato Lago della Sibilla come si evince sia da un documento amministrativo di quel periodo (una sentenza) sia da un disegno di Antoine de la Sale mentre nei secoli successivi si affermerà sempre più la dizione Lago di Pilato.\nE anche per il lago le leggende che ci sono pervenute provengono dal testo di Antoine de La Sale: è qui infatti che si racconta di come il corpo di Ponzio Pilato, dopo essere stato giustiziato per ordine dell'imperatore per non aver impedito la crocifissione di Gesù, fu caricato su un carro trainato da due bufali che da Roma lo trasportarono fino ai Monti Sibillini e si gettarono infine nel lago. Il De La Sale riferisce questa storia udita dagli abitanti di Montemonaco, dimostrando come questa non può essere vera in quanto la versione raccontata dal popolo voleva che l'imperatore che emise la condanna a morte fu Tito Vespasiano, quando Pilato visse invece sotto Tiberio.\n\nAntoine de La Sale racconta anche che al tempo della sua visita a Montemonaco (inizio XV sec), l'accesso al lago fosse vietato in quanto frequentatissima meta di negromanti che vi salivano per consacrare libri del comando ai demoni che abitavano quelle acque. Ogni volta che qualcuno evocava gli spiriti maligni del lago si scatenava una violenta tempesta che distruggeva tutti i raccolti della zona; ed era perciò interesse degli abitanti del luogo tutelarsi: per visitare il lago era necessario un salvacondotto rilasciato dalle autorità della città di Norcia, e il malcapitato che vi fosse stato sorpreso senza autorizzazione avrebbe perfino rischiato la vita. Si racconta di una volta in cui due negromanti (uno dei quali era un prete) vennero catturati presso il lago dai locali: uno venne condotto a Norcia e condannato, mentre l'altro fu fatto a pezzi e gettato nelle acque del lago.\nI primi riferimenti letterari al lago abitato da demoni e alla figura di Pilato si ritrovano nel Reductorium morale del benedettino Pierre Bersuire e nel Dittamondo di Fazio degli Uberti (nel quale si parla in realtà di Monte di Pilato, e non ancora di lago), opere risalenti al XIV secolo.Durante i secoli XV, XVI e XVII la letteratura italiana è prodiga di riferimenti, seppur spesso consistenti solo in semplici accenni, alle arti negromantiche praticate presso il lago di Pilato.\nConferma dell'importante afflusso di visitatori alla grotta e al lago è data da una sentenza di assoluzione del 1452, in cui l'inquisitore della Marca Anconitana De Guardariis assolve la popolazione di Montemonaco dalla scomunica in cui era incorsa per aver accompagnato 'ad lacum Sibyllae' (al lago della Sibilla) cavalieri 'provenienti dalla Spagna e dal Regno di Napoli' per consacrarvi libri proibiti mentre li ospitavano in Montemonaco ove praticavano, in casa di Ser Catarino, l'alchimia.\n\nTradizioni simili in Europa.\nPresso le Prealpi di Lucerna (Svizzera) esiste un massiccio chiamato Pilatus, del quale si raccontano fin dal medioevo storie molto simili a quelle riguardanti il lago appenninico.\nAnche nei monti del Massiccio Centrale francese esiste la catena del Pilat. All'inizio del XIII secolo, Stefano di Borbone rende popolare la leggenda del suicidio di Ponzio Pilato a Lione, ed è il primo a evocare l'impiccagione e l'abbandono del corpo nel pozzo del Monte Pilat, nel sud-ovest di Vienna o Vienne.\n\nOrigine del mito.\nLe sibille.\nIn genere per sibilla si intende una istituzione religiosa del mondo classico. Nell'Antica Grecia e poi presso i Romani, la sibilla era una sacerdotessa dotata di capacità profetiche ispirate da una divinità, solitamente Apollo o Ecate. La carica era ricoperta esclusivamente da donne vergini interamente consacrate al dio.\nLa sibilla più antica di cui si hanno documentazioni (circa XIV secolo a.C.) è la Pizia: profetessa dell'Oracolo di Delfi, ovvero una sacerdotessa che esercitava la divinazione del futuro presso il tempio di Apollo della città greca di Delfi, situato nella Focide alle falde del Monte Parnàso. La Pizia era coadiuvata da un gruppo di sacerdoti che amministravano il culto di Apollo ed interpretavano i vaticini che essa pronunciava invasata dalla spirito del dio. Per quasi due millenni il ruolo fu ricoperto dalle donne della città di Delfi, scelte senza requisiti di età. La pratica venne destituita nel 392 d.C., quando i decreti teodosiani soppressero i culti pagani.\nIn età antica le sedi oracolari presidiate dalle sibille proliferarono intorno al Mediterraneo. Nella seconda metà del I secolo a.C., l'autore romano Varrone, in un capitolo della sua opera Antiquitates rerum humanarum et divinarum, riporta un elenco delle dieci sibille esistenti in quel periodo: Cimmeria, Cumana, Delfica, Ellespontica, Eritrea, Frigia, Libica, Persica, Samia, Tiburtina. In seguito Lattanzio confermerà la stessa lista nel suo De Divinis institutionibus (304-313 d.C.).\nI responsi oracolari delle sibille erano raccolti in nove testi greci noti come Libri Sibillini, conservati a Roma e andati bruciati nell'83 a.C.; si tentò in seguito di ricostruirli, ma dei nuovi volumi si ha notizia solo fino al V secolo d.C..\n\nLe sibille italiche.\nIn Italia esisteva un centro oracolare presso l'acropoli magnogreca di Cuma, dove sorgeva dal VI secolo a.C. un tempio dedicato ad Apollo sulla sommità di un rilievo roccioso. Secondo il mito la Sibilla Cumana esercitava la sua attività divinatoria nei pressi del Lago d'Averno, all'interno di una caverna nota appunto come Antro della Sibilla: essa scriveva i vaticini in esametri su delle foglie di palma che venivano poi mescolate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i responsi incomprensibili e misteriosi.\nLa Sibilla Cumana entra nella mitologia classica grazie all'Eneide di Virgilio (fine I secolo a.C.), in cui si racconta che la sacerdotessa, attraverso il lago d'Averno, discese con Enea nell'Ade, dove l'eroe troiano incontrerà il padre Anchise.\nAl II secolo a.C. risale invece il tempio della sibilla dell'acropoli di Tibur (Tivoli), dove esercitava la Sibilla Tiburtina.\n\nLe sibille nel cristianesimo.\nCon il sovrapporsi della religione cristiana a quella pagana, si tentò di estirpare i culti oracolari e lentamente si innescò un processo di sincretismo che trasformò le sibille classiche in profetesse della nascita del Cristo. Già dal II secolo i vaticini delle sibille erano andati gradualmente modificandosi, adattandosi alla sovrapposizioni di varie tradizioni, prima su tutte quella cristiana.\nTra il II e il I secolo a.C. compaiono i volumi più antichi degli Oracoli Sibillini: questi testi, fatti risalire alle comunità ebraiche di Alessandria d'Egitto (quindi classificati come 'tradizione giudaico-ellenistica'), riadattano gli oracoli del mondo greco-romano (attribuiti soprattutto alla Sibilla Eritrea) in un'ottica monoteista, fortemente connotata da tematiche apocalittiche.\nI primi Padri della Chiesa traggono ispirazione proprio da questi testi per la trasposizione della figura della sibilla dallo scenario pagano a quello cristiano.\nSaranno poi i testi ripresi dagli intellettuali cristiani ('tradizione giudeo-cristiana') a circolare fino al XIV secolo.\nNel suo De civitate Dei, Sant'Agostino di Ippona (uno dei padri fondatori della dottrina cristiana, vissuto dal 354 al 430 d.C.) riprese alcuni versi dalla IV Egloga delle Bucoliche di Virgilio (circa 40 a.C.), nei quali si parla di un responso oracolare attribuito alla Sibilla Cumana secondo il quale una Vergine partorirà un fanciullo che vivrà tra gli dèi e governerà il mondo come un padre, cancellando il timore e le colpe degli uomini, ponendo fine alla mitologica Età del Ferro e decretando l'inizio di una nuova Età dell'Oro in cui l'uomo vivrà in pace, sostentato dalle messi e dagli armenti elargiti dalla natura benevola. Il componimento venne interpretato da Agostino come un annuncio della venuta del Cristo redentore dell'umanità, predetto appunto dalla Sibilla Cumana.\nCon tecniche letterarie simili, anche la sibilla Eritrea diviene profetessa cristiana (ad essa è attribuito l'acrostrico di Cristo), e la sibilla Tiburtina diviene annunciatrice del Giorno del Giudizio. Ogni sibilla cristiana viene rappresentata con un cartiglio che riporta la particolare profezia a questi associata.\nDall'VIII secolo, teologi cristiani quali Isidoro di Siviglia, Rabano Mauro, Gervasio di Tilbury e Vincenzo di Beauvais, scrivono delle sibille come profetesse di Cristo in terre pagane. I testi degli oracoli sono trasmessi soprattutto da Rabano Mauro nel De Universo e da Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae. Quest'ultimo in particolare parla delle sibille antiche trasmettendo la lista di Varrone, e riporta inoltre che il termine 'sibilla' diventa appellativo di donna che pratichi la divinazione: questa associazione tra essere femminile e pratiche divinatorie costituisce un elemento importante per il delineamento dell'immagine della strega dal IX-X secolo.\nDurante il medioevo inoltre, in linea con le esigenze politiche del momento, viene nuovamente manipolata la tradizione sibillina e si diffonde un nuovo canone di dodici sibille, numero raggiunto aggiungendo la Sibilla Europea e la Sibilla Agrippina.\nLe sibille entrarono quindi a pieno titolo nella cultura religiosa cristiana. Tanto che con la riscoperta della cultura classica avvenuta durante il Rinascimento (XIV-XVI secolo) esse compariranno affiancate ai profeti biblici nelle opere di arte sacra: sono famose sibille affrescate da Michelangelo al fianco dei profeti biblici sulla volta della Cappella Sistina (1508-12), o quelle intarsiate nella pavimentazione del Duomo di Siena (1482-83). Altri esempi di sibille raffigurate nell'arte sacra si trovano negli affreschi della chiesa di S.Giovanni Evangelista a Tivoli (1483), o della Cappella di Marciac della chiesa di Trinità dei Monti a Roma (XVI sec), o ancora tra le sculture del pulpito della chiesa di Sant'Andrea di Pistoia (1298-1301).\nNel territorio dei Monti Sibillini ritroviamo le sibille affrescate nel Santuario della Madonna dell'Ambro (Montefortino) e nella chiesa di Santa Maria in Pantano (Montegallo).\n\nLa sibilla sull'Appennino.\nOracoli sull'Appennino.\nUn primo riferimento storico riconducibile a un qualche culto pagano sugli Appennini sembra potersi trovare nella Storia dei Cesari di Svetonio che, a proposito di Vitellio, accenna ad una veglia negli Appennini tenuta prima del suo ingresso a Roma nel 69:.\nAnche Trebellio Pollione nella sua Storia Augusta riporta un episodio relativo a Claudio il Gotico, che, nel 268, consultò sul suo futuro un oracolo negli Appennini:.\n\nPotrebbe aver consultato l'oracolo sibillino anche l'imperatore Aureliano (III secolo) figlio di Zenobia, sacerdotessa del tempio del Sole. Sempre nella Storia Augusta, Flavio Vopisco riferisce che l'imperatore voleva collocare una statua aurea di Giove nel tempio del Sole, in costruzione a Roma, seguendo il responso che gli era stato dato dall'oracolo degli Appennini:.\n\nTuttavia, in questi documenti non si fa nessun accenno ad una sibilla, tanto che all'inizio del IV sec, Lattanzio conferma il catalogo di Varrone (precedente di un paio di secoli), nel quale non compare nessuna sede sibillina sui monti dell'Appennino centrale.\nAlcuni studiosi addirittura sostengono che l'oracolo degli Appennini cui fanno riferimento le fonti sopra citate fosse in realtà collocato presso il tempio di Giove Appennino sul Monte Cucco (Scheggia, PG).\nInoltre, dopo il II secolo non si hanno fonti scritte né archeologiche che permettano di ricostruire i processi storici avvenuti nei seguenti mille anni, fino al medioevo, quando una sibilla compare negli scritti di Antoine de La Sale e di Andrea da Barberino.\n\nLa profezia della nascita di Gesù.\nDal XV sec almeno si diffuse una leggenda secondo la quale la Sibilla Cumana, vergine profetessa della nascita di Cristo, si adirò con Dio per non essere stata scelta come madre del Salvatore, e fu per questo esiliata sugli Appennini. Nel Guerrin Meschino si narra questa storia, che il protagonista sente raccontare da due uomini appena giunto nella città di Norcia:.\n\nIl trasferimento sull'Appennino.\nAnche Giovan Battista Lalli, poeta tardo rinascimentale di Norcia scrisse all'inizio del '600:.\nNelle Liriche di Ludovico Ariosto (secoli XV-XVI) è riportata la stessa storia dell'isolamento in una grotta presso Norcia:.\n\nNon si hanno fonti certe sull'origine di questa leggenda che vede la Sibilla Cumana spostarsi verso gli Appennini. Il primo documento in cui si trova un riferimento ad una storia simile è Le Livre de Sibile, attribuito al monaco francese Philippe de Thaon (XI-XII sec): egli tradusse in francese medievale (più esattamente in anglo-normanno) un poema latino riguardante la Sibilla Tiburtina, nel quale si narra che la profetessa fu chiamata a Roma e interpellata per interpretare un sogno fatto nella stessa notte da cento senatori che sognarono ognuno nove soli diversi; la Sibilla risponde che non era possibile svelare un tale segreto in un luogo contaminato e corrotto qual era il Campidoglio, ma era necessario spostarsi sul monte Aventino.\nNella traduzione francese medievale viene riportato 'mont Apennin' invece di 'mont Aventin'.\n\nIl lago e la grotta.\nL'associazione della Sibilla Cumana ai monti di Norcia deve aver determinato la sovrapposizione dell'antro della Sibilla di Cuma alla grotta del Monte Sibilla, e quindi l'identificazione del lago di Pilato con il lago d'Averno. Infatti nelle leggende locali dei Monti Sibillini il lago di Pilato è dimora di demoni e luogo di contatto con il mondo infernale, proprio come il lago d'Averno è per Virgilio l'ingresso dell'Ade, tramite il quale la Sibilla Cumana conduce Enea all'incontro con il defunto padre Anchise.\nAltre teorie sostengono che i racconti di riti demoniaci presso il lago, e sui Sibillini in genere, furono diffusi nel XIII sec. dai predicatori francescani per arginare quei fenomeni di dissidenza, molto presenti nella zona montana delle Marche, dovuti alla nascita delle teorie rinnovatrici gioachimite e ai movimenti spirituali, condannati come eretici, i quali vennero quindi a trovarsi in accordo con le forze ghibelline in opposizione al potere centrale avignonese.\n\nLa sibilla dell'Aspromonte.\nGli anziani che abitano alle pendici del massiccio dell'Aspromonte (in provincia di Reggio Calabria) tramandano da secoli una leggenda secondo la quale la Sibilla Cumana avrebbe abitato un antico castello posto nei pressi del Santuario della Madonna di Polsi, dove tramandava alle fanciulle lo scibile umano. Quando una delle sue allieve di nome Maria sognò di un raggio di sole che le entrava dall'orecchio destro e usciva da quello sinistro, la Sibilla divinò il segno e comprese che la fanciulla sarebbe diventata la madre di Gesù Cristo. La profetessa, fino a quel momento certa che sarebbe stata scelta lei come madre del Salvatore, si adirò con Dio e venne confinata per sempre nel suo castello, che con il tempo cadde in rovina.Ancora oggi sono vive le tradizioni legate alla Sibilla e al fratello Marco, che con la profetessa è condannato nel castello a battere sui cancelli delle celle con la mano destra, tramutata in mazza dopo che egli l'aveva usata per schiaffeggiare sulla guancia Gesù Cristo. Un'altra tradizione vuole che la statua della Madonna di Polsi, quando esce in processione, debba voltare le spalle al castello della Sibilla. Il castello è identificato con la Pietra Castello, lungo la valle della Fiumara Bonamico.\nNel Guerrin Meschino, l'eroe in cerca della Sibilla giunge in Italia passando per Messina e Reggio Calabria, dove apprende che la fata dimora tra i monti dell'Appennino al centro dell'Italia, nei pressi della città di Norza (o Norsia). Nel libro si riferisce esplicitamente che Guerino passa oltre l'Aspromonte prima di giungere a Norcia. Inoltre nella grotta della Sibilla Guerrino incontra Macco, tramutato in serpente e condannato per la sua accidia a vivere confinato nelle grotta fino al giorno del giudizio.\nAnche in Sicilia erano vivi fino al secolo scorso diversi racconti popolari riguardanti la Sibilla, molti simili a quelli calabri in cui la Sibilla insegnava a Maria e alle fanciulle. Vi è inoltre un racconto il cui la Sibilla viene paragonata al personaggio biblico Nimrod, nel tentativo di costruire una torre altissima per raggiungere Dio (vedi il racconto della Torre di Babele).Sotto la chiesa di San Giovanni Battista a Marsala si trova la Grotta della Sibilla Sicula o Lillibetana.\n\nTracce nella letteratura tedesca.\nNel Wartburgkrieg (sec XIII), in cui si racconta di una competizione tra menestrelli avvenuta in Turingia nel 1207, si dice che Klingsor ottiene dalla dèa vergine Felicia (detta 'figlia di Sibilla') informazioni su come il Re Artù trascorra la vita nella montagna insieme a lei e a Giunone:.\n\nE ancora:.\n\nCulti pagani precedenti.\nA riguardo dell'origine più antica della Sibilla Appeninica, la maggioranza degli studiosi (tra i quali Gaston Paris, Pio Rajna, Fernand Desonay e Domenico Falzetti) cita le tradizioni legate a Cibele: Magna Mater anatolica, dea dei laghi e delle fonti, importata a Roma dalla Frigia nel 204 a.C., venerata con riti orgiastici e cruenti. Alla dea sarebbe stata sostituita la sibilla, tenuta in grande onore anche dai cristiani come profetessa.\nSecondo gli apologeti di questa teoria, la stessa parola 'Sybilla' potrebbe esse morfologicamente connessa con 'Cybele'.\nAncora, la forma della corona rocciosa della vetta del Monte Sibilla ricorderebbe il polos che adorna il capo di Cibele nelle icone tradizionali, la quale circostanza avrebbe contribuito all'accostamento della divinità a questo particolare monte.\nAltri parlano di una dea Nemesi o Norzia, dea della fortuna e del fato, di origine etrusca, rappresentata da un idolo d'argento con il volto di pietra nera, affine a Cibele, e che era venerata sotto forma di roccia ma anche come uno straordinario idolo, prima di pietra e poi d'argento, noto a Norcia sin dall'epoca del bronzo tardo: la dea Orsa. Si tratta di un ricco complesso mitico-rurale (sino ad ora quasi ignorato, forse una traduzione italica paleoumbra del culto di Artermide Brauronia con possibili influenze celtiche) nato a Norcia ma trasferitosi sulle montagne nel VI secolo e che può costituire un antecedente significativo del culto sibillino. Il nome della cattedrale di Santa Maria Argentea testimonierebbe il culto di questi idoli dalla testa argentata.Forse il culto pastorale del Giove delle alture - o, secondo altri, della Dea della Vittoria - si fuse con altre tradizioni oracolari dei Pelasgi approdati sulle coste marchigiane e con quelle dei Celti presenti sul territorio sin dal V seccolo a.C., ma anche con arcaici culti solari e riti erotico-orgiastici a dominante femminile.Le cerimonie a carattere iniziatico femminile (legate alle nozze e più in generale alla propiziazione delle fecondità umana e animale) erano caratterizzate da riti orgiastici e sembrerebbero apparentate con i riti descritti nelle tavole iuguvine, il più importante testo rituale dell'antichità classica risalente al 1000 a.C., inciso in sette tavole di bronzo tra III e I sec a.C. L'intero complesso può costituire le basi del mito della Sibilla Appenninica la cui figura si definisce e si consolida in epoca medievale.\n\nMedioevo e letteratura cavalleresca.\nLa figura del cavaliere.\nNel medioevo viene a definirsi in Europa la figura del cavaliere: non solo inteso come un nuovo ruolo militare che in quel periodo iniziò a ricoprire un'importanza sempre crescente negli eserciti, ma anche come modello di valori ideale.\nI costi da sostenere per l'equipaggiamento e l'addestramento della cavalleria facevano del cavaliere un ruolo riservato a ceti sociali nobili e abbienti, finendo per delineare una vera e propria casta sociale elitaria. Gradualmente si diffusero i blasoni come segno distintivo del cavaliere in battaglia e nei tornei, vennero introdotte le liturgie iniziatiche dell'investitura, si costituirono gli ordini cavallereschi, e i cavalieri divennero gli eroi della letteratura epica medievale.\nQuesto nuovo stile letterario si sviluppò dai poemi e le canzoni del ciclo carolingio, che celebravano le gesta di Carlo Magno e dei suoi paladini e cavalieri, spesso rileggendo la storia in chiave leggendaria; e dal ciclo bretone, ovvero l'insieme dei racconti leggendari di origine celtica riguardanti le isole britanniche, e in particolar modo i cavalieri di Re Artù.\nQuesta celebrazione e mitizzazione della figura del cavaliere contribuì ad adergerla, da semplice ruolo militare quale effettivamente era, a modello ideale di virtù e valori: il cavaliere si attiene alle regole del codice cavalleresco, che gli impongono lealtà, onore e coraggio; egli è inoltre difensore della cristianità, e protettore dei deboli, delle vedove e degli orfani, è devoto ad una donna alla quale presta giuramento di fedeltà e in nome della quale compie le proprie gesta.Presto si sviluppano dei temi ricorrenti su cui la letteratura cavalleresca è imperniata: l'esaltazione del valore individuale dell'eroe, il desiderio di avventura, l'amore cortese per la dama che redime il cavaliere, la ricerca del Graal, metafora della ricerca di una conoscenza trascendente.\n\nElementi cavallereschi nella leggenda della Sibilla.\nNei racconti medievali di Antoine de La Sale e di Andrea da Barberino si ritrovano svariati elementi propri della cultura fantastica del tempo. Va anche ricordato che Andrea da Barberino, traduttore delle chanson de geste e autore de I Reali di Francia, era un cultore della letteratura cavalleresca, e questo potrebbe spiegare il fatto che nel Guerrin Meschino si rintracciano aspetti riconducibili ai miti celtici del ciclo bretone.\nAd esempio, l'esile ponte sull'abisso, sorvegliato dai dragoni di pietra, e che si allarga appena vi si mette piede, sarebbe assimilabile al ponte della spada in Lancilloto o il cavaliere della carretta (1177-1181), sorvegliato da due minacciosi leoni che spariscono appena l'eroe supera il baratro; oppure al ponte sospeso sull'inferno che l'eroe Owein (nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patricii, 1190) deve superare durante il suo viaggio nel regno dell'aldilà: anche in questo caso il ponte si allarga miracolosamente quando Owein pronuncia il nome di Cristo.Un'altra figura del panorama mitologico medievale che compare nei racconti sibillini è la melusina: ovvero una fata dell'acqua con la coda di pesce o di serpente al posto delle gambe.\n\nIl mito cavalleresco del Cavaliere e la Dea.\nUn tema che ricorre in diversi miti cavallereschi è quello dell'Eroe e della Dea, della quale il cavaliere ha bisogno per adempire alla sua missione, ma che al contempo lo tiene prigioniero con le sue arti erotiche in un paradiso malefico.Questa tematica ricorrente nel mito, definita mitèma, sarebbe comparsa originariamente nelle leggende tradizionali celtiche di Oisin, ma sulla sua diffusione in Europa ci sono due teorie:.\n\nla prima vorrebbe che il mitema celtico, venendo a contatto con le tradizioni popolazioni germaniche, sarebbe stato reinterpretato nella leggenda del cavaliere Tannhäuser, per poi giungere in Italia e subire gli influssi delle preesistenti leggende della Sibilla, trasformandosi nelle storie dei cavalieri narrate dal De La Sale, e poi su reinterpretazione letteraria di Andrea da Barberino, nella storia del Guerrin Meschino.\naltri sostengono invece che il processo sia avvenuto all'inverso: ovvero che il mitema si sia sviluppato prima nella leggenda della Sibilla, e solo in seguito, grazie alla divulgazione attuata dal romanzo di Andrea da Barberino, sarebbe stato trasposto nella leggenda del Tannhäuser. Questa teoria sarebbe avallata dal fatto che il primo riferimento scritto alla leggenda germanica si trova in un lied del XVI secolo (molto posteriore quindi al Guerrin Meschino) al quale poi Wagner si sarebbe ispirato per comporre la sua opera teatrale Tannhäuser und der Sängerkrieg auf Wartburg (1845). In questa versione inoltre, quando Tannhäuser si reca da Papa Urbano IV per avere l'assoluzione, il pontefice la negherà dicendo che il perdono sarebbe stato possibile solo quando il suo bastone sarebbe fiorito, metafora per indicare la necessità di un miracolo divino: questa particolarità della grazia divina necessaria per la salvezza dell'anima (in contrapposizione con il perdono ottenuto per merito delle sue azioni dal Guerrin Meschino) è un concetto tipicamente luterano, quindi introdotto dal XVI secolo, e per questo costituirebbe una prova della posteriorità della leggenda del Tannhäuser rispetto a quella del Meschino.\n\nLe fate dei monti Sibillini.\nLe dame della corte della Sibilla, che con essa dimorano stabilmente nella grotta, sono identificate nella tradizione locale come fate.\n\nLe fate nella tradizione orale.\nLe fate sibilline sono descritte nei racconti popolari come giovani donne di bell'aspetto, vestite con caste gonne che celano però zampe di capra: il calpestio dei loro passi ricorda infatti il rumore degli zoccoli degli animali sulle pietraie dei monti.Queste affascinanti creature si muovevano tra il lago di Pilato, dove secondo la tradizione si recavano per il pediluvio, ed i paesi di Foce, Montemonaco, Montegallo, e tra gli altopiani di Castelluccio di Norcia e Pretare.\nLe fate amavano danzare nelle notti di plenilunio, e appropriandosi segretamente dei cavalli dei residenti raggiungevano le piazze dei paesi vicini alla loro grotta per ballare con i giovani pastori. Sempre secondo questi ricordi si attribuisce alle fate l'aver introdotto il ballo del 'saltarello'.\nPresso il paese di Rubbiano c'è una località che in ricordo di questi balli (reso 'valli' nel dialetto locale) si chiama tutt'oggi 'Valleria'.Uscivano prevalentemente di notte, ma dovevano ritirarsi in montagna prima del sorgere delle luci dell'aurora, per non essere escluse dall'appartenere al regno incantato della Sibilla. Si racconta che in una notte, durante la quale si erano attardate nei balli, le fate furono sorprese dall'alba e costrette ad una precipitosa fuga verso la grotta: a questo evento la leggenda fa risalire la formazione della Strada delle Fate, una faglia che attraversa orizzontalmente la costa del monte Vettore intorno a quota duemila metri.\nSecondo un'altra versione, le fate fuggirono dalla festa dopo che un uomo, insospettito dallo strano rumore dei piedi delle donne durante le danze, alzò la gonna di una di esse e scoprì le parti caprine.Secondo una leggenda, uscendo dalla loro grotta, le fate si fermavano presso una stalla per impadronirsi degli equini ed utilizzarli per rapidi spostamenti. Il proprietario dei cavalli insospettito dal ritrovare al mattino le bestie sudate ed affaticate, nonostante la fresca temperatura del ricovero, si appostò per capire cosa succedesse durante la sua assenza e scoprì che erano proprio le fate a servirsi dei suoi animali.\nAncora si racconta che le fate intreccino i crini dei cavalli al pascolo o durante la notte, ed è assolutamente proibito sciogliere queste trecce, onde evitare di incappare in una ripicca da parte delle creature fatate.\nSecondo altri racconti le fate si recavano anche a valle per insegnare alle giovani la filatura la tessitura delle lane.Da questa abitudine delle fate di avere contatti con il mondo che le circondava nasce anche il tema del mito dell'amore che le legava agli uomini. Questi ultimi, una volta entrati in contatto con loro, sarebbero stati sottratti al loro mondo, abbandonando così la sorte di semplici mortali, ed investiti di una sorta di immortalità virtuale che li avrebbe lasciati in vita fino alla fine del mondo, così come succedeva alle fate, ma costretti a vivere nel sotterraneo regno di Alcina.Le fate sibilline furono demonizzate per lunghi secoli dalle prediche di santi e di frati e costrette a rifugiarsi nelle viscere della montagna e costrette ad entrare a far parte del mondo invisibile. Sempre secondo la ricerca di Polia, gli abitanti delle zone imputano la scomparsa delle fate ad una sorta di scomunica inflitta loro da Alcina che volle punirle per aver incautamente mostrato le loro parti caprine.\n\nRetaggi della leggenda.\nSui monti Sibillini ci sono oggi molti luoghi segnati dal passaggio e dalla leggenda delle fate, infatti, oltre alla grotta della Sibilla e la Grotta delle Fate di Pretare (Monte Vettore), ci sono la Fonte delle Fate (Monte Argentella), i sentieri delle fate e la già citata Strada delle Fate.\nA Pretare ancora oggi una rappresentazione detta “La discesa delle fate” custodisce e rievoca la memoria della presenza di queste creature.Anche in alcuni detti popolari sopravvive il ricordo di queste misteriose creature quando si dice: “Quanto sono belle queste fate, però jè scrocchieno li piedi come le capre.” Polia riporta questa frase nella narrazione del racconto in cui descrive l'avvenenza di queste donne ed il desiderio degli uomini di riaccompagnarle presso la loro dimora.\n\nIpotesi sull'origine delle fate.\nSono fate la cui storia è indissolubilmente legata alle tradizioni leggendarie e popolari che si originano dalla presenza dell'oracolo della Sibilla Appenninica. Di loro non si ritrovano tracce nei racconti e nei miti del contado ascolano, ma soltanto nelle narrazioni tramandate dal versante umbro, cioè dalle zone di montagna comprese tra il massiccio del Vettore e monte Sibilla.Erano creature avvezze alle asperità della montagna e, secondo l'antropologo Mario Polia, non sarebbero da considerarsi come figure assimilabili alle creature leggiadre delle tradizioni celtiche, alle donne-elfo della tradizione germanica fatte di luce solare, alle fate delle fiabe che ballano nelle radure dei boschi o alle figure minori delle ninfe greche.Secondo alcuni, le fate in realtà potrebbero essere state delle donne celtiche, che orfane dei loro guerrieri morti o fatti prigionieri dai Romani nella battaglia di Sentino del 293 a.C., si rifugiarono in migliaia sulle alture umbro-marchigiane dove trovarono ospitalità.Renzo Roiati le individua come “le Tria Fata”.\n\nLe zampe caprine.\nIl particolare zoomorfo attribuito alle fate potrebbe avere due spiegazioni:.\n\nuna demonizzazione dell'immaginario collettivo pagano operato dalla predicazione cristiana potrebbe aver attribuito alle fate, attraverso i piedi di capra, una prerogativa tipica dell'immagine del diavolo, che a partire dal medioevo inizia ad essere raffigurato con le sembianze caprine del dio Pan;.\noppure, ponendo che la figura della fata sia nata come archetipo dell'inconscio collettivo junghiano, e quindi risentirebbe della condensazione del sogno, in essa potrebbero essere confluite l'immagine mitica del femminino divino e un'immagine tipica della società bucolica dei Monti Sibillini, che ha sempre vissuto principalmente di pastorizia.\n\nRiferimenti letterari.\nNel Liber octo quaestionum di Giovanni Tritemio (Questio sexta, De potestate maleficarum) è elencata una classificazione dei demoni, tra i quali figurano quelli sotterranei, i quali presentano caratteristiche che a tratti ricorderebbero quelle delle fate sibilline (balli, tesori sotterranei, 'infatamenti'):.\n\nSpettacoli teatrali.\nAlla leggenda della Sibilla Appenninica sono anche ispirati i seguenti spettacoli teatrali:.\n\n'La storia del Guerrin Meschino', di e con Marco Renzi, musiche di M. Lambertelli, Regia di P. De Santi, (Premio Padova 1989 come miglior spettacolo Teatro d’Attore nell'ambito del “Festival Nazionale del Teatro per i Ragazzi” Città di Padova).\n'Fate Caprine e Cavalieri Erranti. Lezione-spettacolo su Miti e Leggende dei Monti Sibillini', un monologo di e con: Cesar Cat.\n\nLa Sibilla nel neopaganesimo italiano.\nLa Sibilla Appenninica è una figura celebrata come una sorta di dea madre e figura positiva anche nel neopaganesimo sincretico-eclettico e paganesimo naturale italiano, e in alcuni ambienti derivati dai movimenti ricostruzionisti o eclettici La Sibilla è vista al pari della cosiddetta Dea o del femminino sacro, avvicinata a volte alla figura di Circe come divinità.
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### Titolo: Sibilla Cumana.\n### Descrizione: La Sibilla Cumana (gr. Σίβυλλα, lat. Sibylla), sacerdotessa di Apollo, è una delle più importanti Sibille, figure profetiche delle religioni greca e romana.\n\nLeggenda e riferimenti letterari.\nIl titolo di Sibilla Cumana era proprio dalla somma sacerdotessa italica, che presiedeva l'oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l''Antro della Sibilla' dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture dell'antro, rendendo i vaticini 'sibillini', cioè difficili e incerti da interpretare. La sua importanza era nel mondo italico pari a quella del celebre oracolo di Apollo di Delfi in Grecia.\nTali Sibille erano giovani vergini, le quali si pensava potessero vivere più a lungo dei comuni mortali (per questo a volte sono raffigurate come vecchie decrepite), che svolgevano attività mantica, entrando in uno stato di trance (furor).\nL'etimologia dell'italiano Sibilla deriva dal latino Sibylla, che a sua volta si rifà al greco antico Σῐ́βυλλᾰ (Síbulla). Sebbene l'ipotesi resti incerta, ritornando a ritroso per il dorico Σίοβολλα (Síobolla), si ipotizza che il suo significato sia riscontrabile nell'attico Θεοβούλη (Theoboúlē), cioè “volontà divina”.\n\nAlcuni nomi che ci sono rimasti delle Sibille cumane sono: Amaltea, Demofila ed Appenninica (di cui abbiamo testimonianza in Licofrone e in Eraclito). Nel libro VI dell'Eneide, Virgilio, la definisce 'longeva sacerdotessa' col nome di «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto.\nNel poema la Sibilla Cumana funge prima da veggente: si rifugia nell'antro 'dalle cento porte' e viene invasata da Apollo, cambiando aspetto e timbro di voce. Ivi sollecita le domande di un impaurito Enea e risponde con oscuri vaticini, promettendogli l'arrivo alla meta, ma con nuove sanguinose battaglie e un nuovo Achille (Turno), ma anche un soccorso da una città greca (Evandro). La sibilla poi consiglia Enea di seppellire il compagno morto (Miseno) e di procurasi un magico ramo d'oro nel bosco sacro, da offrire a Proserpina regina dell'Ade. Con questo mitico lasciapassare, gli farà da guida nel Regno dell'Oltretomba, fino al ritorno. La presentazione dell'oracolo è accompagnata dal cupo ritratto dei luoghi in cui vive e che formano un tutt'uno, a suggerire un'immagine di paura ma allo stesso tempo di mistero.\n\nAlla sua figura è anche legata una leggenda: «Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed ella gli chiese l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere l'eterna giovinezza e, quindi, invecchiò sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di rifiutare».\nIn Ovidio, inoltre, nel libro XIV delle Metamorfosi la Sibilla Cumana narra ad Enea del dono ricevuto da Apollo, di tanti anni di vita quanti i granelli di sabbia che era possibile stringere nella propria mano; dimenticando tuttavia di richiedere l'eterna giovinezza, la Sibilla era destinata a un invecchiamento lunghissimo nel tempo.\nDante, costante evocatore dei miti virgiliani, cita talora anche la Sibilla, con particolari riferimenti alla difficoltà di cogliere il filo dei suoi responsi:.\n\nViene ricordata anche in un celebre passo di Petronio, che viene citato in epigrafe da Thomas Stearns Eliot nel suo La terra desolata:.\n\nL'antro della Sibilla Cumana si trova nella frazione di Cuma, tra i comuni di Pozzuoli e Bacoli, nella città metropolitana di Napoli. È ricordata una Sibilla Cumana anche a Ponte Arche (Trentino), sede delle Terme di Comano.\n\nInfluenza culturale.\nLa traduzione italiana della saga di Harry Potter presenta un chiaro omaggio alla Sibilla Cumana: l'insegnante di Divinazione, che in originale si chiama Sybil Trelawney, è stata denominata Sibilla Cooman.Presso il piccolo Museo Biblioteca Sociale Giacomo Leopardi di Casalnuovo di Napoli è in esposizione permanente l’opera in bronzo “Sibilla Cumana” del maestro scultore Domenico Sepe. L’opera viene esposta temporaneamente all’Antro del Parco Archeologico di Cuma, per una iniziativa del Festival Antro 2022 organizzato dal Parco Archeologico dei Campi Flegrei.
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### Titolo: Sibilla Ellespontica.\n### Descrizione: La Sibilla ellespontica è una profetessa appartenente al mondo pagano e non cristiano (da qui la differenza tra Sibilla e profetessa), che si narra abbia predetto la morte del Cristo, ed è per questo che è presente in vari dipinti con l'iconografia della pietà, come quello di Tiziano.\n\nLetteratura.\nA. Morelli, Dei e miti: enciclopedia di mitologia universale, Milano 1972 e successive edizioni.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Sibilla Ellespontica.
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### Titolo: Sibilla Eritrea.\n### Descrizione: La Sibilla Eritrea era la profetessa dell'antichità classica che presiedeva sopra l'oracolo di Apollo a Eritre, una città della Ionia di fronte a Chios. Una leggenda vuole fosse figlia di una ninfa e del pastore (Teodòro), ambedue del monte Ida. Essa, sotto il nome di Eròfila, avrebbe insegnato agli Etruschi l'arte della divinazione tramite i fulmini.\nLa parola Sibilla viene, tramite il latino, dal greco antico sibylla, che significava profetessa. Le Sibille fornivano delle risposte il cui valore dipendeva da come era stata posta la domanda - a differenza dei profeti che di solito fornivano risposte indirettamente collegate alle domande. Ci sono state molte Sibille nel mondo antico, ma questo oracolo, secondo la leggenda, profetizzò la discendenza divina di Alessandro il Grande.\nPresumibilmente c'era più di una Sibilla a Eritre. Una viene ricordata per essersi chiamata Bàcoe e Eròfila. Si dice che almeno una sia stata originaria della Caldea, una nazione nella parte meridionale della Babilonia, essendo la figlia di Berosso, che scrisse la storia della Caldea, e di Erimante. Apollodoro di Eritre, comunque, dice che una era sua connazionale e predisse ai Greci, al momento della loro partenza per Troia, che essi avrebbero distrutto quella città e che un giorno Omero avrebbe raccontato a tale proposito molte cose non vere.\nLa parola acrostico venne inizialmente usata per le profezie della Sibilla Eritrea, che venivano scritte su foglie e disposte in modo che le lettere iniziali delle foglie formassero sempre una parola.\nNell'iconografia cristiana la Sibilla Eritrea appare a volte come colei che profetizzò la Redenzione. Vi sono degli esempi già in dipinti medievali nella cattedrale di Salisbury e poi nei noti affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina e nel pavimento di marmo della Cattedrale di Siena. È menzionata anche nella celebre Sequenza della Messa per i defunti, il Dies irae.
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### Titolo: Sibilla Tiburtina.\n### Descrizione: In mitologia, la Sibilla Tiburtina è una delle profetesse dell'antichità classica, passata poi anche nella tradizione cristiana, in quanto avrebbe predetto la nascita di Cristo.\n\nNella mitologia romana.\nVarrone la inserisce, all'ultimo posto, nell'elenco delle Sibille a lui note:.\n\nSulla Sibilla Tiburtina, oltre a Orazio e Tibullo, viene citato di solito anche Virgilio:.\n\ned il conseguente commento di Servio Mario Onorato:.\nInfinite discussioni ha provocato il termine Albunea, tanto che qualche commentatore identificò erroneamente la sede della Sibilla Tiburtina nella zona delle Acque Albule (l'attuale Tivoli Terme, già Bagni di Tivoli). Non è però possibile che l'Albunea citata da Virgilio sia quella divinità oracolare che aveva dimora nell'acropoli di Tivoli e che fu vista come Sibilla (mancano le esalazioni solforose) e nemmeno identificabile nella zona delle Acque Albule, perché vi è troppa distanza tra le stesse ed il territorio del re Latino (il rex ricordato da Virgilio) ed è verosimile allora che Albunea, in questo caso, sia una selva posta nel territorio di Lavinio.\n\nLeggenda e riferimenti letterari.\nGli studiosi moderni non avrebbero problemi ad attribuire i libri esistenti alle Sibille della lista varroniana, fatta eccezione per l'oracolo della decima Sibilla, la Tiburtina. Tale oracolo si presenta in un manoscritto separato fuori dal corpo principale, probabilmente composto dopo la fondazione di Costantinopoli e quindi lontano dalla conoscenza di Lattanzio.\nIl testo è inserito nella redazione greca della profezia attribuita alla Sibilla Tiburtina, conosciuto inizialmente solo in redazioni latine ed orientali. La profezia della Tiburtina, di genere apocalittico, è l'interpretazione di un misterioso sogno, riguardante nove soli diversi per aspetto e colore, fatto da cento senatori romani, i quali ne chiesero spiegazione alla Sibilla, che le versioni latine identificano appunto con la Tiburtina. Fino alla metà del secolo scorso il testo era conosciuto esclusivamente attraverso le rielaborazioni medievali in lingua latina, databili tra la metà del XI e l'inizio del secolo XVI, fitte di modifiche sia riguardanti la successione, via via aggiornata, dei sovrani e degli imperatori occidentali, sia il cosiddetto Sibylline Gospel, ovvero la spiegazione del IV sole, che rappresenta l'età del mondo in cui si colloca la nascita di Cristo. Erano note due principali versioni latine del vaticinium: la prima si ritrova nel testo pubblicato da E. Sackur nel 1898, che per tale edizione si servì di sei manoscritti di cui il più antico pervenutoci, è datato al 1047, e una delle due versioni a stampa a nostra disposizione, è quella attribuita al venerabile Beda, ristampata da Jacques Paul Migne tra gli opera dubia et spuria, e che con poche varianti figura anche in Goffredo da Viterbo, la seconda è il Vaticinium Sibyllae, riportato in un manoscritto dell'XI-XII secolo che fu pubblicato da Unsiger nel 1870. Il testo greco della Tiburtina fu scoperto nel 1949 da Silvio Giuseppe Mercati, ma è merito del professor Paul J. Alexander dell'università del Michigan averne curato l’editio princeps con notevole impegno scientifico. Esaminando la redazione greca dell'oracolo, si accerta che risale ad una redazione sicuramente anteriore; gli studiosi sono d'accordo nel ritenere che risalisse alla fine del IV secolo, ma che già prima del 390 circolasse in occidente una versione latina.\nL'autore potrebbe essere sia un sibillista cristiano del 500 circa o un orientale di cultura greca, forse originario della Siria. L'autore sibillista, come nelle redazioni latine ed orientali, finge che la Sibilla, spieghi a cento Senatori romani il significato dei dieci soli (secondo la versione greca, mentre la latina ne menziona nove), visti in sogno da ciascuno di loro. Ogni sole corrisponde ad un periodo storico, il decimo segnerà la fine del mondo e l'inizio del regno messianico escatologico. È certo che si tratti di una finzione, tipica della letteratura apocalittico giudaica.\nNella versione latina del testo, Albunea, arsa di furore profetico, aveva annunziato pene ai malvagi e premi ai buoni, nelle sue peregrinazioni per il mondo, sconvolgendo con le sue profezie terre lontane come l'Asia, la Macedonia e la Cilicia. La sua fama indusse il Senato romano ad invitarla a Roma. Giunta nella capitale dell'impero, stupì tutti per la sua bellezza, resa superba dalla divinità. Si presentarono al suo cospetto cento Senatori perché interpretasse il sogno fatto da tutti contemporaneamente. La Sibilla invitò i Senatori a seguirla sull'Aventino (fra gli ulivi del Campidoglio nel testo greco). Questi avevano sognato nove soli diversi tra loro sia nella grandezza che nella forma: il primo inondava di luce tutta la terra; il secondo, di maggiori dimensioni emanava luce ultraterrena; il terzo balenava luci sanguigne; il quarto rappresentava la quarta generazione del tempo di Cristo; il quinto sole univa l'elemento tenebroso (sangue) a quello luminoso; il sesto privo di luce conteneva un aculeo come di scorpione; il settimo era solcato da una spada sanguinante; l'ottavo, enorme, racchiudeva un nucleo di sangue ed infine il nono, nero e tenebroso come gli altri, veniva attraversato da un folgorante raggio luminoso.\nLa Sibilla Tiburtina interpretò i soli come generazioni future. La prima generazione sarebbe stata tranquilla, libera e sapiente; la seconda religiosa, pura; nella terza sarebbero iniziate guerre funeste a Roma; la quarta, popolata da increduli, avrebbe visto nascere la Vergine, il suo futuro sposo Giuseppe e il figlio Gesù. Albunea afferma inoltre, mentre descrive questo sole, che Dio è uno e chi crede avrà la vita eterna; la quinta generazione vedrà l'espugnazione di Gerusalemme; la sesta generazione sarà tenebrosa, infausta e piena di guerre; la settima vedrà due regnanti che perseguiteranno la terra giudea; l'ottava vedrà il decadere di Roma; nella nona età i principi romani corrotti saranno la rovina di molti; in quest'ultima generazione sono indicati i diversi regnanti medievali (secondo l'età e la provenienza dei manoscritti le liste dei regnanti presentano le aggiunte più disparate).\nLa Sibilla indicò i sovrani con la sola iniziale di ciascun nome, per ognuna delle nove età, e tra questi, nel testo greco, si rivolge soprattutto all'impero bizantino.\nDopo l'ultimo sovrano (che viene citato dal manoscritto più antico, quello dell'Escuriale del 1047) Enrico III il Nero della dinastia salica, Rex Romanorum dal 1039 al 1056, e dal 1046 Imperatore del sacro Romano Impero, la Sibilla dichiara che giungerà il figlio della perdizione, l'Anticristo, che ucciderà Enoc, nipote di Adamo, particolarmente vicino a Dio ed Elia, profeta dell'antico testamento, mandati ad annunciare l'avvento del Signore. Secondo la tradizione cattolica, entrambi sarebbero tornati in vita per volere di Dio, che ucciderà l'Anticristo per mezzo dell'Arcangelo Michele ed infine si giungerà al giudizio universale.\n\nÈ con questa allusione alla fine del mondo che si chiude la profezia della Sibilla Tiburtina, anche se nella versione della Tiburtina edita da Sackur, dopo aver introdotto al giudizio finale, la Sibilla intona il Judicii signum tellus sudore madescet, che rappresentava in occidente l'oracolo sibillino per eccellenza, grazie all'autorevolezza conferitagli da S. Agostino, vescovo di Ippona, che lo aveva riportato nel suo De civitate dei, pur se attribuendolo alla Sibilla Eritrea.\nDelle Sibille e delle loro predizioni hanno tenuto conto i Padri della chiesa, soprattutto riguardo ai divini misteri trattati dalla Sibilla Tiburtina, quali l'incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo e il Giudizio universale.\nNella seconda metà del IV secolo apparve dunque in oriente una profezia sibillina ambientata a Roma, che ha avuto ampia diffusione anche in occidente, dove è stata tradotta in latino e dove, lungo i secoli, è stata oggetto di varie riscritture. Più di un centinaio sono i manoscritti noti che ne conservano il testo, che fu ricopiato ininterrottamente dall'XI fino agli inizi del XVI secolo.\nLe maggiori versioni latine furono prodotte tra l'XI e il XII secolo.\nGli oracoli sibillini godettero dunque di grande diffusione nel Medioevo. Nella tradizione greca non si parla mai esplicitamente della Sibilla Tiburtina; tuttavia, come accennato, la veggente pronunzia il suo oracolo a Roma: la profetessa rivela ad Augusto l'avvento prossimo del figlio di Dio. Di questo celeberrimo racconto, sono note due differenti versioni, una diffusa in oriente e l'altra in occidente. Nella versione orientale, attestata nel VI secolo dal Chronicon di Giovanni Malalas, autrice della rivelazione non è una Sibilla, bensì la Pizia: è a lei, infatti che si sarebbe rivolto Augusto per conoscere il nome del proprio successore. La sacerdotessa di Apollo, simbolo di tutti gli oracoli pagani, ridotti al silenzio dall'avvento di Cristo, avrebbe detto all'imperatore di allontanarsi dagli altari, perché un fanciullo ebreo le imponeva ormai di tornarsene nell'Ade. L'imperatore avrebbe in seguito eretto un altare sul Campidoglio dedicato al figlio di Dio.\nIl venerabile Beda (672 - 735 d. C.), invece, attesta nella sua opera che tale oracolo fosse attribuito alla Sibilla Tiburtina e non alla Pizia.\nTra i testi che riportano la versione occidentale dell'oracolo, vanno ricordati i Mirabilia Urbis Romae, risalenti alla metà del XII secolo; nel capitolo undici di questo testo, Augusto si sarebbe rivolto non alla Pizia, ma ad una Sibilla, identificata come la Tiburtina, per consultarla in merito alla proposta dei senatori di tributargli onori divini e dopo tre giorni la Sibilla avrebbe pronunciato l'oracolo Judicii signum.\nNella biografia di Ottaviano Augusto si riferisce appunto della predizione fatta dalla Sibilla Tiburtina all'imperatore che, essendo stato osannato dal popolo con l'appellativo di Divus, le chiese se fosse opportuno farsi venerare al pari di una divinità. La Sibilla sottopose l'imperatore ad un digiuno di tre giorni al termine del quale gli svelò il vero Dio, al quale Augusto dedicò un sacrificio, il primo compiuto al vero Dio dal primo dei pagani. L'ara usata diede il nome alla Chiesa detta appunto dell’Ara coeli (altare del cielo). A ricordo dell'evento, per molti secoli, i francescani della Chiesa portavano in processione un'insegna della Sibilla che indicava un cerchio all'interno del quale era rappresentata la Vergine con il bambino in grembo. Tale rappresentazione sarà di grande uso nell'iconografia medievale come specificheremo in seguito. I francescani cantano tuttora tali versi: Stellato hic in circulo Sibyllae tunc oraculo, te vidit, Rex in coelo durante le feste di Natale.\nLa leggenda godette di enorme fortuna: ad essa si riferisce un sermone sulla Natività di papa Innocenzo III (1198-1216) . Nel XII secolo, nei Cronica imperatorum, la Sibilla Tiburtina figura sia come la profetessa della leggenda dell'Ara coeli, sia come l'interprete del sogno dei nove soli.\nTra l'XI e il XII secolo, è attestata la confluenza, sulla figura di una Sibilla chiamata Tiburtina, di tre diverse tradizioni profetiche: il sogno dei nove soli, l'acrostico sul Giudizio Finale e la profezia della nascita di Cristo.\n\nRiferimenti nell'arte.\nPittura.\nLa Sibilla Tiburtina con Sibille e Profeti nell'Abbazia di Sant'Angelo in Formis (XIII secolo).\nLa Sibilla Tiburtina è ritratta, nell'affresco realizzato dal Perugino, con altre cinque nella sala dell'udienza nel Nobile Collegio del Cambio a Perugia.\nLa Sibilla Tiburtina e l'imperatore Augusto nella pala d'altare di Konrad Witz, 1435, nel Musée des Beaux-Arts di Dijon (Digione).\nLa Sibilla Tiburtina, con le altre undici, nella Casa Romei a Ferrara, 1450.\nL'imperatore Augusto e la Sibilla Tiburtina, 1476, tecnica mista su legno, opera del cosiddetto 'Maestro della Sibilla Tiburtina', pittore olandese attivo tra il 1468 ed il 1495, Städel Museum, Francoforte sul Meno.\nLa Sibilla Tiburtina e l'imperatore Augusto, fronte dell'arco della Cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze, opera di Domenico Ghirlandaio, 1480 circa.\nLa Sibilla Tiburtina con le Sibille Cumana, Libica e Delfica nella volta della Cappella Carafa nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma, opera di Filippino Lippi (1488-1493).\nLa Sibilla Tiburtina, Cappella Marciac, Chiesa di Trinità dei Monti, Roma, secolo XVI (post 1540), opera di un anonimo.\nLa Sibilla Tiburtina e l'imperatore Augusto, pala dell'altare maggiore della chiesa di Santa Maria in Araceli a Vicenza, opera del pittore Pietro Liberi.\nLa Sibilla Tiburtina, con le altre undici, negli affreschi della cattedrale di Santo Stefano di Passavia in Germania, opera (1682-1684) del pittore Carpoforo Tencalla (1623-1685).\n\nIncisioni.\nLa Sibilla Tiburtina e l'imperatore Augusto nelle Discordantiae Sanctorum doctorum Hieronymi et Augustini et alia opuscola di Filippo Barberi (Philippus Siculus), Roma, 1481.\nLa Sibilla Tiburtina e l'imperatore Augusto nelle Cronache di Norimberga (Liber Chronicarum o Die Schedelsche Weltchronik), 1493.\nLa Sibilla Tiburtina e l'Imperatore Augusto, incisione di Antonio da Trento (prima metà del XVI secolo).\n\nSculture.\nLa Sibilla Tiburtina di Nino ed Andrea Pisano, 1337-1341, fino al 1464 sulla facciata ovest del campanile di Giotto a Firenze, spostata quindi sul lato ovest, ora nel Museo dell'Opera del Duomo, sostituita sulla facciata da una copia, come le altre statue e le formelle.\nSibilla Tiburtina (1483), parte del complesso a tarsie marmoree del pavimento del Duomo di Siena.\nLoreto, rivestimento marmoreo della Santa Casa: statua della Sibilla Tiburtina scolpita da Giovanni Battista della Porta (1572-76).
@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Sibilla.\n### Descrizione: Emma.\n\nLe sibille (in greco antico: Σίβυλλα?, Síbylla; in latino Sibylla) sono sia dei personaggi storicamente esistiti, sia figure mitologiche greche e romane. Erano vergini ispirate da un dio (solitamente Apollo) dotate di virtù profetiche e in grado di fare predizioni e fornire responsi, ma in forma oscura o ambivalente.\nLeggendarie profetesse, erano collocate in diversi luoghi del bacino del Mediterraneo come a Cuma in Italia, a Delfi in Grecia, o in Africa ed Asia Minore.\nTra le più conosciute, la Sibilla Eritrea, la Sibilla Cumana e la Sibilla Delfica che sono rappresentanti di altrettanti gruppi come gli ionici, gli italici e gli orientali.\nNella Roma repubblicana e imperiale un collegio di sacerdoti custodiva gli Oracoli sibillini, testi sacri di origine etrusca, consultati in caso di pericoli o di catastrofi.\nDal II secolo a.C. si sviluppa negli ambienti ebraici romanizzati un'interpretazione dei vaticini delle Sibille corrispondente alle attese messianiche. Successivamente i cristiani videro nelle predizioni delle veggenti pagane preannunci dell'avvento di Gesù Cristo e del suo ritorno finale.\n\nOrigini del nome.\nL'etimologia del nome è incerta. Varrone ce ne riporta una popolare che la farebbe derivare dal greco sioù-boùllan al posto di theoù-boulèn, che indicherebbe 'la volontà, la deliberazione del dio'.\nSecondo Varrone, nel dialetto eolico si usava chiamare gli dei non θεούς (theóus), ma σιούς (sióus) e consiglio non βουλήν (boulén), ma βυλήν (bylén), da cui Σίβυλλα (Síbylla) o Σίβιλλα (Síbilla). La parola 'Sibilla' indicherebbe perciò la 'manifestazione della volontà (βυλήν) divina (σιούς)'.\nAbbiamo anche la forma Sybulam, che è molto suggestiva ('segno, avvertimento di dio'), ma si tratta di una trascrizione errata che ricorre solo sui manoscritti medievali.\nIn origine Sibilla (dal greco Sibylla) era un nome proprio di persona. Probabilmente era quello di una delle sibille più antiche, la Sibilla Libica, come ci attesta Pausania. Pausania si rifà ad Euripide che nel prologo di una delle sue tragedie perdute (la 'Lamia') avrebbe riferito il gioco di parole Sibyl/Lybis, secondo la lettura palindroma.\nDa nome proprio, col tempo 'Sibilla' è diventata una definizione, un epiteto, passando a designare un tipo particolare di profetessa. Ciò avvenne in seguito al sorgere in diversi luoghi sacri di santuari nei quali venivano proferiti degli oracoli, ed al parallelo fiorire di raccolte di profezie. Così all'originario nome proprio di Sibylla fu necessario aggiungerne un altro (che divenne quello geografico della località interessata) che permetteva di distinguerle l'una dall'altra.\nMa poiché nell'immaginazione degli antichi qualche sibilla - a causa della sua longevità millenaria - passava da un luogo all'altro per soggiornarvi lunghi periodi, ogni volta venendo chiamata con un nuovo nome geografico benché fosse sempre la stessa persona, essi sentirono il bisogno di ridare un nome proprio alle sibille più conosciute (p. es. 'Erofile').\n\nNella mitologia greca e romana.\nCon la parola 'Sibilla' gli antichi greci e latini si riferiscono a tutta la classe delle profetesse, donne vergini e giovani, talora ritenute come decrepite, che svolgevano attività mantica in stato di trance. Tali donne mostravano abitualmente ai profani ed alle folle i loro responsi, sempre vani, lievi e numerosi come le foglie, che il vento disordinava disperdendone così il testo. Queste vergini, affidando al vento benevolo le loro verità non sempre gradite, lasciavano spazio alle illusioni dei questuanti che interpretavano a loro piacimento i responsi.\nIl perdurare della loro presenza dà risposte, nel mondo classico, al perdurare di domande alle quali i riti e i culti 'diurni' in onore degli dei del Pantheon patriarcale sia romano che greco, non sapevano dare risposte.\nNei suoi scritti Platone ne cita solo una, anche se in seguito le sibille divennero una trentina.\nLo scrittore reatino Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) ne enumera dieci in ordine di tempo: Persica, Libica, Delfica, Cimmeria, Eritrea, Samia, Cumana, Ellespontica, Frigia, Tiburtina.\nEmblematica la definizione della Sibilla che ci proviene dall'antichità classica, che le conferisce caratteri simili alla Pizia di Delfi: “Sibylla […] dicitur omnis puella cuius pectus numen recipit”.\nNonostante nella tradizione letteraria non sia mai venuto meno il concetto della verginità della Sibilla, non si esclude l'unione della Sibilla col dio, che tuttavia non può che scegliersi una sposa vergine. Per la Sibilla la verginità non escludeva la gravidanza, infatti ella si univa ad Apollo ricevendo dal dio il πνεῦμα, un afflato amoroso che la rendeva gravida dell'oracolo di cui si liberava di volta in volta. Questa unione con il dio Apollo ha spesso messo a confronto le Sibille con le Pizie delfiche, ovvero con le eroine della leggenda col dono di profetare, come ad esempio Cassandra, che non erano legate ad alcun santuario e rivelavano il futuro senza essere interrogate. Queste Pizie, il cui nome derivava da Apollo Pizio (uccisore del serpente Pitone del quale aveva preso il posto a guardia del santuario di Delfi, divenuto suo centro oracolare), vaticinavano ex tempore, ed i loro versi non venivano scritti nel momento in cui li profetavano nel santuario delfico. Le Sibille invece riportavano i loro oracoli che circolavano in forma di libro; inoltre queste parlavano in prima persona nei loro vaticini, mentre la Pizia profetava in stato di estasi, posseduta da Apollo, e quando parlava in prima persona era il dio stesso a parlare.\n\nVarrone e l'elenco canonico delle Sibille.\nL'origine delle Sibille come personaggi di antica tradizione, che già figuravano nella mitologia greca, si evince dalle testimonianze di Eraclito di Efeso (secoli VI-V a. C.), Euripide (V secolo a.C.), Aristofane (V-IV secolo a.C.), e Platone (V-IV secolo a.C.). Con l'estendersi della civiltà greca degli Ioni nel bacino del Mediterraneo si ebbe il moltiplicarsi delle Sibille nelle diverse tradizioni locali. Un ampio brano di Lattanzio, notoriamente interessato alla rivelazione sibillina, che egli stesso ritiene ispirata dall'unico Dio e rivolta alle nazioni, riflette la lista compilata da Varrone (I secolo a.C.), riguardante dieci Sibille connesse ad importanti centri del mondo ellenistico-romano.\nLa prima delle dieci varroniane era originaria della Persia da cui il nome Persica, che fu più tardi identificata con la Caldea. La seconda è quella che si diceva risiedesse in Libia, zona dalla quale prende il suo nome Libica: essa è menzionata da Euripide nel prologo della Lamia e considerata da Pausania la più antica di tutte; la terza è quella di Delfi (Delfica), di cui parla Crisippo nel libro “sulla Divinazione”, una tradizione la identifica inoltre con Erofile da Eritre e tale notizia ci è fornita da Eraclide Pontico, che parla di una Sibilla frigia nota a Delfi col nome di Artemide. Secondo Plutarco invece, questa sarebbe giunta dall'Eliconia, fu lei a predire ai Greci, in partenza per Ilio, che questa città sarebbe stata distrutta e che Omero avrebbe scritto dai suoi oracoli.\nLa quarta Sibilla è quella Cimmeria situata in Italia, presso i Cimmeri intorno al lago Averno, di cui parlano Nevio nei suoi libri Bellum Poenicum e Pisone negli Annales. La quinta Sibilla è quella Eritrea che Apollodoro di Eritre afferma essere sua compatriota. La sesta era la Samia, di cui parla Eratostene affermando di aver scoperto uno scritto negli antichi Annales dei Sami.\nLa settima sibilla è la Cumana, detta anche Amaltea, Demofile o Erofile di cui abbiamo testimonianza in Licofrone, uno scrittore greco del IV secolo a.C. e in Eraclito. Fu la Sibilla Cumana a portare nove dei cosiddetti Libri Sibillini al cospetto di Tarquinio il Superbo.\nL'ottava Sibilla è quella dell'Ellesponto (Ellespontina), essendo nata nella campagna troiana nella cittadina di Marpesso, presso la località di Gergithium. Eraclide del Ponto scrive che questa visse al tempo di Solone e di Ciro. La nona è la Frigia, una Sibilla greca, più volte assimilata alla Marpessa, detta anche Cassandra o Taraxandra. La decima sibilla è quella di Tivoli (Tiburtina), dove era adorata come una dea sulle rive dell'Aniene, nei cui gorghi si dice fu trovata la sua statua che teneva un libro sibillino in mano; era chiamata anche Albunea.\nUna delle sibille non citate da Varrone in quanto sorta in epoca medievale è la Sibilla Appenninica, detta anche 'Oracolo di Norcia' che viene legata alla Grotta della Sibilla situata sul Monte Sibilla, nella catena dei Monti Sibillini nei comuni di Arquata del Tronto e Montemonaco.\n\nI nomi delle Sibille e alcune delle loro profezie cristologiche.\nSibille identificate da nomi geografici.\nSibille orientali.\nSibille che appartengono al gruppo orientale:.\nSibilla Babilonese.\nSibilla Caldea.\nSibilla Ebraica.\nSibilla Egizia.\nSibilla Libica o Libia: Erit Statera Cunctorum.\nSibilla Persica o Persiana: Erit Salus Gentium.\n\nSibille greco-ioniche.\nSibille che appartengono al gruppo ionico:.\nSibilla Claria o Sibilla di Klaros.\nSibilla Colofonia.\nSibilla Cumea.\nSibilla Delfica o Sibilla di Delfi: Absque Matris Coitu Ex Vergine Eius.\nSibilla Efesia o Sibilla di Efeso.\nSibilla Ellespontica o Sibilla Ellespontiaca: Prospexit Deus Humiles Suos.\nSibilla Eritrea o Sibilla di Erythre: Iacebit in Feno Agnus.\nSibilla Euboica o Sibilla Eubea.\nSibilla Frigia: Ex Olimpo Excelsus Veniet.\nSibilla Gergitica o Sibilla di Gergis.\nSibilla Macedone.\nSibilla Marpessia o Sibilla di Marpesso.\nSibilla Samia o Sibilla di Samo: Laudate Eum In Atriis Celorum.\nSibilla Sardica o Sibilla di Sardi.\nSibilla Tesprozia.\nSibilla Tessalica.\nSibilla Troiana.\n\nSibille greco-italiche.\nSibille che appartengono al gruppo italico:.\nSibilla Cimmeria detta anche Emeria o Chimica: Et Lac de Celo Missum.\nSibilla Cumana o Sibilla di Cuma: Surget Gens Aurea Mundo.\nSibilla Italica.\nSibilla Lilibetana.\nSibilla Sicula o Sibilla Siciliana.\nSibilla Tiburtina: Nascetur Christus in Bethlehem.\n\nSibille medievali.\nNomi di sibille sorti forse in epoca medievale, alcuni di essi si riferiscono ad una stessa sibilla:.\nSibilla Agrippina o Sibilla Agrippa Invisibile Verbum Palpabitur.\nSibilla Appenninica o Sibilla Picena o Sibilla di Norcia.\nSibilla Europea: Regnabit in Paupertate.\nSibilla Lucana.\nSibilla Rodia o Sibilla di Rodi.\n\nNell'arte.\nLe sibille hanno ispirato l'arte cristiana dall'XI secolo in numerosi cicli pittorici, scultorei ed incisori. Esse sono normalmente raffigurate come la controparte femminile dei profeti; l'esempio più famoso si trova nella serie dei Veggenti sulla volta della Cappella Sistina, affrescata da Michelangelo.\nMentre i profeti annunziarono il Messia agli ebrei, le Sibille lo comunicarono, seppur in modo oscuro, ai pagani, completando quindi l'opera di annuncio universale.\nL'iniziale verso del famoso Dies Irae cita assieme questi due aspetti della profezia: 'Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla, teste David cum Sibilla.'.\nNella leggenda romana medievale di fondazione della basilica di Santa Maria in Ara Coeli ha un ruolo centrale la Sibilla, che spiega una visione celeste di una donna con bambino, apparsa ad Augusto mentre compiva un sacrificio agli dei. La sibilla annuncia che sarà il futuro unico signore del mondo e invita ad adorarlo nel luogo della futura basilica, costruendo un altare ('ara') del cielo ('coeli').\n\nPittura.\nla Sibilla affrescata (prima dei Profeti) nella Abbazia di Sant'Angelo in Formis (XIII secolo).\nle Sibille affrescate da un anonimo ferrarese nella Sala delle Sibille in casa Romei, Ferrara (1450 circa).\nle quattro Sibille dipinte da Domenico Ghirlandaio e bottega nella Volta della Cappella Sassetti in chiesa di Santa Trinita, Firenze, 1479-1485:.\nla Sibilla Cumana.\nla Sibilla Eritrea.\nla Sibilla Cimmeria.\nla Sibilla Agrippa.\nle dieci Sibille nel pavimento del Duomo di Siena, autori vari (1482-1483).\nIl ciclo di affreschi delle Sibille nell'abside centrale del Santuario di Nostra Signora Assunta di Piani (Imperia) ad opera di Tommaso Biazaci (1488-91).\nle quattro Sibille dipinte nella volta della Cappella Carafa nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma, di Filippino Lippi (1488-1493):.\nLa Sibilla Tiburtina.\nLa Sibilla Cumana.\nLa Sibilla Libica.\nLa Sibilla Delfica.\nle dodici sibille in coppia con altrettanti profeti affrescate da Pinturicchio in Vaticano (Appartamento Borgia, 1492-1494):.\nGeremia e la Sibilla Frigia.\nMosè e la Sibilla Delfica.\nDaniele e la Sibilla Eritrea.\nBaruc e la Sibilla Samia.\nZaccaria e la Sibilla Persica.\nAbdia e la Sibilla Libica.\nAggeo e la Sibilla Cumana.\nAmos e la Sibilla Europea.\nGeremia e la Sibilla Agrippina.\nIsaia e la Sibilla Ellespontica.\nMichea e la Sibilla Tiburtina.\nEzechiele e la Sibilla Cimneria.\nDio Padre in gloria tra angeli e cherubini sopra un gruppo di sei profeti e sei sibille, affresco del Perugino nella Sala delle Udienze del Collegio del Cambio a Perugia (1496-1500); sono raffigurate la Eritrea, la Persica, la Cumana, la Libica, la Tiburtina e la Delfica.La Sibilla con profeta, dipinto a tempera di Andrea Mantegna, conservato nel Cincinnati Art Museum (1495-1500 circa).\nle quattro Sibille negli spicchi della volta a crociera della Cappella Baglioni, Pinturicchio (1500-1501).\nle cinque famose sibille affrescate da Michelangelo per la Cappella Sistina a Roma (1509):.\nSibilla Delfica.\nSibilla Eritrea.\nSibilla Cumana.\nSibilla Persica.\nSibilla Libica.\nLa Sibilla dipinto a olio su tela attribuito a Vittore Carpaccio, conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze, che fa coppia con un Profeta (1510 circa).\nle Sibille e angeli affrescate da Raffaello nella cappella Chigi, chiesa di Santa Maria della Pace a Roma (1513-1515);.\nle Sibille Cumana, Cipria (o Eritrea), Cumea, Samia, Persica e Frigia dipinte insieme ai profeti tra le Storie della vita della Vergine da Cristoforo Roncalli detto il Pomarancio nella volta della Sala del tesoro della Basilica della Santa Casa, a Loreto, (1605-10).\nle Sibille del Guercino (1647-1666).\nSibilla Persica, Musei Capitolini, Roma.\nSibilla Samia, Uffizi.\nSibilla Cumana, Londra, Collezione Denis Mahon.\nSibilla Ellespontica, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle.\nSibilla, collezione di Elisabetta II.\naltre Sibille in collezioni private.\nla Sibilla Persica dipinta da Benedetto Gennari, in Collezione privata, 1647-50 ca.\nLe dodici Sibille negli affreschi della cattedrale di Santo Stefano di Passavia, opera di Carpoforo Tencalla (1682-1684).\nle dodici Sibille dipinte da Martino Bonfini all'inizio del XVII secolo nel Santuario della Madonna dell'Ambro, che ritrae le dodici sibille descritte dal domenicano Filippo Barbieri nell'opera 'Discordantiae nonnullae inter SS Hieronymus et Augustinum' datata attorno al 1481. Tra esse figura la Sibilla Chimica, da alcuni erroneamente associata all'alchimia, mentre in realtà altri non è che la Sibilla Cimmeria, che appunto nell'opera del Barbieri viene specificato chiamarsi anche Chimica o Emeria. Altra prova dell'identificazione della Sibilla Chimica con la Cimmeria si ha leggendo il vaticino, ovvero la previsione sulla venuta del Cristo a lei attribuita, in quanto quello riportato nella tavoletta che tiene in mano la Sibilla Chimica nel dipinto del Santuario della Madonna dell'Ambro corrisponde a quello della Sibilla Cimmeria riportato dal Barbieri nella sua opera.\nLa Sibilla Appenninica dipinta a tempera da Adolfo De Carolis, tra il 1907 ed il 1908, nel ciclo decorativo del salone di rappresentanza del Palazzo del Governo di Ascoli Piceno, oggi sede della Prefettura e dell'Amministrazione Provinciale.\n\nSculture e rilievi.\na Napoli nel Museo di San Martino tra le più antiche statue lignee presepiali vi è qualche figura di Sibilla (di Giovanni e Pietro Alamanno, 1478-1484).\nSanta Casa di Loreto: dieci statue di sibille nel rivestimento marmoreo della Santa Casa scolpite da Tommaso e Giovanni Battista della Porta (1572-76). Compaiono erette nel registro superiore del rivestimento marmoreo ad altezza quasi naturale la Sibilla Ellespontica, Frigia, Tiburtina, Libica, Delfica, Persica, Eritrea, Cumana, Pontina e Samia.\nPalermo, Chiesa di S. Maria degli Angeli (detta della Gancia): gruppo in stucco 'Visione della Sibilla Cumana da parte dell'imperatore Augusto' di Giacomo Serpotta (1710 ca.).\n\nIncisioni.\nDodici Sibille incise a bulino da Baccio Baldini verso il 1460.\nDodici Siblle incise in xilografia da Ugo da Carpi verso il 1520.\nDodici Sibille incise all'acquaforte da Johann Theodor de Bry figlio verso il 1610.\nDodici Sibille incise all'acquaforte da Romain de Hogue verso il 1660.\nDodici Sibille incise all'acquaforte da Jacopo Guarana verso il 1790.\n\nMusica.\nTutti i Requiem nel Dies Irae (Mozart, Verdi...).\nAnonimo, Dies irae, in Carmina Burana, sec. XIII.\nOrlando di Lasso (1532-1594) 'Prophetiae Sibyllarum... chromatico more'.\nEl cant de la Sibilla, Ensemble San Felice, Pueri Cantores della Cattedrale di Sarzana, direttore Federico Bardazzi, Brilliant Classics 2017.
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### Titolo: Sicano.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, con il nome Sicano (Σικανός in greco antico) è conosciuto un re antichissimo dell'isola di Sicilia. Secondo i mitografi, Sicano è figlio di Briareo (o Egeone), uno dei tre Ecatonchiri. Secondo questa genealogia, Sicano era nipote di Urano e Gea. Secondo un'altra versione, Sicano è ritenuto il padre dei Ciclopi.
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### Titolo: Sigeo.\n### Descrizione: Sigeo o Sigeion (in greco antico Σίγειον / Sígeion, in latino Sigeum) è stata una città greca situata con un promontorio nella regione della Troade, alla foce del fiume Scamandro (nome attuale Karamenderes).\nÈ stata la prima colonia fondata da Atene, intorno al 610 a.C.; la sua importanza risiedeva nel fatto che fosse un avamposto fisso che garantiva le forniture di grano dalle regioni del mar Nero.Il sito è stato oggetto dal 2006 di una campagna di scavi portata avanti dall'Università di Tubinga sotto il patrocinio del Deutsches Archäologisches Institut.\n\nCittadini illustri.\nDamaste di Sigeo.\nHegesistrato o Egesistrato di Sigeo (Ἡγησίστρατος), figlio del tiranno ateniese Pisistrato e della concubina argiva Timonassa. Venne, a sua volta, fatto tiranno della città di Sigeo per volere del padre. Quando suo fratello Ippia fu espulso da Atene nel 510 a.C. si rifugiò a Sigeo.
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### Titolo: Sileno.\n### Descrizione: Sileno (in greco antico: Σιληνός?, Silēnós), oppure Seileno (in greco antico: Σειληνός?, Seilēnós), è un personaggio della mitologia greca e corrisponde al vecchio dio rustico della vinificazione e dell'ubriachezza antecedente a Dioniso.\n\nAspetto.\nDall'aspetto di un anziano calvo, corpulento e peloso era spesso raffigurato con attributi animaleschi.\nDisprezzava i beni terreni, aveva i doni di straordinaria saggezza e della divinazione.\n\nGenealogia.\nNonno di Panopoli scrive che sia stato generato da Gaia mentre secondo altri autori è figlio di Pan e di una ninfa.Servio Mario Onorato sostiene che sia figlio di Hermes.\nCon la ninfa Melia generò Folo e Dolione e secondo Nonno di Panopoli lui solo è il padre dei Silenoi.\n\nMitologia.\nEra lo spirito della danza della spremitura dell'uva sul torchio ed il suo nome deriva dalle parole seiô, 'muoversi avanti e indietro' e lênos 'il trogolo del vino'.\nRicevette in cura da Ermes il piccolo Dioniso e lo fece allattare dalla ninfa Nisa in una grotta sul monte Nisa.\nAnni dopo, mentre accompagnava Dioniso in un viaggio attraverso la Frigia, Sileno si perse e fu ritrovato da re Mida che lo trattò in modo ospitale e gli diede una guida in grado di indicargli la strada da seguire per ricongiungersi alla carovana.\nSecondo gli autori latini, da Sileno discendono le tribù dei Satiri e delle ninfe.\nA volte veniva moltiplicato in una triade od in un grande gruppo (i Silenoi) o veniva spesso identificato con un numero di altre divinità rustiche minori come Hekateros (il nonno del Satiei) od Oreads, od anche Nysos e Lamos (che in alcuni casi sono citati come i genitori adottivi ed alternativi di Dioniso).\nAltre sue identificazioni sono Aristaios (il dio dei pastori), Oreios (un altro padre adottivo di Dioniso), l'essere padre degli Hamadryades, di Pyrrhichus, di un Curete della danza rustica ed il satiro Marsia che suona il flauto.\n\nI Silenoi.\nI Sileni (anche Silenoi) sono figure della mitologia greca, divinità minori dei boschi, di natura selvaggia e lasciva, imparentati con i Centauri e nemici dell'agricoltura.\nMolto spesso assimilati ai Satiri, tanto che il termine sileno viene anche usato per indicare un satiro anziano e sono chiamati anche Papposileni.\n\nSocrate.\nIn un celebre passo platonico Alcibiade, intervenuto al simposio filosofico in onore di Agatone, in preda all'ebbrezza, dichiara il suo amore intellettuale per Socrate. Per far questo esordisce proprio associando l'aspetto esteriore e interiore del filosofo a certe raffigurazioni scultoree di Sileno in vendita nei mercati, che, una volta aperte, svelano al loro interno un'immagine divina. E descrive il turbamento generato dall'ascolto delle parole di Socrate alle melodie dell'aulos di Marsia.\n\nNietzsche.\nIn La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche, Sileno è individuato come portatore della saggezza dionisiaca, ovvero del senso tragico dell'esistenza, celato dai greci stessi attraverso l'apollineo.\n\nEgli cita l'incontro di re Mida con Sileno:.
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### Titolo: Simoenta (fiume).\n### Descrizione: Il Simoenta è un fiume situato presso la città di Troia e menzionato nei poemi omerici.\nIl fiume è identificato con l'attuale Dumrek Su, a nord della collina di Hissarlik.\nCome anche per lo Scamandro, in alcuni casi degli eroi omerici avrebbero ripreso il loro nome dal fiume: un esempio è Simoesio, giovinetto guerriero troiano figlio di Antemione, così chiamato perché partorito dalla madre proprio lungo il Simoenta (Iliade, canto IV).\n\nVoci correlate.\nSimoesio.
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### Titolo: Simplegadi.\n### Descrizione: Le Simplegadi (dal greco syn, insieme, e plésso, urtare, battere) sono, nella mitologia greca, un gruppo di isole, note anche come Isole Cianee, all'ingresso del Ponto Eusino. Si narrava che queste isole si scontrassero continuamente fra loro (da qui il nome), costituendo così un pericolo per i marinai che navigavano in quelle acque. Furono attraversate da Giasone e gli Argonauti durante la ricerca del Vello d'oro.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Simplegadi.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Symplegades, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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### Titolo: Simposio (Platone).\n### Descrizione: Il Simposio (in greco antico: Συμπόσιον?, Sympósion) noto anche con il titolo di Convito, o a volte anche Convivio, è forse il più conosciuto dei dialoghi di Platone. In particolare, si differenzia dagli altri scritti per la sua struttura, che si articola non tanto in un dialogo, quanto nelle varie parti di un agone oratorio, in cui ciascuno degli interlocutori, scelti tra il fiore degli intellettuali ateniesi, espone con un ampio discorso la propria teoria su Eros ('Amore').\n\nL'ambientazione e lo svolgimento.\nIl contesto in cui si inseriscono i vari interventi è rappresentato dal banchetto, offerto dal poeta tragico Agatone per festeggiare la sua vittoria negli agoni delle Lenee, oppure alle Grandi Dionisie, del 416 a.C. Fra gli invitati, oltre a Socrate e al suo discepolo Aristodemo, troviamo il medico Erissimaco, il commediografo Aristofane, Pausania, l'amante di Agatone, e il suo amico Fedro, figlio di Pitocle ed esperto di retorica: ognuno di loro, su invito di Erissimaco, terrà un discorso che ha per oggetto un elogio di Eros.\nVerso la fine, fa una clamorosa irruzione anche Alcibiade, completamente ubriaco, incoronato di edera e di viole, accompagnato dal suo komos, che si presenta per festeggiare Agatone, e che viene accolto con cordialità. Alla fine del banchetto, la mattina seguente, Socrate (uno dei pochi rimasti svegli per tutta la notte) lascia l'abitazione e, seguito da Aristodemo, si dirige verso il Liceo, luogo nel quale Aristotele, molti anni dopo, fondò la sua scuola.\n\nPrologo.\nDurante una notte ad Atene due personaggi, Apollodoro e un suo amico indicato col semplice connotativo hetairos (= un amico), passeggiano conversando per le vie della città. A un certo punto, l'amico di Apollodoro gli chiede di raccontargli del famoso banchetto tenutosi in casa di Agatone con Socrate, Pausania, Fedro, Erissimaco, Aristofane e molti altri.\nPrima di iniziare il suo racconto, Apollodoro spiega che il banchetto si era svolto molti anni prima e che egli ne aveva sentito parlare da Aristodemo, un allievo di Socrate che vi aveva presenziato. La cornice del dialogo attesta così un triplice livello di 'incassamento' narrativo: Apollodoro racconta a un amico che Aristodemo gli ha raccontato che, nel corso del banchetto a casa di Agatone, si è svolta tra i commensali una discussione sulla natura dell'amore.\nUna sera, Aristodemo incontra per la strada Socrate, e nota che il filosofo si è fatto incredibilmente bello: è ben vestito, profumato e indossa perfino dei sandali, cosa davvero insolita per uno come lui. Socrate spiega che si sta dirigendo in casa di Agatone, il quale sta dando una festa per celebrare una sua vittoria teatrale e Aristodemo lo segue incuriosito.\nTuttavia per la strada Socrate rimane indietro a riflettere ed entra in casa solo a metà della festa, malgrado i continui richiami di Agatone. Dopo essersi puliti ed aver bevuto del buon vino mielato, il padrone di casa chiede agli invitati di che cosa vogliano discutere quella sera e uno di loro, Erissimaco, propone la discussione su Eros, ovvero sull'Amore. Tutti sono entusiasti dell'argomento e cominciano a dialogare.\n\nFedro.\nIl primo a parlare tra gli invitati è Fedro. Egli afferma che Eros è il più antico fra tutti gli dèi ad essere onorato, come attestano Esiodo, nella Teogonia, e Acusilao, i quali all'origine del mondo formano il Caos e la Terra e quindi anche Amore. Inoltre, Parmenide sostiene che la Giustizia «per prima, fra tutti gli dei, si prese cura di Amore». È Eros a spingere amante e amato a gareggiare in coraggio, valore, nobiltà d'animo: gli eserciti, se costituiti da tutti amanti e amati, sono imbattibili:.\n\nFedro porta alcuni esempi, primo fra tutti quello di Alcesti che superò in amore i genitori di Admeto, suo sposo, tanto da farli apparire estranei alla sua vicenda e da suscitare l'ammirazione degli dei; cosa che non avvenne a Orfeo, che tornò indietro dall'Ade senza risultato, poiché era apparso vile. Gli dei invece onorarono Achille, che per sua scelta morì in aiuto e vendetta di Patroclo, suo amante, riservando a lui l'Isola dei Beati.\nVerso la fine del discorso si assiste a un rovesciamento del concetto greco secondo il quale l'amato è superiore all'amante, perché autosufficiente, non soggetto a urti e scossoni. Perciò il greco ama l'uomo, ritenendo la donna indegna di un essere superiore. Qui invece la superiorità è dell'amante e perciò il merito maggiore è dell'amato che ama, Achille, mentre Alcesti non è amata, ma amante. L'ultima frase del discorso inoltre sottolinea l'importanza di Amore:.\n\nPausania.\nPausania è il secondo a parlare fra gli ospiti. Egli distingue due generi di Amore, poiché come esistono due Afroditi (l'Afrodite Urania, 'celeste', figlia di Urano, e l'Afrodite Pandèmia, 'comune', 'volgare', figlia di Zeus e di Dione) così esistono anche due Amori: il primo detto 'Celeste', si accompagna all'Afrodite 'Urania', il secondo detto 'Volgare', si accompagna invece all'Afrodite 'Pandèmia'.\nL'Amore Volgare è volto ad amare i corpi più che le anime e, partecipando di entrambe le nature dei suoi genitori, maschile e femminile, preferisce tanto le donne - considerate nella cultura greca antica oggetto inferiore d'amore - quanto i fanciulli imberbi, quindi facilmente plagiabili. L'Amore 'Celeste', invece, trascende quello corporale e si fa guida verso un elevato sentire: «è bello in tutti i modi dunque a causa della virtù mostrarsi compiacenti». Il suo discorso si conclude con una ricerca della giustificazione dell'amore omofilo basandosi sui nomoi (cioè le norme, siano esse leggi scritte o no) delle varie regioni della Grecia - 'In Elide, a Sparta e presso i Beoti, dove non vi sono abili parlatori risulta stabilita semplicemente la norma che è bello concedersi agli amanti', (182b) - mostrando come ciò sia disprezzato «nella Ionia e nelle altre regioni dominate dai barbari» , mentre ad Atene il nomos è più complicato, poiché è considerato lecito farlo in privato, riprovevole farlo in pubblico.\n\nErissimaco.\nCome terzo, in sostituzione di Aristofane che è colto dal singhiozzo, interviene Erissimaco, il quale, da buon medico, considera l'amore un fenomeno naturale e ne distingue gli aspetti normali da quelli morbosi. Nell'esporre la sua teoria si trova d'accordo sulle due specie d'Amore individuate da Pausania: «che Amore dunque sia duplice, pare a me che sia un distinguere bene», con una piccola differenza però: al posto dell’Afrodite Pandemia (Volgare), Erissimaco pone l'Afrodite 'Polimnia' ('dai molti inni', cioè portatrice di disordine). Amore infatti, come ogni cosa in natura, deve essere armonico ed equilibrato in ogni sua azione - «comunione di opposti»: infatti la 'soverchieria', 'il disordine' insiti in ogni forma di attrazione non possono riuscire a buon fine, ma determinano contagi, malattie, guasti e distruzione; «ma quando invece l'Amore diventa incontenibile e infuria violento durante le stagioni dell'anno, produce guasti e distrugge molte cose» (188a-b).\nAll'inizio del suo discorso, inoltre, Erissimaco ci propone una sua definizione di medicina, e di armonia, e afferma che «nella musica, nella medicina e in tutte le altre attività umane e divine, per quanto è dato, bisogna bene osservare l'uno e l'altro di questi amori: infatti sussistono ambedue».\nErissimaco infine, come Pausania, cerca anch'egli una giustificazione per l'amore omofilo, trovandola in maniera più fondata nella Physis (natura) piuttosto che nel Nomos.\n\nAristofane.\nCome quarto, rimessosi dal singhiozzo, interviene Aristofane, il quale spiega la sua devozione verso Amore per mezzo di un fantasioso, ma significativo mito. Per lui, all'origine del mondo, gli esseri umani erano differenti dagli attuali, formati da due degli umani attuali congiunti tramite la parte frontale (pancia e petto). Inoltre essi erano di tre generi: il maschile, il femminile e l'androgino, che partecipa del maschio e della femmina (cioè, appunto, ἀνδρόγυνος, 'uomo-donna'). La forma degli uomini era inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare. Questa natura doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi esseri per la loro tracotanza, al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero al potere degli dei (d'altro canto, eliminarli del tutto avrebbe comportato la perdita dell'unica forma vivente da cui gli dei erano venerati).\n\nMa da questa divisione in parti nasce negli umani il desiderio di ricreare la primitiva unità, tanto che le 'parti' non fanno altro che stringersi l'una all'altra, e così muoiono di fame e di torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare che gli uomini si estinguano, manda nel mondo Eros affinché, attraverso il ricongiungimento fisico, essi possano ricostruire 'fittiziamente' l'unità perduta, così da provare piacere (e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere.\n\nAgatone.\nPer quinto parla il padrone di casa, Agatone, che definisce Amore il dio più bello e più nobile. Egli si incarica di dire «qual è e di quali beni artefice» è Amore. «Amore è il più felice perché è il più bello e il migliore. È il più bello perché è tale: anzitutto è il più giovane tra gli dei», e inoltre «è il più giovane e il più soave, e oltre a ciò è come flessuoso nell'aspetto. Non sarebbe infatti in grado di abbracciarsi ovunque, né di entrare in ogni anima di nascosto e poi uscirne se fosse inflessibile». Da sottolineare l'affermazione che «tra Amore e bruttezza c'è sempre guerra», poiché Amore simboleggia la bellezza, «la sua esistenza tra i fiori reca una testimonianza della bellezza della carnagione del dio». Egli non fa ingiustizia né la subisce, perché 'giustizia', 'morigeratezza', 'potenza' e 'sapienza' sono le virtù che lo contraddistinguono:.\n\nAgatone compone anche versi in onore di Amore:.\n\nE conclude il suo discorso tessendone un elogio molto poetico.\n\nSocrate.\nSocrate interviene per sesto e ultimo. Sulle prime tenta di schermirsi per la sua incapacità come oratore, ma sostenuto dalla convinzione che su ogni cosa «basta dire la verità», decide di fare lo stesso anche con Eros, scegliendo ed ordinando nel modo migliore le cose più belle. Infatti gli elogi di Eros fatti dai precedenti oratori poggiavano tutta la loro efficacia sul dispiego della retorica e su argomentazioni sofistiche, arrivando a gareggiare nell'associare ad Eros i migliori benefici. Socrate invece, come detto, partirà dalla verità.\nIn sostanza, «Amore è amore di alcune cose», in particolare «di quelle di cui si avverte mancanza». A questo punto sul discorso di Socrate si innesta quello di Diotima, sacerdotessa di Mantinea, maestra di Socrate della concezione di Amore. Secondo essa «Amore non è bello [...] e non è neanche buono», fu concepito da Penìa (Povertà), che come detto dalla sacerdotessa approfittò di Póros (la Via), ubriaco, alla festa del genetliaco di Afrodite: egli è quindi un essere intermedio tra il divino e l'umano che, assieme alle qualità positive, assomma in sé anche quelle negative. Socrate, come apprende da Diotima, era caduto nello stesso equivoco nel quale cadono tutti o quasi tutti gli uomini che in Amore vedono solo il lato più bello. Tutto questo deriva dal fatto che Amore viene identificato con l'amato e non con l'amante: il primo è delicato, compiuto, il secondo invece è quale appare nella descrizione che Diotima ne viene facendo. Ma qual è la molla che spinge l'amante verso l'amato? L'attrazione della bellezza può essere uno stadio, ma non se è fine a se stessa: tra gli uomini chi è fertile nel corpo è attratto dalla donna e cerca la felicità nella discendenza della prole e nella continuità, chi invece è fertile nell'anima cerca un'anima bella a cui unire la propria, e può creare con questa una comunanza più profonda di quella che si può avere con i figli. Su questo piano chi ama riuscirà «a capire che tutto il bello che riguarda il corpo è cosa ben da poco». Quindi accusa gli altri di aver attribuito false qualità ad Eros.\n\nAlcibiade: «Socrate è un sileno».\nDopo che Socrate ha concluso il suo discorso, irrompe nella sala del banchetto Alcibiade ubriaco e, dopo una breve schermaglia con Socrate, ne tesse il più splendido elogio. Pur senza aver udito le considerazioni di Socrate, Alcibiade viene a darne la più viva e diretta dimostrazione: Socrate gli è stato maestro, amico, gli ha salvato la vita in battaglia, gli ha fatto attribuire dagli strateghi, in guerra, quei riconoscimenti che avrebbe meritato per sé.\n\nSocrate gli ha resistito quando egli gli ha fatto dono della propria bellezza, perché non a questo mirava. Era attratto piuttosto «dalla bellezza in sé, genuina, pura, non mescolata, non incorporata di carni umane, né di colori, né di ogni altra vacuità mortale». Era desideroso di contemplare la «bellezza divina nel suo unico aspetto».\n\nFilm.\nNel 1988, il regista italiano Marco Ferreri ha trasposto filmicamente, per la televisione francese, alcuni dialoghi del Simposio ne Il banchetto di Platone.
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### Titolo: Sindrome di Cassandra.\n### Descrizione: La sindrome di Cassandra è ritenuta una patologia che porta a formulare sistematicamente profezie avverse circa il proprio o altrui futuro.\nCiò denota una tendenza psicologica maniacale che spesso denota depressione da parte del paziente. Il nome della patologia deriva dal mito di Cassandra.\nQuella di Cassandra è una sindrome da fine del mondo tipica dei passaggi di crisi culturali. Come nella vicenda della mitica profetessa troiana condannata a non essere creduta, la previsione apocalittica esibisce anzitutto una singolare struttura prolettica: è la rivelazione stessa che, mentre annuncia la catastrofe, la rende ineluttabile per cause connesse, in definitiva, non al problema in sé ma ai modi della comunicazione e delle dinamiche dell'organizzazione sociale.\nLa sindrome di Cassandra contiene in sé complesse tendenze (auto/etero) colpevolizzanti, sullo schema della personalità corporativa e delle dinamiche vittimali del capro espiatorio e della sostituzione vicaria. Simile ad un eroe cosmico, il cui sentire esprime una sua misteriosa comunione con le più profonde energie collettive, la cassandra attira su di sé la punizione proponendosi come sostituto espiatorio a nome della collettività; fa leva sulle paure collettive e accentua i caratteri apocalittici della propria predicazione allo scopo di rendere più promettente l'offerta salvifica di sé.\nRichiamando l'attenzione sulla propria persona, e distogliendola, in definitiva, dal problema incombente e da una possibile soluzione preventiva, la cassandra mitizza i contorni del problema stesso celandone le vere dimensioni storiche e politiche. Il complesso esita in una profonda frustrazione per l'incapacità di agire tempestivamente ed efficacemente: Cassandra finisce per distruggere se stessa; mentre trova conferma della propria ideologia di salvezza, provoca, proprio per questo, la catastrofe collettiva annunciata.\n\nCaratteristiche.\nSecondo la psicoanalista junghiana Laurie Layton Schapira, chi soffre di sindrome di Cassandra ha la tendenza a creare relazioni disfunzionali, in particolare con quello che ella definisce archetipo Apollo. L'archetipo Apollo crea legami che vertono sulla distanza emotiva. Anche i partner scelti, dunque, tenderanno a creare una serie di conferme alle profezie di Cassandra.
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### Titolo: Sirena di Modena.\n### Descrizione: La Sirena di Modena è un falso mostro, un ibrido artificiale realizzato nella prima metà dell'Ottocento. Si tratta di un manufatto mostruoso, in parte pesce e in parte di forma vagamente antropomorfa, assemblato per soddisfare il gusto per l'esotico ed il grottesco dei collezionisti ottocenteschi. Di probabile origine orientale, la sirena entrò a far parte delle collezioni del Museo civico di Modena nel 1875.\n\nOrigine dell'esemplare modenese.\nLa piccola sirena esposta al Museo di Modena è un pastiche ottocentesco di materiali eterogenei: gesso, parti di pesce e parti di scimmia.\nLa donazione della sirena al Museo civico di Modena per opera del nobile modenese Pietro Sghedoni è ricordata da Carlo Boni, primo direttore del Museo, nel suo rapporto di direzione per il 1875-76, dove descrive il curioso oggetto come 'imitazione, forse fatta da mano indiana del noto mostro favoleggiato dai nostri poeti classici e naturalisti poeti'. Boni era dunque perfettamente consapevole di avere a che fare con un manufatto creato dall'uomo.\nLa sirena si presenta adagiata in posizione prona, con il torso sollevato e sostenuto dalle braccia. Il volto grottesco è marcato da profonde ed esasperate linee d'espressione, le labbra socchiuse mostrano denti affilati e gli occhi sono resi da semplici impronte circolari con bordo rialzato. Il corpo della sirena è realizzato in modo da ricordare quello di un animale mummificato per essiccazione, con le ossa ben prominenti e un colorito bruno.\nQuesta pseudo-sirena era giunta nelle mani di Sghedoni probabilmente dal mercato antiquario francese, come testimonia una fotografia firmata con il cartiglio del fotografo parigino C. Lebert di Rue de Sevres 21, in cui la sirena è ritratta 'in posa' nell’ovale tipico delle carte de visite. Il manufatto arrivò a Modena negli anni '70 dell'Ottocento, accompagnata da ritagli di giornale degli anni '20 e '30 che riportavano notizie di avvistamenti e recuperi di esseri simili nel nord della Cina e nel Mar di Marmara. Questi articoli probabilmente volevano essere una sorta di certificato di autenticità, forse per convincere l'acquirente della reale esistenza di queste creature o forse, più verosimilmente, per rievocare il clima di metà secolo, quando si era verificata una vera e propria esplosione di interesse e curiosità nei confronti di questi piccoli ibridi dalle sembianze umanoidi. È in questo contesto che proliferò la creazione e la vendita di eclettici ibridi, spacciati come resti mummificati di creature misteriose.\n\nBarnum e la sirena delle Figi.\nAd alimentare l'attrazione per tutto ciò che era ritenuto raro, deforme o bizzarro, aveva contribuito in modo determinante Phineas Taylor Barnum, il geniale inventore dei musei popolari americani, luoghi di intrattenimento a basso costo che con intento ludico-educativo proponevano esposizioni di rarità, freak show con giganti, nani, albini, ventriloqui e animali ammaestrati, e anche la presentazione di qualche diorama e di una grande quantità di sofisticati automi androidi.\nAgli inizi degli anni '40 dell'Ottocento Barnum ottenne in prestito dal politico Moses Kimball un esemplare di sirena molto simile a quello del Museo di Modena: si diceva fosse stato recuperato in Cina, o che fosse stato realizzato da marinai giapponesi come scherzo o come oggetto di culto per cerimonie religiose, e che già negli anni '20 fosse stato esposto al pubblico in un caffè londinese. Barnum era pienamente consapevole che la piccola sirena fosse un falso, ma era deciso comunque a farne la star del suo museo, facendo leva sulla credulità della gente e sfruttando il fascino per l'eclettico molto in voga ai tempi. Lo strabiliante lancio pubblicitario da lui architettato per attrarre il pubblico pagante fu decisamente all'avanguardia per quei tempi: istruì il suo assistente affinché indossasse i panni di un sedicente Dr. Griffin del Liceo di Storia Naturale di Londra, per poi registrarsi in un hotel di Filadelfia e mostrare al direttore dell'albergo, in gran segretezza, la 'piccola sirena'. Seguendo le indicazioni di Barnum, il suo assistente descrisse il manufatto come un raro esemplare di sirena recuperato alle isole Figi e da lui acquistato in Cina per il suo Liceo. In breve tempo la notizia comparve sul New York Herald e su altri autorevoli testate dell'East Coast: nel 1842 la 'sirena delle Figi' (Feejee Mermaid), come era stata ribattezzata, fece registrare al museo Barnum il record di incassi. Oltretutto questo falso ibrido era stato presentato al pubblico dalla voce 'autorevole' Dr. Griffin come l'anello di congiunzione fra l'uomo e il pesce.\nPurtroppo la sirena originale esposta da Barnum non sopravvisse ad un incendio che alla fine del secolo distrusse la collezione di Kimball, alla quale il manufatto era ritornato.\n\nAltri esemplari.\nSulla scia del successo della sirena delle Figi, si generò un vero e proprio commercio di questi esemplari contraffatti, prodotti unendo alla coda di un pesce componenti di vari animali (piccole scimmie, uccelli) o integrando in cartapesta le parti del corpo mancanti, talvolta anche aggiungendo qualche ciuffo di pelo di colorazione chiara. È possibile che ad una iniziale produzione di questi ibridi artificiali in estremo oriente si sia poi affiancata una produzione quasi seriale in Europa e in America da parte di tassidermisti locali che lavoravano su commissione per conto di collezionisti privati, musei di curiosités e produttori di spettacoli dal vivo. A tale produzione in serie è da ricondurre l'utilizzo della medesima posa nella maggior parte degli esemplari.\nChe l'origine del fenomeno delle sirene delle Figi sia da ricercare nei paesi orientali è suffragata dalla presenza nella mitologia e nei racconti popolari giapponesi di creature soprannaturali, le ningyo, descritte con torso umano, denti e coda di pesce, e bocca di scimmia. Rappresentazioni di ningyo si potevano trovare in Giappone, in santuari scintoisti e buddhisti, e potevano essere acquistate anche da viaggiatori occidentali nel corso dei misemono, tradizionali eventi carnevaleschi, tra XVIII e XIX secolo. Le sembianze di queste creature ricordano evidentemente le piccole sirene delle Figi; altri aspetti, come il fatto che le ningyo abitavano negli oceani e possedevano dolci voci flautate, riecheggiano invece la figura mitologica della sirena secondo la tradizione occidentale.\nTra gli eccentrici esemplari di pseudo-sirene tuttora conservati, oltre a quello del Museo di Modena, si ricordano a titolo esemplificativo e non esaustivo: la sirena esposta al Peabody Museum dell'Università di Harvard, quella al Booth Museum di Brighton, quella presso il Horniman Museum and Gardens di Londra, quella conservata nei depositi del Nature Museum di Grafton, quella esposta al Buxton Museum & Gallery e quella custodita al British Museum, forse settecentesca.Infine è da segnalare l'impressionante somiglianza tra la piccola sirena di Modena e quella conservata nelle collezioni del Mead Art Museum dell'Amherst College, sia per quanto riguarda la fisionomia e la posa, che per i materiali utilizzati: la coda di pesce sembra essere della stessa specie in entrambi i manufatti; inoltre i solchi delle costole, delle clavicole, le rughe d'espressione sul volto e la fattura di altri elementi come orecchie e bocca sono talmente simili nelle due sirene da sembrare realizzati a stampo. Sulla base di ciò si può verosimilmente ipotizzare la provenienza di entrambi i manufatti dalla medesima bottega artigianale. Anche la sirena del Horniman Museum mostra grande somiglianza, soprattutto nella postura, mentre torso, testa e braccia, per quanto similari, danno prova di essere stati realizzati da una mano diversa.\nNella seconda metà dell'Ottocento i gusti dell'epoca iniziarono a cambiare e, parallelamente al progressivo declino delle esposizioni di bizzarre rarità ed esseri straordinari, anche la fama delle piccole sirene venne lentamente meno. Alle porte del Novecento nuove forme di divertimento guadagnavano l'attenzione del pubblico, come i primi film in bianco e nero. Ormai la maggior parte degli esemplari di false sirene in circolazione era entrata a far parte di collezioni pubbliche o private, sebbene la produzione di ibridi artificiali si protrasse in alcuni casi fino agli esordi del Novecento, con evidenti variazioni stilistiche rispetto agli originali ottocenteschi.\nManifestazioni tarde del fenomeno delle sirene delle Figi sono ad esempio l'esemplare del 1915 circa esposto in una vetrina presso l'Indian Trading Post di Banff e l'esemplare degli anni '20 del Novecento esposto al Ye Olde Curiosity Shop di Seattle.Di datazione incerta è l'esemplare conservato al Museo della scienza di Londra, appartenente al tipo prono come la maggior parte degli esemplari conservati, ma dotato di folti ciuffi di pelo.In aggiunta, si potrebbe dire anche che il fascino antiquario per le cosiddette sirene delle Figi non si sia mai esaurito del tutto: oltre ai già citati esempi novecenteschi infatti si può osservare come ancora adesso, nel XXI secolo, siano in commercio repliche e rivisitazioni di tali ibridi prodotte da artisti contemporanei.Anche in Italia non mancano falsi del genere, reperti confezionati con parti di animali; per esempio nel Museo civico di storia naturale di Milano, e nel Museo civico di storia naturale di Venezia.\n\nLa fortuna della sirena di Modena.\nGli ibridi artificiali presentati come sirene sembrano dunque essere nati in Giappone come rappresentazione religiosa e culturale delle ningyo, per poi nel tempo subire un'evoluzione di significato, diventando manufatti dalle forme quasi caricaturali, associati all'idea occidentale di sirena e realizzati appositamente per il collezionismo estero amante dell'esotico e dell'eclettico, fino a divenire nel corso del XX secolo il prodotto di un artigianato estremamente di nicchia svolto soprattutto da tassidermisti americani.L'esemplare modenese è certamente tra i meglio conservati e noti della sua specie in ambito europeo: ciò ha fatto sì che la sirena sia stata spesso richiesta in prestito da altri istituti museali per essere presentata nell'ambito di esposizioni temporanee, e in particolare nell'ambito di mostre che indagavano la tradizione e la fortuna nei secoli passati di tutte quelle figure definite mostruose o mitologiche. La pseudo-sirena modenese, permanentemente esposta all'interno del Museo civico di Modena nella bacheca delle collezioni orientali, ha dunque preso parte alle seguenti mostre temporanee:.\n\nAnimali. Tiere und Fabelwesen von der Antike bis zur Neuzeit, presso il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo, 1 marzo - 14 luglio 2013.\nSangue di drago, squame di serpente, presso il Castello del Buonconsiglio di Trento, 10 agosto 2013 - 6 gennaio 2014.\nMonster. Fantastische Bilderwelten Zwischen Grauen und Komik, presso il Germanisches Nationalmuseum di Norimberga, 7 maggio - 6 settembre 2015Inoltre nel 2006 la sirena è stata l'indiscussa protagonista di una mostra allestita nel Museo civico di Modena nell'ambito del Festivalfilosofia, edizione dedicata al tema 'umanità'.
@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Sirene (mitologia).\n### Descrizione: La sirena (dal latino tardo sirēna, classico sīrēn – pl.: sīrēnes, trascrizione del greco Σειρήν, Seirḗn – pl.: Σειρῆνες, Seirênes) è una creatura favolosa della mitologia classica, raffigurata con la parte superiore del corpo di donna, e quella inferiore di uccello, o, a partire dal Medioevo, di pesce. Il canto melodioso delle sirene ammaliava i naviganti e provocava naufragi.\n\nEtimologia.\nDeriva dal latino tardo sirena, classico siren, dal greco Seirén. Secondo alcuni dalla radice del sanscr. svar (= cielo), gr. seírios (= splendente). Altri, partendo dal mito, hanno proposto il gr. syro (= io attraggo) o seiráo (= io incateno); altri ancora sono ricorsi all'ebr. sir (= canto); inoltre si è pensato a una radice indoeuropea svar- (= suonare), da cui lit. svirati (= suonare il flauto), anglo-sass. sarian (= parlare), gr. syflrincs (= flauto, zampogna) e syrízein (= suonare il flauto).\n\nLa cultura letteraria dell'antichità classica.\nL'origine letteraria, nell'antichità classica, della figura delle sirene è nell'Odissea di Omero dove vengono presentate come cantatrici marine abitanti un'isola presso Scilla e Cariddi, le quali incantavano, facendo poi morire, i marinai che incautamente vi sbarcavano. Le Sirene tentano Odisseo con l'invito 'a sapere più cose'. L'invito alla conoscenza 'onnisciente' che fa perdere i propri legami familiari e civili interrompendo il proprio viaggio nella vita è condannato da Omero. La loro isola mortifera era disseminata di cadaveri in putrefazione. Odisseo, consigliato da Circe, la supererà indenne.\n\nPer via del loro canto melodioso esercitavano sugli uomini un mortale incantesimo: Ulisse, ascoltando i consigli di Circe, si fece legare all'albero della nave per poterle ascoltare senza correre verso loro ché lo avrebbero in breve ucciso. Obbligò però i compagni a tapparsi le orecchie con cera. Già gli Argonauti erano sfuggiti al loro incantesimo perché Orfeo le aveva superate nel canto. Sconfitte una seconda volta, da Ulisse, si gettarono in mare dove divennero scogli, come aveva loro profetizzato un oracolo. Le Sirene, secondo Omero, erano due, ma successivamente divennero molte di più; la più famosa fra esse fu Partenope (= vergine), che diede il suo nome all'omonima città (l'attuale Napoli). Erano note anche Leucosia (= dea bianca), Aglaofeme (= voce meravigliosa), Ligea (= voce chiara), Molpe, Imeropa (= voce che suscita nostalgia), Pasinoe (= maliarda).Nella tradizione figurativa e in quella letteraria le sirene sono generalmente tre, si tratta delle sorelle Partenope, Leucosia e Ligea.\nSecondo un racconto antico le tre sirene che tentarono Odisseo si uccisero gettandosi in mare perché non erano riuscite a trattenere l'eroe. Una di esse, Partenope, si arenò sulla spiaggia di ciò che diverrà la città di Napoli e a lei vennero dedicati giochi annuali, le Lampadedromie. Il corpo di Leucosia emerse nelle acque del golfo di Poseidonia (Paestum) da cui il nome di Leucosia dato a un'isoletta presso quella città, Punta Licosa. Le onde del mar Tirreno avrebbero invece rigettato il corpo di Ligea sulla riva tirrenica della Calabria, presso l'antica città di Terina, dove ora sorge Lamezia Terme. La sirena Ligea, raffigurata con un busto di donna con le braccia nude ed il corpo di uccello con coda e ampie ali, compare in varie monete di Terina, seduta su un cippo mentre gioca con una palla, oppure mentre riempie un'anfora con l'acqua che sgorga dalla bocca di un leone.\nOmero non descrisse l'aspetto fisico delle sirene; a tal proposito si è presupposto che ciò sia dovuto al fatto che sia il cantore che l'uditore conoscessero bene le forme di queste creature grazie ad altri racconti mitici già diffusi, come le avventure di Giasone e degli Argonauti.\n\nCome Odisseo anche Orfeo, nelle Argonautiche riportate da Apollonio Rodio, salva il suo equipaggio composto dagli Argonauti. Arrivati nei pressi di Antemoessa, l'isola delle sirene, gli eroi avvistarono questi esseri 'simili a fanciulle nel corpo ed in parte uccelli'. Il canto delle sirene stava spingendo gli eroi a gettare gli ormeggi sulla riva, quando Orfeo prese la cetra Bistonia e risvegliò dalla malía i suoi compagni, intonando una canzone allegra e veloce. Omero riporta il canto delle sirene, intonato per causare la morte di Odisseo e del suo equipaggio:.\n\nAscendenza.\nApollonio Rodio riprende la narrazione delle sirene figlie di Acheloo (in altre fonti di Forco) che, come ricorda Károly Kerényi, era la divinità fluviale e marina, figlia di Teti e di Oceano ma che Omero pose una volta davanti allo stesso Oceano 'origine di tutte le cose'.\nLibanio, nella Progymnasmata IV, ricorda che Eracle aveva staccato un corno al dio acquatico quando lottò con lui per conquistare l'affascinante Deianira e dalle gocce di sangue cadute dalle ferite provocate al dio erano nate le sue figlie, le sirene.\n\nUn'altra tradizione, riportata da Pseudo-Apollodoro, le vuole figlie di Acheloo e di Melpomene, una delle Muse e dà loro la forma di uccello, dalle cosce in giù. Con il suono della cetra, dell'aulo e del canto, persuadevano i navigatori a fermarsi. Lo stesso racconto narra di una profezia per la quale le sirene sarebbero morte se una nave fosse riuscita a sfuggirgli.\n\nRappresentazione.\nSeirênes (Σειρῆνες), nome plurale femminile nella antica lingua greca, nella sua forma maschile significa 'vespe' o 'api', è collegato quindi alla figura di Penfredo: una delle Graie, le 'vergini simili a cigni'. I pittori vascolari rappresentavano le sirene anche come esseri maschili con la barba e sia se fossero di forme maschili o femminili, si può individuare la loro natura per il corpo che richiama sempre quello di un uccello (con le parti inferiori a volte a forma di uovo) con una testa umana, a volte con braccia e mammelle, quasi sempre con artigli ai piedi, artigli non aventi però la funzione del rapimento, funzione propria delle Arpie, in quanto, altra caratteristica loro fondante, le sirene sono strettamente collegate al mondo della musica, suonando la lira o il doppio flauto (aulos) e accompagnandosi con il canto.\nIl loro corpo per metà donna e metà uccello sarebbe frutto di un incantesimo vendicativo da parte di Afrodite disprezzata dalle vergini sirene per i suoi amori. Un'altra tradizione le vuole punite da Demetra per non aver impedito il ratto della figlia Persefone da parte di Ade mentre insieme coglievano dei fiori. Le vergini sirene chiesero agli dei, secondo Ovidio, di essere trasformate in uccelli per poter meglio cercare la perduta amica Persefone.\nLe sirene sono anche onniscienti e in grado di placare i venti, forse con il loro canto, cantando le melodie dell'Ade.\nIl rapporto tra le sirene e il mondo dell'Ade è presente anche in Euripide quando, nell'Elena, la protagonista invoca le 'piumate vergini' affinché la consolino con la musica del flauto e della cetra. Questo canto è in relazione con il ruolo delle sirene nei culti funerari: esse stazionavano alle porte degli Inferi con il compito di consolare le anime dei defunti con il loro dolce canto e di accompagnarle nell'Ade. Questo stretto collegamento con il mondo dei morti, testimoniato dalla ricorrente presenza delle loro immagini nel corredo delle tombe, fa supporre ad alcuni autori che le sirene fossero in origine degli uccelli in cui trovavano dimora le anime dei defunti. Ciò senza contare il ruolo che gli uccelli avevano nell'antichità come tramite fra il mondo dei morti e quello dei vivi.\n\nEsemplificativi di tale tradizione sono 2 askos del V sec. a.C. provenienti dalla chora meridionale di Kroton e dalle Murgie di Petelia da ambienti funerari; nell'askos di Petelia è raffigurata una sirena con il corpo di uccello e la testa di fanciulla, con le braccia distese con in mano un melograno ed un flauto di Pan (syrinx) a simboleggiare rispettivamente il legame l'oltretomba e lo strumento che la sirena usa per accompagnare il defunto, rappresentato come un giovane portato sulle spalle della sirena (si tratta del manico del vaso).\nL'identificazione delle loro sedi, non determinata nei poemi omerici, fu stabilita successivamente nelle regioni prossime allo stretto di Messina, per via della creduta vicinanza di sede fra le Sirene e Scilla e Cariddi. Dunque, si riteneva che le Sirene abitassero presso l'Etna, Catania e Capo Posidonio, dov'era localizzato il culto della sirena Leucosia, Terina, dove si venerava sirena Ligea. Un noto centro del loro culto era anche il tempio delle Sirene, che era ubicato nella penisola di Sorrento, in correlazione probabilmente con le difficoltà della navigazione delle bocche di Capri: le vicine isolette erano denominate Sirene o Sirenuse, identificate con gli scogli detti li Galli. Strabone, in Gheographikà I,22, ci dice che i popoli marinari di Napoli, Sorrento, della Calabria e della Sicilia, le veneravano.\nVi sono due tradizioni apparentemente contraddittorie, quindi, su queste figure mitiche: una le vuole mortifere e dannose per gli uomini, mentre l'altra le indica come consolatrici per gli stessi rispetto al proprio destino e, soprattutto, alla morte. Da notare, tuttavia, che nel primo caso nulla indica una loro natura volutamente crudele, bensì è il loro destino e la loro funzione di cantatrici/incantatrici ad essere disastroso per gli uomini.\nNel V secolo d.C., le Argonautiche orfiche riassumono il mito arricchendolo di particolari: Minii e Aneo, volendo conoscere il canto delle sirene, dirigevano la nave verso il promontorio funesto. Orfeo intona allora una canto a Zeus, accompagnato dalla sua lira e mette così a tacere le sirene che si gettano dalla rocca nell'abisso del mare, mutando il loro corpo in pietra.\n\nI nomi delle sirene.\nL'origine del termine sirena è dubbio. Tra le molte ipotesi Alessandra Tarabochia Canavero, collegandosi alle osservazioni di Kurt Latte secondo le quali cessando il vento all'approssimarsi della loro ierofania e quindi con l'approssimarsi dell'ora meridiana, sostiene che esse potrebbero indicare dei demoni del calore meridiano (daemones meridiani) indicazione che potrebbe suggerire un collegamento con l'aggettivo séirios (incandescente, splendente) da cui Sirio, a sua volta collegato al sanscrito Sūrya (il deva del Sole). Altra ipotesi lega tale termine al verbo syrízo ('fischiare', 'sibilare') quindi demoni della tempesta, collegati ai vedici Marut. Oppure da seirà ('corda', 'fune', da cui anche éiro, 'legare'), riprendendo il fatto che le sirene 'legano' a sé i naviganti, li irretiscono. O più semplicemente da un semitico sir ('cantare').\nLe sirene in Omero sono due, infatti il poeta greco utilizza il duale Seirḗnoiïn, ma senza nominarle. Alcuni tardi commentatori ne suggeriscono i nomi in Aglaophḗmē e Thelxiépeia, nomi che ne indicano la 'voce' (phoné/*óps) come 'splendida' (agláe) e 'incantatrice' (thélgo). Pseudo-Apollodoro, attribuisce loro i nomi di Pisinoe, Aglaope e Telsiepia.\nTradizioni successive di matrice 'pseudo-esiodea' portano il numero delle sirene da due a tre indicando la terza con il nome di Peisinóē (da peítho, 'persuadere' e noús 'mente').\n\nLe sirene nella teologia classica.\nLe sirene sono parte della teologia classica sin da Platone che nel Cratilo. Lì Socrate osservava che le sirene partecipano al desiderio delle anime dei morti, spoglie dei loro corpi, di permanere nel regno di Ade. Questo desiderio corrisponde al desiderio della virtù e alla figura del 'filosofo'.Nella Repubblica, Platone narra il mito di Er figlio di Armenio soldato della Panfilia che, morto in combattimento, torna tra i vivi e racconta ciò che ha visto nell'aldilà. Alla luce delle indicazioni teologiche di Platone, il medioplatonico Plutarco scrive di come Ammonio l'Egiziano rese coerenti le Sirene platoniche con quelle omeriche. Guida delle anime nell'aldilà, Sirene suonano una musica il cui incantesimo ha il potere di portare l'oblio dei ricordi mortali alle anime, avvicinandole al Cielo. Gli echi della musica delle Sirene, sulla Terra, porta ai mortali i ricordi delle vite passate.\nIl canto delle Sirene nei cieli è senza parole, è l'armonia, la musica delle sfere. Il neoplatonico Giamblico, scrive che queste stesse armonie Pitagora faceva ascoltare ai suoi allievi per purificarli e portare loro bei sogni. Lo stesso Giamblico riporta del ruolo importante delle Sirene per la scuola pitagorica degli acusmatici, per la quale esse fanno parte dell'armonia, ossia la tetrade e l'oracolo di Delfi.\n\nLa metamorfosi da 'donne-uccello' a 'donne-pesce'.\nNell'antica mitologia greca, le Sirene (Σειρῆνες Seirénes) erano creature dal volto di donna e il corpo di uccello, ma dotate di una voce dolcissima e ammaliante.\nA partire dal Medioevo, la tradizione cominciò a immaginarle e raffigurarle con l'aspetto di belle fanciulle con la coda di pesce al posto delle gambe.Secondo Edmond Faral, il Liber monstrorum de diversis generibus, scritto in ambiente anglosassone nell'VII secolo, è il primo testo nel quale le sirene vengono esplicitamente descritte come donne-pesce:.\n\nNel folclore, la sirena è una creatura acquatica con la testa e la parte superiore del corpo di donna e la coda di pesce. La sirena appare principalmente nel folclore europeo, ma trova figure affini in quasi tutte le culture del mondo.\nIn lingua inglese le fanciulle con la coda di pesce sono dette mermaid, mentre le originali sirene greche siren. Tuttavia nei secoli passati i due termini vennero frequentemente usati come sinonimi e durante il Rinascimento inglese erano intercambiabili.\n\nIconografia medievale.\nGli studiosi hanno dibattuto a lungo sul significato delle numerose raffigurazioni di sirene realizzate nel corso del Medioevo, soprattutto nelle costruzioni religiose. Assenti nella Bibbia, la loro origine affonda le sue radici nel paganesimo, non solo greco-romano, ma anche in quello etrusco, celtico e orientale. Deve la sua presenza nelle chiese a solide credenze popolari, più che ad insegnamenti religiosi.Le sirene nell'iconografia medievale apparivano ammaliatrici, grazie al loro bel corpo femminile (seppur terminante in una coda di pesce), canto ed arte seduttoria, ma allo stesso tempo false, tentatrici ed ingannevoli, pronte ad uccidere dopo aver incantato. Sono quindi simbolo di peccato che porta a morte e con l'avvento del Cristianesimo sono diventate sempre più simbolo di lussuria, tentazione che allontana da Dio e porta alla condanna divina.\nLe sirene furono quindi l'emblema della lussuria per la morale cristiana medievale, e secondo alcuni studiosi le comuni raffigurazioni di sirene sui capitelli e all'interno delle chiese romaniche, sono un monito contro i peccati carnali. Inoltre sono spesso raffigurate con in mano un pettine e uno specchio, l'uno a indicare la sensualità (nel gesto del pettinarsi i lunghi capelli, un tempo potente strumento di seduzione), l'altro a sottolinearne la vanità.Secondo un paganesimo più antico e di origine più incerta, la sirena rappresentava la dea madre, colei che dà e toglie la vita, guida, guarisce, nutre, custodisce, vede, sente e sa, ama, tesse e collega. Secondo altri studiosi la sirena è quindi simbolo positivo di fertilità e protezione negli edifici religiosi. In particolare, la sirena bicaudata rappresenta la madre che spalanca il ventre per generare ed immortalare il genere umano, la famiglia, la comunità.Il duplice significato delle immagini nell'arte medievale è assai ricorrente e talvolta è il contesto delle immagini vicine che fornisce il giusto simbolismo dato da un dato artista in una data chiesa.\n\nSirene nel mondo.\nCulture antiche.\nRaffigurazioni di entità con la coda di pesce, ma la parte superiore del corpo di esseri umani compaiono già nell'arte mesopotamica. Per il suo aspetto pisciforme, la dea assira Atargatis viene oggi considerata la prima 'sirena' della storia dell'umanità.\n\nEuropa.\nAll'interno della St. Senara's Church, chiesa di San Senara del XII secolo, a Zennor (Cornovaglia), si trova una delle più note rappresentazioni di una sirena, una scultura lignea in altorilievo, sul lato di una sedia, un simbolo che ha avuto diverse interpretazioni da parte dei fedeli medievali. La leggenda locale, La sirena di Zennor sostiene che questa figura commemori un evento reale dalla storia parrocchiale, quando il canto di un corista di nome Mathew Trewhella, avrebbe adescato una sirena a giungere a terra dalle profondità del mare. Secondo il racconto ogni domenica essa si sedeva in fondo alla chiesa, incantata dalla sua bella voce. Un giorno, non più contenendo la sua infatuazione, lo portò al piccolo ruscello che scorre ancora attraverso il centro del paese e porta in mare a Cove Pendour nelle vicinanze. Mathew Trewhella non fu mai più visto. Nelle calde serate estive, a piedi nella pittoresca insenatura ora chiamata 'Mermaid Cove', si dice che si sentano i due amanti cantare felici insieme, e le loro voci passano ascoltabili attraverso il fragore delle onde che si infrangono.\nNegli Annali dei Quattro Maestri, cronaca medievale della storia d'Irlanda, si narra di Lí Ban, una ragazza che venne trasformata in una sirena immortale, mentre stava affogando nel Lough Neagh. Dopo 300 anni la sirena fu battezzata da Comgall di Bangor e scelse di rinunciare alla sua immortalità per salire in paradiso. Nelle genealogie dei santi irlandesi Lí Ban compare canonizzata sotto il nome di Santa Muirgen (che significa 'nata dal mare'), il suo giorno onomastico è assegnato al 27 gennaio.\nNel folclore scozzese Ceasg è una sirena dalla coda di salmone che, se catturata, in cambio della libertà esaudisce tre desideri. Il folclorista Donald Alexander Mackenzie suggerì che Ceasg potrebbe essere stata anticamente una divinità delle acque a cui venivano offerti sacrifici umani.\nNella tradizione danese le sirene possono far sparire la loro coda di pesce, per poter camminare sulla terra come gli esseri umani. A volte vanno a bussare alle case dei pescatori, fingendosi ragazze bisognose d'aiuto. Chiunque sia abbastanza incauto da farle entrare, viene poi trascinato nell'acqua e annegato. Possiedono inoltre poteri particolari: secondo una leggenda una sirena predisse la nascita del Re Cristiano IV di Danimarca.\nLa Sirena di Varsavia, stemma ufficiale della città, è protagonista di una leggenda, narrata in innumerevoli versioni differenti. Secondo una versione, la sirena uscì dall'acqua per riposarsi ai piedi di quella che oggi è la Città Vecchia, il posto le piacque talmente che decise di stabilirvisi. I pescatori che vivevano nella zona ben presto si accorsero che quando pescavano qualcuno agitava le acque del fiume aggrovigliando le reti e liberando i pesci che vi si erano impigliati. Decisero allora di dare la caccia al colpevole e farla finita con questi danneggiamenti una volta per tutte; ma quando sentirono il canto ammaliante della sirena, se ne innamorarono, rinunciando ai loro propositi. Da quel momento, la sirena ogni sera intratteneva i pescatori con le sue meravigliose canzoni, finché un giorno un ricco mercante, che passeggiava lungo la riva del fiume, posò lo sguardo sull'affascinante creatura. Subito pensò che, se l'avesse catturata, avrebbe potuto guadagnare molto denaro, esibendola alle fiere. Il mercante mise in atto velocemente il suo piano malvagio: con un trucco catturò la sirena, e la rinchiuse in una baracca di legno senza accesso all'acqua. I pianti della donna-pesce arrivarono a un giovane bracciante, figlio di un pescatore, che con l'aiuto di un amico una notte riuscì a liberarla. La sirena, riconoscente dell'aiuto ottenuto dagli abitanti della città, promise che, se mai fossero stati in pericolo, lei sarebbe tornata per proteggerli. È per questo motivo che la sirena di Varsavia è raffigurata mentre brandisce una spada e uno scudo. Una versione più moderna della leggenda arriva fino a raccontare che le sirene fossero due, tra loro sorelle. Una delle due decise di allontanarsi nuotando verso lo stretto di Danimarca e oggi la si può ammirare seduta su uno scoglio all'ingresso del porto di Copenaghen. L'altra nuotò fino al fiume Vistola, e oggi la si può ammirare nel centro storico di Varsavia.\n\nAsia.\nSuvannamaccha è una principessa sirena, citata nelle versioni cambogiane e tailandesi dell'opera epica orientale Rāmāyaṇa, che racconta le vicende della guerra tra Rama e Ravana con il suo esercito di scimmie.\nSirene e Tritoni sono figure molto popolari nel folclore filippino, dove sono localmente noti rispettivamente come Sirena (deriva dallo spagnolo) e Siyokoy. Solitamente tartarughe marine e delfini nuotano assieme alle sirene filippine.\nIn alcuni racconti antichi provenienti dalla Cina, le lacrime delle sirene si trasformano in perle.\nLe ningyo (人魚? lett. 'pesce-umano', 'sirena') sono la controparte giapponese delle sirene.\n\nAfrica.\nMami Wata è una divinità delle acque venerata in molti paesi africani. È comunemente ritratta come una sirena, sebbene abbia anche altre forme.\nNelle antiche credenze dei popoli africani alcuni spiriti acquatici erano per metà pesci e per metà umani, ma molti altri sembravano serpenti o coccodrilli. Nel 1500 iniziarono ad arrivare dall'Europa navi con statue di sirene sulle prue, così le leggende africane si mescolarono con quelle europee.\n\nAmerica.\nIara o Mãe-d'Água è, secondo il folclore brasiliano e la mitologia Guaraní, una bellissima sirena che vive nel Rio delle Amazzoni.\n\nAvvistamenti.\nNel corso della storia si sono verificati diversi presunti avvistamenti di sirene.\nNel 1493 Cristoforo Colombo dichiarò di aver avvistato tre sirene mentre navigava. Secondo la trascrizione del suo diario di bordo, ad opera di Bartolomé de Las Casas:.\n\nDurante il secondo viaggio di Henry Hudson, il 15 giugno 1608, i membri del suo equipaggio riferirono di aver avvistato una sirena nell'Oceano artico, nel Mare di Norvegia o nel Mare di Barents.\n\nDue avvistamenti di sirene furono segnalati in Canada vicino a Vancouver e Victoria, uno tra il 1870 e il 1890, l'altro nel 1967.Nel giugno 1881 un pescatore della Pennsylvania riferì di ben cinque avvistamenti di una sirena nel fiume Susquehanna, vicino a Marietta.\nNel corso dell'Ottocento si diffuse in Europa e poi in America il fenomeno delle 'sirene delle Figi', ibridi artificiali e mostruosi creati per soddisfare il gusto per il bizzarro ed il grottesco dell'epoca e spacciati come prova dell'esistenza delle sirene. Per realizzare questi eclettici collage, che spopolarono all'interno dei sideshow americani e delle collezioni pubbliche e private di mezzo mondo, si utilizzavano parti di diversi animali mummificati e altri materiali, come cartapesta e legno. La 'sirena delle Figi' fu resa famosa per la prima volta da Phineas Taylor Barnum, che la mostrò all'interno dei propri spettacoli.Nel 1962 il pescatore genovese Colmaro Orsini riferì di essersi appostato per la pesca su una scogliera a Bocca di Magra, quando udì una dolce melodia provenire dal mare e poi vide emergere una testa di donna dai capelli verdi che lo fissava; dopo pochi istanti l'essere - che mostrava una coda di pesce azzurrognola - si allontanò, lasciando una sottile scia, verso Punta Bianca di Spezia.Nell'agosto del 2009, Natti Zilberman, portavoce del consiglio comunale di Kiryat Yam, promise un milione di dollari a chi fosse riuscito a dimostrare con prove tangibili l'esistenza delle sirene.«Molte persone ci dicono che sono certe di aver visto una sirena e si tratta di persone che non hanno alcun rapporto tra loro», dichiarò ai giornalisti. «La gente dice di aver visto una figura femminile, metà giovane donna e metà pesce che salta come un delfino e compie diverse acrobazie prima di scomparire». Zilberman negò che l'offerta del premio fosse un espediente pubblicitario, ma ammise di sperare in un massiccio aumento del turismo a Kiryat Yam.\n\nDal punto di vista scientifico.\nI principali parametri scientifici rendono impossibile l'esistenza delle sirene. Una delle spiegazioni più plausibili agli avvistamenti è che i marinai scambiassero la sagoma di alcuni mammiferi acquatici, come i dugonghi o i lamantini, per un corpo femminile dalla metà di pesce. Non a caso Sirenia, il nome dato ai mammiferi marini a cui appartengono i lamantini, è in riferimento alle sirene della mitologia (dal latino tardo Sirēna, trascrizione del greco Σειρήν Seirḗn).\n\nSirenomelia.\nLa sirenomelia, conosciuta anche con il nome di sindrome della sirena, è una rara malformazione congenita nella quale gli arti inferiori sono fusi insieme, assumendo così le sembianze della coda di una sirena.\n\nProblema della sirena.\nIl problema della sirena è un paradosso a volte citato in letteratura, in psicologia o in altri contesti, sull’incompatibilità dei rapporti sessuali tra un essere umano ed una sirena. Benché infatti le sirene siano spesso dipinte come attraenti e affascinanti donne (almeno nella loro parte fisicamente umana) e benché presentandosi sempre nude accrescano ulteriormente il potere seducente della loro bellezza, accettando l'anatomia tramandata in tutti i miti delle sirene, esse sono prive di organo riproduttivo femminile e quindi inadatte a soddisfare il desiderio che creano in chi le vede.\nPer estensione il problema è un paradosso che si ripete tutte le volte che una creatura mitica o di fantasia genera curiosità o interesse sessuale per alcune sue caratteristiche secondarie, ma manca della possibilità di una compatibilità con gli esseri umani normali.\nSe la sirena è, come pare, un pesce al di sotto della vita, teoricamente essa si riprodurrà come fa gran parte dei pesci ovvero con inseminazione esterna che prevede che il maschio della sua specie sparga il suo sperma sulle uova da essa deposte. Paradossale allora parrebbe la presenza di un ombelico e di un seno sulle sirene che non avrebbero motivazioni evolutive e pratiche nell'atto delle riproduzione.\nIn alcuni casi il paradosso è sciolto dal suggerimento che le sirene abbiano un apparato riproduttivo simile a quello dei delfini (mammiferi, come gli esseri umani) e questo farebbe pensare che anche le sirene appartengano a questa classe tassonomica di animali.\nLa femmina del delfino ha una apertura sotto la vita che contiene sia l'ano che la vagina, questo permetterebbe teoricamente un rapporto completo tra uomini e sirene.\nAltra teoria è che le sirene siano solite trasformarsi in forma umana, specificatamente la coda di pesce si trasformerebbe, se asciugata, in due gambe che, se bagnate, tornerebbero ad essere una coda di pesce.\nAd ogni modo è bene ricordare che, trattandosi di un antico mito, le spiegazioni di carattere scientifico non sono da prendersi in considerazione.\n\nNella cultura di massa.\nLa sirena è frequentemente ripresa in vari ambiti della cultura popolare, specie nel fantasy.\n\nLetteratura.\nNell'ambito delle fiabe, assai famosa è La Sirenetta scritta dal danese Hans Christian Andersen e pubblicata la prima volta nel 1837. La protagonista è una sirena che rinuncia alla sua bella voce per ottenere in cambio delle gambe umane.\nUna statua ispirata alla fiaba di Andersen è presente a Copenaghen dal 1913. La scultura è stata successivamente copiata in 13 località nel mondo, e quasi la metà delle copie si trova in America del Nord.\nNel 1891 Oscar Wilde pubblicò Il pescatore e la sua anima, una fiaba che racconta di un pescatore che si innamora della sirena che ha pescato.\nNel romanzo del 1911 Peter e Wendy di J. M. Barrie, le sirene vivono nella laguna dell'isola che non c'è. Sono ostili verso tutti, tranne Peter Pan.\nDel 1937 è la prima pubblicazione del racconto fantastico La verità sul caso Motta, di Mario Soldati, dove l'avvocato milanese Gino Motta, durante un soggiorno a Levanto, scompare misteriosamente e viene concupito da una sirena che lo tratterrà alcuni mesi sul fondo del mare.\nNel 1958 venne pubblicato postumo un racconto fantastico dello scrittore siciliano Tomasi di Lampedusa, incentrato sul tema, intitolato appunto La sirena.\n\nCinema.\nNel 1948 uscì Una sirena in società, una commedia che tratta di una bellissima sirena (interpretata da Glynis Johns) e dell'effetto che sortisce sugli uomini che incontra (interpretati da Griffith Jones, John McCallum e David Tomlinson).\nNel 1984 uscì Splash - Una sirena a Manhattan, diretto da Ron Howard, con protagonisti Tom Hanks e Daryl Hannah.\nNel 1989 uscì il classico Disney La Sirenetta, basato sull'omonima fiaba di Andersen. Nel corso della sua prima distribuzione, incassò 84 milioni di dollari nel Nord America, e fino ad oggi ha raggiunto un incasso totale di 211 milioni di dollari.\nNel 2006 uscì Aquamarine, una commedia fantasy con protagonista una sirena, interpretata da Sara Paxton.\nNel film del 2011 Pirati dei Caraibi - Oltre i confini del mare le sirene sono ragazze bellissime con la coda di pesce, che seducono gli uomini, per poi tentare di annegarli.\nNel 2015 uscì Pan - Viaggio sull'Isola che non c'è in cui due sirene sono interpretate da Cara Delavingne.\nNel 2017 uscì Il segreto della sirena in cui la sirena Coral, interpretata da Sydney Scotia, viene salvata da Ryan (Caitlin Carmichael).\nSempre nel 2017 è uscito il film di animazione giapponese Lu e la città delle sirene.\nNel 2020 uscì Una sirena a Parigi in cui la sirena Lula è interpretata da Marilyn Lima.\nNel 2023 è uscito il live action della Disney La Sirenetta diretto da Rob Marshall, in cui la sirenetta è interpretata da Halle Bailey.\n\nTelevisione.\nTra le serie TV incentrate sulle sirene si possono ricordare Mermaid Melody, H2O, Mako Mermaids - Vita da tritone, Siren, Tidelands e l'italiana Sirene.\nNella serie animata Martin Mystere, un episodio ha come antagonista una sirena, che vuole vendicarsi dell'uomo che l’ha rifiutata.\nIl film televisivo Lei, la creatura, del 2001 rilegge la leggenda delle sirene in chiave horror, presentando una sirena (rapita dalla compagnia di un circo itinerante per divenirne l'attrazione principale) dalle abitudini antropofaghe, che seduce gli uomini per poi divorarli.\nZig & Sharko, serie TV francese prodotta dalla Xilam, la sirena Marina è vittima della iena bruna Zig, però è sempre protetta dallo squalo Sharko.\n\nMusica.\nNel 1998 la cantautrice italiana Carmen Consoli viene ritratta nelle vesti di una sirena sulla copertina dell'album Mediamente isterica.\nNel 2012 la cantante pop francese Nolwenn Leroy è apparsa come una sirena sulla copertina dell'album Ô Filles de l'eau e nel video musicale del suo singolo Sixième Continent.\n\nFumetti.\nNella serie a fumetti Martin Mystère, le sirene sono delle creature prodotte tramite l'ingegneria genetica dagli scienziati di Atlantide assieme ad altre figure che sono entrate nell'immaginario e nel folclore popolare come i Tritoni o i Centauri, con lo scopo di aiutare gli esseri umani. Sopravvissuti ai secoli i loro discendenti vivrebbero nascosti e solo occasionalmente vengono scorti da qualche umano.\nLa figura della sirena appare in molti manga, come La saga delle sirene, Mermaid Melody - Principesse sirene, Seto No Hanayome o Monster musume no iru nichijō, dove una delle protagoniste femminili è una sirena di nome Mero. Nei Cavalieri dello Zodiaco, specie nella serie dedicata a Nettuno, vengono mostrati due Cavalieri con delle armature ispirate alle Sirene: Titis ha un'armatura che raffigura una sirena metà donna e metà pesce, mentre Syria ha l'armatura delle sirene con aspetto umano e da uccello.\n\nVideogiochi.\nNel videogioco arcade Vampire Night, il penultimo boss è Diane, una sirena d'acqua dolce divenuta vampira per amore.
@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Sisifo.\n### Descrizione: Sisifo (in greco antico: Σίσυφος?, Sísyphos; in latino Sisyphus) è un personaggio della mitologia greca, fondatore della città di Efira (l'odierna Corinto) della quale divenne re.\n\nRitratto come un uomo ingannatore e astuto, in una versione del mito viene addirittura considerato il padre di Ulisse.\n\nGenealogia.\nFiglio di Eolo e di Enarete, sposò Merope e divenne padre di Glauco, Ornizione, Tersandro, Almo e Profirione.\n\nEtimologia.\nIl nome di Sisifo è di incerta etimologia, sebbene i Greci gli attribuissero il significato di 'uomo saggio'; in realtà esso è una variazione greca del dio Tesup, personificazione ittita del sole e della luce, identificato con Atabirio, dio solare di Rodi, a cui era sacro il toro; Esichio di Alessandria invece riporta una scrittura diversa del nome, Sesephus. Alla figura del Sisifo di Rodi (ovvero Atabirio) si ricollegava anche il rinvenimento di preziose statuette di bronzo e bassorilievi del XV secolo a.C., raffiguranti un toro sacro accompagnato da numerosi attributi come lo scettro, due dischi sui fianchi e un trifoglio su un'anca.\n\nIl mito di Sisifo.\nIn tutti i miti che lo riguardano, Sisifo è ritratto come un uomo scaltro e senza scrupoli come nessun altro.\n\nSisifo e Salmoneo.\nAlla morte del padre Eolo, quando suo fratello Salmoneo usurpò il trono della Tessaglia, Sisifo, legittimo erede, si rivolse all'oracolo di Delfi, il quale gli consigliò di ingravidare sua nipote per avere la sua vendetta: Sisifo sedusse così la figlia di Salmoneo, Tiro, e dalla loro relazione nacquero due figli. Scoperto il verdetto dell'oracolo il risentimento della donna sarà tale da indurla ad assassinare la prole; Sisifo avrà quindi modo di presentarsi nella piazza del mercato di Larissa mostrando alla folla i cadaveri dei figli dicendo che Tiro li aveva generati con il padre e ottenendo per quest'ultimo l'esilio per incesto.\n\nSisifo e la pietra.\nMentre cercava di risolvere il problema della siccità di Corinto, un giorno Sisifo si ritrovò nei pressi della rocca della città mentre Zeus amoreggiava con una bella ninfa di nome Egina, figlia del dio fluviale Asopo e rapita dallo stesso Zeus.\nAsopo si presentò a Sisifo nelle sembianze di un vecchio e gli chiese notizie di sua figlia: Sisifo ammise di averla vista, senza però rivelare nell'immediato chi fosse il rapitore, scegliendo di chiedere prima una fonte d'acqua per la sua città in cambio dell'informazione. Asopo promise a Sisifo che gli avrebbe dato la fonte in cambio della rivelazione dell'identità di colui che aveva rapito la ninfa sua figlia. Mantenendo il patto, Sisifo rivelò che la ninfa era stata rapita da Zeus: soddisfatto, Asopo diede in dono al re la sorgente d'acqua perenne detta Pirene.\nQuando Zeus venne a sapere il tutto, chiese a suo fratello Ade di mandare Thanatos a catturare Sisifo per rinchiuderlo nel Tartaro, ma quando il dio della morte giunse a casa del re questi lo fece ubriacare e lo legò con delle catene imprigionandolo: con Thanatos incatenato la morte scomparve dal mondo e quando Ares si accorse che durante le battaglie non moriva più nessuno, e che quindi le battaglie stesse non avevano più senso, si mosse per catturare Sisifo e, liberato Thanatos, lo condussero nel Tartaro.\nSisifo aveva tuttavia imposto alla moglie Merope di non seppellire il suo corpo così da avere motivo per protestare con gli dèi dell'empietà della donna: Persefone, moglie di Ade, decise allora di farlo tornare sulla Terra per tre giorni così da imporre alla moglie i riti funebri. Sisifo tornò nel mondo dei vivi ma non obbligò la moglie a seppellirlo, così gli dèi inviarono Hermes per catturarlo e riportarlo negli Inferi: il dio messaggero obbedì con piacere dal momento che in questo modo avrebbe potuto vendicarsi di Sisifo, che in precedenza aveva smascherato suo figlio Autolico, il ladro supremo, e secondo alcune versioni anche per aver violentato sua figlia Anticlea. Altre versioni riferiscono che Sisifo avesse ricevuto la possibilità di tornare nel mondo dei vivi non da Persefone ma da Ade stesso a patto di tornare entro un giorno; come nell'altra versione Sisifo non tenne fede al patto e rimase nel mondo dei vivi: la morte sopraggiunse naturalmente e non è affatto menzionato Hermes.\nCome punizione per la sua sfrontata audacia, Zeus decise che Sisifo avrebbe dovuto spingere un masso dalla base alla cima di un monte, ma ogni volta che avesse raggiunto la cima, il masso poi sarebbe rotolato nuovamente alla base del monte per l'eternità. La sua punizione è divenuta una figura retorica per indicare una 'fatica inutile'.\n\nPareri secondari.\nSecondo una tradizione, fu il padre di Ulisse, generato da una relazione con la madre Anticlea prima dell'unione di lei con il re di Itaca Laerte.\n\nLe interpretazioni del mito di Sisifo.\nIl re Sisifo viene considerato alla stregua del disco del sole che sorge ogni giorno a est e poi sprofonda verso ovest. Altri studiosi lo considerano una personificazione delle onde che salgono e scendono, o del mare infido. Il filosofo epicureo Lucrezio del I secolo a.C. interpreta il mito di Sisifo come la personificazione dei politici che aspirano a un ufficio politico ma ne vengono costantemente sconfitti. La ricerca del potere, di per sé una 'cosa vuota', viene paragonata al rotolare del macigno dalla collina. Lucrezio ritiene infatti che le ambizioni siano pericolose perché allontanano l'uomo dalla saggezza.\nFriedrich Gottlieb Welcker suggerì l'interpretazione secondo cui il mito di Sisifo simboleggiava la lotta vana dell'uomo nella ricerca della conoscenza, mentre Salomon Reinach ipotizzò che la sua punizione si basasse su un quadro in cui Sisifo era rappresentato mentre roteava un'enorme pietra dall'acrocorinto, simbolo del lavoro e delle abilità coinvolte nella costruzione del Sisifeo.\nAlbert Camus, nel suo saggio Il mito di Sisifo del 1942, vide in Sisifo la personificazione dell'assurdità della vita umana, ma Camus conclude 'bisogna immaginare Sisifo felice' come se 'la lotta stessa verso le vette fosse sufficiente per riempire il cuore di un uomo'.\nJ. Nigro Sansonese, basandosi sull'opera di Georges Dumézil, ipotizza che l'origine del nome 'Sisifo' sia onomatopeica del continuo suono di susurrant ('siss phuss') fatto dal respiro nei passaggi nasali, situando la mitologia di Sisifo in un contesto molto più ampio di tecniche arcaiche (vedi religione proto-indoeuropea) che inducono la trance legate al controllo del respiro. Il ciclo ripetitivo di inspirazione-espirazione è descritto esotericamente nel mito come un moto su e giù di Sisifo e del suo macigno su una collina.\nIn esperimenti che verificano come i lavoratori rispondono quando il significato del loro compito è diminuito, la condizione del test viene indicata come condizione Sisifousa. Le due conclusioni principali dell'esperimento sono che le persone lavorano di più quando il loro lavoro sembra più significativo e che le persone sottovalutano la relazione tra significato e motivazione.\n\nInfluenza culturale.\nCinema.\nSisyphus è il titolo del corto d'animazione candidato all'Oscar nel 1974 del regista, grafico, illustratore, scrittore, politico ungherese Marcell Jankovics.\n\nFilosofia.\nIl filosofo francese Albert Camus gli ha dedicato un importante saggio, Il mito di Sisifo appunto, all'interno del quale, negando qualsivoglia valore a un significato trascendente alla vita e al mondo, riconosce come assurda l'esistenza: senza un significato l'esistenza è irrazionale ed estranea a noi stessi. Resta dunque il suicidio, ma quello 'fisico' non risolve il problema del senso e quello 'spirituale' (Kierkegaard con la 'speranza' in Dio, e Husserl con la ragione portata oltre i limiti della propria finitudine) svia dal vero problema. La soluzione per Camus è la 'sopportazione' della propria presenza nel mondo, sopportazione che consente la libertà; e la protesta/ribellione nei confronti dell'assurdità dell'esistenza, quindi contro il destino, consegna alla vita il suo valore effettivo. Camus non cerca quindi più Dio o l'Assoluto, il suo obiettivo diviene 'l'intensità della vita'. Per Camus Sisifo è quindi felice perché nella sua condanna diviene consapevole dei propri limiti e quindi assume su di sé il proprio destino.\n\nFisica.\nIn fisica atomica l'effetto Sisifo (Sisyphus Cooling) è un meccanismo di raffreddamento laser tramite il quale è possibile raggiungere temperature inferiori a quella del limite Doppler. Fu sviluppato nel 1989 dal fisico francese Claude Cohen-Tannoudji.\n\nLetteratura.\nNel libro di Paolo Maurensig Canone inverso viene citato Sisifo a pagina 72, come stemma della divisa del protagonista Jenö Varga, e a pagina 79, per indicare che, per quanto riguarda la perfezione, all'uomo non sarà mai dato raggiungerla.\nNel libro di fantascienza di Greg Egan Distress Sisifo è un'intelligenza artificiale installata su un pad digitale o quello che si può ricondurre a un moderno tablet. La sua funzione nell'immaginario dello scrittore è molto vicina, anche se più sviluppata, a quella degli attuali assistenti vocali per smartphone.\n\nManga e Anime.\nNel manga e anime Saint Seiya - The Lost Canvas Sysyphus è il nome del cavaliere d'oro del Sagittario.\nSisyphe è il titolo del quinto episodio dell'anime 'ULISSE 31'. In questa versione, Sisyphe è stato condannato dagli dei a smantellare grossi macigni di metallo e buttarli in un pozzo senza fondo per aver cercato di scoprire i segreti degli dei, solo all'arrivo di Ulisse e Telemaco sul pianeta si rende conto dell'inutilità del suo lavoro e della beffa degli dei.\n\nMusica.\nA Sisifo è intitolata la suite strumentale d'avanguardia Sysyphus, pubblicata nel 1969 dai Pink Floyd nel disco Ummagumma e scritta dal tastierista Richard Wright.\nSisyphus è il titolo di una canzone del cantautore statunitense Andrew Bird.\nLa canzone Carve Away The Stone, ultima traccia dell'album Test For Echo dei Rush, tratta del mito di Sisifo e della pietra da lui sospinta.\nUn verso della canzone Zeit! dell'album Exuvia di Caparezza, recita: 'Dimmi, Zeit, cosa ti è successo? Non mi tieni il passo, ritorni indietro come Sisifo, non tieni il masso'. Il rapper si riferisce al noto detto che recita 'La storia si ripete'. Il tempo, proprio come il masso di Sisifo, non va mai avanti dal momento che la storia è una continua ripetizione di eventi.\nQuando fu ritrovato nella sua stanza, il 25 novembre 1974, il corpo senza vita del cantautore inglese Nick Drake, accanto al suo letto era presente una copia de Il mito di Sisifo, di Albert Camus.