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https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/natura-vincolata-del-provvedimento-e-garanzie-partecipative
Natura vincolata del provvedimento e garanzie partecipative
N. 06288/2021REG.PROV.COLL. N. 01042/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1042 del 2021, proposto da Fallimento Farmacia San Bartolomeo di Angela Belinci e C. S.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Alfonso Tordo Caprioli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto come in atti; contro Regione Umbria, Comune di Passignano sul Trasimeno, Comune di Umbertide, Ordine dei Farmacisti della Provincia di Perugia, Fallimento della Società Luca della Robbia S.n.c. dei Dottori Angela Belinci, Giuliano Sisti e Massimiliano Vezzosi, non costituiti in giudizio; Ufficio Territoriale del Governo di Perugia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Farma San Bartolomeo S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fabio Buchicchio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Azienda Unità Sanitaria Locale Umbria n. 1, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Mario Rampini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Cicerone 44; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria (Sezione Prima) n. 630/2020, resa tra le parti, concernente il provvedimento di decadenza dalla titolarità della farmacia; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Ufficio Territoriale del Governo di Perugia, di Farma San Bartolomeo S.r.l. e dell’Azienda Unità Sanitaria Locale Umbria n. 1; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 luglio 2021 il Cons. Stefania Santoleri; quanto alla presenza degli avvocati si fa rinvio al verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. – Con il ricorso di primo grado, la ricorrente ha esposto che: - la società “Farmacia San Bartolomeo s.a.s. di Angela Belinci” era titolare dell’autorizzazione all’esercizio della farmacia omonima sita in Passignano sul Trasimeno, fraz. Castel Rigone, nonché del dispensario farmaceutico collocato nella vicina frazione di Preggio del Comune di Umbertide. - la predetta società è costituita dai soci Angela Belinci, accomandataria e titolare del 50% delle quote per un importo di euro 5.000, e Giuliano Sisti, accomandante e titolare del 50% delle quote per un importo di euro 5.000. - con atto a rogito del Notaio Luigi Sconocchia Silvestri del 3.3.2020, rep. 3019, racc. 2195, registrato a Perugia il 6 successivo, n. 5607, la Farmacia San Bartolomeo s.a.s. e la società ABIMOG S.R.L., con sede in Terni, hanno costituito una società, denominata Farma San Bartolomeo S.r.l. nella quale, a liberazione del capitale sottoscritto, la Farmacia San Bartolomeo ha conferito il ramo d’azienda costituito dalla titolarità e dall’esercizio della farmacia sita in Passignano sul Trasimeno, fraz. Castel Rigone, e del dispensario farmaceutico sito in Comune di Umbertide, fraz. Preggio; - il conferimento del ramo d’azienda da parte della Farmacia San Bartolomeo veniva effettuato sotto la condizione sospensiva del rilascio del provvedimento di trasferimento della gestione della farmacia da parte della competente USL e, comunque, delle necessarie autorizzazioni amministrative; - in data 16.3.2020, la società Farma San Bartolomeo ha chiesto alla ASL l’autorizzazione al trasferimento in proprio favore della titolarità della farmacia oggetto del conferimento e l’autorizzazione all’esercizio della stessa e del dispensario farmaceutico di Preggio; - nelle more, con sentenza del Tribunale di Perugia del 12.3.2020 n. 21, è stato dichiarato il fallimento della società Luca della Robbia S.n.c. dei dottori Angela Belinci, Giuliano Sisti e Massimo Vezzosi, nonché dei soci illimitatamente responsabili Angela Belinci, Giuliano Sisti e Massimo Vezzosi. - poiché i dottori Belinci e Sisti erano rispettivamente socio accomandatario e socio accomandante di Farmacia San Bartolomeo sas, dal 12.3.2020 il socio accomandatario ed unico amministratore Belinci Angela è stato escluso di diritto dalla società, ai sensi dell’art. 2288 c.c. applicabile alle società in accomandita semplice per il rinvio operato dall’art. 2315 c.c. all’art. 2293 c.c.; - l’art. 2288, comma 1, c.c. dispone “è escluso di diritto il socio che sia dichiarato fallito”; a norma dell’art. 2318, comma 2, c.c. “l’amministrazione della società può essere conferita soltanto a soci accomandatari”; inoltre l’art. 2323, comma 2, c.c dispone “se vengono a mancare tutti gli accomandatari per il periodo indicato nel comma precedente (6 mesi n.d.a.), gli accomandanti nominano un amministratore provvisorio per gli atti di ordinaria amministrazione. L’amministratore provvisorio non assume la qualità di socio accomandatario”; - pertanto la società è così risultata priva dell’unico socio accomandatario (Dott.ssa Belinci) e dell’amministratore unico, nonché legale rappresentante e, come tale, impossibilitata ad agire ed esprimere la propria volontà negoziale. 2. - La ASL, con nota del 3.4.2020, ha dettato disposizioni contingibili ed urgenti alla Farmacia San Bartolomeo s.a.s. al fine di garantire comunque l’assistenza farmaceutica e le prestazioni sanitarie connesse, “tenendo conto delle limitazioni consequenziali alla sentenza di cui all’oggetto relativamente alla posizione dei due soci e comunque nel rispetto di tutte le disposizioni della Curatela Fallimentare”. 2.1 - Con deliberazione del Commissario Straordinario del 25.6.2020 n. 754, allegata alla nota prot. 102755/2020 inviata il 26.06.2020, veniva dichiarata la decadenza dell’autorizzazione rilasciata alla Farmacia San Bartolomeo s.a.s. a causa della chiusura non autorizzata dell’esercizio per un periodo superiore a quindici giorni, ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. d, del Testo Unico delle Leggi Sanitarie, approvato con R.D. 27.7.1934 n 1265; 2.2 - Con nota della USL del 29.6.2020 prot. 102755, veniva dichiarata la improcedibilità dell’istanza di trasferimento a favore della neo costituita società Farma San Bartolomea s.r.l., in base, tra l’altro, alla dichiarata decadenza della titolarità della Farmacia in capo alla ricorrente con determina 754/2020. 3. - Avendo interesse all’impugnazione di tali atti, la ricorrente – ormai priva del socio accomandatario, proprio legale rappresentante (dott.ssa Belinci) – ha presentato istanza al Presidente del T.A.R. Umbria, evidenziando che la società Farmacia San Bartolomeo s.a.s., stante il fallimento della socia accomandataria Belinci Angela, non aveva rappresentante legale e quindi, nella prospettiva di impugnare gli atti amministrativi ritenuti lesivi, non vi era soggetto con potere di rappresentanza della società ricorrente e, quindi, legittimato a conferire mandato alle liti, chiedendo i provvedimenti ritenuti necessari ed urgenti, e la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art.78 c.p.c.. 3.1 - Con provvedimento del 14 settembre 2020, comunicato a mezzo pec in pari data, il Presidente del T.A.R. Umbria ha declinato la giurisdizione a favore del Tribunale ordinario, disponendo tuttavia, in via cautelare, la sospensione del termine decadenziale per ricorrere in via giurisdizionale come indicato nel provvedimento sopra richiamato. L’istante ha notificato il provvedimento alle controparti entro il termine di 5 (cinque giorni); ha quindi presentato una nuova istanza ai sensi dell’art. 78 c.p.c. al Presidente del Tribunale Ordinario di Perugia che con provvedimento del 20 ottobre 2020 ha nominato “curatore speciale” l’Avv. Monica Benedetti, a cui tuttavia la Cancelleria non ha notificato/comunicato la nomina. L’avv. Monica Benedetti, appreso aliunde della nomina, solo in data 19 novembre 2020 la ha accettata (stante anche le problematiche ed i provvedimenti connessi alla emergenza Covid); quindi ha conferito mandato in data 23 novembre 2020 al legale per presentare ricorso al Tribunale Amministrativo regionale dell’Umbria. 3.2 - Il ricorso è stato notificato in data 24 novembre 2020 con istanza cautelare di sospensione. 3.3 - In esito alla iscrizione a ruolo, il Tribunale adito ha fissato la camera di consiglio del 15 dicembre 2020 per la discussione e la decisione sulla richiesta sospensiva. Si è costituita in giudizio la AUSL Umbria con una corposa memoria depositata in data venerdì 11 dicembre 2020 alle ore 12.20 (allegando 24 documenti), con cui, in via preliminare, ha eccepito la tardività e quindi la irricevibilità del ricorso e comunque, la infondatezza dello stesso. Si è costituita in giudizio, quale cointeressata, la Farma San Bartolomeo s.r.l., chiedendo il rinvio dell’udienza e la riunione con altro proprio ricorso, avente ad oggetto l’impugnazione degli stessi atti amministrativi. 3.4 - Come si evince dalla sentenza appellata, alla camera di consiglio del 15 dicembre per la discussione della domanda cautelare, il Collegio ha deciso di convertire il rito e di trattenere, ai sensi dell’art.60 c.p.a., la causa per la sua immediata decisione in forma semplificata, “ricorrendone i presupposti di legge”. 3.5 - Con la decisione gravata il Tribunale Amministrativo Regionale dell’Umbria ha ritenuto fondata la eccezione preliminare formulata dalla AUSL Umbria, dichiarando la irricevibilità del ricorso, con compensazione delle spese. 4. - Avverso tale decisione la ricorrente ha proposto appello, deducendo due motivi di impugnazione avverso la sentenza di irricevibilità, reiterando anche le doglianze dedotte in primo grado ed assorbite dal giudice di prime cure. 4.1 - Si è costituita in giudizio la AUSL che ha replicato alle doglianze proposte chiedendone il rigetto. 4.2 - Si è costituita anche la Farma San Bartolomeo aderendo alle tesi difensive dell’appellante. 4.3 – Con sentenza n. 33 del 14/5/2021 il Tribunale di Perugia, Sezione Fallimentare, ha dichiarato il fallimento della ricorrente Farmacia San Bartolomeo S.a.s. La AUSL appellata ha quindi chiesto la declaratoria di interruzione del giudizio. 4.4. – Con comparsa del 24/6/2021 il Fallimento Farmacia San Bartolomeo S.a.s. si è costituito in prosecuzione del giudizio, insistendo per la definizione della controversia all’udienza pubblica già fissata del 29 luglio 2021. 4.5 - Le parti hanno depositato scritti difensivi a sostegno delle rispettive tesi. 5. - All’udienza pubblica del 29 luglio 2021 l’appello è stato trattenuto in decisione. 6. - L’appello è fondato e va, dunque, accolto. 7. – Va dato atto, preliminarmente, che la costituzione del Fallimento Farmacia San Bartolomeo S.a.s. consente la definizione del giudizio senza ricorrere all’interruzione. 8. - Con il primo motivo l’appellante ha dedotto le doglianze di “Violazione del contraddittorio, violazione del diritto di difesa e degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione della Repubblica Italiana” rappresentando che il Tribunale aveva fissato l’udienza camerale per discutere la istanza di sospensiva per il giorno 15 dicembre 2020; la Ausl Umbria si era costituita in giudizio in data 11 dicembre (venerdì) con memoria depositata telematicamente alle 12.20, e dunque prodotta, ai fini dell’esercizio dei diritti difensivi della controparte, il giorno successivo. La decisione di “convertire il rito” e decidere la causa immediatamente con sentenza semplificata avrebbe leso il suo diritto di difesa impedendole di controdedurre sulla corposa memoria della resistente, e di proporre motivi aggiunti in conseguenza della produzione documentale effettuata dalla resistente AUSL. La tempistica del deposito della costituzione avversaria (avvenuta 2 giorni liberi prima dell’udienza camerale) le avrebbe impedito anche di richiedere la discussione in presenza, con istanza da depositare 5 gg. prima della udienza. Ha quindi dedotto che il disposto di cui all’art. 25 d.l. 137/2020, poi convertito in legge, secondo cui il Tribunale può “senza avviso” decidere la causa con sentenza semplificata, non potrebbe che essere interpretato in senso costituzionalmente orientato, poiché in difetto, ove applicato pedissequamente a tutte le fattispecie, integrerebbe un evidente vulnus al diritto di difesa, al contraddittorio ed alla effettività della tutela giudiziaria. Nella fattispecie in esame il TAR avrebbe dovuto tenere conto della particolarità della situazione e differire la udienza, e/o comunque non convertire il rito, tanto più che era stata già presentata dalla Farma San Bartolomeo l’istanza di riunione con il ricorso da essa avanzato. L’appellante ha quindi chiesto al Collegio di valutare la sussistenza dei presupposti per disporre il rinvio al primo giudice ai sensi dell’art. 105 c.p.a. per violazione del diritto di difesa, ovvero di di ritenere ammissibile, anche ex art. 37 c.p.a., la proposizione dei motivi aggiunti (ove tali siano considerati dal Giudice adito), in seguito sviluppati e specificati, in conseguenza dei documenti prodotti dalla resistente AUSL Umbria sub 7, 8 e 9 , relativi alle note inviate dal Curatore fallimentare del Fallimento Luca della Robbia s.n.c.. 8.1 - Tale doglianza non può essere condivisa. Condivisibilmente la AUSL Umbria n. 1 ha rilevato che la propria costituzione e memoria difensiva è intervenuta nei termini. Il legislatore ha previsto all’art. 4, comma 1, del D.L. n. 28/2020 (applicabile al giudizio di primo grado) che la richiesta di trattazione dell’udienza da remoto per gli affari cautelare deve essere proposta 5 giorni prima dell’udienza: ne consegue che la ricorrente in primo grado era ben consapevole che la AUSL avrebbe potuto costituirsi (con deposito di memorie e documenti) entro 2 giorni liberi prima dell’udienza camerale; non a caso il legislatore ha previsto nello stesso art. 4 la possibilità di depositare note di udienza entro le ore 12.00 del giorno antecedente l’udienza, al fine di consentire alle parti di rappresentare al giudice le circostanze che avrebbe potuto esporre nell’udienza svolta in presenza delle parti. L’art. 25, comma 2, del d.l. n. 137/2020 prevede espressamente che “gli affari in trattazione passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, omesso ogni avviso”. Ne consegue che l’appellante avrebbe potuto rappresentare al giudice di primo grado le proprie esigenze difensive (chiedendo la discussione orale, cautelativamente, nell’ipotesi di costituzione della controparte, ovvero semplicemente depositando note difensive nelle quali rappresentare l’esigenza di proporre motivi aggiunti). 8.2 - Ne consegue che non sussiste la violazione del diritto di difesa dell’appellante e, dunque, non ricorrono i presupposti per disporre l’annullamento con rinvio ai sensi dell’art. 105 c.p.a. 8.3 - Per quanto concerne la pretesa ad introdurre ulteriori motivi di ricorso in grado di appello, è sufficiente rilevare il difetto di interesse dell’appellante a coltivare tale richiesta alla luce dell’accoglimento del ricorso per i motivi già ritualmente dedotti. 9. - Con il secondo motivo l’appellante ha dedotto la censura di “Infondatezza ed erroneità della declaratoria di irricevibilità del ricorso introduttivo violazione dell’art.61 e 29 c.p.a.; violazione degli artt. 3, 24 e 111 della costituzione; in subordine sussistenza presupposti per applicazione dell’art.37 c.p.a. e rimessione in termini” contestando la pronuncia di irricevibilità del ricorso di primo grado. Secondo il TAR, infatti, il ricorso sarebbe tardivo perché notificato il 24 novembre 2020, sebbene il termine ultimo per l’impugnazione sarebbe maturato “al 09 ottobre 2020”. Il decreto presidenziale del 14/9/2020, infatti, aveva disposto la sospensione del termine decadenziale di impugnazione “subordinatamente alla presentazione dell’istanza prevista dall’art. 78 e sino alla data del provvedimento del giudice sulla stessa, ove intervenga entro il 15.mo giorno dalla data del presente decreto, e comunque non oltre sessanta giorni dalla data stessa ai sensi del comma 5 dell’art. 61, c.p.a.” Il TAR ha ritenuto che, quanto alla efficacia temporale del provvedimento presidenziale del 14 settembre 2020, di sospensione del termine di impugnazione, “ l’art. 61 comma 5 c.p.a. dispone che il provvedimento di accoglimento perde comunque effetto ove entro quindici giorni dalla sua emanazione non venga notificato il ricorso con la domanda cautelare ed esso non sia depositato nei successivi cinque giorni corredato da istanza di fissazione di udienza; in ogni caso la misura concessa ai sensi del presente articolo perde effetto con il decorso di sessanta giorni dalla sua emissione, dopo di che restano efficaci le sole misure cautelari che siano confermate o disposte in corso di causa”. Pertanto, secondo il Tribunale, il termine decadenziale – in forza del decreto presidenziale del 14 settembre, sarebbe stato sospeso fino al “28 settembre (quindici giorni), e quindi il termine di impugnazione dei provvedimenti gravati, ricominciando a decorrere dal 29 settembre sarebbe “venuto a scadere in data 9 ottobre 2020” (pag.6 sentenza appellata). 9.1 - Tale statuizione è stata contestata dall’appellante deducendo la non correttezza del calcolo, anche alla luce della tempistica relativa alla nomina del curatore speciale a cui si è fatto cenno in precedenza; l’appellante ha anche dedotto, che in ogni caso – tenuto conto del ritardo con il quale il curatore era stato nominato ed aveva accettato l’incarico – il TAR avrebbe dovuto riconoscere l’errore scusabile ex art. 37 c.p.a., essendo di fatto impossibilitato a proporre ricorso fino al 19 novembre 2020, data in cui il curatore speciale ha accettato la nomina. 9.2 - La censura è condivisibile. A prescindere dalla correttezza dell’interpretazione del decreto presidenziale e, di conseguenza, dalle modalità di computo del calcolo dei giorni di sospensione, resta incontestato che: - il curatore speciale è stato designato dal Presidente del Tribunale di Perugia il 20 ottobre 2020; - quest’ultimo ha accettato la nomina solo in data 19/11/2020; - la procura ad litem è stata conferita in data 23/11/2020; - il ricorso al TAR è stato notificato il 24/11/2020. Poiché fino al momento dell’accettazione da parte dell’Avv. Monica Benedetti dell’incarico di curatore speciale la società non poteva conferire mandato ad un difensore e proporre l’azione, ricorrono i presupposti per il riconoscimento dell’errore scusabile ex art. 37 c.p.a., ricorrendo il presupposto del “grave impedimento di fatto” alla proposizione del ricorso. Ne consegue che la sentenza di primo grado va riformata. 10. - Vanno quindi esaminati i motivi di ricorso di primo grado, assorbiti dal TAR, e riproposti ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a. 10.1 - Con il primo motivo riproposto l’appellante ha dedotto la censura di “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 bis della l. 7.8.1990 n. 241 anche in relazione all’art. 7 della stessa l. 241/1990”; con il secondo motivo, ha quindi dedotto il vizio di “Violazione dell’art. 7 della 8.8.1990 n. 241 – violazione e/o falsa e/o errata applicazione dell’art. 113, comma 1, lett. d, del r.d. 27.7.1934 n. 1265 - eccesso di potere per difetto di motivazione – eccesso di potere per omessa e/o errata valutazione dei presupposti– eccesso di potere per difetto di istruttoria” evidenziando che la Azienda USL non avrebbe consentito il contraddittorio in sede procedimentale, né prima di adottare il provvedimento di decadenza, né prima di emettere il rigetto della domanda di trasferimento dell’autorizzazione in favore della Farma San Bartolomeo S.r.l.: secondo l’appellante la mancata osservanza delle suddette modalità procedimentali avrebbe viziato in maniera irrimediabile i provvedimenti impugnati, poiché avrebbe impedito al destinatario di evidenziare profili utili ai fini dell’adozione di atti aventi un contenuto diverso, come rappresentato con le argomentazioni illustrate nell’atto di appello. 10.2 - La AUSL Umbria 1 ha controdedotto tale doglianza sostenendo che si sarebbe trattato di atti vincolati per i quali avrebbe potuto omettersi la comunicazione dell’avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 della L. 241/90 ed il preavviso di rigetto ex art. 10 bis della stessa legge: l’appellante, infatti, avrebbe volontariamente chiuso la farmacia senza ottemperare alle prescrizioni dell’Amministrazione che le imponevano di tenerla aperta; alla luce di tale circostanza, il vizio sarebbe solo formale, e come tale superabile ai sensi dell’art. 21 octies L. 241/90, atteso che l’esito del procedimento non avrebbe potuto mutare a seguito della partecipazione procedimentale. Tali ragioni, secondo l’appellata, consentirebbero di respingere anche la doglianza relativa al provvedimento di diniego di trasferimento dell’autorizzazione, adottato in via derivata rispetto all’atto decadenziale ex art. 113, comma 1, lett. d) del R.D. n. 1265/1934. 10.3 - La tesi dell’Amministrazione non può essere condivisa alla luce della particolarità del caso di specie, caratterizzato dalla circostanza che la Farmacia San Bartolomeo si era trovata – a causa del fallimento dell’altra società Luca della Robbia S.n.c. – senza l’amministratore (dott.ssa Belinci) che fungeva anche da direttore tecnico. Ritiene il Collegio che tenuto conto della singolarità della vicenda verificatasi, sarebbe stato necessario un approfondimento in contraddittorio tra le parti, consentendo alla Farmacia San Bartolomeo di rappresentare le proprie ragioni prima di adottare il provvedimento di decadenza dall’autorizzazione, fondato sulla chiusura non autorizzata della farmacia per oltre 15 giorni, senza tener conto della specifica situazione che si era creata. Nelle proprie difese la dott.ssa Belinci, infatti, ha rappresentato che, a causa della dichiarazione di fallimento della società Luca della Robbia e dei soci, non poteva più svolgere l’attività di amministratore e legale rappresentante della farmacia; solo con la nomina del curatore speciale da parte del Presidente del Tribunale di Perugia, ha avuto la possibilità di impugnare gli atti lesivi della propria sfera giuridica; pertanto non avrebbe potuto impugnare il provvedimento del 3/4/2020 prot. n. 61968 e la diffida del 27/5/2020, nei confronti dei quali – secondo l’Amministrazione – avrebbe prestato acquiescenza; la decadenza dalla qualità di socio accomandatario e legale rappresentante avrebbe avuto – a dire della ricorrente in primo grado – ripercussioni sulla sua condizione di direttore tecnico della farmacia e sulla possibilità di provvedere alla nomina di un soggetto in sua sostituzione. 10.4 - In sintesi, l’appellante ha sostenuto che gli atti con i quali la AUSL le aveva ordinato di tenere aperta la farmacia si scontravano la sua specifica condizione; ha anche rilevato che la ASL avrebbe potuto assumere provvedimenti alternativi a tutela della salute pubblica, anziché procedere alla declaratoria di decadenza dall’autorizzazione. In sostanza, l’appellante ha fornito in giudizio elementi che avrebbero dovuto essere valutati dall’Amministrazione in sede procedimentale, prima di addivenire all’adozione del provvedimento decadenziale. 10.5 - Ritiene, dunque, il Collegio che, tenuto conto della complessità della situazione e della gravità degli effetti derivanti dal provvedimento di decadenza, dovevano essere assicurate le garanzie partecipative al procedimento, prima tra tutte la comunicazione dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. 241/90; le stesse garanzie partecipative dovevano essere osservate prima del diniego di autorizzazione al trasferimento dell’autorizzazione richiesto dalla società Farma San Bartolomeo S.r.l. 10.6 - La natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse come quella in questione; la giurisprudenza più avveduta afferma la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (cfr. C.d.S. sez. VI 20.4.2000 n. 2443; C.d.S. 2953/2004; 2307/2004 e 396/2004). Invero, non è rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 19/10/2006, n.8683). Tale principio è stato riaffermato di recente dalla giurisprudenza sostenendo che “È illegittimo il provvedimento vincolato emesso senza che sia stata offerta al destinatario dello stesso provvedimento la preventiva “comunicazione di avvio del procedimento” ex art. 7 l. n. 241/1990, ove dal giudizio emerga che l'omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l'emanazione di un provvedimento con contenuto diverso” (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 26/08/2020, n.750). 11. - L’appello va quindi accolto, e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado. 12. - Le spese del doppio grado di giudizio possono compensarsi tra le parti, tenuto conto dell’alterno esito dei giudizi e della complessità della fattispecie. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 luglio 2021 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Giulia Ferrari, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere Franco Frattini, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere, Estensore Giulia Ferrari, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO
​​​​​​Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Atti vincolati – Omissione – Situazione sottesa complessa – Illegittimità.               E’ illegittima la mancata comunicazione di avvio del procedimento che porta all’adozione di un atto di natura vincolata ove la situazione sottesa si dimostri particolarmente complessa (1).    ​​​​​​ (1) Ha chiarito la Sezione che la natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse; la giurisprudenza più avveduta afferma la sussistenza dell'obbligo di avviso dell'avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l'accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa (Cons. St., sez. VI, 20 aprile 2000, n. 2443; id. n. 2953 del 2004; n. 2307 del 2004 e n. 396 del 2004). Invero, non è rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria (Tar Napoli, sez. II, 19 ottobre 2006, n.8683). ​​​​​​​Tale principio è stato riaffermato di recente dalla giurisprudenza sostenendo che “È illegittimo il provvedimento vincolato emesso senza che sia stata offerta al destinatario dello stesso provvedimento la preventiva “comunicazione di avvio del procedimento” ex art. 7, l. n. 241 del 1990, ove dal giudizio emerga che l'omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l'emanazione di un provvedimento con contenuto diverso” (C.g.a. 26 agosto 2020, n.750). 
Procedimento amministrativo
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Alla Corte costituzionale la competenza in Umbria dei Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici dei Comuni siti in zone sismiche
N. 05078/2021REG.PROV.COLL. N. 04825/2017 REG.RIC. N. 04828/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sui seguenti ricorsi in appello:1) numero di registro generale 4825 del 2017, proposto dai signori Renato Chiaranti ed Ersilia Stefanini, rappresentati e difesi dall’avvocato Umberto Segarelli, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via G.B. Morgagni, 2/A, contro - il Comune di Terni, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Gennari, domiciliato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13; - il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e la Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Umbria, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti - dell’Impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo Augusto e Stefano, rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanni Ranalli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Panama n. 86; - dell’Albergo Lido S.r.l., non costituito in giudizio; 2) numero di registro generale 4828 del 2017, proposto dai signori Renato Chiaranti ed Ersilia Stefanini, rappresentati e difesi dall’avvocato Umberto Segarelli, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, via G.B. Morgagni, 2/A, contro il Comune di Terni, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo Gennari, con domicilio eletto presso la Segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13, nei confronti - dell’Albergo Lido S.r.l. e della Regione Umbria non costituiti in giudizio; - dell’Impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo Augusto e Stefano, rappresentata e difesa dall’avvocato Giovanni Ranalli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giovanni Ranalli in Roma, via Panama n. 86; per la riforma quanto al ricorso n. 4828 del 2017: della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria (sezione Prima) n. 751/2016, resa tra le parti; quanto al ricorso n. 4825 del 2017: della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria (sezione Prima) n. 750/2016, resa tra le parti. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Terni, della Impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo Augusto e Stefano, del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio dell’Umbria; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 13 maggio 2021, il Cons. Giuseppe Rotondo, nessuno presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con atto di appello R.G. n. 4825/2017, i signori Renato Chiaranti ed Ersilia Stefanini propongono appello avverso la sentenza del T.A.R. per l’Umbria n. 750/2016, assunta nella camera di consiglio del 12 ottobre 2016, pubblicata il 6 dicembre 2016, di cui chiedono l’annullamento o la riforma e, in accoglimento del gravame, l’annullamento: del “Piano attuativo di iniziativa privata per la trasformazione urbanistica del complesso edilizio ex <<Hotel Lido>> a Piediluco (ditta Impresa Ponteggia S.n.c.” adottato con delibera di G.C. n. 170 del 7 maggio 2014, approvato con delibera della G.C. n. 93 del 1 aprile 2015, della quale i ricorrenti assumono di avere avuto conoscenza a seguito della pubblicazione sul B.U.R. n. 28 (serie avvisi e concorsi) del 14 ottobre 2015; del parere di compatibilità paesaggistica, accordato dall’indicata Soprintendenza con nota 23luglio 2014, prot. n. 14325; del parere di non assoggettabilità alla procedura di valutazione di incidenza, di cui all’art. 6 del d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120, accordato della Regione Umbria con nota prot. 160542 del 13 novembre 2014; del parere di compatibilità idrogeologica, idraulica e sismica (art. 89 D.P.R. n. 380/2001), espresso dalla Giunta Comunale con la impugnata delibera 7 maggio 2014, n. 170 (di adozione del P.A.) nonché del parere 11 aprile 2014 dalla Commissione Comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio. 2.Con il ricorso di prima istanza (N.R.G. 824/2015), gli odierni appellanti - sul presupposto di essere proprietari ognuno di un appartamento costituente parte di un edificio in Piediluco, una parete perimetrale del quale è in aderenza a quella dell’edificio (Albergo Lido) della Impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo, Augusto e Stefano (società controinteressata) - avevano impugnato i medesimi atti, lamentando l’illegittimità degli atti di assenso edilizio, inclusi quelli presupposti di pianificazione generale e attuativa. 2.1. Il ricorso veniva affidato a otto motivi di gravame sussumibili nella violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere. I ricorrenti deducevano violazioni di carattere sia formale e procedimentale che sostanziale. 2.2.In particolare, quanto ai vizi di carattere procedimentale, essi deducevano: omessa comunicazione di avvio del procedimento di approvazione del piano attuativo; assenza del parere regionale in materia sismica; incompetenza della Commissione comunale per la qualità architettonica e del paesaggio a rendere tale parere; incompetenza della Giunta ad approvare il piano attuativo, in luogo del Consiglio comunale; difetto di motivazione dei pareri della medesima Commissione e della Soprintendenza; approvazione del piano regolatore comunale generale del Comune di Terni in difetto di V.A.S.; quanto ai vizi sostanziali: che il piano regolatore consentirebbe ristrutturazioni di tipo conservativo e non anche a carattere demolitorio come quella in contestazione; omessa valutazione preventiva per stabilire la necessità, o meno, di compiere l’iter di V.A.S.; omessa valutazione di incidenza degli interventi in contestazione; ricostruzione dell’edificio in contestazione con sagoma differente rispetto a quella originaria; errata classificazione dei lavori in questione come di “ristrutturazione edilizia” laddove si consentirebbe, invece, una nuova costruzione; illegittimo aumento di cubatura o superficie utile coperta; illegittimità dei condoni riguardanti l’edificio in contestazione. 2.3. Si costituivano in giudizio il Comune di Terni e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici. dell’Umbria per resistere al ricorso. 3.Il T.A.R. respingeva il ricorso e condannava i ricorrenti alle spese del giudizio. 4. Il giudice di prime cure osservava che: 4.a) sulla mancata comunicazione di avvio del procedimento, trova applicazione l’art. 13 della legge n. 241 del 1990 nonché la legge regionale n. 11 del 2005; 4.b) sulla competenza della Commissione comunale per la qualità architettonica e del paesaggio a rendere il parere sismico, trova applicazione l’art. 24, comma 9, della citata legge regionale n. 11 del 2005; 4.c) sulla competenza della Giunta comunale in ordine al piano attuativo, la normativa nazionale introdotta dal c.d. decreto sviluppo (d.l. n. 70 del 2011), acconsente a che la Giunta possa deliberarne l’approvazione; 4.d) le valutazioni contenute nel parere reso dalla Commissione comunale appaiono sufficientemente motivate per relationem; 4.e) la motivazione resa nel parere espresso dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio dell’Umbra risulta essere stata ulteriormente esplicitata dalla medesima Soprintendenza in occasione del “Rapporto descrittivo dello sviluppo del procedimento”; 4.f) il vizio di difetto di V.A.S. è insuscettibile di inficiare la procedura in esame in quanto il PRG non è oggetto di impugnativa e il piano attuativo non apporta ad esso varianti; 4.g) l’intervento edilizio (demolizione e ricostruzione dell’edificio) è riconducibile alla tipologia della ristrutturazione edilizia in quanto, pur comportando una leggera modifica di sagoma - mediante arretramento del suo volume, per rendere l’edificio maggiormente omogeneo all’aggregato urbano di riferimento rispetto alla sponda del lago e contribuire, così, ad una maggiore godibilità dell’ambiente circostante mantenendo sostanzialmente inalterato il quadro d’insieme – esso è rispettoso del volume e contempla, altresì, una altezza inferiore rispetto a quella originaria. 5. Gli originari ricorrenti appellano la sentenza n. 750/2016 per i seguenti motivi. 5.a. Error in procedendo – Violazione dell’art. 70 del c.p.a. 5.a.a. Il T.A.R. ha omesso di esaminare la richiesta di riunione formulata dai ricorrenti per iscritto, in seno alla memoria di replica 16 settembre 2016, e per aver omesso la riunione del ricorso n. 849/2015 (ad oggetto: impugnazione dei condoni rilasciati dal Comune con riguardo a porzioni notevolmente rilevanti dell’edificio “Hotel Lido’ di Piediluco, quale la sopraelevazione di 3 piani dell’originario corpo, l’ampliamento mediante aggiunzione di una salone pranzo in avanzamento verso il lago, l’avanzamento del corpo centrale verso la Piazza Bonanni del centro di Piediluco) a quello n. 824/2015; la decisione sulla legittimità o meno dei condoni era di rilievo in ordine alla decisione giudiziale direttamente inerente il P.A. 5.b. Motivo correlato ai motivi VI/A e VII del ricorso di primo grado. Error in iudicando - Incompetenza – Violazione e falsa applicazione di legge (L.r. n. 11/2005 artt. 17 e 18 e L.r. n. 1/2015, Art. 31 e 32 ; D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 5, co. 13, lett. b) - Violazione e travisamento del P.R.G. - Violazione, mancata e falsa applicazione di legge (T.U. Edilizia D.P.R. n. 380/2001, art. 3, co. 1, lett. d) [secondo e terzo periodo] in correlazione all’art. 1, co 1, del medesimo T.U.) - Erronea e falsa applicazione di legge (L.r. n. 1/2004, art. 3, co. 1, lett. d) [come sostituita dall’art. 52, comma 2, L.R. 16 settembre 2011, n. 8]): 5.b.b. Il P.R.G. vigente prevede la conservazione delle connotazioni dei fabbricati esistenti. Le N.T.A. [del P.P. del Centro storico di Piediluco] in particolare l’art. 10 (trascritto nella delibera di G.C. n. 93/2015) consentono sì ristrutturazioni, ma a carattere conservativo, atteso che le modifiche di sagoma sono ammesse per le sole coperture, e che l’art. 56, co. 2, delle N.T.A. del P.R.G. p.o. (del 2008) stabilisce, per le << zone a insediamenti residenziali storici>> “Gli interventi in queste zone sono finalizzati alla salvaguardia delle caratteristiche storico-tipologiche degli edifici e dell’impianto urbano …”. Il TAR, non si sarebbe curato di prendere in considerazione le disposizioni pianificatorie primarie, bensì ha sostenuto, in ritenuto contrasto rispetto alle richiamate prescrizioni di P.R.G, che le opzioni di radicale trasformazione per via di demolizione e nuova sostitutiva costruzione, introdotte e consentite dal Piano impugnato, sarebbero coerenti con le citate regole di pianificazione generale. L’affermata coerenza è ritenuta errata “là dove, invece, è stata sostituita una scelta di radicale trasformazione del contesto urbano e paesaggistico a una sovraordinata opzione conservativa. Il P.A. ha variato, rispetto al P.R.G., le scelte urbanistiche riguardanti il punto centrale del paese di Piediluco, variazione questa necessariamente di competenza consiliare per disposto di legge”. E’ lo stesso D.P.R. n. 380/2001, all’art. 3, co. 1, lett. d). [secondo e terzo periodo], in correlazione all’art. 1, co 1, del medesimo T.U., a stabilire che, quanto ad immobili ricadenti in ambiti paesaggisticamente protetti e vincolati (come appunto il paese di Piediluco), non possono essere praticati interventi di innovazione edilizia consistenti in demolizioni e ricostruzioni innovative quanto a sagoma. 5.c. Errores in procedendo ed in iudicando – Travisamento - Violazione, mancata e falsa applicazione di legge (T.U. Edilizia D.P.R. n. 380/2001, art. 3, co. 1, lett. d) [secondo e terzo periodo] in correlazione all’art. 1, co 1, del medesimo T.U.) - Erronea e falsa applicazione di legge (L.r. n. 1/2004, art. 3, co. 1, lett. d) [come sostituita dall’art. 52, comma 2, L.R. 16 settembre 2011, n. 8]). 5.c.c. Il contesto paesaggistico in cui ricade l’intervento è protetto in virtù di specifico provvedimento ed ex lege (vincolo paesaggistico ex D.M. 5 gennaio 1976 e d.lgs. n. 42/2004, art. 136, e sito di interesse comunitario ex D.P.R. n. 357/1997). Il Comune, nel consentire una demolizione integrale seguita da ristrutturazione con sagoma differente, e con il qualificare consimile intervento come di “ristrutturazione” (con ciò che ne consegue in tema di regole e quantità edificatorie) contrasta con le disposizioni di legge. Dal confronto e dalla disamina delle tavole, di P.A., n. 2 “elaborato stato di fatto” e n. 3 “elaborato di progetto” emergerebbe l’errore commesso dal T.A.R., la fallacità del decisum in correlazione alle norme in rubrica, nonché il fatto che il piano attuativo stesso abilita a demolire e ricostruire con radicalmente difforme sagoma. Gli atti ufficiali consentono di dire e ritenere che “sia stata rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente” e “non consentono, quindi, di dar spazio ad un’iniziativa edificatoria affrancandola - quanto a distanze dai confini, quanto ad arretramento dalle strade e piazze, quanto a standards da rispettare - dall’osservanza delle vigenti regole sull’uso del territorio e sui rapporti di vicinato mediante una qualificazione interdetta dalla legge”. Le componenti grafico-progettuali del P.A. attesterebbero, infatti, il contrario, posto che per “sagoma” di un edificio è da intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, ovvero il contorno che viene ad assumere l’edificio, ivi comprese le strutture perimetrali con gli aggetti e gli sporti. Nel caso di specie, il contorno e il perimetro dell’esistente e del progettato differirebbero marcatamente. 5.d. Doglianza correlata al motivo VI/C del ricorso di primo grado - Errores in procedendo ed in iudicando – Travisamento - Violazione e falsa applicazione di legge (D.P.R. n. 380/2001, art. 3, co. 1, lettere d) [secondo e terzo periodo] ed e), in relazione al ed in combinato con il R.R. n. 9/3 novembre 2008, art. 25, co. 2 (ora, dall’art. 25 co. 2, della L.r. n. 1 del 2015; N.T.A. del P.R.G., Art. 29, co. 3; art. 8 del D.M. n. 1444/1968; art. 3 co. 1, lett. d), del T.U. edilizia); art. 66 del c.p.a. 5.d.d. Il piano attuativo prevede la realizzazione di un edificio che per le sue connotazioni, non può essere qualificabile come ristrutturazione, bensì come “nuova costruzione”. In particolare: - l’arretramento del sostitutivo nuovo edificio, contemplato dal piano, dal ciglio (carrabile) di via Noceta misura da circa ml. 4,00 a ml. 2,00 (tale ultima esigua misura all’angolo con piazza Bonanni); l’arretramento rispetto a detta piazza misura da ml. 2,50 (all’altezza del menzionato angolo) a ml. 4,50 circa. Tanto, in violazione delle norme in rubrica che stabiliscono, quanto ad aree interne ai centri abitati, per strade di larghezza inferiore a ml. 7, l’arretramento di minimo 5,00 ml; - il Piano consente che l’edificio sostitutivo ascenda, al colmo, ad altezza maggiore rispetto alla vicinissima chiesa romanica di S. Francesco; - sotto questo profilo, il TAR non avrebbe preso in esame gli indizi forniti dalla perizia di parte, né si sarebbe avvalso dell’ausilio di cui all’art. 66 del c.p.a. per il riscontro di quanto risultante dalla citata perizia di parte. 5.e. Errores in iudicando - Violazione e falsa applicazione di legge e dei principi generali (Art. 117 della Costituzione -- T.U. Edilizia, art. 89, c. 1; art. 4 L.r. n. 1/2004 ed artt. 24 co. 9, e 37, co. 3, della L.r. n. 11/2005) - Eccesso di potere - Incompetenza della Commissione per la qualità architettonica e del paesaggio. 5.e.e. La decisione risulterebbe errata al confronto con l’art. 24 della L.R. 11 del 2005, norma, quest’ultima, in base alla quale è stato respinto il motivo di ricorso proposto avverso la censura di incompetenza della Commissione comunale. Detta norma, con lo stabilire che il Comune in sede di adozione (quindi, per esso, uno degli organi politici dell’ente) “esprime parere ai fini dell'articolo 89 del D.P.R. n. 380/2001… , sentito il parere della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio”, altro non avrebbe stabilito se non che anche l’ente pianificatore deve esprimersi riguardo alla tematica della compatibilità sismica del piano in avvio di iter di approvazione, ma, ciò, senza porre nel nulla (detto art. 24 della legge regionale) la regola di legge statale, che obbliga alla richiesta di parere all’ufficio regionale competente in materia sismica. E invero, se il disposto del comma 9 dell’art. 24 della L.r. n. 11/2005 fosse da intendere derogatorio rispetto all’art. 89 del D.P.R. n. 380 del 2001, la norma regionale in questione sarebbe viziata da incostituzionalità per violazione dell’art. 117 della Carta e ne dovrebbe essere valutata la sua rimessione alla Corte per l’esame di legittimità costituzionale. 5.f. Errores in iudicando ed in procedendo - Travisamento – inadeguata motivazione della sentenza – Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della L. n. 241/1990 e dei principi generali in materia di atti amministrativi. 5.f.f. La motivazione del parere è carente. Il TAR ha ritenuto sufficiente la motivazione per relationem ai verbali, tuttavia dai verbali non risulterebbe essere stato compiuto alcun raffronto tra i valori paesaggistici del contesto e l’opera edilizia in fieri; inoltre, nei detti verbali non risulterebbe espresso alcun giudizio di compatibilità fra il fabbricato realizzando ex P.A. ed il vincolo/valore paesaggistico dell’ambito di intervento, e men che meno risulta un giudizio motivato adeguatamente. 5.f.f.f. Anche la motivazione del parere favorevole reso dalla Soprintendenza beni architettonici e paesaggistici dell’Umbria, del 23 luglio 2014, n. 14325, reso <in conseguenza dell’aver visto “la relazione tecnica illustrativa dell’Amministrazione di cui in oggetto”>, sarebbe illegittimo per apoditticità. Il TAR non ha, infatti, accolto la censura sulla scorta del soprintendentizio “Rapporto descrittivo dello sviluppo del procedimento”. Tuttavia, tale scritto risulterebbe “1) acquisito al giudizio in data e forma ignota; 2) datato “Perugia, 4 novembre 2013” ; 3) privo di numero di protocollo; 4) palesemente funzionale ad integrare il parere impugnato, ma ex post rispetto alla conclusione del procedimento di pianificazione attuativa, dato che nell’oggetto’ reca riferimento al “Ricorso al TAR con sospensiva Avv. Chiaranti Renato e Stefanini Ersilia”. 5.g. Errores in procedendo ed in iudicando – Travisamento, per erronea interpretazione del petitum – Violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 1 del c.p.a., e dei correlati principi generali. 5.g.g. Il Tribunale di primo grado avrebbe del tutto omesso di decidere in ordine al quarto motivo del ricorso introduttivo, relativo alla omessa V.A.S. ai fini dell’approvazione del piano attuativo che, per i piani inerenti siti di interesse comunitario (quale è il Lago di Piediluco), risulta necessaria ai sensi del d.lgs, 3 aprile 2006, n. 152, art. 6, commi 3 e 3-bis, ed art. 12. 5.h. Errores in procedendo ed in iudicando – Violazione e falsa applicazione di legge (art. 5 del D.P.R. n. 357/1997, segnatamente co. 7) - Travisamento, per erronea interpretazione del petitum – Violazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 1 del c.p.a., e dei correlati principi generali. 5.h.h. Il giudice di primo grado non ha correttamente esaminato la censura dedotta col quinto motivo di ricorso, relativa alla omessa valutazione, non della VAS bensì, della incidenza sul sito Piediluco, di interesse comunitario. La Regione non avrebbe curato la verificazione d’incidenza, né si sarebbe espressa motivatamente riguardo alle indicazioni in merito all’incidenza contenute negli elaborati del P.A. 6. Si sono costituiti in giudizio, per resistere all’appello, il Comune di Terni, il Ministero dei beni e delle attività culturali e l’impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo Augusto e Stefano. 6.1. Il Comune, oltre a chiedere il rigetto dell’appello, ha eccepito l’inammissibilità del motivo col quale è stata introdotta in primo grado, e riproposta in appello, la censura relativa all’asserito difetto di competenza della Commissione comunale a rendere il parere sismico. 7. Con atto di appello R.G. n. 4828/2017, i signori Renato Chiaranti ed Ersilia Stefanini propongono appello avverso la sentenza del T.A.R. per l’Umbria n. 751/2016, assunta nella camera di consiglio del 12 ottobre 2016, pubblicata il 6 dicembre 2016, di cui chiedono l’annullamento o riforma. 8. Con il ricorso di primo grado (R.G. n. 849/2015), integrato con motivi aggiunti proposti successivamente al deposito documentale dell’Amministrazione, gli odierni appellanti, premesso di essere proprietari ognuno di un appartamento costituente parte di un edificio in Piediluco (C.so Raniero Salvati, ove risiede la ricorrente sig.ra Stefanini) una parete perimetrale del quale è in aderenza a quella dell’edificio (Albergo Lido) della controinteressata, avevano chiesto l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria 3 agosto 2011, prot. 113861, relativa a lavori di tamponatura al piano terra su due lati di un portico con infissi metallici e parapetto in muratura, ampliamento al piano primo lato sud, ampliamento in sopraelevazione degli interi piano quarto e piano quinto; della concessione edilizia in sanatoria 3 agosto 2011, prot. 113880, relativa a: realizzazione di un locale, ad uso sala ristorante, al piano primo dell’ala nord-ovest entrambe concernenti l’edificio già Albergo Ristorante Lido, in Terni, Loc. Piediluco, Piazza Bonanni n. 2, Foglio catastale 170, Particelle 116 e 117 ; e di tutti gli atti - preparatori, connessi, istruttori, consultivi - dei procedimenti che hanno portato al rilascio delle impugnate concessioni edilizie a sanatoria, segnatamente dei pareri della Commissione Edilizia Comunale integrata, espressi, rispettivamente, nelle sedute del 17 giugno 2003 e del 19 aprile 2007, nonché degli atti di nomina della suddetta Commissione. 9. Questi i motivi del gravame in prime cure: 9.1. Violazione erronea e falsa applicazione di legge, in relazione all’art. 146, c. 4 e 5, del d.lgs 22 gennaio 2004, n. 42, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 2; c. 1, lett. s), del d.lgs. n. 63 del 2008; 9.2. Violazione dell’art. 146, commi 6, 7 e 8, del d.lgs. n. 42 del 2004, nel testo vigente pre-modifiche apportate dal d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157; violazione dell'art. 32, c. 1 e 4, della L. n. 47 del 1985, anche in reciproca relazione; nonché violazione del principio di tipicità ed eccesso di potere per lacune istruttorie; 9.3. Violazione erronea e falsa applicazione di legge, oltre che dei principi generali (art. 97 della Cost. e L. n. 241/1990, art. 2; art. 32 della L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 39 della L 23 dicembre 1994, n. 724); eccesso di potere per difetto o carenza di motivazione, carenze istruttorie, illegittimità dei presupposti; 9.4. Eccesso di potere sotto vari profili sintomatici, in relazione alla illegittimità degli atti presupposti alle concessioni edilizie in sanatoria. 9.5. In sintesi, i ricorrenti lamentavano il difetto del nulla osta di competenza della Soprintendenza; la mancata trasmissione dei pareri alla Soprintendenza per il controllo di legittimità; mancata esplicitazione delle ragioni per le quali l’intervento edilizio oggetto di condono possa ritenersi compatibile con il contesto paesistico circostante; omessa analisi di compatibilità dell’opera rispetto alla morfologia, ante e post operam, abusiva; apoditticità delle affermazioni. 10. Il T.a.r. respingeva il ricorso per le seguenti motivazioni: 10.1. L’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, come risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 2, comma 1, lett. s), del d.lgs. n. 63 del 2008, non può applicarsi al caso di specie, atteso che i condoni impugnati sono stati rispettivamente incardinati in data 30 settembre 1986 e 3 marzo 1995, e ricadono quindi ratione temporis nella disciplina normativa di cui alla legge n. 1497/1939 (Protezione delle bellezze naturali) ed alla legge della Regione Umbria n. 29/1984 (Norme urbanistiche ed ambientali modificative ed integrative delle leggi regionali 3 giugno 1975, n. 40, 9 maggio 1977, n. 20, 4 marzo 1980, n. 14, 18 marzo 1980, n. 19 e 2 maggio 1980, n. 37), che non prevedono affatto che la Soprintendenza si debba necessariamente esprimere con un parere a carattere obbligatorio e/o vincolante. 10.2. La Commissione edilizia ha specificatamente motivato il proprio giudizio sul rilievo del mancato pregiudizio delle vedute panoramiche oggetto di tutela; 10.3. E’ stata rappresentata alla Soprintendenza, in caso di eventuale esercizio del sindacato di legittimità di propria competenza, la possibilità di visionare la documentazione (ai fini del controllo di legittimità). 10.4. La mancata analisi della compatibilità dell’opera rispetto alla morfologia del contesto di riferimento, ante e post operam, sia dal punto di vista paesaggistico che ambientale, è circostanza insuscettibile di inficiare il condono edilizio n. 113861/2011, tenuto conto delle positive valutazioni espresse al riguardo dalla Soprintendenza e dalla Commissione Edilizia Comunale Integrata. 11. Nel gravarsi in appello avverso la sentenza del T.a.r., gli appellanti deducono i seguenti motivi. 11.1. Error in procedendo – Violazione dell’art. 70 del c.p.a. Il T.a.r. ha omesso di esaminare la richiesta di riunione formulata dai ricorrenti per iscritto, in seno alla memoria di replica 16 novembre 2016, e per aver omesso la riunione del ricorso 849/2015 al ricorso n. 824/2015. 11.2. Error in iudicando - Violazione erronea e falsa applicazione di legge (art. 146, co. 4 e 5, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 2, co. 1, lett. s), del d.lgs. n. 63 del 2008, in relazione alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 32, co. 1, nonché falsa ed errata applicazione della L.R Umbria n. 29 del 1984). Il T.a.r. ha errato nel ritenere inapplicabile l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 nel testo modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008 in ragione della anteriorità delle date di “incardinamento” dei due procedimenti di condono (1986 e 1995), e affermando l’applicabilità, nei casi di specie, della L. n. 1497/1939 e di quella della Regione Umbria n. 29/1984, e non del d.lgs. n. 42 del 2004: l’autorità preposta alla tutela del vincolo avrebbe dovuto tenere conto della disciplina vigente al momento in cui era chiamata a valutare la domanda di sanatoria, in quanto oggetto del giudizio è l’attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente. 11.3. Errores in procedendo ed in iudicando – Violazione erronea e falsa applicazione di legge (art. 146, commi 6, 7, 8, del d.lgs. n. 42 del 2004, nel testo vigente pre-modifiche apportate dal d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157, ed altresì dell’art. 32, c. 1 e 4, della L. n. 47 del 1985, anche in reciproca relazione; nonché violazione del principio di tipicità. Il T.a.r. ha errato nel non ritenere la necessità della partecipazione co-decisionale al procedimento della Soprintendenza statale, mediante invio degli atti alla medesima. 11.4. Falsa applicazione dei principi generali e delle norme di legge (art. 97 della Costituzione, art. 3 della L. n. 241/1990, art. 32 della L. n. 47/1985) - Carenze nella motivazione della sentenza. L’affermazione del T.a.r. secondo cui il “mancato pregiudizio delle vedute panoramiche oggetto di tutela” integra una motivazione adeguata, è in contrasto con l’esigenza di “mettere in chiaro le ragioni della compatibilità dell’opera, realizzata senza titolo e in difetto di autorizzazione paesaggistica, con i valori protetti”. 11.5. Error in iudicando – Falsa applicazione dei principi generali e violazione di essi e delle norme di legge (Art. 97 della Costituzione, Art. 3 della L. n. 241/1990, Art. 32 della L. n. 47/1985) - Illogicità della motivazione. Non è in sintonia con la ratio delle norme in rubrica, l’affermazione del T.a.r. secondo cui la segnalata possibilità di visionare gli atti, i progetti e le foto “concessa” dall’Associazione dei Comuni alla Soprintendenza non avrebbe privato il “parere” e la “sanatoria” di validità. 11.6. Falsa applicazione dei principi generali e violazione di essi e delle norme di legge (art. 97 della Costituzione, art. 3 della L. n. 241/1990, art. 32 della L. n. 47/1985) - Violazione del principio di tipicità degli atti e dei procedimenti amministrativi - Travisamento - Illogicità della motivazione. Non vi sarebbe traccia delle “asserite, positive valutazioni della Soprintendenza”. 12. Si sono costituiti in giudizio il Comune di Terni e l’impresa Ponteggia S.n.c. di Ponteggia Massimo Augusto e Stefano. 12.1. Il Comune di Terni, oltre a chiedere il rigetto dell’appello, eccepisce l’inammissibilità del gravame, già dedotta in primo grado, per non avere controparte “neppure allegato una circostanza attualmente e concretamente pregiudizievole per i propri interessi”. 12.2. L’Ente locale reitera, altresì, l’eccezione di irricevibilità dei motivi aggiunti al ricorso di primo grado per tardività. I documenti, avverso i quali è stato proposto il ricorso per motivi aggiunti in primo grado, sono stati depositati in giudizio il 13 novembre 2015, data da cui decorre la loro piena conoscenza legale; la notifica dell’atto si è perfezionata per il richiedente con la sua consegna al servizio postale il 9 febbraio.2016, dunque, oltre il decorso del termine di sessanta giorni dal deposito dei documenti in giudizio. 13. Parte appellante ha controdedotto, puntualmente e in fatto, alle eccezioni di inammissibilità e irricevibilità dei gravami. 14. All’udienza del 13 maggio 2021, gli appelli sono stati trattenuti per la decisione. DIRITTO 15. Preliminarmente, il Collegio dispone la riunione dei ricorsi in ragione della loro connessione soggettiva e oggettiva. 16. Con un primo motivo di appello (articolato in entrambi i gravami), è stata dedotta la violazione dell’art. 70 del c.p.a. Il T.a.r., sostengono gli appellanti, avrebbe omesso di esaminare la richiesta di riunione dei ricorsi n. 824/2012 (deciso con la sentenza oggi all’esame dell’appello) e n. 849/2015 (recante ad oggetto i condoni edilizi inerenti il medesimo edificio). 17. Il motivo è infondato. 17.1. I ricorsi in questione sono stati decisi dal T.a.r. per l’Umbria con sentenze n. 750/2016 e 751/2016 nella medesima camera di consiglio del 12 ottobre 2016. La circostanza attesta la trattazione congiunta dei due ricorsi, modalità questa che risponde alla medesima ratio sottesa alla “riunione”. 17.2. Giova, comunque, ricordare che la riunione dei ricorsi è in facoltà e non in obbligo del giudice, che la può disporre, nella sussistenza della identità di causa petendi o petitum, laddove esigenze di concentrazione e sinteticità dei giudizi suggeriscano l’opportunità di una decisione uno actu, anche per scongiurare eventuali conflitti tra giudicati. L’esercizio della facoltà, come la sua omissione, non è, pertanto, un motivo di invalidità della sentenza. In ogni caso, la disposta riunione dei giudizi nel presente grado di appello rende in parte superata la questione. 18. Si può passare all’esame di merito degli appelli. 19. Per priorità logica, il Collegio ritiene di dover principiare dall’appello rubricato al R.G. n. 4828/2017. 20. Gli appellanti contestano la sentenza del T.a.r. per l’Umbria n. 751/2017 che ha respinto il ricorso proposto avverso le concessioni edilizie del 3 agosto 2011, prot. n. 113861 e prot. n. 113880. 20.1. I motivi di appello sono incentrati, principalmente e sostanzialmente, sulla dedotta violazione dell’art. 146 del d.lgs n. 42 del 2004, meglio sul mancato coinvolgimento della Soprintendenza statale investita in via primaria e codecisionale del parere-autorizzazione funzionale alla tutela del paesaggio. 21. Il T.a.r. ha respinto il ricorso sul presupposto che non troverebbe applicazione alla fattispecie (rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria) la citata fonte normativa, nel testo modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008, in ragione della anteriorità delle date di “incardinamento” dei due procedimenti di condono (1986 e 1995). 22. Prima di esaminare nel merito i menzionati motivi, occorre, tuttavia, scrutinare le eccezioni di inammissibilità e irricevibilità formulate dal Comune di Terni. 22.1. Nell’ordine di trattazione, il Collegio ritiene di procedere dall’esame della eccezione di inammissibilità. 22.2. L’Amministrazione civica sostiene che gli appellanti non avrebbero comprovato la propria legittimazione ad agire, per avere gli stessi omesso di allegare un concreto pregiudizio derivante alla personale sfera patrimoniale, distinta dalla mera vicinitas, essa s’appalesa infondata. Il rilievo è stato formulato in primo grado e riproposto in appello. 23. Il Collegio osserva che la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento di una “qualsiasi” decisione di merito. 23.1. L’esistenza della condizione deve riscontrarsi “esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza” (Cons. Stato, Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3657). 23.2. Con riguardo specifico alle controversie relative all’impugnazione di un titolo edilizio, deve darsi atto di due orientamenti contrapposti (v. Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 2019, n. 2025). 23.4. Il primo e tradizionale orientamento, tutt’ora seguito, è quello che ritiene la vicinitas, intesa quale stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell’intervento costruttivo autorizzato (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 30 settembre 2019, n. 6521), elemento sufficiente a radicare la legittimazione e l’interesse ad agire in giudizio, senza che sia necessario, da parte del ricorrente, fornire la prova di un pregiudizio concreto ed effettivo arrecato alla sua sfera giuridica dal provvedimento impugnato (Cons. Stato, Sez. II, 14 ottobre 2019, n. 6938; Sez. IV, 24 aprile 2019, n. 2645; sez. VI, 10 settembre 2018, n. 5307; Cons. Stato, Sez. IV, 20 agosto 2018, n. 4969; id., sez. IV, 26 luglio 2018, n. 4583). Una recente sentenza di questo Consiglio (Sez. VI, 29 marzo 2019, n. 2100) ha puntualizzato come “la giurisprudenza ha riconosciuto il criterio della vicinitas di per sé idoneo a legittimare l’impugnazione di singoli titoli edilizi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 4 maggio 2010 n. 2565), assorbendo in sé anche il profilo dell’interesse all’impugnazione, qualora ad impugnare sia il proprietario confinante (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 dicembre 2010 n.9537). … deve aggiungersi che, nell’ambito degli abusi edilizi, la giurisprudenza ritiene il pregiudizio del confinante in re ipsa, dato che ogni edificazione abusiva incide sull'equilibrio urbanistico e sull’ordinato sviluppo del territorio (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2861; Cons. di Stato, Sez. IV, 23 giugno 2015, n. 3180)”, così ribadendo e confermando l’orientamento tradizionale. 23.5. Il secondo e più recente orientamento, invece, ritiene necessario che il ricorrente fornisca la “prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, quali il deprezzamento del valore del bene o la concreta compromissione del diritto alla salute ed all’ambiente” (Cons. Stato, Sez. II, 1 giugno 2020, n. 3440; Sez. IV, 13 marzo 2019 n. 1656; Sez. IV, 22 giugno 2018, n. 3843; Sez. IV, 15 dicembre 2017 n. 5908; Sez. VI, 18 ottobre 2017, n. 4830). 23.6. Sotto quest’ultimo profilo, va dato atto che gli appellanti hanno lamentato in primo grado il pregiudizio ad essi derivante dalle superfetazioni condonate (tra cui, la sopraelevazione dell’Albergo Lido di un piano e di un ulteriore torrino scale e vano di accesso al piano di copertura; un locale uso ristorante) che “incombono sull'edificio del quale sono parte le unità residenziali dei ricorrenti”. In particolare, essi hanno prospettato che “la sopraelevazione da un lato confina con lo stabile al civico n. 44/a, di C.so Raniero Salvati”, e che le superfetazioni condonate “si interpongono tra gli affacci e terrazzi da/di detti appartamenti e le sponde del lago, restringendo il cono visuale goduto dalle dette unità abitative”. 23.7. Tale circostanza non è stata contestata dalle controparti. 23.8. La fattispecie concreta all’esame del Collegio permette di prescindere dal prendere posizione per uno o per l’altro orientamento, in quanto è incontestato che l’abitazione degli appellanti è posta nelle vicinanze dell’area dove dovrebbe realizzarsi la assentita ristrutturazione (i cui lavori non sono ancora iniziati in attesa che venga definita l’intera controversia: vedi istanza di prelievo datata 20 luglio 2020, versata agli atti del fascicolo di appello n. 4825/2017) ed è parimenti comprovato che da essa scaturirà una compromissione della veduta panoramica. 23.9. La circostanza che la compromissione della fruizione del panorama – quale elemento di pregio del bene di cui gli appellati sono proprietari – potrebbe avvenire anche solo in misura minima, parziale o marginale non assume, invero, alcun rilievo per disconoscere la titolarità di un interesse da difendere in giudizio e, dunque, la stessa legittimazione ad agire, rilevando come unico valore la tutela del proprio bene, cui si correlano gli interessi giuridici di protezione che l’ordinamento riconosce a prescindere dalla consistenza materiale o economica dei medesimi. 23.10. Le considerazioni che precedono, in punto di fatto, fanno ragione anche sulla sussistenza, in capo agli appellanti, dell’interesse ad agire, compiutamente rappresentato dai ricorrenti in primo grado laddove è stato evidenziato come, dal rilascio dei titoli edilizi reputati illegittimi, sarebbe scaturita, in mancanza della proposizione dell’azione di annullamento, la preclusione della vista panoramica. 23.11. Va soggiunto, infine, che l’interesse ad agire neppure potrebbe essere revocato in dubbio dalla circostanza che le opere abusive, ritenute pregiudizievoli, fossero preesistenti al condono edilizio, così che la condizione dell’azione si sarebbe inverata in epoca precedente al rilascio dei titoli edilizi oggi avverati. Lo stato di abusività delle opere, se permette, infatti, al confinante di sollecitare i poteri di controllo e repressivi contemplati dalla legislazione di settore, non altrettanto consente di legittimarlo all’azione di annullamento in difetto di un titolo da impugnare. Ragion per cui, soltanto nel momento in cui l’amministrazione competente avrà adottato i provvedimenti del caso (demolitori, di sanatoria, di condono, ecc…) insorgerà l’interesse ad agire in capo ai rispettivi soggetti lesi. 24. Si può passare, ora, all’esame di merito dell’appello n. 4828/2017. 25. L’appello è infondato. 26. La sua infondatezza consente di prescindere dall’esame della eccezione di irricevibilità dei motivi aggiunti al ricorso di primo grado, formulata dal Comune di Terni nella memoria di costituzione. 27. Con un primo ordine di motivi, gli appellanti hanno dedotto violazione dell’art. 146 del d.lgs n. 42 del 2004, per il mancato coinvolgimento della Soprintendenza statale investita in via primaria e co-decisionale del parere-autorizzazione funzionale alla tutela del paesaggio. 27.1. Il T.a.r. ha respinto il ricorso sul presupposto che non troverebbe applicazione alla fattispecie (rilascio delle concessioni edilizie in sanatoria) la suddetta fonte normativa, nel testo modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008, in ragione della anteriorità delle date di “incardinamento” dei due procedimenti di condono (1986 e 1995). 27.2. La tesi dell’Amministrazione comunale, condivisa dal giudice di primo grado, è, dunque, che le norme di cui al d.lgs n. 42 del 2004 non troverebbero applicazione al procedimento de quo in quanto incardinato in data 30 settembre 1986, nella vigenza della legge n. 1497/1939 e della legge della Regione Umbria n. 29/1984. 28. I motivi sono infondati. 28.1. A dire degli appellanti, difetterebbe il parere della Soprintendenza ai BB CC e AA, configurante “una valutazione di merito amministrativo espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico”. 28.2. Sul punto, va richiamata la giurisprudenza amministrativa (cfr sez. VI, sentenza 17 maggio 2013, n. 4492, pure richiamata dagli appellanti ma con una sua lettura solo parziale) secondo la quale va applicato il procedimento autorizzatorio ordinario paesaggistico ex art. 146 del Codice dei beni culturali (anche) per le richieste di condono edilizio depositate in ogni epoca (nella specie, due condoni), sulle quali tuttavia ancora non si sono avute manifestazioni di diniego e accoglimento in ambito paesaggistico. 28.3. Il Consiglio di Stato, con la citata pronuncia, si è espresso nel senso di ritenere l’applicabilità della disciplina “a regime” di cui all’art. 146, che, secondo la previsione dell’art. 159, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004, si applica “anche ai procedimenti di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica che, alla data del 31 dicembre 2009, non si siano ancora conclusi con l’emanazione della relativa autorizzazione o approvazione”. 28.4. Ebbene, nel caso di specie i procedimenti di condono edilizio si sono conclusi in data 3 agosto 2011 (dopo l’entrata in vigore della novella normativa richiamata dagli appellanti). Tuttavia, il procedimento avente prot. 113880, richiama il parere favorevole della Commissione edilizia comunale integrata del 17 giugno 2003; quello avente prot. 113861, richiama il parere favorevole della medesima Commissione del 19 aprile 2007. Inoltre, la delibera con la quale l’Esecutivo dell’Associazione Intercomunale del Comprensorio n.12 della Conca Ternana ha espresso parere favorevole per i divisati lavori per quanto attiene al punto di vista ambientale, è datata 22 settembre 1989 (atto n. 387/1989). 28.5. Va da sé che, i procedimenti di autorizzazione paesaggistica, volti alla verifica della compatibilità ambientale dei lavori in questione (oggetto delle domande di condono) con i vincoli esistenti, si erano già conclusi alla data di entrata in vigore della novella legislativa di cui al d.lgs n. 63 del 2008. Ragion per cui, correttamente l’Amministrazione civica ha considerato acquisiti ai procedimenti di condono edilizio i rispettivi provvedimenti. 28.6. Il novum normativo evocato dagli appellanti ha, infatti, riguardato la fase del procedimento nella quale erano stati (già) adottati atti preparatori, la cui adozione aveva avuto la funzione di determinare la situazione giuridica necessaria a che l’atto conclusivo del procedimento, che li presuppone (rilascio delle sanatorie edilizie), potesse legittimamente sorgere; novum che ha inciso su requisiti di atti già adottati. 28.7. La regola dello ius superveniens, applicata ai procedimenti in corso secondo il criterio della loro suddivisione in fasi, comporta, pertanto, che i menzionati atti, adottati nel regime ratione temporis vigente (vale a dire prima della modifica apportata all’art. 146 del d.lgs n. 42 del 2004 dal d.lgs n. 63 del 2008), hanno conservato, anche sotto la vigenza della nuova legge, la loro validità, finendo per fungere da legittimi presupposti per i successivi e conclusivi provvedimenti di sanatoria. 29. Con altro ordine di motivi, gli appellanti hanno lamentato, comunque, il mancato coinvolgimento della Soprintendenza ai fini dell’esercizio del potere di controllo ratione temporis vigente. 30. I motivi sono infondati. 30.1. Giova chiarire che il provvedimento recante il nulla osta di compatibilità ambientale è stato rilasciato dalla Associazione Intercomunale della Conca Ternana ai sensi della legge Regione Umbria 8 giugno 1984, n. 29, e in forza dell’art. 9 della medesima legge che reca(va) la “subdelega” di funzioni amministrative ai Consorzi comprensoriali e alle Comunità Montane. 30.2. La delibera recante il detto nulla osta è stata trasmessa, in osservanza a quanto disposto dall’art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, al Sindaco del Comune di Terni, alla Regione Umbria e alla Soprintendenza per i Beni Ambientali per l’esercizio del sindacato di legittimità di competenza ministeriale, ratione temporis vigente: sindacato che il Ministero dei Beni Culturali – Soprintendenza dell’Umbria, non risulta abbia esercitato. 30.3. Risulta, dunque, per tabulas l’acquisizione al procedimento del nulla osta ambientale nonché il positivo coinvolgimento-interessamento dell’autorità preposta alla gestione delle funzioni amministrative di cui alla legge n. 1497 del 1939 e all’art. 9 della legge della Regione Umbria n. 29 del 1984. 30.4. Tanto basta per respingere anche le censure articolate sub specie di deficit istruttorio e motivazionale dei condoni per non essere stato, il nulla osta, asseritamente preso in esame dal dirigente che ha rilasciato il detto titolo. La concordanza motivazionale nel rilascio di entrambi i provvedimenti (nulla osta ambientale e condono) nonché la natura vincolata in parte qua del provvedimento finale, sono sufficienti ad eludere ogni sospetto in tal senso adombrato. 31. Gli istanti lamentano il deficit istruttorio e motivazionale anche degli atti di assenso ambientale. 31.1. Le censure non sono fondate. 31.2. Sulla compatibilità ambientale delle opere in questione si sono espressi due organismi diversi in tre circostanze separate: il Comitato esecutivo dell’Associazione Intercomunale della Conca Ternana (organo sub-delegato dalla Regione all’esercizio della competenza in materia) e la commissione edilizia integrata (quest’ultima nel 2003, sul subprocedimento n. 9103/773 e nel 2007 sul sub-procedimento n. 9103/774). 31.3. Il coinvolgimento di più organismi sulla medesima questione di compatibilità ambientale, revoca in dubbio l’attendibilità della censura di difetto di istruttoria. 31.4. Quanto al difetto di motivazione, ferme le conclusioni rassegnate dal T.a.r., può soggiungersi che l’esplicitazione pur sintetica di compatibilità ambientale e di carenza di pregiudizio nei sensi articolati nel provvedimento di nulla osta e nei pareri, s’appalesa sufficiente e congruente in quanto supportata da una concordanza di valutazioni positive, prive di contraddittorietà intrinseca ed estrinseca. 31.5. Trattandosi di esercizio di ampia discrezionalità amministrativa, l’eccesso di potere denunciato dagli appellanti sconta un rafforzato regime di prova, idoneo a inferire la manifesta irragionevolezza o illogicità, ictu oculi percepibile, oppure il palese travisamento dei fatti; profili sintomatici che non si riscontrano nella circostanza alla stregua dell’incedere dell’istruttoria e delle valutazioni effettuate di cui sopra è stata data illustrazione. 32. In conclusione, l’appello in esame è infondato e va, pertanto, respinto. 33.Si può passare, ora, all’esame del gravame n. 4825/2017. 33.1. Gli appellanti censurano il Piano attuativo di iniziativa privata per la trasformazione urbanistica del complesso edilizio ex <<Hotel Lido>> a Piediluco, adottato con delibera di G.C. n. 170 del 7 maggio 2014, approvato con delibera della G.C. n. 93 del 1 aprile 2015, del quale i ricorrenti assumono di avere avuto conoscenza a seguito della pubblicazione sul B.U.R. n. 28 (serie avvisi e concorsi) del 14 ottobre 2015. 33.2. Contestano, in particolare: a) il parere di compatibilità idrogeologica, idraulica e sismica reso espresso dalla Giunta Comunale con la impugnata delibera 7 maggio 2014, n. 170 (di adozione del P.A.) ai sensi dell’art. 89 d.P.R. n. 380/2001 e dell’art. 24, c. 9 della legge della Regione Umbria 22 febbraio 2005, n. 11 (recante “Norme in materia di Governo del territorio: pianificazione urbanistica comunale”); b) il parere di compatibilità paesaggistica, accordato dalla Soprintendenza con nota 23 luglio 2014, prot. n. 14325; c) il parere di non assoggettabilità alla procedura di valutazione di incidenza, di cui all’art. 6 del d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120, accordato della Regione Umbria con nota prot. 160542 del 13 novembre 2014. 34. Con un primo ordine di rilievi, gli appellanti censurano il vulnus arrecato alle garanzie partecipative. 34.1. La censura non è fondata. 34.2. Correttamente il TAR ha applicato alla fattispecie l’articolo 13 della legge n. 241 del 1990 che esclude siffatta categoria di atti (id est, di pianificazione) dalla partecipazione disciplinata al Capo III della legge n. 241 del 1990. Per quest’ultima, infatti, la partecipazione si collega al concetto di interesse ed è a tutela di posizioni sostanziali. Si tratta di partecipazione uti singuli, preordinata alla tutela di una posizione soggettiva, in funzione “egoistica”, ovvero individuale e personale. 34.3. L’esclusione sancita dall’articolo 13 è coerente con questa impostazione giacché i singoli procedimenti quivi scanditi contemplano una diversa e apposita partecipazione, dove la legittimazione è data non dalla posizione soggettiva bensì dal possesso di uno status. 35. Con altro ordine di rilievi, gli appellanti hanno censurato l’omessa, previa verifica di assoggettabilità a V.A.S. e V.INC.A. del piano attuativo in base al quale è stato assentito l’intervento edificatorio. 35.1. I motivi sono stati articolati nel ricorso di primo grado ai punti “IV”: “IV.A” - “IV.B”, e riproposti ai punti “VII” e “VIII” dell’appello incidentale. 35.2. Il T.a.r. ha respinto i suddetti motivi perché “nel caso di specie il p.r.g. richiamato da parte ricorrente non è oggetto di impugnativa, sicché il lamentato vizio di difetto di V.A.S. è insuscettibile di inficiare la procedura in esame, anche in ragione del fatto che il piano attuativo riguardante gli interventi demolitori in questione, non apporta alcuna variante al predetto strumento urbanistico generale (cfr., in termini, la “valutazione di non incidenza” espressa sul punto dall’Amministrazione regionale con nota del 13 novembre 2014, prot. n. 160542)”. 35.3. I motivi sono infondati. 35.4. Il sito del lago di Piediluco è di interesse comunitario. Ricade in area sottoposta a tutela protetta ex art. 136, comma 1, lett. c) e d) del d.lgs n. 42/2004, per effetto del D.M. 5 gennaio 1976. Il piano particolareggiato del Comune è stato approvato dalla Regione Umbria con determina dirigenziale 28 giugno 2002, n. 5810. Le sue prescrizioni consentivano, nel centro di Piediluco, ristrutturazioni conservative, escludendo demolizioni integrali e ricostruzioni. Il piano regolatore, approvato nel dicembre 2008, ha recepito tali prescrizioni. Il piano attuativo (adottato con deliberazione 7 maggio 2014, n. 170) ha previsto la demolizione dell’ex Albergo Lido e la sua ricostruzione, con talune diverse destinazioni d’uso (originariamente abitativo) e forme. Il piano regolatore, nella vigenza del quale il piano attuativo è stato adottato, prevede “la conservazione delle connotazioni dei fabbricati esistenti, consentendo unicamente la eliminazione delle superfetazioni e modifiche delle coperture”. Segnatamente, l’art. 10 delle N.T.A., ripreso nel piano attuativo, consente ristrutturazioni a carattere conservativo mentre le modifiche di sagoma sono ammesse per le sole coperture; l’articolo 56, comma 2, delle stesse N.T.A. del PRG del Comune stabilisce che per le << ZONE A INSEDIAMENTI RESIDENZIALI STORICI>> “Gli interventi in queste zone sono finalizzati alla salvaguardia delle caratteristiche storico-tipologiche degli edifici e dell’impianto urbano…”. In punto di fatto, il piano attuativo ha, dunque, apportato modifiche allo strumento urbanistico generale (quanto a tipologia di interventi effettuabili nella zona), sia pure minori e relative una piccola area a livello locale. 35.5. L’articolo 6, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (“Norme in materia ambientale”) stabilisce che “Viene effettuata una valutazione ambientale strategica per tutti i piani e i programmi: (…) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d’incidenza ai sensi dell’articolo 5 del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni”. Il successivo comma 3 dispone che “Per i piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l’uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2, la valutazione ambientale è necessaria qualora l’autorità competente valuti che producano impatti significativi sull’ambiente, secondo le disposizioni di cui all’articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell’area oggetto di intervento”. 35.6. Orbene, l’area in cui ricade l’intervento è a livello locale, ha una consistenza piccola e le modifiche apportate al Piano generale, sia pure minori, hanno comunque inciso sulla tipologia degli interventi effettuabili nell’area in questione, apportando, quindi, modifiche al piano generale e particolareggiato. L’intervento ricade, dunque, nel paradigma normativo di cui agli artt. 6 e 12 del d.lgs n. 152 del 2006, a mente dei quali la necessità della valutazione ambientale (di incidenza) deve scontare una previa verifica circa la capacità del detto intervento di produrre impatti significativi sull’ambiente. La giurisprudenza di questo Consiglio, richiamata anche dagli appellanti, è nel senso che “Quando un progetto comporta variante allo strumento urbanistico generale in un’area di importanza comunitaria, va fatta applicazione dell’art. 5 del D.P.R. n. 357/1997 il quale richiede la valutazione dell’incidenza dell’intervento da realizzare sui siti ‘protetti’” (sentenza 8 agosto.2006, n. 4778). 35.7. Ebbene, nella circostanza tale valutazione da parte dell’autorità competente c’è stata. Essa si ricava de plano e per tabulas dalla nota della Regione Umbria datata 13 novembre 2014, prot. 160542. Si legge nell’oggetto della nota: “Direttiva 92/43/CEE; D.P.R. 357/1997 e s.m. e i. L.R. 27/2000 e D.G.R. n. 5/2009; Valutazione di Incidenza. Richiesta di non assoggettabilità per ‘Piano Attuativo di iniziativa privata per la trasformazione urbanistica del complesso edilizio ex Albergo Lido’. Loc. Piediluco. Comune di Terni. Prop. Ponteggia Massimo Augusto”. Questo il contenuto del parere espresso dal responsabile del procedimento, arch. Augusto Tiberini: “A seguito di Vostra nota, acquisita agli atti con Prot. n. 135129 del 15/10/2014; si esprime parere favorevole alla realizzazione degli interventi”. La nota, sia pure dal carattere “sintetico” della motivazione, ha valore di VINCA favorevole e anche di esclusione dell’assoggettabilità a VAS (è espressamente richiamata la direttiva VAS). Detta nota, conosciuta dagli appellanti per essere stata menzionata nel giudizio di primo grado e per essere stata conosciuta in esito alla sua produzione in giudizi, non è stata avversata nel merito della valutazione favorevole espressa dall’autorità competente. Le censure sono proposte in modo estremamente generico e al solo fine di volere revocare in dubbio l’idoneità della nota a valere come espressione del giudizio di assogettabilità a verifica, laddove il documento è inconfutabilmente reso a tale fine e gli appellanti bene avrebbero fatto ad avversarlo con specifiche censure. 36. Con altro motivo di ricorso, gli appellanti hanno censurato il parere di idoneità sismica che il Comune ha reso a supporto del Piano adottato, per violazione all’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001 (incompetenza), prospettando, al riguardo, l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, c. 9 della L.R. Umbria 22 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, Cost. 37. Deve essere, innanzitutto, esaminata l’eccezione di inammissibilità del relativo motivo articolato sul presupposto della tardiva impugnazione del Piano attuativo adottato. 37.1. L’eccezione è infondata. 37.1.1. In primo luogo, va osservato che l’Ente locale, al fine di sostenere l’eccezione, prende a riferimento temporale la data di adozione del piano (atto n. 170 del 7 maggio 2014) e la sua pubblicazione sul B.U.R.L. (giugno 2014), probabilmente muovendo dalla lettura dell’articolo 89, c. 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 che prevede la richiesta di “parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione …”. Sennonché, ai fini processuali, ovvero dell’inveramento dell’interesse ad agire come condizione dell’azione, rileva, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, ai sensi dell’articolo. 41, c. 2, c.p.a., la data di pubblicazione sul B.U.R.L. della delibera di approvazione del Piano, rappresentando questo il momento della definitiva composizione dell’assetto di interessi urbanistici inveranti il profilo della concreta lesività. Il Piano è stato approvato con delibera della G.C. n. 93 del 1 aprile 2015, e pubblicata sul B.U.R. n. 28 (serie avvisi e concorsi) il 14 luglio 2015. Il Comune non ha comprovato la tardività rispetto a tale momento di decorrenza del termine di impugnativa. 37.1.2. In secondo luogo si può aggiungere, in via più generale, che, secondo i consolidati principi, le norme degli strumenti urbanistici – fuori dell’ipotesi, qui non sussistente, in cui producano direttamente effetti lesivi nella proprietà degli interessati – non vanno impugnate immediatamente, ma possono essere censurate solo unitamente agli atti che ne fanno applicazione: pertanto, nella specie non vi era alcun onere di immediata impugnativa del Piano, del quale non sussisteva un carattere immediatamente lesivo (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 26 aprile 2019, n. 2680; sez. IV, 19 gennaio 2018, n. 332; idem sez. IV, n. 5235 del 2015). 37.2. Nel merito, l’esame del motivo di appello (incompetenza dell’organo comunale a rendere il parere di compatibilità sismica) sconta l’applicazione alla fattispecie dell’articolo dell’art. 24, c. 9, legge regione Umbria 22 febbraio 2005, n. 11 (recante “Norme in materia di Governo del territorio: pianificazione urbanistica comunale”). 37.2.1. La norma in commento così recita: “Il comune, in sede di adozione del piano attuativo e tenuto conto della relazione geologica, idrogeologica e geotecnica, relativa alle aree interessate, nonché degli studi di microzonazione sismica di dettaglio nei casi previsti dalle normative vigenti, esprime parere ai fini dell’articolo 89 del D.P.R. n. 380/2001 ed ai fini idrogeologici e idraulici, sentito il parere della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio”. Il parere di cui alla normativa di cui sopra, reso dal Comune, consiste, dunque, in una valutazione espressa sulla base dello studio sismico e afferente la compatibilità delle previsioni di progetto con le condizioni geomorfologiche del territorio. Il potere esercitato dal Comune (parere sismico reso sul Piano attuativo) trova, pertanto, fonte nell’art. 24, c. 9 della citata legge regionale n. 11 del 2005, che ha attribuito agli Enti locali la competenza riservata dall’articolo 89 del d.P.R. n. 380/2001 all’organo tecnico regionale di esprimere il parere ai fini idrogeologici e idraulici, sentito il parere della Commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio. 38 La Sezione ha ragione di dubitare della conformità a Statuto della norma in esame e reputa, pertanto, sussistenti i presupposti per sollevare dinanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale delle norme contemplate nell’articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto le stesse si porrebbero in contrasto con i principi fondamentali in materia di “governo del territorio” e di “protezione civile”, contenuti nell’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare andrebbe richiesto al “competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio” (comma 1). 38.1. Sulla rilevanza della questione. 38.2. E’ stato sopra già chiarito che l’impugnativa del Piano attuativo risulta tempestiva. La riscontrata infondatezza del ricorso n. 4828/2017 proposto avverso le concessioni edilizie in sanatoria (appello scrutinato per primo), rende ancor più evidente tale rilevanza; come anche l’infondatezza delle altre censure appena sopra esaminate con riguardo all’appello ora in esame. La decisione sul presente ricorso (n.r.g. 4825/2017), quanto al vizio in esame, dovrebbe scontare, infatti, l’applicazione alla fattispecie, ratione temporis, della norma sospettata di incostituzionalità. E invero, qualora detta norma venisse caducata dalla Corte, ne conseguirebbe l’accoglimento del motivo di appello basato sulla incompetenza del Comune ad esprimere, in sede di adozione del piano attuativo, il parere ai fini dell’articolo 89 del d.P.R. n. 380/2001 ovvero il parere sismico in luogo dell’organo regionale a ciò deputato dalla fonte normativa di rango statale. 38.3. Sempre in punto di rilevanza, la Sezione ritiene di svolgere le seguenti, ulteriori considerazioni. 38.4. La norma di cui si discetta (articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11) è stata abrogata dalla successiva legge regionale n. 11 del 2015 la quale, tuttavia, all’articolo art. 28, comma 10, ha riprodotto lo stesso, identico contenuto della precedente disposizione. Sennonché, l’articolo 28, comma 10, della legge regionale dell’Umbria n. 1/2015 è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con sentenza 5 aprile 2018, n. 68; più in particolare, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche. La questione di costituzionalità involge, pertanto, una norma (articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11) non più in vigore nell’ordinamento giuridico ma che, ciò nonostante, è stata applicata ratione temporis alla fattispecie che ha originato la controversia, assumendo così connotati della rilevanza in concreto in forza del principio tempus regit actum. La Sezione non può, tuttavia, ignorare, ai fini della esaminanda rilevanza, la nota distinzione tra “disposizione” e “norma”; distinzione che riflette la dialettica tra legislazione e interpretazione. Per disposizione si intende la proposizione normativa (o enunciato) contenuta in un testo, per norma ciò che risulta a seguito dell’attività interpretativa di una disposizione. Ragion per cui, tra una disposizione e una norma non sussiste necessariamente un parallelismo perfetto potendo ad una norma corrispondere più disposizioni (il caso del “combinato disposto”) come anche ad una disposizione corrispondere, invece, norme diverse. Nella fattispecie in esame, le proposizioni normative recate dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11 (applicato ratione temporis alla fattispecie e tuttora vigente come enunciato) e dall’art. 28, comma 10, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 (la cui disposizione è stata dichiarata incostituzionale) sono diverse. Pur tuttavia, le norme – quale frutto di esegesi delle due disposizioni - s’appalesano identiche. Per cui, alla controversia in esame andrebbe applicata una norma regionale (ovvero un “diritto concreto”) non più esistente nella corrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale. Il che, espresso in altri termini, significherebbe applicare al rapporto tuttora ancora pendente una norma dichiarata incostituzionale eppur, tuttavia, presente nell’ordinamento giuridico come “diritto astratto”, in ragione della disposizione (testo legislativo) che la veicola. E’ poiché l’oggetto del sindacato di legittimità costituzionale sono, non sempre le disposizioni quanto, piuttosto, proprio le norme (si pensi alle c.d. sentenze interpretative, di accoglimento e di rigetto, e tutte le nuove tipologie di sentenze: manipolative, additive, sostitutive; incidono per l’appunto, non sul testo delle disposizioni legislative, bensì sul loro significato), si potrebbe essere indotti a ritenere che la norma recata dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, non sia più cogente a seguito della sentenza 5 aprile 2018, n. 68 abrogativa della stessa norma riprodotta nel testo degli artt. 28, co. 10, della legge regionale Umbria n. 1 del 2015 e, dunque, inapplicabile alla controversia. Un’attività interpretativa, questa, che finirebbe però per essere operata dal giudice a quo e sottratta alla Corte ma che potrebbe legittimarsi alla luce di altri principi costituzionali, anche di matrice eurounitaria, altrettanto rilevanti e immediatamente precettivi quali quelli di economia processuale, concentrazione dei giudizi nonché ragionevole durata del processo; opzione questa che, tuttavia, proprio perché di carattere interpretativo e proveniente dal giudice sfornito della competenza sull’annullamento delle leggi, non potrebbe sortire l’effetto espulsivo della norma dall’ordinamento giuridico la quale, pertanto, continuerebbe ad esistere nella gerarchia formale delle fonti potendo in tal modo generare incertezza negli operatori e nell’attività regolatrice dei rapporti amministrativi tuttora incisi temporalmente dalla norma in questione, finendo per compromettere altrettanti valori ordinamentali come l’effettività della tutela e la certezza del diritto. 38.5. La Sezione ritiene, quindi, rilevante, anche sotto tale ultimo profilo, la questione di legittimità della norma rimettendone lo scrutinio alla Corte affinché il giudice delle leggi chiarisca se il sindacato di legittimità può e deve essere esercitato tutte le volte che di “efficacia” (art. 136 Cost.) e di “applicazione” (art. 30, legge 11 marzo 1953, n. 87) della legge possa parlarsi - indipendentemente dalla avvenuta abrogazione della medesima ad opera di una legge regionale sopravvenuta ma ratione temporis inapplicabile o dalla dichiarazione di incostituzionalità che ha investito la norma sopravvenuta recante il medesimo contenuto precettivo - poiché tale legge resterebbe pur sempre “efficace” ed “applicabile” nei limiti consacrati dai principi regolanti la successione delle leggi nel tempo. 38.6. Oppure se, a fronte di disposizioni diverse ma norme perfettamente identiche, la Corte ritiene che la declaratoria di incostituzionalità della norma successiva abbia una tale espansione abrogativa da esonerare il giudice a quo dalla necessità di operare, sempre e in ogni caso, il rinvio (anche) della norma anteriore, ab illo tempore vigente, il cui testo materiale continua ad essere presente nell’ordinamento gerarchico formale mentre il suo contenuto, identicamente riprodotto in una norma successiva poi dichiarata incostituzionale, non costituirebbe più, di fatto, il diritto vivente. 38.7. Va soggiunto, ad ogni buon fine, che la legge regionale n. 11 del 2005 (e con essa l’articolo 24, co. 10) è stata abrogata dalla successiva legge regionale n. 1 del 2015 (art. 271), a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo testo unico (29 gennaio 2015). Deve ritenersi, quindi, che la norma in esame abbia prodotto effetti fino alla data del 29 gennaio 2015, regolando ratione temporis e tempus regit atum, il procedimento per cui è causa. 38.8. Anche per tal via, s’appalesa rilevante la questione di costituzionalità dell’articolo 24, co. 10, della legge regionale dell’Umbria n. 11 del 2005. 39. Sulla manifesta non infondatezza della questione. L’articolo 89 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, così recita: “1. Tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all’articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio. 2. Il competente ufficio tecnico regionale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale. 3. In caso di mancato riscontro entro il termine di cui al comma 2 il parere deve intendersi reso in senso negativo”. 39.1. Già con la sentenza n. 167 del 2014, La Corte costituzionale era stata chiamata ad affrontare la questione di legittimità sollevata in relazione all’articolo 10 della legge della Regione Abruzzo 16 luglio 2013, n. 20. La norma regionale così statuiva: “Non è necessaria l’acquisizione del parere di cui all’art. 89 del D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001 (ex art. 13 della Legge 3 febbraio 1974, n. 64) per varianti urbanistiche che non comportino un aumento della densità edilizia e/o modifiche della tipologia edilizia, qualora tale parere sia stato già acquisito in sede di pianificazione generale pur privo della valutazione sullo studio di microzonazione sismica di livello 1”. 35.2.3. Il giudice delle leggi - dopo avere chiarito che “l’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001 ha come suo oggetto gli strumenti urbanistici e le costruzioni nelle zone ad alto rischio sismico e come sua ratio la tutela dell’interesse generale alla sicurezza delle persone. Esso, pertanto, trascende l’ambito della materia del «governo del territorio» o altro ambito di competenza riservato al legislatore regionale, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica e della «protezione civile», come più volte affermato, in relazione a norme ritenute di principio dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le richiamate sentenze n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006)” - ha precisato che detto articolo 89 “riveste una posizione «fondante» di un determinato settore dell’ordinamento (ex plurimis, sentenze n. 282 del 2009, n. 364 del 2006, n. 336 del 2005), attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali”, per affermare, infine, che la norma regionale “introduce una deroga al principio fondamentale espresso dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001, non subordinando in alcun modo l’adozione delle varianti urbanistiche né all’acquisizione del previsto parere del competente ufficio tecnico regionale su tutti gli strumenti urbanistici, né al previo svolgimento dello studio di microzonazione sismica”. Il vulnus recato dalla menzionata norma è stato, dunque, individuato nella avere il legislatore regionale dell’Abruzzo pretermesso la verifica di compatibilità sismica per determinati tipi di interventi o varianti; esenzione che costituisce un vulnus grave e inderogabile al bene protetto (compatibilità geomorfologica del territorio), che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali. 39.2. La Corte costituzionale è tornata, di recente, sulla questione relativa alla competenza dell’ufficio tecnico regionale ad esprimere il parere sismico sugli strumenti di pianificazione urbanistica di primo e secondo livello. L’occasione è stata fornita dal ricorso formulato dalla Presidente del Consiglio dei ministri che ha promosso (tre le altre) questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 10, e dell’art. 56, comma 3, della sopravvenuta legge della Regione Umbria 21 gennaio 2015, n. 1, nella parte in cui, rispettivamente, il primo attribuiva al Comune, in sede di adozione del PRG, il compito di esprimere il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare, di cui all’art. 89 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; il secondo stabiliva che lo sportello unico delle attività produttive ed edilizie (SUAPE) acquisisca direttamente “i pareri che debbono essere resi dagli uffici comunali, necessari ai fini dell’approvazione del piano attuativo compreso il parere in materia sismica, idraulica ed idrogeologica, da esprimere con le modalità di cui all’articolo 112, comma 4, lettera d)”. 39.3. La Corte costituzionale, con la sentenza 5 aprile 2018, n. 68, ha ritenuto fondata la questione e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche. 40. La Sezione ritiene che le medesime argomentazioni svolte dalla Corte nella sentenza n. 68/2015 e sottese alla censura di incostituzionalità delle norme colà annullate, valgano a revocare in dubbio la legittimità costituzionale dell’articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, quale fonte normativa efficace ratione temporis e applicata alla fattispecie controversa. 40.1. Muovendo, dunque, dalle considerazioni più volte affermate e ribadite dalla Corte secondo cui l’art. 89 del d.P.R. n. 380/2001 è norma di principio in materia non solo di “governo del territorio”, ma anche di “protezione civile”, in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica, se ne deve inferire che detta norma (di rango legislativo) si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3). 40.2. Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze n. 167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006), “riveste una posizione ‘fondante’ […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali” (sentenza n. 167 del 2014). 40.3. Le disposizioni regionali di cui all’art. 24, c. 9, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni – piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale ‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001. 40.4. Va soggiunto che, neppure appare rilevante la circostanza che l’art. 20 della legge 10 dicembre 1981, n. 741 (“Ulteriori norme per l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche”) avesse consentito alle Regioni di prevedere uno snellimento delle procedure e di introdurre norme per l’adeguamento degli strumenti urbanistici generali e particolareggiati vigenti, nonché sui criteri per la formazione degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del rischio sismico. 40.5. Sul punto, la Corte costituzionale ha già chiarito che “l’intera materia è stata oggetto di una più recente completa regolazione, che si è tradotta nelle vigenti disposizioni di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 […] il quale ha fatto venire meno – anche in mancanza di formale abrogazione – le possibilità di deroga di cui all’art. 20 della legge n. 741 del 1981” (sentenza n. 64 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 182 del 2006). 40.6. La disposizione in esame, dunque, si pone, ad avviso della Sezione, in netto contrasto con i principi fondamentali in materia di “governo del territorio” e di “protezione civile” contenuti nel citato art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001. Secondo quest’ultimo, infatti, il parere sugli strumenti urbanistici generali dei comuni siti in zone sismiche o in abitati da consolidare deve essere richiesto al “competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti, ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio” (comma 1). 41. Per le considerazioni che precedono deve ritenersi, pertanto, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, nella parte in cui stabilisce che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, stante il suo contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in ragione della interposta norma rafforzata, espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico, rappresentata dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001. In conclusione, per quanto sin qui argomentato: -va definitivamente respinto l’appello n.r.g.. 4828/2017; -va parzialmente respinto l’appello n.r.g. 4825/2017, come in motivazione, e per il resto va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo dell’art. 29, c. 9, della L.R. Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede che “Il comune, in sede di adozione del piano attuativo e tenuto conto della relazione geologica, idrogeologica e geotecnica, relativa alle aree interessate, nonché degli studi di microzonazione sismica di dettaglio nei casi previsti dalle normative vigenti, esprime parere ai fini dell’articolo 89 del D.P.R. n. 380/2001 ed ai fini idrogeologici e idraulici, sentito il parere della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio”; per l’effetto, va sospeso in parte qua, il relativo giudizio previa trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione del suindicato incidente di costituzionalità. Le spese di entrambi gli appelli sono riservate al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), previa loro riunione, così provvede sugli appelli n. 4825/2017 e n. 4828/2017: 1) definitivamente pronunciando sull’appello n.r.g.. 4828/2017, lo respinge. 2) in parte respinge l’appello n.r.g. 4825/2017 e per il resto dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29, c. 9, della L.R. Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede che “Il comune, in sede di adozione del piano attuativo e tenuto conto della relazione geologica, idrogeologica e geotecnica, relativa alle aree interessate, nonché degli studi di microzonazione sismica di dettaglio nei casi previsti dalle normative vigenti, esprime parere ai fini dell'articolo 89 del D.P.R. n. 380/2001 ed ai fini idrogeologici e idraulici, sentito il parere della commissione comunale per la qualità architettonica ed il paesaggio”; 3) sospende, per l’effetto, il giudizio sull’appello n.r.g. 4825/2017 e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; 4) rinvia ogni ulteriore statuizione di merito all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente pronuncia; 6) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente della Giunta regionale dell’Umbria, nonché comunicata al Presidente del Consiglio regionale dell’Umbria. Spese di entrambi gli appelli al definitivo. Ordina che la presente sentenza/ordinanza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 13 maggio e10 giugno 2021 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Edilizia – Piano regolatore  – Umbria – Parere ex art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 – Art. 29, comma 9, l. reg. Umbria n-. 11 del 2005 – Competenza dei Comuni, anziché dell’ufficio tecnico regionale competente – Rilevanza e non manifesta infondatezza.              E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 29, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n. 11, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., nella parte in cui stabilisce che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, stante il suo contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in ragione della interposta norma rafforzata, espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico, rappresentata dall’art. 89, d.P.R. n. 380 del 2001 (1).    (1) Ha chiarito che l’art. 24, comma 9, l. reg. Umbria 25 febbraio 2005, n.11 è stato abrogato dalla successiva legge regionale n. 11 del 2015 la quale, tuttavia, all’art. 28, comma 10, ha riprodotto lo stesso, identico contenuto della precedente disposizione.  Sennonché, l’articolo 28, comma 10, della legge regionale dell’Umbria n. 1/2015 è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con sentenza 5 aprile 2018, n. 68; più in particolare, il giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 28, comma 10, e 56, comma 3, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015, nella parte in cui stabiliscono che sono i Comuni, anziché l’ufficio tecnico regionale competente, a rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche.  La questione di costituzionalità involge, pertanto, una norma (articolo 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11) non più in vigore nell’ordinamento giuridico ma che, ciò nonostante, è stata applicata ratione temporis alla fattispecie che ha originato la controversia, assumendo così connotati della rilevanza in concreto in forza del principio tempus regit actum.  La Sezione non può, tuttavia, ignorare, ai fini della esaminanda rilevanza, la nota distinzione tra “disposizione” e “norma”; distinzione che riflette la dialettica tra legislazione e interpretazione.  Per disposizione si intende la proposizione normativa (o enunciato) contenuta in un testo, per norma ciò che risulta a seguito dell’attività interpretativa di una disposizione. Ragion per cui, tra una disposizione e una norma non sussiste necessariamente un parallelismo perfetto potendo ad una norma corrispondere più disposizioni (il caso del “combinato disposto”) come anche ad una disposizione corrispondere, invece, norme diverse.  Nella fattispecie in esame, le proposizioni normative recate dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11 (applicato ratione temporis alla fattispecie e tuttora vigente come enunciato) e dall’art. 28, comma 10, della legge reg. Umbria n. 1 del 2015 (la cui disposizione è stata dichiarata incostituzionale) sono diverse.  Pur tuttavia, le norme – quale frutto di esegesi delle due disposizioni - s’appalesano identiche.  Per cui, alla controversia in esame andrebbe applicata una norma regionale (ovvero un “diritto concreto”) non più esistente nella corrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale. Il che, espresso in altri termini, significherebbe applicare al rapporto tuttora ancora pendente una norma dichiarata incostituzionale eppur, tuttavia, presente nell’ordinamento giuridico come “diritto astratto”, in ragione della disposizione (testo legislativo) che la veicola.   E’ poiché l’oggetto del sindacato di legittimità costituzionale sono, non sempre le disposizioni quanto, piuttosto, proprio le norme (si pensi alle c.d. sentenze interpretative, di accoglimento e di rigetto, e tutte le nuove tipologie di sentenze: manipolative, additive, sostitutive; incidono per l’appunto, non sul testo delle disposizioni legislative, bensì sul loro significato), si potrebbe essere indotti a ritenere che la norma recata dall’art. 24, c. 9, della legge della Regione Umbria 25 febbraio 2005, n.11, non sia più cogente a seguito della sentenza 5 aprile 2018, n. 68 abrogativa della stessa norma riprodotta nel testo degli artt. 28, co. 10, della legge regionale Umbria n. 1 del 2015 e, dunque, inapplicabile alla controversia.  Un’attività interpretativa, questa, che finirebbe però per essere operata dal giudice a quo e sottratta alla Corte ma che potrebbe legittimarsi alla luce di altri principi costituzionali, anche di matrice eurounitaria, altrettanto rilevanti e immediatamente precettivi quali quelli di economia processuale, concentrazione dei giudizi nonché ragionevole durata del processo; opzione questa che, tuttavia, proprio perché di carattere interpretativo e proveniente dal giudice sfornito della competenza sull’annullamento delle leggi, non potrebbe sortire l’effetto espulsivo della norma dall’ordinamento giuridico la quale, pertanto, continuerebbe ad esistere nella gerarchia formale delle fonti potendo in tal modo generare incertezza negli operatori e nell’attività regolatrice dei rapporti amministrativi tuttora incisi temporalmente dalla norma in questione, finendo per compromettere altrettanti valori ordinamentali come l’effettività della tutela e la certezza del diritto.   La Sezione ritiene, quindi, rilevante, anche sotto tale ultimo profilo, la questione di legittimità della norma rimettendone lo scrutinio alla Corte affinché il giudice delle leggi chiarisca se il sindacato di legittimità può e deve essere esercitato tutte le volte che di “efficacia” (art. 136 Cost.) e di “applicazione” (art. 30, legge 11 marzo 1953, n. 87) della legge possa parlarsi - indipendentemente dalla avvenuta abrogazione della medesima ad opera di una legge regionale sopravvenuta ma ratione temporis inapplicabile o dalla dichiarazione di incostituzionalità che ha investito la norma sopravvenuta recante il medesimo contenuto precettivo - poiché tale legge resterebbe pur sempre “efficace” ed “applicabile” nei limiti consacrati dai principi regolanti la successione delle leggi nel tempo.   Oppure se, a fronte di disposizioni diverse ma norme perfettamente identiche, la Corte ritiene che la declaratoria di incostituzionalità della norma successiva abbia una tale espansione abrogativa da esonerare il giudice a quo dalla necessità di operare, sempre e in ogni caso, il rinvio (anche) della norma anteriore, ab illo tempore vigente, il cui testo materiale continua ad essere presente nell’ordinamento gerarchico formale mentre il suo contenuto, identicamente riprodotto in una norma successiva poi dichiarata incostituzionale, non costituirebbe più, di fatto, il diritto vivente.  Va soggiunto, ad ogni buon fine, che la legge regionale n. 11 del 2005 (e con essa l’articolo 24, co. 10) è stata abrogata dalla successiva legge regionale n. 1 del 2015 (art. 271), a decorrere dalla data di entrata in vigore del nuovo testo unico (29 gennaio 2015).   Deve ritenersi, quindi, che la norma in esame abbia prodotto effetti fino alla data del 29 gennaio 2015, regolando ratione temporis e tempus regit atum, il procedimento per cui è causa.  Anche per tal via, s’appalesa rilevante la questione di costituzionalità dell’articolo 24, co. 10, della legge regionale dell’Umbria n. 11 del 2005.  Sulla manifesta non infondatezza della questione.  L’articolo 89 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, così recita:   “1. Tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui alla presente sezione e quelli di cui all’articolo 61, devono richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio.   2. Il competente ufficio tecnico regionale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale.   3. In caso di mancato riscontro entro il termine di cui al comma 2 il parere deve intendersi reso in senso negativo”.  Muovendo  dalle considerazioni più volte affermate e ribadite dalla Corte secondo cui l’art. 89 del d.P.R. n. 380/2001 è norma di principio in materia non solo di “governo del territorio”, ma anche di “protezione civile”, in quanto volta ad assicurare la tutela dell’incolumità pubblica, se ne deve inferire che detta norma (di rango legislativo) si impone al legislatore regionale nella parte in cui in cui prescrive a tutti i Comuni, per la realizzazione degli interventi edilizi in zone sismiche, di richiedere il parere del competente ufficio tecnico regionale sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati, nonché sulle loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio (comma 1); disciplina le modalità e i tempi entro cui deve pronunciarsi detto ufficio (comma 2); infine prevede che, in caso di mancato riscontro, il parere deve intendersi reso in senso negativo (comma 3).  Tale norma, al pari di altre ritenute di principio dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sentenze n. 167 del 2014, n. 300, n. 101 e n. 64 del 2013, n. 201 del 2012, n. 254 del 2010), anche in specifico riferimento a funzioni ascritte agli uffici tecnici della Regione analoghe a quella in esame (sentenze n. 64 del 2013 e n. 182 del 2006), “riveste una posizione ‘fondante’ […] attesa la rilevanza del bene protetto, che involge i valori di tutela dell’incolumità pubblica, i quali non tollerano alcuna differenziazione collegata ad ambiti territoriali” (sentenza n. 167 del 2014).   Le disposizioni regionali di cui all’art. 24, c. 9, pertanto, nella parte in cui assegnano ai Comuni – piuttosto che al competente ufficio tecnico regionale ‒ il compito di rendere il parere sugli strumenti urbanistici generali e attuativi dei Comuni siti in zone sismiche, si pongono in contrasto con il principio fondamentale posto dall’art. 89 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/clausola-sociale-nelle-gare-di-appalto
Clausola sociale nelle gare di appalto
N. 06761/2020REG.PROV.COLL. N. 01530/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 1530 del 2020, proposto da Le Macchine Celibi soc. coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Fornasari e Cristina Rimondi, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Fornasari in Bologna, viale Aldini, n. 88; contro Comune di Modena, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Stefano Maini, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; Comune di Modena - Settore Cultura, Sport e Politiche Giovanili, non costituito in giudizio; nei confronti Open Group soc. coop. sociale onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Andrea Grazzini, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Firenze, p.zza Vittorio Veneto, n. 1; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, Sezione Seconda, n. 00018/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Modena e della Open Group soc. coop. sociale onlus; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, comma 10, Cod. proc. amm.; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2020 il Cons. Alberto Urso, uditi per le parti gli avvocati Fornasari e Grazzini e preso atto della richiesta di passaggio in decisione, senza discussione, depositata dall’avv. Maini; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con determina a contrarre del 28 gennaio 2019 e successivo bando spedito per la pubblicazione il 15 febbraio 2019 il Comune di Modena indiceva procedura di gara per l’affidamento dei servizi bibliotecari per le biblioteche del medesimo comune e il polo bibliotecario modenese SBN. Risultava prima classificata in graduatoria Le Macchine Celibi soc. coop., la quale veniva tuttavia esclusa a seguito di verifica sul rispetto dei minimi salariali: l’offerta proposta era infatti reputata complessivamente incongrua e non conforme a siffatti minimi, nonché tale da non assicurare il rispetto della clausola sociale e delle previsioni del capitolato di gara. Unitamente a tale esclusione la stazione appaltante procedeva allo scorrimento della graduatoria di gara in favore della seconda classificata Open Group soc. coop. sociale onlus. 2. Le Macchine Celibi proponeva ricorso avverso tale provvedimento e gli altri atti di gara dinanzi al Tribunale amministrativo per l’Emilia Romagna che, nella resistenza del Comune di Modena e della Open Group, con la sentenza segnata in epigrafe respingeva il ricorso. 3. Avverso la sentenza ha proposto appello Le Macchine Celibi deducendo: I) erronea reiezione del primo motivo di ricorso avente a oggetto violazione di legge, in particolare dell’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, eccesso di potere e violazione dei principi del contraddittorio, di trasparenza, buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, difetto di motivazione; II) erronea reiezione del secondo motivo di ricorso avente a oggetto violazione di legge, in particolare dell’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione e motivazione contraddittoria, violazione dei principi di trasparenza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa; III) erronea reiezione del terzo motivo di ricorso avente a oggetto violazione di legge, in particolare dell’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016 e dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di motivazione, violazione dei principi di trasparenza, buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, difetto di ragionevolezza. L’appellante ha proposto anche domanda di risarcimento del danno, già avanzata in primo grado. 4. Si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello il Comune di Modena e la Open Group, la quale ha altresì riproposto ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. alcune eccezioni rimaste assorbite in primo grado. 5. All’esito dell’udienza pubblica del 15 ottobre 2020 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Va preliminarmente disattesa l’eccezione con cui gli appellati deducono che Le Macchine Celibi non avrebbe mosso specifiche doglianze alla sentenza ai sensi dell’art. 101 Cod. proc. amm. limitandosi a riprodurre i motivi di ricorso di primo grado, ciò che condurrebbe all’inammissibilità dell’appello. È sufficiente rilevare che Le Macchine Celibi enuclea in modo sufficientemente dettagliato le ragioni di doglianza nei confronti della sentenza, i cui capi criticati pure chiaramente individua (v., al riguardo, infra, sub § 2 ss.): il che vale di per sé a ritenere infondata l’eccezione sollevata. 1.1. Le altre eccezioni preliminari formulate possono essere esaminate unitamente al merito, afferendo a profili strettamente connessi a questo (v. infra, sub § 3 ss.). 2. Col primo motivo di gravame l’appellante censura il rigetto della doglianza con cui aveva dedotto in primo grado la violazione del contraddittorio in relazione alla verifica della congruità del costo della manodopera e alla correlata valutazione eseguita dall’amministrazione in ordine alla complessiva adeguatezza dell’offerta. Al riguardo l’appellante pone in risalto che il giudizio negativo espresso dall’amministrazione si baserebbe su elementi - fra i quali, in particolare, il mancato rispetto della clausola sociale e l’insostenibilità di alcuni costi, anzitutto relativi alle attrezzature - non rientranti nelle richieste di chiarimenti inviate dal Comune, e non sottoposti perciò al contraddittorio con Le Macchine Celibi. 2.1. Il motivo non è fondato. 2.1.1.Va premesso che le verifiche sulle quali si fonda il provvedimento finale d’esclusione si sono articolate essenzialmente in due fasi. Con una prima richiesta di giustificativi del 18 aprile 2019 il Comune domandava chiarimenti sui costi della manodopera, in specie sul rispetto dei minimi salariali ai sensi dell’art. 95, comma 10 e 95, comma 5, lett. d), d.lgs. n. 50 del 2016, chiedendo in particolare spiegazioni a Le Macchine Celibi sui profili inerenti “alla sua organizzazione, al numero di persone che dedica all’appalto ed alla tipologia di contratti in cui questo è inquadrato”; Le Macchine Celibi rispondeva con nota del 30 aprile 2019. Seguiva un’ulteriore richiesta nella quale la stazione appaltante ampliava lo spettro dell’indagine, muovendo dalla considerazione che non risultava dimostrata la congruità e realizzabilità dell’offerta, né veniva dimostrato che il prezzo offerto fosse sufficiente ad assicurare lo svolgimento del servizio secondo le modalità previste nel capitolato e nell’offerta tecnica “anche in relazione agli obblighi e agli impegni a tutela del personale impiegato”. Il Comune rappresentava così che “il ribasso del 14% […] offerto determina[va] uno scostamento al ribasso dell’importo a base di gara talmente elevato, sia in termini assoluti che nel raffronto con le altre offerte in gara, da richiedere un serio ulteriore approfondimento al fine di tutelare l’interesse pubblico a che il servizio [fosse] affidato a fronte di un’offerta congrua e non temeraria”. In tale contesto richiamava anche un “calcolo del tutto teorico e apparentemente discutibile del costo del lavoro supplementare” e l’azzeramento completo dell’Irap, paventando una possibile “esecuzione non rispettosa degli obblighi in materia di contratti di lavoro e lesiva dei diritti dei lavoratori” e chiedendo ulteriori chiarimenti sull’offerta economica, con particolare riferimento al costo della manodopera. Le Macchine Celibi replicava con nota del 14 maggio 2019, cui seguiva il provvedimento espulsivo che riteneva l’offerta dell’appellante non congrua rispetto a varie voci di costo, nonché difforme dalle previsioni della lex specialis in quanto violativa della clausola sociale; in relazione all’adeguatezza dei costi veniva contestata anche la previsione di un costo della manodopera eccessivamente ridotta e tale da non assicurare la tutela dei diritti dei lavoratori, non venendo in particolare riconosciuta a questi l’anzianità già maturata presso il precedente gestore del servizio (i.e., la controinteressata Open Group). 2.1.2. Ciò premesso, emerge anzitutto - sul piano procedurale - l’effettiva realizzazione del contraddittorio con l’interessata, essendosi susseguito un doppio scambio di richiesta di chiarimenti e conseguente replica di Le Macchine Celibi che ben corrisponde al modello d’interlocuzione previsto dall’art. 97 d.lgs. n. 50 del 2016 per la fase di verifica della congruità dell’offerta. Sotto altro profilo, occorre rilevare che Le Macchine Celibi, soffermandosi nelle note di chiarimento sul costo della manodopera e l’inquadramento dei dipendenti da assorbire, prendeva anche espressa posizione sull’applicazione della clausola sociale (cfr. la nota del 30 aprile 2019, che dedica apposito paragrafo al tema) e sulle correlate questioni inerenti il personale già impiegato nell’appalto (cfr. la nota del 14 maggio 2019, spec. par. 5) e corrispondente imposizione Irap (cfr., ancora, la nota del 14 maggio 2019, spec. par. 3), mostrando così di aver rettamente inteso, in senso omnicomprensivo, i rilievi mossi dall’amministrazione anche “in relazione agli obblighi e agli impegni a tutela del personale impiegato”. Sulla questione dell’applicazione della clausola sociale come correlata al tema del costo del lavoro si è pertanto realizzato il contraddittorio. Allo stesso modo l’appellante si è soffermata espressamente su altri profili inerenti all’adeguatezza dell’offerta, quali quelli relativi ai costi per la sicurezza e ai costi generali (cfr. la nota del 30 aprile 2019, par. 3 e 4). I residui elementi, fra cui in particolare i costi per le attrezzature (oltre alle ulteriori voci prese ad esame dal Comune, quali l’utile d’impresa, considerato al fianco dei già menzionati costi generali e per la sicurezza), rientrano nella valutazione globale e sintetica sulla sostenibilità dell’offerta che compete alla stazione appaltante, così che rispetto ad essi non è ravvisabile una violazione del contraddittorio nel quadro dell’indagine attivata dal Comune “al fine di tutelare l’interesse pubblico a che il servizio in oggetto sia affidato a fronte di un’offerta congrua e non temeraria”: non può ritenersi infatti che il principio del contraddittorio richieda una specifica e singolare contestazione preventiva nonché una discussione su ciascuna delle voci in relazione alle quali la valutazione di anomalia (che non può che maturare ex post, cioè successivamente all’istruttoria) venga resa, purché risulti comunque assicurata all’impresa - come avvenuto nella specie - un’adeguata informativa e la possibilità di una piena interlocuzione con la stazione appaltante. A ciò si aggiunga peraltro che - sul piano sostanziale - gli elementi rappresentati dall’appellante in relazione al giudizio espresso dall’amministrazione su tali voci, diverse dal costo della manodopera, non risultano idonei a inficiare la valutazione della stazione appaltante (cfr. infra, sub § 3.4 ss.), sicché la dedotta violazione del contraddittorio si risolve in realtà in una contestazione di ordine formale in sé priva di rilievo sostanziale, non avendo Le Macchine Celibi - neppure nella presente sede - fornito elementi utili a confutare il giudizio dell’amministrazione sulle predette voci. 3. Col secondo motivo l’appellante si duole del rigetto della censura con cui aveva criticato in primo grado la valutazione d’incongruità dell’offerta espressa dall’amministrazione, non sussistendo nella specie né le ragioni d’inadeguatezza dei costi rappresentate dal Comune, né la violazione della clausola sociale prevista dalla lex specialis e l’inadeguatezza del costo della manodopera, anche rispetto alla tutela dei diritti dei lavoratori. 3.1. Col terzo motivo Le Macchine Celibi censura la reiezione del corrispondente motivo di ricorso con il quale aveva dedotto in primo grado l’illegittimità del provvedimento d’esclusione in relazione all’affermata insostenibilità del costo della manodopera a fronte della possibilità che ai lavoratori assorbiti fossero giudizialmente riconosciuti gli scatti d’anzianità negati da Le Macchine Celibi: secondo l’appellante la motivazione della sentenza impugnata sul punto sarebbe erronea in quanto basata su circostanze meramente ipotetiche. 3.2. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione, sono fondati nei limiti e per le ragioni che seguono. 3.2.1. Sotto il primo profilo, è fondata la censura con la quale l’appellante contesta il giudizio d’inadeguatezza del costo della manodopera e la violazione della lex specialis affermata dalla stazione appaltante: Le Macchine Celibi pone in evidenza in proposito come non emerga in realtà dalla legge di gara alcun obbligo di attribuzione ai lavoratori assorbiti del medesimo livello d’anzianità già posseduto, né la clausola sociale può essere applicata in tal guisa, stante la sua necessaria conciliazione con i principi di libera organizzazione dell’attività d’impresa affermati dalla giurisprudenza. 3.2.1.1. Va rilevato al riguardo che l’art. 24 del disciplinare di gara prevede che “al fine di promuovere la stabilità occupazionale nel rispetto dei principi dell’Unione Europea e ferma restando la necessaria armonizzazione con l’organizzazione dell’operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto, l’aggiudicatario del contratto di appalto è tenuto ad assorbire prioritariamente nel proprio organico il personale già operante alle dipendenze dell’aggiudicatario uscente, come previsto dall’articolo 50 del Codice, garantendo l’applicazione dei CCNL di settore, di cui all’art. 51 del D. Lgs. n. 81/2015. A tal fine, l’elenco del personale attualmente impiegato è riportato nel Progetto - Parte III - Calcolo della spesa e prospetto economico complessivo”. Già la regola generale inserita nel disciplinare prevede dunque l’applicazione della clausola sociale “ferma restando la necessaria armonizzazione con l’organizzazione dell’operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto”. In linea con tale impostazione, i chiarimenti resi dalla stazione appaltante valorizzano espressamente il suindicato passaggio della clausola precisando che “in ottemperanza ai principi costituzionali e comunitari di libertà d’iniziativa economica e di concorrenza, oltreché di buon andamento, e nel rispetto delle autonome scelte organizzative e imprenditoriali del nuovo appaltatore, la clausola sociale non comporta un indiscriminato e generalizzato dovere di assorbimento di tutto il personale utilizzato dall’impresa uscente”. Ciò posto, il richiamo all’elenco del personale già impiegato (cfr. l’art. 24 del disciplinare) e la relativa tabella recante il “calcolo della spesa e prospetto economico complessivo” nell’ambito del “Progetto ai sensi dell’art. 23 del d. lgs. n. 50/2016 ss.mm.ii.” valevano a rendere edotti i concorrenti sulla conformazione della forza lavoro già presente, ma non incidevano sul grado di vincolatività della clausola sociale, né implicavano sic et simpliciter l’obbligo di conservare gli scatti d’anzianità in capo ai dipendenti. Un siffatto obbligo non derivava neppure dal calcolo del costo della manodopera presente nel suindicato Progetto, atteso che il richiamo all’inquadramento dei singoli lavoratori valeva a spiegare come l’importo complessivo fosse stato determinato (“i costi della manodopera […] sono stati stimati […] tenendo conto della qualifica e del livello di inquadramento degli operatori addetti”), ma non implicava di per sé un vincolo al corrispondente inquadramento del personale; detto importo costituiva del resto una “stima”, avente “necessariamente carattere presuntivo, in funzione dell’importo posto a base di gara e della durata triennale dell’affidamento”, e poteva valere quale costo minimo vincolante per gli operatori solo a parità di condizioni rispetto a quelle enunciate, fra cui anche il Ccnl applicato e il livello d’inquadramento dei lavoratori: ma da tale stima non poteva ricavarsi sic et simpliciter un obbligo a tener ferma l’anzianità dei lavoratori già impiegati. Coerentemente con tale impostazione, i chiarimenti resi dalla stazione appaltante precisavano anche che l’elenco totale degli addetti in servizio, con relativo inquadramento professionale, aveva “valore di riferimento per la costruzione dell’importo stimato dell’appalto” ed era stato fornito anche ai fini della clausola sociale “per consentire ai concorrenti una ponderazione con il fabbisogno di personale per l’esecuzione del nuovo contratto e con le proprie autonome scelte organizzative ed imprenditoriali”: in tal senso va pertanto letto, anche nell’ambito del suddetto Progetto, il collegamento fra l’elenco del personale già impiegato e la clausola sociale. Anche la domanda di partecipazione alla procedura si limitava in proposito a prevedere l’accettazione, nell’ipotesi in cui si fosse risultati aggiudicatari, delle condizioni della clausola sociale di cui al par. 24 del disciplinare di gara. D’altra parte, dallo stesso regime dell’offerta tecnica emergeva un’ampia autonomia dei concorrenti in ordine alla strutturazione del progetto organizzativo e gestionale, anzitutto in relazione alla conformazione della forza lavoro e alle modalità di selezione del personale (cfr. il disciplinare, sub par. 16.1). Alla luce di quanto esposto non emerge dunque dalla lex specialis uno specifico obbligo d’inquadramento del personale (eventualmente) assorbito allo stesso livello d’anzianità già posseduto. 3.2.1.2. Una diversa interpretazione che volesse ricavare dalla lex specialis un vincolo per i concorrenti, una volta aderita la clausola, al mantenimento dei livelli d’anzianità vantati dai lavoratori risulterebbe del resto contraria allo spirito e al significato delle clausole sociali, come delineato dalla giurisprudenza. È stato infatti posto in risalto che il regime della clausola sociale “richiede un bilanciamento fra più valori, tutti di rango costituzionale, ed anche europeo […]. Ci si riferisce da un lato al rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost, ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce ‘la libertà di impresa’, conformemente alle legislazioni nazionali […].Ci si riferisce, dall’altro lato, in primo luogo al diritto al lavoro, la cui protezione è imposta dall’art. 35 Cost, e dall’art. 15 della Carta di Nizza, di analogo contenuto” (Cons. Stato, Comm. spec., parere 21 novembre 2018, n. 2703). Per tali ragioni detta clausola va formulata e intesa “in maniera elastica e non rigida, rimettendo all’operatore economico concorrente finanche la valutazione in merito all’assorbimento dei lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario”, anche perché solo in questi termini “la clausola sociale è conforme alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto va contemperato con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2019, n. 3885; III, 30 gennaio 2019, n. 750; III, 29 gennaio 2019, n. 726; 7 gennaio 2019, n. 142; III, 18 settembre 2018, n. 5444; V, 5 febbraio 2018, n. 731; V, 17 gennaio 2018 n. 272; III 5 maggio 2017, n. 2078; V 7 giugno 2016, n. 2433; III, 30 marzo 2016, n. 1255)” (Cons. Stato, V, 12 settembre 2019, n. 6148; cfr. anche Cons. Stato, VI, 21 luglio 2020, n. 4665; 24 luglio 2019, n. 5243; V, 12 febbraio 2020, n. 1066). Il tema delle modalità di attuazione della clausola sociale è stato peraltro affrontato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, con il parere già citato reso sulle Linee guida dell’Anac relative all’applicazione dell’art. 50 d.lgs. n. 50 del 2016 (Linee guida n. 13, poi approvate con delibera n. 114 del 13 febbraio 2019). Al riguardo è stata posta in risalto in particolare l’opportunità di prevedere un “vero e proprio ‘piano di compatibilità’ o ‘progetto di assorbimento’, nel senso che [l’offerta] debba illustrare in qual modo concretamente l’offerente, ove aggiudicatario, intenda rispettare la clausola sociale”; il che confluirebbe nella formulazione di “una vera e propria proposta contrattuale […] che contenga gli elementi essenziali del nuovo rapporto in termini di trattamento economico e inquadramento, unitamente all’indicazione di un termine per l’accettazione”, con conseguente possibilità per il lavoratore di “previa individuazione degli elementi essenziali del contratto di lavoro” (Cons. Stato, parere n. 2703 del 2018, cit.). Allo stesso modo, la stazione appaltante potrebbe valutare se “inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta quello relativo alla valutazione del piano di compatibilità, assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo, all’offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende”. Da ciò si ricava chiara conferma che è rimessa al concorrente la scelta sulle concrete modalità di attuazione della clausola, incluso l’inquadramento da attribuire al lavoratore, spettando allo stesso operatore formulare eventuale “proposta contrattuale” al riguardo, anche attraverso il cd. “progetto di assorbimento”, effettivamente introdotto dall’art. 3, ultimo comma, delle Linee guida Anac n. 13 (cfr., in proposito, Cons. Stato, V, 1 settembre 2020, n. 5338); il che vale a escludere che dalla clausola sociale possa derivare sic et simpliciter un obbligo in capo al concorrente d’inquadrare il lavoratore con lo stesso livello d’anzianità già posseduto. È stato recentemente sottolineato come la clausola non comporti “alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata, nonché alle medesime condizioni, il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, ma solo che l’imprenditore subentrante salvaguardi i livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti in modo adeguato e congruo”; di guisa che “l’obbligo di garantire ai lavoratori già impiegati le medesime condizioni contrattuali ed economiche non è assoluto né automatico” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche Id., 16 gennaio 2020, n. 389, in cui si precisa, sotto altro concorrente profilo, che sull’aggiudicatario non grava “l’obbligo di applicare ai lavoratori esattamente le stesse mansioni e qualifiche che avevano alle dipendenze del precedente datore di lavoro”; v. anche Id., 13 luglio 2020, n. 4515, in ordine al Ccnl prescelto). Per tali ragioni va escluso che la clausola sociale possa implicare la necessaria conservazione dell’inquadramento e dell’anzianità del lavoratore assorbito dall’impresa aggiudicataria. Va peraltro rilevato, sotto altro profilo, che l’aspetto inerente al “modo [con cui] l’imprenditore subentrante dia seguito all’impegno assunto con la stazione appaltante di riassorbire i lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario (id est. come abbia rispettato la clausola sociale) attiene […] alla fase di esecuzione del contratto, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche la Linee guida Anac n. 13, che all’art. 5 prevedono: “L’inadempimento degli obblighi derivanti dalla clausola sociale comporta l’applicazione dei rimedi previsti dalla legge ovvero dal contratto. Nello schema di contratto le stazioni appaltanti inseriscono clausole risolutive espresse ovvero penali commisurate alla gravità della violazione. Ove ne ricorrano i presupposti, applicano l’articolo 108, comma 3, del Codice dei contratti pubblici”). Per contro non vale il richiamare il precedente della Sezione che ha escluso che l’estensione della libertà imprenditoriale possa spingersi sino al punto di vanificare le sottostanti esigenze di tutela dei lavoratori sotto il profilo del mantenimento delle condizioni economiche e contrattuali vigenti, pena la legittimazione di politiche aziendali di dumping sociale in grado di vanificare gli obiettivi di tutela del lavoro (Cons. Stato, V, 10 giugno 2019, n. 3885): il caso esaminato era infatti caratterizzato da una clausola sociale e una corrispondente disposizione di legge regionale che prevedevano espressamente il mantenimento delle condizioni economiche e contrattuali già in essere in capo ai lavoratori, sicché la fattispecie - in disparte ogni ulteriore considerazione al riguardo - non è sovrapponibile a quella qui in esame. 3.2.1.3. Applicando al caso di specie i principi sin qui esposti e le valutazioni già espresse in ordine all’interpretazione della lex specialis, deve osservarsi quanto segue. Sotto un primo profilo, discende da quanto sin qui indicato che non incombeva in capo a Le Macchine Celibi alcun onere d’impugnazione immediata della lex specialis in relazione alla clausola sociale, proprio perché - in via assorbente - dalla stessa non era ricavabile alcun obbligo di mantenimento dell’anzianità in capo ai lavoratori assunti. È piuttosto dal provvedimento d’esclusione per ritenuta anomalia dell’offerta e sua difformità dalle previsioni della legge che s’è prodotta la lesione per l’interesse de Le Macchine Celibi. Di qui l’infondatezza dell’eccezione preliminare d’inammissibilità del ricorso riproposta dalla Open Group ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. per omessa impugnazione immediata della lex specialis di gara. 3.2.1.4. Sotto altro profilo, va riconosciuta la fondatezza della doglianza formulata dall’appellante. Una volta escluso che dalla lex specialis discenda un obbligo di mantenimento dell’anzianità già riconosciuta ai lavoratori assorbiti, deve parimenti escludersi la sussistenza d’una qualche difformità fra l’offerta di Le Macchine Celibi e la lex specialis di gara, con riferimento in particolare all’impegno previsto dalla clausola sociale alla riassunzione del personale. Allo stesso modo il diverso inquadramento attribuito ai lavoratori assorbiti non può valere di per sé quale ragione d’anomalia sul costo della manodopera e relativa imposizione Irap, proprio perché, non potendosi rinvenire un obbligo generalizzato di mantenimento degli scatti d’anzianità già posseduti dal personale, neppure può ravvisarsi un profilo d’inadeguatezza dell’offerta in relazione al costo del personale contestando la mancata copertura di tutti i suddetti scatti e del corrispondente prelievo Irap. Né d’altra parte consta o è specificamente contestato dall’amministrazione che il maggiore o minore grado di recepimento della clausola sociale potesse incidere nella specie sulle valutazioni delle offerte (così come ipotizzato da Cons. Stato, n. 2703 del 2018, cit.; ma cfr. al riguardo le valutazioni espresse da Cons. Stato, n. 5243 del 2019, cit.), essendo ben altri i criteri di apprezzamento del modello organizzativo offerto (v., in particolare, l’art. 16.1 del disciplinare); mentre le eventuali ritenute violazioni della clausola sociale nei termini in cui effettivamente aderita dal concorrente non potrebbero che essere fatte valere in sede esecutiva. Irrilevanti risultano i richiami alla circostanza che le risorse di personale da impiegare dovessero avere un’esperienza qualificata, come previsto dal Progetto ex art. 23 d.lgs. n. 50 del 2016, atteso che altro è l’esperienza professionale, altro l’anzianità d’inquadramento contrattuale del lavoratore. Parimenti privo di rilievo è il riferimento alla disciplina di cui all’art. 7 d.lgs. n. 23 del 2015, che si limita a prevedere un sistema di calcolo delle indennità in caso di licenziamento che tenga conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato concretamente impiegato nell’attività appaltata, senza in nulla incidere perciò sugli scatti d’anzianità che occorre riconoscere ai singoli lavoratori in caso d’adesione alla clausola sociale da parte dell’aggiudicatario di un appalto pubblico. Lo stesso è a dirsi per il Ccnl “Multiservizi”, il cui regime sulla continuazione del rapporto di lavoro in caso di cd. “cambio appalto” non interferisce di per sé sul funzionamento della clausola sociale in esame, rimessa ai principi specifici della elasticità e flessibilità, nonché della conciliazione con l’autonomia organizzativa dell’impresa aggiudicataria nel quadro dell’affidamento di un appalto pubblico. 3.3. Del pari fondata è la doglianza formulata col terzo motivo di gravame sulla erroneità della motivazione circa l’insostenibilità del costo della manodopera espressa in ragione della possibilità che, a fronte delle eventuali istanze dei lavoratori, potrebbero essere giudizialmente attribuiti a questi ultimi gli scatti d’anzianità loro sottratti, con conseguente insostenibilità a quel punto per Le Macchine Celibi dei costi della manodopera. 3.3.1. Come correttamente posto in risalto dall’appellante la motivazione così formulata risulta ipotetica e congetturale, basandosi sulla circostanza che la (eventuale) pretesa dei lavoratori di vedersi riconosciuta dall’appaltatore subentrante l’anzianità di servizio maturata, “una volta accolta, renderebbe insostenibile il rispetto delle condizioni economiche oggi rappresentate da Le Macchine Celibi, le quali presuppongono appunto il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata” (il provvedimento richiama a tal fine anche la possibilità che l’intera operazione venga riqualificata in termini di cessione d’azienda, profilo che attiene pur sempre al possibile re-inquadramento dei lavoratori all’esito dei contenziosi da questi eventualmente intrapresi). Trattasi evidentemente di circostanze né attuali, né concrete, bensì meramente ipotetiche, come tali non invocabili a fini escludenti. Il che conferma l’erroneità del giudizio di anomalia come correlato agli scatti di anzianità del personale assorbito, da un lato difettando un vincolo ai fini del riconoscimento dei suddetti scatti ricavabile dalla lex specialis, dall’altro presentandosi il profilo dei relativi costi come ipotetico e inattuale, in quanto legato ad eventuali vertenze proposte dai dipendenti e alle relative (non certe) vicende ed esiti. Come rilevato dall’appellante, la sentenza impugnata non ha rettamente inteso il significato di “aleatorietà” invocato dalla ricorrente, limitandosi a richiamare, ai fini del rigetto della doglianza, la sussistenza di una pluralità di ragioni di anomalia invocate dall’amministrazione e la discrezionalità - nonché il carattere prognostico - del relativo giudizio rimesso a questa: il che in nulla incide sugli elementi di censura fatti valere da Le Macchine Celibi rispetto alla contestata anomalia del costo della manodopera, come incentrati sul carattere meramente ipotetico delle circostanze all’uopo richiamate dal Comune. 3.4. Non sono fondate, invece, le doglianze formulate dall’appellante nell’ambito del secondo motivo di gravame in relazione agli altri profili di anomalia ravvisati dall’amministrazione. 3.4.1. Va premesso al riguardo che non è suscettibile di favorevole apprezzamento l’eccezione d’inammissibilità del ricorso motivata sulla base della circostanza che, venendo in rilievo un provvedimento plurimotivato, fondato su cinque distinte cause d’esclusione, la fondatezza anche di una sola delle ragioni addotte basterebbe al rigetto dell’impugnativa; in senso contrario è sufficiente rilevare, da un lato il carattere sintetico e globale della valutazione di anomalia posta a fondamento dell’esclusione, dall’altro che non emerge in alcun modo dal provvedimento l’assorbente sufficienza di ciascuno dei profili d’incongruità riscontrati ai fini dell’esclusione della concorrente: non vengono perciò in rilievo nella specie distinte cause d’esclusione, bensì differenti ragioni di anomalia che - nella prospettiva propria (sintetica e globale) del relativo giudizio, effettivamente recepita dal provvedimento impugnato - concorrono congiuntamente e complessivamente alla valutazione sulla congruità dell’offerta (in tal senso s’è espressa peraltro la sentenza di primo grado che, pur richiamando le varie ragioni d’anomalia riscontrate dall’amministrazione, le ha valorizzate nella prospettiva del giudizio sintetico e unitario che ne scaturisce). 3.4.2. In tale contesto infondata si rivela anzitutto la doglianza relativa alla voce delle attrezzature, su cui la stazione appaltante ravvisava elementi di anomalia ritenendo che “si prevedono solo 11.500 euro di attrezzature […] quando solo l’incidenza dell’acquisto e della gestione di un’auto lascia ben poco spazio alle ulteriori spese che si dovranno comunque affrontare per le necessarie dotazioni delle almeno 32 persone da impiegare e per le 5 sedi da gestire nei tre anni”. Al riguardo l’appellante richiama - quale elemento in grado di giustificare il limitato importo indicato - la disponibilità di un parco attrezzature (in particolare computer, telefoni cellulari, router wi-fi, software per la rilevazione delle presenze, un’autovettura ecologica) del quale essa già disporrebbe in forza dei numerosi appalti gestiti. Tuttavia, come eccepito dalla Open Group, l’appellante non fornisce specifica evidenza e documentazione di tali invocati elementi, sicché la doglianza rimane apodittica e indimostrata, non risultando confortata da adeguate risultanze probatorie in ordine alla disponibilità delle attrezzature richiamate e alle loro caratteristiche, profili necessari per consentire un vaglio sulla ragionevolezza dell’apprezzamento espresso dalla stazione appaltante. A ciò si aggiunga che il Comune richiamava all’uopo anche i costi relativi alla gestione dell’auto, che concorrerebbero a pressoché assorbire - a fronte dell’importo complessivo previsto da Le Macchine Celibi, pari a € 11.500,00 - le disponibilità per le dotazioni su 32 dipendenti e cinque sedi; e su tale elemento l’appellante non ha formulato specifiche censure. Per tali ragioni, al di là della dedotta mancata interlocuzione sul punto con la stazione appaltante (su cui v. retro, sub § 2 ss. in ordine ai profili procedurali), l’appellante non offre specifici elementi d’evidenza idonei a dimostrare l’irragionevole e manifestamente erronea valutazione di merito resa dall’amministrazione su tale voce di costo. 3.4.3. Allo stesso modo non vale a confutare il giudizio d’incongruità espresso dal Comune sugli oneri per la sicurezza relativi ai rischi specifici l’invocare la mera circostanza che il loro importo coincide con quello previsto dalla lex specialis per gli oneri di sicurezza cd. “interferenziali”, trattandosi in realtà di voci aventi funzioni e significati diversi, la cui mera coincidenza numerica non consente di dimostrare la congruità della voce esposta da Le Macchine Celibi e di ravvisare una manifesta irragionevolezza o erroneità nella corrispondente valutazione d’inadeguatezza resa dalla stazione appaltante. 3.4.4. Del pari infondata è la censura formulata in relazione alla voce dei costi generali, argomentata dall’appellante sulla base del suo coinvolgimento anche in altri appalti, con conseguente dotazione degli elementi di base necessari all’attività (fra cui, in particolare, il software per la rilevazione delle presenze del personale). In senso contrario è sufficiente osservare come la stazione appaltante abbia contestato in realtà che, di 11.500,00 euro previsti da Le Macchine Celibi per siffatta voce, ben 5.000,00 sono già destinati a coprire le spese di pubblicazione, sicché il residuo di 6.500,00 euro risulta troppo esiguo per un affidamento di durata triennale. In relazione a tale contestazione l’appellante non fornisce concreti e specifici elementi di segno opposto, limitandosi a rimandare alle dotazioni già a disposizione dell’impresa: il che non consente di ravvisare profili di evidente irragionevolezza od erroneità nel giudizio espresso dall’amministrazione, e quindi di superare la valutazione d’incongruità da questa formulata. 3.4.5. Irrilevante risulta poi la doglianza prospettata in relazione all’utile d’impresa (stimato in € 30.637,12), ritenuto dalla stazione appaltante inidoneo a coprire costi integrativi per la possibile assunzione di personale a condizioni più favorevoli, nonché esigenze impreviste e necessarie al mantenimento di servizi qualitativamente accettabili; la censura all’uopo articolata, con cui si deduce la corretta determinazione dell’utile e la sua idoneità a sopportare eventuali maggiori costi risulta nella specie non rilevante né conducente alla luce di quanto già statuito e delle relative conseguenze di seguito esposte (v. infra, sub § 5). Va posto in risalto in proposito che, al di là di quanto già rilevato in ordine ai presunti costi aggiuntivi della manodopera e all’erroneo richiamo a tal fine al mantenimento degli scatti d’anzianità già vantati dal personale (v. retro, sub § 3 ss.), in termini generali, per costante giurisprudenza anche un utile esiguo di per sé solo non equivale a determinare l’anomalia dell’offerta, atteso che “non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo” (inter multis, Cons. Stato, III, 17 giugno 2019, n. 4025; V, 8 maggio 2020, n. 2900). Ferme queste precisazioni, va osservato che nel caso di specie il richiamo all’utile non è espresso dall’amministrazione quale autonoma causa d’inadeguatezza dell’offerta e per questo si rende necessario procedere - a fronte dei profili di doglianza accolti e di quelli respinti, nei termini suindicati - a un nuovo giudizio sintetico e globale di sostenibilità dell’offerta nel quale considerare anche la capienza dell’utile esposto dall’impresa per poter compensare le sottostime delle voci di costo sopra confermate, ciò che compete all’amministrazione valutare (v. infra, sub § 5). 4. In conclusione, per le suesposte ragioni risultano fondate le doglianze proposte dall’appellante in relazione alla voce del costo della manodopera e relativo prelievo Irap, rispetto alle quali è peraltro infondata l’eccezione d’inammissibilità sollevata dagli appellati sulla base dell’invocata discrezionalità propria delle valutazioni sull’anomalia, atteso che le suddette (fondate) censure non incidono sul giudizio discrezionale rimesso alla stazione appaltante, ma evidenziano da un lato l’erronea contestazione d’una difformità dell’offerta rispetto alla lex specialis, dall’altro una (connessa) illegittima impostazione nella valutazione dei costi della manodopera. Si rivelano invece non meritevoli di favorevole apprezzamento le censure relative alle altre voci dell’offerta giudicate anomale dalla stazione appaltante. 5. Per effetto dell’accoglimento dell’appello nei suddetti termini va dunque riformata la sentenza e accolto il ricorso di primo grado con conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento di esclusione de Le Macchine Celibi e di scorrimento della graduatoria in favore della Open Group. L’annullamento del provvedimento a fronte dei profili d’illegittimità riscontrati non comporta peraltro il necessario e automatico affidamento della commessa in favore dell’appellante, bensì la rivalutazione dell’anomalia dell’offerta da parte della stazione appaltante sulla base di quanto sopra indicato. Non emerge infatti chiaramente, nella specie - né può essere autonomamente apprezzato dal giudice - l’esito finale sulla sostenibilità economica dell’offerta di Le Macchine Celibi alla luce dei profili di doglianza accolti e di quelli respinti nel quadro della valutazione unitaria sull’anomalia compiuta dall’amministrazione: il che comporta la necessaria rivalutazione sintetica e globale dell’anomalia dell’offerta da parte della stazione appaltante, che si atterrà a tal fine alle suesposte statuizioni. 5.1. Stante la necessaria rivalutazione dell’anomalia dell’offerta va respinta la domanda risarcitoria proposta da Le Macchine Celibi, atteso che non v’è prova della spettanza del bene della vita in capo all’appellante e dunque della lesione di una situazione giuridica meritevole di ristoro. 6. In conclusione l’appello va accolto nei termini suindicati, con conseguente riforma della sentenza e accoglimento del ricorso di primo grado, cui segue l’annullamento del provvedimento impugnato e la nuova valutazione della congruità dell’offerta dell’appellante secondo quanto suesposto. 7. La complessità e particolarità della fattispecie giustifica l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio fra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado annullando il provvedimento gravato nei termini di cui in motivazione; compensa le spese del doppio grado di giudizio fra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati: Carlo Saltelli, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere Alberto Urso, Consigliere, Estensore Cecilia Altavista, Consigliere Carlo Saltelli, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere Alberto Urso, Consigliere, Estensore Cecilia Altavista, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Clausola sociale – Art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 – Ratio - Individuazione  ​​​​​​​          Nelle gare di appalto, il regime della clausola sociale richiede un bilanciamento fra più valori, tutti di rango costituzionale, ed anche europeo; ci si riferisce da un lato al rispetto della libertà di iniziativa economica privata, garantita dall’art. 41 Cost, ma anche dall’art. 16 della Carta di Nizza, che riconosce ‘la libertà di impresa’, conformemente alle legislazioni nazionali; dall’altro lato, in primo luogo al diritto al lavoro, la cui protezione è imposta dall’art. 35 Cost, e dall’art. 15 della Carta di Nizza, di analogo contenuto (1).    (1) Cons. Stato, Comm. spec., parere 21 novembre 2018, n. 2703. La clausola sociale va formulata e intesa in maniera elastica e non rigida, rimettendo all’operatore economico concorrente finanche la valutazione in merito all’assorbimento dei lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario, anche perché solo in questi termini la clausola sociale è conforme alle indicazioni della giurisprudenza amministrativa secondo la quale l’obbligo di mantenimento dei livelli occupazionali del precedente appalto va contemperato con la libertà d’impresa e con la facoltà in essa insita di organizzare il servizio in modo efficiente e coerente con la propria organizzazione produttiva, al fine di realizzare economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento dell’appalto (Cons. Stato, sez. V, 12 settembre 2019, n. 6148; id., sez. VI, 21 luglio 2020, n. 4665; id. 24 luglio 2019, n. 5243; id., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 1066). Il tema delle modalità di attuazione della clausola sociale è stato peraltro affrontato dal Consiglio di Stato in sede consultiva, con il parere già citato reso sulle Linee guida dell’Anac relative all’applicazione dell’art. 50, d.lgs. n. 50 del 2016 (Linee guida n. 13, poi approvate con delibera n. 114 del 13 febbraio 2019).  Al riguardo è stata posta in risalto in particolare l’opportunità di prevedere un “vero e proprio ‘piano di compatibilità’ o ‘progetto di assorbimento’, nel senso che [l’offerta] debba illustrare in qual modo concretamente l’offerente, ove aggiudicatario, intenda rispettare la clausola sociale”; il che confluirebbe nella formulazione di “una vera e propria proposta contrattuale […] che contenga gli elementi essenziali del nuovo rapporto in termini di trattamento economico e inquadramento, unitamente all’indicazione di un termine per l’accettazione”, con conseguente possibilità per il lavoratore di “previa individuazione degli elementi essenziali del contratto di lavoro” (Cons. Stato, parere n. 2703 del 2018, cit.). Allo stesso modo, la stazione appaltante potrebbe valutare se “inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta quello relativo alla valutazione del piano di compatibilità, assegnando tendenzialmente un punteggio maggiore, per tale profilo, all’offerta che maggiormente realizzi i fini cui la clausola tende”.  Da ciò si ricava chiara conferma che è rimessa al concorrente la scelta sulle concrete modalità di attuazione della clausola, incluso l’inquadramento da attribuire al lavoratore, spettando allo stesso operatore formulare eventuale “proposta contrattuale” al riguardo, anche attraverso il cd. “progetto di assorbimento”, effettivamente introdotto dall’art. 3, ultimo comma, delle Linee guida Anac n. 13 (cfr., in proposito, Cons. Stato, sez. V, 1 settembre 2020, n. 5338); il che vale a escludere che dalla clausola sociale possa derivare sic et simpliciter un obbligo in capo al concorrente d’inquadrare il lavoratore con lo stesso livello d’anzianità già posseduto.  È stato recentemente sottolineato come la clausola non comporti “alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata, nonché alle medesime condizioni, il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, ma solo che l’imprenditore subentrante salvaguardi i livelli retributivi dei lavoratori riassorbiti in modo adeguato e congruo”; di guisa che “l’obbligo di garantire ai lavoratori già impiegati le medesime condizioni contrattuali ed economiche non è assoluto né automatico” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche id. 16 gennaio 2020, n. 389, in cui si precisa, sotto altro concorrente profilo, che sull’aggiudicatario non grava “l’obbligo di applicare ai lavoratori esattamente le stesse mansioni e qualifiche che avevano alle dipendenze del precedente datore di lavoro”; v. anche Id. 13 luglio 2020, n. 4515, in ordine al Ccnl prescelto). Per tali ragioni va escluso che la clausola sociale possa implicare la necessaria conservazione dell’inquadramento e dell’anzianità del lavoratore assorbito dall’impresa aggiudicataria.  Va peraltro rilevato, sotto altro profilo, che l’aspetto inerente al “modo [con cui] l’imprenditore subentrante dia seguito all’impegno assunto con la stazione appaltante di riassorbire i lavoratori impiegati dal precedente aggiudicatario (id est. come abbia rispettato la clausola sociale) attiene […] alla fase di esecuzione del contratto, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro” (Cons. Stato, n. 6148 del 2019, cit.; cfr. anche la Linee guida Anac n. 13, che all’art. 5 prevedono: “L’inadempimento degli obblighi derivanti dalla clausola sociale comporta l’applicazione dei rimedi previsti dalla legge ovvero dal contratto. Nello schema di contratto le stazioni appaltanti inseriscono clausole risolutive espresse ovvero penali commisurate alla gravità della violazione. Ove ne ricorrano i presupposti, applicano l’articolo 108, comma 3, del Codice dei contratti pubblici”).  Per contro non vale il richiamare il precedente della Sezione che ha escluso che l’estensione della libertà imprenditoriale possa spingersi sino al punto di vanificare le sottostanti esigenze di tutela dei lavoratori sotto il profilo del mantenimento delle condizioni economiche e contrattuali vigenti, pena la legittimazione di politiche aziendali di dumping sociale in grado di vanificare gli obiettivi di tutela del lavoro (Cons. Stato, sez. V, 10 giugno 2019, n. 3885). ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
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Principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione - Sostituzione dell’ausiliaria durante la procedura di gara
N. 00951/2020 REG.PROV.COLL. N. 02045/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2045 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da Trinacria Ambiente e Tecnologie S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Silvano Martella, con domicilio fisico eletto presso il suo studio in Messina, Via San Giovanni Bosco, n. 30 e con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; contro Invitalia - Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Nunzio Pinelli, con domicilio fisico eletto presso lo studio dell’avvocato Claudio Chines in Catania alla Via Etnea n. 688; nei confronti Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro “Ciro Menotti” Soc. Coop. P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Maria Paola Roullet e Rosario Scalise, con domicilio digitale ex lege come da PEC da Registri di Giustizia; per l’annullamento, previa sospensiva, - - per quanto riguarda il ricorso introduttivo del giudizio: - della determina del 4.12.209 di Invitalia spa con la quale si procede all’annullamento in autotutela del proprio provvedimento n. 126696 del 4.10.2019; - nonché degli atti conseguenziali ivi compresi il provvedimento non conosciuto di aggiudicazione in favore della controinteressata dei lavori già aggiudicati alla ricorrente e ove occorra di tutti gli altri atti presupposti e/o consequenziali all’aggiudicazione ad oggi non conosciuti e per la declaratoria di inefficacia e/o di nullità del contratto d’appalto ove nelle more stipulato; con riserva di azione per il risarcimento dei danni; - - per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati da Trinacria Ambiente e Tecnologie S.r.l. il 21 febbraio 2020, per confermare la richiesta di annullamento: del provvedimento di aggiudicazione, in favore della controinteressata in luogo della ricorrente, dei “Lavori di completamento, ammodernamento e adeguamento del depuratore consortile S. Agata Militello – Acquedolci” – Intervento ID33405 Delibera CIPE n. 60/2012 (comunicato con atto prot. 0020120 del 10/02/2020 firmato il 7.02.2020). Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Invitalia - Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a. e di Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro “Ciro Menotti” Soc. Coop. P.A.; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, comma 10, cod. proc. amm.; Visto l’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Vista la nota del Presidente del Consiglio di Stato prot. int. 1454 del 19 marzo 2020; Vista la nota del Presidente del Consiglio di Stato prot. n. 7400 del 20 aprile 2020; Visto il decreto del Presidente del T.A.R. per la Sicilia, sezione staccata di Catania, n. 22 del 23 marzo 2020; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2020 il dott. Giovanni Giuseppe Antonio Dato e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La società ricorrente rappresenta di aver partecipato, quale capogruppo mandataria di costituendo raggruppamento con la ditta Bello Francesco, mandante - in riscontro alla determina di Invitalia n. 94 prot. del 18 giugno 2019 e del correlato bando (GURI n. 74 il 26 giugno 2019) - alla gara per l’affidamento dei “Lavori di completamento, ammodernamento e adeguamento del depuratore consortile Sant’Agata Militello – Acquedolci” – Intervento ID33405 Delibera CIPE n. 60/2012. Espone la deducente, inoltre, che il raggruppamento in questione è risultato primo classificato con un ribasso percentuale offerto del 24,13330% e che a seguito dell’esito positivo del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, lo stesso raggruppamento è stato destinatario del provvedimento di aggiudicazione definitiva prot. n. 126696 del 4 ottobre 2019. Precisa la società ricorrente di aver partecipato alla gara in questione in quanto beneficiaria dell’attestazione SOA quale capogruppo mandataria preposta all’intero svolgimento delle lavorazioni ricomprese nella categoria prevalente OS22, classifica IV bis, prevista dal bando, ma che, all’esito della successiva verifica triennale, in data 22 ottobre 2019, la stessa ha subito una riduzione del valore dell’attestazione conseguendo la minore classifica III bis giusta nuova attestazione SOA. Per l’effetto, il RUP, con nota prot. n. 151585 dell’8 novembre 2019, ha proposto l’avvio del procedimento di annullamento in autotutela del sopra richiamato provvedimento di aggiudicazione prot. n. 126696 del 4 ottobre 2019 per carenza del requisito di qualificazione prescritto. La parte ricorrente espone che con memoria del 20 novembre 2019 ha rilevato un doppio ed autonomo ordine di ragioni per la quale la diminuzione del requisito non valeva a determinare l’automatica revoca dell’aggiudicazione come minacciata dalla stazione appaltante; tuttavia, con l’avversato provvedimento del 4 dicembre 2019 la stazione appaltante si è determinata ad annullare in autotutela il provvedimento di aggiudicazione prot. n. 126696 del 4 ottobre 2019, nonché ad escludere dalle successive fasi della procedura di gara il raggruppamento costituendo “stante la violazione degli articoli 83, co. 2 e 216, co. 14, del Codice dei Contratti, nonché degli articoli 7 e 12.2 del disciplinare di gara”. Con ricorso notificato in data 17 dicembre 2019 e depositato in data 19 dicembre 2019 Trinacria Ambiente e Tecnologie S.r.l. ha dunque proposto le domande in epigrafe. 1.1. Si sono costituite in giudizio Invitalia - Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a. e Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro “Ciro Menotti” Soc. Coop. P.A., contrastando le domande di parte ricorrente. 1.2. Con ordinanza 21 gennaio 2020, n. 25 è stata respinta la domanda cautelare. 1.3. Con ricorso per motivi aggiunti, notificato e depositato in data 21 febbraio 2020, Trinacria Ambiente e Tecnologie S.r.l. ha confermato la domanda di annullamento del provvedimento di aggiudicazione, in favore della parte controinteressata in luogo della ricorrente, dei “Lavori di completamento, ammodernamento e adeguamento del depuratore consortile S. Agata Militello – Acquedolci” – Intervento ID33405 Delibera CIPE n. 60/2012, comunicato con atto prot. 0020120 del 10 febbraio 2020 firmato il 7 febbraio 2020. 1.4. L’udienza pubblica per la trattazione di merito del ricorso, in origine fissata per il giorno 12 marzo 2020, è stata rinviata d’ufficio ex art. 3 del decreto legge 8 marzo 2020, n. 11. 1.5. Con note depositate in data 20 aprile 2020 la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, ha manifestato la propria volontà alla trattazione della causa all’udienza pubblica del 23 aprile 2020 in assenza di discussione orale, insistendo per l’accoglimento del ricorso. 1.6. All’udienza pubblica del 23 aprile 2020, come da verbale, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Con il primo motivo di gravame introduttivo la società ricorrente ha dedotto i vizi di Violazione degli artt. 3 e 97 Costituzione, art. 63 Direttiva 24/2014/CE, artt. 80, 83 e 89, co. 3, D.Lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii., dell'art. III. 1.2.. - Eccesso di potere. Illogicità manifesta. - Violazione art. 13 del disciplinare di gara. Questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, co. 3, D.Lgs. n. 50/2016 in relazione agli artt. 3, 76 e 77 Costituzione. Questione di interpretazione pregiudiziale dell’art. 63 Direttiva 24/2014/UE"; con il primo motivo del ricorso per motivi aggiunti l’esponente ha dedotto i vizi di Violazione della Direttiva 2004/18/CE (artt. 47 e 48). – Eccesso di potere. Illogicità manifesta. - Violazione di legge (art. 83 D.Lgs. n.50/2016 e ss.mm.ii.). - Violazione art. 13 del disciplinare di gara. In sintesi, afferma la deducente che la piccola parte del requisito venuto a mancare in capo all’ATI in data 22 ottobre 2019, in ragione della riduzione del valore della nuova attestazione SOA rispetto a quella valida ed efficace al momento della presentazione dell’offerta, è appieno integrabile con la stipula di un nuovo contratto di avvalimento. Secondo l’esponente, invero, deve essere rivisto il granitico insegnamento della giurisprudenza precedente l’ultima novella legislativa per la quale il requisito venuto meno successivamente alla conclusione della fase di aggiudicazione valeva, comunque, a determinare la conclusione del rapporto e/o la risoluzione del contratto. Dopo aver richiamato la disciplina dell’art. 89, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016 nonché dell’art. 13 del disciplinare di gara, l’esponente ha osservato che le previsioni attualmente in vigore consentono ed anzi impongono la sostituzione dell’ausiliaria priva dei requisiti e che non può affermarsi che la mera riduzione della categoria SOA intervenuta in corso di rapporto non possa essere integrata con un nuovo contratto di avvalimento atto a garantire la P.A. sul pieno possesso dei requisiti richiesti. Secondo la società ricorrente è di tutta evidenza l’assoluta illogicità dell’ipotesi che vede un concorrente affatto privo del requisito sin dall’inizio, ma ammesso alla procedura di gara in ragione di un avvalimento, poter sostituire l’ausiliario che perde, anche integralmente, il requisito necessario per la partecipazione, mentre lo stesso concorrente, già titolare in proprio del requisito stesso, non poterlo affatto integrare nemmeno per la piccola parte che viene meno in corso di esecuzione. Per l’effetto la società ricorrente ha chiesto al Tribunale adito, prescindendo dal dato letterale della norma emarginata, di valutare la generale portata innovativa della norma e la grave iniquità ed irrazionalità del provvedimento impugnato che la disconosce. Ciò pena la patente violazione – argomenta la deducente - anche delle norme costituzionali sopra calendate. Si realizzerebbe, conclude l’esponente, una affatto ingiustificata (oltre che irrazionale) disparità di trattamento a tutto danno dei soggetti maggiormente qualificati. La società ricorrente ha ulteriormente argomentato in ordine alla proprie doglianze nelle memorie versate in giudizio. Invitalia - Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a. e Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro "Ciro Menotti" Soc. Coop. P.A. hanno contrastato le argomentazioni articolate dalla società ricorrente. 1.1. Il motivo è infondato. Occorre premettere, in punto di fatto, che la partecipazione del RTI Trinacria Ambiente & Tecnologie S.r.l. e Bello Francesco alla gara de qua è avvenuta senza “ausilio” (id est, senza ricorrere all’avvalimento dei requisiti) di altro operatore economico. Merita di essere quindi evidenziato che secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 luglio 2015, n. 8) – insegnamento dal quale il Collegio non intende discostarsi – “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità” (cfr., più di recente, Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2020, n. 1918; T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 9 marzo 2020, n. 1053; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I quater, 14 gennaio 2020, n. 386). Nel caso che occupa, la società ricorrente - beneficiaria dell’attestazione SOA “n. 93201/7/00” - all’esito della verifica triennale, in data 22 ottobre 2019 (e, dunque, successivamente al provvedimento di aggiudicazione prot. n. 126696 del 4 ottobre 2019), ha subito una riduzione del valore dell’attestazione conseguendo la minore classifica III bis giusta nuova attestazione SOA “n. 95055/7/00”. Sul punto appare utile il richiamo al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la valenza costitutiva della certificazione rilasciata da una SOA va correlata con lo scopo che la funzione di certificazione persegue, cioè l’attestazione che l'impresa possiede determinati requisiti soggettivi per eseguire opere pubbliche di un certo importo e che li mantiene nel corso di validità del periodo di vigenza della relativa certificazione; pertanto, il rinnovo, così come la verifica, di una SOA hanno effetti solutori della validità della stessa solo nel caso in cui venga accertata la perdita dei requisiti di qualificazione posseduti dall'impresa al momento del rilascio della prima attestazione. Ciò vale anche per il periodo intertemporale tra due certificazioni SOA: il rilascio di un nuovo attestato SOA, in fatto, certifica non solo la sussistenza dei requisiti di capacità da un data ad un’altra, ma anche che l'impresa non solo non ha mai perso quei requisiti in passato già valutati e certificati positivamente ma che, indubitabilmente, li ha mantenuti anche nel periodo di rilascio della nuova certificazione (cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, 5 maggio 2017, n. 1008). Alla luce di quanto appena evidenziato deve concludersi per il mancato rispetto, nella vicenda in esame, del c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione, principio che si impone “non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15 gennaio 2019, n. 374). Ciò premesso, va ora osservato che l’art. 89, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 stabilisce che “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l'operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell'articolo 80. Essa impone all'operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici”. La disposizione de qua recepisce la previsione dell’art. 63 (Affidamento sulle capacità di altri soggetti) della direttiva 24/2014/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 («L’amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità l’operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 57. L’amministrazione aggiudicatrice impone che l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L’amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione»), con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione dell’art. 80 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (cfr., ex plurimis, T.A.R. Basilicata, sez. I, 14 marzo 2020, n. 194). Ciò chiarito, sul carattere “innovativo” dell’istituto della sostituzione del terzo ausiliario, si è soffermata la giurisprudenza, domestica ed eurounitaria (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2015, n. 5359, che ha evidenziato come lo stesso fosse “sconosciuto sia alla normativa nazionale che a quella europea”, e Corte di Giustizia UE, sez. I, 14 settembre 2017, C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., secondo la quale “l’articolo 63 […] apporta modifiche sostanziali per quanto concerne il diritto degli operatori economici di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti nell’ambito di un appalto pubblico” e “introduce nuove condizioni che non erano previste nel precedente regime giuridico”). Più di recente sull’innovatività della previsione in esame è tornata la giurisprudenza domestica (cfr. Cons. Stato, sez. III, ord. 20 marzo 2020, n. 2005, che ha dubitato del contrasto dell’art. 89, comma 1, quarto periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 con i principi e le regole di cui al cit. art. 63 della direttiva 2014/24/UE e della compatibilità della disposizione nazionale con i principi concorrenziali di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE), ricordando come sotto la vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 la modificazione soggettiva dell’offerta era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese, per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163) e solamente nella fase di esecuzione del contratto. E’ stato osservato, inoltre, che la “sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527; T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 27 dicembre 2019, n. 2272). Orbene, alla luce dei su esposti principi va esclusa la fondatezza del motivo di ricorso in esame. Nel caso che occupa, invero, il più volte citato art. 89, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 non può trovare diretta applicazione in quanto, lo si ribadisce, il costituendo RTI Trinacria Ambiente & Tecnologie S.r.l. e Bello Francesco non è ricorso all’avvalimento (dei requisiti di partecipazione di altro operatore economico) nella procedura di gara in questione: difetta, dunque, il principale presupposto per l’operatività del meccanismo sostitutorio descritto dall’anzidetta previsione normativa. Inoltre, non è possibile estendere la previsione in esame alla fattispecie che occupa (caratterizzata, è bene ribadirlo, dalla perdita del requisito in capo alla concorrente Trinacria Ambiente & Tecnologie S.r.l., capogruppo mandataria del costituendo raggruppamento), in quanto essendo – come sopra anticipato – la sostituzione dell’ausiliaria “istituto patentemente derogatorio” al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura, la relativa previsione normativa deve intendersi di stretta interpretazione e non può essere traslata ad ipotesi da essa non direttamente regolate. Ritiene il Collegio, inoltre, che la profonda differenza delle situazioni poste a raffronto dalla parte ricorrente - difetto del requisito in capo all’operatore economico concorrente ovvero in capo all’impresa ausiliaria - escluda ogni ipotesi di disparità di trattamento. La non irragionevole diversa regolamentazione di situazioni differenti sottrae la normativa vigente ai dubbi di ortodossia costituzionale ipotizzati dall’esponente: si deve ribadire, invero, che l’art. 89, comma 3, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 risponde all’esigenza di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili (stimolando, seppur di riflesso, il ricorso all’avvalimento), consentendo, ove l’ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, di procedere alla sua sostituzione ed evitare l’esclusione (arg. ex Cons. Stato, sez. V, 21 febbraio 2018, n. 1001), mentre il difetto (originario o sopravvenuto) dei requisiti di partecipazione (direttamente) in capo all’operatore economico concorrente è ragione (di esclusione) allo stesso operatore riconducibile. Quanto alla compatibilità eurounitaria della disciplina de qua, si deve osservare che l’art. 83, comma 9, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 costituisce trasposizione della previsione di cui all’art. 63 della direttiva 24/2014/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014. Infine, non appare conferente il richiamo operato dalla società ricorrente (cfr. pag. 4 della memoria depositata in data 31 gennaio 2020) alle previsioni racchiuse nell’art. 48 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 in punto di modificazioni soggettive del RTI, non solo in quanto nella vicenda in esame non viene in rilievo la questione della “sostituzione” di un componente del RTI, ma soprattutto in ragione del fatto che i commi 17 e 18 del cit. art. 48 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 costituiscono ipotesi derogatorie “alla regola generale dell’immodificabilità del raggruppamento temporaneo rispetto alla composizione risultante dall’impegno presentato in sede di offerta” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245). 2. Con il secondo motivo di gravame (introduttivo e per motivi aggiunti) la società ricorrente deduce i vizi di Violazione di legge (artt. 83 e 105 D.lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii. – art. 92 DPR n. 207/2010) - Violazione dell’art. 18 del disciplinare di gara. In sintesi, secondo la deducente, con la nota impugnata la stazione appaltante ha ritenuto - implicitamente (in ragione della totale assenza di motivazione sul punto) - che i requisiti del subappaltatore non potessero valere ad integrare quelli del concorrente. Dopo aver richiamato la previsione dell’art. 18 del disciplinare di gara, la società ricorrente ha evidenziato che proprio in ottemperanza a tale disposizione, già in sede di offerta, ha dichiarato di subappaltare il 40% delle lavorazioni rientranti nella categoria OS22 a soggetto qualificato nella categoria, precisazione svolta anche in ottemperanza alla puntuale prescrizione dell’ultimo comma dell’art. 11 del disciplinare di gara; nello specifico l’ATI intendeva affidare la correlata quota di lavorazioni al Consorzio Stabile Grandi Opere S.c.a.r.l., già in possesso della attestazione SOA, comprensiva della iscrizione per la categoria OS 22 ctg V^ con la quale, già all’indomani dell’aggiudicazione aveva stipulato contratto di subappalto. Al riguardo - osserva la ricorrente - l'art. 92 del d.P.R. n. 207/2010 consente l'integrazione dei requisiti mancanti mediante ricorso al subappalto e, per altro verso, la nuova formulazione dell’art. 105 del D.lgs. n. 50/2016 non impone più l’indicazione del nome del subappaltatore già al momento della presentazione dell’offerta; inoltre, già con la nota illustrativa al Bando-tipo n. 1 l’ANAC ha dato appieno atto del diverso orientamento espresso sul tema dal Consiglio di Stato con il parere n. 2286/2016, che – in termini di compatibilità con il contenuto delle direttive comunitarie – riteneva sufficiente ad evitare l’esclusione del concorrente il fatto che almeno uno dei subappaltatori avesse i requisiti e fosse qualificato per eseguire la prestazione. Ciò premesso, osserva la ricorrente, il fatto che al momento della presentazione dell’offerta il subappaltatore non avesse necessità di prestare il requisito al concorrente-appaltatore (affrancandosi dalla necessità della sua indicazione preventiva per effetto della disciplina derivata dal c.d. “Sblocca cantieri”) non esclude il fatto che questa esigenza si manifesti in un momento successivo e che l’opzione possa sempre essere esercitata (sempre nel pieno rispetto di quegli stessi incombenti prima imposti). Resta comunque fermo, secondo la ricorrente, che per effetto del già dichiarato subappalto (in sede di offerta originaria), l’ATI, con riguardo alle lavorazioni di cui alla categoria OS 22, doveva eseguire solo il 60% dell’importo, mentre il restante 40% doveva essere eseguito dal subappaltatore (autonomamente dotato del richiesto requisito, come prescritto dal bando e come documentato). Per l’esecuzione del 60% è ampiamente sufficiente anche la nuova attestazione SOA con la categoria III bis oggi posseduta, mentre per l’esecuzione del restante 40% la stazione appaltante avrebbe comunque dovuto verificare i requisiti del subappaltatore dopo l’aggiudicazione. La società ricorrente ha ulteriormente argomentato in ordine alla proprie doglianze nelle memorie versate in giudizio. Invitalia S.p.a. e Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro “Ciro Menotti” Soc. Coop. P.A. hanno contrastato le argomentazioni articolate dalla società ricorrente. 2.1. Il motivo è infondato. Trinacria Ambiente & Tecnologie S.r.l. e Bello Francesco, in relazione alla procedura di gara oggetto di contestazione, hanno inteso dar vita ad un (costituendo) raggruppamento di tipo verticale (come si ricava dalla dichiarazione di impegno irrevocabile alla costituzione di associazione temporanea di imprese datata 22 luglio 2019, depositata in giudizio dalla parte controinteressata in data 14 gennaio 2020). E’ noto che tale tipologia di raggruppamento è caratterizzata dalla disomogeneità e differenziazione delle capacità e dei requisiti posseduti dai componenti del raggruppamento medesimo, portatori di competenze distinte e differenti, che vengono riunite ai fini della qualificazione per una determinata gara (cfr. Cons. Stato, sez. III, 21 gennaio 2019, n. 519; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 27 febbraio 2020, n. 177; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 24 dicembre 2019, n. 14851). In punto di fatto va osservato che la quota assunta dalla odierna ricorrente, capogruppo mandataria del costituendo raggruppamento, in relazione alla categoria prevalente OS 22 era pari al 100% (cfr. la sopra richiamata dichiarazione datata 22 luglio 2019). Il disciplinare di gara prevede (cfr. pag. 15) che “A pena di esclusione, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 83, co. 2, e 216, co. 14, del Codice dei Contratti, l’operatore economico dovrà possedere l’attestazione di qualificazione rilasciata da una SOA, regolarmente autorizzata, in corso di validità, per l’esecuzione delle prestazioni di costruzione nelle categorie e nelle classifiche adeguate nelle seguenti lavorazioni, ai sensi dell’articolo 61 del D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 e in conformità all’allegato «A» al citato D.P.R. n. 207/2010: 1. Categoria OS22 - Impianti di potabilizzazione e depurazione, nella classifica IV bis, il cui importo ammonta a € 2.922.216,65 […]>> e (cfr. pag. 20) che <<A pena di esclusione, ai sensi del combinato disposto degli articoli 48, co. 1, 83, co. 2, e 216, co. 14, del Codice dei Contratti, in caso di R.T.I., di consorzi ordinari e di G.E.I.E., di tipo verticale, i requisiti di capacità economica e finanziaria e di capacità tecnica e professionale devono essere posseduti, ai sensi dell’articolo 92, co. 3, del D.P.R. n. 207/2010, dalla mandataria nella categoria prevalente, mentre nelle categorie scorporabili ciascuna mandante possiede i requisiti previsti per l’importo dei lavori della categoria che intende assumere e nella misura indicata per l’impresa singola. I requisiti relativi alle lavorazioni scorporabili non assunte dalle mandanti sono posseduti dalla mandataria con riferimento alla categoria prevalente. L’impresa mandataria o la consorziata capofila, esecutrice della categoria prevalente, in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura percentuale superiore rispetto alle mandanti esecutrici delle categorie scorporabili>>. Il sopra richiamato art. 92 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207 stabilisce che <<Per i raggruppamenti temporanei […] di tipo verticale, i requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi sono posseduti dalla mandataria nella categoria prevalente; nelle categorie scorporate ciascuna mandante possiede i requisiti previsti per l’importo dei lavori della categoria che intende assumere e nella misura indicata per l’impresa singola. I requisiti relativi alle lavorazioni scorporabili non assunte dalle mandanti sono posseduti dalla mandataria con riferimento alla categoria prevalente>> (comma 3). Ciò premesso, il motivo di ricorso in esame è incentrato sulla figura del “subappalto” e sulla affermata integrabilità, ai sensi dell’art. 92 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, dei requisiti mancanti mediante ricorso al subappalto (in particolare, afferma la parte ricorrente, risultando per l’esecuzione del 60% lavorazioni di cui alla categoria OS 22 sufficiente la nuova attestazione SOA con la categoria III bis oggi dalla stessa posseduta, mentre il restante 40% doveva essere eseguito dal subappaltatore, autonomamente dotato del richiesto requisito). Sul punto merita di essere evidenziato che l’istituto del subappalto, nell’ambito della contrattualistica pubblica, assume particolari connotazioni di accessorietà rispetto al corrispondente modello civilistico, essendo destinato ad avere primaria rilevanza nella sola fase di esecuzione; il tipo contrattuale generale è stato poi arricchito dalla figura del c.d. subappalto necessario, figura ricorrente tutte le volte in cui il concorrente, privo di alcuni requisiti, faccia ricorso al subcontratto al fine di imputare al subaffidatario il possesso di tutto quanto non rientri nella sua disponibilità: ne è conseguita la natura polivalente dell’istituto, di cui ferma restando la sua collocazione in fase di esecuzione, non può essere trascurata anche un’incidenza in chiave partecipativa (cfr. T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 3 giugno 2019, n. 144; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 1 marzo 2018, n. 1336). In particolare, la figura del subappalto c.d. “necessario” è stata efficacemente ricostruita dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 2 novembre 2015, n. 9) e la tesi della validità di tale istituto anche in costanza del “nuovo” codice dei contratti è stata affermata in numerose pronunce (cfr., ex plurimis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 6 marzo 2019, n. 3023). Tutto ciò premesso, va osservato che l’infondatezza del motivo in esame riposa nella circostanza che l’istituto del c.d. “subappalto necessario” riguarda l’ipotesi in cui il concorrente debba ricorrere al subappalto al fine di conseguire un’adeguata qualificazione per le categorie scorporabili “ma non può essere certamente invocato al fine di supplire la carenza di adeguata qualificazione nell’ambito della categoria prevalente” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1597). Nel caso in esame, giova ribadirlo, la società ricorrente Trinacria Ambiente & Tecnologie S.r.l., preposta all’intero svolgimento delle lavorazioni ricomprese nella categoria prevalente OS22 classifica IV bis, ha subito, all’esito della verifica triennale, la riduzione del valore dell’attestazione conseguendo la minore classifica III bis, donde l’infondatezza della censura. 3. In conclusione, il ricorso e i motivi aggiunti devono essere respinti in ogni domanda, ivi compresa quella di declaratoria di inefficacia e/o di nullità del contratto d’appalto, posto che la declaratoria di inefficacia del contratto può essere disposta - ex artt. 121 e 122 cod. proc. amm. - soltanto all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione. 4. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso e sui motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, li respinge in ogni domanda. Condanna la ricorrente Trinacria Ambiente e Tecnologie S.r.l. al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 1.000,00 (€. mille/00), oltre accessori di legge, nei confronti di Invitalia - Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.a. e in Euro 1.000,00 (€. mille/00), oltre accessori di legge, nei confronti di Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro “Ciro Menotti” Soc. Coop. P.A.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2020, tramite collegamento simultaneo da remoto in videoconferenza, secondo quanto disposto dall’art. 84, comma 6, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, con l'intervento dei magistrati: Pancrazio Maria Savasta, Presidente Giuseppe La Greca, Consigliere Giovanni Giuseppe Antonio Dato, Referendario, Estensore Pancrazio Maria Savasta, Presidente Giuseppe La Greca, Consigliere Giovanni Giuseppe Antonio Dato, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione - Principio di continuità - Ratio. Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Sostituzione ausiliaria – Limiti.    Il c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione si impone non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A (1).     La sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura di gara è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso (2). (1) Ha premesso il Tar che la valenza costitutiva della certificazione rilasciata da una SOA va correlata con lo scopo che la funzione di certificazione persegue, cioè l’attestazione che l'impresa possiede determinati requisiti soggettivi per eseguire opere pubbliche di un certo importo e che li mantiene nel corso di validità del periodo di vigenza della relativa certificazione; pertanto, il rinnovo, così come la verifica, di una SOA hanno effetti solutori della validità della stessa solo nel caso in cui venga accertata la perdita dei requisiti di qualificazione posseduti dall'impresa al momento del rilascio della prima attestazione. Ciò vale anche per il periodo intertemporale tra due certificazioni SOA: il rilascio di un nuovo attestato SOA, in fatto, certifica non solo la sussistenza dei requisiti di capacità da un data ad un’altra, ma anche che l'impresa non solo non ha mai perso quei requisiti in passato già valutati e certificati positivamente ma che, indubitabilmente, li ha mantenuti anche nel periodo di rilascio della nuova certificazione (Tar Catania, sez. I, 5 maggio 2017, n. 1008). Alla luce di quanto appena evidenziato deve concludersi per il mancato rispetto del c.d. principio di continuità nel possesso dei requisiti di qualificazione, principio che si impone “non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e, dunque, della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e speciale per contrattare con la P.A.” (Cons. Stato, sez. V, 15 gennaio 2019, n. 374). (2) La Sezione ha ricordato che l’art. 89, comma 3, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 stabilisce che “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l'operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell'articolo 80. Essa impone all'operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici”. La disposizione de qua recepisce la previsione dell’art. 63 (Affidamento sulle capacità di altri soggetti) della direttiva 24/2014/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 («L’amministrazione aggiudicatrice verifica, conformemente agli articoli 59, 60 e 61, se i soggetti sulla cui capacità l’operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 57. L’amministrazione aggiudicatrice impone che l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L’amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione»), con ampliamento dell’ambito di operatività a tutti i motivi di esclusione dell’art. 80, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Tar Basilicata 14 marzo 2020, n. 194). Ciò chiarito, sul carattere “innovativo” dell’istituto della sostituzione del terzo ausiliario, si è soffermata la giurisprudenza, domestica ed eurounitaria (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2015, n. 5359, che ha evidenziato come lo stesso fosse “sconosciuto sia alla normativa nazionale che a quella europea”, e Corte di Giustizia UE, sez. I, 14 settembre 2017, C-223/16, Casertana costruzioni s.r.l., secondo la quale “l’articolo 63 […] apporta modifiche sostanziali per quanto concerne il diritto degli operatori economici di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti nell’ambito di un appalto pubblico” e “introduce nuove condizioni che non erano previste nel precedente regime giuridico”). Più di recente sull’innovatività della previsione in esame è tornata la giurisprudenza domestica (Cons. Stato, sez. III, ord., 20 marzo 2020, n. 2005, che ha dubitato del contrasto dell’art. 89, comma 1, quarto periodo, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 con i principi e le regole di cui al cit. art. 63 della direttiva 2014/24/UE e della compatibilità della disposizione nazionale con i principi concorrenziali di cui agli artt. 49 e 56 del TFUE), ricordando come sotto la vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 la modificazione soggettiva dell’offerta era consentita solo nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese, per i motivi ivi previsti (art. 37, comma 19, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) e solamente nella fase di esecuzione del contratto. E’ stato osservato, inoltre, che la “sostituzione dell'ausiliaria durante la procedura è istituto patentemente derogatorio al principio dell'immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura (nonché di coloro di cui intende avvalersi: e, per questa via, della stessa offerta), rispondendo all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione dell'operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e, in questo modo, sia pure indirettamente, stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può far conto sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per solo questo fatto, escluso” (Cons. Stato, sez. V, 26 aprile 2018, n. 2527; Tar Salerno, sez. I, 27 dicembre 2019, n. 2272).
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/pianificazione-della-distribuzione-sul-territorio-delle-sale-da-gioco
Pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco
N. 04464/2020REG.PROV.COLL. N. 09720/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9720 del 2019, proposto da Comune di Belluno (Bl), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Gabriele Bicego, con domicilio digitale come da PEC indicata in atti e domicilio fisico presso il suo studio in Noventa Padovana, via Pana', 56/B; contro Allstar S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Franco Lovato, con domicilio digitale come da PEC indicata in atti e domicilio fisico presso lo studio Maurizio Lanigra in Roma, piazza Prati degli Strozzi n. 32; Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza) n. 448/2019, resa tra le parti, pubblicata in data 10 aprile 2019, non notificata, con cui era accolto il ricorso proposto dall’odierna appellata per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia: - del decreto della Questura di Belluno del 27 agosto 2018 di rigetto della domanda di rilascio della licenza ex art. 88 TULPS finalizzata alla conduzione di una sala dedicata al gioco; - del regolamento comunale per l’apertura delle sale giochi e l’installazione di apparecchi da gioco approvato con deliberazione consigliare del Comune di Belluno n. 10 del 1 marzo 2017, nella parte in cui determina un effetto espulsivo e preclusivo all’installazione e alla collocazione di nuovi apparecchi per il gioco lecito ex art. 110 comma 6 e 7 del TULPS o preclude l’insediamento di nuove attività; - della nota del Comune di Belluno – Area Attività Economiche n. 24752 del 27 giugno 2018, nella parte in cui comunica che “i locali sono conformi alla materia urbanistica, edilizia, di igiene e sanità pubblica e di polizia urbana ma non risultano rispettate le norme contenute nel Regolamento Comunale per le sale da giochi e l’installazione di apparecchi da gioco approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 10 dell’01.03.2017, il cui art. 6 prescrive l’obbligo di mantenere una distanza non inferiore a mt. 300 dagli sportelli bancari e bancomat”; con riserva di condanna delle Amministrazioni convenute al risarcimento dei danni occorsi ed occorrendi, emergenti e di lucro cessante, nel caso di declaratoria di illegittimità degli atti impugnati, ovvero, con riserva di istanza di indennizzo ex art. 21 quinquies l. n. 241/1990; Visto l'art. 84 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18, convertito in l. n. 27 del 2020, con il quale sono state adottate nuove misure per contrastare l'emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenente gli effetti in materia di giustizia amministrativa, nonché l’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, recante disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia amministrativa; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Allstar S.r.l. e del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza con modalità da remoto del giorno 25 giugno 2020 il Cons. Solveig Cogliani; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO I - Con ricorso in appello, il Comune di Belluno censura la sentenza di primo grado di accoglimento del ricorso presentato dalla società Allstar S.r.l., attraverso cui erano impugnati i provvedimenti sopra specificati con i quali il Questore di Belluno, su indicazione del Comune, rigettava l’istanza di rilascio della licenza ex art. 88 TULPS, finalizzata alla conduzione di una sala dedicata al gioco, a causa del mancato rispetto delle norme regolamentari in tema di distanza delle sale da gioco dagli sportelli bancari e bancomat. Il T.A.R. Veneto accoglieva il ricorso, considerando la norma del regolamento comunale, che annovera lo sportello bancomat tra i luoghi sensibili ai fine delle distanze della sale da gioco contraria, all’art. 41 Cost. e, pertanto, lesiva dell’iniziativa economica privata. Avverso siffatta sentenza l’Amministrazione propone i seguenti motivi: 1 -– erroneità della sentenza nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado relativamente all’impugnazione del regolamento comunale per l’apertura delle sale gioco; violazione e falsa applicazione art. 29 c.p.a., poiché sarebbe errata l’affermazione contenuta nella pronunzia secondo cui il rilascio del successivo permesso di costruire relativo alla ristrutturazione dell’immobile in cui insediare l’attività di gioco avrebbe ingenerato affidamento sul buon esito dell’iniziativa economica e sulla conseguente non necessità di impugnare il regolamento, essendo il permesso di costruire di molto successivo al regolamento medesimo; 2 - error in iudicando e violazione e falsa applicazione dell’art. 20, comma 3, delle ll. reg. Veneto n. 6/2015 e n. 30/2016, laddove il primo giudice ha ritenuto che l’art. 20, co. 3 lett. a) della l. reg. n. 6/2015 non potrebbe essere esteso sino ad includere gli sportelli bancomat tra i c.d. luoghi sensibili, in quanto privi di elementi in comune con gli altri luoghi di tal genere individuati dalla norma, alla luce dell’ampia discrezionalità spettante in materia ai comuni; 3 - error in iudicando e travisamento dei fatti: violazione del principio di buon andamento della p.a., dell’art. 97 Cost. e del principio di prevalenza della tutela della salute (art. 32 Cost.) sul diritto di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), in quanto spetterebbe al Comune proprio il bilanciamento tra le diverse esigenze; Si è costituito il Ministero dell’Interno per aderire all’appello. Si è costituita la Società appellata per resistere, contestando, in primo luogo, l’eccepita inammissibilità del gravame poiché – a suo dire – l’interesse ad impugnare sarebbe sorto unicamente successivamente all’emanazione della nota impugnata, avendo la Società medesima posto affidamento sul rilascio del titolo unico in data5 dicembre 2017, tra l’altro successivamente al parere favorevole di insediamento rilasciato in data 28 giugno 2017 dall’ Area Edilizia Urbanistica, SUE e SUAP sulla domanda presentata in data 16 giugno 2017. La Società, pertanto, chiede la conferma della sentenza di prime cure ed, in subordine, il riconoscimento dell’indennizzo per l’intervenuta revoca tacita dei provvedimenti menzionati per l’importo dell’ammontare del danno emergente. Produce a tal fine documenti relativi tra l’altro ai contratti di lavoro. Precisa che l’importo totale dell’investimento in beni e servizi è di € 650.741,40. Con ordinanza ord. 222/2020 era accolta l’istanza cautelare di sospensione degli effetti della pronunzia appellata in considerazione del bilanciamento degli interessi coinvolti. Con memoria per l’udienza di discussione, l’Amministrazione ha evidenziato la inconfigurabilità di una revoca nella specie, poiché il permesso rilasciato potrebbe condurre, in futuro, comunque all’apertura di una sala giochi nel caso dello spostamento dei luoghi individuati come sensibili. Contesta, altresì, l’ammissibilità della produzione effettuata per la prima volta in appello. Le parti si sono scambiate, ulteriori memorie in ordine ai motivi di appello. All’udienza del 25 giugno, stante l’espressa richiesta di entrambe le parti di passaggio in decisione e la presentazione degli scritti difensivi, la causa è stata trattenuta in decisione. II – Sull’inammissibilità osserva il Collegio, in via preliminare che, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450) si è soffermata sulla distinzione tra due categorie di atti regolamentari: da un lato, gli atti contenenti solo ‘volizioni preliminari’, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonee a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; dall’altro, gli atti regolamentari denominati ‘volizione – azione’, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari. Mentre in relazione alla prima tipologia, i regolamenti devono necessariamente essere impugnati assieme ai relativi atti, al contrario, i regolamenti del secondo tipo devono essere gravati immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti applicativi. Nella specie, pare non doversi dubitare della riconducibilità del regolamento oggetto di contenzioso alla seconda categoria, essendo in condizione di vincolare – come affermato dall’Amministrazione appellante – le successive decisioni dell’Amministrazione stessa, senza lasciare margine di discrezionalità in materia. Da tal considerazione discende la fondatezza del primo motivo di appello, con riguardo alle conclusioni del primo giudice, che ha annullato in parte qua il regolamento censurato. Dall’accoglimento del primo motivo di appello deriva la tardività dell’impugnazione della norma regolamentare che ha disposto il distanziamento delle sale da gioco dagli sportelli bancomat, e la conseguente inammissibilità dell’ulteriore domanda di annullamento della nota impugnata. III – Tuttavia, vale precisare che l’appello è fondato anche con riguardo agli ulteriori motivi. Con riferimento alle varie misure adottate dalle amministrazioni locali per circoscrivere l’attività delle sale da gioco, questo Consiglio di Stato (con parere della Sez. II, n. 3323 del 2015) ha sottolineato che la significativa evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, alla luce delle più recenti pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 220 del 18 luglio 2014), seguita da alcune decisioni del Consiglio di Stato (Sez. V n.5251 del 23 ottobre 2014, n. 4861 del 22 ottobre 2015 e n. 4794 del 20 ottobre 2015; II, n.1666 del 4 giugno 2015) ha affermato il legittimo esercizio delle potestà regolamentari degli enti locali di intervenire per regolare la materia in questione. Inoltre, è stato evidenziato – proprio con riferimento alla libertà di iniziativa economica e alla sua comprimibilità - che anche la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. ammette le idonee restrizioni alla disciplina europea in tema di libertà d’impresa qualora giustificate da esigenze imperative connesse all’interesse generale, “come ad esempio la tutela dei destinatari del servizio e dell’ordine sociale, la protezione dei consumatori, la prevenzione della frode e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco” (cfr. sentenza 24 gennaio 2013, nelle cause riunite C-186/11 e C-209/11, e sentenza 19 luglio 2012, nelle cause riunite C-213/11, C-214/11 e C-217/11), “con conseguente legittima introduzione, da parte degli Stati membri (e delle loro articolazioni ordinamentali), di restrizioni all’apertura di locali adibiti al gioco, a tutela della salute di determinate categorie di persone maggiormente vulnerabili in funzione della prevenzione della dipendenza dal gioco (interesse fondamentale, salvaguardato dallo stesso Trattato CE)” (nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4498). Questo stesso Consiglio di Stato, nella decisione della Sez. V 30 giugno 2014, n. 3271, riteneva, infatti che “L'art. 3 del D.L. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148/2011, sempre in tema di abrogazione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche, ha poi disposto che "l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge", affermando un fondamentale principio, derogabile soltanto in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute)”. Su punto, si è pronunziata, peraltro, specificamente la Corte cost. con la sentenza n. 300/2011. IV- Peraltro, vale osservare che la parte appellata non dimostra che la misura disposta sarebbe in condizione di precludere nell’intero territorio comunale l’iniziativa economica in questione. V – Quanto alla tutela dell’affidamento invocata dalla Società appellata, la violazione della stessa risulta esclusa da quanto emerge dall’esposizione in fatto, con riferimento alla vigenza della disposizione regolamentare ben prima della proposizione della domanda di autorizzazione all’apertura della sala giochi. VI – Ancora non pare configurabile, nella specie, una revoca implicita del precedente titolo e della conseguente spettanza dell’indennizzo in considerazione del fatto – correttamente indicato dal comune – che la preclusione all’apertura appare connessa unicamente alla permanenza del bancomat. VII – Non si rinvengono elementi, poi, idonei a confutare la sussistenza della vicinanza allo sportello a differenza di quanto infine ipotizzato, senza alcun supporto probatorio, negli ultimi scritti difensivi dalla parte appellata. VIII – Da ultimo, vale ricordare che questa Sezione ha più volte affermato che dalla legislazione nazionale si ricava il principio della necessaria pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco, allo scopo di contenere e contrastare il fenomeno della ludopatia (n. 8563/2019). Sia la giurisprudenza amministrativa sia la Corte Costituzionale – come ricordato - hanno ritenuto, in più occasioni, che le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco dai luoghi sensibili siano dirette al perseguimento di finalità, anzitutto, di carattere “socio-sanitario” e anche di finalità attinenti al “governo del territorio”, sotto i profili della salvaguardia del contesto urbano. La Corte Costituzionale ha ritenuto non irragionevoli, pertanto, le scelte regionali di ampliare il numero dei luoghi sensibili, includendovi persino luoghi adibiti ad “attività operative nei confronti del pubblico” che “si configurano altresì come luoghi di aggregazione, in cui possono transitare soggetti in difficoltà” (ad es. sentenza n. 27/2019). D'altra parte, la Corte Costituzionale, nei suoi numerosi interventi in materia, ha ritenuto che la tutela della salute (in cui rientra il contrasto alla ludopatia) è sussumibile tra gli obiettivi che, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione, possono giustificare limitazioni all'iniziativa economica privata, tenuto conto della non assoluta preminenza del principio di libertà dell'attività economica privata nella nostra Costituzione. Anche a livello comunitario, le esigenze di tutela della salute vengono ritenute del tutto prevalenti rispetto a quelle economiche (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza del 22 ottobre 2014, C-344/13 e C367/13). Si deve poi aggiungere, proprio per rafforzare la correttezza della interpretazione costituzionalmente orientata dalle disposizioni per il contenimento della ludopatia, che quest’ultima rappresenta oggi una forma diffusa di svilimento della dignità personale dei “ludopatici”, sicché la distanza prescritta tra la sala giochi e uno sportello bancomat è solo un ulteriore mezzo per evitare che l’occasione del prelievo sia facilmente colta dal soggetto ludopatico per continuare o aggravare la sua condizione sociale, personale e patologica: tutto questo, proprio in ossequio ai principi limitativi della iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. stabilisce, primo tra essi la “dignità umana”. Allo stato, pertanto, deve concludersi nel senso di non ritenere irragionevole né sproporzionato imporre limitazioni ad attività economiche riconosciute scientificamente pericolose alla salute, o comunque tali da incidere negativamente sulla dignità umana, già assai colpita dai soggetti ludopatici proprio perché non si tratta di introduzione di divieti generalizzati, ma di regolamentazione in corrispondenza di luoghi particolari. Svolte siffatte considerazioni, non appare, dunque, violare il principio di ragionevolezza la misura adottata nel regolamento oggetto di contenzioso, che mira al distanziamento delle sala da gioco da luoghi di prelievo dei contanti. IX - In definitiva, l’appello deve essere accolto e per l’effetto deve essere riformata la sentenza appellata n. 448/2019 e, per l’effetto, deve essere respinto il ricorso proposto in primo grado. IX – Conseguentemente, in ragione del principio della soccombenza, la Società appellata è condannato al pagamento a favore dell’Amministrazione appellante delle spese del giudizio, che sono determinate in complessivi euro 2000,00 (duemila/00). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata n. 448/2019, respinge il ricorso di primo grado. Condanna la Società appellata al pagamento a favore dell’Amministrazione appellante delle spese del giudizio, che sono determinate in complessivi euro 2000,00 (duemila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 25 giugno 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere IL SEGRETARIO
Giochi – Sala da gioco – Contrasto alla ludopatia - pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco – Necessità.     Al fine di contenere e contrastare il fenomeno della ludopatia è necessaria la pianificazione della distribuzione sul territorio delle sale da gioco (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che con riferimento alle varie misure adottate dalle amministrazioni locali per circoscrivere l’attività delle sale da gioco, il Consiglio di Stato (con parere della sez. II, n. 3323 del 2015) ha sottolineato che la significativa evoluzione della giurisprudenza amministrativa in materia, alla luce delle più recenti pronunce della Corte costituzionale (sentenza n. 220 del 18 luglio 2014), seguita da alcune decisioni del Consiglio di Stato (sez. V, n. 5251 del 23 ottobre 2014; n. 4861 del 22 ottobre 2015 e n. 4794 del 20 ottobre 2015; sez. II, n.1666 del 4 giugno 2015) ha affermato il legittimo esercizio delle potestà regolamentari degli enti locali di intervenire per regolare la materia in questione. Inoltre, è stato evidenziato – proprio con riferimento alla libertà di iniziativa economica e alla sua comprimibilità - che anche la giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. ammette le idonee restrizioni alla disciplina europea in tema di libertà d’impresa qualora giustificate da esigenze imperative connesse all’interesse generale, “come ad esempio la tutela dei destinatari del servizio e dell’ordine sociale, la protezione dei consumatori, la prevenzione della frode e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco” (cfr. sentenza 24 gennaio 2013, nelle cause riunite C-186/11 e C-209/11, e sentenza 19 luglio 2012, nelle cause riunite C-213/11, C-214/11 e C-217/11), “con conseguente legittima introduzione, da parte degli Stati membri (e delle loro articolazioni ordinamentali), di restrizioni all’apertura di locali adibiti al gioco, a tutela della salute di determinate categorie di persone maggiormente vulnerabili in funzione della prevenzione della dipendenza dal gioco (interesse fondamentale, salvaguardato dallo stesso Trattato CE)” (nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4498). Questo stesso Consiglio di Stato, nella decisione della sez. V 30 giugno 2014, n. 3271, riteneva, infatti che “L'art. 3 del D.L. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148 del 2011, sempre in tema di abrogazione delle restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche, ha poi disposto che "l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge", affermando un fondamentale principio, derogabile soltanto in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute)”. Su punto, si è pronunziata, peraltro, specificamente la Corte cost. con la sentenza n. 300 del 2011. La Sezione ha aggiunto che sia la giurisprudenza amministrativa sia la Corte Costituzionale hanno ritenuto, in più occasioni, che le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco dai luoghi sensibili siano dirette al perseguimento di finalità, anzitutto, di carattere “socio-sanitario” e anche di finalità attinenti al “governo del territorio”, sotto i profili della salvaguardia del contesto urbano. La Corte Costituzionale ha ritenuto non irragionevoli, pertanto, le scelte regionali di ampliare il numero dei luoghi sensibili, includendovi persino luoghi adibiti ad “attività operative nei confronti del pubblico” che “si configurano altresì come luoghi di aggregazione, in cui possono transitare soggetti in difficoltà” (ad es. sentenza n. 27 del 2019). D'altra parte, la Corte Costituzionale, nei suoi numerosi interventi in materia, ha ritenuto che la tutela della salute (in cui rientra il contrasto alla ludopatia) è sussumibile tra gli obiettivi che, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione, possono giustificare limitazioni all'iniziativa economica privata, tenuto conto della non assoluta preminenza del principio di libertà dell'attività economica privata nella nostra Costituzione. Anche a livello comunitario, le esigenze di tutela della salute vengono ritenute del tutto prevalenti rispetto a quelle economiche (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza del 22 ottobre 2014, C-344/13 e C367/13). Si deve poi aggiungere, proprio per rafforzare la correttezza della interpretazione costituzionalmente orientata dalle disposizioni per il contenimento della ludopatia, che quest’ultima rappresenta oggi una forma diffusa di svilimento della dignità personale dei “ludopatici”, sicché la distanza prescritta tra la sala giochi e uno sportello bancomat è solo un ulteriore mezzo per evitare che l’occasione del prelievo sia facilmente colta dal soggetto ludopatico per continuare o aggravare la sua condizione sociale, personale e patologica: tutto questo, proprio in ossequio ai principi limitativi della iniziativa economica privata che l’art. 41 Cost. stabilisce, primo tra essi la “dignità umana”. Allo stato, pertanto, deve concludersi nel senso di non ritenere irragionevole né sproporzionato imporre limitazioni ad attività economiche riconosciute scientificamente pericolose alla salute, o comunque tali da incidere negativamente sulla dignità umana, già assai colpita dai soggetti ludopatici proprio perché non si tratta di introduzione di divieti generalizzati, ma di regolamentazione in corrispondenza di luoghi particolari.
Giochi
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/diritto-del-proprietario-ad-ottenere-trascrizioni-cancellazioni-etc-a-fronte-di-giudicato-civile-che-ha-dichiarato-sussistente-l-occupazione-appropria
Diritto del proprietario ad ottenere trascrizioni, cancellazioni, etc, a fronte di giudicato civile che ha dichiarato sussistente l’occupazione appropriativa
N. 00125/2021REG.PROV.COLL. N. 00810/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 810 del 2020, proposto da Carmela Salamone, rappresentata e difesa dagli avvocati Girolamo Bongiorno e Salvatore Ziino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Anas S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza) n. 1734/2020, resa tra le parti in data 3.8.2020, nel procedimento n. 2744 del 2019, con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso per l’accertamento dell’obbligo di A.N.A.S. di provvedere ai sensi dell’art. 42 bis D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 (T.U. Espropriazioni); per la dichiarazione di illegittimità del silenzio inadempimento tenuto da A.N.A.S.; per il conseguimento dell’ordine rivolto ad A.N.A.S. di concludere il procedimento; per la nomina di un commissario “ad acta” nell’ipotesi di mancato adempimento dell’obbligo di conclusione del procedimento entro il termine assegnato”. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Anas S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2021, tenutasi da remoto ai sensi dell’art.4, d.l. n. 28/2020 e dell’art. 25, d.l. n. 137/2020, il Cons. Maria Stella Boscarino; Vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato distrettuale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L’appellante premette che, con Decreto di occupazione di urgenza del Prefetto di Agrigento n. 2416 del 29.4.1980, la società “Reale Costruzioni”, per conto dell’A.N.A.S., veniva autorizzata ad occupare d’urgenza per cinque anni i terreni ricadenti all’interno delle particelle 1 e 20 del foglio 120 del Comune di Agrigento, di proprietà dell’appellante. Con sentenza n. 2108/1991, il Tribunale di Palermo, adito dall’interessata, dichiarava che, a seguito della trasformazione irreversibile del fondo, si era verificata la c.d. occupazione appropriativa e condannava l’A.N.A.S. al risarcimento dei danni. 2. Con Decreto di occupazione di urgenza del Prefetto di Agrigento n. 1333 del 29.3.1982, l’impresa “Bruccoleri Costruzioni”, per conto dell’A.N.A.S., veniva autorizzata ad occupare d’urgenza per cinque anni un ulteriore appezzamento di terreno all’interno delle particelle 1 e 20 del foglio 120, della particella 4 del foglio 113 e della particella 63 del foglio 119 del Comune di Agrigento. Con sentenza n. 2177/1994, il Tribunale di Palermo, adito dalla sig.ra Salamone, accertava che, nel corso dell’occupazione legittima del terreno, erano state eseguite le opere che avevano determinato una radicale ed irreversibile trasformazione delle aree e, pertanto, condannava l’impresa Bruccoleri al risarcimento dei danni e rigettava la domanda risarcitoria nei confronti dell’A.N.A.S. La sig.ra Salamone proponeva appello e, con sentenza n. 9/2001, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava l’A.N.A.S., quale ente espropriante e proprietario dell’opera, al risarcimento dei danni subiti dalla sig.ra Salamone, in solido con l’impresa costruttrice. 3. Essendo, tuttavia, dette aree rimaste intestate alla sig.ra Salamone, quest’ultima, con nota del 19.2.2019, invitava l’A.N.A.S. a provvedere a quanto di sua competenza per completare le procedure espropriative. Poiché la lettera rimaneva priva di riscontro, con atto di intimazione ad adempiere notificato nelle date 8/12.11.2019, la sig.ra Salamone invitava A.N.A.S. ad avviare il procedimento ex art. 42 bis T.U. Espropriazioni sui beni in atto occupati e ad emettere tutti i provvedimenti conseguenti, chiedendo inoltre il risarcimento dei danni in conseguenza del perdurante inadempimento. 4. Poiché l’A.N.A.S. rimaneva inerte, con ricorso proposto avanti al Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, iscritto al numero di registro generale 2744 del 2019, la sig.ra Salamone chiedeva di accertare l’inadempimento di A.N.A.S. s.p.a. e di ordinare alla stessa di provvedere. 5. Con sentenza n. 1734/2020, emessa in data 3.8.2020, il Tribunale adito dichiarava il ricorso inammissibile, ritenuto comunque infondato perché, con le sentenze nn. 2108/1991 e 2177/1994 del Tribunale di Palermo (quest’ultima poi modificata dalla Corte di Appello con la sentenza 9/2001), passate in giudicato, il Giudice Ordinario avrebbe dichiarato l’estinzione del diritto di proprietà della sig.ra Salamone e l’acquisto della proprietà in capo all’A.N.A.S. 6. La sig.ra Salamone ricorre in appello, richiamando, in ordine alla declaratoria di inammissibilità, la decisione di questo Consiglio n. 307 del 25.5.2020, che ha riformato la sentenza n. 101/2020 del T.A.R. Sicilia, che costituisce la parte motiva della decisione impugnata. L’appellante lamenta, poi, nel merito: - che, nelle sentenze civili intervenute tra la stessa e l’ANAS, l’Autorità Giudiziaria ha fatto applicazione di orientamenti in palese contrasto con il diritto della CEDU; -il Tribunale Civile ha ritenuto “consolidato l’acquisto della proprietà a titolo originario in capo al realizzatore dell’opera” (sent. 2177/1994) e che si fosse verificata “l’estinzione del diritto di proprietà dell’attrice” (sent. 2108/1991) soltanto incidenter tantum, al fine di qualificare la condotta della P.A. come “illecita” e dichiarare il diritto della sig.ra Salamone al risarcimento del danno, in coerenza con la domanda della sig.ra Salamone; - non vi sarebbe stata alcuna pronuncia espressa sul trasferimento dell’area, la cui estensione non viene neppure indicata nella sentenza L’appellante argomenta, poi, che la sentenza della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 20.1.2020 ha escluso che si possa configurare la c.d. “rinuncia abdicativa” in capo al privato che agisce in giudizio per chiedere il risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. e ha sottolineato che l’effetto traslativo non “può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno”. Comunque, anche a ritenere che le sentenze di condanna della Amministrazione abbiano potuto trasferire la proprietà alla stessa Amministrazione pur in mancanza di un provvedimento di esproprio, va comunque considerato che l’iter amministrativo non si è concluso e che l’Amministrazione deve ultimare gli adempimenti a suo carico. Come sottolineato dall’Adunanza Plenaria, non è possibile una “trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno”; ma l’interessata, rimasta formalmente proprietaria del bene, ha interesse alla emanazione dei necessari provvedimenti di completamento dell’iter amministrativo, mediante il frazionamento e la corretta intestazione catastale dei beni, occupati dalla P.A. Tali argomentazioni vengono ribadite ed approfondite con memoria depositata il 12.1.2021. 7. L’ANAS, costituitasi in giudizio, ha presentato una memoria con la quale si oppone alle richieste dell’appellante, sostenendo la correttezza della decisione appellata, per un verso, perchè il provvedimento amministrativo eventualmente adottato ex art. 42bis d.p.r. n. 327/2001 risponde unicamente all’interesse della P.A. di evitare la restituzione, previa riduzione in pristino, del bene immobile occupato, per cui la ricorrente, a fronte dell’occupazione illegittima del proprio fondo, non vanta un interesse legittimo pretensivo. In secondo luogo, perché non sussiste più il diritto di proprietà in capo all’appellante, poiché in forza dei due giudicati del giudice civile è stata riconosciuta l’occupazione appropriativa, che ha provocato l’estinzione del diritto di proprietà. Ne discenderebbe l’inammissibilità dell’appello, per carenza di interesse della parte a conseguire una pronuncia relativa ad una sentenza dichiarativa dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere sull’istanza volta all’adozione del provvedimento di acquisizione sanante, ex art. 42 bis d.p.r. n. 327/2001, atteso che l’odierna appellante ha già conseguito il bene della vita al quale aspirava, vale a dire l’estinzione del proprio diritto di proprietà e la liquidazione di una somma per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale sofferto. A seguito del giudicato, invero, si è esaurito il potere dell’Amministrazione di acquisire un bene già dichiarato di proprietà dell’ANAS e dunque non suscettibile di esproprio, come puntualmente rilevato dalla sentenza gravata. 8 L’appellante, con memoria del 20.1.2021, replica adducendo che l’art. 42 bis non riconosce all’Amministrazione il potere insindacabile di non concludere il procedimento amministrativo, ma lascia libera l’Amministrazione di scegliere come concludere il procedimento amministrativo. Inoltre, poiché le sentenze civili non possono aver determinato l’estinzione del diritto di proprietà della sig.ra Salamone, né si può configurare la c.d. “rinuncia abdicativa” alla proprietà illecitamente occupata dalla P.A., quest’ultima resta obbligata a concludere il procedimento amministrativo per tutti gli adempimenti non ancora ultimati (compresa la regolarizzazione catastale). L’appellante precisa che il presente giudizio non ha ad oggetto la richiesta di liquidazione dell’indennizzo derivante dall’occupazione illegittima, già incassato, ma la conclusione del procedimento. 9. L’appellante ha presentato note di udienza, insistendo nella richiesta della decisione del giudizio. Nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2021, tenutasi da remoto, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 10. L’appello è fondato nei limiti e termini di cui infra. 10.1. In ordine all’ammissibilità del ricorso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2 del 2020, ha certificato l’obbligo dell’Amministrazione di rimuovere ”l’illecito permanente” e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Ha precisato il Supremo Consesso che “L’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione. La fattispecie di cui al predetto art. 42-bis è evidentemente delineata in termini di potere-dovere: non implica certo che l’Amministrazione debba necessariamente procedere all’acquisizione del bene, ma impone che essa eserciti doverosamente il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di potere-dovere, o doverosità di certe funzioni, che è nota da tempo nel tessuto del diritto amministrativo e che discende dai noti principi di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.)”. Deve trarsi la conclusione che “Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato.” Questo Consiglio ha, quindi, più volte ribadito l’obbligo della P.A. di concludere i procedimenti ex art. 42 bis Testo Unico Espropriazioni (ad esempio, decisione n. 307/2020 del 25.5.2020). In conformità ai numerosi precedenti di questo Consiglio, la decisione appellata deve quindi essere riformata in ordine alla ritualità del ricorso introduttivo. 11. Nel merito, deve escludersi, contrariamente alla prospettazione dell’appellante, che la stessa sia rimasta proprietaria dei beni in questione. 11.1. Il Tribunale di Palermo adito dall’interessata, con sentenza n. 2108/1991, accertava che nel corso della occupazione legittima del terreno era stata iniziata e completata l’esecuzione delle opere, per la realizzazione delle quali l’occupazione era stata disposta; e ciò aveva determinato la radicale ed irreversibile trasformazione dell’immobile occupato. Applicando il principio della c.d. occupazione appropriativa, il Tribunale affermava che l’avvenuta trasformazione irreversibile del fondo aveva “provocato l’estinzione del diritto di proprietà dell’attrice; ma costituendo un illecito ha fatto contemporaneamente sorgere a favore della stessa il diritto al risarcimento del danno derivante dalla perdita della titolarità del bene”. Per tale motivo, il Tribunale condannava l’ANAS a pagare alla Sig.ra Salamone il risarcimento del danno ivi quantificato. Con sentenza n. 2177/1994, relativamente all’altro stacco di terreno di cui in premesse, il Tribunale di Palermo accertava che “…il 25 aprile 1990 … deve ritenersi cessata la legittimità dell’occupazione temporanea e consolidato l’acquisto della proprietà a titolo originario in capo al realizzatore dell’opera, con nascita del diritto al risarcimento in capo alla proprietaria sacrificata”. Con sentenza n. 9/2001, la Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava l'A.N.A.S., quale ente espropriante e proprietario dell'opera, al risarcimento dei danni subiti dalla Sig.ra Salamone in solido con l'impresa costruttrice. Ciò posto, le eccezioni formulate dalla ricorrente non possono trovare accoglimento. 11.2. In primo luogo, non risponde al vero che gli immobili non siano stati compiutamente descritti nelle sentenze civili, nelle quali invero vengono riportate alcune indicazioni idonee alla identificazione dei bani e comunque si fa rinvio alle (complete) descrizioni contenute negli atti di citazione dell’interessata e nelle consulenze tecniche d’ufficio. 11.3. La circostanza che nel dispositivo delle decisioni in questione non risulti espressamente trasferita la proprietà degli immobili dipende dalla circostanza che, nella ricostruzione giurisprudenziale alla quale si uniformano dette decisioni, la perdita della proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell'opera pubblica dipendeva da un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione; la realizzazione dell'opera pubblica comportava, in tale ricostruzione, l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all’ente procedente. Sicché l’acquisizione avviene ipso iure, con il maturarsi delle circostanze richieste dalla legge e la sentenza avrebbe potuto solo accertare l’intervenuto acquisto. Ed è, di fatti, quanto avvenuto con le sentenze in questione, sebbene le stesse non riportino, nel dispositivo, l’espressa declaratoria, dato che nella motivazione contengono, comunque, chiaramente l’accertamento dell’intervenuto acquisto della proprietà in capo all’Amministrazione espropriante. Il giudicato deve quindi intendersi formato (anche) sul passaggio di proprietà, quale antecedente logico giuridico della statuizione sul risarcimento del danno, costituendo l'accertamento in fatto circa la perdita della proprietà da parte dell’attrice il punto di partenza per l’accertamento del diritto al danno risarcibile. La giurisprudenza, posto che l'interpretazione della portata del giudicato, sia esso interno od esterno, va effettuata alla stregua di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge (Cassazione civile sez. lav., 07/08/2019, n.21165), ha chiaramente affermato che il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione (Consiglio di Stato sez. III, 16/11/2018, n.6471). Ne consegue l’intervenuto giudicato sulla questione dell’assetto della proprietà, non più contestabile. La giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. IV, 13/04/2016, n.1466) ha, al riguardo, chiarito che in caso di occupazione originariamente sine titulo o divenuta tale, l'intervenuto giudicato sul verificarsi dell'accessione invertita e sull'acquisto in capo alla p.a. della proprietà del bene trasformato impedisce la riproposizione del petitum mediante una domanda diretta alla restituzione del bene. 11.4. Una volta chiarito che in ordine al trasferimento della proprietà si è formato il giudicato, si deve respingere la prospettazione dell’appellante, volta a contestare la compatibilità con il diritto eurounitario della ricostruzione seguita nelle decisioni civili intervenute tra la stessa e l’ANAS. Premesso che le decisioni in questione non sono state impugnate, sul punto, dall’interessata, che, quindi, le ha ritenute satisfattive delle proprie ragioni, è comunque decisivo rilevare che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali nazionali divenute definitive non possano più essere messe in discussione e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della I Sez. del 16.3.2006 nel procedimento C-234/04)”. Il giudicato, pertanto, rappresenta il titolo che si frappone all’interesse della ricorrente a rivendicare la proprietà del bene. 12. Tanto chiarito, residua la fondatezza dell’ultima domanda formulata dall’appellante, volta ad ottenere le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto passaggio di proprietà (e, in concreto, come efficacemente fatto presente negli scritti di parte appellante, al fine di evitare i fastidi derivanti – in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, etc etc-dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza dell’appellante) . A tale risultato l’ANAS può pervenire mediante accordo con l’interessata ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili di cui in premesse, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora, come chiesto dall’appellante, attraverso un provvedimento ex art. 42 bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, essendo stata la questione economica definita con i giudicati civili che hanno riconosciuto all’interessata il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili, esaurendo quindi la questione indennitario/risarcitoria). In detti termini, in riforma della sentenza appellata, il ricorso dev’essere accolto, dichiarando l’illegittimità del silenzio serbato sull’istanza presentata dall’interessata dall’A.N.A.S. s.p.a., alla quale viene ordinato di provvedere (nei limiti di cui sopra) sulla suddetta istanza entro il termine giorni sessanta. Con espressa riserva, in caso di persistente inerzia, di nominare un commissario ad acta per provvedere in luogo dell’amministrazione. Le spese di questo grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in complessivi euro 1.000,00, oltre accessori di legge; il contributo unificato relativo ad entrambi i gradi di giudizio viene posto a carico dell’A.N.A.S. s.p.a. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l'effetto, in riforma della sentenza di primo grado, ordina all’A.N.A.S. s.p.a. di provvedere (nei termini di cui in motivazione) sull’istanza presentata dall’appellante entro il termine di giorni sessanta. Condanna l’A.N.A.S. s.p.a. al pagamento di spese e onorari del doppio grado di giudizio, nella misura complessiva di euro mille/00 oltre accessori di legge, ponendo a suo carico il contributo unificato relativo ad entrambi i gradi di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2021 tenutasi da remoto con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Fabio Taormina, Presidente Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere Fabio Taormina, Presidente Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere IL SEGRETARIO
Espropriazione per pubblica utilità - Occupazione - Occupazione appropriativa – Esistenza per effetto di giudicato civile – Trascrizioni e cancellazioni – Possibilità.  Processo amministrativo - Giudicato – Ambito di estensione.             Il privato ha titolo ad ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile ed opponibile a terzi l’intervenuto passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti – in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant’altro - dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può pervenire mediante accordo ricognitivo dell’avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex art. 42 bis t.u. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili) (1).              Ai fini della estensione del giudicato il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione, in quanto risolvano questioni facenti parte del thema decidendi e specificamente dibattute tra le parti, ovvero integrino una necessaria premessa od un presupposto logico indefettibile della pronuncia; in tal caso è lecito invocare il principio della integrabilità del dispositivo con la motivazione della sentenza, e la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione (2).    (1) Nella ricostruzione giurisprudenziale del principio della c.d. occupazione appropriativa, la perdita della proprietà del bene irreversibilmente destinato alle esigenze dell'opera pubblica dipendeva da un comportamento illecito della Pubblica Amministrazione che comportava l'estinzione del diritto di proprietà del privato e la contestuale acquisizione, a titolo originario, della proprietà in capo all’ente procedente. Avvenendo l’acquisizione ipso iure, la sentenza (nel contenzioso promosso dal privato espropriato per il risarcimento del danno) avrebbe potuto solo accertare l’intervenuto acquisto.  Ma il giudicato doveva intendersi formato (anche) sul passaggio di proprietà, quale antecedente logico giuridico della statuizione sul risarcimento del danno.  In tal caso la portata precettiva di una pronuncia giurisdizionale va individuata non solo tenendo conto delle statuizioni formalmente contenute nel dispositivo, ma coordinando questo con la motivazione. In tali situazioni, l’intervenuto giudicato sulla questione dell’assetto della proprietà non è più contestabile e impedisce la riproposizione del petitum mediante una domanda diretta alla restituzione del bene. Ciò anche alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della I Sez. del 16 marzo 2006 nel procedimento C-234/04)”.     (2) Cons. Stato, sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471.
Espropriazione per pubblica utilità
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Fornitura dei buoni spesa per generi alimentari
N. 03469/2020 REG.PROV.CAU. N. 03015/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3015 del 2020, proposto da Repas Lunch Coupon S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gianluigi Pellegrino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Roma Capitale non costituito in giudizio; nei confronti Edenred Italia S.r.l. non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, - della Determinazione Dirigenziale di Roma Capitale, Dipartimento Politiche Sociali, Direzione Benessere e Salute, n. 940 del 02.04.2020, avente ad oggetto “Affidamento, in deroga al D.Lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii., a EDENRED ITALIA S.r.l., con decorrenza dalla data di esecutività del presente provvedimento sino al 30 giugno 2020, della fornitura dei buoni spesa quale erogazione di contributi alle persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (COVID -19). Impegno € 11.000.085,40 (IVA inclusa)”; - della OCDPC n. 658 del 29.03.2020, avente per oggetto “Ulteriori interventi urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, nella parte in cui prevede che ciascun comune è autorizzato all’acquisizione, in deroga al D.Lgs. n. 50/16, di buoni spesa utilizzabili per l’acquisto di generi alimentari presso gli esercizi commerciali contenuti nell’elenco pubblicato da ciascun comune nel proprio sito istituzionale; - di ogni altro atto connesso, consequenziale o presupposto, ancorché non conosciuto, ivi compresa per quanto occorrer possa la nota di Roma Capitale – Dipartimento Politiche Sociali, prot. n. 23073 del 10.04.2020; nonché per la declaratoria di inefficacia del contratto stipulato e del diritto della ricorrente a subentrare nell’aggiudicazione e nel contratto; e per il risarcimento di tutti i danni subiti e subendi in conseguenza dei provvedimenti impugnati; Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Premesso che la funzione del decreto cautelare non è quella di anticipare il giudizio, ma solo quella di prevenire pregiudizi irreversibili, tali che non possano essere evitati nemmeno dalla misura cautelare collegiale; Dato atto che, a questi fini, la gravità del danno va valutata con una ragionevole comparazione degli effetti che il provvedimento cautelare produce sui contrapposti interessi delle parti; Considerato che: - alla luce dei dati concreti che connotano la fattispecie del gravame depositato, la posizione legittimante della società ricorrente è descritta in fatto dall’essere lesa nella misura in cui il Comune di Roma Capitale, nell’affidare, in deroga al D.Lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii., a EDENRED ITALIA S.r.l., con decorrenza dalla data di esecutività del presente provvedimento sino al 30 giugno 2020, la fornitura dei buoni spesa quale erogazione di contributi alle persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (COVID -19), non ha correttamente valutato l’aspetto della convenienza concreta dell’offerta proposta dalla parte istante; - si possono ritenere insussistenti i presupposti dell’estrema gravità ed urgenza richiesti dall’art. 56, primo comma, del c.p.a., stante la prospettazione del periculum in mora priva di circostanze concrete tali da imporre una sospensione immediata degli effetti dei provvedimenti impugnati (i quali nell’immediato hanno, tra l’altro, un impatto sociale ed assistenziale di notevole valore in presenza dell’attuale situazione emergenziale); - tali circostanze inducono a negare la misura cautelare monocratica richiesta, rinviando l’esame collegiale della domanda cautelare alla camera di consiglio utile del 20 maggio 2020, nel cui contesto potranno essere assunte le eventuali determinazioni idonee alla definizione del giudizio nello stato in cui versa; P.Q.M. Respinge l’istanza di decreto cautelare monocratico presentata dalla società ricorrente. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 20 maggio 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 29 aprile 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Aiuti economici – Buoni spesa per generi alimentari – Fornitura – Non va sospesa.     Non va sospesa la determina di Roma Capitale che avrebbe disposto la fornitura dei buoni spesa - quale erogazione di contributi alle persone e/o famiglie in condizione di disagio economico e sociale causato dalla situazione emergenziale in atto, provocata dalla diffusione di agenti virali trasmissibili (Covid -19) - senza valutare correttamente l’aspetto della convenienza concreta dell’offerta proposta dalla parte istante, non essendo ravvisabile un danno grave e irreparabile per il ricorrente a fronte dell’impatto sociale ed assistenziale di notevole valore in presenza dell’attuale situazione emergenziale determinata dal coronavirus.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/iscrizione-degli-artigiani-al-fondo-di-solidarieta-bilaterale-alternativo-dell-artigianato-per-ottenere-il-trattamento-ordinario-di-integrazione-salar
Iscrizione degli artigiani al Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato per ottenere il trattamento ordinario di integrazione salariale
N. 04047/2020 REG.PROV.CAU. N. 03707/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3707 del 2020, proposto da Antignani Carlo S.r.l., Arte e Moda S.r.l., Autoservizi Macetti S.r.l., Massimo Bosco, C.I.E. S.r.l., Cerquetani S.a.s. di Cerquetani A. e F., C.R. Impianti Elettrici S.n.c. di Conti Claudio Randolfi Stefano, Crc S.a.s., Fernando D'Arcangelo, Dem Estetica e Chinesiologia S.r.l., Ecologia Verzilli S.r.l., Edilquattro S.r.l.S., Giuseppina Falco, Euroservizi S.r.l., Osama Fath El Bab, Frigo Flegrea S.r.l., Ignazio Garbato, Gi.Fa S.r.l.S., Ideagraph S.n.c. di Zarù Antonella, Jacopucci S.r.l., L.A.M. di Benedetti S.r.l., Francesco Lavorato, Luigi Lavorato, La Bottega di Mastro Fiore S.n.c., Adriano Lai, Alessandro Lauria, Lazzarini Serramenti S.r.l., Franco Lionetti, Maf 3 S.r.l., Mani…& S.n.c. di Milletti A. e Baldasserini V., Manoni & Salvucci S.n.c., Maturo S.r.l., Federico Mucciardi, Andrea Luca Pantuso, Parkservice S.r.l., Natale Passaro, Vincenzo Pino, Nicolò Puma, Punto Ceramico S.n.c. di Profili Mauro e Vaselli Alessandro, Rinaldi Maria Teresa e Anna Rita S.n.c., Salvatore Sammartino, Telligraf S.r.l., Paolo Tinghino, Giuseppe Tribunella, Giorgio Zeppilli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Simona Fell, Francesco Leone, Nicolò Vella, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Francesco Leone in Roma, Lungotevere Marzio, n. 3; contro Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell'Artigianato (Fsba), Ente Bilaterale Alternativo Artigianato (Ebna), Ente Bilaterale Regionale Artigianato Piemonte (Ebap), Ente Lombardo Bilaterale dell'Artigianato (Elba), Ente Bilaterale Artigianato Veneto (Ebav), Ente Bilaterale del Lazio per L'Artigianato (Eblart), Ente Bilaterale Artigianato Campania (Ebac), Ente Bilaterale Artigianato Sardo (Ebas), Ente Bilaterale Artigianato Calabria (Ebac), Ente Bilaterale Regionale Artigianato Sicilia (Ebas) non costituiti in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, PER L’ANNULLAMENTO PREVIA CONCESSIONE DEI PROVVEDIMENTI CAUTELARI MONOCRATICI EX ART. 56 C.P.A. E COLLEGIALI EX ART. 55 C.P.A. - della delibera di urgenza adottata dal Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato in data 2.3.2020, prot. n. 1/2020 (cfr. all. 1 del presente ricorso); - delle modalità operative adottate dal Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato in aderenza all’Accordo Interconfederale del 26.2.2020 e della delibera di urgenza adottata il 2.3.2020 (cfr. all. 2 del presente ricorso); - della delibera del Consiglio Direttivo del Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato prot. n. 3/2020 (cfr. all. 3 del presente ricorso); - per quanto di ragione anche dell’accordo interconfederale del 26 febbraio 2020 adottato da Confartigianato Imprese, CNA, CASARTIGIANI e CLAI (cfr. all. 4 del presente ricorso); - di ogni altro atto presupposto e/o consequenziale anche potenzialmente lesivo degli interessi dell’odierna parte ricorrente; E PER L’ADOZIONE DI MISURA CAUTELARE MONOCRATICA EX ART. 56 C.P.A. volta a sospendere provvisoriamente gli effetti dei provvedimenti impugnati e consentire agli odierni ricorrenti di presentare la domanda di concessione dell’assegno ordinario di integrazione salariale, senza la preventiva iscrizione al fondo e la conseguente assunzione di vincoli contributivi nei confronti dello stesso. Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dai ricorrenti, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm., con cui gli si consenta di presentare la domanda di concessione dell’assegno ordinario di integrazione salariale, senza la preventiva iscrizione ai Fondi in epigrafe; rilevata la sussistenza del pregiudizio legittimante l’adozione del decreto monocratico ex art.56 cpa, attesa la scadenza per la presentazione della domanda fissata al 31 maggio p.v. P.Q.M. accoglie l'istanza e per l’effetto ordina all’Ente Nazionale Bilaterale dell’Artigianato e il Fondo di Solidarietà Bilaterale dell’Artigianato di consentire agli odierni ricorrenti la presentazione della domanda di concessione dell’assegno ordinario di integrazione salariale. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 9 giugno 2020 Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 25 maggio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Aiuti economici – Artigiani - Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato – Trattamento ordinario di integrazione salariale – Concessione – Previa iscrizione al Fondo - Va sospesa monocraticamente.       Deve essere sospesa la delibera di urgenza adottata dal Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato il 2 marzo 2020 nella parte in cui prevede, per la concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale agli artigiani nel periodo emergenziale Covid-19, la preventiva iscrizione al Fondo e la conseguente assunzione di vincoli contributivi nei confronti dello stesso (1).   (1) Giova ricordare che il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ha previsto, quale misura emergenziale, che tutti i datori di lavoro che nell’anno 2020 hanno sospeso o ridotto la propria attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno la possibilità di presentare una domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale o di accesso all'assegno ordinario con causale "emergenza COVID-19". Nel settore dell’artigianato, per agevolare e rendere più celere la concessione delle misure di sostegno, la gestione delle relative domande è stata affidata al Fondo di Solidarietà Bilaterale Alternativo dell’Artigianato (FSBA).
Covid-19
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Indennità di trasferimento al personale delle Forze armate e militare
N. 06588/2019REG.PROV.COLL. N. 01837/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1837 del 2019, proposto dal Ministero della Difesa, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro i signori Luigi Affinito, Giovanni Alaadik, Alfonso Amoruso, Antonio Andolfo, Giovanni Vitucci, Francesco Baldassarre, Angelo Bacchetta, Mariano Boemio, Marco Bonanni, Ciro Bonfiglio, Pasquale Buonino, Vincenzo Capaldo, Sebastiano Capone, Gaetano Carta, William Castellano, Michele Cesarino, Patrizio Chianese, Franco Cirillo, Giuseppe Cirillo, Pasquale Cocozza, Antonio Colombo, Giovanni Compagnone, Rosario Cozzolino, Giuseppe D'Alesio, Giovanni D'Angelo, Gennaro Dell'Omo, Arturo Delogu, Ciro De Marino, Francesco De Siato, Roberto Della Luce, Angelo Di Sano, Domenico Esposito, Francesco Esposito, Guglielmo Esposito, Rosario Faccetta, Giovanni Fusco, Sossio Gargiulo, Gerardo Giuliano, Antonio Goriani, Gaetano Guida, Francesco Iannucci, Angelo Imperato, Salvatore Iodice, Mario Libutti, Domenico Maccariello, Antonio Maltempo, Pasquale Manzo, Fabio Marchisano, Mario Marino, Leonardo Minaudo, Antonio Montagna, Lorenzo Morganella, Lorenzo Napolano, Alfredo Pagano, Antonio Pagano, Giuseppe Pagano, Francesco Palmini, Giuseppe Perino, Francesci Pezzella, Giuseppe Pinto, Nicola Pinto, Roberto Pirozzi, Paolo Pisaniello, Pasquale Pitocchelli, Vincenzo Placanica, Ciro Primo, Giuseppe Rainone, Michele Rivezzi, Ruggero Ruggiero, Carlo Russo, Ferdinando Russo, Giovanni Russo, Salvatore Russo, Antonio Sagliocco, Angelo Salzillo, Ernesto Scalera, Cornelio Scialdone, Antonio Sederino, Francesco Sibillo, Francesco Silvestre, Ciro Sorrentino, Antonio Spaccaforno, Emilio Spanò, Giovanni Specchio, Antonino Spezzano, Giuseppe Stellato, Antonio Tessitore, Antonio Valerio, Giuseppe Vecchio e Salvatore Villano, rappresentati e difesi dall’avvocato Laura Lieggi, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del T.a.r. per la Campania, Sede di Napoli, Sezione Settima, n. 7117 del 12 dicembre 2018. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio degli appellati come in epigrafe indicati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 luglio 2019 il Cons. Roberto Caponigro e uditi per le parti l'avvocato dello Stato Anna Collabolletta e l’avvocato Laura Lieggi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il T.a.r. per la Campania, Sede di Napoli, Sezione Settima, con sentenza 12 dicembre 2018, n. 7117, ha accolto il ricorso proposto dagli odierni militari appellati e, per l’effetto, ha accertato il diritto degli stessi all’indennità prevista dall’art. 1 della l. n. 86 del 2001 per il personale trasferito d’autorità. Il Ministero della Difesa, nel proporre il presente appello, ha esposto che le controparti - militari appartenenti alle categorie di Ufficiali, Sottufficiali e Graduati dell’Arma dei Carabinieri, dell’Esercito Italiano, della Marina Militare e dell’Aeronautica Militare - a seguito di provvedimenti di riorganizzazione/ridislocazione della base Nato con sede in Bagnoli, Comune di Napoli, sono stati movimentati presso la neo costituita base Nato di Lago Patria, Comune di Giugliano in Campania (Provincia di Napoli). L’Amministrazione ha soggiunto che, nell’ambito di tale procedimento di soppressione, parte del personale ha presentato istanza di trasferimento al fine di individuare la sede di reimpiego più congeniale rispetto alle proprie aspettative e che, in accoglimento delle indicazioni formulate dagli interessati, è stato disposto il movimento “a domanda”. Il Ministero, avverso la sentenza impugnata, ha proposto le seguenti doglianze: - dal confronto della norma ante e post innovazione apportata dal comma 1-bis dell’art. 1 della legge n. 86 del 2001, si evincerebbe che non vi è alcun automatismo tra la soppressione o dislocazione del reparto e l’erogazione dell’indennità; - la giurisprudenza qualificherebbe le tipologie di movimenti avendo riguardo all’interesse che, in via prioritaria, viene soddisfatto con il trasferimento, per cui, se tale interesse è attribuito all’Amministrazione, il trasferimento è qualificato “d’autorità”, se l’interesse prioritario è attribuito al militare, il trasferimento è qualificato “a domanda” ed a tal fine sarebbe determinante la presenza di un’istanza o di una dichiarazione di gradimento; - i militari che, nel caso di specie, sono stati attinti dal movimento sarebbero stati resi edotti della circostanza che si sarebbe trattato di trasferimento a domanda, atteso che l’Amministrazione si sarebbe autolimitata, dando prevalenza alla domanda del militare e destinandolo al Reparto desiderato, essendo altrimenti libera di destinarlo ad una sede più lontana e più scomoda; - il giudice di primo grado non motiverebbe in ordine alla realtà che individua alcuni Comuni come facenti parte della Città Metropolitana di Napoli, svilendo l’elemento della zona limitrofa o confinante come individuata dal legislatore nella modifica normativa; - nello specifico, non si sarebbe trattato della soppressione di un Reparto, ma della ridislocazione di un Reparto in ambito territoriale; - gli interessati non avrebbero dato prova di un effettivo trasferimento di abitazione, mobili e masserizie, mentre la normativa sarebbe finalizzata a ristorare il disagio solo nell’ipotesi di un cambio di alloggio. Gli appellati hanno eccepito l’inammissibilità del gravame, perché l’appellante non avrebbe argomentato specifiche censure avverso la sentenza impugnata e per il divieto dei nova in appello ex art. 104 c.p.a.; nel merito, hanno contestato la fondatezza delle doglianze proposte ed hanno concluso per il rigetto del gravame. Le parti hanno depositato altre memorie. All’udienza pubblica del 4 luglio 2019, la causa è stata trattenuta per la decisione. 2. Le eccezioni di inammissibilità formulate dagli appellati sono infondate, sia perché dal testo del ricorso in appello possono evincersi le doglianze che il Ministero ha articolato contro la sentenza di primo grado, sia perché, per il costante orientamento della giurisprudenza, dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, “il divieto di proporre motivi nuovi in appello non è applicabile anche all' amministrazione resistente in primo grado, la quale può impugnare la decisione del primo giudice per tutti i motivi che reputi idonei a rinnovarla.” (cfr. Cons. Stato, IV, 1° marzo 2017, n. 942). 3. Nel merito, l’appello è infondato e va di conseguenza respinto. In proposito, va rilevato quanto segue: - i trasferimenti in discorso, pur in presenza di una manifestazione di gradimento o di un’istanza formulato dagli interessati, devono qualificarsi “d’autorità”, atteso che, in caso di soppressione o di diversa dislocazione del Reparto, il militare deve necessariamente abbandonare la precedente sede di servizio; - la ragione del trasferimento, in altri termini, è individuabile nella soppressione o nella diversa dislocazione del Reparto e non nella manifestazione di gradimento presentata dal militare; - l’indennità di trasferimento, in presenza di tutti gli altri presupposti di legge, spetta anche al militare che abbia espresso il gradimento circa la nuova sede di servizio, in quanto privo di alternativa, non esistendo più la pregressa sede di servizio, ed astretto al dovere di obbedienza (cfr. Adunanza Plenaria, Cons. Stato, n. 1 del 2016); - una manifestazione di gradimento renderebbe irretrattabile l’individuazione della sede prescelta, rende inammissibili, per carenza di interesse, le eventuali azioni giudiziarie intraprese dal militare che subisce il trasferimento, ma non incide sul diritto di credito a percepire l’indennità che scaturisce direttamente dalla legge quando vi sono i relativi presupposti; - gli elementi costitutivi del diritto di credito alla percezione dell’indennità di trasferimento ex art. 1 della l. n. 86 del 2001, nel caso di specie, sussistono, in quanto, oltre al trasferimento d’ufficio, la nuova sede è ubicata in un Comune diverso (Giugliano in Campania rispetto a Napoli) ad una distanza, sia pure di poco, superiore ai 10 km; - alla fattispecie si applica la normativa previgente all’entrata in vigore del comma 1-bis dell’art. 1 della legge n. 86 del 2001, introdotto a far tempo dal 1° gennaio 2013 dall’art. 1, comma 163, della legge n. 228 del 2012, in quanto, per giurisprudenza costante, la disposizione de qua non ha natura di interpretazione autentica e, inoltre, costituisce un dato dirimente che il Comando Nato di Bagnoli è stato soppresso in data 3 dicembre 2012 (Cfr. Cons. Stato, IV, 1° marzo 2017, n. 942); - ad ogni buon conto, anche ove volesse ritenersi applicabile alla fattispecie il comma 1-bis dell’art. 1 della legge n. 86 del 2001, sussisterebbe comunque il diritto all’indennità di trasferimento in quanto i Comuni di Napoli (ove insiste il territorio di Bagnoli, ove era dislocata la Base) e di Giugliano in Campania (ove insiste il territorio di Lago Patria, ove è stata dislocata la Base), oltre a distare poco più di 10 chilometri, non sono confinanti, ma sono Comuni c.d. di seconda corona, mentre la locuzione “sede di servizio limitrofa” di cui al richiamato comma 1.bis deve essere intesa nel senso di Comuni confinanti (cfr. Cons. Stato, IV, 17 luglio 2018, n. 4352); - l’indennità di trasferimento è dovuta sia in caso di soppressione che di dislocazione del reparto; - la coesistenza dei presupposti di legge per l’attribuzione del beneficio rende ininfluente l’accertamento del trasferimento o meno dell’abitazione, dei mobili e delle masserizie nel Comune in cui il militare è tenuto ad espletare l’attività di servizio. 4. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto. La peculiarità della fattispecie induce a disporre la compensazione delle spese del giudizio di appello tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe (R.G. n. 1837 del 2019). Compensa tra le parti le spese del giudizio di appello. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 4 luglio 2019, con l'intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Giuseppe Castiglia, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Giuseppa Carluccio, Consigliere Luigi Maruotti, Presidente Giuseppe Castiglia, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Giuseppa Carluccio, Consigliere IL SEGRETARIO
Militare, forze armate e di polizia – Trattamento economico – Indennità di trasferimento - Quando spetta.    La natura autoritativa del movimento che dà diritto all’erogazione  dell’indennità ex l. n. 86 del 2001 non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, ha invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (1).   (1) Ha premesso la Sezione premette, in linea generale, che l’indennità ex lege n. 86 del 2001 compete, fra gli altri, al personale in s.p.e. delle Forze Armate, delle Forze di polizia ad ordinamento militare e civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco trasferito “d’autorità” ad altra sede di servizio sita in un Comune diverso da quello di provenienza. Per movimento d’autorità deve intendersi quello disposto per perseguire, in via prioritaria, interessi dell’Amministrazione, non per soddisfare esigenze personali e familiari dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588). La giurisprudenza, peraltro, ha precisato che la natura autoritativa del movimento (e la conseguente spettanza dell’indennità) non viene meno allorché l’Amministrazione, in vista di una programmata rimodulazione riduttiva della propria organizzazione territoriale, abbia invitato il militare ad esprimere il proprio gradimento per un’altra sede (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1). In tal caso, infatti, “assume un valore decisivo la circostanza che il mutamento di sede origina da una scelta esclusiva dell’amministrazione militare che, per la miglior cura dell’interesse pubblico, decide di sopprimere un reparto (o una sua articolazione) obbligando inderogabilmente i militari di stanza a trasferirsi presso la nuova sede, ubicata in un altro luogo, onde prestare il proprio servizio” (così la citata Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 2016, n. 1). 4.4. Ove, tuttavia, la soppressione (o ridislocazione) del reparto di provenienza sia stata disposta in data successiva al 1 gennaio 2013 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 1 marzo 2017, n. 942), l’indennità non compete, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 86 del 2001, allorché il personale sia stato trasferito presso una sede ubicata in un Comune limitrofo, anche se distante oltre dieci chilometri da quello di provenienza (Cons. Stato, sez. IV, 17 luglio 2018, n. 4355). In tali specifici casi, in sostanza, l’indennità compete solo in caso di trasferimento d’autorità presso enti ubicati in Comuni non confinanti con quello ove è allocata la sede originaria e, comunque, distanti fra loro (prendendo a riferimento le rispettive case comunali) oltre dieci chilometri. Il diritto alla percezione dell’indennità – aggiunge per completezza il Collegio – è rinunciabile (Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 2019, n. 8332), si prescrive in cinque anni (Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2019, n. 1470) e prescinde dall’effettivo trasferimento fisico della residenza da parte dell’interessato (Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2019, n. 6588).
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/tre-importanti-puntualizzazioni-su-questioni-processuali-procedimento-cautelare-nel-rito-appalti-ne-bis-in-idem-interesse-a-ricorrere-dell-impresa-esc
Tre importanti puntualizzazioni su questioni processuali: procedimento cautelare nel rito appalti, ne bis in idem, interesse a ricorrere dell’impresa esclusa
N. 05966/2022REG.PROV.COLL. N. 02986/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2986 del 2022, proposto da Polygon S.p.A. (già Tecnologie Sanitarie S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Valentino Vulpetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Sabotino n. 2/A; contro Regione Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Angela Marafioti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Stefano Gori in Roma, via Pietro della Valle 4; nei confronti H.C. Hospital Consulting S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Bivona, Marianna Capizzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ge Medical Systems Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Lirosi, Cinzia Guglielmello, Ilaria Giulia Monorchio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. 4/2022, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Calabria e di H.C. Hospital Consulting S.p.A. e di Ge Medical Systems Italia S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 giugno 2022 il Cons. Giovanni Tulumello e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza n. 4/2022 il T.A.R. della Calabria, sede di Catanzaro, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’odierna appellante per l’annullamento del decreto del Dirigente generale della Stazione Unica Appaltante della Regione Calabria del 19 ottobre 2021, n. 10559, con cui, in seguito all’esclusione della ricorrente e dell’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione alla stessa dei lotti 1 e 2 del servizio integrato di manutenzione e gestione delle apparecchiature elettromedicali delle aziende sanitarie ed ospedaliere della Regione Calabria, ha disposto l’aggiudicazione dei due lotti 1 e 2 in favore del RTI HC. Polygon s.p.a. ha impugnato con ricorso in appello l’indicata sentenza. Si sono costituiti in giudizio, per resistere, la Regione Calabria e le controinteressate GE medical System Italia s.p.a. e H.C. Hospital Consulting s.p.a. Con decreto n. 553/2022 è stata respinta l’istanza di superamento dei limiti dimensionali. Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 30 giugno 2022. 2. L’odierna appellante è stata esclusa dalla gara de qua con provvedimento impugnato davanti al T.A.R. Calabria, che ha respinto il ricorso con sentenza n. 1910/2020, confermata dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n. 5659/2021 (impugnata sia con ricorso per revocazione – dichiarato nelle more inammissibile con sentenza di questa Sezione n. 3977/2022, sia con ricorso per cassazione). Proseguito il procedimento a seguito di tale esclusione, ed aggiudicata la gara al raggruppamento controinteressato, Polygon ha quindi impugnato l’aggiudicazione deducendo sia vizi derivati dai vizi dell’impugnata esclusione, sia vizi autonomi. Il T.A.R. ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando per un verso che “questo Tribunale Amministrativo Regionale si è già pronunciato, con sentenza confermata in sede d’appello, sulla legittimità del provvedimento di esclusione di Polygon S.p.a. dalla gara, sicché, alla luce del divieto di bis in idem, non è possibile in questa sede ritenere che i provvedimenti a valle siano illegittimi quale conseguenza di quei vizi la cui sussistenza è stata esclusa con la già citata sentenza del 25 novembre 2020, n. 1910”; e, per altro verso, che “l’impugnativa, per vizi propri, del decreto di aggiudicazione rimane privo di interesse, non potendone Polygon S.p.a., legittimamente esclusa dalla gara, ricavare, dal suo eventuale annullamento, alcun vantaggio”. 3. Il primo motivo di appello deduce “Error in procedendo. violazione e falsa applicazione dell’art. 60 e dell’art. 120, comma 6, c.p.a.”: il mezzo lamenta che il T.A.R. abbia trattenuto in decisione il ricorso di primo grado nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’incidente cautelare, rigettando la richiesta di rinvio e senza consentire pienamente alla ricorrente di esplicare le proprie difese. La censura è infondata. 3.1. Dal fascicolo digitale del giudizio di primo grado risulta: - che in data 10 dicembre 2021 la società ricorrente aveva depositato un’istanza di rinvio al merito motivata in relazione all’intenzione di proporre ricorso ex art. 112 cod. proc. amm. per l’esecuzione della sentenza n. 349/2021, e che tale giudizio, quando proposto, avrebbe presentato ragioni di connessione con quello di cui si discute, avente ad oggetto l’impugnazione della nuova aggiudicazione; - che alla camera di consiglio del 14 dicembre 2021, fissata per l’esame dell’incidente cautelare, era “presente l' Avv. Talarico, in dichiarata delega dell' Avv. Marafioti A. per la Regione Calabria. Nessuno presente per la società ricorrente e per le altre part costituite. Il Collegio rileva possibile profilo di inammissibilità e preannuncia che potrebbe essere emessa sentenza breve. Dopo una breve discussione, e su istanza di parte, la causa passa in decisione”. 3.2. La sentenza gravata ha in proposito ritenuto che “non sussistano i requisiti di cui all’art. 120, comma 6 c.p.a. per disporre il rinvio della trattazione del ricorso, richiesta da parte ricorrente; al contrario, deve essere pronunciata sentenza secondo il combinato disposto del medesimo comma e dell’art. 60 c.p.a.”. 3.3. L’art. 120, comma 6, prima parte, del codice del processo amministrativo, di cui l’appellante deduce la violazione, nel testo attualmente vigente, stabilisce che “Il giudizio, qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”. 3.4. La richiamata disposizione prevede dunque che, in materia di giudizi aventi ad oggetto procedure di evidenza pubblica, il giudizio è di norma definito alla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare (ove proposta). In ogni caso rimette al Collegio la valutazione della sussistenza o meno di elementi impeditivi, tipizzati dalla stessa disposizione: nel qual caso la decisione sul merito, comunque da rendere in forma semplificata, viene rinviata ad una udienza prossima. Tale disciplina rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali indicati dalla stessa disposizione, il percorso processuale che esaurisce il giudizio nell’unica udienza camerale fissate per l’esame della domanda cautelare. In ogni caso la disposizione manifestamente esclude la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, avente ad oggetto la calendarizzazione della decisione: dopo la proposizione della domanda cautelare, di cui la parte accetta evidentemente le conseguenze disciplinari sul piano processuale, la norma impone la decisione immediata, salvo eccezioni (la cui valutazione è comunque di competenza esclusiva del collegio). Tale disciplina è del resto oltremodo ragionevole, dal momento che si fonda sulla necessità, in ragione della natura degl’interessi implicati, di una sollecita decisione di merito, onde consentire il sindacato giurisdizionale senza rallentare eccessivamente le procedure di evidenza pubblica Poiché tale regime implica, inevitabilmente, la compressione di spazi processuali in danno di altre materie, parimenti afferenti la complessiva domanda di giustizia, la disposizione in esame coerentemente ricollega alla proposizione della domanda cautelare un effetto processuale non più negoziabile (salvo il ricorrere dei fatti impeditivi tipizzati). È appena il caso di rilevare che la giurisprudenza citata dall’appellante a sostegno della tesi della rinunciabilità della domanda cautelare è del tutto inconferente, sia perché riferita agli artt. 60 e 71 cod. proc. amm. (laddove qui viene in considerazione lo specifico regime in materia di appalti); sia perché, in ogni caso, di molto antecedente la riforma del citato art. 120, comma 6, recata dall’art. dall'art. 4, comma 4, lett. a), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla l. 11 settembre 2020, n. 120. 3.5. Nel caso di specie, peraltro, l’istanza di rinvio in primo grado è stata motivata in relazione ad un evento incertus an et quando (vale a dire in relazione ad un ricorso ipoteticamente connesso a quella data neppure notificato); inoltre la parte ricorrente non ha ritenuto (peraltro del tutto legittimamente) di partecipare all’udienza camerale in questione, nella quale la controparte ha chiesto il passaggio in decisione (risulta infatti dal riferito verbale che la parte resistente, in maniera altrettanto legittima, era presente ed ha chiesto che la causa fosse decisa). 3.6. Né dal richiamato verbale, prodotto dalla parte appellante, né da altra documentazione, risulta peraltro l’impedimento (legittimo) del procuratore della parte ricorrente che avrebbe consentito alla stessa a domandare un rinvio dell’udienza per cause comunque diverse da quelle di cui all’istanza di rinvio di cui si è detto: dunque nemmeno sotto questo profilo il Tribunale di primo grado si è reso responsabile della violazione contestata, da momento che di tale impedimento non aveva potuto avere contezza. 3.7. L’appellante sostiene poi, in relazione all’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla controparte, che “Su tale eccezione, formulata con memoria del 10.12.2021, l’odierna appellante non è stata messa in condizione di replicare posto che il TAR ha deciso la causa con sentenza breve, senza neanche sentire in Camera di Consiglio il difensore dell’odierna appellante né consentire repliche in merito”. In argomento è sufficiente osservare che la parte ricorrente avrebbe potuto replicare nell’udienza camerale: la scelta di non partecipare alla stessa, per quanto legittima, non può evidentemente determinare la conseguenza di impedire al Collegio di decidere, tanto più in assenza di un legittimo impedimento documentato. La parte appellante pretende che l’inciso dell’art. 120, comma 6, cod. proc. amm. che prevede la decisione immediata “compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa” debba intendersi nel senso che l’assenza di difese (scritte od orali) della parte ricorrente sulle eccezioni della parte resistente impone un rinvio della trattazione: il che è palesemente contrario, per quanto già argomentato, sia alla lettera che allo spirito della disposizione (tale risultato è anzi proprio ciò che il legislatore ha inteso evitare). 4. Il secondo motivo di appello deduce “Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione del principio del ne bis in idem. Violazione dell’art. 35, comma 1, lett. “b”, c.p.a.”. Il mezzo contesta l’applicazione del principio del ne bis in idem ad una fattispecie in cui non si era formato il giudicato – in ragione delle impugnazioni proposte - sulla precedente pronuncia di rigetto del ricorso proposto avverso l’esclusione dalla gara. 4.1. Il T.A.R. ha in proposito ritenuto che “questo Tribunale Amministrativo Regionale si è già pronunciato, con sentenza confermata in sede d’appello, sulla legittimità del provvedimento di esclusione di Polygon S.p.a. dalla gara, sicché, alla luce del divieto di bis in idem, non è possibile in questa sede ritenere che i provvedimenti a valle siano illegittimi quale conseguenza di quei vizi la cui sussistenza è stata esclusa con la già citata sentenza del 25 novembre 2020, n. 1910; infatti, costituisce ius receptum in relazione al processo amministrativo (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 10 maggio 2021, n.3618; Cons. Stato, Sez. IV, 23 giugno 2015, n. 3158), che ai sensi degli artt. 2929 c.c. e 324 c.p.c., applicabili anche al processo amministrativo, la regola del ne bis in idem presuppone l'identità nei due giudizi delle parti in causa e degli elementi identificativi dell'azione proposta, e quindi che in quei giudizi sia chiesto l'annullamento degli stessi provvedimenti, o di provvedimenti diversi ma legati da uno stretto vincolo di consequenzialità in quanto inerenti ad un medesimo rapporto, sulla base di identici motivi di impugnazione. (….) di conseguenza, l’impugnativa, per vizi propri, del decreto di aggiudicazione rimane privo di interesse, non potendone Polygon S.p.a., legittimamente esclusa dalla gara, ricavare, dal suo eventuale annullamento, alcun vantaggio”. 4.2. L’appellante deduce in contrario che “Alla data dell’udienza del 14.12.2021, allorquando la causa è stata inopinatamente trattenuta in decisione, non si era formato alcun giudicato in merito all’esclusione dell’odierna appellante, posto che in data 30.11.2021 era stato notificato sia ricorso per revocazione sia ricorso per cassazione, poi rispettivamente depositati il 7.12.2021 e il 13.12.2021. Il 14.12.2021 pendevano dunque ben due impugnative avverso la sentenza Cons. Stato n. 5659/2021, il che esclude che l’esclusione della odierna ricorrente poteva (e può) considerarsi coperta da giudicato”. L’appellante contesta altresì la sentenza del T.A.R. anche nella parte in cui questa afferma che il concorrente escluso dalla gara non avrebbe interesse ad impugnare l’aggiudicazione ad altro concorrente, deducendo ancora una volta la non definitività dell’esclusione recata dal giudicato in corso di formazione a quella data. 4.3. La censura è infondata. Per costante e pacifica giurisprudenza il principio del ne bis in idem, comportante la preclusione da giudicato esterno, mira ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in quanto “corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (essendo tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive) (cfr. Cass. S.U. n. 13916/2006)” (Corte di Cassazione, sez. VI civile, ordinanza n. 16589/2021; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5422/2018). Ne consegue che la preclusione, come correttamente affermato dal primo giudice, opera anche nel senso di evitare la possibile formazione di giudicati contrastanti. 4.4. In ogni caso va precisato che ciò che caratterizza la fattispecie dedotta è il rilievo che la sentenza pronunciata in grado di appello da questo Consiglio di Stato, che ha statuito in merito alla legittimità della esclusione di Polygon dalla gara, ancorchè gravata da revocazione (poi dichiarata inammissibile) e da ricorso per cassazione, è tuttavia pienamente efficace, sicchè in atto l’odierna appellante si trova a contestare l’aggiudicazione di una gara rispetto alla quale essa è stata esclusa, con provvedimento la cui legittimità è stata accertata da una sentenza i cui effetti impediscono di configurare un interesse al sindacato della successiva aggiudicazione. Dal che la correttezza della valutazione del primo giudice in merito (e ciò anche al di là del rilievo che nelle more il ricorso per revocazione è stato dichiarato inammissibile). 5. Il carattere assorbente del rigetto dei primi due motivi d’appello esime il Collegio dallo scrutinio dei motivi del ricorso di primo grado, riproposti dall’appellante ai sensi dell’art. 101, comma 2, cod. proc. amm., nonché di ogni altra questione in rito e nel merito. Quanto alla richiesta di sospensione, o di rinvio della trattazione, del presente giudizio, in attesa della decisione della Corte di Cassazione, ritiene il Collegio che la stessa non possa essere accolta, dal momento che la decisione relativa alla pretesa della parte appellante, rispetto alle censure avanzate, prescinde – per le ragioni che si sono illustrate – dall’esito di tale giudizio (anche per quanto indicato dalla sentenza di questo Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4911/2020, che il Collegio condivide, la quale ha posto in evidenza che in simile fattispecie non si pone un problema di conflitto fra giudicati, “dal momento che, ai sensi dell'art. 336 comma 2 c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza resa sulle questioni logicamente precedenti determina l’automatica caducazione della sentenza resa sulle questioni logicamente successive”). 6. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la regola della soccombenza. 6.1. Il Collegio ritiene che non sussistano i presupposti per l’oscuramento richiesto dall’odierna appellante ai sensi dell’art. 52 del d. lgs. n. 196 del 2003, non avendo essa addotto alcun argomento od elemento che suffraghi detta istanza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro cinquemila, oltre accessori come per legge, in favore di ciascuna parte appellata costituita. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 giugno 2022 con l'intervento dei magistrati: Massimiliano Noccelli, Presidente FF Raffaello Sestini, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Antonio Massimo Marra, Consigliere Antonella De Miro, Consigliere Massimiliano Noccelli, Presidente FF Raffaello Sestini, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Antonio Massimo Marra, Consigliere Antonella De Miro, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – rito appalti – Domanda cautelare – Istanza di rinvio – Conseguenze – Disciplina Processo amministrativo – Inammissibilità – Giudicato esterno - Preclusione - Principio del ne bis in idem – Funzione – Fattispecie Processo amministrativo – rito appalti – Interesse a ricorrere - Aggiudicazione – Impresa esclusa – Non sussiste - Fattispecie     Nel rito speciale accelerato in materia di appalti, la disciplina posta dall’art. 120, comma 6, cod. proc. amm. (come novellata dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120) rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali tipizzati dalla stessa disposizione (e la cui valutazione è rimessa al collegio giudicante), l’iter processuale che esaurisce il giudizio nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare, escludendosi di conseguenza la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione mediante richiesta di rinvio al merito. (1) Il principio del ne bis in idem comporta una preclusione da giudicato esterno, funzionale ad evitare la formazione di giudicati in potenziale conflitto fra di loro: tale preclusione opera ancorché la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla medesima questione non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata. (2) Allorché venga impugnato un provvedimento di esclusione di un’impresa dalla partecipazione ad una gara pubblica, e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso tale sentenza, non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3).     Con la decisione in rassegna, il Consiglio di Stato affronta tre importanti questioni processuali. La prima questione riguarda l’esegesi dell’art. 120, comma 6, prima parte, cod. proc. amm., (come novellato dall'art. 4, comma 4, lett. a), decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120), nella parte in cui si prevede che “Il giudizio, qualora le parti richiedano congiuntamente di limitare la decisione all'esame di un'unica questione, nonché in ogni altro caso compatibilmente con le esigenze di difesa di tutte le parti in relazione alla complessità della causa, è di norma definito, anche in deroga al comma 1, primo periodo dell'articolo 74, in esito all'udienza cautelare ai sensi dell'articolo 60, ove ne ricorrano i presupposti, e, in mancanza, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente”. Il Consiglio di Stato interpreta detta disposizione nel senso che, nelle controversie aventi ad oggetto procedure di evidenza pubblica, il giudizio è di norma definito alla camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ove proposta. In ogni caso, la norma rimette al giudice la valutazione della sussistenza, o meno, di elementi impeditivi, tipizzati dalla stessa disposizione: nel qual caso la decisione sul merito, comunque da rendere in forma semplificata, viene rinviata ad una udienza prossima. Tale disciplina rende tendenzialmente obbligato, salvo eventi eccezionali indicati dalla stessa disposizione, l’iter processuale che esaurisce il giudizio, nell’unica udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare. In ogni caso, la disposizione è sufficientemente chiara nel senso di escludere la sussistenza di un diritto potestativo di natura processuale della parte ricorrente, volto alla calendarizzazione della decisione: dopo la proposizione della domanda cautelare, di cui la parte processuale accetta le inevitabili conseguenze che ne derivano sul piano processuale, la norma impone la decisione immediata, salvo le eccezioni tipizzate previste, la cui valutazione è comunque rimessa al giudice). Il Consiglio di Stato osserva anche che la ridetta disciplina è ragionevole e si fonda sulla necessità di una sollecita decisione di merito, onde consentire il sindacato giurisdizionale senza rallentare eccessivamente le procedure di evidenza pubblica. Poiché tale regime implica, inevitabilmente, la compressione di spazi processuali in danno di altre materie, parimenti afferenti alla complessiva domanda di giustizia, la disposizione in esame coerentemente ricollega alla proposizione della domanda cautelare, un effetto processuale non più negoziabile, salvo il ricorrere dei fatti impeditivi tipizzati. La seconda questione processuale concerne l’applicazione del principio del ne bis in idem: nel ribadire il consolidato indirizzo esegetico della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, secondo cui l’applicazione del principio è funzionale ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, in quanto “corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione (essendo tale garanzia di stabilità, collegata all'attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive) (cfr. Cass. S.U. n. 13916/2006)” (Corte di Cassazione, sez. VI civile, ordinanza n. 16589/2021; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 5422/2018), il Consiglio di Stato precisa che la ridetta preclusione opera anche quando la prima sentenza che sia stata pronunciata sulla questione, non sia ancora passata in autorità di cosa giudicata. La terza questione processuale riguarda l’accertamento della sussistenza, o meno, dell’interesse di un’impresa esclusa dalla partecipazione alla gara, a ricorrere avverso la nuova aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. Secondo il Consiglio di Stato, allorché venga impugnato il provvedimento di esclusione e tale impugnativa venga respinta sia in primo grado, sia in grado di appello, la proposizione del ricorso per revocazione e del ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che ha definitivamente accertato l’esclusione dell’impresa, qualora non sospesa nella sua efficacia esecutiva, non fa sorgere in capo alla impresa esclusa dalla gara l’interesse ad impugnare l’aggiudicazione successivamente intervenuta in favore di altra impresa. (3).
Processo amministrativo
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Alla Corte costituzionale l’art. 15 c.p.a. nella parte in cui preclude la pronuncia sulla eccezione di parte del difetto di competenza territoriale nel merito, qualora nella fase cautelare sia stata trattenuta implicitamente la competenza
N. 01374/2020 REG.PROV.COLL. N. 02687/2017 REG.RIC.            N. 02688/2017 REG.RIC.            N. 02689/2017 REG.RIC.            N. 02690/2017 REG.RIC.            N. 02691/2017 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2687 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Furreddu e Nicola Gandini, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, corso Sempione, 9 contro Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri - Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1 nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio sul ricorso numero di registro generale 2688 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Furreddu e Nicola Gandini, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, corso Sempione, 9 contro Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri - Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1 nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio sul ricorso numero di registro generale 2689 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Furreddu e Nicola Gandini, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, corso Sempione, 9 contro Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1 nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio sul ricorso numero di registro generale 2690 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Furreddu e Nicola Gandini, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, corso Sempione, 9 contro Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1 sul ricorso numero di registro generale 2691 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Furreddu e Nicola Gandini, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Milano, corso Sempione, 9 contro Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri - Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, presso i cui Uffici è domiciliato ex lege in Milano, via Freguglia, 1 nei confronti -OMISSIS-, non costituito in giudizio per l'annullamento del decreto dirigenziale M_D GMIL REG2017 0461790 datato 17.08.2017, adottato dal Direttore generale della Direzione generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale non è stata riconosciuta ai ricorrenti l'anzianità di servizio in conformità all'art. 2212-duodecies del d.lgs. 15/03/2010, n. 66 per il passaggio in ruolo, nonché di ogni atto connesso, conseguente e di presupposto.. Visti i ricorsi e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa; Visto l'art. 79, co. 1, cod. proc. amm.; Visti l’art. 84 del d.l. n. 18 del 2020, convertito in L. n. 27 del 2020, e l’art. 4 del d.l. n. 28 del 2020; Visti tutti gli atti della causa; 1. Con ricorsi distinti, tutti depositati in data 25 novembre 2017, e rubricati rispettivamente con i numeri di registro generale 2687, 2688, 2689, 2690 e 2691 del 2017, -OMISSIS-, Tenente Colonnello appartenente al ruolo speciale ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri, -OMISSIS-, Tenente Colonnello appartenente al ruolo speciale ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri, -OMISSIS-, Maggiore appartenente al ruolo speciale ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri, -OMISSIS-, Maggiore appartenente al ruolo speciale ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri, e -OMISSIS-, Maggiore appartenente al ruolo speciale ad esaurimento dell’Arma dei Carabinieri, hanno chiesto l’annullamento del decreto dirigenziale di cui in epigrafe, con cui il Ministero convenuto ha rideterminato la loro anzianità di servizio, per il passaggio in ruolo, in asserita violazione dell'art. 2212-duodecies del d.lgs. n. 66 del 2010, novellato dal d.lgs. n. 95 del 2017. 2. Si è costituita in tutti i giudizi l’amministrazione intimata, che ha chiesto il rigetto del ricorso, eccependo innanzitutto l’incompetenza territoriale di questo Tribunale amministrativo, e la Sezione ha respinto la proposta domanda cautelare sotto il profilo del periculum. Le cause sono state infine trattenute in decisione in data 16 giugno 2020. 3. Preliminarmente, occorre riunire i ricorsi di cui in epigrafe, trattandosi di domande di annullamento rivolte contro lo stesso provvedimento. 4. Sempre preliminarmente, il Collegio deve verificare se gli è preclusa o meno, nella odierna fase di merito, la possibilità di esaminare l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall’amministrazione resistente. Secondo l’Avvocatura distrettuale dello Stato, sarebbe territorialmente competente il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, in ragione della natura generale dell’atto impugnato, da cui deriva l’interesse al ricorso. Invero, l’esame di tale eccezione è astrattamente decisivo dell’intera causa, in quanto, qualora l’eccezione dovesse venire accolta, il Tribunale adito non potrebbe pronunciare nel merito della domanda principale dedotta in giudizio, ma dovrebbe dichiararsi territorialmente incompetente. 4.1. In via generale, l’art. 15, comma 1, prima parte, del codice del processo amministrativo prevede che “il difetto di competenza è rilevato d'ufficio finché la causa non è decisa in primo grado”. Secondo questa norma, dunque, anche nella fase di merito il Giudice adito può pronunciarsi sulla questione di competenza territoriale. Tuttavia, giurisprudenza consolidata (cfr. da ultimo, Cons. Giust. Amm., sentenza n. 182 del 2016) sostiene che il citato primo comma dell’art. 15 sarebbe derogato dal secondo comma dello stesso articolo, secondo cui “In ogni caso il giudice decide sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare (…)”. L’inciso “in ogni caso”, unitamente al complesso sistema di impugnazione della pronuncia cautelare che abbia ritenuto la competenza del Giudice adito - così come delineato dall’art. 15, comma 5 e dall’art. 16 del codice del processo amministrativo -, determinerebbero, nel caso di mancato rilievo dell’incompetenza territoriale nella fase cautelare, una preclusione, oltre tale fase, anche nei confronti dell’organo decidente. Tale giurisprudenza arriva conseguenzialmente a sostenere che anche una pronuncia implicita sulla competenza, come quella contenuta nell’ordinanza cautelare emessa nella presente controversia (una pronuncia in cui cioè non vi è alcuna indicazione né in motivazione né in dispositivo dell’avvenuto esame nel merito della questione di competenza), determinerebbe una preclusione definitiva per il Giudice di esaminare la questione di competenza territoriale nella fase di merito. Secondo questa impostazione, dunque, che allo stato può considerarsi diritto vivente - perché corrispondente alla lettera della norma, oltre che alla ratio del legislatore delegato, e non contrastata da un orientamento contrario in grado di far dubitare della stabilizzazione di tale interpretazione-, il Tribunale adito non può più pronunciare nella fase di merito sull’eccezione di incompetenza territoriale formulata dalla difesa del Ministero resistente, in quanto avere trattenuto la competenza in fase cautelare – decidendo sulla domanda cautelare stessa – avrebbe determinato una preclusione processuale definitiva nei confronti delle parti e dell’organo decidente, e, ciò, nonostante l’eccezione non sia mai stata esaminata e decisa motivatamente nel merito. 4.2. Il sistema, così come cristallizzato, si espone peraltro ad una duplice obiezione, sotto il profilo della sua compatibilità con la Carta costituzionale. Da un lato, comprime ingiustificatamente le facoltà difensive della parte che eccepisce l’incompetenza territoriale, precludendole la possibilità di vedersi esaminata la sollevata eccezione nella fase di merito dal Giudice adito, qualora sia stata proposta domanda cautelare. Dall’altro, e più in generale, determina un regime di inderogabilità della competenza territoriale, fin dalla sede cautelare, e di stringenti preclusioni processuali sul rilievo della stessa, che non trovano alcun addentellato nella Legge di delega n. 69 del 2009 – legge che ha stabilito i criteri di redazione del nuovo codice del processo amministrativo -, e che anzi contrasta, per la ingiustificata compressione del diritto di difesa sopra evidenziata, con l’obiettivo di portata generale, perseguito dalla citata legge di delega, di assicurare maggiore effettività della tutela giurisdizionale. 5. Ne consegue che il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 2 e 3 c.p.a., per violazione degli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui precludono al Giudice di esaminare, pronunciare e decidere espressamente, nella fase di merito, e secondo il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, sulla eccezione di incompetenza territoriale, qualora nella fase cautelare sia stata trattenuta implicitamente la competenza stessa. 5.1. Sotto il profilo della violazione degli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, il combinato disposto normativo in esame pare violare il diritto di difesa della parte che eccepisce tempestivamente l’incompetenza territoriale del Giudice adito e produce un effetto di irragionevolezza e disallineamento nel sistema congegnato dagli artt. 15 e 16 c.p.a., distogliendo ingiustificatamente la parte che ne ha interesse dal giudice naturale precostituito per legge rispetto alla concreta controversia azionata. Invero, l’art. 15 c.p.a. prevede, senza operare un preciso coordinamento tra di loro, diversi regimi processuali in tema di decisione del Giudice di primo grado sulla competenza territoriale nel processo amministrativo, a seconda del rilievo di ufficio o su eccezione di parte della questione di incompetenza, e sulla base della proposizione o meno della domanda cautelare. Se non vi è domanda cautelare, la questione può essere rilevata di ufficio finché la causa non è decisa in primo grado, ma deve essere oggetto di pronuncia immediata e separata, tramite la fissazione di una speciale camera di consiglio, qualora sussista la tempestiva eccezione di parte (art. 15, comma 3, seconda e terza parte). In questo caso, non vi è dubbio che l’eccezione di parte provochi una pronuncia esplicita e specifica sulla questione di competenza territoriale, che non può più essere rimessa in discussione nella successiva pronuncia di merito che definisce il primo grado di giudizio. Se vi è domanda cautelare, invece, “il giudice decide sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare” (art. 15, comma 2), a prescindere dalla proposizione o meno dell’eccezione di parte. In altri termini, viene omessa, nell’ipotesi di proposizione di domanda cautelare, la speciale camera di consiglio prevista dall’art. 15, comma 3 c.p.a., e questo perché la questione di incompetenza può essere trattata assieme e “prima” della definizione della questione cautelare. Ma ciò implicherebbe, per non introdurre un irragionevole e deteriore regime della questione di competenza su eccezione di parte nel caso di proposizione di domanda cautelare, che nella motivazione e nel dispositivo che pronuncia sulla domanda cautelare stessa dovrebbe essere esaminata e decisa in modo esplicito anche la questione di competenza. Invece, secondo il sistema processuale attualmente vigente nel processo amministrativo di primo grado - così come ricostruito dalla giurisprudenza consolidata -, l’impossibilità per il Giudice di pronunciare sulla competenza territoriale dopo la fase cautelare potrebbe rinvenirsi anche in una decisione implicita sull’incompetenza – cioè senza statuizione espressa nel dispositivo (oltre che senza motivazione) –, e, ciò, anche se nel frattempo l’incompetenza territoriale sia stata eccepita tempestivamente dalla parte, poiché, in questo caso, bisognerebbe intendere “il trattenere” la competenza territoriale in fase cautelare come una statuizione – seppure implicita – definitiva (e quindi non più emendabile nella fase di merito) sulla questione stessa. In altri termini, la parte che ha eccepito tempestivamente l’incompetenza territoriale del Giudice adito si vede, in questo caso, precluso definitivamente l’esame motivato, con pronuncia espressa, della sua eccezione. Tale preclusione comporta, a giudizio del Collegio, e per le ragioni già esposte, una possibile violazione degli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione. D’altra parte, risulta di per sé irragionevole avere stabilito che l’incompetenza territoriale può essere rilevata dal Giudice soltanto fino alla fase cautelare, da un lato perché si collega una preclusione processuale ad una fase soltanto eventuale, dall’altro perché la fase cautelare, per sua natura, è caratterizzata da una delibazione sommaria sulla fondatezza del ricorso, mentre la questione di competenza territoriale deve essere normalmente decisa, quale questione pregiudiziale di rito, nella fase di definizione del giudizio nel merito. Al riguardo, quale tertium comparationis, basti osservare che il codice di procedura civile stabilisce che l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio inderogabili sono rilevate d’ufficio non oltre l’udienza di cui all’articolo 183 c.p.c., ovvero non oltre l’udienza di trattazione, che è un’udienza a seguito della quale la causa può essere già ritenuta dal Giudice matura per la decisione di merito. Non si vede pertanto perché nel giudizio amministrativo – che, salvo alcune significative eccezioni, recepisce la generalità degli istituti processuali civilistici - la decisione sulla competenza territoriale debba essere “confinata” e limitata ad una fase antecedente a quella di merito, merito che costituisce, vale la pena ricordarlo, il momento fisiologico di esame di tutte le questioni che possono avere un rilievo decisivo sulla definizione della controversia. 5.2. Sotto il profilo poi della violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, la nuova disciplina sull’incompetenza territoriale inderogabile prevista dal d.lgs. n. 104 del 2010, per i profili odierni di rilevanza, non trova alcun riferimento nei principi e nei criteri direttivi stabiliti dall’art. 44 della legge delega n. 69 del 2009. In linea generale, tra tali criteri e principi direttivi non ve ne era alcuno che abilitasse il legislatore delegato a riformare e innovare l’istituto della competenza, e nonostante ciò il decreto legislativo n. 104 del 2010 ha ribaltato totalmente il sistema vigente sin dal 1971, rendendo inderogabile la competenza per territorio, prima sempre derogabile. Che questa innovazione non trovi riscontro nella legge delega lo si desume indirettamente anche dalla relazione al Codice, la quale dà atto del cambiamento (“tutta la competenza del giudice amministrativo è divenuta inderogabile dalle parti”), anche in modo dettagliato (“Questo, in dettaglio, è il regime del rilievo dell’incompetenza”), senza tuttavia far mai riferimento alla legge di delega, ripetutamente citata invece in sede di illustrazione della disciplina di molti altri istituti, al fine di chiarire che tale disciplina è stata adottata in conformità all’art. 76 Cost., in ossequio o in puntuale applicazione dei criteri direttivi della delega. Né la ratio complessiva sottesa alla legge di delega – che pure la giurisprudenza della Corte esorta a tenere presente - potrebbe giustificare una simile scelta innovativa. Se, infatti, obiettivo principale della delega per il riassetto di una normativa stratificata e caotica, che risultava in parte anche antecedente al testo della Costituzione, era quello di assicurare maggiore effettività della tutela, trasfondendo in un corpus unitario anche gli approdi pretori e gli esiti della giurisprudenza della Corte costituzionale, in ossequio all’art. 111 Cost., non c’è dubbio che l’innovativa opzione per la inderogabilità della competenza, fin dalla sede cautelare, unitamente all’articolazione di complessi e separati rimedi per far valere l’incompetenza, non solo non trova addentellati nel sistema previgente, ma ha pure irrigidito e reso più vischiosa la risposta di giustizia, in contrasto con la primaria finalità di snellire l’attività giurisdizionale e rendere maggiormente congrui i tempi del processo. L’esorbitanza del sistema previsto dal legislatore delegato dall’oggetto della delega è rifluita inevitabilmente nella scelta non autorizzata ma consapevole di operare una forte compressione di una componente rilevante del diritto di difesa della parte resistente – che, peraltro, è normalmente un’amministrazione pubblica –, e cioè della possibilità di ottenere l’esame specifico e nel merito dell’eccezione proposta, qualora sia stata proposta domanda cautelare. Con l’inevitabile e distonica conseguenza secondo cui, per il particolare meccanismo introdotto dagli artt. 15 e 16 c.p.a., la parte processuale che eccepisce tempestivamente l’incompetenza territoriale, qualora sia proposta la domanda cautelare, sarebbe costretta ad impugnare anche una pronuncia cautelare a sé favorevole (come nel caso dell’odierna controversia), per non vedersi preclusa successivamente, non solo la possibilità di ottenere un regolamento di competenza e una pronuncia sulla questione pregiudiziale finché la causa non è decisa in primo grado, ma financo la possibilità di ottenere sul punto una pronuncia nel giudizio di appello, poiché la statuizione sulla competenza non è contenuta in alcun capo della pronuncia impugnata, ma risale, peraltro in modo implicito, ad una ordinanza (quella cautelare) ormai non più impugnabile. Nello specifico, il Collegio osserva che la previgente disciplina non operava alcuna interferenza tra fase cautelare e rilievo definitivo dell’incompetenza, ma si limitava a rimettere al giudice di primo grado, tramite la fissazione di una speciale camera di consiglio, la sommaria delibazione del regolamento di competenza proposto dalla parte che aveva eccepito l’incompetenza territoriale, in modo parzialmente assimilabile a quanto previsto oggi dal comma 3 dell’art. 15 c.p.a.. 6. Conclusivamente, il Collegio ritiene rilevante ai fini del decidere, e non manifestamente infondata, la questione d’illegittimità costituzionale sollevata d’ufficio con riferimento ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 15 del codice del processo amministrativo (allegato 1 al d.lgs. n. 104 del 2010), nella parte in cui precludono al Giudice di esaminare e pronunciare sulla proposta eccezione di parte del difetto di competenza territoriale anche nella fase di merito, qualora nella fase cautelare, come avvenuto nel caso di specie, sia stata trattenuta implicitamente la competenza. 6.1. In punto di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata, l’applicazione del sistema delineato dai commi 1, 2 e 3 dell’art. 15 c.p.a., secondo la ratio del legislatore delegato e l’interpretazione costante della dottrina e della giurisprudenza amministrativa, precluderebbe a questo Tribunale di pronunciarsi sull’eccezione di incompetenza territoriale tempestivamente proposta dalla difesa erariale. L’esame di tale eccezione sarebbe peraltro astrattamente decisivo della causa, in quanto un consolidato orientamento del Consiglio di Stato – cui si rifà la parte pubblica – ritiene che nel caso di specie (atto impugnato adottato da un'amministrazione centrale, con effetti non limitati alla sola Regione Lombardia e ai soli ricorrenti ma, al contrario, disciplinanti lo status di plurimi soggetti sparsi su tutto il territorio nazionale), trova applicazione il primo e non il secondo comma dell’art. 13 c.p.a., con conseguente esclusione del criterio del "foro del pubblico impiego" e competenza territoriale del TAR Lazio, sede di Roma (cfr., tra le altre, Cons. di Stato, ord. n. 2791 del 2018). 6.2. Nel merito della questione di costituzionalità sottoposta a codesta Corte, ferme restando le considerazioni già svolte ai paragrafi 4 e 5, il Collegio rimettente ritiene che il secondo comma dell’art. 15 - il quale, secondo il diritto “vivente”, tramite l’inciso “in ogni caso” introduce una preclusione ai poteri del Giudice analoga a quella prevista dall’art. 38, comma 3 c.p.c. nel giudizio civile, arretrando e confinando, peraltro, la possibilità di rilevare ed esaminare la questione di competenza territoriale alla fase cautelare -, possa violare gli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, della Costituzione, sotto il duplice profilo dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale e dell’eccesso di delega legislativa. 6.1. Invero, le parti diverse dai ricorrenti – cui spetta la facoltà processuale costituzionalmente tutelata di far valere la propria posizione giuridica nella sede di competenza del giudice precostituito per legge -, pur proponendo tempestivamente l’eccezione di incompetenza territoriale, si vedono preclusa la possibilità di una pronuncia esplicita e nella fase di merito sulla loro eccezione, qualora sia stata proposta domanda cautelare, e sono addirittura costretti ad impugnare l’ordinanza cautelare a loro favorevole che abbia ritenuto implicitamente la competenza, per evitare la definitiva eliminazione in entrambi i gradi del giudizio della suddetta facoltà processuale. 6.2. Sotto altro, concorrente profilo, l’art. 44 della legge n. 69 del 2009, che aveva delegato il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato”, è rimasto silente sullo specifico aspetto della disciplina afferente al rilievo dell’incompetenza territoriale. L’assenza sul punto di principi e criteri direttivi, pur non essendo di per sé decisiva, di certo non autorizzava il legislatore delegato ad innovare radicalmente la disciplina in esame, trasformando il regime della competenza territoriale da “sempre derogabile” (come previsto in precedenza) a “sempre inderogabile”, fin dalla fase cautelare (come stabilito nel nuovo codice del processo amministrativo), e creando una inusitata interferenza tra fase cautelare e rilievo definitivo dell’incompetenza. Si è dunque concretizzata un’ipotesi di vizio di eccesso di delega, per contrasto tra norma delegata e norma delegante (norma interposta e parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati), in ragione dell’esorbitanza dall’oggetto della delega del sistema previsto dal legislatore delegato, con specifico riferimento, per quanto di interesse, alle limitazioni temporali e strutturali imposte al rilievo ed esame della questione di competenza territoriale. Più in particolare, la sospetta violazione indiretta dell’art. 76 della Costituzione si è manifestata su due fronti concorrenti: - da un lato, perché il silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico aspetto sul quale è intervenuto in modo particolarmente innovativo rispetto al previgente sistema il legislatore delegato (regime processuale del rilievo del difetto di competenza territoriale), non può non risultare chiaramente rivelatore della volontà di non introdurre sul punto alcuna modifica; - dall’altro, perché le disposizioni delegate sotto esame non rappresentano un mezzo di attuazione delle finalità della delega, ma anzi risultano in contrasto, per la fortissima compressione delle facoltà processuali delle parti interessate ad ottenere una pronuncia dal giudice precostituito per legge, con gli indirizzi generali stabiliti dall’art. 44 della legge n. 69 del 2009, secondo cui il nuovo codice del processo amministrativo avrebbe dovuto assicurare “l’effettività della tutela”. 6.3. Sulla base delle su esposte considerazioni, il Collegio ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione. In merito all’intervento richiesto a codesta Corte, si osserva che una pronuncia caducatoria delle norme censurate, che resti limitata all’eliminazione dell’inciso “in ogni caso” di cui al secondo comma dell’art. 15 del codice del processo amministrativo, risulterebbe congrua rispetto all’obiettivo perseguito dal rimettente, che è quello di potere esaminare e pronunciare esplicitamente sull’eccezione di incompetenza territoriale tempestivamente sollevata dalla difesa erariale anche nella fase di merito, nonostante la Sezione abbia già deciso sulla proposta domanda cautelare, ritenendo implicitamente, in quella diversa fase, la propria competenza territoriale. L’eliminazione dell’inciso “in ogni caso”, infatti, riespanderebbe, secondo un’interpretazione costituzionalmente adeguata, l’applicabilità alla fattispecie in esame del comma 1 del citato art. 15, secondo cui “il difetto di competenza è rilevato d'ufficio finché la causa non è decisa in primo grado”. Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese resta riservata alla decisione definitiva. P.Q.M. il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Terza), previa riunione dei ricorsi di cui in epigrafe, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 2 e 3 del codice del processo amministrativo (allegato 1 al d.lgs. n. 104 del 2010), nei limiti di cui in motivazione, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, della Costituzione. Dispone la sospensione del presente giudizio. Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Ordina che, a cura della Segreteria della sezione, la presente sentenza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese. Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 16 giugno 2020 con l'intervento dei magistrati: Ugo Di Benedetto, Presidente Stefano Celeste Cozzi, Consigliere Roberto Lombardi, Consigliere, Estensore Ugo Di Benedetto, Presidente Stefano Celeste Cozzi, Consigliere Roberto Lombardi, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Competenza - Difetto di competenza territoriale – Esame nella fase di merito – Se nella fase cautelare è stata implicitamente trattenuta la competenza - Art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. – Violazione artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.           È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, commi 1, 2 e 3, c.p.a. nella parte in cui precludono al Giudice di esaminare e pronunciare sulla proposta eccezione di parte del difetto di competenza territoriale anche nella fase di merito, qualora nella fase cautelare  sia stata trattenuta implicitamente la competenza (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il secondo comma dell’art. 15 - il quale, secondo il diritto “vivente”, tramite l’inciso “in ogni caso” introduce una preclusione ai poteri del Giudice analoga a quella prevista dall’art. 38, comma 3 c.p.c. nel giudizio civile, arretrando e confinando, peraltro, la possibilità di rilevare ed esaminare la questione di competenza territoriale alla fase cautelare -, possa violare gli artt. 3, 24, 25, 76 e 77, primo comma, Cost., sotto il duplice profilo dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale e dell’eccesso di delega legislativa. Invero, le parti diverse dai ricorrenti – cui spetta la facoltà processuale costituzionalmente tutelata di far valere la propria posizione giuridica nella sede di competenza del giudice precostituito per legge -, pur proponendo tempestivamente l’eccezione di incompetenza territoriale, si vedono preclusa la possibilità di una pronuncia esplicita e nella fase di merito sulla loro eccezione, qualora sia stata proposta domanda cautelare, e sono addirittura costretti ad impugnare l’ordinanza cautelare a loro favorevole che abbia ritenuto implicitamente la competenza, per evitare la definitiva eliminazione in entrambi i gradi del giudizio della suddetta facoltà processuale. Sotto altro, concorrente profilo, l’art. 44 della legge n. 69 del 2009, che aveva delegato il Governo ad adottare “uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato”, è rimasto silente sullo specifico aspetto della disciplina afferente al rilievo dell’incompetenza territoriale. L’assenza sul punto di principi e criteri direttivi, pur non essendo di per sé decisiva, di certo non autorizzava il legislatore delegato ad innovare radicalmente la disciplina in esame, trasformando il regime della competenza territoriale da “sempre derogabile” (come previsto in precedenza) a “sempre inderogabile”, fin dalla fase cautelare (come stabilito nel nuovo codice del processo amministrativo), e creando una inusitata interferenza tra fase cautelare e rilievo definitivo dell’incompetenza. Si è dunque concretizzata un’ipotesi di vizio di eccesso di delega, per contrasto tra norma delegata e norma delegante (norma interposta e parametro di costituzionalità dei decreti legislativi delegati), in ragione dell’esorbitanza dall’oggetto della delega del sistema previsto dal legislatore delegato, con specifico riferimento, per quanto di interesse, alle limitazioni temporali e strutturali imposte al rilievo ed esame della questione di competenza territoriale. Più in particolare, la sospetta violazione indiretta dell’art. 76 Cost. si è manifestata su due fronti concorrenti: da un lato, perché il silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico aspetto sul quale è intervenuto in modo particolarmente innovativo rispetto al previgente sistema il legislatore delegato (regime processuale del rilievo del difetto di competenza territoriale), non può non risultare chiaramente rivelatore della volontà di non introdurre sul punto alcuna modifica; dall’altro, perché le disposizioni delegate sotto esame non rappresentano un mezzo di attuazione delle finalità della delega, ma anzi risultano in contrasto, per la fortissima compressione delle facoltà processuali delle parti interessate ad ottenere una pronuncia dal giudice precostituito per legge, con gli indirizzi generali stabiliti dall’art. 44, l. n. 69 del 2009, secondo cui il nuovo codice del processo amministrativo avrebbe dovuto assicurare “l’effettività della tutela”. Sulla base delle su esposte considerazioni, la Sezione ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione. Osserva che una pronuncia caducatoria delle norme censurate, che resti limitata all’eliminazione dell’inciso “in ogni caso” di cui al secondo comma dell’art. 15 c.p.a., risulterebbe congrua rispetto all’obiettivo perseguito dal rimettente, che è quello di potere esaminare e pronunciare esplicitamente sull’eccezione di incompetenza territoriale tempestivamente sollevata dalla difesa erariale anche nella fase di merito, nonostante la Sezione abbia già deciso sulla proposta domanda cautelare, ritenendo implicitamente, in quella diversa fase, la propria competenza territoriale. L’eliminazione dell’inciso “in ogni caso”, infatti, riespanderebbe, secondo un’interpretazione costituzionalmente adeguata, l’applicabilità alla fattispecie in esame del comma 1 del citato art. 15, secondo cui “il difetto di competenza è rilevato d'ufficio finché la causa non è decisa in primo grado”.
Processo amministrativo
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Adempimenti prescritti dalla Legge Pinto ai fini dell’ammissibilità del ricorso – Eccezioni in rito sollevate d’ufficio dal Collegio
N. 11691/2021 REG.PROV.COLL. N. 02682/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2682 del 2021, proposto da Odorisio S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Alessandro Bellomi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero della Giustizia, non costituito in giudizio; per l'esecuzione del giudicato formatosi sul decreto della Corte di Appello di Roma n. 50168/2019 depositato l’1.3.2019, Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2021 il dott. Pietro Morabito e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO I)- Col ricorso introduttivo parte ricorrente ha chiesto l’esecuzione del giudicato formatosi sul decreto emesso, ex l. n. 89 del 2001 (c.d. “Legge Pinto”), dalla Corte di Appello di Roma – sez. Equa Riparazione – meglio specificato in epigrafe, con cui la detta Corte ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento dell’importo ivi indicato a titolo di equa riparazione e di spese di lite. Il Ministero intimato non si è costituito in giudizio. Alla camera di consiglio del 5.11.2021, previo avviso a verbale ex art. 73, comma 3, c.p.a., il ricorso è stato trattenuto in decisione. II)- Il ricorso è inammissibile alla luce del recentissimo insegnamento fornito dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1890/2021 del 5.3.21, recante integrale conferma della decisione della sez. II bis n. 3892/2020 di questo Tribunale. Ed invero, quest’ultima pronuncia ha dichiarato inammissibile un ricorso, pure proposto ai sensi della c.d. Legge Pinto, in cui – in spregio alla specifica prescrizione dettata dal primo comma dell’art. 5 sexies della stessa Legge – nei moduli inviati al Ministero (compilati sul fac simile messo a disposizione dall’Ente medesimo, approvato con d.m. 28.10.2016) era risultata omessa l’apposita dichiarazione, ex artt. 46, 47 del D.P.R. n.445 del 2000, attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo”. Il Tribunale, in particolare, nell’occasione ha ritenuto che: - detto onere è posto a presidio di un rilevante interesse pubblico, quale misura volta a scongiurare l’indebito esborso di denaro dello Stato, con eventuali plurimi pagamenti per lo stesso titolo; - non può rilevare sul punto il fatto che nel fac simile del modulo, oggetto di approvazione ministeriale, ex art. 5 sexies, comma 3, della Legge n. 89 del 2001, non sia previsto un apposito e specifico campo dove effettuare la dichiarazione de qua, posto che l’atto ministeriale non potrebbe giammai far venir meno un onere previsto dalla legge; - non può prospettarsi un’ipotesi di buona fede in senso soggettivo dell’istante, dal momento che nel predetto modello è riportato integralmente il testo dell’art. 5 sexies della Legge n. 89 del 2001, che proprio in principio richiama l’onere di legge in questione; del resto la dichiarazione di non aver già percepito somme per lo stesso titolo, in presenza dell’espresso richiamo all’onere di legge e in assenza di un campo specifico, ben poteva essere inserita nel campo F del modulo “Altre eventuali dichiarazioni”; - altresì NON risulta sufficiente la sola dichiarazione, parimenti richiesta ex lege, di non aver proposto azioni esecutive, perché la percezione delle somme ben potrebbe aver luogo senza l’esperimento di dette azioni. La pronuncia ora sinteticamente richiamata ha trovato il pieno assenso del Giudice di appello, che ha ribadito che il procedimento necessario per ottenere il pagamento delle somme dovute a titolo di equa riparazione per irragionevole durata del processo, di cui alla disciplina recata dall’art. 5-sexies della legge 24 marzo 2001, n. 89, prevede, a carico del creditore, l’obbligo di rilasciare una dichiarazione (di autocertificazione e sostitutiva di notorietà), attestante, inter alia, la non avvenuta riscossione di quanto dovuto (primo comma); il maturare di un termine dilatorio semestrale, decorrente dalla data in cui sono assolti gli obblighi comunicativi del primo comma, entro il quale l’amministrazione debitrice può effettuare il pagamento (quinto comma); e prima del quale il creditore non può procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto o alla proposizione di un ricorso per l’ottemperanza del provvedimento liquidatorio (settimo comma). La mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione prevista impedisce l’emissione dell’ordine di pagamento (quarto comma) e determina l’inammissibilità dell’azione di esecuzione. Alla luce di quanto sopra, il Collegio rileva che nella fattispecie la documentazione trasmessa all’Amministrazione debitrice da parte ricorrente (e allegata al ricorso) presenta una carenza e criticità del tutto analoga. A tanto accedono le conseguenze sopra descritte e una declaratoria in conformità. III)- L’esito del corrente giudizio – in cui la parte pubblica intimata non si è costituita, la ricorrente è stata assente al dibattimento e, ciò nondimeno, è stato, ovviamente, reso e verbalizzato l’avviso ex art.73 C.p.a. su profili di inammissibilità del ricorso – offre al Collegio l’occasione di soffermarsi su di quanto recentemente affermato nella sent. n. 3610/2021 della IV sezione del Consiglio di Stato. In tale occasione, il Giudice di ultimo grado – investito dell’appello avverso una pronuncia di inammissibilità di questo Tribunale, sempre in materia della c.d. “legge Pinto”, contraddistinta dalla compresenza delle medesime sopra specificate circostanze – ha annullato la decisione e l’ha rinviata, ex art.105c.e C.p.a., a questo Tribunale perché << la camera di consiglio si è svolta in assenza della presenza delle parti….., e in assenza di una eccezione formulata dall’Amministrazione (che non si era costituita nel corso del giudizio di primo grado), il TAR non avrebbe potuto dichiarare ‘a sopresa’ l’inammissibilità del ricorso introduttivo, ma avrebbe dovuto emettere una ordinanza ai sensi dell’art. 73, comma 3, del codice del processo amministrativo, fissando un termine per il deposito di memorie. La declaratoria di inammissibilità del ricorso, non preceduta dalla ordinanza prevista dall’art. 73, comma 3, comporta che – affinché sia salvaguardato il diritto di difesa – la causa vada rimessa al TAR, ai sensi dell’art. 105, comma 1, del codice del processo amministrativo>>. Orbene - e lo si ce col dovuto garbo - si tratta di una decisione che lascia perplesso il Collegio ed appare frutto di una esegesi che, invero, appare confliggere con tutti i precedenti in materia dello stesso Cons. St. (di seguito indicati); e tanto per le considerazioni appresso riportate : a) l'art.73 c.3 C.p.a. dispone che "Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, il giudice la indica in udienza dandone atto a verbale. Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie"; b) tale norma prescrive, dunque, la concessione del suddetto termine a difesa (ovvero la instaurazione del contraddittorio in udienza con facoltà delle parti di interloquire) soltanto nel caso in cui: b1) la questione su cui deve essere sviluppato il contraddittorio abbia carattere dirimente ai fini della decisione; b2) il rilievo officioso venga delibato, per la prima volta, in camera di consiglio, successivamente al passaggio in decisione della controversia, come del resto si arguisce dall'inequivoco tenore letterale della norma ["Se la questione emerge dopo il passaggio in decisione, il giudice riserva quest'ultima e con ordinanza assegna alle parti un termine non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie"; cfr, ex multis, Cons. St., nn.2420 e 2786 del 2014; C.g.a. n. 448 del 2012; Cons. St. nn. 18 e 1438 del 2015, la cui massima è la seguente: “Il codice del processo amministrativo prevede una sola ipotesi (art. 73, comma 3, cod. proc. amm.) in cui il collegio, dopo il passaggio in decisione della causa, è tenuto a stimolare il contraddittorio delle parti assegnando loro un termine per il deposito di memorie: e questo è il caso in cui il giudicante ravvisi la sussistenza di una questione nuova, rilevata d'ufficio (e quindi non affrontata dalle parti nelle loro difese), capace di dirimere la lite]; c) la concessione del termine a difesa costituisce, invece, un'eventualità del tutto eccezionale e, soprattutto, discrezionalmente rimessa alla decisione del Collegio, quando la questione in relazione alla quale viene sollecitato il contraddittorio, sia invece rilevata in sede di discussione, limitandosi la norma a statuire che la quaestio iuris venga, in questo caso, soltanto indicata in udienza dandone atto a verbale. A tal riguardo non può dubitarsi che sia interesse ed onere della parte presenziare all’udienza (anche al fine di poter apprendere dell’eventuale Avviso ex art.73 e chiedere termine a difesa per la produzione di osservazioni); e se la parte non cura tale interesse ne sopporta in proprio le conseguenze. Sul principio è illuminante la pacifica giurisprudenza formatasi in ordine alla possibilità di definire il ricorso con sentenza in forma semplificata una volta dato in udienza, e verbalizzato, l’avviso ex artt. 60: cfr Cons. St. 1453/21 che indica quali propri precedenti le sentenze Sez. III, 26 agosto 2015, n. 4017 e 20 dicembre 2011, n. 6759 ed aggiunge: << Come anche da questa Sezione recentemente rilevato (cfr. sentenza 23 dicembre 2020, n. 8290), l'obbligo di sentire le parti circa la possibilità di decidere il merito della causa è, infatti, configurabile solo laddove queste compaiano; mentre la scelta di non comparire alla camera di consiglio fissata per la discussione della domanda cautelare (o, addirittura, di non costituirsi), non può costituire ostacolo alla rapida definizione del giudizio, così frustrando la ratio acceleratoria insita nell'art. 60 c.p.a. ed il principio costituzionale, che ne sta a fondamento, della ragionevole durata del processo (cfr., in termini, anche Cons. Stato, Sez. VI, 20 aprile 2018, n. 2405)>>. E’ poi scontato che al Giudice che rileva, dopo del passaggio in decisione, la possibile questione di inammissibilità, è fatto obbligo di assegnare un solo termine per le deduzioni delle parti su questo singolo aspetto, sicché in alcun modo viene in questione l'applicazione dei tre termini di cui all'art.73 c.1 C.p.a.., a fronte del loro dato testuale inequivoco; altrimenti detto i termini per la produzione di documenti, memorie e repliche sono – per pacifica giurisprudenza – perentori e dunque la parte cui è stato accordato termine, non può ampliare il thema decidendum o quello probandum, con la produzione di nuove memorie e relative repliche oppure la produzione di nuovi mezzi istruttori o di documenti che non ha esibito nel termini di cui al c.1 dell’art.73 C.p.a. (cfr., Cons. St. 16.3.20 n. 1875). Ne segue che, in caso di rinvio al primo Giudice, alla parte non può consentirsi la produzione di documenti non presentati nel corso del primo giudizio il quale si riavvia a partire dal momento in cui (una volta passata in decisione la causa in senso alla quale è stato omesso l’avviso ex art.73 C.p.a.) non è stata offerta alla parte la possibilità di presentare memorie od osservazioni sullo specifico e singolo aspetto generatore del profilo di inammissibilità. Tirando le somme la decisione del Cons. St. 3610/2021, in cui pur si dà atto dell’avvenuta verbalizzazione dell’Avviso ex art.73 C.p.a. e ciò nonostante si deduce l’effetto “sorpresa” definendo la questione come se il rilevo fosse emerso solo dopo il passaggio in decisione della causa, appare frutto essa sì di sorpresa. La parte non può dirsi sorpresa se si è completamente disinteressata di presenziare al dibattimento: eius commoda et eius incommoda. Appare poi del tutto logico ritenere che in una fattispecie, quale quella trattata e definita con la presente decisione, non vi sia spazio per l’applicazione dell’art.64 c.2 del C.p.a. poiché detta norma impone al Giudice di porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti nonchè i fatti non specificamente contestati dalle “parti costituite”: la norma dunque pone un presupposto chiaro di operatività e cioè che la Parte che avrebbe potuto contestare si sia costituita in giudizio. E rimane ovvio che se un tal costituzione sia mancata nessun ostacolo si pone in ordine ad un rilievo officioso del Giudice. IV)- Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, mentre non vi è luogo a pronuncia sulle spese stante la mancata costituzione del Ministero intimato. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Nulla per le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Pietro Morabito, Presidente, Estensore Michelangelo Francavilla, Consigliere Francesca Mariani, Referendario Pietro Morabito, Presidente, Estensore Michelangelo Francavilla, Consigliere Francesca Mariani, Referendario IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Legge Pinto - Adempimenti prescritti dall’art. 5 sexies, l. n. 89 del 2001 – Dichiarazione attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo”- Omissione – Conseguenza.    Processo amministrativo – Eccezioni - Sollevate d’ufficio – Avviso ex art. 73, comma 3, c.p.a. – Quando occorre.         E’ inammissibile il ricorso, proposto ai sensi della c.d. Legge Pinto n. 89 del 2001, in cui – in spregio alla specifica prescrizione dettata dal primo comma dell’art. 5 sexies, l. 24 marzo 2001, n. 89 – nei moduli inviati al Ministero è stata omessa l’apposita dichiarazione, ex artt. 46 e 47, d.P.R. n.445 del 2000, attestante “la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo” (1). 
Processo amministrativo
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Retroattività degli atti regolamentari
N. 02915/2022REG.PROV.COLL. N. 08813/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8813 del 2018, proposto dalla società Alpha Trading s.p.a. unipersonale (nella qualità di società incorporante la Oil.B s.r.l. unipersonale), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Carlo Emanuele Rossi e Francesco Paolo Francica, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Francesco Paolo Francica in Milano, via Principe Amedeo, n. 3; contro il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero delle politiche agricole alimentari forestali e del turismo, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti del fallimento della società Mythen s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Ottavio Grandinetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 87;la società Ital Bi-Oil s.r.l. e la società Cereal Docks s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituite in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (sezione seconda), n. 8483 del 26 luglio 2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’economia e delle finanze, del Ministero dello sviluppo economico, del Ministero delle politiche agricole alimentari forestali e del turismo, del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli nonchè del fallimento della società Mythen s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 marzo 2022 il consigliere Michele Conforti e uditi per le parti gli avvocati Francesco Paolo Francica, Ottavio Grandinetti e l’avvocato dello Stato Anna Collabolletta; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Giunge all’esame del Consiglio di Stato l’appello proposto dalla società Alpha Trading s.p.a. unipersonale (incorporante per fusione la società Oil.B. s.r.l.. unipersonale, ricorrente in primo grado) avverso la sentenza del T.a.r. per il Lazio, sez. II, 26 luglio 2018 n. 8483, che ha respinto il suo ricorso di primo grado. 2. L’odierna controversia ha ad oggetto la legittimità del d.m. del 17 febbraio 2015 n. 37 – “Regolamento recante modalità di applicazione dell'accisa agevolata sul prodotto denominato biodiesel, nell'ambito del programma pluriennale 2007-2010, da adottare ai sensi dell'articolo 22-bis del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504” - emanato: i) all’esito di due giudicati di questo Consiglio, nn. 812/2012 e 1120/2012, recanti l’annullamento dell’art. 4, comma 2, del regolamento del 25 luglio 2003 n. 256, e dell’art. 3, comma 4, del regolamento del 3 settembre 2008 n. 156, disciplinanti i criteri di assegnazione delle quote di biodiesel in regime fiscale di esonero; ii) in attuazione della sentenza n. 998/2014, sempre di questo Consiglio, che ha ordinato di concludere il procedimento di adozione della nuova disciplina regolamentare. 3. Si riassumono i fatti salienti dell’odierna controversia. 3.1. Per agevolare l’avviamento del mercato nazionale del biodiesel, sono stati predisposti tre programmi di agevolazioni fiscali di durata pluriennale, che hanno ricevuto l’approvazione preventiva della Commissione europea, ai sensi dell’art. 108, par. 3, T.F.U.E. 3.2. Con due sentenze, la n. 812/2012 e la n. 1120/2012, il Consiglio di Stato ha annullato talune disposizioni della relativa disciplina e, segnatamente, l’art. 4, comma 2, del d.m. n. 25 luglio 2003 n. 256 e l’art. 3, comma 4, del d.m. n. 156 del 3 settembre 2008, entrambe riguardanti i criteri di assegnazione ai produttori di biodiesel dei quantitativi di prodotto esenti dall’accisa prevista dalla legislazione vigente. 3.3. Il Ministero dell’economia e delle finanze ha adottato il d.m. n. 37 del 17 febbraio 2015, che ha riformulato le disposizioni annullate, nel dichiarato intento di conformarsi a queste sentenze, e ha previsto all’art. 3, la rideterminazione delle quote alle ditte precedentemente ammesse all’agevolazione, tenuto conto dei nuovi criteri individuati. 3.4. L’odierna appellante, nella qualità di beneficiaria delle quote agevolate di biodiesel, nell’ambito dei suddetti programmi di agevolazione fiscale, temendo di ricevere un’assegnazione minore di quote di biodiesel esonerato dall’accisa, ha impugnato il regolamento n. 37/2015 innanzi al T.a.r. per il Lazio, sede di Roma. 4. Con il ricorso di primo grado, la società ha enucleato plurimi motivi di illegittimità del regolamento. 5. Nel giudizio innanzi al T.a.r., si sono costituti, per resistere, il Ministero dell’economia e delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico, il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, nonché il fallimento della società Mythen s.p.a., mentre non si sono costituite la società Cereal Docks s.p.a. e la società Ital Bioil s.r.l.. 6. Con la sentenza n. 8483/2018, il T.a.r. per il Lazio ha respinto il ricorso e ha compensato le spese. 6.1. Segnatamente, il T.a.r.: a) ha ritenuto di non riunire il contenzioso in esame con altri parzialmente coincidenti ad esso, proprio in ragione della parziale diversità soggettiva e oggettiva delle cause, oltre che per la “diversità delle vicende processuali”; b) ha respinto il primo motivo di ricorso, non ravvisando la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990; c) ha respinto il secondo motivo di ricorso incentrato sull’asserita illegittimità del regolamento per incompetenza del Ministero dell’economia e delle finanze, ritenendo che la modifica dei criteri di assegnazione dell’aiuto autorizzato non costituisse una modifica dell’aiuto di Stato autorizzato dalla Commissione europea e non fosse pertanto da sottoporre nuovamente all’autorizzazione della medesima Commissione; d) ha respinto il terzo motivo di ricorso, ritenendo che le sentenze di annullamento del Consiglio di Stato del 2012 costituissero un giudicato validamente formatosi, non invasivo delle competenze della Commissione europea, come statuito dalla Corte di Cassazione, adita ai sensi dell’art. 111 Cost., con sentenza n. 20698 del 10 settembre 2013; e) ha respinto il quarto e il quinto motivo, proposti in via subordinata, richiamando le motivazioni con le quali è stato respinto il secondo motivo di ricorso; f) ha respinto il sesto motivo, evidenziando che: f.1) l’irretroattività dei provvedimenti normativi costituisce un principio inderogabile soltanto con riferimento alla legge penale e che, relativamente al d.m. in esame, non emergono profili di irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità; f.2) l’azione di recupero delle somme eventualmente non spettanti non si sarebbe prescritta, in ragione dei molteplici atti di interruzione della prescrizione, discendenti dai contenziosi instaurati anche nei confronti della società ricorrente; g) ha respinto il settimo motivo di ricorso, in quanto non vi sarebbe alcun legittimo affidamento tutelabile, in ragione della situazione di incertezza giuridica originata dai numerosi contenziosi intentati avverso i regolamenti poi annullati; h) ha respinto l’ottavo motivo di ricorso, richiamando le motivazioni di reiezione del secondo motivo di ricorso ed evidenziando la contraddittorietà del motivo di censura che richiamerebbe diversi pareri di questo Consiglio, senza chiarire rispetto a quale di questi il regolamento risulterebbe illegittimo; i) ha respinto il nono e il decimo motivo di ricorso, perché il regolamento non ripropone i criteri già annullati dal Consiglio di Stato con le sentenze nn. 812 e 1120 del 2012 (che peraltro non sono stati ritenuti irragionevoli in sé, ma per le modalità con le quali sono stati modulati per calcolare il beneficio spettante, modalità che sono state emendate con il nuovo regolamento che ha ridotto gli effetti discriminanti e penalizzanti nei confronti di taluni produttori); l) ha respinto l’undicesimo motivo, in quanto ritenuto contraddittorio o, comunque, generico. 7. Avverso la sentenza di primo grado ha proposto appello la società rimasta soccombente, articolando plurimi motivi di impugnazione. 7.1. In limine litis, l’appellante ha domandato la riunione dei giudizi d’appello, concernenti la medesima vicenda amministrativa dell’impugnazione del regolamento n. 37/2015. 7.2. In data 20 novembre 2018, si è costituita in giudizio l’amministrazione statale, resistendo all’appello e illustrando, successivamente le sue difese con la memoria del 10 aprile 2019. 7.3. In data 2 aprile 2019, si è costituito in giudizio il fallimento della società Mythen s.p.a., resistendo all’appello e illustrando le sue difese con la memoria del 12 aprile 2019. 7.4. In data 15 aprile 2019, anche la società Alpha Trading ha depositato una memoria difensiva. 7.5. Con l’ordinanza n. 3244 del 21 maggio 2019, questo Consiglio ha domandato all’amministrazione il deposito di una relazione “che dia conto del se, e in quali tempi, i regolamenti adottati con i decreti ministeriali 25 luglio 2003, n. 256, e 3 settembre 2008, n. 156, siano stati notificati ai competenti Organi dell’Unione europea, nonché, sotto il profilo di specie, di ogni altro elemento utile alla decisone”, assegnando un termine di sessanta giorni per il suo deposito. 7.6. Successivamente al deposito della relazione, avvenuto in data 19 luglio 2019, la società appellante e il fallimento della società Mythos hanno scambiato ulteriori scritti difensivi, anche in replica. 7.7. Con l’ordinanza n. 8300 del 4 dicembre 2019, il Collegio ha formulato alcuni quesiti di interpretazione pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., mentre con quella n. 3614 del 8 giugno 2020, si sono resi alcuni chiarimenti richiesti dalla Corte. 7.8. In vista dell’udienza camerale del 4 giugno 2020 (all’esito della quale è stata emessa la seconda ordinanza), l’appellante e la società appellata hanno depositato ulteriori scritti difensivi. 7.9. Con la sentenza del 28 ottobre 2021, C-917/2019, la Corte di giustizia, sezione V, ha affermato che: a) i criteri di assegnazione non costituiscono un elemento sul quale la Commissione ha fondato la sua autorizzazione delle precedenti versioni del regime di aiuti oggetto dei procedimenti principali (paragrafo 48); b) tali criteri non sono stati espressamente esaminati in alcuna delle decisioni della Commissione di autorizzazione degli aiuti (paragrafo 49) e l’esame di compatibilità del regime di aiuti si è basato su altri fattori (paragrafo 50); c) non risulta che la modifica ai criteri di assegnazione di cui al regolamento n. 37 del 2015 sia tale da incidere su un qualsiasi elemento delle valutazioni contenute nelle decisioni di autorizzazione (paragrafo 51); d) come risulta dall’art. 4, par. 1, prima frase, del regolamento n. 794/2004, la nozione di “modifica di un aiuto esistente” non coincide con qualsiasi modifica del regime giuridico disciplinante l’aiuto esistenze, bensì con “...quelle cha abbiano l’effetto di alterare la valutazione della compatibilità di tale aiuto con mercato interno” (paragrafo 51); e) a tale riguardo, la Corte di giustizia afferma che “gli elementi di cui dispone la Corte, che spetta al giudice del rinvio verificare, non sono diretti a dimostrare che tale modifica abbia rimesso in discussione l’obiettivo del regime di aiuti di cui trattasi, consistente nel ridurre i costi sostenuti dai produttori e dai miscelatori di biodisel oppure la conseguente valutazione della Commissione, secondo la quale, in quanto azione a favore delle energie rinnovabili e quindi a favore della tutela dell’ambiente, il regime di aiuti, tanto nella sua versione iniziale quanto nelle sue versioni modificate, era e continua ad essere compatibile con il diritto dell’Unione” (paragrafo 56). 7.10. In vista dell’udienza del 17 marzo 2022, l’appellante e il fallimento della società Mythen hanno depositato una memoria difensiva in data 14 febbraio 2022 (quest’ultima società anche una memoria di replica in data 24 febbraio 2022). 7.11. Con la memoria del 14 febbraio 2022, l’appellante evidenzia che il decisum della Corte di giustizia demanderebbe a questo Consiglio una serie di accertamenti di fatto, ai quali sarebbe ancorata l’applicazione del principio di diritto enunciato dalla Corte (segnatamente, gli accertamenti individuati nei par. 45 e 56 della sentenza). 7.12. L’appellante opina, relativamente a tali accertamenti, che da essi discenderebbe che il d.m. 37/2015 determinerebbe un’illegittima modifica dell’aiuto di Stato originariamente concesso, in quanto non notificata previamente alla Commissione. 7.13. A tale memoria, ha replicato il fallimento della società Mythen, rimarcando, in particolare, che la Corte di giustizia avrebbe già operato il giudizio di compatibilità euro-unitaria del regolamento n. 37/2015 con la disciplina degli aiuti di Stato. 8. All’udienza del 17 marzo 2022, la causa è stata trattenuta per la decisione. 9. In via preliminare, con la doglianza enumerata come prima, l’appellante si duole della mancata riunione delle controversie n.r.g. 7372/2015, 7374/2015, 7371/2015, 5536/2016 e 5537/2016, tutte riguardanti l’asserita illegittimità del regolamento n. 37/2015. 9.1. La doglianza è infondata. 9.2. Costituisce un principio di diritto consolidato, dal quale il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi con riferimento al caso in esame, quello secondo cui “la riunione dei ricorsi connessi attiene ad una scelta facoltativa e discrezionale del giudice, come si desume dalla formulazione testuale dell'art. 70 del D.Lgs. n. 104/2010, con la conseguenza che i provvedimenti adottati al riguardo hanno carattere meramente ordinatorio, sono privi di valenza decisoria e restano conseguentemente insindacabili in sede di gravame con l'unica eccezione del caso in cui la medesima domanda sia proposta con due distinti ricorsi dinanzi al medesimo giudice” (ex multis, Cons. Stato sez. VI, 1 luglio 2021, n. 5008; sez. VI, 16 marzo 2020, n. 1840). 9.3. Quanto poi alla possibilità di esercitare il relativo potere di riunione con riferimento al giudizio di appello, il Collegio ritiene maggiormente opportuno tenere distinte le decisioni sulle singole controversie. 9.4. La doglianza va dunque respinta. 10. Può ora procedersi all’esame del secondo, del terzo e del quarto motivo di appello che si prestano ad una disamina congiunta, in quanto prospettano la medesima questione giuridica sia pure inquadrata diversamente. 10.1. Con il secondo motivo di appello, la società si duole della sentenza di primo grado per non aver accertato l’illegittimità del nuovo regolamento, il quale, costituendo una modifica di quello autorizzato dalla Commissione europea, andava nuovamente sottoposto a quest’ultima per la relativa autorizzazione. 10.2. Con il terzo motivo di appello, la società censura la sentenza per non aver dichiarato che non vi era alcun giudicato al quale il regolamento emanato era chiamata a dare attuazione, in quanto ogni valutazione circa un aiuto di Stato “rientra nella competenza esclusiva della Commissione, che agisce sotto il controllo dei giudici dell’Unione”. 10.3. Con il quarto motivo di appello, proposto in via subordinata, si deduce l’illegittimità del regolamento, perché esso prevedrebbe la possibile ed eventuale riassegnazione degli aiuti ricevuti otto anni prima. Tale riassegnazione costituirebbe, per l’appellante, un’illegale proroga degli aiuti di Stato previsti e autorizzati dalla Commissione in precedenza e con una durata temporale limitata. 10.4. I motivi in esame sono infondati. 10.5. Con le ordinanze n. 8300/2019 e 3614/2020, la Sezione ha richiesto l’interpretazione pregiudiziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, domandando se “costituisca aiuto di Stato, come tale soggetto all’onere di previa notifica alla Commissione europea, un atto normativo secondario quale il regolamento adottato con il d.m. n. 37/2015 qui impugnato che, in diretta esecuzione di sentenze del Consiglio di Stato recanti il parziale annullamento dei regolamenti precedenti già comunicati alla Commissione, abbia inciso “ora per allora” sulle modalità di applicazione dell'accisa agevolata sul biodiesel modificando retroattivamente i criteri di riparto del beneficio fra le imprese richiedenti senza estendere la durata temporale del programma di agevolazioni fiscali”. 10.6. A tale quesito, la Corte di Giustizia ha fornito la seguente interpretazione pregiudiziale: “Gli articoli 107 e 108 TFUE nonché le disposizioni di cui al regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell'articolo 108 ITFUEI, come modificato dal regolamento (UE) n. 734/2013 del Consiglio, del 22 luglio 2013, e al regolamento (CE) n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del regolamento n. 659/1999, devono essere interpretati nel senso che una modifica di un regime fiscale agevolato per il biodiesel, autorizzato dalla Commissione europea, non deve essere considerata come un nuovo aiuto soggetto all'obbligo di notifica, ai sensi dell'articolo 108, paragrafo 3, TFUE, qualora tale modifica consista nel cambiare, con effetto retroattivo, i criteri di assegnazione delle quote di biodiesel che beneficiano di un'aliquota di accisa agevolata in base a tale regime, in quanto la suddetta modifica non incide sugli elementi costitutivi del regime di aiuti interessato, quali esaminati dalla Commissione ai fini della sua valutazione sulla compatibilità delle versioni precedenti di detto regime con il mercato interno.”. 10.7. La testuale e perspicua risposta della Corte di Giustizia non lascia adito a dubbio alcuno sull’infondatezza della doglianza prospettata dall’appellante. 10.8. Invero, l’appellante ritiene che la sentenza della Corte di giustizia demanderebbe a questo Consiglio di svolgere degli accertamenti su taluni aspetti enucleati ai paragrafi 45 e 56 della suddetta pronuncia, ossia che: - “la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali non incide né sulla cerchia dei beneficiari che, precedentemente, era stata ammessa al beneficio del regime agevolato, né sulla dotazione finanziaria del regime di aiuti autorizzato dalla Commissione con la decisione di autorizzazione del 2008 e non estende la durata di tale regime […] non incide neppure sulla definizione del prodotto che beneficia di un’aliquota di accisa agevolata né sulla aliquota stessa” (cfr. par. 45); - “la modifica introdotta dal nuovo regolamento non abbia rimesso in discussione l’obiettivo del regime di aiuti di cui trattasi di ridurre i costi per i produttori e per i miscelatori di biodiesel in favore delle energie rinnovabili, della tutela dell’ambiente e continui ad essere compatibile con il diritto dell’Unione” (cfr. par. 56). 10.9. Benché l’assunto da cui muove la tesi di parte appellante sia destituito di fondamento, in considerazione dell’inequivocabile tenore letterale della sentenza interpretativa resa dalla Corte di giustizia, il collegio evidenzia come le deduzioni di parte appellante siano anche infondate, qualora si volesse procedere secondo le coordinate da cui muove l’appellante. 10.9.1. In dettaglio, relativamente all’accertamento asseritamente demandato al paragrafo 45 della sentenza, il collegio rileva che: 1) la cerchia dei beneficiari rimane immutata, modificandosi, in astratto, soltanto la ripartizione dei benefici tra di loro e, in ogni caso, l’appellante non ha dimostrato il contrario, come avrebbe dovuto, secondo le regole sulla ripartizione dell’onere della prova; 2) la dotazione finanziaria rimane pressoché immutata, poiché ciò che eventualmente viene a rimodularsi è la ripartizione fra i beneficiari, e, in ogni caso, l’appellante non ha dimostrato il contrario, secondo le regole sulla ripartizione dell’onere della prova; 3) la durata del regime di aiuto di Stato è rimasta immutata e, in ogni caso, l’appellante non ha dimostrato il contrario, come era suo onere fare secondo le regole sulla ripartizione dell’onere della prova; 4) il prodotto beneficiato rimane lo stesso, perché i regolamenti espressamente autorizzati dalla Commissione agevolavano il prodotto "biodiesel" e così fa anche il regolamento del 2015, né viene modificata l’aliquota fiscale applicata al prodotto che beneficia dell’agevolazione. 10.9.2. In relazione all’accertamento asseritamente demandato al paragrafo 56 della sentenza, il collegio rileva che: a) quanto all’obiettivo di ridurre i costi “per i produttori” (e non come opina l’appellante, per il singolo produttore, guardando alla sua sola posizione), esso non muta in ragione di una differenziazione, peraltro neppure particolarmente marcata, dei criteri di assegnazione delle quote di beneficio fiscale e, in ogni caso, non è allegato o comprovato, da parte dell’appellante, che ciò avvenga; b) quanto all’obiettivo di aiutare l’ambiente, sostenendo la produzione del carburante biodiesel, essa non muta con il nuovo regolamento, poiché la nuova ripartizione delle risorse sulla base dei nuovi criteri non cambia certo l’obiettivo finale e, in ogni caso, non viene argomentato e dimostrato il contrario dall’appellante. 10.10. Infine, in ordine al rilievo secondo cui la riassegnazione degli aiuti si tradurrebbe in un’illegale proroga del relativo regime, si evidenzia, da un lato, che si tratta di un aspetto comunque valutato dalla Corte di giustizia e non ritenuto ostativo all’applicazione della disciplina nazionale e, dall’altro, che la diversa eventuale ripartizione delle quote spettanti “ora per allora” non proroga affatto il regime degli aiuti accordati, ma effettua soltanto una differente ripartizione, a posteriori, di quelli fruiti negli anni in cui detto beneficio è stato autorizzato dalla Commissione. 11. Con il quinto motivo di appello, si ripropone criticamente la doglianza relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento. 11.1. Il quinto motivo di appello è infondato. 11.2. Il collegio evidenzia, preliminarmente, che le censure articolate dall’appellante nel motivo di appello divisato non scalfiscono la robusta e argomentata motivazione del T.a.r.. 11.3. Tuttavia, è doveroso soggiungere a quest’ultima una notazione di carattere generale che risulta di per sé dirimente ai fini della reiezione della doglianza di parte appellante. 11.4. In base all’art. 13 della legge n. 241/1990 “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione”, sicché risulta evidente che la garanzia partecipativa è espressamente esclusa dalla legge. 12. Con il sesto motivo di appello, si grava la sentenza di primo grado, perché non avrebbe dichiarato l’illegittimità del regolamento impugnato, che avrebbe illegittimamente riconosciuto alla società Mythen un beneficio maggiore rispetto a quello fatto valere innanzi al giudice amministrativo e culminato nelle menzionate sentenze di annullamento del Consiglio di Stato del 2012. 12.1. Il sesto motivo di appello è infondato. 12.2. Con la sua domanda di annullamento delle disposizioni contenenti le norme disciplinanti i criteri di assegnazione delle quote di biodiesel esentate dal pagamento dell’accisa prevista dalla legge, la società Mythen, successivamente dichiarata fallita, mirava a conseguire, contrariamente a quanto opina l’appellante, proprio l’utilità finale di una maggiore assegnazione del contingente di aiuto di Stato previsto. 12.3. L’eventuale riassegnazione di una quota maggiore è dunque consentanea all’utilità che la predetta società ha perseguito attraverso la proposizione della domanda di annullamento dei precedenti criteri di assegnazione. 12.4. La doglianza di parte appellante risulta poi infondata anche per un’ulteriore ragione. 12.5. Il regolamento impugnato non ha affatto riconosciuto “un beneficio maggiore”, ma si è limitato a ridefinire i criteri di assegnazione delle quote di biodiesel esenti dall’applicazione dell’accisa, in attuazione degli effetti conformativi delle motivazioni delle sentenze di annullamento del 2012 13. Con il settimo motivo di appello (che l’appellante numera “nuovamente” come “sesto”), si ripropone criticamente la censura di illegittimità del regolamento per la violazione del principio di irretroattività del provvedimento amministrativo. 13.1. Si censura, altresì, il capo della sentenza che ha respinto le deduzioni di primo grado relative alla maturata prescrizione dell’azione di recupero: “i giudizi citati dal Tar adito in primo grado non sono suscettibili di interrompere il termine prescrittivo dal momento che non avevano ad oggetto i pretesi crediti cui fa riferimento il Tar, ma avevano ad oggetto tutt’altre questioni”. 13.1.1. Il Collegio evidenzia che questa censura viene poi ulteriormente ampliata con il decimo motivo (erroneamente indicato come “nono”), con il quale si censura la sentenza nella parte in cui non ha dato espressamente contezza del fatto che il diritto alla riscossione dei diritti doganali risulta oramai estinto per prescrizione, e non si è pertanto avveduta che la prevista misura di riassegnazione delle accise, non potrebbe trovare attuazione, neppure in astratto. 13.2. Il settimo motivo è infondato. 13.3. Quanto alla prima censura, il Collegio rileva la correttezza del capo della sentenza di primo grado che ha rimarcato come l’irretroattività sia un predicato assoluto e irrefragabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi. 13.4. In proposito, è sufficiente ricordare i principi e la corposa giurisprudenza che vi ha dato attuazione in materia di “tetti di spesa”, in base ai quali la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità (così, ex multis, Cons. Stato, Ad. pl., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; sez. III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n.. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; sez. V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Ad. pl., 2 maggio 2006 n. 8). 13.5. Nel caso di specie, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi sono la risultante dell’avvenuto annullamento, in parte qua, dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti. 13.5.1. Seguendo il ragionamento di parte appellante, l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione. 13.5.2. La tesi non merita accoglimento e contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento. 13.5.3. Quanto avvenuto costituisce, infatti, piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata dall’art. 4, comma 2, del d.m. n. 25 luglio 2003 n. 256, e dall’art. 3, comma 4, del d.m. n. 156 del 3 settembre 2008 (in quanto regolamenti in parte qua illegittimi), ma quella delineata dal regolamento n. 37/2015, attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia. 13.6. La prima censura va pertanto respinta. 13.7. Quanto alla seconda censura del settimo motivo di appello e al decimo motivo di appello, il Collegio ritiene che questi mezzi di impugnazione non possano essere accolti per una motivazione diversa da quella esternata dal T.a.r.. 13.8. Il Collegio evidenzia che nel presente giudizio si controverte della legittimità o meno del regolamento emanato con il d.m. n. 37/2015, mentre la doglianza di parte ha ad oggetto la prescrizione o la decadenza dalle eventuali azioni di ripetizione o di riscossione delle somme erogate in precedenza alla società odierna appellante. 13.9. Questa problematica esula completamente dal thema decidendum dell’odierno giudizio che non riguarda questi eventuali e futuri atti di riscossione o ripetizione delle somme, e rende, pertanto, la censura proposta in primo grado e criticamente ribadita innanzi a questo Consiglio inammissibile per carenza di interesse ad agire. 13.10. La seconda censura del settimo motivo e il decimo motivo di appello sono pertanto inammissibili. 13.11. Il settimo motivo di appello va pertanto rigettato, unitamente al decimo motivo. 14. Con l’ottavo motivo (erroneamente indicato come “settimo”), si grava la sentenza per non aver pronunciato l’annullamento del regolamento impugnato, che lederebbe il legittimo affidamento. 14.1. Secondo parte appellante, contrariamente a quanto affermato dal T.a.r., “Le posizioni in parola si sono consolidate dal momento in cui sono state legittimamente assegnate le quote”. 14.2. L’ottavo motivo di appello è infondato. 14.3. Invero, la tutela del legittimo affidamento è ormai considerato un canone ordinatore anche dei comportamenti delle parti coinvolte nei rapporti di diritto amministrativo. 14.4. In linea generale, in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021). 14.5. I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). 14.6. Ebbene, con riferimento al caso in esame, i giudizi di annullamento culminati nelle sentenze nn. 812/2012 e 1120/2012 si sono svolti anche nei confronti dell’odierna appellante, intimata in qualità di contro interessata e, dunque, pienamente a “conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento”. 15. Con il nono motivo (erroneamente indicato come ottavo), si ripropone criticamente la censura relativa alla mancanza dell’analisi tecnico normativa (A.T.N.) e l’analisi di impatto della regolamentazione (A.I.R.), rimarcandosi che si tratterebbe di un vizio rilevante dell’istruttoria, comportante l’illegittimità del provvedimento gravato. 15.1. Il nono motivo è inammissibile. Il Collegio rileva che il T.a.r. ha respinto la relativa censura di primo grado, rilevando che “le modifiche da questo introdotte sono da riconnettersi a fonti regolamentari che, per le parti non annullate dalle sentenze n. 812 e n. 1120, rimangono pienamente vigenti e rispetto alle quali non vi è contestazione in ordine alla completezza del relativo procedimento di formazione”. 15.2. Questa statuizione della sentenza di primo grado è rimasta pressoché inoppugnata, in quanto l’appellante si è limitata ad affermare che “Non si riesce a comprendere come sia possibile per il Tar statuire che un D.M. è sintomaticamente affetto da carenza di istruttoria ma ciononostante si tratterebbe di un vizio «minore»”, senza svolgere alcuna contestazione di ordine logico o giuridico alla suesposta dirimente motivazione enunciata dal Decidente. 15.3. La società non si sofferma, infatti, sulla peculiarità dell’intervento normativo sub iudice, consistito in una doverosa riedizione del potere regolamentare, resasi necessaria con specifico riferimento alle sole disposizioni annullate dalle citate sentenze del 2012 di questo Consiglio, compulsata dal giudicato formatosi all’esito del processo di ottemperanza concluso dalla sentenza di questo Consiglio del 2014 e circoscritta alla sola rideterminazione dei parametri numerici dei criteri di assegnazione delle risorse. 15.4. Tali circostanze puntualmente messe in rilievo dal T.a.r. non risultano scalfite dalla contestazione di parte, che, in buona sostanza, riproduce, con diversa formulazione linguistica, quanto già dedotto in primo grado. 16. La reiezione del decimo motivo di appello, esaminato unitamente alla seconda censura del settimo motivo di appello, permette di procedere alla disamina dell’undicesimo motivo, con il quale si grava il capo della sentenza che non ha ritenuto “irragionevoli” i nuovi criteri di assegnazione fissati dal d.m. n. 37/2015, che premierebbe, secondo la prospettazione di parte, chi, come la società Mythen, che ha agito nei due giudizi avverso i regolamenti del 2003 e del 2008, non ha immesso “sul mercato tutto il quantitativo di biodiesel prodotto (preferendo verosimilmente venderlo all’estero)”, ma vanta semplicemente una maggiore capacità produttiva in relazione agli impianti di cui dispone. Per l’appellante sarebbe errato, in particolare, il punto della motivazione nel quale si afferma che la nuova normativa sarebbe stata prevista “al fine di eliminare, o quanto meno di ridurre al massimo, gli effetti discriminatori e penalizzanti nei confronti di determinati produttori”, in quanto gli effetti distorsivi della concorrenza sarebbero, in realtà, connaturati alla disciplina degli aiuti di Stato (che proprio in ragione di ciò sono oggetto di una peculiare procedura autorizzativa a livello euro-unitario). 16.1. L’undicesimo motivo di appello è infondato. 16.2. In buona sostanza, con il motivo di appello formulato la società tende a censurare, attraverso il capo della sentenza individuato, il merito dell’attività normativa compiuta dall’amministrazione. 16.3. Censurare come fa l’interessata la diversa graduazione dei criteri di ripartizione delle risorse, si palesa inammissibile per plurime ragioni. 16.3.1. In primo luogo, l’appellante tende ad obliterare che l’attività normativa è scaturita e tiene doverosamente conto delle motivazioni delle sentenze di annullamento nn. 812/2012 e 1120/2012, dei precedenti criteri di ripartizione delle risorse, cosicché la discrezionalità amministrativa, espressa in sede normativa, risulta orientata dalle motivazioni, intangibili, dei richiamati giudicati di annullamento. 16.3.2. In secondo luogo, poi, va rilevato come le censure di parte si risolvano, in buona sostanza, in una contestazione di irragionevolezza delle scelte compiute dall’amministrazione e come in un risalente precedente di questo Consiglio si siano affermati i principi, tuttora pienamente condivisibili, secondo cui: i) “ai fini del sindacato di legittimità non ci si deve chiedere se un certo valore, isolatamente considerato, sia stato sacrificato, ma ci si deve chiedere piuttosto se il sacrificio sia “ragionevole” tenuto conto della pluralità di valori e della necessità di stabilire un equilibrio fra loro”; ii) “altro è affermare l’illegittimità di un atto manifestamente irragionevole, e altro è dire che ogni atto che appare per qualche verso criticabile, discutibile, poco convincente, sia da ritenere, per ciò solo, irragionevole e dunque illegittimo” (Cons. Stato, Ad. pl., 6 febbraio 1993, n. 3). 16.4. In base ai suesposti principi risulta evidente che la censura di parte sconfina, invadendolo, nel c.d. “merito” dell’amministrazione, ossia in quelle valutazioni di opportunità (massime in un provvedimento normativo) che sfuggono al sindacato di questo giudice – eccedendo dai tassativi casi di giurisdizione estesa al merito sanciti dall’art. 134 c.p.a. - in quanto espressione della legittima scelta dell’amministrazione fra più opzioni disponibili per il perseguimento del fine pubblico attribuito dalla legge. 17. Con il dodicesimo motivo (erroneamente indicato come “undicesimo”), si censura la sentenza appellata, perché non si avvede del fatto che il d.m. n. 37/2015 non potrebbe “in alcun modo concretizzarsi in una riassegnazione delle accise, trattandosi di diritti prescritti e ormai definitivi” e perché non si sarebbe avveduta del fatto che il d.m. n. 37/2015 pretende di utilizzare, per procedere alla riassegnazione del contingente di diesel esentato dalle accise, i dati reali numerici inerenti al periodo di applicazione del precedente aiuto di stato, “fingendo di poterli depurare dall’influenza delle regole già annullate dal giudice nazionale”. 17.1. Il motivo va esaminato limitatamente alla seconda censura articolata, in quanto la prima costituisce la reiterazione della doglianza variamente articolate con la seconda censura del settimo motivo di appello e con il decimo motivo di appello e già respinta ai §§ 13.7. – 13.10. di questa sentenza. 17.2. La seconda censura del motivo in esame è infondata. 17.3. La censura si salda in parte con quella inerente alla pretesa irretroattività dell’attività regolatoria dell’amministrazione e in parte con quelle relativa alla lesione del legittimo affidamento, per poi sviluppare considerazioni autonome sull’illegittimità di una disciplina “ora per allora” che non terrebbe conto del fatto che il precedente assetto regolatorio avrebbe indirizzato le scelte imprenditoriali e produttive degli operatori economici così “falsando” quei dati economici che ora pretenderebbe di applicare. 17.4. L’assunto tuttavia non merita accoglimento in considerazione di due distinti assunti, da considerarsi unitariamente. 17.5. Il primo assunto, riguarda il riconoscimento da parte della giurisprudenza di un potere regolatorio e provvedimentale “ora per allora” dell’amministrazione. 17.5.1. Si è affermato, in precedenti, di questo consiglio che: a) “…è utile ribadire che il giudicato comporta effetti eliminatori, con cui l’atto illegittimo è eliminato dal sistema con effetti retroattivi; ripristinatori, per adeguare lo stato di fatto e di diritto successivo all’atto illegittimo, con l’adozione di un atto amministrativo retroattivo idoneo a consentire “ora per allora” il raggiungimento della finalità indicata nella sentenza; conformativi, con cui, valorizzando la motivazione della sentenza, si individua il modo corretto di ri-esercizio del potere a seguito dell’annullamento (Cons. Stato, sez. VI, 26 marzo 2014, n. 1742)” (Cons. Stato, sez. V, 30 marzo 2021, n. 2670); b) “In sede di esecuzione di una sentenza di annullamento, l'Amministrazione a volte deve e a volte può emanare un atto avente effetti “ora per allora”. Ad esempio…quando si tratti di colmare il “vuoto” conseguente alla sentenza amministrativa che abbia annullato con effetti ex tunc un atto generale, l'Amministrazione ben può determinare ovvero applicare “ora per allora” il sopravvenuto provvedimento, quando sia stato annullato un provvedimento impositivo di prezzi, di tariffe o di aliquote (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 21 ottobre 1997, n. 1145 e, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4487; Cons. St., sez. III, 7 marzo 2016, n. 927; Cass., Sez. Un., 1 ottobre 1982, n. 5030)” (Cons. Stato, sez. VI, 6 aprile 2018, n. 2133); c) “6.8. Non risulta condivisibile il presupposto dal quale muove la ricorrente, poiché l’Autorità, nel riesercitare il proprio potere ora per allora, ben può modificare aspetti della precedente delibera che, per quanto non direttamente interessati dalla pronuncia, riconducano a coerenza l'intero assetto della scelta regolatoria solo parzialmente incisi dall'annullamento. […] 6.10. Nel richiamare i principi consolidati in questa materia il Collegio osserva che, nella “riedizione del potere regolatorio”, l’Autorità nei limiti conformativi scaturenti dal giudicato può rivedere autonomamente anche decisioni in precedenza prese e non incise dal giudicato affinché, nel rispetto del dictum giudiziale, la nuova ponderazione valutativa degli interessi in gioco preservi l'unità e la coerenza del sistema prima adottato, secondo ben determinati criteri tecnico-discrezionali” (Cons. Stato, sez. III, 27 ottobre 2016, n. 4512); 17.5.2. Il quadro così delineato inclina a ritenere che l’amministrazione disponga di un ampio potere regolatorio anche sui profili di intervento più schiettamente collegati al parametro temporale, potendo tratteggiare una disciplina capace di retroagire nei suoi effetti giuridici e materiali senza che ciò comporti di per sé l’illegittimità della scelta compiuta. 17.5.3. Del resto, un simile assunto è tanto più vero e, anzi, forse addirittura necessitato, allorquando intervenga il giudicato di annullamento, la cui portata demolitoria retroattiva, che elide il quadro giuridico precedentemente prefigurato e rende, pertanto, privo di una copertura normativa il quadro fattuale venutosi a creare in attuazione di quella previgente disciplina, si salda con i necessari effetti ripristinatori che impongono di trovare una nuova sistemazione giuridica per quell’assetto di interessi e (ri)adattare, perciò, lo stato “di fatto” a quello “di diritto”. 17.5.4. Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie, dove una parte del regolamento (alcuni parametri dei criteri di assegnazione delle quote di biodiesel esenti da accisa), necessario per l’assegnazione delle risorse costituenti aiuti di Stato, di cui all’art. 22-bis del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, è venuto meno ad opera dei giudicati di questo Consiglio del 2012, e ha reso necessario, anche in ragione del giudicato di ottemperanza di questo Consiglio del 2014, che si regolasse nuovamente l’aspetto della ripartizione delle risorse per dare copertura normativa all’assetto di interessi attuato in passato dall’amministrazione de jure (ma in base ad una normazione illegittima), ma in ragione della pronuncia di annullamento divenuto de facto (e dunque non più giustificato, ma da doversi regolare sulla base di un’altra fonte normativa). 17.5.5. Quanto appena affermato si salda con i principi e con le motivazioni innanzi espresse a proposito dell’asserita necessaria irretroattività dell’attività regolatoria e provvedimentale dell’amministrazione, che qui si hanno dunque richiamate per relationem e che corroborano la declaratoria di infondatezza del rilievo di parte. 17.6. Il secondo assunto, fa leva sul principio di autoresponsabilità, affermato in molteplici occasioni dalla giurisprudenza e che deve orientare le condotte di ogni soggetto di diritto, ivi compreso l’imprenditore. Si è affermato, in precedenti, di questo consiglio che: a) in base al richiamato principio generale dell’autoresponsabilità, ciascuno dei concorrenti “sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell’offerta e nella presentazione della documentazione” (Cons. Stato, Ad. pl., 25 febbraio 2014 n. 9). b) “Il principio dell'autoresponsabilità costituisce il cardine fondamentale dell'intera disciplina in materia di dichiarazioni sostitutive con la conseguenza che al privato è precluso di trarre qualsivoglia vantaggio da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero, e l'amministrazione pubblica è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità, a prescindere dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante” (Cons. Stato, sez. III, 20 luglio 2020, n. 4634); c) “L'art. 30 del D.Lgs. n. 104/2010, operando una ricognizione dei principi civilistici in tema di causalità giuridica e di principio di autoresponsabilità, sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, anche processuale, contraria al principio di buona fede e al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati, recide il nesso causale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la presunta condotta antigiuridica alle conseguenze risarcibili” (Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2021, n. 962). 17.7. L’imprenditore che è a conoscenza dell’avvenuta impugnazione del regolamento e, in particolare, di quelle disposizioni che riguardano la ripartizione delle risorse (e, dunque, le quote spettanti e quelle che spetteranno) non può dolersi di aver “ragionevolmente” e “legittimamente” confidato (cioè “fatto affidamento”) sull’intangibilità di quelle risorse, potendo (ove lo ritenga opportuno) orientare la sua attività produttiva, tenendo conto delle conseguenze che potrebbero scaturire da un eventuale annullamento dell’atto regolatorio e dalla successiva individuazione di diversi criteri di ripartizione delle quote di aiuto di Stato erogate. 17.8. Quanto appena affermato si salda con i principi e con le motivazioni innanzi espresse a proposito dell’asserita lesione del legittimo affidamento, che qui si hanno dunque richiamate per relationem e che corroborano la declaratoria di infondatezza del rilievo di parte. 18. In conclusione, in ragione delle suesposte considerazioni, l’appello va respinto. 19. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello n.r.g. 8813/2018, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado. Condanna l’appellante alla rifusione, in favore di ciascuna delle due parti appellate costituite, delle spese del giudizio che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%) se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere Michele Conforti, Consigliere, Estensore Vito Poli, Presidente Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Giuseppe Rotondo, Consigliere Michele Conforti, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Energia elettrica – Biodisel – Regolamento n. 37 del 2015 - Retroattività – Legittimità.  Risarcimento danni – Affidamento – Annullamento regolamento – Condizione.           E’ legittimo il d.m. 17 febbraio 2015 n. 37 – recante “Regolamento recante modalità di applicazione dell'accisa agevolata sul prodotto denominato biodiesel, nell'ambito del programma pluriennale 2007-2010, da adottare ai sensi dell'articolo 22-bis del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 – atteso che il riesercizio del potere regolamentare dell’amministrazione si è realizzato legittimamente in ottemperanza ai giudicati del Consiglio di Stato e non poteva non implicare una rideterminazione dei coefficienti sulle quote di biodiesel fiscalmente agevolato già assegnate nelle annualità del programma trascorse (1).             La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato da un regolamento, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento (2).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’irretroattività sia un predicato assoluto e irrefragabile della sola legge penale, mentre, nei limiti della ragionevolezza, della proporzionalità e della tutela del legittimo affidamento, sia gli atti normativi (ai quali si iscrive oramai pacificamente il regolamento) sia i provvedimenti amministrativi possono dispiegare effetti retroattivi.  In proposito, è sufficiente ricordare i principi e la corposa giurisprudenza che vi ha dato attuazione in materia di “tetti di spesa”, in base ai quali la determinazione in corso d’anno dei “tetti di spesa”, che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate, non può considerarsi, in quanto tale, affetta da illegittimità (così, ex multis, Cons. Stato, Ad. pl., 12 aprile 2012 n. 3 e 4; sez. III, 7 marzo 2012, n. 1289; 23 dicembre 2011, n. 6811; 7 dicembre 2011, n. 6454; 17 ottobre 2011, n. 5550; 29 luglio 2011, n. 4529; sez. V, 8 marzo 2011, n. 1431; 28 febbraio 2011, n. 1252; Ad. pl., 2 maggio 2006 n. 8).   Nel caso di specie, peraltro, gli asseriti illegittimi effetti retroattivi sono la risultante dell’avvenuto annullamento, in parte qua, dei precedenti regolamenti e dei criteri “distributivi” in essi previsti.  Né si potrebbe ritenere che l’annullamento di un regolamento dalla cui immediata applicazione sono derivati determinati effetti giuridici e materiali reversibili dovrebbe comunque rimanere privo di ricadute concrete, poiché le precedenti assegnazioni di risorse, sia pure avvenute sulla scorta di criteri illegittimi, non potrebbero essere rimesse in discussione.  Tale tesi contraddice i principi basilari del processo amministrativo e dell’azione di annullamento.  Quanto avvenuto costituisce, infatti, piena esplicazione degli effetti c.d. ripristinatori e quindi fisiologicamente retroattivi del giudicato di annullamento (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. nn. 5 del 2019, 1 del 2018, 4 e 5 del 2015; Corte di giustizia UE, sez. II, 14 maggio 2020, C-15/19), il quale, nei limiti del noto brocardo secondo cui factum infectum fieri nequit, tende a riportare la situazione “di fatto” a conformità con quella “di diritto”, la quale ultima, evidentemente, non era quella prefigurata dall’art. 4, comma 2, del d.m. n. 25 luglio 2003 n. 256, e dall’art. 3, comma 4, del d.m. n. 156 del 3 settembre 2008 (in quanto regolamenti in parte qua illegittimi), ma quella delineata dal regolamento n. 37/2015, attuativo dei principi formulati da questo Consiglio con i giudicati di annullamento del 2012 e ritenuti compatibili con la disciplina euro-unitaria dalla sentenza della Corte di giustizia.        (2) Ha chiarito la Sezione che in materia di responsabilità dell’amministrazione per lesione del legittimo affidamento, si è affermato che “la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole, poi annullato in sede giurisdizionale, postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento” (Cons. Stato, Ad. pl., 29 novembre 2021, n. 21; sulla stessa linea in precedenza Ad. plen., n. 19 del 2021).       I principi suesposti sono chiaramente estensibili anche al giudizio di annullamento, nel quale si controverta dell’asserita illegittimità di una soluzione regolamentare o provvedimentale approntata dall’amministrazione, in quanto essi sono riferiti alla qualificazione dell’affidamento come “legittimo” e, dunque, al predicato (fondamentale, ai fini della tutela in giudizio) di ciò che costituisce oggetto della tutela accordata dall’ordinamento (non l’affidamento “in sé e per sé”, ma l’affidamento in quanto, soggettivamente ed oggettivamente, “legittimo”). 
Energia elettrica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-tar-lazio-si-pronuncia-sul-piano-regolatore-dell-offerta-del-formaggio-parmigiano-reggiano-per-il-triennio-2017-2019
Il Tar Lazio si pronuncia sul Piano Regolatore dell’offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019
N. 01199/2020 REG.PROV.COLL. N. 01709/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1709 del 2017, integrato da motivi aggiunti, proposto da Società Agricola Delsante Elvezio e Saverio S.S., Società Agricola Tenuta di Rimale S.S., Cascina Big Dream di Rasotto e Negrello Società Semplice Agricola S.S., Vittorio Perteghella, Corrado Gonzaga, Carlo Mozzi, Azienda Agricola Boselli Aldo e Gianni S.S., Azienda Agricola Pezzani Alberto e Piero S.S., Gabriella Gandolfi, Marco Zoppi, Massimo Granelli, Cantone Società Agricola S.S., Società Agricola Bertona S.S., A.A. Pigozza di Vecchia Orlando e Figli Società Agricola S.S., Enrico Aimi, Mariano Tiso, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Mario Libertini, Marco Saverio Spolidoro, Andreina Scognamiglio, con domicilio eletto presso lo studio Mario Libertini in Roma, via Boezio 14; contro Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, rappresentato e difeso dall'avvocato Saverio Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza San Lorenzo in Lucina, 26; per l'annullamento Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: 1. del Piano di Regolazione dell'Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato con Decreto del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali n. 6762 del 15 Dicembre 2016; 2. di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale, ancorché non conosciuto. Per quanto riguarda i motivi aggiunti depositati in data 06.11.2017; del Piano di Regolazione dell'Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato nella versione integrata con le modifiche proposte dal Consorzio di tutela con nota n. 22 del 4 aprile 2017, con Decreto del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali n. 5320 del 19 settembre 2017 nonché di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale, ancorché non conosciuto. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da SOCIETÀ AGRICOLA DELSANTE ELVEZIO E SAVERIO S.S. il 28/1/2019: Annullamento del D.M. 21 dicembre 2018, n. 12551 avente ad oggetto modifiche integrative al Piano di Regolazione dell'Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, richieste dal relativo Consorzio di tutela con nota n. 79 del 28 giugno 2018 nonché di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale, ancorché non conosciuto. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e di Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 ottobre 2019 la dott.ssa Maria Laura Maddalena e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno impugnato, al fine di ottenerne l’annullamento totale o parziale previa adozione di idonee misure cautelari, il Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato con Decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali n. 6762 del 15 dicembre 2016. Con i ricorsi per motivi aggiunti del 6.11.2017 e 28.01.2019, i ricorrenti hanno impugnato inoltre il Piano di Regolazione dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato, nella versione integrata con le modifiche proposte dal Consorzio di tutela con nota n. 22 del 4 aprile 2017, con Decreto del Ministro delle Politiche Agricole e Forestali n. 5320 del 19 settembre 2017 e il D.M. 21 dicembre 2018, n. 12551, avente ad oggetto modifiche integrative al Piano di Regolazione dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, richieste dal relativo Consorzio di tutela con nota n. 79 del 28 giugno 2018, nonché di ogni altro atto connesso, presupposto o consequenziale, ancorché non conosciuto. Premettono i ricorrenti in punto di fatto: - che il Parmigiano Reggiano è un prodotto agroalimentare a denominazione di origine protetta (DOP), iscritto nell’apposito registro ai sensi del Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006, la cui produzione è regolata da un Disciplinare e che in Italia, ai sensi della l. 526/99, il soggetto incaricato della tutela della DOP e del rispetto del Disciplinare è il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano; - che, a partire dal 2006, il ciclo di produzione del formaggio Parmigiano-Reggiano, e in particolare del latte destinato alla trasformazione nel prodotto DOP, soggiace ad una regolamentazione continuativa attuata dal Consorzio del Formaggio Parmigiano-Reggiano attraverso lo strumento dei Piani dell’offerta del Formaggio Parmigiano-Reggiano, che devono essere sottoposti all’approvazione del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, affinché diventino vincolanti per i soggetti non soci del Consorzio; - che l’obiettivo del piano è la regolazione dell’offerta del prodotto al fine di assicurare condizioni di equilibrio della produzione rispetto alla domanda nazionale ed estera e ciò è reso possibile attraverso la predeterminazione della quantità di latte complessivamente producibile, a livello del comprensorio, e attraverso il meccanismo delle Quote Latte Parmigiano Reggiano assegnate ai singoli produttori, a livello del singolo allevatore; - che la quantità di latte lavorato annualmente dai caseifici e trasformato in parmigiano non deve superare il Punto di Riferimento Comprensoriale (PRC), indicato nel piano, pena l’obbligo della contribuzione aggiuntiva in capo ai singoli produttori del latte. Ai fini del calcolo della contribuzione aggiuntiva, poiché il suddetto obbligo scatta se l’ammontare complessivo del latte prodotto è superiore al PRC, viene effettuata una prima compensazione all’interno del comprensorio tra la quantità prodotta in difetto e quella prodotta in eccesso. Sul punto, il piano stabilisce che la compensazione viene applicata in via prioritaria agli allevatori di montagna e l’eventuale esubero del PRC di montagna rispetto al latte munto dagli allevatori diventa fungibile per la compensazione della produzione di pianura. Poi viene calcolata la contribuzione aggiuntiva a carico dei singoli caseifici, la quale scatta qualora il saldo tra quote latte disponibili a livello di caseificio e latte realizzato per la produzione di parmigiano sia negativo (scatta dunque nel senso opposto). – che l’importo della contribuzione aggiuntiva a carico del caseificio può essere ripartito tra i singoli allevatori conferenti/cedenti in base ai kg di latte conferiti/ceduti in eccesso rispetto alla quota latte parmigiano reggiano detenuta dal singolo produttore di latte nell’anno di riferimento; - che il sistema di regolazione dell’offerta del formaggio Parmigiano Reggiano disciplina anche le Quote Latte Parmigiano Reggiano, che vengono affidate alla titolarità dei singoli allevatori e sono iscritte nell’apposito registro, nonché le modalità di gestione operativa. Gli odierni ricorrenti sono tutti allevatori/produttori non aderenti al Consorzio ma comunque inseriti nel sistema controllo della DOP e nel Registro ufficiale delle Quote Latte Parmigiano Reggiano. Essi sostengono che le previsioni del Piano impugnato siano dannose per le loro aziende di allevamento in quanto, fissando il punto di riferimento comprensoriale (PRC), ossia la quantità di latte complessivamente producibile nell’arco dell’anno, nel valore di 1.762.000 ton di latte, si impedisce la crescita loro produttiva. Inoltre, considerato che la quantità complessiva di Quote Latte Parmigiano Reggiano assegnate ai singoli produttori/allevatori sono stabilite nel valore di 1.825.000 ton latte, (accolto) valore superiore al PRC, il piano comporta l’applicazione automatica della contribuzione aggiuntiva. Anche se l’obbligo ricade sui caseifici se ne devono far carico inevitabilmente i produttori in quanto essi, per poter conservare le quote latte, devono sottoscrivere un documento con il quale si obbligano a versare l’intero importo della contribuzione aggiuntiva. Tanto premesso, con il ricorso introduttivo i ricorrenti hanno impugnato il Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato con Decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali n. 6762 del 15 dicembre 2016, deducendo, pertanto, le seguenti doglianze: - Nullità per assenza del presupposto sancito dall’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, nonché dal punto 4) delle Linee Guida per l’attuazione dei piani per la regolazione dell’offerta dei formaggi che beneficiano di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta, Allegato A) del decreto del Ministero delle politiche agricoli, alimentari e forestali 12 ottobre 2012, n. 15164. Si premette che il piano di cui trattasi è stato proposto per l’approvazione al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, con la delibera dell’assemblea ordinaria del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano del 6 aprile 2016, che è stata sottoposta poi alla procedura della raccolta di adesioni per la formazione dell’accordo preventivo. Su tale testo, il Ministero per le Politiche Agrarie, Alimentari e Forestali ha avviato il procedimento amministrativo di approvazione e, in data 3 novembre 2016, ha chiesto al Consorzio di introdurre una serie di modifiche, che sono state approvate dal CdA del Consorzio e ratificate dalla Assemblea del 21 novembre 2016. Il testo del Piano 2017/2019 è stato quindi approvato dal MIPAAF con il d.m. 15 dicembre 2016 senza che su di esso fosse stata esperita nuovamente la procedura dell’accordo preventivo. Tanto premesso, con il primo motivo di ricorso i ricorrenti hanno dedotto la nullità del decreto ministeriale n. 6762/2016 per mancanza del requisito essenziale dell’accordo. Hanno precisato, sul punto, che la disciplina vincolante per la regolazione dell’offerta dei formaggi DOP non può essere adottata in via unilaterale ma è subordinata all’esistenza di un accordo preventivo, concluso tra almeno due terzi dei produttori del latte o dei loro rappresentanti che rappresentano almeno due terzi del latte crudo utilizzato per la produzione del formaggio a denominazione protetta e, ove pertinente, almeno due terzi dei produttori di tale formaggio che rappresentino almeno due terzi della produzione di tale formaggio nell’area geografica di pertinenza. Nel caso di specie, invece, la suddetta procedura di adesione da parte dei singoli produttori non sarebbe riscontrabile. Inoltre il piano sarebbe nullo in quanto adottato dall’assemblea ordinaria dei consorziati e non da quella straordinaria che invece, ai sensi degli artt. 32 e 34 dello Statuto, è l’organo decisionale legittimato ad esprimere la volontà del Consorzio. - violazione dei principi in materia di concorrenza. Il Piano di regolazione sarebbe illegittimo in quanto lesivo della concorrenza, poiché le misure di regolazione dell’offerta, comportando l’adozione di strumenti di limitazione e controllo della produzione di determinati beni e servizi, costituirebbero intese restrittive della concorrenza, vietate dall’art. 101.1.b del TFUE. Pertanto, secondo i ricorrenti, la disciplina di cui si controverte dovrebbe avere un’efficacia temporale limitata al triennio, mentre nel caso che ci occupa il punto di riferimento comprensoriale è fissato, per il triennio 2017-2019, sullo stesso livello del triennio 2014-2016. - Eccesso di potere per disparità di trattamento ed ingiustizia manifeste. Violazione e falsa applicazione del regolamento UE 17 dicembre 2013, n. 1308/2013 nonché del decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali 12 ottobre 2012, n. 15164. Il Piano di regolazione produrrebbe poi una disparità di trattamento, sia tra i caseifici e gli allevatori, sia tra le diverse tipologie di allevatori, con conseguente riduzione dei volumi producibili e compressione della crescita. Inoltre, l’individuazione del PRC nella misura di 1.762.000 ton di latte (quasi “ricalcata” sui volumi del Piano 2014/2016 e sostanzialmente pari, addirittura, a quelli del 2010) sarebbe – secondo parte ricorrente - destinata ad aumentare in modo esponenziale la contribuzione aggiuntiva, a vantaggio esclusivo del Consorzio. - Eccesso di potere per irragionevolezza, disparità di trattamento, difetto di istruttoria. I ricorrenti hanno sostenuto che il piano individuerebbe come unici titolari possibili di quote latte gli allevatori, con conseguente sottoposizione degli stessi all’obbligo di pagare la contribuzione aggiuntiva. La modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione. Tale sistema andrebbe ad agevolare i grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e soprattutto dei caseifici aziendali, in quanto tanto è maggiore la quantità di latte lavorata dal caseificio e tanto più bassa sarà la percentuale di splafonamento e, dunque, il valore della contribuzione aggiuntiva che i singoli allevatori devono pagare. - Violazione di legge. Attribuzione al consiglio di amministrazione del consorzio del potere di modificare i contenuti del piano. Il piano sarebbe illegittimo, infine, per violazione di legge, in quanto attributivo al Consiglio di Amministrazione del Consorzio di un potere deliberativo, ossia di modifica sostanziale dei suoi contenuti, senza delimitarne i confini in modo chiaro. Si è costituito in giudizio il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali che ha depositato una memoria con cui ha eccepito l’inammissibilità e l’infondatezza sia del ricorso che dell’istanza cautelare, chiedendone pertanto la reiezione. Ha chiesto, inoltre, in via istruttoria di ordinare l’intervento in giudizio della Regione Emilia Romagna, avendo riscontrato in via preliminare che il ricorso introduttivo atterrebbe quasi interamente alla contestazione della procedura di adesione dei singoli produttori e, pertanto, alla fase dell’istruttoria interna del Consorzio, verificata dalla stessa regione Emilia Romagna. Con riferimento alla prima doglianza, l’amministrazione ne ha sostenuto l’infondatezza sull’assunto che non fosse necessario ripetere la procedura dell’accordo preventivo, considerato che le modifiche conseguenti alla nota ministeriale del 3 novembre 2016 non avrebbero in alcun modo alterato lo schema originario del Piano, che era stato a suo tempo sottoposto ad accordo preventivo. Parte resistente sostiene che sarebbe priva di fondamento anche la seconda doglianza, in quanto le norme per la regolazione dell’offerta di formaggio DOP sono vincolanti per un massimo di 3 anni, ma possono essere rinnovate. Questo è quanto accaduto nel caso di specie, poiché il primo piano riguarda il triennio 2014-2016, mentre quello in esame è stato presentato per il triennio successivo (2017-2019). Anche le contestazioni relative al Piano di regolazione dell’offerta sarebbero infondate perché i ricorrenti hanno affermato di essere stati danneggiati dalle previsioni del piano relative alla contribuzione aggiuntiva gravante sui produttori di latte ma non hanno contestato la procedura che ha condotto all’adozione del piano medesimo, non ravvisandosi dunque elementi di illegittimità o irregolarità. Si è costituita in giudizio anche la controinteressata Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, depositando una memoria con cui ha chiesto che il ricorso venisse, in via preliminare, dichiarato inammissibile. Ha eccepito inoltre il difetto di competenza del Tar Lazio sull’assunto che il Tar competente sarebbe quello del luogo di produzione in cui il Piano è destinato a produrre i propri effetti, ossia quello della Regione Emilia Romagna. Sempre in via preliminare, ha rilevato il difetto di legittimazione attiva, in quanto i ricorrenti avrebbero agito in giudizio per la tutela di un interesse diffuso riconducibile alla categoria degli allevatori, ma essendo stato proposto il ricorso solo da 16 allevatori su un totale di 3014, questi non potrebbero considerarsi esponenti degli interessi stessi. Infine, è stata prospettata anche la carenza di interesse a ricorrere, trattandosi di un mero interesse di fatto, la cui lesione sarebbe ipotetica. Nel merito, il Consorzio controinteressato ha rilevato l’infondatezza del ricorso introduttivo. Alla camera di consiglio del 5.05.2017, i ricorrenti hanno rinunciato all’istanza cautelare; tuttavia, nelle more della celebrazione dell’udienza di merito, fissata per il giorno 7.11.2017, è intervenuto il decreto del Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali 19 settembre 2017, n. 532, recante approvazione di modifiche, deliberate dal Consorzio, integrative al Piano di regolazione dell’offerta del formaggio parmigiano reggiano DOP 2017/2019, di cui al decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali 15 dicembre 2016, n. 6762 impugnato. In data 06.11.2017 ricorrenti hanno presentato motivi aggiunti, con contestuale istanza di misure cautelari urgenti ex art. 56 C.p.a., al fine di ottenere l’annullamento del Piano di regolazione dell’offerta del Formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato nella versione integrata con le modifiche proposte dal Consorzio di tutela, con decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali n. 5320 del 19 settembre 2017. In tale sede, i ricorrenti hanno impugnato il decreto sopravvenuto, deducendo, in via derivata, le censure già espresse nel ricorso introduttivo in quanto, essendo il nuovo piano sostanzialmente confermativo di quello precedente, non avrebbe sanato i vizi in precedenza denunciati. Con ordinanza n. 6658 del 12.12.2017, la Sezione ha respinto l’istanza cautelare. Con istanza depositata in data 3.08.2018, i ricorrenti hanno chiesto nuovamente la sospensione del Piano di regolazione dell’offerta del Formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019, approvato nella versione integrata con le modifiche proposte dal Consorzio di tutela, con decreto del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali n. 5320 del 19 settembre 2017 nonché la sospensione del pagamento della contribuzione aggiuntiva a carico dei ricorrenti. Alla base della suesposta istanza c’è il “Prospetto di ripartizione tra le aziende conferenti/fornitrici latte della contribuzione aggiuntiva imputata al caseificio in applicazione del Piano regolazione offerta 2017-2019”, inviato dal Consorzio ai ricorrenti ed ai caseifici di riferimento ai fini il pagamento di somme di denaro a titolo di splafonamento. Alla camera di consiglio del 17.10.2018, il procuratore di parte ricorrente ha rinunciato alla cautelare per consentire la definizione del giudizio in tempi brevi. È stata, inoltre, formalizzata la fissazione del ricorso all’udienza pubblica del giorno 19.02.2018. Nelle more della celebrazione dell’udienza pubblica suindicata, il Consorzio ha tuttavia proposto ulteriori modifiche al Piano 2017/2019 da valere per l’anno 2019 e tali modifiche sono state approvate dal MPAAF con il d.m. 21 dicembre 2018 n. 12551. Avverso tale decreto ministeriale i ricorrenti hanno proposto un nuovo ricorso per motivi aggiunti al fine di ottenere l’annullamento del suindicato Piano, previa adozione di misure cautelari ex art. 55 c.p.a.. Nel ricorso per motivi aggiunti, essi sostengono che il Piano 2017/2019, nella versione ulteriormente modificata, non solo non avrebbe corretto i profili di illegittimità denunciati con i ricorsi pendenti ma sarebbe addirittura peggiorativo di quello precedente, soprattutto con riferimento al profilo della contribuzione aggiuntiva: nei piani pregressi variava da un massimo di 20 euro a quintale, in caso di “splafonamento” superiore al 9%, ad un minimo di 5 euro a q.le, in caso di “splafonamento” non superiore al 3%, mentre ora prevede ora due scaglioni di contribuzione aggiuntiva: il primo pari a 15 € per quintale di splafonamento (“importo unico Base”); il secondo, a carico dei c.d. “grandi splafonatori” (ovvero gli allevatori la cui produzione supera del 20% le quote latte assegnate), pari a 25 € per quintale di splafonamento. Gli importi della contribuzione aggiuntiva sono quindi maggiorati all’incirca del 30%. L’amministrazione ha depositato una memoria in replica al ricorso per motivi aggiunti, chiedendo il rinvio dell’udienza per la discussione ai fini di poter approntare le proprie difese; nel merito, ha insistito per la reiezione del ricorso. Anche la controinteressata, in vista della trattazione dell’udienza di merito del 19.02.2019, ha depositato una memoria insistendo nelle conclusioni già rassegnate. Durante l’udienza pubblica, acclarata la mancanza del termine a difesa con riferimento ai motivi aggiunti prodotti, il Collegio ha comunicato alle parti il rinvio del ricorso ad altra data. Con istanza depositata in data 27.02.2019, le odierne ricorrenti hanno dichiarato di rinunciare alla domanda di misure cautelari ex art. 55 c.p.a., proposta con il ricorso per motivi aggiunti del 28.01.2019. Con ordinanza del 20.03.2019, n. 1735, il Collegio ha dato atto della rinuncia alla istanza cautelare e fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 7 ottobre 2019. In vista dell’odierna udienza pubblica le parti hanno depositato ulteriori memorie, insistendo nelle conclusioni già rassegnate. Inoltre, il Consorzio per la tutela del formaggio Parmigiano Reggiano ha reso noto che, con D.M. n. 8868 del 13 agosto 2019, è stato approvato il Piano di regolazione dell’offerta del Formaggio Parmigiano Reggiano DOP, per il triennio 2020/2022. Pertanto, il ricorso sarebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il citato D.M. sostituirebbe quello oggetto di impugnazione con ricorso principale nonché i successivi D.M. modificativi, oggetto di impugnazione con motivi aggiunti. In replica, le aziende ricorrenti hanno depositato una memoria con cui hanno, invece, ribadito quanto siano attuali e gravi gli effetti lesivi prodotti nei loro confronti, considerato che l’approvazione del nuovo Piano lascerebbe integra l’efficacia del Piano precedente per il triennio della sua vigenza, ossia per il 2017/2019. All’udienza pubblica del giorno 7 ottobre 2019, udite le parti presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Vanno previamente scrutinate tutte le eccezioni preliminari di rito, sollevate da parte resistente e dal Consorzio controinteressato. 1.1. In primo luogo, con riferimento alla istanza formulata dal Ministero resistente di ordinare, ai sensi dell’art. 28 c.p.a., l’intervento in giudizio della Regione Emilia Romagna, essendovi una comunanza di causa, osserva il Collegio che la Regione si è occupata unicamente della fase istruttoria e che i relativi atti sono confluiti nel presente procedimento. Il comma 3, dell’art. 28 c.p.a., invocato da parte resistente, così recita: “3. Il giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo, ne ordina l'intervento.” Nel caso in esame, tuttavia, il Collegio non ritiene che il processo debba svolgersi anche nei confronti della Regione, non essendo necessario che la pronuncia faccia stato anche nei suoi confronti, poiché il suo ruolo riguarda solo la fase di verifica istruttoria dei conteggi effettuati dal Consorzio, senza alcuna partecipazione all’attività decisionale. 1.2. Sempre in via preliminare, va esaminata l’eccezione di difetto di competenza del TAR Lazio sollevata dal Consorzio. Tale eccezione è motivata in relazione alla circostanza che il formaggio Parmigiano Reggiano, proprio in quanto DOP, è caratterizzato dall’essere prodotto in una specifica zona geografica. Dal disciplinare di produzione del formaggio Parmigiano Reggiano, vigente dal 2011, risulta che la zona di produzione comprende i territori delle province di Bologna alla sinistra del fiume Reno, Mantova alla destra del fiume Po, Modena, Parma e Reggio nell’Emilia. Gli effetti degli atti impugnati ricadrebbero quindi unicamente nella regione Emilia Romagna. Ritiene il Collegio che l’eccezione debba essere disattesa. Come ha rilevato la difesa dei ricorrenti, l’ambito di efficacia del d.m. 15 dicembre 2016, avente ad oggetto l’approvazione del Piano di regolazione dell’offerta del formaggio parmigiano reggiano, coincide con la zona di produzione del formaggio DOP, la quale comprende il territorio di alcune province dell’Emilia Romagna ed inoltre Mantova, alla destra del fiume Po. Mantova è una provincia della Regione Lombardia. Dunque l’ambito di efficacia del decreto impugnato travalica la circoscrizione del Tar Emilia Romagna e, in applicazione dell’art. 13, comma 1, c.p.a., la competenza spetta al Tar centrale. L’eccezione deve pertanto essere respinta. 1.3. Il Consorzio ha sollevato inoltre una eccezione di carenza di legittimazione da parte dei ricorrenti, in quanto essi richiedono l’annullamento di un Piano a tutela di un interesse diffuso, riconducibile alla categoria degli allevatori, pur essendo privi dei requisiti di rappresentatività. Pertanto, secondo il Consorzio, gli attuali ricorrenti non potrebbero considerarsi esponenti degli interessi della categoria di allevatori, complessivamente soggetti all’applicazione del Piano e che giovano della regolazione dell’offerta di un prodotto di cui, per espressa previsione normativa, è necessario tutelare l’origine e la qualità. In sostanza, i ricorrenti pretenderebbero di richiedere tutela di un interesse che si pone in manifesto conflitto con quello della restante categoria cui appartengono essi stessi e che è di contro tutelato proprio dai contenuti del Piano. L’eccezione non può essere accolta. I ricorrenti, infatti, non agiscono nel presente giudizio a difesa di un interesse diffuso, ma di un loro personale interesse. La lesione che i ricorrenti lamentano di subire per effetto del decreto di approvazione del Piano è infatti concreta ed immediata, riguarda la loro propria sfera giuridica patrimoniale, il loro proprio diritto di impresa e le aziende di cui sono titolari. Essi, infatti, sostengono che il Piano li metterebbe nella condizione di dover pagare la contribuzione aggiuntiva ovvero di acquistare sul mercato quote latte da altre aziende. Pertanto, le obiezioni del Consorzio relative alla rappresentatività degli interessi degli allevatori non sono condivisibili. 1.4. Secondo il Consorzio, infine, il ricorso (con i relativi motivi aggiunti) sarebbe inammissibile perché le censure di controparte sarebbero meramente ipotetiche e prive della concretezza ed attualità della asserita lesione, che è richiesta ai fini dell’esercizio dell’azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo. Ne discende che vi sarebbe la carenza di interesse in capo a controparte con conseguente inammissibilità dell’azione esercitata. Inoltre, nessun danno in realtà si verificherebbe per i ricorrenti. Infatti, nel triennio 2014/2016 – in vigenza del precedente Piano - il latte prodotto dalle ricorrenti è cresciuto. Pertanto, dovrebbe presumersi che esso possa crescere anche in vigenza del piano attuale. Sul punto, parte ricorrente, nella memoria del 6 ottobre 2017, sottolinea che: l’incremento della produzione di latte non è significativo della pretesa attitudine del Piano a promuovere la crescita delle aziende dei produttori di latte; infatti, il dato che il Consorzio, attraverso il Piano, governa è un altro ed è invece quello del c.d. Punto di Riferimento Comprensoriale (PRC), che, per il 2017/2019, è solo di poco superiore al PRC del triennio precedente (quest’ultimo era ricalcato a sua volta sul PRC del 2010); gli effetti lesivi del piano, dunque, riguardano la contribuzione aggiuntiva a carico delle aziende o – in alternativa – l’obbligo di acquistare sul mercato quote latte, il cui valore di transazione è dettato proprio dal sistema del contingentamento dell’offerta e dell’assegnazione di quote di produzione. Alla luce delle considerazioni svolte da parte ricorrente, dunque, non può mettersi in dubbio la lesività del piano nella sfera giuridica degli allevatori che hanno proposto il ricorso e quindi la sussistenza di un loro interesse e l’ammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti. 1.5. Infine, va esaminata l’eccezione, da ultimo prospettata, di improcedibilità del ricorso e dei motivi aggiunti in quanto nelle more del presente giudizio è stato approvato il Piano di regolazione dell’offerta del Formaggio Parmigiano Reggiano DOP, per il triennio 2020/2022. Anche detta eccezione va respinta. Infatti, come rilevato dai ricorrenti nelle ultime memorie, il loro interesse alla decisione del presente giudizio permane, essendo radicato sugli effetti, essenzialmente di natura economica, che si sono prodotti in applicazione del piano 2017/2019 in termini di pagamento della contribuzione aggiuntiva e di acquisto di quote. 2. Nel merito, il ricorso, integrato dai relativi motivi aggiunti, è solo in parte fondato e pertanto esso deve essere accolto nei limiti di cui alla motivazione. 2.1. Con il primo motivo del ricorso originario, parte ricorrente deduce: Nullità per assenza del presupposto sancito dall’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, nonché dal punto 4) delle Linee Guida per l’attuazione dei piani per la regolazione dell’offerta dei formaggi che beneficiano di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta, Allegato A) del decreto del Ministero delle politiche agricoli, alimentari e forestali 12 ottobre 2012, n. 15164. Secondo le ricorrenti il Piano di Regolazione dell’Offerta di formaggio Parmigiano Reggiano per il triennio 2017/2019, proposto dal Consorzio al Ministero per la relativa l’approvazione, non sarebbe stato preceduto dalla procedura di adesione da parte dei singoli produttori di latte e dei produttori di formaggio. In particolare: sul testo di cui alla delibera dell’assemblea ordinaria del Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano del 6 aprile 2016 (che è stata sottoposto alla procedura della raccolta di adesioni per la formazione dell’accordo preventivo) sono state apportate modifiche, che sono state approvate dal CdA del Consorzio e ratificate dalla Assemblea del 21 novembre 2016, senza che su di esso fosse stata esperita nuovamente la procedura dell’accordo preventivo. Inoltre, il piano sarebbe nullo, in quanto adottato dall’assemblea ordinaria dei consorziati e non da quella straordinaria, che invece, ai sensi degli artt. 32 e 34 dello Statuto, è l’organo decisionale legittimato ad esprimere la volontà del Consorzio. Il motivo è infondato e va pertanto respinto. 2.2. Occorre premettere che l’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013, n. 1308/2013 autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”, su “richiesta di un’organizzazione di produttori riconosciuta ai sensi dell’art. 152, par. 3, di un’organizzazione interprofessionale riconosciuta ai sensi dell’art. 215, par. 3, o di un gruppo di operatori di cui all’art. 3, par. 2, del regolamento (UE), n. 1151/2012”. Il regolamento UE 1308/2013 e la normativa italiana di attuazione, contenuta essenzialmente nel decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali 12 ottobre 2012, n. 15164 ed allegati, stabiliscono presupposti, obiettivi e contenuti, nonché limiti e vincoli per la redazione delle norme vincolanti (“i piani”) per la regolazione dell’offerta dei formaggi a denominazione di origine protetta o indicazione geografica protetta. In particolare, per l’approvazione di norme vincolanti per la regolazione dell’offerta occorre: l’“esistenza di un accordo preventivo concluso tra almeno due terzi dei produttori del latte o dei loro rappresentanti che rappresentano almeno due terzi del latte crudo utilizzato per la produzione del formaggio” a denominazione protetta e “ove pertinente, almeno due terzi dei produttori di tale formaggio che rappresentino almeno due terzi della produzione di tale formaggio nell’area geografica” di pertinenza. In ambito nazionale, il documento recante i “Criteri per la valutazione dei piani di regolazione dell’offerta dei formaggi DOP e IGP”, pubblicato sul sito del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali in data 11 luglio 2013, prevede che il Piano è “soggetto alla esistenza di un accordo preventivo, sottoscritto con le maggioranze di cui sopra”. 2.3. I ricorrenti lamentano in sostanza che le maggioranze qualificate, di cui all’accordo preventivo, non siano state raggiunte in relazione alle modifiche al piano approvate dal CdA del Consorzio e ratificate dalla Assemblea del 21 novembre 2016. Sul punto, la difesa del ministero ha rilevato che il consenso dei soggetti coinvolti attiene alla comune volontà di introdurre una regolamentazione dell’offerta del prodotto sul mercato e all’individuazione dei fondamentali strumenti di gestione del Piano, quali l’assegnazione dei quantitativi di riferimento ed il pagamento della contribuzione aggiuntiva. Le modifiche conseguenti alla nota ministeriale del 3 novembre 2016 non alterano lo schema originario del Piano - oggetto di accordo preventivo - e consentono, nel contempo, il perseguimento delle finalità specifiche dello strumento di regolazione, limitando possibili restrizioni alla concorrenza e tutelando tutti i produttori di latte, con particolare attenzione ai piccoli produttori. Si trattava, infatti, di recepimento dei suggerimenti ministeriali, rappresentati in seno al Comitato di valutazione, nelle riunioni del 29 settembre 2016 c del 17 ottobre 2016, anche sulla base dei risultati dell’audizione di alcuni produttori di latte destinato alla produzione di Parmigiano Reggiano, e sottoposte all’attenzione del Consorzio con ministeriale n. 5944 del 3 novembre 2016. Le osservazioni ministeriali venivano recepite integralmente all’interno del Piano e approvate da parte del Consiglio di Amministrazione del Consorzio, come comunicato con note prot. n. 129/20I6, prot. n. 134/2016 e prot. n. 136/2016, circostanza per la quale si è proceduto al seguito dell’istruttoria ed alla definitiva approvazione del Piano di regolazione, così come integrato dalle modifiche richieste. La difesa dell’amministrazione appare convincente. La procedura dell’accordo preventivo dei 2/3 dei produttori di latte interessati non doveva riguardare anche le modifiche al piano proposte dal Ministero, trattandosi di modifiche non incidenti sugli aspetti fondamentali del piano, ma su profili secondari, che non snaturavano il contenuto del Piano e che si ponevano comunque come misure di favore per i produttori di latte, quali l’aumento del PRC comprensoriale, riduzione della trattenuta sulle compravendite per alimentare la riserva dal 20% al 5%, estensione dello sconto del 25% anche ai piccoli allevatori, ecc.. (v. all. 3 al ricorso). In tale quadro, richiedere un nuovo accordo preventivo dei 2/3 dei produttori di latte costituirebbe un inutile aggravio procedimentale. 2.4. Per quanto attiene alla censura secondo la quale il Piano sarebbe nullo in quanto adottato dall’assemblea ordinaria dei consorziati e non da quella straordinaria, che invece, ai sensi degli artt. 32 e 34 dello Statuto, sarebbe l’organo decisionale legittimato ad esprimere la volontà del Consorzio, rileva il Collegio che – come evidenziato dal Consorzio nelle sue difese - la proposta di Piano di Regolazione dell’Offerta non rientra tra i “disciplinari” o i “regolamenti”, che ai sensi dello Statuto del Consorzio sarebbero di competenza dell'assemblea straordinaria dei consorziati. La legge non prevede la presentazione al Ministero a seguito di delibera Consortile, bensì prevede che la presentazione del Piano possa avvenire solo dopo l’adesione oltre 66% di Caseifici ed Allevatori. Si tratta quindi di un’ipotesi che si pone al di fuori della fattispecie statutaria prevista. Il primo motivo di ricorso va dunque respinto. 3. Con il secondo motivo, parte ricorrente denuncia la violazione dei principi in materia di concorrenza. Le misure di regolazione dell’offerta, comportando l’adozione di strumenti di limitazione e controllo della produzione di determinati beni e servizi, costituirebbero intese restrittive della concorrenza, vietate dall’art. 101.1.b del TFUE. Pertanto, secondo i ricorrenti, la disciplina di cui si controverte dovrebbe avere un’efficacia temporale limitata al triennio, mentre con il piano oggetto di impugnativa, il punto di riferimento comprensoriale è stato fissato, per il triennio 2017-2019, sullo stesso livello del triennio 2014-2016, così sostanzialmente prolungando di altri tre anni la misura di regolazione dell’offerta. Anche tale doglianza è infondata. 3.2. La normativa UE in materia di regolazione dell’offerta del Parmigiano Reggiano è certamente una disciplina derogatoria della concorrenza, che si giustifica in presenza di specifiche condizioni e per periodi limitati. Tuttavia, la rinnovazione del piano di regolazione per un ulteriore triennio non è vietata dalla normativa UE. Infatti, la lettera c) del par. 4 dell’art. 150 del Regolamento 1308/2013prevede che: "le norme di cui al par. 1 possono essere rese vincolanti per un massimo di tre anni ed essere rinnovate dopo questo periodo a seguito di una nuova richiesta di cui al paragrafo 1”. 3.3. Sostiene parte ricorrente che restrizioni della concorrenza di tal natura dovrebbero essere motivate da esigenze impellenti, di pubblico interesse, di salvaguardare l’esistenza di una certa produzione DOP, facendo fronte ad esigenze straordinarie e contingenti che possono avere determinato situazioni di crisi, o necessità di particolari investimenti di ammodernamento o riconversione, nel settore di cui si tratta. Di contro, il piano di regolazione dell’offerta del Parmigiano Reggiano 2017-2019 sarebbe motivato in modo assolutamente generico. Sottolineano inoltre i ricorrenti che la produzione di Parmigiano Reggiano è quella che cresce di meno, su base annua (appena 0,1%) rispetto agli altri principali formaggi italiani DOP. La domanda di Parmigiano Reggiano è tuttavia in crescita e in particolare le potenzialità di sviluppo dell’esportazione del prodotto sono molto elevate. Ciò non giustificherebbe un’ulteriore restrizione della produzione. 3.4. Secondo quanto previsto dai “Criteri per la valutazione e l'istruttoria dei piani di regolazione dell'offerta dei formaggi a denominazione di origine protetta o indicazione geografica protetta”, il piano di regolazione dell'offerta del formaggio DOP o IGP “stabilisce le norme di regolazione produttiva rivolte ad adeguare l'offerta del prodotto alla domanda, al fine di garantire valore aggiunto e mantenere la qualità dei formaggi che beneficiano di una DOP o IGP, tendendo a definire un punto di equilibrio produttivo.” Nel caso del Parmigiano Reggiano, le esigenze poste a fondamento dell’adozione per un altro triennio di misure di regolazione sono espresse dallo stesso Piano e riguardano, riassuntivamente: a) la particolare natura del formaggio in questione, in quanto contraddistinto da tempi molto lunghi tra l’impostazione delle scelte produttive e l’immissione in commercio del prodotto finito; in sostanza, la produzione di Parmigiano Reggiano è contraddistinta da condizioni di strutturale ciclicità; b) la caratteristica della filiera del Parmigiano Reggiano basata su una polverizzazione e crescente squilibrio contrattuale ai vari livelli della filiera; tra caseifici e commercianti a vantaggio di questi secondi, e tra allevatori e caseifici, a vantaggio di questi secondi; c) condizioni di crescente instabilità dei flussi commerciali internazionali e, quindi, di instabilità degli andamenti di mercato correlati; d) l’incremento dell’offerta di latte nell’UE, e in alcuni paesi extra UE; e) l’incremento dell’offerta di formaggi anche concorrenziali con il Parmigiano Reggiano nella categoria “duri di latte vaccino”. f) il differenziale dei costi di produzione tra filiera DOP-Parmigiano Reggiano e produzioni concorrenti. g) in corrispondenza del termine del regime quote latte comunitario, anche nella filiera del Parmigiano Reggiano si è attivata una accelerazione dei processi strutturali degli allevamenti con un incremento della mandria in produzione. Infatti i segnali del primo semestre 2016 testimoniano una crescita produttiva (tra il +4/+5% tendenziale annuo.) In questo quadro, secondo quanto si legge nello stesso piano, la regolamentazione dell’offerta del Parmigiano Reggiano ha “una duplice valenza strategica. Da un lato diventa lo strumento in grado di generare le risorse necessarie per assicurare la creazione di nuovi sbocchi commerciali per le produzioni incrementali realizzate. Dall’altro, consente di modulare gli impatti della ciclicità del mercato a tutela delle aree comprensoriali più deboli (es. montagna – aree svantaggiate), delle imprese più fragili/piccoli imprenditori (si consideri che quasi il 60% dei 3.100 allevatori totali, mungono meno di 4.000 q.li/anno). Non meno importante è il ruolo del Piano come facilitatore del ricambio generazionale e dell’ingresso di giovani allevatori nella filiera.” (cfr. p. 13 del Piano). Le argomentazioni poste a base della adozione del Piano per il triennio 2017-2019 non paiono sconfessate dalle considerazioni di parte ricorrente. Infatti, non è necessario che le misure di regolazione dell’offerta siano giustificate da fenomeni straordinari e contingenti che possono avere determinato situazioni di crisi, o necessità di particolari investimenti di ammodernamento o riconversione. Il Piano può essere adottato anche solo al fine di adeguare l'offerta del prodotto alla domanda e di garantire valore aggiunto e mantenere la qualità dei formaggi che beneficiano di una DOP o IGP, tendendo a definire un punto di equilibrio produttivo, come si legge nei Criteri per la valutazione e l'istruttoria dei piani di regolazione dell'offerta dei formaggi, sopra citati. Inoltre, l’esistenza di una fase espansiva per quanto attiene la domanda del prodotto nel mercato estero non può costituire da sola ragione ostativa all’approvazione del Piano, in presenza di tutte le altre condizioni e circostanze, menzionate nel Piano e sopra riassuntivamente richiamate, volte a giustificane l’adozione. Peraltro, va ricordato che il sindacato giurisdizionale in tali materie, caratterizzate da un elevato livello di discrezionalità tecnica, è necessariamente limitato alla valutazione di profili di coerenza, logicità, ragionevolezza e congruità delle scelte effettuate e non può spingersi al punto da sovrapporsi alle scelte compiute in sede amministrativa. 3.4. Va comunque rilevato che l’attuazione del Piano è sottoposto a verifica annuale del Ministero. Pertanto, sia in corso di attuazione che al momento della scadenza triennale del Piano, le autorità competenti, in caso di effetti distorsivi sul mercato potranno intervenire. 3.5. Infine, non può non rilevarsi in punto di fatto che – come evidenziato dal consorzio controinteressato e risultante dagli atti - la produzione di Parmigiano Reggiano è passata nel triennio 2014/2016 da 3,279 mln forme del 2013 a 3,468 mln forme del 2016, con un incremento del 5,7%. Non vi è stata pertanto una riduzione o un contenimento della produzione del Parmigiano Reggiano ma un suo aumento. In motivo, per tutto quanto si è detto, va dunque respinto. 4. Con il terzo motivo, parte ricorrente deduce il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento ed ingiustizia manifeste. Violazione e falsa applicazione del regolamento UE 17 dicembre 2013, n. 1308/2013, nonché del decreto del Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali 12 ottobre 2012, n. 15164. In primo luogo, l’individuazione del PRC nella misura di 1.762.000 ton di latte (quasi “ricalcata” sui volumi del Piano 2014/2016 e sostanzialmente pari, addirittura, a quelli del 2010) sarebbe – secondo parte ricorrente - destinata ad aumentare in modo esponenziale la contribuzione aggiuntiva, a vantaggio esclusivo del Consorzio. Inoltre, la contribuzione aggiuntiva, per come è strutturata, graverebbe unicamente sugli allevatori (ed anche su quelli non iscritti al Consorzio), mentre i caseifici ed i commercianti, che pure realizzano i maggiori utili in conseguenza della trasformazione e della vendita del formaggio in eccesso, ne sarebbero esenti. Un’ulteriore conseguenza negativa che si determinerà – secondo parte ricorrente - per effetto della fissazione del PRC, orientata alla stabilità della produzione rispetto ai valori del precedente piano, e che graverà solo sui produttori, è quella dell’aumento incontrollato del valore e dei prezzi delle quote latte trasferibili. In particolare, è stabilito un pesante disincentivo alla cessione della quota storica, in quanto tale operazione comporta la perdita anche quella mungibile e la destinazione a riserva del 5% delle QLPR di quota storica venduta, con la trasformazione della stessa in quota mungibile. In questo modo, si verifica una sorta di espropriazione automatica delle quote latte in favore del Consorzio (per il tramite del Registro), senza neppure prevedere una qualche forma di indennizzo, con ulteriore irrigidimento del sistema. Un ulteriore ed irragionevole ostacolo alla circolazione delle quote sarebbe poi costituito dalla disparità di trattamento tra bacini di pianura e di montagna. Poiché al bacino di montagna sono state assegnate quote in eccedenza e a quello di pianura quote in difetto, la pianura – secondo parte ricorrente - si troverebbe in mancanza di quote latte disponibili ancor prima che venga superato il punto di riferimento comprensoriale. 4.1. Il motivo non può trovare accoglimento. Quanto alla scelta dello stesso PRC del precedente piano, tale scelta risulta motivata nel Piano dalla considerazione che il livello produttivo 2015 esprime condizioni di sostanziale equilibrio rispetto agli strumenti già disponibili, e pertanto non punta – a tali livelli produttivi – a reperire risorse aggiuntive dalla contribuzione aggiuntiva. Va inoltre rilevato che è risultata unanime la volontà di confermare il legame del Piano alle quantità di latte idoneo (kg di latte) in continuità con la scelta effettuata per il Pro-PR 2014/2016. E’ stata pertanto confermata nel Pro-PR 2017/2019 il punto di riferimento comprensoriale (PRC) pari a “1.755.000 ton + riassegnazioni triennali 2014/16”. (cfr. pag. 21 del Piano). Si tratta di una decisione che appare ragionevole e immune dalle doglianze dedotte, posto che essa non dovrebbe determinare – come paventato da parte ricorrente – un incremento esponenziale della contribuzione aggiuntiva. Inoltre, si segnala che il Piano ha previsto che il monte QLPR (quote latte Parmigiano Reggiano) assegnate a fine 2016 sarà superiore al latte munto 2015 di circa il 4%. (v. pag. 20 del Piano). 4.2. Anche la doglianza secondo cui sarebbe illegittimo far gravare la contribuzione aggiuntiva solo sugli allevatori, e non anche su caseifici e commercianti, non può essere accolta. La scelta di imperniare il sistema di regolazione dell’offerta sulle quote latte dipende dalla circostanza che per il Parmigiano Reggiano si verifica la sostanziale esclusività di impiego del latte prodotto dalle stalle inserite nel sistema di controllo della Dop. Nella filiera del Parmigiano Reggiano, pertanto, il rapporto “vacche – latte – formaggio” è sostanzialmente esclusivo. (v. pag. 8 del Piano). Il controllo delle quote latte, pertanto, consente di influire sulla regolazione della produzione del formaggio mediante lo strumento della contribuzione aggiuntiva in caso di c.d. “splaffonamento”. E’ per tale ragione che i primi soggetti incisi dalla eventuale contribuzione aggiuntiva sono gli allevatori, essendo essi i produttori di latte. I caseifici tuttavia non ne sono esenti, ma possono anch’essi essere tenuti a contribuzione aggiuntiva, qualora sia superata la quota di loro spettanza. 4.3. Circa la questione dell’(eventuale e futuro) aumento incontrollato dei prezzi delle quote latte, paventata da parte ricorrente, va rilevato si tratta di una conseguenza dell’andamento del mercato delle quote, che seppur non auspicabile, non può essere motivo per incrementare oltre misura la produzione del parmigiano, a scapito delle esigenze di tutela del prodotto poste a fondamento dell’adozione del piano. 4.4. Infine, per quanto riguarda, l’asserita disparità di trattamento tra bacini di pianura e di montagna, va rilevato che la finalità del Piano di non penalizzare i produttori svantaggiati dalla tipologia di territorio si pone in sintonia con gli orientamenti generali della normativa unionale e nazionale, in materia agricola. Nel Piano si legge che l’introduzione della priorità di per gli allevatori classificati di montagna è frutto dell’espressa richiesta dei rappresentanti dei produttori di montagna negli organi consortili ed è coerente agli orientamenti del considerando n. 17 del Reg. Comunitario 261/2012. (pag. 21 del Piano). Detta scelta non appare pertanto censurabile. 5. Con il quarto motivo, parte ricorrente deduce eccesso di potere per irragionevolezza, disparità di trattamento e difetto di istruttoria in quanto la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione. Tale sistema andrebbe ad agevolare i grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e soprattutto dei caseifici aziendali, in quanto tanto è maggiore la quantità di latte lavorata dal caseificio e tanto più bassa sarà la percentuale di splafonamento e, dunque, il valore della contribuzione aggiuntiva che i singoli allevatori devono pagare. La doglianza è fondata. La misura, in effetti, non pare ragionevole laddove determina una irragionevole disparità di trattamento che finisce per agevolare e grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e dei caseifici aziendali, calcolando al contribuzione aggiuntiva non sul latte prodotto ma sullo splafonamento del caseificio cui essi conferiscono latte, e cioè su un dato che è al di fuori delle conoscenze, e ancor più di qualsiasi possibilità di influenza e previsione. Essa pertanto deve essere accolta. 6. Con il quinto motivo di ricorso, parte ricorrente deduce la violazione di legge. Attribuzione al consiglio di amministrazione del consorzio del potere di modificare i contenuti del Piano, in quanto attributivo al Consiglio di Amministrazione del Consorzio di un potere deliberativo, ossia di modifica sostanziale dei suoi contenuti, senza delimitarne i confini in modo chiaro. La doglianza non può essere accolta. Come si è detto in relazione al primo motivo di ricorso, i poteri del Consiglio di Amministrazione di integrazione del piano sono limitati a profili integrativi, che non toccano il contenuto essenziale dello stesso, rimesso agli organi assembleari. 7. In conclusione, il ricorso originario va accolto in parte, limitatamente alla dedotta illegittimità della clausola del piano che consente il calcolo dello splaffonamento di caseificio, come meglio indicato al punto 5. Per il resto esso deve essere respinto. 8. L’infondatezza del ricorso originario determina anche la conseguenziale infondatezza di tutti i motivi dedotti con il primo ricorso per motivi aggiunti (del 6.11.2017) in quanto recanti unicamente censure di illegittimità identiche a quelle già scrutinate, ad eccezione del terzo motivo, con riferimento unicamente alla dedotta illegittimità della previsione del calcolo della contribuzione aggiuntiva sulla base dello splaffonamento di caseificio. Infatti, come già evidenziato al punto 5, cui si rinvia, la compensazione di caseificio comporta che la contribuzione aggiuntiva non sia calcolata in maniera proporzionale al latte prodotto dalla singola azienda bensì per fascia di splafonamento del caseificio cui il produttore conferisce latte, con la conseguenza che tanto più latte lavora un Caseificio tanto maggiore è la probabilità di compensazione interna, a discapito dei piccoli Caseifici e i Caseifici aziendali. L’amministrazione dovrà pertanto depurare il Piano da tale previsione e ricalcolare l’entità delle contribuzioni aggiuntive all’esito di tali modifiche. 9. Con il secondo ricorso per motivi aggiunti depositati il 28 gennaio 2019, parte ricorrente ha impugnato le ulteriori modifiche al Piano approvate dal MPAAF con il d.m. 21 dicembre 2018 n. 12551, deducendo le stesse doglianze di cui ai precedenti atti di impugnativa, ad eccezione del profilo della maggiorazione degli importi della contribuzione aggiuntiva all’incirca del 30%, risultato delle nuove modifiche approvate. In sostanza, mentre nei piani pregressi la contribuzione aggiuntiva variava da un massimo di 20 euro a quintale, in caso di “splafonamento” superiore al 9%, ad un minimo di 5 euro a q.le, in caso di “splafonamento” non superiore al 3%, ora essa prevede ora due scaglioni di contribuzione aggiuntiva: il primo pari a 15 € per quintale di splafonamento (“importo unico Base”); il secondo, a carico dei c.d. “grandi splafonatori” (ovvero gli allevatori la cui produzione supera del 20% le quote latte assegnate), pari a 25 € per quintale di splafonamento. Tale previsione sarebbe, secondo la ricorrente, del tutto ingiustificata in quanto addirittura accentuerebbe i profili di ingiustizia di un sistema di regolazione dell’offerta che punisce il settore più debole della filiera produttiva (gli allevatori). La censura non può essere accolta. La previsione di una gradazione peggiorativa della contribuzione aggiuntiva a secondo dalla entità della percentuale di splafonamento appare infatti ragionevole e giustificata in un’ottica di maggiore deterrenza della sanzione a seconda dell’entità gravità della condotta. Le ulteriori censure, tutte già scrutinate, vanno respinte per le ragioni già sopra esposte. Pertanto, il secondo ricorso per motivi aggiunti deve essere respinto. Le spese possono essere compensate, tenuto conto della soccombenza reciproca e della complessità della fattispecie. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, nonché sul primo ricorso per motivi aggiunti (depositato il 6.11.2017) li accoglie in parte, limitatamente all’annullamento delle clausole del Piano relative allo spaffondamento del caseificio, respingendoli per il resto. Compensa le spese. Respinge il secondo ricorso per motivi aggiunti, depositato il 28 gennaio 2019. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 7 ottobre 2019 e 3 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Pietro Morabito, Presidente Michelangelo Francavilla, Consigliere Maria Laura Maddalena, Consigliere, Estensore Pietro Morabito, Presidente Michelangelo Francavilla, Consigliere Maria Laura Maddalena, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Alimenti - Tutela - Produzioni Dop -  Regolazione dell’offerta di formaggio - Piano Regolatore dell’offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano per il triennio 2017-2019 – Legittimità.             E’ legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”, ad eccezione della disciplina della modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione (1). (1) La Sezione ha ritenuto complessivamente legittima l’adozione, per il triennio 2017-2019, del Piano Regolatore dell’Offerta del formaggio Parmigiano-Reggiano. ai sensi dell’art. 150 del regolamento UE 17 dicembre 2013 n. 1308/2013, che autorizza gli Stati membri a “stabilire, per un periodo di tempo limitato, norme vincolanti per la regolazione dell’offerta di formaggio che beneficia di una denominazione di origine protetta o di una indicazione geografica protetta”. Ha unicamente rilevato un profilo di illegittimità per disparità di trattamento circa la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori che si basa sullo “splafonamento di caseificio”, ossia sul superamento di un livello di produzione da parte del singolo caseificio, e su misure interne di compensazione. La sentenza ha in primo luogo rilevato che la rinnovazione del piano di regolazione per un ulteriore triennio, dopo l’adozione del piano per il precedente triennio 2014-2017, non è vietata dalla normativa UE. Infatti, la lettera c) del par. 4 dell’art. 150 del Regolamento 1308/2013prevede che: "le norme di cui al par. 1 possono essere rese vincolanti per un massimo di tre anni ed essere rinnovate dopo questo periodo a seguito di una nuova richiesta di cui al paragrafo 1”. Quanto alla scelta di mantenere lo stesso PRC (punto di riferimento comprensoriale) del precedente piano (pari a 1.762.000 ton di latte), tale scelta è stata ritenuta ragionevolmente e legittimamente motivata - nel Piano - dalla considerazione che il livello produttivo 2015 esprime condizioni di sostanziale equilibrio rispetto agli strumenti già disponibili, e pertanto non punta – a tali livelli produttivi – a reperire risorse aggiuntive dalla contribuzione aggiuntiva. Il TAR ha poi ritenuto che la scelta di imperniare il sistema di regolazione dell’offerta sulle quote latte  sia ragionevole in quanto per il Parmigiano Reggiano si verifica la sostanziale esclusività di impiego del latte prodotto dalle stalle inserite nel sistema di controllo della Dop. nella filiera del Parmigiano Reggiano, pertanto, il rapporto “vacche – latte – formaggio” è sostanzialmente esclusivo. (v. pag. 8 del Piano). Il controllo delle quote latte, pertanto, consente di influire sulla regolazione della produzione del formaggio mediante lo strumento della contribuzione aggiuntiva in caso di c.d. “splaffonamento”. Circa la questione dell’(eventuale e futuro) aumento incontrollato dei prezzi delle quote latte, paventata da parte ricorrente, la sezione ha ritenuto che si tratta di una conseguenza dell’andamento del mercato delle quote, che seppur non auspicabile, non può essere motivo per incrementare oltre misura la produzione del parmigiano, a scapito delle esigenze di tutela del prodotto poste a fondamento dell’adozione del piano. Infine, il TAR ha ritenuto non ragionevole la modalità di calcolo della contribuzione aggiuntiva a carico dei produttori, laddove determina una irragionevole disparità di trattamento che finisce per agevolare e grandi produttori di latte a svantaggio dei piccoli produttori e dei caseifici aziendali, calcolando al contribuzione aggiuntiva non sul latte prodotto ma sullo splafonamento del caseificio cui essi conferiscono latte, e cioè su un dato che è al di fuori delle conoscenze, e ancor più di qualsiasi possibilità di influenza e previsione. Il Tar ha pertanto disposto l’annullamento delle clausole del Piano relative allo splaffondamento del caseificio, respingendo per il resto tutte le altre censure dedotte.
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Accoglimento dell’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa
N. 00881/2020 REG.PROV.PRES. N. 00139/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 139 del 2020, proposto da -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Enrico Soprano, Federica Esposito, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Enrico Soprano in Roma, via degli Avignonesi n. 5; contro -OMISSIS-, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Alessandro Biamonte, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Pistoia 6; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. 02846/2019, resa tra le parti, concernente annullamento: 1) dell’ordinanza n.96 del 11.06.2018 del Responsabile del Settore Demanio -OMISSIS- avente ad oggetto «ordinanza per la disciplina degli accosti e sbarchi al molo dello “Scoglio delle Sirene” in località Marina Piccola e per la tutela e la salvaguardia dell’incolumità pubblica e dell’ambiente; 2) ove necessario e per quanto di ragione della delibera della città di Capri n. 80 del 03.05.2018) di tutti gli atti presupposti, preparatori, conseguenti e comunque connessi. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli articoli 84 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28; Visto il decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 134 del 22 maggio 2020, recante “Regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti”; Rilevato che per la trattazione del presente ricorso risulta fissata l’udienza del 18 giugno 2020; Vista l’istanza depositata in data 27 maggio 2020, con cui parte appellante ha chiesto che la causa sia discussa oralmente mediante collegamento da remoto, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, del decreto-legge n.28/2020; Vista l’opposizione depositata in data 29 maggio 2020 dal -OMISSIS-; Ritenuto che, valutato anzitutto il contesto circostanziale e normativo speciale relativo alla svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche ed essendo fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita, l’opposizione sopra menzionata risulta fondata su elementi di meritevolezza, non emergendo una obiettiva peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale nelle modalità attualmente previste; Ritenuto, pertanto, che la causa debba passare in decisione senza discussione orale, ai sensi dell’articolo 84, comma 5, del decreto-legge n. 18/2020; P.Q.M. Respinge l’istanza di cui in premessa, stabilendo che la causa passi in decisione senza discussione orale. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 1 giugno 2020. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Mancanza di peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale – Va accolta l’opposizione.             Va accolta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa, e quindi la causa passa in decisione senza discussione orale, ai sensi dell’art. 84, comma 5, d.l. n. 18 del 2020, nel caso in cui – stante il contesto circostanziale e normativo speciale relativo allo svolgimento dell’udienza mediante modalità telematiche e fatta salva l’integrità del contraddittorio comunque pienamente garantita – l’opposizione risulti fondata su elementi di meritevolezza, non emergendo una obiettiva peculiarità della causa tale da superare il principio della concorde convergenza delle parti nel richiedere la discussione orale nelle modalità attualmente previste.
Processo amministrativo
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Prezzi predatori da parte degli operatori aventi un significativo potere di mercato
N. 01257/2020REG.PROV.COLL. N. 00893/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 893 del 2018, proposto da Telecom Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Cardarelli, Filippo Lattanzi, Antonio Catricala', con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Filippo Lattanzi in Roma, via G. P. Da Palestrina n.47; contro Vodafone Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandro Boso Caretta, Giuseppe Lo Pinto, Fabio Cintioli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fabio Cintioli in Roma, via Vittoria Colonna 32; nei confronti Autorità per Le Garanzie Nelle Comunicazioni, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell'Economia e delle Finanze non costituiti in giudizio; Fastweb S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Guarino, Elenia Cerchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Andrea Guarino in Roma, via Giulio Caccini, 1; Wind Tre S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Guizzi, Ilaria Pagni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giuseppe Guizzi in Roma, piazza dell'Emporio n. 16/A; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 10920/2017, resa tra le parti, concernente: Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: nota-determinazione dell'AGCOM prot. n. 263 del 5 agosto 2016 avente ad oggetto “Offerta TIM Smart – riscontro segnalazione”, con la quale è stato comunicato alla Vodafone che la promozione “TIM SMART CASA e MOBILE” e “TIM SMART CASA” praticate da Telecom Italia S.p.a. nei mesi di luglio e agosto 2016 sono state oggetto di verifica di replicabilità con esito positivo (doc. 1 ric.); della nota dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) prot. n. 35755 del 30.6.2016, conosciuta in sede di accesso agli atti in data 20.9.2016, con la quale è stata approvata la commercializzazione delle offerte TIM SMART comunicata da Telecom Italia S.p.a. con nota del 27.4.2016 e successive note del 5.5.2016 e del 17.6.2016 (doc. 2 ric.); degli eventuali ulteriori atti di approvazione, anche taciti e non conosciuti, da parte dell'AGCOM, delle predette promozioni di Telecom Italia S.p.a. e in particolare del silenzio assenso formatosi sull'offerta comunicata in data 2.6.2016 e successiva nota del 14.7.2016, nonché la nota AGCOM del 12.7.2016 (doc. 3 ric.); di ogni altro atto presupposto e/o connesso compresi: gli eventuali ulteriori atti di approvazione di nuove promozioni TIM SMART, commercializzate da Telecom Italia nei mesi di settembre e ottobre 2016 o nei mesi successivi. Per quanto riguarda il ricorso incidentale presentato da FASTWEB S.P.A. in data 1 marzo 2018 : per l'annullamento e/o la riforma in parte qua e per quanto di ragione della sentenza del TAR Lazio, Sez. III, n. 10920, pubblicata il 31.10.2017 e non notificata Per quanto riguarda il ricorso incidentale presentato da VODAFONE ITALIA S.P.A. in data 2 marzo 2018: per la riforma nei limiti di cui in motivazione, della sentenza del Tar Lazio, Sez. III, 31 ottobre 2017, n. 10920, non notificata Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Vodafone Italia S.p.A. e di Fastweb S.p.A. e di Wind Tre S.p.A.; Visti gli appelli incidentali di Fastweb S.p.a. e Vodafone S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2020 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Filippo Lattanzi, Francesca Sbrana in delega di Antonio Catricala', Fabio Cintioli, Michele Bonetti in delega di Giuseppe Guizzi, e Elenia Cerchi,; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con l’appello in esame la società odierna parte appellante impugnava, in parte qua, la sentenza n. 10920 del 2017 con cui il Tar Lazio aveva parzialmente accolto l’originario gravame; quest’ultimo era stato proposto dalla impresa concorrente Vodafone, odierna parte appellata ed appellante incidentale, al fine di ottenere l’annullamento degli atti con cui l’Autorità di settore aveva approvato la commercializzazione delle offerte Tim smart. 2. In particolare venivano impugnati i seguenti atti: la nota-determinazione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) prot. n. 263 del 5 agosto 2016 avente ad oggetto “Offerta tim smart – riscontro segnalazione”, con la quale è stato comunicato alla Vodafone che la promozione “Tim smart casa e mobile” e “Tim smart casa” praticate da Telecom Italia s.p.a. nei mesi di luglio e agosto 2016 sono state oggetto di verifica di replicabilità con esito positivo; la nota Agcom prot. n. 35755 del 30 giugno 2016, conosciuta in sede di accesso agli atti in data 20 settembre 2016, con la quale è stata approvata la commercializzazione delle offerte Tim smart comunicata da Telecom Italia s.p.a. con nota del 27 aprile 2016 e successive note del 5 maggio 2016 e del 17 giugno 2016; gli eventuali ulteriori atti di approvazione, anche taciti e non conosciuti, da parte dell’Agcom, delle predette promozioni di Telecom Italia s.p.a. e in particolare del silenzio assenso formatosi sull’offerta comunicata in data 2 giugno 2016 e successiva nota del 14 luglio 2016, nonché la nota Agcom del 12 luglio 2016; ogni altro atto presupposto e connesso compresi: gli eventuali ulteriori atti di approvazione di nuove promozioni Tim smart, commercializzate da Telecom Italia nei mesi di settembre e ottobre 2016 o nei mesi successivi; la circolare dell’Agcom dell’8 luglio 2011 in tema di modalità di esecuzione dei test di prezzo applicate alle offerte tariffarie Telecom; la delibera Agcom n. 60/13/Cons recante le “Linee guida per la valutazione della replicabilità delle offerte al dettaglio a banda ultralarga su fibra ottica dell’operatore notificato”. 3. All’esito del giudizio di prime cure il Tar accoglieva il ricorso di Vodafone Italia in parte qua, disponendo che le offerte Tim smart debbano essere rivalutate dall’Autorità, in forma aggregata e complessiva, con riguardo all’intero periodo di riferimento a partire, quanto meno, dalle promozioni commercializzate dal mese di luglio 2016 e fino al marzo del 2017, onde verificarne, nell’esercizio dei poteri regolatori che ad essa competono, la complessiva incidenza sul mercato di riferimento e disporne l’assoggettamento al test “Period by Period”, soltanto in caso di positivo accertamento di un impatto significativo ovvero “non limitato” sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio (arg. ex Allegato A par. 3.2 alla delibera n. 604/13/Cons). 4. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda parte appellante, nel contestare la sentenza limitatamente ai motivi accolti, formulava i seguenti motivi di appello: - eccesso di potere giurisdizionale, violazione degli articoli 3 e 6 della direttiva n. 2002/21/CE, 13 della direttiva n. 2002/19/CE, 11 del CCE, 99 c.p.c. e 41 cod.proc.amm., avendo il Tar sostituito il proprio modello scientifico a quello individuato dall’Amministrazione; - violazione delle delibere n. 499/10/CONS, n. 604/13/CONS, n. 623/15/CONS e degli articoli 10 della direttiva n. 2002/19/CE, 7, par. 7 della direttiva n. 2002/21/CE, 10 della direttiva n. 2002/19/CE, 11 e 67 del CCE, 22 della Racc. della CE n. 466/13, 99e 41 cit., travisamento di fatto, in quanto è rimesso alla sola Agcom e non certo al giudice amministrativo la decisione di effettuare il test di replicabilità prima o dopo il lancio di una nuova offerta al dettaglio, con scelta che certamente può considerarsi la più propria espressione della discrezionalità tecnica attribuita dal legislatore dell’ Autorità; - omesso esame di eccezioni di parte, non dichiarate espressamente assorbite, dedotte nei seguenti termini: (i) inammissibilità del ricorso e di tutti i successivi atti per carenza di interesse ad agire e mancanza di legittimazione attiva di Vodafone; (ii) inammissibilità del ricorso e di tutti gli atti successivi in quanto Vodafone tenta di sollecitare un sindacato sostitutivo sulle scelte tecnico-discrezionali dell’Agcom; (iii) inammissibilità del ricorso e di tutti i successivi atti, poiché la pretesa errata configurazione di un’offerta come “entry level” non osta alla sua replicabilità. 5. L’Autorità appellata non si costituiva in giudizio. Si costituiva in giudizio l’appellata Wind tre chiedendo il rigetto dell’appello principale. 6. La parte appellata Vodafone si costituiva in giudizio e chiedeva il rigetto dell’appello. Proponeva altresì appello incidentale avverso i capi della sentenza di prime cure, recanti rigetto in parte qua del ricorso originario, deducendo i seguenti motivi: - error in iudicando per irragionevolezza della motivazione. violazione degli artt. 13 s. della direttiva 2002/19/ce, 17, 19, 45, 47, 50 e 67 del d.lgs. n. 259/2003, 11 e 65 della delibera agcom n. 623/15/cons, della delibera agcom n. 499/10/cons e della circolare applicativa dell’8 luglio 2011, della delibera agcom n. 604/13/cons, violazione dell’obbligo di motivazione ex art. 3 della l. n. 241 del 1990, eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, nonché per irragionevolezza e intrinseca illogicità, in quanto con riferimento sia ai servizi offerti su rete tradizionale sia a quelli offerti su rete in fibra, il Regolatore ha espressamente previsto che le offerte al dettaglio dell’operatore SMP devono essere sempre e necessariamente sottoposte a test di verifica della replicabilità, sia attraverso il metodo c.d. DCF che attraverso quello c.d. period-by-period, e che soltanto in casi eccezionali il test può essere parziale, con applicazione del solo metodo DCF; - analoghe censure, in quanto le offerte promozionali TIM SMART non avrebbero potuto essere qualificate come limited edition, sia perché non sono state temporanee e non hanno i presupposti indicati dalla normativa regolatoria di riferimento, sia perché sono state commercializzate anche attraverso canali diversi da quello web. 7. Anche la parte appellata Fastweb si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del gravame di Telecom, proponendo altresì appello incidentale con i seguenti motivi: - violazione degli artt. 46 e 47 del d.lvo 259/03, delle delibere AGCom 731/09/Cons, 623/15/Cons, 1/12/Cons; 499/10/Cons; 604/13/Cons nonché della circolare 8.7.2011, illogicità e contraddittorietà della motivazione rispetto ai fini, essendo la sentenza del TAR errata nella parte in cui afferma che le categorie di offerte esentate dal test period by period e soggette al solo test DCF vanno intese come ipotesi esemplificative di un più generale criterio di esenzione la cui ratio è da rinvenire nella scarsa incidenza della promozione sulle dinamiche concorrenziali del mercato al dettaglio; - irragionevolezza ed insufficienza della motivazione della sentenza nella parte in cui afferma che sia sufficiente che l’Autorità, con un giudizio logico immune da critiche, riscontri il limitato impatto sulle dinamiche competitive, nonché in relazione alla qualificazione delle offerte tim, e più in generale in quanto tutti gli elementi in forza dei quali il Tar ha concluso che le offerte di Tim (almeno singolarmente intese) avevano le caratteristiche necessarie ad essere esentate dal test sono errati, illogici, irragionevoli e non condivisibili. Avverso tali motivi di appello incidentale replicava la parte appellante principale, chiedendone il rigetto. 8. Alla pubblica udienza del 13 febbraio 2020, in vista della quale le parti costituite depositavano memorie e repliche, la causa passava in decisione. DIRITTO 1. La controversia decisa dalla sentenza impugnata ha ad oggetto la contestazione, da parte degli operatori concorrenti dell’impresa odierna appellante, dei provvedimenti espressi e taciti dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (“AGCOM” o “Autorità”), odierna appellata non costituita, con i quali è stata autorizzata la commercializzazione di alcune offerte commerciali al dettaglio, praticate da Telecom, senza la invocata duplice verifica ordinaria di replicabilità dei prezzi da parte degli altri operatori del settore. 2. In termini di individuazione del quadro regolatorio, la ricostruzione appare nella sostanza pacifica fra le parti, risultandone piuttosto controversa l’interpretazione e l’applicazione alle fattispecie in esame. 2.1 Telecom è stata identificata da AGCOM, con delibere da ultimo riconfermate, come operatore che detiene un significativo potere di mercato (“SMP”), definito dall’art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 259/2003 (“Codice delle comunicazioni elettroniche” o “CCE”) come quel soggetto che “individualmente o congiuntamente con altri, gode di una posizione equivalente ad una posizione dominante, e dunque di forza economica tale da consentirle di comportarsi in misura notevole in modo indipendente dai concorrenti, dai clienti e dai consumatori”. 2.2 In tale contesto Telecom, in quanto operatore SMP e dominante nei mercati delle telecomunicazioni di rete fissa, è sottoposta ad alcuni obblighi regolatori che ne conformano l’attività di offerta dei servizi, sia all’ingrosso (ad esempio, con riferimento al livello dei prezzi dei servizi di accesso alla propria rete offerti agli altri operatori), sia al dettaglio. In particolare, il Codice delle comunicazioni elettroniche (d. lgs 1º agosto 2003, n. 259) prevede (capo III sezione II), tra gli obblighi che possono essere imposti alle imprese che dispongono di un significativo potere di mercato, i seguenti: ai sensi dell’art. 47 l’obbligo di non discriminazione, volto garantire che “che l’operatore applichi condizioni equivalenti in circostanze equivalenti nei confronti di altri operatori che offrono servizi equivalenti, e inoltre che esso fornisca a terzi servizi e informazioni garantendo condizioni e un livello di qualità identici a quelli che assicura per i propri servizi o per i servizi delle proprie società consociate o dei propri partner commerciali”; ai sensi dell’art. 50 l’obbligo di controllo dei prezzi, nel senso che “per determinati tipi di interconnessione e di accesso l'Autorità può imporre obblighi in materia di recupero dei costi e controlli dei prezzi, tra cui l'obbligo che i prezzi siano orientati ai costi, nonché l'obbligo di disporre di un sistema di contabilità dei costi, qualora l'analisi del mercato riveli che l'assenza di un'effettiva concorrenza comporta che l'operatore interessato potrebbe mantenere prezzi ad un livello eccessivamente elevato o comprimerli a danno dell'utenza finale”. Lo stesso codice poi, (capo IV sezione II) prevede una serie di controlli sugli obblighi delle imprese che dispongono di un significativo potere di mercato su mercati specifici. In particolare, all’art. 67 del medesimo codice si prevede che l’Autorità possa imporre obblighi volti a prevenire la pratica di prezzi predatori da parte degli operatori aventi SMP: “1. L'Autorità, qualora in esito all'analisi del mercato realizzata a norma dell'articolo 19 del Codice accerti che un determinato mercato al dettaglio identificato conformemente all'articolo 18 non è effettivamente concorrenziale e giunga alla conclusione che gli obblighi previsti dagli articoli da 46 a 50 non portino al conseguimento degli obiettivi di cui all'articolo 13, impone i necessari obblighi alle imprese identificate come imprese che dispongono di un significativo potere di mercato su un dato mercato al dettaglio ai sensi dell'articolo 17. 2. Gli obblighi di cui al comma 1 si basano sulla natura della restrizione della concorrenza accertata e sono proporzionati e giustificati alla luce degli obiettivi di cui all'articolo 13. Tali obblighi possono includere prescrizioni affinché le imprese identificate non applichino prezzi eccessivi, non impediscano l'ingresso sul mercato né limitino la concorrenza fissando prezzi predatori, non privilegino ingiustamente determinati utenti finali, non accorpino in modo indebito i servizi offerti. Qualora le pertinenti misure relative alla vendita all'ingrosso, alla selezione e alla preselezione del vettore non consentano di realizzare l'obiettivo di garantire una concorrenza effettiva e l'interesse pubblico, l'Autorità, nell'esercizio del proprio potere di sorveglianza sui prezzi, può prescrivere a tali imprese di rispettare determinati massimali per i prezzi al dettaglio, di controllare le singole tariffe o di orientare le proprie tariffe ai costi o ai prezzi su mercati comparabili”. Il chiaro tenore letterale delle norme in esame, costituenti la fonte normativa del potere oggetto di controversia, evidenziano il primario fine di tutela della concorrenza del mercato e del connesso interesse pubblico all’apertura dello stesso. Si tratta, in buona sostanza, di prevenire un abuso di posizione dominante che prende il nome di “margin squeeze”. La compressione dei margini si configura quando il differenziale tra il prezzo dell’input, fornito dall’impresa dominante nel mercato a monte - impresa verticalmente integrata -,e il prezzo dell’output, offerto da quest’ultima sul mercato a valle, risulta essere negativo o insufficiente a coprire i costi di un operatore, attivo nel downstream market, efficiente quanto l’impresa che attua tale condotta. Ciò che spinge l’impresa ad effettuare una compressione dei margini è l’intento di escludere le rivali dal mercato a valle, per cui si tratta di un abuso escludente. I controlli sulla replicabilità delle offerte da parte degli altri competitors sono forme di regolazione che hanno un aspetto di limitazione della concorrenza. Esse rivelano un aspetto peculiare del rapporto fra regolazione e concorrenza. La regolazione ex ante deve intervenire a limitare la concorrenza quando questo è necessario per prevenire condotte che possano avere valenze escludenti da parte di imprese dominanti. Le misure limitative della concorrenza, date dal regolatore, si giustificano in presenza di un operatore dominante o meglio che detenga un significativo potere di mercato. Si interviene ex-ante, indirizzando i comportamenti delle imprese che operano in questi settori con obblighi positivi specifici. E’ possibile che, in un determinato settore,la concorrenza non consenta il perseguimento di interessi meritevoli di tutela. In tal caso, si può intervenire regolamentando il settore e andando a limitare la concorrenza in nome di tali interessi. Non v’è alcuna contraddizione, tuttavia, fra regolazione ex ante e tutela della concorrenza. Le Corti europee hanno più volte confermato il principio di applicabilità delle regole di concorrenza anche in presenza di specifiche regolazioni settoriali e il Tribunale stesso, in relazione al caso Telefònica, ha affermato che “le norme in materia di concorrenza previste dal trattato CE completano ,per effetto di un esercizio di controllo ex-post, il contesto normativo adottato dal legislatore dell’Unione ai fini della regolamentazione ex-ante dei mercati delle Telecomunicazioni” Tali misure, nella specie, come si vedrà si concretizzano nel test di replicabilità delle offerte. 2.3 In tale contesto, con delibera n. 623/15/CONS contenente l’analisi del mercato, l’Autorità ha evidenziato, in particolare, che Telecom Italia è ancora “l’unico operatore verticalmente integrato lungo tutta la catena tecnologica e impiantistica a livello nazionale” mentre gli operatori alternativi (cc.dd. “OLO”), quale è la ricorrente, da un lato “devono rispettare i vincoli imposti da Telecom Italia nell’acquisto dei servizi intermedi, dall’altro si trovano a competere con quest’ultima nel mercato a valle”. Quindi, la stessa Autorità ha espressamente sancito, al comma 7 dell’art. 11 (rubricato Obblighi di non discriminazione), che “tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio (inclusi i bundle) devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente e, pertanto, sono sottoposte ad un test di replicabilità, in modalità ex ante ossia prima del lancio commerciale, da parte dell’Autorità”. 2.4 L’art. 65 della medesima delibera (Replicabilità dei servizi al dettaglio di accesso alla rete fissa) ha poi precisato che “In attuazione dell’obbligo di non discriminazione di cui all’art. 11 nonché dell’obbligo di controllo dei prezzi di cui all’art. 13, tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio – sia per effettuare e/o ricevere chiamate telefoniche ed accedere ai servizi correlati sia per accedere ai servizi di trasmissione dati a banda larga – offerti su rete in rame e su rete in fibra, commercializzati singolarmente o in bundle con altri servizi – incluse le promozioni – devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente. L’Autorità effettua la verifica della replicabilità economica e tecnica delle offerte di cui al comma precedente mediante i test definiti ai sensi della delibera n. 499/10/CONS e successive integrazioni, salvo quanto stabilito in merito alle gare per pubblici appalti ed alle procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore di cui all’articolo seguente”, inoltre fissa le modalità di espletamento delle verifica “de qua”, prescrivendo, tra l’altro, che essa avvenga mediante i test di cui alla delibera n. 499/2010 (doc. 5 ric.) e successive modificazioni ed integrazioni. Quest’ultima delibera del 2010 è stata integrata dalla delibera n. 604/13 per quanto concerne l’applicabilità dei medesimi test di prezzo anche ai servizi a banda ultralarga su fibra ottica e, ancor prima, dalla Circolare applicativa, datata 8 luglio 2011 espressamente dedicata alle modalità applicative della delibera n. 499 cit. 2.5 Per quanto riguarda in dettaglio le analisi necessarie ai predetti fini di verifica, in particolare, nella stessa delibera n. 499/2010 si legge (par. 1.4, pag. 50, doc. 5 ric.) che le analisi multiperiodali possono essere effettuate sia analizzando (mediante il test c.d. “Period by Period”) ciascun periodo della “permanenza media del cliente nell’offerta”, sia analizzando unicamente il risultato a fine periodo (c.d. analisi “DCF”). Quest’ultima analisi è più appropriata per la valutazione di offerte mediante le quali si realizzino investimenti fissi “ad hoc” da recuperare in un determinato intervallo temporale, il che corrisponde alla logica economica secondo cui il ritorno degli investimenti non si realizza in un unico periodo, ma nel corso della vita utile dell’investimento effettuato. Quindi andrebbero valutati secondo il criterio DCF, in vista della verifica del risultato alla fine del “multi-periodo” considerato, gli investimenti e i relativi ammortamenti; al riguardo l’Autorità, nella delibera n. 499 ha mostrato di ritenere congruo un arco temporale di 24 mesi per i servizi in rame, fatte salve future modifiche di esso ove ritenute più congrue (in effetti per le offerte in fibra il periodo di osservazione è stato successivamente esteso a 36 mesi). Viceversa i costi variabili dovrebbero essere recuperati in ciascun singolo periodo, su base annuale (o sulla base della durata minima contrattuale dell’offerta) e, pertanto a questa verifica meglio si adatta il test “Period by Period” (PbP) che consente di verificare che in ciascun singolo periodo (e non solo “alla fine” dell’arco temporale totale dell’investimento considerato) vengano coperti tutti i costi variabili relativi all’offerta (inclusi i costi “W” relativi ai fattori produttivi di rete essenziali, vedi pagg. 47 e pag. 50 delibera n. 499). “Al fine di garantire una corretta valutazione delle offerte, che tenga conto delle logiche economiche e di sviluppo del mercato, l’Autorità …(ha ritenuto) opportuno integrare l’utilizzo di entrambi i metodi di valutazione” (pag. 50 delibera ult. cit.). 2.6 Alla suddetta regola generale - secondo la quale la verifica di replicabilità si deve svolgere attraverso entrambi i metodi di analisi sopra citati - fanno eccezione alcune rilevanti fattispecie che lo stesso Regolatore, già a partire dalla delibera n. 499/10 ha ritenuto di sottrarre alla verifica “PdP”. Due di esse sono direttamente contemplate dalla delibera in commento che esclude dalla sottoposizione al test PbP: i) le offerte formulate in occasione di procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore, a cui si applicano criteri “ad hoc”; ii) le offerte c.d. “entry level” cioè finalizzate allo sviluppo del mercato, considerata la necessità di specifici investimenti destinati a tale sviluppo, da assoggettare al solo test DCF. 2.7 Con la Circolare del 8 luglio 2011, l’Autorità ha successivamente dettato le modalità attuative della delibera 499/10 e, per quanto di interesse nella specie, ha delineato ulteriori fattispecie da assimilare all’ipotesi di offerta “new entry” ai fini dell’esonero dall’analisi di tipo PdP (in deroga alla regola generale della doppia verifica): il par. 6, punto 27 della Circolare nominata individua tali fattispecie nelle “…offerte promozionali che presentano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio. In tale categoria rientrano, a titolo di esempio, le promozioni commercializzate in modalità c.d. rush, ossia per intervalli di tempo particolarmente ridotti e/o attraverso alcuni specifici e limitati canali di acquisizione (ad esempio mediante il solo canale web)”. 2.8 L’assoggettamento di queste tipologie di promozioni al solo test DCF è stato ribadito dalla successiva delibera AGCOM n. 604/13 (in tema di offerte “ultrabroadband” in fibra) che espressamente menziona anche le offerte “limited edition” caratterizzate dal fatto che l’operatore prevede un numero massimo di acquisizioni nel periodo di commercializzazione, di limitato impatto percentuale rispetto al totale delle attivazioni dell’offerta nel periodo considerato. 3. In termini ricostruttivi, sulla scorta del quadro regolatorio appena riassunto, va rilevato come il c.d. “test di prezzo”, quale strumento inteso a verificare la replicabilità delle proposte commerciali presentate dall’operatore notificato prima del lancio sul mercato, sia stato introdotto per la prima volta dall’Autorità nel 2002, con la delibera n. 152/02/CONS. 3.1 Con la già richiamata delibera 499 cit., in vigore dal 28 ottobre 2010, l’Autorità ha poi provveduto ad aggiornare i meccanismi di valutazione delle offerte di Telecom Italia, adottando una nuova metodologia dei test di prezzo, più flessibile e adeguata alla mutata configurazione del mercato e dell’offerta di servizi di comunicazione elettronica, sempre più comunemente basata su pacchetti di servizi di accesso e traffico. 3.2 Successivamente, nel dichiarato perseguimento di un’ottica di trasparenza delle modalità di svolgimento delle verifiche di replicabilità, alcuni aspetti tecnico-applicativi della delibera n. 499/10/CONS e alcuni parametri di dettaglio della rinnovata metodologia dei test di prezzo sono stati chiariti con circolare attuativa dell’8 luglio 2011. 3.3 Da ultimo, con delibera n. 604/13/CONS, sono stati adottati i criteri applicativi dei test di prezzo da applicarsi alle offerte al dettaglio a banda ultra-larga su fibra ottica di Telecom Italia, ferme restando le disposizioni, la metodologia e gli strumenti generali in materia di test di prezzo di cui alla delibera n. 499/10/CONS. 4. Da queste fonti si evince che, con riferimento alle modalità di verifica della replicabilità, alle offerte al dettaglio di Telecom Italia, comprendenti servizi di accesso verticalmente integrati con i servizi all’ingrosso regolati, gli Uffici dell’Autorità sono chiamati ad applicare entrambi i test di prezzo di tipo DCF e period by period. 4.1 L’analisi DCF è volta a verificare il recupero dei costi complessivi, fissi e variabili, relativi all’offerta in esame e considera pertanto in senso complessivo costi e ricavi generati dall’insieme delle promozioni applicate all’offerta in un dato periodo di riferimento (un anno). 4.2 L’analisi period by period mira, invece, ad accertare il recupero dei costi variabili generati da ogni nuovo cliente dell’offerta ed è pertanto applicata separatamente a ogni singola promozione. 5. In definitiva, secondo il quadro che emerge dalla ricostruzione del contesto regolatorio, la regola generale prevede che l’offerta sottoposta alle verifiche debba superare, per poter essere commercializzata, entrambi i suddetti test. 5.1 Dal punto di vista giuridico, ciò appare coerente alla qualificazione della posizione di Telecom, in un’ottica di perseguimento, fra i tanti, dell’obiettivo fondamentale della tutela della concorrenza fra operatori comunque limitati nonché degli interessi pubblici connessi, nei termini peraltro chiaramente ed espressamente indicati dalle norme del codice delle comunicazioni elettroniche sopra richiamate. 5.2 Dal punto di vista tecnico, poi, la previsione di una duplice verifica risponde a una logica di complementarietà: il test DCF verifica la redditività globale dell’investimento sotteso alla commercializzazione dell’offerta, mentre la verifica period by period è volta ad accertare che ciascuna promozione sia caratterizzata da un livello di prezzo superiore alla soglia dei costi variabili, ossia dei costi incrementali generati dall’acquisizione del nuovo cliente che aderisce alla promozione. 6. Ciò posto, la medesima disciplina regolatoria richiamata individua una tipologia di offerte cui si possono applicare modalità di verifica della replicabilità per così dire “semplificate”, che consistono nell’applicazione del solo test DCF. A fronte delle finalità sottese alla duplicità della verifica, appare evidente come le ipotesi “semplificate” vadano intese in termini tanto precisi quanto rigorosi, pena l’azzeramento o comunque il superamento del metodo generale, individuato quale primaria garanzia di concorrenza nel mercato e quale strumento necessario al fine di correggere le problematiche derivanti dal ruolo di Telecom. La relativa clausola di apertura (“a titolo di esempio”) non può essere intesa al fine di generalizzare le ipotesi di semplificazione, avendo piuttosto logicamente ad obiettivo l’esigenza di adeguarsi all’evoluzione tecnica e commerciale delle offerte telefoniche. 7. In termini di individuazione di tali ipotesi “semplificate”, vi è innanzitutto il caso delle cc.dd. offerte entry level, ovvero di quelle proposte commerciali finalizzate allo sviluppo e all’allargamento del mercato (cfr. allegato 1, paragrafo 1.4. Del. 499/12/Cons). A tale tipologia sono riconducibili tutte le offerte promozionali che determinano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio (cfr. punto 27 della circolare e par. 3.2. dell’allegato A alla delibera n. 604/13/CONS). Al punto 3.2. dell’allegato A alla Delibera n. 604/13/Cons. si legge, al riguardo, che «sono esonerate dall’analisi di tipo period by period le […] offerte entry level. Tali offerte sono soggette alla sola verifica DCF. Sono assimilate ad offerte entry level le offerte promozionali che presentano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio. In tale categoria rientrano, a titolo di esempio: - le promozioni commercializzate in modalità c.d. rush, ossia per intervalli di tempo particolarmente ridotti e/o attraverso alcuni specifici e limitati canali di acquisizione (ad esempio mediante il solo canale web); - le promozioni c.d. limited edition, per le quali l’operatore sottoposto al test comunica preventivamente un numero massimo di acquisizioni nel periodo di commercializzazione, laddove tale numero risulti di ridotto impatto percentuale rispetto al totale delle attivazioni dell’offerta nel medesimo periodo». 8. Nella presente fattispecie le offerte soggette a verifica sono state così individuate. La formulazione commerciale dell’offerta di Telecom Italia denominata Tim smart prevede una componente “base”, che ha ad oggetto il servizio di accesso ADSL a 20 Mbit/s e il servizio Timvision2, al prezzo di listino di 29,90 €/mese (IVA incl.). A tale offerta “base” Telecom può decidere di applicare diverse promozioni, ciascuna delle quali è sottoposta a verifica di replicabilità da parte dell’Autorità. Le principali promozioni collegate all’offerta Tim smart sono: - una promozione «fedeltà», riservata a clienti già in customer base Telecom Italia da un dato periodo di tempo, con sconto di 5 €/mese sul canone mensile dell’offerta; - una promozione «local», commercializzata esclusivamente in alcune città, che a sua volta prevede uno sconto di 5 €/mese sul canone mensile; - una promozione «limited edition da canale web», riservata, appunto, al solo canale web e con un numero massimo mensile di sottoscrittori, che prevede un ulteriore sconto di 120 € nel primo anno (equivalente a 10 € su base mensile). Il prezzo effettivo praticato al singolo cliente dipende, dunque, dalla specifica promozione sottoscritta. Dall’esame della documentazione in atti non emerge una specifica ed unica qualificazione in termini di offerta rush ovvero limited edition. 9. Dinanzi a tale quadro regolatorio ed al carattere delle offerte in esame, il Tar ha concluso nei termini della mera elencazione esemplificativa delle ipotesi semplificate, potendo quindi rientrarvi anche quelle in oggetto pur se non direttamente ricollegabili unicamente ad una delle singole previsioni specifiche appena richiamate; peraltro, a contrario, è stata reputata necessaria un’analisi unitaria delle diverse offerte, intese nella loro sommatoria e combinazione, nel lungo periodo, con riferimento all’effetto che possono avere avuto sulle dinamiche del mercato di riferimento, con ciò reputando integrato un difetto di istruttoria negli atti impugnati. 10. Sulla scorta della ricostruzione del quadro regolatorio vigente ratione temporis, rettamente inteso alla luce delle norme del codice delle comunicazioni elettroniche e dei principi in tema di tutela del mercato e della concorrenza, nei termini sopra riassunti, appare quindi non condivisibile la decisione del Tar, sotto entrambi i profili, con conseguente fondatezza di entrambi gli appelli, principale ed incidentale (nei limiti di quello proposto dall’originaria ricorrente Vodafone). Infatti, se per un verso appare errata la qualifica meramente esemplificativa delle ipotesi semplificate, posta a base del rigetto dei principali motivi di ricorso, per un altro non è prevista dal quadro regolatorio la richiesta analisi sommatoria né, in particolare, era stato dedotto alcun vizio in tali termini. 11. Prendendo le mosse dall’esame dell’appello principale, lo stesso appare fondato sotto due distinti profili, ricollegabili ai primi due ordini di motivi: sia in quanto il Tar ha accolto ultra petita, sotto un profilo diverso da quelli specificamente dedotti; sia in quanto la normativa vigente, come sopra ricostruita, non prevede una tipologia di esame unitario, in termini di sommatoria combinata di diverse offerte. Con particolare riferimento a quest’ultimo dirimente profilo, lo stesso Tar ha evidenziato che “non vi sono né disposizioni normative né regole dettate dalla stessa Autorità che impongano alla stessa verifiche più estese rispetto a quelle che attengono alla singola offerta “limited edition” di volta in volta presentata”. In proposito, se è pur vero che in generale sussiste la sindacabilità della discrezionalità tecnica delle determinazioni delle cc.dd. Autorità indipendenti, nei termini su cui infra, è altrettanto vero che sia inibito al Giudice imporre verifiche tecniche diverse da quelle previste dal vigente quadro regolatorio. Infatti, sebbene il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estenda anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili (al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico; v. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645), e implichi la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.), tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, come avvenuto nel caso di specie, peraltro sulla base di una motivazione apodittica non supportata da specifici riferimenti normativi ed adeguati elementi istruttori (cfr. in termini Consiglio di Stato sez. VI. 25 settembre 2017 n. 4460). 12. A diverse conclusioni deve giungersi rispetto alle rimanenti censure di cui al terzo ordine di motivi, con il quale parte appellante ha riproposto le eccezioni preliminari, sollevate avverso il ricorso di prime cure e non esaminate dal Tar. 12.1 Con riferimento alla presunta inammissibilità per carenza di interesse ad agire e di legittimazione attiva in capo a Vodafone, contrariamente a quanto dedotto, appare evidente l’interesse diretto concreto ed attuale di un’impresa diretta concorrente di quella riconosciuta in posizione di significativo potere di mercato. Né la stessa Autorità ha inteso dubitare, già in sede procedimentale, della legittimazione e dell’interesse di Vodafone a sindacare le relative determinazioni. Invero, la stessa disciplina normativa di riferimento, sopra richiamata, prevede che tutte le offerte di Telecom Italia (di servizi di accesso al dettaglio – sia per effettuare e/o ricevere chiamate telefoniche ed accedere ai servizi correlati sia per accedere ai servizi di trasmissione dati a banda larga – offerti su rete in rame e su rete in fibra, commercializzati singolarmente o in bundle con altri servizi – incluse le promozioni) debbano essere replicabili da parte di un operatore efficiente. In tale ottica quindi gli operatori concorrenti, tra cui l’originaria ricorrente, sono individuati quali diretti interessati al rispetto della relativa disciplina. 12.2 Con riferimento alla presunta inammissibilità del tentativo di sollecitare un sindacato sostitutivo delle scelte tecnico discrezionali dell’Autorità, se in generale l’eccezione appare generica e riferibile piuttosto all’esame delle singole censure, nel caso di specie la stessa è infondata alla luce del già ricordato prevalente orientamento della giurisprudenza in materia. Al riguardo, va ribadito che, relativamente ai provvedimenti tecnici delle Autorità amministrative indipendenti, pur non potendo il giudice sostituirsi all’Amministrazione in ciò che è ad essa riservato, in ordine al merito della funzione amministrativa, il sindacato giurisdizionale non può limitarsi ad un esame estrinseco della valutazione discrezionale (secondo i noti parametri di logicità, congruità e completezza dell'istruttoria) ma deve estendersi, invece, dall’esatta rappresentazione dei fatti all’attendibilità delle operazioni tecniche, sotto il profilo della correttezza dei criteri applicati, secondo i parametri della disciplina nella fattispecie rilevante: quanto sopra in coerenza con il principio - costituzionale e comunitario - di effettività della tutela giurisdizionale. Tale principio impone che l’esercizio della discrezionalità tecnica sia verificabile nel giudizio di legittimità, sotto i profili della coerente applicazione delle regole tecniche, rilevanti per il settore, nonché della corrispondenza degli atti emessi ai dati concreti, in modo logico e non arbitrario; sia l’apprezzamento dei fatti che i profili tecnici, sottostanti al provvedimento, sono quindi censurabili, quando risulti superato il margine oggettivo di opinabilità delle scelte (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 12 giugno 2015, n. 2888). Come ribadito ancora di recente dalla sezione (cfr. ad es. sentenza 8 ottobre 2019 n. 6881), è assodato (cfr. Cass., sez. un., n. 30974/2017), che la discrezionalità tecnica non sia espressione di un potere di supremazia della P.A., tant’è che le relative valutazioni, inserite in un procedimento amministrativo complesso e dipendenti dalla valorizzazione dei criteri predisposti previamente, sono assoggettabili al sindacato giurisdizionale di questo Giudice, senza che ciò implichi l'invasione della sfera del merito amministrativo. Nel caso in esame, le censure dedotte, rettamente intese, si muovono all’interno dei binari di sindacato, invocando il rispetto del quadro normativo e regolatorio vigente, dettato in diretta attuazione delle norme legislative di inquadramento. A conferma dell’estensione del sindacato, nei termini predetti, oltre ai precedenti citati in materia di Autorità indipendenti, può richiamarsi un precedente in fattispecie distinta seppur specificamente connessa a profili di specialità tecnica, ai sensi del quale si è ritenuto che il sindacato del giudice amministrativo, compiuto sulle valutazioni della commissione di gara in sede di verifica dell’anomalia di un’offerta, non possa configurare un'ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento, non attenendo tale controllo al merito dell'azione amministrativa, ma all’esercizio di discrezionalità tecnica; ne deriva che il diretto scrutinio della anomalia dell'offerta (ad es. per eccesso di ribasso) non ha riguardato il merito dell'attività amministrativa, consistente in valutazioni di opportunità e convenienza, bensì una valutazione di natura schiettamente tecnica, non preclusa al giudice amministrativo (cfr. Cassazione civile, sez. un., 25 settembre 2018, n. 22755). 12.3 Parimenti prima facie destituita di fondamento è la terza eccezione preliminare, concernente la pretesa configurazione di un’offerta come entry level che non osterebbe alla replicabilità. Infatti, oltre ad essere formulata in termini perplessi dalla stessa parte appellante (inammissibilità\infondatezza del ricorso), l’eccezione concerne in realtà il merito di alcune delle questioni sollevate. 13. Passando all’esame degli appelli incidentali, preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del gravame proposto da Fastweb, sulla scorta del consolidato principio secondo cui il soggetto, interveniente ad adiuvandum nel giudizio amministrativo di primo grado, non è legittimato a proporre appello in via principale e autonoma, salvo che non abbia un proprio interesse direttamente riferibile alla sua posizione, come nel caso in cui sia stata negata la legittimazione all’interventore o sia stata emessa nei suoi confronti la condanna alle spese giudiziali; questa regola, di origine giurisprudenziale ed ora recepita dall'art. 102 comma 2, cod.proc.amm., secondo cui l’interventore può proporre appello soltanto se titolare di una posizione giuridica autonoma, costituisce il corollario del carattere dipendente del suo interesse nel giudizio principale, il quale non gli consente altro che aderire alle censure formulate dal ricorrente poiché, diversamente opinando, l'intervento in giudizio potrebbe costituire uno strumento per l'elusione del termine di decadenza (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 11 luglio 2017, n. 3409). 14. A diverse conclusione deve giungersi in relazione all’appello incidentale di Vodafone, originaria ricorrente, che appare prima facie fondato, sulla scorta delle considerazioni sopra svolte, sia in termini di inquadramento delle ipotesi semplificate sia del difetto di motivazione e di istruttoria conseguente, in relazione alla valutazione svolta in ordine alle tariffe in discussione. Sul punto è sufficiente rinviare all’analisi sopra svolta: l’elenco delle ipotesi soggette a verifica semplificata non può intendersi come meramente esemplificativo, trattandosi di eccezioni rispetto a regola posta a tutela della concorrenza le quali vanno intese in termini tipizzati e restrittivi, eccezionali e quindi non estendibili analogicamente. Il riferimento a titolo di esempio concerne il dettaglio tecnico delle singole offerte, non la qualificazione che va rettamente svolta sulla scorta delle indicate ipotesi. A quest’ultimo proposito, nel caso di specie sono parimenti fondati i vizi dedotti in termini di difetto di istruttoria e di motivazione, nonché di contraddittorietà delle valutazioni svolte dall’Autorità in merito alla qualificazione delle offerte. Infatti, anche alla luce delle argomentazioni difensive svolte dalla difesa erariale in sede di costituzione nel giudizio di prime cure (le uniche svolte, stante la mancata costituzione nel presente giudizio di appello), le offerte in parola, diversamente da quanto emerge dall’analisi degli atti impugnati e dei relativi prodromici procedimentali, non sono state qualificate e valutate tanto come temporanee, cioè come “rush”, ma piuttosto come “limited edition”, cioè come soggette ad un limite massimo di attivazioni; solo per questa ragione sarebbero state sottratte al test di prezzo completo. A fronte di tale contraddittorietà e del rilevato carattere delle ipotesi peculiari escluse dalla doppia verifica, occorre che l’Autorità si ridetermini con una valutazione svolta ex ante circa la corretta e non contraddittoria qualificazione delle offerte in discussione, anche con riferimento all’offerta limited edition, tramite il canale web, in specie a fronte della reiterazione della stessa. 15. Alla luce delle considerazioni che precedono: l’appello principale è fondato in relazione al primo ordine di motivi e va accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata nella parte in cui ha accolto il ricorso di prime cure; l’appello incidentale di Fastweb va dichiarato inammissibile; l’appello incidentale di Vodafone è fondato, nei termini predetti, e va accolto, con conseguente riforma della sentenza di prime cure nella parte in cui ha respinto l’originario ricorso, che va quindi accolto in parte qua. Sussistono giusti motivi, stante la complessità della vicenda, per compensare le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti: accoglie l’appello principale in parte qua, con conseguente riforma della sentenza impugnata nella parte in cui ha accolto il ricorso di prime cure; dichiara inammissibile l’appello incidentale di Fastweb; accoglie l’appello incidentale di Vodafone e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’originario ricorso, accoglie il ricorso di primo grado in parte qua. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2020 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Autorità amministrative indipendenti – Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - Comunicazioni elettroniche – Operatori aventi significativo potere di mercato – Prezzi – Obblighi – Possibilità – Ratio – Abuso di posizione dominante - Qualificazione - Margin squueze – Prevenzione.   Autorità amministrative indipendenti – Discrezionalità tecnica - Sindacabilità – Limiti.             La normativa del Codice delle comunicazioni elettroniche prevede che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni possa imporre obblighi volti a prevenire la pratica di prezzi predatori da parte degli operatori aventi un “significativo potere di mercato”; tale normativa persegue il primario fine di tutela della concorrenza del mercato e del connesso interesse pubblico all’apertura dello stesso; si tratta, in buona sostanza, di prevenire un abuso di posizione dominante che prende il nome di “margin squeeze”; la compressione dei margini si configura quando il differenziale tra il prezzo dell’input, fornito dall’impresa dominante nel mercato a monte - impresa verticalmente integrata -,e il prezzo dell’output, offerto da quest’ultima sul mercato a valle, risulta essere negativo o insufficiente a coprire i costi di un operatore, attivo nel downstream market, efficiente quanto l’impresa che attua tale condotta; ciò che spinge l’impresa ad effettuare una compressione dei margini è l’intento di escludere le rivali dal mercato a valle, per cui si tratta di un abuso escludente (1).             Il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estende anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili, al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico, e implica la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.); tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione.     (1) In termini generali, ha ricordato la Sezione che le misure limitative della concorrenza, date dal regolatore, si giustificano in presenza di un operatore dominante o meglio che detenga un significativo potere di mercato. Si interviene ex ante, indirizzando i comportamenti delle imprese che operano in questi settori con obblighi positivi specifici. E’ possibile che, in un determinato settore, la concorrenza non consenta il perseguimento di interessi meritevoli di tutela. In tal caso, si può intervenire regolamentando il settore e andando a limitare la concorrenza in nome di tali interessi. Non v’è alcuna contraddizione, tuttavia, fra regolazione ex ante e tutela della concorrenza. Le Corti europee hanno più volte confermato il principio di applicabilità delle regole di concorrenza anche in presenza di specifiche regolazioni settoriali e il Tribunale stesso, in relazione al caso Telefònica, ha affermato che “le norme in materia di concorrenza previste dal trattato CE completano ,per effetto di un esercizio di controllo ex-post, il contesto normativo adottato dal legislatore dell’Unione ai fini della regolamentazione ex-ante dei mercati delle Telecomunicazioni”. Tali misure, nella specie, come si vedrà si concretizzano nel test di replicabilità delle offerte. In tale contesto, con delibera n. 623/15/CONS contenente l’analisi del mercato, l’Autorità ha evidenziato, in particolare, che Telecom Italia è ancora “l’unico operatore verticalmente integrato lungo tutta la catena tecnologica e impiantistica a livello nazionale” mentre gli operatori alternativi (cc.dd. “OLO”), quale è la ricorrente, da un lato “devono rispettare i vincoli imposti da Telecom Italia nell’acquisto dei servizi intermedi, dall’altro si trovano a competere con quest’ultima nel mercato a valle”. Quindi, la stessa Autorità ha espressamente sancito, al comma 7 dell’art. 11 (rubricato Obblighi di non discriminazione), che “tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio (inclusi i bundle) devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente e, pertanto, sono sottoposte ad un test di replicabilità, in modalità ex ante ossia prima del lancio commerciale, da parte dell’Autorità”. L’art. 65 della medesima delibera (Replicabilità dei servizi al dettaglio di accesso alla rete fissa) ha poi precisato che “In attuazione dell’obbligo di non discriminazione di cui all’art. 11 nonché dell’obbligo di controllo dei prezzi di cui all’art. 13, tutte le offerte di Telecom Italia di servizi di accesso al dettaglio – sia per effettuare e/o ricevere chiamate telefoniche ed accedere ai servizi correlati sia per accedere ai servizi di trasmissione dati a banda larga – offerti su rete in rame e su rete in fibra, commercializzati singolarmente o in bundle con altri servizi – incluse le promozioni – devono essere replicabili da parte di un operatore efficiente. L’Autorità effettua la verifica della replicabilità economica e tecnica delle offerte di cui al comma precedente mediante i test definiti ai sensi della delibera n. 499/10/CONS e successive integrazioni, salvo quanto stabilito in merito alle gare per pubblici appalti ed alle procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore di cui all’articolo seguente”, inoltre fissa le modalità di espletamento delle verifica “de qua”, prescrivendo, tra l’altro, che essa avvenga mediante i test di cui alla delibera n. 499/2010 (doc. 5 ric.) e successive modificazioni ed integrazioni. Quest’ultima delibera del 2010 è stata integrata dalla delibera n. 604/13 per quanto concerne l’applicabilità dei medesimi test di prezzo anche ai servizi a banda ultralarga su fibra ottica e, ancor prima, dalla Circolare applicativa, datata 8 luglio 2011 espressamente dedicata alle modalità applicative della delibera n. 499 cit.   Per quanto riguarda in dettaglio le analisi necessarie ai predetti fini di verifica, in particolare, nella stessa delibera n. 499/2010 si legge (par. 1.4, pag. 50, doc. 5 ric.) che le analisi multiperiodali possono essere effettuate sia analizzando (mediante il test c.d. “Period by Period”) ciascun periodo della “permanenza media del cliente nell’offerta”, sia analizzando unicamente il risultato a fine periodo (c.d. analisi “DCF”). Quest’ultima analisi è più appropriata per la valutazione di offerte mediante le quali si realizzino investimenti fissi “ad hoc” da recuperare in un determinato intervallo temporale, il che corrisponde alla logica economica secondo cui il ritorno degli investimenti non si realizza in un unico periodo, ma nel corso della vita utile dell’investimento effettuato. Quindi andrebbero valutati secondo il criterio DCF, in vista della verifica del risultato alla fine del “multi-periodo” considerato, gli investimenti e i relativi ammortamenti; al riguardo l’Autorità, nella delibera n. 499 ha mostrato di ritenere congruo un arco temporale di 24 mesi per i servizi in rame, fatte salve future modifiche di esso ove ritenute più congrue (in effetti per le offerte in fibra il periodo di osservazione è stato successivamente esteso a 36 mesi). Viceversa i costi variabili dovrebbero essere recuperati in ciascun singolo periodo, su base annuale (o sulla base della durata minima contrattuale dell’offerta) e, pertanto a questa verifica meglio si adatta il test “Period by Period” (PbP) che consente di verificare che in ciascun singolo periodo (e non solo “alla fine” dell’arco temporale totale dell’investimento considerato) vengano coperti tutti i costi variabili relativi all’offerta (inclusi i costi “W” relativi ai fattori produttivi di rete essenziali, vedi pagg. 47 e pag. 50 delibera n. 499). “Al fine di garantire una corretta valutazione delle offerte, che tenga conto delle logiche economiche e di sviluppo del mercato, l’Autorità …(ha ritenuto) opportuno integrare l’utilizzo di entrambi i metodi di valutazione” (pag. 50 delibera ult. cit.). Alla suddetta regola generale - secondo la quale la verifica di replicabilità si deve svolgere attraverso entrambi i metodi di analisi sopra citati - fanno eccezione alcune rilevanti fattispecie che lo stesso Regolatore, già a partire dalla delibera n. 499/10 ha ritenuto di sottrarre alla verifica “PdP”. Due di esse sono direttamente contemplate dalla delibera in commento che esclude dalla sottoposizione al test PbP: i) le offerte formulate in occasione di procedure ad evidenza pubblica per la selezione del fornitore, a cui si applicano criteri “ad hoc”; ii) le offerte c.d. “entry level” cioè finalizzate allo sviluppo del mercato, considerata la necessità di specifici investimenti destinati a tale sviluppo, da assoggettare al solo test DCF. Con la Circolare del 8 luglio 2011, l’Autorità ha successivamente dettato le modalità attuative della delibera 499/10 e, per quanto di interesse nella specie, ha delineato ulteriori fattispecie da assimilare all’ipotesi di offerta “new entry” ai fini dell’esonero dall’analisi di tipo PdP (in deroga alla regola generale della doppia verifica): il par. 6, punto 27 della Circolare nominata individua tali fattispecie nelle “…offerte promozionali che presentano un impatto limitato sulle dinamiche competitive nei mercati al dettaglio. In tale categoria rientrano, a titolo di esempio, le promozioni commercializzate in modalità c.d. rush, ossia per intervalli di tempo particolarmente ridotti e/o attraverso alcuni specifici e limitati canali di acquisizione (ad esempio mediante il solo canale web)”. L’assoggettamento di queste tipologie di promozioni al solo test DCF è stato ribadito dalla successiva delibera AGCOM n. 604/13 (in tema di offerte “ultrabroadband” in fibra) che espressamente menziona anche le offerte “limited edition” caratterizzate dal fatto che l’operatore prevede un numero massimo di acquisizioni nel periodo di commercializzazione, di limitato impatto percentuale rispetto al totale delle attivazioni dell’offerta nel periodo considerato.     (2) Ha ricordato la Sezione che se è vero che in generale sussiste la sindacabilità della discrezionalità tecnica delle determinazioni delle cc.dd. Autorità indipendenti, è altrettanto vero che sia inibito al Giudice imporre verifiche tecniche diverse da quelle previste dal vigente quadro regolatorio.   Infatti, sebbene il sindacato giurisdizionale, pieno ed effettivo, sugli atti regolatori delle Autorità indipendenti si estenda anche all’accertamento dei fatti operato dall’Autorità sulla base di concetti giuridici indeterminati o di regole tecnico-scientifiche opinabili (al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico; v. sul punto, ex plurimis, Cons. St., sez. III, 25 marzo 2013, n. 1645), e implichi la verifica del rispetto dei limiti dell’opinabile tecnico-scientifico (e, nell’ambito di tali confini, anche del grado di attendibilità dell’analisi economica e delle valutazioni tecniche compiute, alla stregua dei criteri della ragionevolezza e della proporzionalità), attraverso gli strumenti processuali a tal fine ritenuti idonei (ad. es., consulenza tecnica d’ufficio, verificazione, ecc.), tale sindacato non può, tuttavia, spingersi fino al punto di sostituire le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, come avvenuto nel caso di specie, peraltro sulla base di una motivazione apodittica non supportata da specifici riferimenti normativi ed adeguati elementi istruttori (Cons. St., sez. VI, 25 settembre 2017, n. 4460).
Autorità amministrative indipendenti
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/valutazione-di-impatto-ambientale-subordinata-al-rispetto-di-specifiche-prescrizioni
Valutazione di impatto ambientale subordinata al rispetto di specifiche prescrizioni
N. 07917/2020REG.PROV.COLL. N. 06118/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6118 del 2017, proposto dai Comuni di Santa Cristina e Bissone, Miradolo Terme, Vistarino, Badia Pavese, Gerenzago, Monticelli Pavese, Filighera, Linarolo e Villanterio, in persona dei rispettivi Sindaci pro tempore, nonché dai signori Ivano Cassini, Riccardo Clerici, Donovan Bordoni, Monica Ernestina Siviero, Giorgia Zaffignani, Marco Zaffignani, Liliana Bonini, Federica Sallustro, Ernesto Sallustro, Elio Giovanni Grossi, Carla Maria Longhi, Federica Grossi, Pierfranco Vitti, Enrico Berneri, Carla Mazzocchi, Chiara Berneri, Ettore Tosca, Ottavio Giovanni Dehò, Alessandro Marchesini, Marzio Zuffada, Luca Zuffada, Giampaolo Troielli, Giuseppe Pozzi, Orazio Pacella, Benedetto Bergantin, Eleonora Dehò, Teresa Raboni, Davide Maggi, Antonietta Andreolli, Ginetta Granata, Alessandro Perversi, Vittorio Vitaloni, Iginio Arbughi, Daniele Mandrini, Carmela Lomaglio, Enrico Borromeo, Antonella Borromeo e Davide Vitaloni, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati Paola Brambilla e Maria Athena Lorizio, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultima in Roma, via Dora, n. 1, contro la Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Viviana Fidani, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Cristiano Bosin in Roma, viale delle Milizie, n. 34, nei confronti - della società A2A Ambiente S.p.a., rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Todarello, Alice Colleoni e Federico Novelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Luigi Giuliano in Roma, corso V. Emanuele II, n. 154; - della Provincia di Pavia, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione Quarta, n. 1104 del 17 maggio 2017, resa tra le parti, concernente provvedimenti di V.I.A. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Lombardia e della società A2A Ambiente S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Viste le istanze di passaggio in decisione senza discussione, depositate dalla Regione Lombardia, dalla società A2A Ambiente S.p.a. e dalle parti ricorrenti rispettivamente in data 4 novembre 2020, 9 novembre 2020 e 11 novembre 2020; Relatore, nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020, svoltasi ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, il Cons. Luca Lamberti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Alcuni Comuni del Pavese ed alcuni cittadini ivi residenti hanno impugnato avanti il T.a.r. per la Lombardia: - il decreto dirigenziale VIA della Regione Lombardia n. 7338 del 1 agosto 2013, recante la pronuncia di compatibilità ambientale del progetto di una nuova centrale di produzione di energia elettrica a combustione di rifiuti non pericolosi (cd. termovalorizzatore) all’interno dell’esistente “centro integrato per lo smaltimento ed il trattamento di rifiuti” sito in Comune di Corteolona; - il decreto dirigenziale VIA della Provincia di Pavia n. 55251 del 6 agosto 2013, avente ad oggetto il progetto di modifica dell’impianto di inertizzazione dei rifiuti ubicato nel detto “centro integrato”; - il decreto dirigenziale VIA della Provincia di Pavia n. 3542 del 22 gennaio 2013, avente ad oggetto il progetto di ampliamento in sopralzo della discarica di rifiuti non pericolosi insistente nel detto “centro integrato”. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe il T.a.r., prescindendo dalle eccezioni di carattere pregiudiziale svolte dalle parti resistenti (la Regione Lombardia e la società A2A Ambiente S.p.a.), ha respinto il ricorso nel merito, dichiarando infondati tutti i sette motivi di censura. 3. Alcuni degli Enti locali e dei cittadini ricorrenti in prime cure hanno interposto appello, cui hanno resistito l’Amministrazione regionale e la società proponente. 3.1. Il ricorso, previo scambio delle memorie ex art. 73 c.p.a., è stato discusso alla camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020 ai sensi dell’art. 25 del d.l. n. 137 del 2020 e deliberato in pari data in video-conferenza, ai sensi della medesima disposizione. 4. La complessiva infondatezza nel merito dell’appello esime il Collegio dallo scrutinio della pregiudiziale eccezione di inammissibilità del gravame svolta dalla società A2A, nonché anche dell’eccezione, da ultimo svolta dalla stessa A2A, di tardività della memoria di replica delle parti appellanti. 5. Venendo, appunto, al merito, il Collegio osserva preliminarmente che i provvedimenti in questa sede gravati attengono rispettivamente: - alla realizzazione di un nuovo e più capace termovalorizzatore di rifiuti speciali non pericolosi, da costruire accanto a quello già esistente in situ (destinato ad essere dismesso dopo un breve periodo di coesistenza); - alla modifica (recte, potenziamento) dell’impianto di inertizzazione delle polveri di combustione asservito al termovalorizzatore già esistente e, in prospettiva, a quello nuovo; - all’ampliamento in sopralzo della discarica di rifiuti speciali non pericolosi. 6. I motivi svolti in prime cure ed in questa sede riproposti sono, in sintesi, i seguenti: a) la mancata valutazione dell’impatto cumulativo dei tre interventi, conseguente al frazionamento, in tesi artificioso, di un programma di intervento infrastrutturale strutturalmente unitario; b) il mancato rispetto delle norme in tema di trasparenza e di partecipazione procedimentale, che avrebbe condotto ad un deficit di istruttoria e, conseguentemente, di motivazione, difettando i provvedimenti gravati degli opportuni approfondimenti, nonostante le ripetute sollecitazioni svolte in proposito dagli interessati; c) la violazione dei principi di prevenzione e precauzione, per la mancata analisi dell’impatto sanitario del progetto; d) la compromissione di un’area ricompresa in un corridoio primario della Rete Ecologica Regionale; e) la mancata valutazione dell’impatto sulle vicine SIC e ZPS; f) la mancata valutazione dell’opzione zero. 6.1. Nella presente sede non è stata, invece, riproposta la censura di “carente e contraddittoria motivazione” del decreto di VIA regionale, svolta in prime cure quale autonomo motivo di ricorso. 7. I motivi di cui supra sono, come correttamente ritenuto dal T.a.r., infondati, ai sensi delle considerazioni che seguono. a) Tutti i tre progetti sono stati sottoposti a VIA: i procedimenti relativi alla discarica ed all’impianto di inertizzazione, conseguenti ad istanze presentate dalla società A2A rispettivamente in data 30 luglio 2012 e 5 aprile 2013, sono stati curati dalla Provincia in ossequio alla delega di funzioni disposta con l.r. n. 5 del 2 febbraio 2010, mentre quello afferente al termovalorizzatore è stato compiuto dalla Regione in quanto la relativa istanza della società è stata presentata in data (10 novembre 2009) anteriore all’entrata in vigore di tale legge. Non si apprezza, dunque, né alcuna pretermissione di VIA, né alcuna illegittima distrazione di competenza. Ciò premesso, il Collegio osserva che le gravate valutazioni di impatto ambientale hanno concretamente tenuto conto anche dell’impatto cumulativo dei progetti. Si ponga mente, quanto al progetto del termovalorizzatore, alle pagine 8 e 12 del provvedimento di VIA, dove rispettivamente si sostiene che: - “il fabbricato destinato allo stoccaggio dei rifiuti in ingresso alla sezione di termovalorizzazione sarà equipaggiato con un doppio sistema di aspirazione afferente a sistema di filtraggio a carbone attivo … il fabbricato che accoglierà l’impianto di inertizzazione delle ceneri sarà mantenuto in depressione e l’aria aspirata sarà sottoposta a trattamento mediante filtro a maniche”; - “i maggiori impatti saranno connessi alle diverse attività previste nella fase di cantierizzazione [movimenti terra, viabilità e macchine operatrici] e successivamente al rumore generato dai mezzi di conferimento; tali sorgenti andranno a sommarsi a quelle presenti presso il Centro Integrato; si evidenzia che il piano dell’impianto in progetto risulta ribassato di circa 4 m rispetto al piano campagna circostante nonché la presenza dei rilevati dei lotti della discarica del Centro Integrato i quali contribuiscono al contenimento dell’impatto acustico all’interno dell’area dell’impianto … lo studio previsionale ha preso in considerazione due differenti scenari operativi del Centro Integrato” sia “a breve termine, che prevede il funzionamento dell’impianto di termovalorizzazione esistente e di quello in progetto”, sia “a lungo termine, che prevede l’esercizio dell’impianto in progetto; in entrambi gli scenari è stata considerata anche la viabilità indotta ed il funzionamento in continuo [periodo diurno e notturno] di tutti le sorgenti fisse e mobili individuate”. Quanto all’impianto di inertizzazione, si vedano le pagine 4 – 7 del relativo provvedimento, da cui si trae l’evidenza di una considerazione dell’intervento non atomistica, bensì declinata alla luce dell’attuale e prospettica configurazione strutturale del centro integrato; oltretutto, la modifica in questione mira a potenziare le capacità di trattamento dell’impianto, estese anche alle polveri decadenti dallo scarico del filtro a maniche, non più solo a quelle decadenti dai cicloni. Quanto, infine, all’ampliamento della discarica, il relativo provvedimento di VIA: - considera la complessiva condizione strutturale ed operativa del centro integrato (cfr. pagine 3, 4, 7); - precisa i caratteri dei rifiuti ammissibili in discarica, da cui risultano esclusi, per scelta della società proponente, i residui da combustione (pagina 8); - opera un riferimento all’utilizzo dei rifiuti trattati dall’impianto di inertizzazione (pagina 9); - descrive i possibili impatti sull’ambiente della discarica, ponderati in base alla complessiva attività del centro integrato (pagine 10 ed 11); - svolge “approfondimenti in merito alla valutazione qualitativa degli impatti cumulativi legati agli impianti esistenti e futuri presso il centro integrato di Corteleona”, con specifico riferimento al “potenziale impatto cumulativo con il nuovo termovalorizzatore” (pagine 15 e 18). La censura in parola, dunque, trova smentita per tabulas. Non è ultroneo evidenziare che il provvedimento di VIA è espressione di un’ampia discrezionalità amministrativa: con esso, infatti, l’Amministrazione non è chiamata, in via per così dire notarile e “passiva”, a riscontrare la sussistenza di possibili impatti ambientali dell’opera (peraltro inevitabili, alla luce della natura dei manufatti da sottoporre ex lege a VIA), bensì a ricercare attivamente, nella ponderazione comparativa di istanze potenzialmente confliggenti, un complessivo bilanciamento fra gli interessi perseguiti con la realizzazione dell’opus, da un lato, e le contrapposte esigenze di preservazione (recte, di contenuta o, comunque, non eccessiva e sproporzionata incisione) del contesto ambientale lato sensu inteso, dall’altro. Proprio per tale motivo, del resto, il relativo procedimento è aperto alla partecipazione di “chiunque vi abbia interesse” (art. 24 d.lgs. n. 152 del 2006), eventualmente anche mediante una “inchiesta pubblica”: la partecipazione procedimentale è, quindi, estesa oltre gli ordinari confini apprestati dagli articoli 7 e ss. l. n. 241 del 1990, non essendo necessario comprovare, da parte del soggetto che aspira alla partecipazione, che “dal provvedimento possa derivare un pregiudizio”. In sostanza, proprio in considerazione del peculiare oggetto sostanziale, lo statuto procedimentale della VIA è speciale: invero, lo scrutinio discrezionale circa il quomodo (e, prima ancora, circa lo stesso an – cosiddetta “opzione zero”) dell’incisione dell’assetto ambientale recata dal progetto viene svolto coram populo, al fine di rendere quanto più possibile democratica, partecipata e condivisa una scelta che, inevitabilmente, si ripercuote sulla vita quotidiana di tutti gli attori (economici, sociali, collettivi, istituzionali) presenti sul territorio. Trattandosi, dunque, di atto che non veicola un mero accertamento tecnico, ma esprime, in forme procedimentali speciali, una potestà amministrativa sostanziale stricto sensu intesa, il conseguente sindacato giurisdizionale incontra i noti limiti, arrestandosi alla soglia dell’illogicità, della contraddittorietà, dell’irragionevolezza, senza poter accedere alla diretta valutazione del merito delle scelte, ex lege riservata alle valutazioni dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. II, 7 settembre 2020, n. 5380). Nella specie, l’Amministrazione si è posta il problema del complessivo impatto delle modifiche interessanti il centro integrato, sì che la trattazione di tali profili in tre distinti procedimenti non ha comportato alcun effettivo e concreto tratto di illegittimità. Peraltro, tale frazionamento dei procedimenti, lungi dall’essere arbitrario, è conseguito alla diversità oggettuale dei tre interventi, alla distinzione materiale e temporale delle relative istanze formulate dalla società proponente, alla ripartizione delle competenze delineata, con disposizione sopravvenuta, dalla legge regionale. Quanto a quest’ultimo punto, è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della l.r. n. 5 del 2010, articoli 2 e 5. In disparte il fatto che, nella specie, la VIA è stata espletata per tutti i progetti de quibus e che la ripartizione delle competenze non ha impedito una disamina complessiva dell’impatto ambientale cumulativo dei progetti medesimi, la delega legislativa regionale alla Provincia non è, in sé, contraria ad alcun puntuale referente costituzionale, del resto neppure specificamente indicato dagli odierni appellanti. b) Gli appellanti lamentano che “il SIA del proponente è rimasto carente dei requisiti prescritti a livello normativo dall’art. 22 del T.U.A. e dall’allegato 7 di riferimento, posto che non ha dato conto con il sufficiente grado di dettaglio - adeguato al progetto in esame - dello stato dell’infrastrutturazione presente ed in progetto nelle vicinanze dell’impianto, né delle criticità ambientali circostanti”; inoltre, non sarebbero stati presi nella dovuta considerazioni i rilievi negativi formulati dalla Provincia, dai Comuni, dall’associazione “Medicina Democratica” e dall’Ente Parco Collina di S. Colombano. Gli appellanti, inoltre, contestano “il mancato rispetto, nell’ambito del procedimento, delle norme in tema di trasparenza e partecipazione al pubblico” dettate dalla disciplina euro-unitaria e dalla conseguente normativa nazionale. Gli appellanti, infine, sostengono l’illegittimità costituzionale della legge lombarda n. 5 del 2010, articoli 4 e 7, in punto di partecipazione procedimentale. In proposito, il Collegio osserva che nel provvedimento relativo al termovalorizzatore (cui si dirigono, in particolare, le censure degli appellanti) l’Amministrazione ha puntualmente elencato i rilievi negativi svolti dalla Provincia, dai Comuni, dall’associazione “Medicina Democratica” e dall’Ente Parco Collina di S. Colombano. Nel prosieguo del provvedimento, l’Amministrazione ha poi affrontato i profili oggetto di tali rilievi, ossia la viabilità, la previsione di opere compensative, la predisposizione di un sistema di recupero dell’energia termica prodotta dal termovalorizzatore mediante una rete di teleriscaldamento, l’inferenza con la Rete Ecologica Regionale, il consumo di suolo, la pressione impiantistica cui sarebbe già allo stato soggetto il territorio provinciale, l’effettivo fabbisogno locale di trattamento dei rifiuti, il livello delle emissioni, la vicinanza con aree di pregio ambientale. Come correttamente osservato dal T.a.r., l’Amministrazione non ha il dovere di prendere puntualmente, specificamente ed analiticamente posizione su ciascuno dei singoli rilievi formulati nel corso del procedimento (ciò che potrebbe essere de facto impossibile e che, comunque, potrebbe collidere con il principio di economicità dell’azione amministrativa), ma deve confezionare un provvedimento che, nell’ambito di una valutazione necessariamente di sintesi, affronti con un sufficiente grado di approfondimento tutte le questioni problematiche emerse nel corso del procedimento. Ciò, invero, è quanto accaduto nella specie: ciascuno dei profili de quibus, infatti, è stato trattato dall’Amministrazione, che in taluni casi ha anche imposto delle prescrizioni. Ora, in termini generali è legittima una VIA che dichiari la compatibilità ambientale di un progetto subordinatamente al rispetto di specifiche prescrizioni e condizioni, da verificare all’atto del successivo rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la concreta entrata in funzione dell’opus (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1169, § 15). Invero, niente osta, in linea di principio, a che l’Amministrazione attesti che, a seguito dell’adozione futura di ben precisi accorgimenti, l’opera possa risultare compatibile con le esigenze di tutela ambientale. I limiti alla legittimità di tale modus procedendi attengono al grado di dettaglio e di specificità delle prescrizioni, nonché al numero ed alla complessiva incidenza delle stesse sui caratteri dell’opera: invero, la formulazione di prescrizioni eccessivamente generiche, ovvero relative a pressoché tutti i profili di possibile criticità ambientale dell’opus, potrebbe risolversi in una sostanziale pretermissione del giudizio. Una simile evenienza, da accertarsi nel caso concreto, ha carattere patologico e lumeggia l’illegittimità dell’azione amministrativa, che, in casi siffatti, rinviene non dalla presenza di prescrizioni in sé e per sé considerate, ma dal fatto che il carattere abnorme (qualitativamente, tipologicamente o numericamente) di tali prescrizioni disvela, a monte, l’assenza di un’effettiva, concreta ed attuale valutazione di impatto ambientale, ossia il sostanziale rifiuto dell’esercizio del potere, pur nella formale spendita dello stesso: tuttavia, una tale situazione, che avrebbe dovuto essere adeguatamente comprovata dagli appellanti, non ricorre nel caso di specie. Non è superfluo, in proposito, ricordare che la situazione soggettiva comunemente nota come potestà, di cui è investita l’Amministrazione nell’esercizio di poteri discrezionali, presenta, oltre all’aspetto del “potere” (ossia della capacità di modificare unilateralmente ed autoritativamente la sfera giuridica degli amministrati), il contestuale e parallelo tratto del “dovere” (da intendersi tanto come dovere dell’esercizio, posto che tale situazione è indisponibile, quanto come dovere della finalizzazione teleologica di tale esercizio, che deve essere volto a conseguire gli scopi indicati dalla legge): tale situazione, del resto, è altresì nota come potere-dovere. Gli appellanti, inoltre, lamentano la violazione della disciplina di matrice comunitaria (articolo 5, comma 2, ed art. 7, commi 2 e 4, della direttiva 2011/92/CE) e nazionale (art. 24 d.lgs. n. 152 del 2006) sulla pubblicità degli atti nelle procedure di VIA, giacché “la pubblicazione, con avviso laconico pubblicato solo sul Corriere della Sera, privo dei contenuti prescritti dal legislatore comunitario, prima che di quello nazionale, dell’avvio del deposito del progetto non soddisfa i requisiti di trasparenza della direttiva” ed ha, altresì, lasciato “i cittadini all’oscuro della maggior parte delle integrazioni del proponente, nemmeno pubblicate sul sito, oltre che delle osservazioni che avrebbero potuto illuminarli o supportarli, e quindi sono stati privati della possibilità di partecipare all’istruttoria e al procedimento che ha condotto al rilascio di una V.I.A. favorevole ma viziata”. Sul punto, è sufficiente rilevare che: - la disciplina nazionale vigente ratione temporis richiedeva, per i progetti di competenza VIA regionale, la pubblicazione su un quotidiano a diffusione regionale o provinciale di un avviso che recasse “una breve descrizione del progetto e dei suoi possibili principali impatti ambientali, l'indicazione delle sedi ove possono essere consultati gli atti nella loro interezza ed i termini entro i quali è possibile presentare osservazioni”; - l’avviso di VIA consta essere stato pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale; - parte ricorrente non ha concretamente specificato perché ed in quale misura tale avviso violasse la disciplina nazionale. Parti appellanti lamentano, inoltre, che la disciplina legislativa regionale (l.r. n. 5 del 2010, articoli 4 e 7) contrasterebbe con la Carta costituzionale, giacché “non prescrive che la pubblicazione abbia i contenuti minimi previsti dall’art. 5, comma 2 della direttiva” 2011/92/UE. In proposito, il Collegio osserva che la disciplina regionale lombarda prevede un sistema informativo regionale per le procedure di VIA (individuato con l’acronimo “SILVIA”) ed istituisce un apposito sito internet dedicato espressamente alle procedure di VIA; la normativa regolamentare a valle delinea, poi, ulteriori misure di dettaglio. Non si apprezza, dunque, una violazione della disciplina euro-unitaria, parametro indiretto di legittimità costituzionale ex art. 117, comma primo, Cost.; non è, in proposito, superfluo evidenziare che: - la direttiva 2011/92/UE è entrata in vigore in epoca successiva alla presentazione dell’istanza di VIA per il termovalorizzatore da parte della società contro-interessata; - l’art. 5, comma 2, della direttiva 2011/92/UE non si riferisce agli obblighi di pubblicazione, ma alle informazioni che debbono essere fornite dal proponente alle Autorità competenti. Non è, infine, fondata la censura di violazione del diritto di partecipazione procedimentale, in tesi conseguente alla mancata ripubblicazione del progetto modificato a seguito delle integrazioni disposte nel corso del procedimento. In primo luogo, l’attiva partecipazione procedimentale di molte delle parti odierne appellanti dimostra che non si è verificata alcuna concreta ed effettiva lesione delle loro istanze partecipative e defensionali; più in generale, la facoltà di partecipare al procedimento da parte dei vari cittadini dei Comuni insistenti nell’area non risulta essere stata sostanzialmente conculcata, né ab initio né durante il corso del procedimento. Si evidenzia, in proposito, che la violazione delle facoltà procedimentali richiede la puntuale dimostrazione dell’effettivo, attuale e concreto ostacolo frapposto dall’Amministrazione al pieno dispiegarsi di tali facoltà: queste, infatti, costituiscono un agere licere e, come tali, gravano l’interessato dell’onere dell’esplicazione di un minimum di diligenza e di autonoma iniziativa. c) Non si apprezza una violazione dei principi di prevenzione e precauzione. Lo studio di impatto ambientale elaborato dalla società proponente con riferimento al termovalorizzatore ha preso in considerazione “i limiti emissivi autorizzati” e non i più bassi “limiti attesi” ed ha esteso l’indagine “ad un’area costituita da un quadrato di 5 km di lato, centrato sulla localizzazione del Centro Integrato”. Lo studio ha consentito di individuare, quale area di “massima ricaduta dei contaminanti”, la zona ricompresa entro i 2 chilometri dall’impianto e, in base alle simulazioni ivi condotte, ha escluso che l’entrata in servizio del nuovo termovalorizzatore possa determinare “variazioni significative dello stato attuale della qualità dell’aria”. Del resto, l’area ove sorge il centro integrato non consta rientrare nelle Aree critiche di rilevanza regionale per quanto attiene alla qualità dell’aria. Ciononostante, l’Amministrazione ha previsto l’adozione, in sede autorizzativa, di alcune possibili cautele (definizione di valori limite dei fumi inferiori a quelli fissati dalle norme di settore, imposizione di limiti ai flussi annui di emissione di specifici contaminanti, limitazione dell’operatività dell’impianto esistente durante la fase di coesistenza con il nuovo termovalorizzatore) ed ha, altresì, disposto “una verifica dello stato di salute della popolazione coinvolta, con particolare riferimento alla fase di esercizio dell’impianto”. Parimenti, quanto alla viabilità, l’Amministrazione ha preso atto del fatto che “gli Enti territoriali ed in particolare la Provincia di Pavia hanno evidenziato, quale elemento di criticità, la non adeguatezza delle infrastrutture viabilistiche interessate dal traffico indotto dalle attività dell’impianto in progetto” ed ha, conseguentemente, disposto che “il Proponente, prima del rilascio dell’A.I.A. sull’impianto in progetto, si faccia promotore di un tavolo di concertazione con il Competente Settore viabilità della Provincia di Pavia, al fine di definire azioni ed interventi specifici finalizzati alla risoluzione di tali criticità”. Tali prescrizioni, costituenti parte integrante del giudizio favorevole di VIA, non presentano profili di illogicità, sia perché taluni elementi di dettaglio tecnico sono oggettivamente meglio apprezzabili solo all’atto del successivo rilascio dell’AIA, sia perché talune “criticità” (quali, ad esempio, quelle relative alla viabilità) non possono per loro natura essere risolte con interventi immediati, sia, infine, perché il compito della VIA non è quello di redigere compiutamente ed in dettaglio lo statuto ambientale dell’opus, bensì quello di individuare, in linea generale, l’ottimale punto di incontro fra le esigenze produttive-infrastrutturali e le istanze di tutela ambientale, ciò che può essere ottenuto anche con l’enucleazione di prescrizioni e con la previsione, a valle della VIA, di campagne di monitoraggio, tavoli di concertazione et similia (cfr. supra, sub lett. b). A titolo di completezza, il Collegio osserva, infine, che gli impatti acustici risultano affrontati con specifici accorgimenti (abbassamento del nuovo termovalorizzatore rispetto al piano di campagna) e, comunque, in base alle simulazioni svolte “non si evidenziano criticità”. d) La censura di compromissione di un’area ricompresa in un corridoio primario della Rete Ecologica Regionale è divenuta improcedibile, in considerazione del fatto che, in sede di AIA, la società contro-interessata risulta aver rinunciato alle opere che avrebbero dovuto essere ubicate in tale area. Ad ogni buon conto, il Collegio rileva che nel provvedimento di VIA venivano imposte “specifiche azioni compensative al fine di garantire un adeguato livello di continuità ecologica”: in proposito, si precisa che il complessivo equilibrio fra le esigenze sottese alla realizzazione dell’opus e le istanze di tutela ambientale può essere perseguito anche con la previsione di opere compensative, tese, appunto, a recuperare aliunde i valori ambientali intaccati dall’intervento. e) Non si apprezza neppure una mancata valutazione dell’impatto sulle vicine SIC e ZPS, che, secondo le parti appellanti, avrebbe richiesto l’effettuazione di una valutazione di incidenza (VINCA). Invero: - l’intervento infrastrutturale de quo non insiste entro un SIC od una ZPS; - queste, al contrario, risultano essere localizzate ad una distanza compresa fra i sei e gli otto chilometri dal centro integrato; - parti appellanti non hanno specificato perché, nonostante tale oggettiva distanza, la realizzazione dell’opus possa determinare “incidenze significative” sui siti predetti; - la disciplina regionale impone lo studio di incidenza ambientale per i soli casi in cui l’intervento sia localizzato entro i due chilometri dal sito protetto; - le previsioni assunte in sede di AIA (mappatura dello stato di salute della popolazione entro il raggio di ventidue chilometri dall’impianto), lungi dal disvelare ex post l’illegittimità in parte qua della VIA, attuano di contro quel monitoraggio sulla salute della popolazione umana residente ex ante divisato dalla stessa VIA e non ineriscono, dunque, alla diversa questione dell’impatto sulla flora e sulla fauna, alla cui protezione, come noto, tendono i SIC e le ZPS. Sempre in tema di tutela della salute, il Collegio osserva che, a quanto consta, in sede di AIA è stato altresì previsto che la costruzione del termovalorizzatore sia subordinata al previo completamento delle attività di bonifica del sottosuolo. f) Quanto, infine, alla mancata valutazione dell’opzione zero, il Collegio ribadisce, anzitutto, i limiti strutturali dello scrutinio giurisdizionale in subiecta materia, che non può trascendere in considerazioni di merito circa l’opportunità dell’intervento, alla luce, oltretutto, del valore costituzionale del principio della libertà di impresa. Ciò precisato, il Collegio rileva che i tre interventi incrementano la capacità produttiva del centro integrato, al contempo implementandone la sicurezza ambientale e il contenuto tecnologico, senza però determinare ulteriore consumo di suolo. Tali considerazioni, non smentite ex adverso, lumeggiano la coerenza interna e la logicità del percorso motivazionale seguito dall’Amministrazione. 8. Per le esposte ragioni, pertanto, il ricorso in appello va rigettato. 9. La delicatezza degli interessi sottesi alla controversia giustifica, comunque, la compensazione delle spese di lite del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020 - svoltasi da remoto in video-conferenza ex art. 25 d.l. n. 137 del 2020 - con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Oberdan Forlenza, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere IL SEGRETARIO
Ambiente - Valutazione impatto ambientale – Subordinata al rispetto di specifiche prescrizioni – Legittimità.     E’ legittima una valutazione di impatto ambientale (VIA) che dichiari la compatibilità ambientale di un progetto subordinatamente al rispetto di specifiche prescrizioni e condizioni, da verificare all’atto del successivo rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la concreta entrata in funzione dell’opus, nulla ostando in linea di principio a che l’Amministrazione attesti che, a seguito dell’adozione futura di ben precisi accorgimenti, l’opera possa risultare compatibile con le esigenze di tutela ambientale (1).    (2) Ha chiarito la Sezione che i limiti alla legittimità di tale modus procedendi attengono al grado di dettaglio e di specificità delle prescrizioni, nonché al numero ed alla complessiva incidenza delle stesse sui caratteri dell’opera, in quanto la formulazione di prescrizioni eccessivamente generiche, ovvero relative a pressoché tutti i profili di possibile criticità ambientale dell’opus, potrebbe risolversi in una sostanziale pretermissione del giudizio. Una simile evenienza, da accertarsi nel caso concreto, ha carattere patologico e lumeggia l’illegittimità dell’azione amministrativa, che, in casi siffatti, rinviene non dalla presenza di prescrizioni in sé e per sé considerate, ma dal fatto che il carattere abnorme (qualitativamente, tipologicamente o numericamente) di tali prescrizioni disvela, a monte, l’assenza di un’effettiva, concreta ed attuale valutazione di impatto ambientale, ossia il sostanziale rifiuto dell’esercizio del potere, pur nella formale spendita dello stesso. ​​​​​​​Ha aggiunto la sezione che la situazione soggettiva comunemente nota come potestà, di cui è investita l’Amministrazione nell’esercizio di poteri discrezionali, presenta, oltre all’aspetto del “potere” (ossia della capacità di modificare unilateralmente ed autoritativamente la sfera giuridica degli amministrati), il contestuale e parallelo tratto del “dovere” (da intendersi tanto come dovere dell’esercizio, posto che tale situazione è indisponibile, quanto come dovere della finalizzazione teleologica di tale esercizio, che deve essere volto a conseguire gli scopi indicati dalla legge): tale situazione, del resto, è altresì nota come potere-dovere. 
Ambiente
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/trasferimento-presso-il-consiglio-di-stato-di-un-componente-laico-del-c.g.a.
Trasferimento presso il Consiglio di Stato di un componente laico del C.g.a.
N. 06282/2021REG.PROV.COLL. N. 01385/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 1385 del 2021, proposto da Salvatore Zappalà, rappresentato e difeso dagli avvocati Salvatore Brighina e Gaetano Carmelo Tafuri, con domicilio digitale p.e.c. tratto da registri di giustizia; contro Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi 12;Presidenza della Repubblica, Regione Siciliana - Presidenza, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza breve del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sede di Roma (sezione prima) n. 1422/2021, resa tra le parti, concernente il rigetto della domanda di trasferimento presso una delle Sezioni del Consiglio di Stato e l’accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato di un componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, del Consiglio di Stato e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; Viste le memorie e tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 luglio 2021 il consigliere Fabio Franconiero e udito per la parte appellante l’avvocato Brighina, in collegamento da remoto; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Nominato componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana con d.P.R. 7 luglio 2016, l’avvocato Salvatore Zappalà chiedeva, con istanza in data 21 ottobre 2020 formulata «nella qualità di Consigliere di Stato» ed indirizzata in primo luogo al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, «di essere trasferito ad una delle Sezioni con sede in Roma del Consiglio di Stato per motivi personali». 2. L’istanza era esaminata e respinta dall’organo di autogoverno nella seduta del 6 novembre 2020, cui seguiva la comunicazione all’istante, di cui alla nota del 20 novembre 2020 (prot. 23386). La ragione ostativa al trasferimento era espressa nella nota in questione nei seguenti termini: «ai sensi del d.lgs. n. 373/2003 e della legge n. 186/82, i componenti laici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (CGARS), designati dalla Regione Siciliana, esercitano la loro attività giurisdizionale esclusivamente presso lo stesso CGARS». 3. Il successivo ricorso dell’avvocato Zappalà contro il diniego di trasferimento così motivato, e per l’accertamento del proprio status di consigliere di Stato a tempo indeterminato, equiparato ai consiglieri di Stato di nomina governativa, era dichiarato inammissibile «per difetto di interesse» dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sede di Roma con la sentenza in epigrafe. 4. La dichiarazione di inammissibilità veniva fatta discendere dal fatto che il ricorrente aveva censurato il diniego di trasferimento al Consiglio di Stato sulla base di un presupposto non espresso nel provvedimento impugnato. Al riguardo, secondo la sentenza l’avvocato Zappalà aveva censurato la ragione ostativa al trasferimento consistente nella durata temporalmente limitata della nomina a componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, inizialmente addotta in sede di proposta di delibera dell’organo di autogoverno da parte della competente commissione, mentre il diniego impugnato era fondato sul rapporto di esclusività con l’organo giurisdizionale in cui i componenti laici sono deputati a svolgere le loro funzioni. Anche la domanda di accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato veniva dichiarata inammissibile, perché proposta come «funzionale ad ottenere il trasferimento presso il Consiglio di Stato» e non già a proseguire l’incarico oltre la scadenza per esso prevista dalla legge. 5. Per la riforma della sentenza e l’accoglimento di entrambe le domande azionate in primo grado l’avvocato Zappalà ha proposto appello, in resistenza al quale si sono collettivamente costituiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato e la Presidenza del Consiglio dei Ministri. DIRITTO 1. L’avvocato Zappalà premette che per disposizioni di statuto speciale della Regione Siciliana (art. 23) e relativa legislazione attuativa (decreto legislativo 24 dicembre 2003, n. 373 - Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l’esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato), le sezioni del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana costituiscono sezioni staccate del Consiglio di Stato e i suoi componenti laici sono equiparati sul piano giuridico ed economico ai consiglieri di Stato, ancorché la durata dell’incarico sia fissata in sei anni, non rinnovabili (artt. 1, 6 e 7 d.lgs. n. 373 del 2003). 2. Sulla base di questa premessa, e della conseguenza da essa immediatamente ritraibile - secondo cui ogni differenziazione rispetto al regime normativo previsto per i Consiglieri di Stato determinerebbe la costituzione in Sicilia di un giudice (amministrativo) speciale, vietata ex art. 102, comma 2, Cost. - l’avvocato Zappalà censura la dichiarazione di inammissibilità del proprio ricorso pronunciata in primo grado per le seguenti ragioni: - per avere ritenuto che il ricorso non avesse specificamente censurato il presupposto a base del diniego di trasferimento impugnato, quando invece dalla comune premessa logico-giuridica posta a base delle domande di annullamento ed accertamento azionate, ovvero la piena equiparazione dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa, organo periferico del Consiglio di Stato, ai consiglieri di Stato, deriva la conseguenza per cui nessun limite alla mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato è a opponibile al componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, in assenza di disposizioni di legge in questo senso; - per avere travisato l’interesse azionato, che non consiste in quello a prolungare l’incarico oltre il sessennio previsto dal decreto legislativo n. 373 del 2003, ma in quello ad «essere trasferito come i suoi colleghi»; - per non essersi avveduto che l’interesse azionato si fonda sulla contestazione di quanto emerso presso la commissione del Consiglio di presidenza che ha istruito la pratica di trasferimento e ha formulato la proposta di delibera al plenum, e per non avere quindi compreso che il diniego di trasferimento si basa sul «presupposto non sconfessato», dato dalla «mancata equiparazione al Consigliere di Stato» del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, sulla cui base si introduce tuttavia un profilo di differenziazione che comporta l’istituzione di un giudice speciale vietato dalla Costituzione; - per non essersi pronunciato sulla domanda di accertamento status di consigliere di Stato a tempo indeterminato, nominato (recte: assunto) in attuazione dell’art. 106, comma 3, Cost. e per ragioni e modalità analoghe ai consiglieri di Stato di nomina governativa, rivelatrici della «sostanziale instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato»; - per non essersi avveduto del contraddittorio riferimento contenuto nel provvedimento di diniego impugnato al trasferimento alla legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei tribunali amministrativi regionali), il cui art. 19, comma 1, n. 2), prevede la figura dei consiglieri di Stato di nomina governativa, non soggetti alle limitazioni di durata dell’incarico invece ritenute nei propri confronti; e per avere per contro affermato che i componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa non sono equiparabili ai consiglieri di Stato, in contrasto con la giurisprudenza amministrativa (sentenza della IV Sezione di questo Consiglio di Stato del 24 marzo 2020, n. 2045); - per violazione della Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, applicabile anche ai magistrati onorari (in questo senso la sentenza della Corte di giustizia UE 6 luglio 2020, C-658/18), e per la quale occorrono ragioni oggettive atte a giustificare la limitazione temporale dell’impiego; - per illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 373 del 2003, nella parte in cui limitano a sei anni l’incarico dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa: I) per violazione dell’art. 106, comma 3, Cost., nella misura in cui a fondamento del diniego di trasferimento e dell’accertamento dello status di consigliere di Stato sono ipotizzate ragioni che determinano una disparità di trattamento in danno dei componenti laici, il cui procedimento di nomina (recte: di assunzione) è lo «stesso» previsto per i consiglieri di Stato di nomina governativa; II) per violazione dell’art. 102, comma 2, Cost., a causa dei connotati di giudice speciale che finisce per assumere il Consiglio di giustizia amministrativa, benché per statuto della Regione Siciliana le relative sezioni siano qualificate come sezioni staccate del Consiglio di Stato; III) per violazione del principio di indipendenza riconosciuto nei confronti di quest’ultimo e dei suoi componenti dagli artt. 100, comma 3, e 108, comma 2, Cost., derivante dalla «ricollocazione forzata nel mondo del lavoro» alla scadenza del sessennio; - in subordine per mancata equiparazione ai consiglieri di Stato di nomina governativa, con conseguente violazione degli artt. 2 e 3 della legge 5 agosto 1998, n. 303 (Nomina di professori universitari e di avvocati all’ufficio di consigliere di cassazione, in attuazione dell’articolo 106, terzo comma, della Costituzione). 3. Le censure così sintetizzate sono infondate. 4. Deve premettersi in fatto che, come risulta dall’estratto del verbale del Consiglio di presidenza relativo in cui l’organo di autogoverno si è pronunciato sull’istanza di trasferimento dell’avvocato Zappalà, la commissione consiliare competente ha formulato al plenum la proposta di rigetto sulla base del presupposto che i componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa «non possono essere considerati Consiglieri di Stato». Su indicazione presidente del Consiglio di Presidenza, dichiaratosi «pienamente d’accordo con il parere espresso dalla Commissione», la motivazione è stata tuttavia rettificata in questo senso: «piuttosto che la qualifica di Consigliere di Stato, debba (leggasi: deve) essere indicato che i componenti laici del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana secondo il loro regime giuridico sono destinati a esercitare la loro attività esclusivamente al C.G.A. per la Regione Siciliana». Sulla base di questa rettifica la proposta della commissione è stata approvata all’unanimità dal Consiglio di presidenza e la stessa è stata poi riprodotta nel provvedimento impugnato dall’avvocato Zappalà. 5. In ragione di quanto finora considerato la sentenza di primo grado va quindi confermata nella parte in cui ha statuito che il diniego di trasferimento si fonda in via esclusiva sul vincolo di sede dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa. Il vincolo in questione è a sua volta ritraibile dalle seguenti disposizioni del decreto legislativo n. 373 del 2003: - art. 1 secondo cui il Consiglio di giustizia amministrativa «esercita funzioni consultive e giurisdizionali nella Regione siciliana» (comma 1) e «ha sede in Palermo ed è composto da due Sezioni, con funzioni, rispettivamente, consultive e giurisdizionali, che costituiscono Sezioni staccate del Consiglio di Stato» (comma 2); - artt. 3, comma 1, lett. d), e 4, comma 1, lett. d), che per la composizione delle due Sezioni, oltre ai consiglieri di Stato, prevedono due contingenti di «componenti in possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, terzo comma, della Costituzione per la nomina a consigliere di Cassazione ovvero di cui all’articolo 19, primo comma, numero 2), della legge 27 aprile 1982, n. 186», in numero rispettivamente di cinque [con l’aggiunta ai sensi della lettera b) di «un prefetto della Repubblica»] e quattro; - artt. 3, comma 2, e 4, comma 2, i quali rispettivamente dispongono che per la validità delle deliberazioni della Sezione consultiva «occorre il voto di non meno di quattro membri della Sezione, tra cui almeno un magistrato del Consiglio di Stato», sui due chiamati a comporre la Sezione, e che il collegio giudicante è composto da cinque membri, di cui tre consiglieri di Stato, compreso il presidente di Sezione, e «e da due dei membri indicati nella lettera d) del comma 1»; - art. 4, comma 3, che assegna al Consiglio di giustizia amministrativa la funzione di «giudice di appello contro le pronunce del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia»; - art. 6, a mente del quale i componenti laici sono designati dal presidente della Regione siciliana, e sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, sulla base di un procedimento che vede la partecipazione dello stesso presidente della Regione nella fase deliberativa presso il Consiglio dei ministri; - art. 9, comma 1, secondo cui il Consiglio di giustizia amministrativa è «organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo regionale». 6. Sono dunque le disposizioni della legge di attuazione dell’art. 23 dello statuto speciale della Regione Siciliana sulla struttura e le funzioni del Consiglio di giustizia amministrativa a fissare e caratterizzare in modo inderogabile la composizione delle sue due sezioni, con l’assegnazione ad esse di componenti laici reclutati secondo modalità analoghe a quelle previste per i consiglieri di Cassazione per meriti insigni, ai sensi dell’art. 106, comma 3, Cost., e della relativa legge attuativa (legge 5 agosto 1998, n. 303 - Nomina di professori universitari e di avvocati all’ufficio di consigliere di cassazione, in attuazione dell’articolo 106, terzo comma, della Costituzione); e per i consiglieri di Stato di nomina governativa di cui al sopra richiamato art. 19, comma 1, n. 2), della legge ordinamentale della giustizia amministrativa n. 186 del 1982. 7. La previsione di componenti laici si correla all’istanza di decentramento degli organi giurisdizionali nazionali espressa nello statuto speciale della Regione siciliana, cui è stata poi data concreta attuazione con il decreto legislativo n. 373 del 2003. Come al riguardo affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 4 novembre 2004, n. 316, e di recente ribadito da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (Cons. Stato, I, parere 11 febbraio 2021, n. 186), il decreto attuativo ha concretizzato il principio di specialità espresso nel più volte citato art. 23 dello statuto della Regione siciliana, il cui primo comma è così formulato: «Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione». Nella sentenza poc’anzi richiamata la Corte costituzionale ha precisato che il principio statutario di specialità risponde ad «un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali», e di esso è espressione la peculiare struttura e composizione del Consiglio di giustizia amministrativa, secondo un modello di giudice speciale rispondente alle istanze autonomistiche regionali recepite nello statuto speciale siciliano. In questa prospettiva si colloca il potere di designazione dei componenti laici spettante ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 373 del 2003 al presidente della Regione siciliana, quale rappresentante delle ora menzionate istanze autonomistiche regionali, il quale in ragione di ciò partecipa anche alla fase deliberativa presso il Consiglio dei ministri. 8. In pedissequa applicazione del fondamento istitutivo del Consiglio di giustizia amministrativa finora esposte, ed a prescindere dal fatto che, come statuito dalla sentenza di primo grado, esse non sarebbero state specificamente censurate dall’avvocato Zappalà, il diniego di trasferimento ad esso opposto ha legittimamente fatto riferimento alle norme di attuazione dello statuto regionale, di cui al decreto legislativo n. 373 del 2003 sulla composizione e le funzioni del Consiglio di presidenza. Diversamente da quanto sostiene al riguardo l’appellante non è invece rilevante in contrario il fatto che il medesimo decreto legislativo non rechi alcun divieto in questo senso. Una simile previsione non avrebbe in realtà ragione di porsi, dal momento che il vincolo di permanenza del componente laico presso il Consiglio di giustizia amministrativa è innanzitutto insito nella dimensione esclusivamente regionale delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e di giurisdizione attribuite all’organo, in base ai sopra citati artt. 4, comma 3, e 9, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003; oltre che nella speciale composizione mista delle sue due Sezioni, consultiva e giurisdizionale, contraddistinta da distinti contingenti di consiglieri di Stato e componenti laici, e dalla partecipazione necessaria di questi ultimi ai relativi organi, secondo le disposizioni dei parimenti sopra richiamati artt. 3 e 4 d.lgs. n. 373 del 2003. 9. L’opposta tesi della libera mobilità dei componenti laici verso il Consiglio di Stato, propugnata dall’avvocato Zappalà, porta invece alle seguenti aporie: da un lato componenti espressione delle istanze autonomistiche della Regione siciliana andrebbero a svolgere le loro funzioni al di fuori del territorio regionale, con relativo svuotamento del principio di specialità che è alla base dell’istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa da parte dello statuto speciale, avente rango costituzionale; dall’altro lato per ovviare alle scoperture di organico così venutesi a creare e per ripristinare i contingenti numerici previsti dagli artt. 3 e 4 d.lgs. n. 373 del 2003 si renderebbe necessaria la nomina di altri componenti laici, e dunque, considerato anche il possibile flusso inverso, per un verso si altererebbe il rapporto laici - togati presso il Consiglio di giustizia amministrativa previsto dalla legislazione attuativa dello statuto regionale; e per altro verso si introdurrebbe un fonte di provvista dei consiglieri di Stato ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 19 della legge n. 186 del 1982. 10. Con l’accoglimento della pretesa qui fatta valere alla libera alla mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato si verrebbe quindi a spezzare il «legame funzionale esclusivamente con l’attività giurisdizionale e consultiva relativa agli affari di interesse regionale» che contraddistingue il rapporto organico dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa, ed in base al quale questi ultimi sono investiti di «una funzione legata all’amministrazione della giustizia esclusivamente nel territorio regionale e alle controversie in cui è interessata la regione stessa» (così il sopra citato parere della I Sezione di questo Consiglio di Stato del 11 febbraio 2021, n. 186). Si attribuirebbe inoltre prevalenza al distinto rapporto che viene ad instaurarsi tra il componente laico e la giustizia amministrativa, ovvero al «rapporto di servizio». 11. A quest’ultimo riguardo deve peraltro darsi atto che ai sensi del già richiamato art. 7 d.lgs. n. 373 del 2003 «vi è, per il periodo del mandato, l’equiparazione ai magistrati del Consiglio di Stato» dei componenti laici, i quali godono del «medesimo stato giuridico dei consiglieri di Stato» (così ancora il parere ora richiamato). Su tale previsione si imperniano gli assunti dell’avvocato Zappalà. Nondimeno, la relazione tra i due distinti rapporti deve trovare la giusta collocazione nel senso che va tenuto fermo il rapporto organico su cui si fonda l’esercizio delle funzioni consultive e giurisdizionali del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, a sua volta indissolubilmente legato all’organo investito delle «funzioni consultive e giurisdizionali nella Regione siciliana, ai sensi dall’articolo 23 dello Statuto speciale» ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003). Rispetto al rapporto organico il rapporto di servizio si pone invece in posizione accessoria. Ciò si desume dall’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003, il quale dispone che al medesimo componente si applicano «durante il periodo di durata in carica» le norme concernenti lo status giuridico ed economico del consigliere di Stato. Le norme sullo stato giuridico ed economico vanno quindi a disciplinare i contenuti del rapporto di servizio del componente laico per tutta la durata della carica, la quale deve comunque svolgersi presso il Consiglio di giustizia amministrativa e, per rispondere alle ulteriori pretese inerenti all’accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato avanzate dall’avvocato Zappalà, per il periodo di sei anni, senza possibilità di conferma, secondo quanto previsto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 373 del 2003. 12. Se dunque il componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa è equiparato al consigliere di Stato, egli intanto lo è nella misura in cui sia investito delle funzioni spettanti dell’organo previsto dallo statuto speciale della Regione siciliana ed espressione del principio di specialità che ne costituisce la ragione fondante. Come sopra esposto, l’attuazione di questo principio ad opera del medesimo decreto legislativo n. 373 del 2003 si è tradotta nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa, con la previsione di consiglieri di Stato da un lato e dall’altro lato di componenti designati dalla Regione siciliana e nominati secondo modalità analoghe ai consiglieri di Cassazione per meriti insigni e ai consiglieri di Stato di nomina governativa. Tuttavia, mentre per i primi l’assegnazione al Consiglio di giustizia amministrativa costituisce una vicenda modificativa inerente al rapporto di organico e di servizio (con il collocamento fuori ruolo e il mutamento della sede, ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 373 del 2003), per i secondi l’interesse regionale a base della loro nomina e della costituzione del rapporto organico con il Consiglio importa un vincolo di sede presso lo stesso organo di giustizia amministrativa, poiché solo nell’incardinamento in quest’ultimo si giustifica a termini di statuto speciale della Regione siciliana la figura del componente laico. Di riflesso, pur in presenza dell’equiparazione del trattamento giuridico ed economico al consigliere di Stato il rapporto di servizio del componente laico soffre di questa limitazione alla mobilità, giustificata sul piano statutario nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa e che va quindi ricondotta alle ragioni fondanti l’istituzione in questo settore dell’attività giurisdizionale di un organo speciale a competenza regionale. 13. L’equiparazione non può quindi essere intesa in senso assoluto. Essa deve infatti tenere conto del diverso ed antitetico sistema di provvista dei componenti del Consiglio di presidenza, riferito a due distinte disposizioni dell’art. 106 della Costituzione: l’uno, in conformità al comma 1 della disposizione costituzionale ora richiamata, mediante il collocamento fuori ruolo di magistrati di carriera, reclutati mediante concorso pubblico, salva la peculiare figura del consigliere di Stato di nomina governativa, che si giustifica in ragione dell’origine storica dell’Istituto; l’altro, in attuazione del comma 3 del medesimo art. 106 Cost., relativo alla nomina di consiglieri di cassazione “laici”, ovvero nominati per meriti insigni, e dunque attraverso il ricorso a figure tratte dalla società civile - «professori ordinari di università nelle materie giuridiche e (...) avvocati che abbiano almeno quindici anni di effettivo esercizio e (…) iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori » (art. 1, comma 1, l. n. 303 del 1998) - in possesso di meriti professionali adeguati all’ufficio da assumere. 14. Sul punto occorre aggiungere che la modalità di reclutamento prevista per i componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa si colloca pertanto nell’alveo della figura del magistrato onorario, individuata in base all’art. 106 Cost. in antitesi al magistrato togato o di carriera, selezionato a differenza di quest’ultimo non già mediante prove di concorsi finalizzate a verificare del grado di preparazione culturale e tecnico-giuridica per svolgere la funzione giurisdizionale, ma per i meriti acquisiti nell’esercizio nella carriera accademica o nell’attività forense, e per l’attitudine così maturata ad assumere l’ufficio di giudice. 15. In assenza di vincoli a livello costituzionale o di statuto speciale della Regione siciliana, per il Consiglio di giustizia amministrativa la carica del componente laico la legislazione attuativa ne ha previsto la temporanea. Si tratta di una scelta di politica legislativa riconducibile alle ragioni di specialità che connotano l’organo giurisdizionale istituito nel territorio regionale e che è volta ad accentuare il carattere onorario dell’incarico, nel senso di renderlo rispondente a logiche di più ampia partecipazione all’ufficio degli esponenti della società civile siciliana. Diversamente da quanto sostiene l’appellante la scelta così descritta impedisce di configurare nel rapporto di servizio le caratteristiche del lavoro subordinato invece propria dei magistrati di carriera, reclutati mediante pubblico concorso, e dunque osta all’accoglimento della domanda di accertamento riproposta dall’avvocato Zappalà con il presente appello. Le ora esposte considerazioni di politica legislativa a base della durata temporalmente definita dell’incarico prevista dal decreto legislativo n. 373 del 2003 non consentono invece di richiamare a sostegno dell’opposta tesi della stabilità sostenuta dall’appellante, in analogia con quanto previsto per i consiglieri di Stato di nomina governativa, oltre che per i consiglieri di cassazione nominati per meriti insigni ex lege n. 303 del 1998. Ognuna di queste figure ha infatti ragioni fondanti e caratteristiche proprie, che impediscono di individuare un archetipo valevole per tutte queste e dunque una disciplina giuridica unitaria. 16. Come accennato in precedenza, la provvista governativa di consiglieri di Stato ex art. 19, comma 1, n. 2), l. n. 186 del 1982 rimonta alle origini storiche dell’Istituto, di organo di consulenza giuridico-amministrativa del sovrano, ed è stata mantenuta a fronte dell’evoluzione storica del Consiglio di Stato, recepita dalla Costituzione (art. 100), quale organo di consulenza nell’interesse dello Stato-ordinamento oltre che di giustizia amministrativa. I consiglieri di Stato di nomina governativa sono posti dal citato art. 19 l. n. 186 del 1982 sullo stesso piano degli altri consiglieri di Stato, ovvero quelli nominati per anzianità tra i consiglieri di tribunale amministrativo regionale e quelli reclutati per concorso. I consiglieri di cassazione “laici”, nominati per meriti insigni, sono stati concepiti dalla Costituzione (art. 106, comma 3), come forma di apporto alla funzione nomofilattica attribuita alla Suprema Corte delle migliori personalità affermatesi nelle scienze giuridiche presso il mondo accademico e la professione forense (l’art. 2, comma 2, della legge n. 303 del 1998 prevede che la designazione deve cadere su persona che «per particolari meriti scientifici o per la ricchezza dell’esperienza professionale, possa apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale»). I componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa presso la Regione siciliana rispondono ad una logica analoga a quelle dell’una e dell’altra categoria, ritenuta dalla legislazione attuativa dello statuto speciale coerente con le istanze autonomistiche e di decentramento regionale degli organi giurisdizionali nazionali, secondo il principio di specialità sancito dal più volte richiamato art. 23 del medesimo statuto. In questa prospettiva si spiega quindi il duplice richiamo alle figure in esame con riguardo ai requisiti per la nomina a componente laico, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. d), e 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 373 del 2003. All’analogia di ratio non corrisponde tuttavia identità di disciplina normativa, perché non pienamente assimilabili sono le esigenze alla base delle diverse figure di magistrati e le sottostanti considerazioni di ordine storico-politico e perché deve dunque ritenersi attribuita alla discrezionalità del legislatore la definizione del regime giuridico concernente l’incarico. 17. Non induce a diversa considerazione il fatto che questo Consiglio di Stato, con la sentenza della IV Sezione del 24 marzo 2020, n. 2045, richiamata dall’appellante, abbia ritenuto che l’incarico di componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa sia equiparabile al servizio prestato quale consigliere di Stato, ai fini del conferimento degli incarichi direttivi nella giustizia tributaria. L’equiparazione si giustifica infatti con l’investitura delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e giurisdizionali che la nomina e il servizio di componente laico comporta, secondo le sopra richiamate disposizioni del decreto legislativo n. 373 del 2003, e dunque sulla base del rapporto organico con il Consiglio di giustizia amministrativa. Ciò tuttavia nell’ambito di un rapporto di servizio che da quest’ultimo è strettamente condizionato, che non ha rilievo ai fini dell’attitudine a ricoprire incarichi nella giustizia tributaria, ma che per quanto di interesse nel presente giudizio, e dunque sul piano interno all’organizzazione della giustizia amministrativa, comporta per l’inamovibilità dal Consiglio di giustizia amministrativa e la durata temporanea dell’incarico il rigetto di ogni pretesa avanzata dall’avvocato Zappalà. Sulla base delle medesime considerazioni non giova a quest’ultimo l’equiparazione stabilita dalla Corte costituzionale, con sentenza 9 dicembre 2020, n. 267, del giudice onorario a quello togato con riguardo al rimborso delle spese di patrocinio sostenute per i giudizi di promossi nei loro confronti per fatti e atti connessi con l’espletamento delle funzioni loro attribuite. 18. Ancora, non può desumersi una sorta di trasformazione del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa da magistrato onorario a togato sulla base dei principi affermati dalla Corte costituzionale con sentenza 17 marzo 2021, n. 41, per il fatto di comporre stabilmente i collegi del giudice amministrativo siciliano, come ulteriormente sostiene l’appellante. Con la pronuncia ora richiamata la Corte costituzionale ha infatti affermato l’illegittimità delle norme di legge sulla composizione dei collegi delle corti d’appello con magistrati onorari per contrasto con l’art. 106, comma 2, Cost., che in deroga al principio del pubblico concorso consente «la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli», e quindi, come precisato dalla Corte, consente per la giustizia ordinaria la partecipazione all’esercizio di funzioni giurisdizionali di componenti non togati solo per la “giustizia minore” (affari di minor valore e complessità) e solo in primo grado. La dichiarazione di illegittimità si fonda quindi su un parametro normativo, il poc’anzi citato art. 106, comma 2, Cost., non rilevante nella presente fattispecie, posto che come già in precedenza rilevato la figura del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa si fonda sull’art. 23 dello statuto speciale della Regione Siciliana. 19. Sono inoltre manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale degli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 373 del 2003 prospettate dall’appellante. Le caratteristiche poc’anzi delineate dell’incarico di componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa sono state definite dal decreto legislativo parimenti ora richiamato, in attuazione dell’art. 23 dello statuto speciale della Regione Siciliana, e di cui pertanto mutuano il rango normativo, equiparato alla Costituzione, come statuito dalla Corte costituzionale nella sopra citata sentenza 4 novembre 2004, n. 316. Su questa base non è quindi configurabile un rapporto di gerarchia tra fonti normative, necessario presupposto per configurare un contrasto della fonte subordinata rispetto a quella sovraordinata e del pari non è ipotizzabile alcun ripensamento della Corte. 20. Le considerazioni ora svolte sarebbero sufficienti per dichiarare manifestamente infondate tutte le questioni di costituzionalità sollevate dall’avvocato Zappalà. Nondimeno, con specifico riguardo alla supposta mancanza di indipendenza del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa che deriverebbe dalla temporaneità dell’incarico, la tesi sostenuta dall’avvocato Zappalà è evidentemente insostenibile. Nella sua assolutezza - per cui il giudice “a tempo” non è un giudice indipendente - essa si infrange innanzitutto con il dato ritraibile dalle disposizioni costituzionali riguardanti i giudici della Corte costituzionale, i cui componenti durano in carica nove anni, senza possibilità di rinnovo (art. 135, comma 3, Cost.), e nondimeno sono destinatari ai sensi dell’art. 137, comma 1, Cost. di guarentigie di indipendenza (poi previste dalla legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1), connaturate all’alta funzione giurisdizionale svolta dall’organo. 21. Su un piano più generale va poi sottolineato che l’indipendenza è innanzitutto una condizione psicologica del giudice-persona fisica, per la quale nell’esercizio delle proprie funzioni questi è impermeabile a condizionamenti di sorta e quindi impronta la propria attività al solo rispetto della legge, secondo quanto sancito dall’art. 101, comma 2, della Costituzione. Ad essa si aggiunge la condizione di indipendenza del giudice-organo, ottenibile con modalità di reclutamento dei suoi componenti fondate su verifiche obiettive della capacità tecnico-giuridiche (in questo senso la già citata sentenza della Corte costituzionale del 17 marzo 2021, n. 41), e con l’assenza di rapporti di dipendenza organica da altri poteri pubblici. Spetta quindi alla legge, costituzionale o ordinaria, porre le condizioni affinché il valore dell’indipendenza del giudice sia tutelato nelle due dimensioni ora esposte. 22. Tanto premesso, nel caso del componente laico previsto dal decreto legislativo n. 373 del 2003, il suo inserimento organico nel Consiglio di giustizia amministrativa e l’equiparazione del suo stato giuridico economico a quello dei consiglieri di Stato sono nel loro complesso garanzia sufficiente di indipendenza, secondo quanto previsto a livello costituzionale per il Consiglio di Stato, dagli artt. 100, comma 3, e 108, comma 2, della Costituzione, in base ai quali, rispettivamente, la legge ordinaria «assicura l’indipendenza» dell’Istituto e dei suoi «componenti di fronte al Governo»; ed ancora «assicura l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali», ed inoltre «degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia». L’indipendenza del componente è nello specifico assicurata dalla sua equiparazione ex art. 7 d.lgs. n. 373 del 2003 ai consiglieri di Stato, i quali a loro volta ai sensi dell’art. 24 della legge n. 186 del 1982 «non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altra sede o funzione se non a seguito di deliberazione del consiglio di presidenza, adottata o con il loro consenso o per i motivi stabiliti dalla legge». A ciò si affianca la pre-condizione di indipendenza del componente laico che può ritenersi insita nei requisiti culturali e professionali previsti per la sua nomina, ai sensi dei più volte richiamati artt. 3, comma 1, lett. d), e 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 373 del 2003, che spetta poi al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa verificare nell’ambito del procedimento di nomina previsto dall’art. 6 del medesimo d.lgs. n. 373 del 2003. 23. Superate le questioni di costituzionalità, residua quella concernente la conformità al diritto euro-unitario della durata temporanea dell’incarico di componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, che l’avvocato Zappalà pone sotto il profilo della violazione della Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 (relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato), con specifico riguardo alle ragioni obiettive a base della limitazione temporale, e che assume applicabile anche ai magistrati onorari, secondo quanto stabilito dalla Corte di giustizia UE con sentenza 6 luglio 2020 (C-658/18). 24. La questione è palesemente infondata, nel senso che il quadro normativo europeo è talmente chiaro da non necessitare alcun deferimento davanti al giudice sovranazionale di questioni interpretative ad esso relative, ai sensi dell’art. 267 TFUE. Infatti, quand’anche si voglia ritenere la direttiva applicabile ai soggetti investiti di funzioni giurisdizionali di ultima istanza, secondo il principio “partecipativo” enunciato dall’art. 106, comma 3, Cost. - cosa che spetta al Paese membro stabilire (cfr. in questo senso: Corte di giustizia UE, sentenza 1° marzo 2012, C-393/10) - va in ogni caso premesso che in base all’art. 4, comma 1, dell’accordo recepito dalle medesima direttiva «i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive». Come si desume dalla disposizione ora richiamata, il contrasto con essa si profila non già per la temporaneità ab origine dell’incarico, ma casomai in ragione di ingiustificate discriminazioni relative al regime giuridico ed economico da esso derivanti rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato o, come si desume dal successivo art. 5 (Misure di prevenzione degli abusi), per via dell’arbitrario rinnovo di incarichi temporanei. Tanto premesso, l’equiparazione caso del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa al consigliere di Stato esclude innanzitutto ipso facto l’esistenza di un trattamento deteriore. Per quanto concerne invece le ragioni obiettive della temporaneità del suo incarico e del suo vincolo di permanenza presso l’organo giurisdizionale siciliano, esse sono quelle, più volte richiamate, connesse alla specialità del Consiglio di giustizia amministrativa, sancita dal più volte menzionato art. 23 dello statuto speciale della Regione siciliana ed attuata con la composizione mista dell’organo, secondo quanto previsto dal decreto legislativo n. 373 del 2003. Come esposto in precedenza, si tratta di una scelta legislativa alla base della quale vi sono ragioni storico-politiche che contraddistinguono l’esperienza della Regione Siciliana nei rapporti con il potere centrale dello Stato e che afferiscono alle condizioni di speciale autonomia di cui gode la medesima regione in base al proprio statuto, manifestatasi con specifico riguardo agli organi giurisdizionali nazionali mediante il loro decentramento su base regionale. Si è del pari rilevato l’attuazione dei principi recepiti nello statuto regionale, attraverso il decreto legislativo n. 373 del 2003, si colloca allo stesso livello nella gerarchia delle fonti, per cui è nello stesso provvedimento normativo di rango costituzionale che vanno ricercate le ragioni obiettive della durata temporanea dell’incarico di componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa. Il rango costituzionale della disciplina normativa concernente quest’ultimo si correla a sua volta alle scelte di carattere fondamentale concernenti l’assetto dei rapporti tra governo nazionale e autonomia regionale speciale nella ripartizione ed organizzazione dei poteri e delle funzioni tra i due soggetti istituzionali interni, rispetto alle quali il diritto euro-unitario è estraneo. 25. L’appello deve quindi essere respinto ma per la peculiarità delle questioni controverse le spese di causa possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado; compensa le spese di causa. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2021, tenuta con le modalità previste dagli artt. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, come da ultimo modificato dall’art. 6, comma 1, lett. e), del decreto-legge 1 aprile 2021, n. 44, convertito dalla legge 28 maggio 2021, n. 76, con l’intervento dei magistrati: Fabio Franconiero, Presidente FF, Estensore Valerio Perotti, Consigliere Angela Rotondano, Consigliere Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere Anna Bottiglieri, Consigliere Fabio Franconiero, Presidente FF, Estensore Valerio Perotti, Consigliere Angela Rotondano, Consigliere Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere Anna Bottiglieri, Consigliere IL SEGRETARIO
Consiglio di Stato e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana – Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana - Componente laico - Trasferimento al Consiglio di Stato – Esclusione.      E’ legittimo il diniego di trasferimento presso una delle Sezioni del Consiglio di Stato e dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato di un componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la previsione di componenti laici si correla all’istanza di decentramento degli organi giurisdizionali nazionali espressa nello statuto speciale della Regione siciliana, cui è stata poi data concreta attuazione con il decreto legislativo n. 373 del 2003. Come al riguardo affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 4 novembre 2004, n. 316, e di recente ribadito da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (Cons. Stato, I, parere 11 febbraio 2021, n. 186), il decreto attuativo ha concretizzato il principio di specialità espresso nel più volte citato art. 23 dello statuto della Regione siciliana, il cui primo comma è così formulato: «Gli organi giurisdizionali centrali avranno in Sicilia le rispettive sezioni per gli affari concernenti la Regione». Nella sentenza poc’anzi richiamata la Corte costituzionale ha precisato che il principio statutario di specialità risponde ad «un’aspirazione viva, e comunque saldamente radicata nella storia della Sicilia, ad ottenere forme di decentramento territoriale degli organi giurisdizionali centrali», e di esso è espressione la peculiare struttura e composizione del Consiglio di giustizia amministrativa, secondo un modello di giudice speciale rispondente alle istanze autonomistiche regionali recepite nello statuto speciale siciliano. In questa prospettiva si colloca il potere di designazione dei componenti laici spettante ai sensi dell’art. 6, d.lgs. n. 373 del 2003 al presidente della Regione siciliana, quale rappresentante delle ora menzionate istanze autonomistiche regionali, il quale in ragione di ciò partecipa anche alla fase deliberativa presso il Consiglio dei ministri. In pedissequa applicazione del fondamento istitutivo del Consiglio di giustizia amministrativa finora esposte, ed a prescindere dal fatto che, come statuito dalla sentenza di primo grado, esse non sarebbero state specificamente censurate dall’avvocato Zappalà, il diniego di trasferimento ad esso opposto ha legittimamente fatto riferimento alle norme di attuazione dello statuto regionale, di cui al d.lgs. n. 373 del 2003 sulla composizione e le funzioni del Consiglio di presidenza. Diversamente da quanto sostiene al riguardo l’appellante non è invece rilevante in contrario il fatto che il medesimo decreto legislativo non rechi alcun divieto in questo senso. Una simile previsione non avrebbe in realtà ragione di porsi, dal momento che il vincolo di permanenza del componente laico presso il Consiglio di giustizia amministrativa è innanzitutto insito nella dimensione esclusivamente regionale delle funzioni di consulenza giuridico-amministrativa e di giurisdizione attribuite all’organo, in base ai sopra citati artt. 4, comma 3, e 9, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003; oltre che nella speciale composizione mista delle sue due Sezioni, consultiva e giurisdizionale, contraddistinta da distinti contingenti di consiglieri di Stato e componenti laici, e dalla partecipazione necessaria di questi ultimi ai relativi organi, secondo le disposizioni dei parimenti sopra richiamati artt. 3 e 4 d.lgs. n. 373 del 2003. L’opposta tesi della libera mobilità dei componenti laici verso il Consiglio di Stato porta invece alle seguenti aporie: da un lato componenti espressione delle istanze autonomistiche della Regione siciliana andrebbero a svolgere le loro funzioni al di fuori del territorio regionale, con relativo svuotamento del principio di specialità che è alla base dell’istituzione del Consiglio di giustizia amministrativa da parte dello statuto speciale, avente rango costituzionale; dall’altro lato per ovviare alle scoperture di organico così venutesi a creare e per ripristinare i contingenti numerici previsti dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 373 del 2003 si renderebbe necessaria la nomina di altri componenti laici, e dunque, considerato anche il possibile flusso inverso, per un verso si altererebbe il rapporto laici - togati presso il Consiglio di giustizia amministrativa previsto dalla legislazione attuativa dello statuto regionale; e per altro verso si introdurrebbe un fonte di provvista dei consiglieri di Stato ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 19, l. n. 186 del 1982. Con l’accoglimento della tesi sulla libera alla mobilità verso le sezioni del Consiglio di Stato si verrebbe quindi a spezzare il «legame funzionale esclusivamente con l’attività giurisdizionale e consultiva relativa agli affari di interesse regionale» che contraddistingue il rapporto organico dei componenti laici del Consiglio di giustizia amministrativa, ed in base al quale questi ultimi sono investiti di «una funzione legata all’amministrazione della giustizia esclusivamente nel territorio regionale e alle controversie in cui è interessata la regione stessa» (così il sopra citato parere della I Sezione di questo Consiglio di Stato del 11 febbraio 2021, n. 186). Si attribuirebbe inoltre prevalenza al distinto rapporto che viene ad instaurarsi tra il componente laico e la giustizia amministrativa, ovvero al «rapporto di servizio». A quest’ultimo riguardo deve peraltro darsi atto che ai sensi del già richiamato art. 7, d.lgs. n. 373 del 2003 «vi è, per il periodo del mandato, l’equiparazione ai magistrati del Consiglio di Stato» dei componenti laici, i quali godono del «medesimo stato giuridico dei consiglieri di Stato» (così ancora il parere ora richiamato). Su tale previsione si imperniano gli assunti dell’avvocato Zappalà.  Nondimeno, la relazione tra i due distinti rapporti deve trovare la giusta collocazione nel senso che va tenuto fermo il rapporto organico su cui si fonda l’esercizio delle funzioni consultive e giurisdizionali del componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa, a sua volta indissolubilmente legato all’organo investito delle «funzioni consultive e giurisdizionali nella Regione siciliana, ai sensi dall’articolo 23 dello Statuto speciale» ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003). Rispetto al rapporto organico il rapporto di servizio si pone invece in posizione accessoria. Ciò si desume dall’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 373 del 2003, il quale dispone che al medesimo componente si applicano «durante il periodo di durata in carica» le norme concernenti lo status giuridico ed economico del consigliere di Stato. Le norme sullo stato giuridico ed economico vanno quindi a disciplinare i contenuti del rapporto di servizio del componente laico per tutta la durata della carica, la quale deve comunque svolgersi presso il Consiglio di giustizia amministrativa e, per rispondere alle ulteriori pretese inerenti all’accertamento dello status di consigliere di Stato a tempo indeterminato avanzate dall’avvocato Zappalà, per il periodo di sei anni, senza possibilità di conferma, secondo quanto previsto dall’art. 6, comma 4, d.lgs. n. 373 del 2003. Se dunque il componente laico del Consiglio di giustizia amministrativa è equiparato al consigliere di Stato, egli intanto lo è nella misura in cui sia investito delle funzioni spettanti dell’organo previsto dallo statuto speciale della Regione siciliana ed espressione del principio di specialità che ne costituisce la ragione fondante. Come sopra esposto, l’attuazione di questo principio ad opera del medesimo d.lgs. n. 373 del 2003 si è tradotta nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa, con la previsione di consiglieri di Stato da un lato e dall’altro lato di componenti designati dalla Regione siciliana e nominati secondo modalità analoghe ai consiglieri di Cassazione per meriti insigni e ai consiglieri di Stato di nomina governativa. Tuttavia, mentre per i primi l’assegnazione al Consiglio di giustizia amministrativa costituisce una vicenda modificativa inerente al rapporto di organico e di servizio (con il collocamento fuori ruolo e il mutamento della sede, ai sensi dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 373 del 2003), per i secondi l’interesse regionale a base della loro nomina e della costituzione del rapporto organico con il Consiglio importa un vincolo di sede presso lo stesso organo di giustizia amministrativa, poiché solo nell’incardinamento in quest’ultimo si giustifica a termini di statuto speciale della Regione siciliana la figura del componente laico. Di riflesso, pur in presenza dell’equiparazione del trattamento giuridico ed economico al consigliere di Stato il rapporto di servizio del componente laico soffre di questa limitazione alla mobilità, giustificata sul piano statutario nella composizione mista del Consiglio di giustizia amministrativa e che va quindi ricondotta alle ragioni fondanti l’istituzione in questo settore dell’attività giurisdizionale di un organo speciale a competenza regionale. L’equiparazione non può quindi essere intesa in senso assoluto. Essa deve infatti tenere conto del diverso ed antitetico sistema di provvista dei componenti del Consiglio di presidenza, riferito a due distinte disposizioni dell’art. 106 della Costituzione: l’uno, in conformità al comma 1 della disposizione costituzionale ora richiamata, mediante il collocamento fuori ruolo di magistrati di carriera, reclutati mediante concorso pubblico, salva la peculiare figura del consigliere di Stato di nomina governativa, che si giustifica in ragione dell’origine storica dell’Istituto; l’altro, in attuazione del comma 3 del medesimo art. 106 Cost., relativo alla nomina di consiglieri di cassazione “laici”, ovvero nominati per meriti insigni, e dunque attraverso il ricorso a figure tratte dalla società civile - «professori ordinari di università nelle materie giuridiche e (...) avvocati che abbiano almeno quindici anni di effettivo esercizio e (…) iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori » (art. 1, comma 1, l. n. 303 del 1998) - in possesso di meriti professionali adeguati all’ufficio da assumere. ​​​​​​​In assenza di vincoli a livello costituzionale o di statuto speciale della Regione siciliana, per il Consiglio di giustizia amministrativa la carica del componente laico la legislazione attuativa ne ha previsto la temporanea. Si tratta di una scelta di politica legislativa riconducibile alle ragioni di specialità che connotano l’organo giurisdizionale istituito nel territorio regionale e che è volta ad accentuare il carattere onorario dell’incarico, nel senso di renderlo rispondente a logiche di più ampia partecipazione all’ufficio degli esponenti della società civile siciliana. La scelta così descritta impedisce di configurare nel rapporto di servizio le caratteristiche del lavoro subordinato invece propria dei magistrati di carriera, reclutati mediante pubblico concorso. Le ora esposte considerazioni di politica legislativa a base della durata temporalmente definita dell’incarico prevista dal d.lgs. n. 373 del 2003 non consentono invece di richiamare a sostegno dell’opposta tesi della stabilità sostenuta dall’appellante, in analogia con quanto previsto per i consiglieri di Stato di nomina governativa, oltre che per i consiglieri di cassazione nominati per meriti insigni ex lege n. 303 del 1998. Ognuna di queste figure ha infatti ragioni fondanti e caratteristiche proprie, che impediscono di individuare un archetipo valevole per tutte queste e dunque una disciplina giuridica unitaria. 
Consiglio di Stato e Consiglio di Giustizia per la Regione Siciliana
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/all-adunanza-plenaria-l-assegno-ad-personam-ai-componenti-laici-del-consiglio-superiore-della-magistratura
All’Adunanza plenaria l’assegno ad personam ai componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura
N. 01672/2022 REG.PROV.COLL. N. 08683/2016 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima) ha pronunciato la presente ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA sul ricorso numero di registro generale 8683 del 2016, proposto da Università degli Studi di Roma Tre, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12 contro Eligio Resta, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Pesce, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Bocca di Leone, 78 per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 8984/2016 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del prof. Eligio Resta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 febbraio 2022 il Cons. Paolo Marotta e udito per la parte appellata l’avvocato Giovanni Pesce 1.1. Con ricorso in appello, notificato in data 4 novembre 2016 e depositato in giudizio il 14 novembre successivo, l’Università degli Studi Roma Tre ha impugnato la sentenza n. 8984/2016, con la quale il T.a.r. per il Lazio, sez. III, ha accolto il ricorso di primo grado, proposto dal prof. Eligio Resta avverso il provvedimento indicato nella nota del 15 luglio 2014 (prot. n. 61652), con cui il Direttore generale dell’Università degli Studi Roma Tre ha comunicato all’odierno appellato (professore universitario in servizio presso il predetto Ateneo) che a partire dallo stesso mese (della comunicazione), per effetto di quanto disposto dall’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147 del 2013, sarebbe cessata la corresponsione dell’assegno ad personam in godimento, riconosciuto al momento del rientro in servizio presso l’Università dal Consiglio Superiore della Magistratura (presso il quale aveva ricoperto l’incarico di componente c.d. ‘laico’ nel quadriennio 1998-2002), nonché il decreto del 23 settembre 2014 (prot. 92792), con il quale il Direttore generale del medesimo Ateneo ha disposto il recupero delle somme erogate, in relazione alla predetta voce retributiva, in eccedenza rispetto al trattamento economico spettante. 1.2 La parte appellante ha chiesto la riforma della la sentenza impugnata, deducendo violazione ed errata applicazione dell’art. 1, commi 458 e 459, della l. n. 147 del 2013 sotto diversi profili. 1.3 Pur dando atto dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale favorevole alla posizione dell’appellato, l’Amministrazione appellante ha chiesto la revisione di tale orientamento, “se del caso rimettendo la questione all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a.”. 2. Si è costituita in giudizio la parte appellata, evidenziando che il giudice di primo grado ha accolto il ricorso in base al primo e al terzo motivo di gravame; ha chiesto, quindi, che vengano esaminate dal Giudice d’Appello anche le censure assorbite o comunque non scrutinate dal T.a.r. In particolare, ha riproposto le seguenti censure: - violazione del principio del legittimo affidamento; a tale riguardo, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 458 e 459, della l. n. 147/2013, ove ritenuto applicabile al caso di specie; - falsa applicazione dell’art. 1, comma 458, della l. n. 147/2013, in relazione all’art. 104 Cost. - violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 e s.m.i., per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento. 2.2. La parte appellata ha motivatamente concluso per la reiezione dell’appello. In via subordinata, dopo aver evidenziato l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali non univoci in subiecta materia, ha chiesto che della questione venga investita l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. 3. All’udienza pubblica del 1° febbraio 2022 il ricorso è stato trattenuto in decisione. 4. La questione giuridica dedotta in giudizio attiene alla delimitazione dell’ambito oggettivo di applicazione delle misure di contenimento della spesa pubblica introdotte dal legislatore del 2012-2013 e, segnatamente, alla verifica della applicazione di dette disposizioni in relazione all’assegno ad personam, di cui l'art. 3, comma 1, della l. n. 312/1971, rubricato “Trattamento economico dei componenti del Consiglio superiore della magistratura eletti dal Parlamento cessati dalla carica”. Secondo tale disposizione (mai fatta oggetto di abrogazione espressa), “ai componenti che fruiscono del trattamento previsto dall'articolo 40, comma terzo, della legge 24 marzo 1958, n. 195, l'assegno mensile a carico del Consiglio superiore della magistratura verrà tramutato, all'atto della cessazione dalla carica per decorso del quadriennio, in assegno personale agli effetti e nei limiti stabiliti dall'articolo 202 del testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3. In tali casi la liquidazione dei trattamenti, di quiescenza e di previdenza avrà luogo con le norme vigenti per il personale della magistratura. L'attribuzione dell'assegno personale di cui al comma precedente esclude la concessione dell'indennità di cui all'articolo 1 della presente legge”. Nella presente vicenda contenziosa vengono in particolare in rilievo gli effetti che i richiamati interventi normativi del 2012-2013 hanno sortito (in modo diretto o indiretto) sulla persistente operatività dell’assegno ad personam previsto dalla legge n. 312 del 1971. Più in particolare, l’art. 1, commi 458 e 459, della l. 27 dicembre 2013 n. 147, dispone testualmente quanto segue: “458. L'articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall'incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità. 459. Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall'articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall'articolo 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135”. Al fine di avere un quadro esaustivo delle disposizioni sulle quali hanno operato i più volte richiamati interventi normativi del 2012-2013 si osserva che: - l’art. 202 d.P.R. n. 3/1957 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) - abrogato dal richiamato comma 458 dell'art. 1 della legge n. 147 del 2013, a decorrere dal 1° gennaio 2014 -, sotto la rubrica “Assegno personale nei passaggi di carriera”, dispone(va) testualmente che “nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica”; - l’art. 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370 (Disposizioni in materia di università e di ricerca scientifica e tecnologica), come modificato dall'articolo 5, comma 10-ter, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, stabilisce che “al professore o ricercatore universitario rientrato nei ruoli è corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità. In nessun caso il professore o ricercatore universitario rientrato nei ruoli delle università può conservare il trattamento economico complessivo goduto nel servizio o incarico svolto precedentemente, qualsiasi sia l'ente o istituzione in cui abbia svolto l'incarico. L'attribuzione di assegni ad personam in violazione delle disposizioni di cui al presente comma è illegittima ed è causa di responsabilità amministrativa nei confronti di chi delibera l'erogazione”. 5. La tesi sostenuta dalla parte appellante (secondo cui i richiamati interventi normativi del 2012-2013 avrebbero altresì comportato l’abrogazione tacita dell’articolo 3 della l. 312 del 1971 – e comunque l’impossibilità di corrispondere de futuro l’assegno ad personam ivi previsto -) è stata adottata dal Consiglio di Stato, sez. VI, nelle sentenze 5 marzo 2018 nn. 1384 e 1385. Con tali decisioni è stato precisato che l’art. 1, comma 459, della l. n. 147/2013 “impone a tutte le Amministrazioni, nei cui ruoli siano rientrati propri dipendenti cessati da precedenti ruoli o incarichi, di adeguare - senza alcuna distinzione - i relativi trattamenti giuridici ed economici (disponendo la cessazione degli assegni ad personam in precedenza corrisposti) “a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore” della legge n. 147 del 2013. La prescrizione spiega dunque effetto per tutti i ratei retributivi da corrispondersi a partire dal 1 febbraio 2014 (ma, ovviamente, senza che vi sia luogo a restituzione di quanto fino a tale data percepito, in ciò sostanziandosi l'irretroattività, ove rettamente intesa, della norma sopravvenuta)”. Secondo tali decisioni, il richiamato obbligo di adeguamento opererebbe anche in relazione allo speciale assegno ad personam di cui all’articolo 3 della legge n. 312 del 1971. Il Consiglio di Stato (attraverso un percorso argomentativo che il Collegio ritiene in via di principio condivisibile) ha in particolare ritenuto che le nuove disposizioni normative siano connotate da retroattività c.d. “impropria”, che si realizza quando le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata. Ha inoltre osservato che – pur dovendosi riconoscere ai richiamati interventi normativi valenza retroattiva, sia pure con salvaguardia degli emolumenti già corrisposti – gli stessi non si pongano in contrasto con i limiti che la giurisprudenza della Corte costituzionale e della CEDU hanno posto all’applicazione di discipline retroattive. E’ stato in particolare affermato che i richiamati interventi non si pongano in insanabile contrasto con le modalità e le condizioni di tutela del legittimo affidamento sancite – sia pure con declinazioni in parte diverse – dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale. Le richiamate sentenze della Sesta Sezione hanno inoltre rilevato che l’abrogazione espressa dell’articolo 202 T.U. 3 del 1957 ad opera della legge n. 147 del 2013 ha altresì determinato come conseguenza l’abrogazione implicita (o, secondo una prospettiva in parte diversa, un vero e proprio fenomeno di “svuotamento normativo”) dell’articolo 3 della legge n. 312 del 1971 (secondo cui, è bene ricordarlo, il riconoscimento dell’assegno ad personam in favore degli ex componenti cc.dd. ‘laici’ del CSM opera “agli effetti e nei limiti stabiliti dall’articolo 202 [del d.P.R. n. 3 del 1957]”). Ad analoghe conclusioni è pervenuto recentemente (con riguardo alla questione relativa al computo dell’assegno ad personam percepito da un componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, ai fini della determinazione della indennità di buonuscita) il Consiglio di Stato, Sezione III, nella sentenza n. 8026 dell’1 dicembre 2021. Nelle predette pronunce è stato chiarito che le disposizioni normative introdotte nel 2013 dal legislatore nazionale, ai fini del contenimento della spesa pubblica, trovano applicazione anche agli incarichi di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, con la conseguenza che, a partire dalla mensilità successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 147/2013, non si ha più diritto a percepire l’assegno ad personam che in precedenza veniva erogato, al momento del rientro in servizio presso le Amministrazioni di appartenenza, per aver fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Le conclusioni cui è pervenuto il richiamato orientamento giurisprudenziale, come si è già detto, appaiono in via di principio condivisibili per il Collegio. 6. Purtuttavia, il Collegio non può esimersi dal rilevare che in altre pronunce il Giudice amministrativo d’Appello è pervenuto a conclusioni sostanzialmente opposte. In particolare, il Consiglio della Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, nella sentenza 14 aprile 2016 n. 89, partendo dall’assunto che l'elezione da parte del Parlamento di un professore a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, prevista dal quarto comma dell'art. 104 della Costituzione, non può essere equiparata alla nomina a un incarico o a un servizio amministrativo in relazione al fondamento costituzionale del relativo munus, è pervenuto alla conclusione di ritenere che “l’art. 3 comma 1 della L. 312/71 è stato previsto espressamente per i componenti del C.S.M. ed è stato previsto per ristorare i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia di svolgere altre attività (….) è necessario ritenere che si tratti di una norma speciale cioè di una norma che regola casi assolutamente particolari e specificamente individuati e, come tale, non può ritenersi che venga abrogata da una norma di carattere generale contenuta nell'art. 202 del DPR 3/1957 che - e questo sembra decisivo - comunque la si voglia interpretare fa riferimento a compiti, funzioni, incarichi svolti all'interno dell'amministrazione e non alle funzioni di competenza degli organi costituzionali”. La tesi da ultimo richiamata sembra essere sostanzialmente ripresa anche da questo Consiglio di Stato, Sezione VI, nella sentenza dell’11 dicembre 2017 n. 5801, nella quale, in sede di ottemperanza, si afferma quanto segue: “l’effetto abolitivo, che per il personale universitario è comunque superfluo stante l’art. 8, comma 5, della l. 19 ottobre 1999, n. 370 (sul divieto di mantenimento di trattamenti economici goduti nel servizio o incarico svolto precedentemente), ha riguardato soltanto il predetto art. 202, mentre nella specie si versa nel diverso caso dell’assegno ex art. 3, primo comma, della 312/1971 (norma non incisa dal citato comma 458, primo periodo); – tale assegno segue sì la morfologia strutturale di quelli ex art. 202 del DPR 3/1957 ed è sì ad personam, ma, in quanto afferente al munus ex art. 104, quarto comma, Cost., giammai è assimilabile a quelli inerenti a qualunque incarico amministrativo cui possa esser applicato un pubblico dipendente, onde esso resta regolato non già dalla norma generale del medesimo comma 458, bensì dalla fonte speciale e riservata (la legge n. 312) anche sotto il profilo funzionale, servendo esso a ristorare quei peculiari sacrifici connessi all’incarico di rilevanza costituzionale e conseguenti alla rinuncia ai vari vantaggi attuali o potenziali del componente eletto nel CSM, ristoro di cui il legislatore s’è dato carico con la predetta regola ad hoc”. La decisione da ultimo richiamata, in sintesi, perviene alla conclusione (di fatto, opposta rispetto a quella tracciata dalle richiamate sentenze numm. 1384 e 1385 del 2018) secondo cui gli interventi normativi del 2012-2013 non avrebbero determinato alcun effetto abrogativo nei confronti dello speciale assegno ad personam di cui alla legge n. 312 del 1971. E l’assenza di un tale effetto emergerebbe sia dalla mancanza di un’abrogazione espressa della richiamata disposizione, sia dal carattere del tutto speciale dell’attribuzione patrimoniale ivi disciplinata, che non potrebbe dirsi “travolta” in conseguenza dell’abrogazione dell’articolo 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 7. Sulla base delle divergenze esegetiche desumibili dalle sentenze sopra richiamate e in accoglimento della espressa richiesta formulata in tal senso (sia pure in via subordinata) da entrambe le parti costituite in giudizio, il Collegio reputa necessario che il presente ricorso venga deferito all'esame dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell'art. 99, co. 1, c.p.a., al fine di chiarire: a) se le disposizioni normative di cui all’art. 1, commi 457 e 458, della l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’articolo 8, comma 5 della legge n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. ‘laici’ del Consiglio Superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.); b) (in caso di risposta affermativa al primo quesito) se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147/2013. Ferma restando la rilevanza delle questioni appena esposte ai fini del decidere, resta comunque impregiudicata la definizione di ogni altro profilo processuale e di merito. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ai sensi dell’articolo 99 del cod. proc. amm.. Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al segretario incaricato di assistere all’Adunanza Plenaria. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 febbraio 2022 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Laura Marzano, Consigliere Brunella Bruno, Consigliere Paolo Marotta, Consigliere, Estensore Claudio Contessa, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Laura Marzano, Consigliere Brunella Bruno, Consigliere Paolo Marotta, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Magistrati – Consiglio Superiore della Magistratura - Componenti laici – Rientro nella Amministrazione di provenienza - Assegno ad personam – Dubbi in giurisprudenza – Rimessione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato       Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni se le disposizioni normative sull’assegno ad personam di cui all’art. 1, commi 457 e 458, l. n. 147 del 2013, nonché quelle di cui all’art. 8, comma 5, l. n. 370 del 1999 (nel testo vigente) siano applicabili anche ai componenti cc.dd. ‘laici’ del Consiglio Superiore della Magistratura (con la conseguenza di rendere inapplicabili nei loro confronti l’istituto dell’assegno ad personam) ovvero se questi ultimi siano esclusi dalla applicazione delle norme ivi contenute, anche in ragione del particolare munus ad essi affidato (art. 104, comma 4, Cost.); b) in caso di risposta affermativa al primo quesito, se le disposizioni normative de quibus siano applicabili ai ratei da corrispondersi a partire dal 1° febbraio 2014, anche se il conferimento dell’incarico di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura sia avvenuto antecedentemente alla data di entrata in vigore della l. n. 147 del 2013 (1).    (1) Analoga rimessione è stata disposta con Cons. St., sez. VII, ord., 9 marzo 2022, n. 1673 Ha ricordato la Sezione che sulla questione si registra un contrasto giurisprudenziale.   Secondo un primo orientamento (sez. VI, 5 marzo 2018 nn. 1384 e 1385) l’art. 1, comma 459, l. n. 147 del 2013 “impone a tutte le Amministrazioni, nei cui ruoli siano rientrati propri dipendenti cessati da precedenti ruoli o incarichi, di adeguare - senza alcuna distinzione - i relativi trattamenti giuridici ed economici (disponendo la cessazione degli assegni ad personam in precedenza corrisposti) “a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore” della l. n. 147 del 2013. La prescrizione spiega dunque effetto per tutti i ratei retributivi da corrispondersi a partire dal 1 febbraio 2014 (ma, ovviamente, senza che vi sia luogo a restituzione di quanto fino a tale data percepito, in ciò sostanziandosi l'irretroattività, ove rettamente intesa, della norma sopravvenuta)”.  Secondo tali decisioni, il richiamato obbligo di adeguamento opererebbe anche in relazione allo speciale assegno ad personam di cui all’art. 3, l. n. 312 del 1971.  Il Consiglio di Stato (attraverso un percorso argomentativo che il Collegio ritiene in via di principio condivisibile) ha in particolare ritenuto che le nuove disposizioni normative siano connotate da retroattività c.d. “impropria”, che si realizza quando le norme sopravvenute regolano diversamente i tratti non esauriti dei rapporti di durata. Ha inoltre osservato che – pur dovendosi riconoscere ai richiamati interventi normativi valenza retroattiva, sia pure con salvaguardia degli emolumenti già corrisposti – gli stessi non si pongano in contrasto con i limiti che la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cedu hanno posto all’applicazione di discipline retroattive. È stato in particolare affermato che i richiamati interventi non si pongano in insanabile contrasto con le modalità e le condizioni di tutela del legittimo affidamento sancite – sia pure con declinazioni in parte diverse – dalla giurisprudenza costituzionale e da quella convenzionale.  Le richiamate sentenze della Sesta Sezione hanno inoltre rilevato che l’abrogazione espressa dell’art. 202 T.U. n. 3 del 1957 ad opera della legge n. 147 del 2013 ha altresì determinato come conseguenza l’abrogazione implicita (o, secondo una prospettiva in parte diversa, un vero e proprio fenomeno di “svuotamento normativo”) dell’articolo 3 della legge n. 312 del 1971 (secondo cui, è bene ricordarlo, il riconoscimento dell’assegno ad personam in favore degli ex componenti cc.dd. ‘laici’ del CSM opera “agli effetti e nei limiti stabiliti dall’articolo 202 [del d.P.R. n. 3 del 1957]”).   Ad analoghe conclusioni è pervenuto recentemente (con riguardo alla questione relativa al computo dell’assegno ad personam percepito da un componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, ai fini della determinazione della indennità di buonuscita) il Consiglio di Stato, Sezione III, nella sentenza n. 8026 dell’1 dicembre 2021.  Nelle predette pronunce è stato chiarito che le disposizioni normative introdotte nel 2013 dal legislatore nazionale, ai fini del contenimento della spesa pubblica, trovano applicazione anche agli incarichi di componente c.d. ‘laico’ del Consiglio Superiore della Magistratura, con la conseguenza che, a partire dalla mensilità successiva a quella di entrata in vigore della legge n. 147/2013, non si ha più diritto a percepire l’assegno ad personam che in precedenza veniva erogato, al momento del rientro in servizio presso le Amministrazioni di appartenenza, per aver fatto parte del Consiglio Superiore della Magistratura.    La Sezione ha rilevato che in altre pronunce il Giudice amministrativo d’Appello è pervenuto a conclusioni sostanzialmente opposte.  In particolare, il Consiglio della Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, nella sentenza 14 aprile 2016 n. 89, partendo dall’assunto che l'elezione da parte del Parlamento di un professore a componente del Consiglio Superiore della Magistratura, prevista dal quarto comma dell'art. 104 della Costituzione, non può essere equiparata alla nomina a un incarico o a un servizio amministrativo in relazione al fondamento costituzionale del relativo munus, è pervenuto alla conclusione di ritenere che “l’art. 3 comma 1, l. n. 312 del 1971 è stato previsto espressamente per i componenti del C.S.M. ed è stato previsto per ristorare i peculiari sacrifici conseguenti alla rinunzia di svolgere altre attività (….) è necessario ritenere che si tratti di una norma speciale cioè di una norma che regola casi assolutamente particolari e specificamente individuati e, come tale, non può ritenersi che venga abrogata da una norma di carattere generale contenuta nell'art. 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 che - e questo sembra decisivo - comunque la si voglia interpretare fa riferimento a compiti, funzioni, incarichi svolti all'interno dell'amministrazione e non alle funzioni di competenza degli organi costituzionali”.     La tesi da ultimo richiamata sembra essere sostanzialmente ripresa anche da questo Consiglio di Stato, Sezione VI, nella sentenza dell’11 dicembre 2017 n. 5801, nella quale, in sede di ottemperanza, si afferma che: “l’effetto abolitivo, che per il personale universitario è comunque superfluo stante l’art. 8, comma 5, della l. 19 ottobre 1999, n. 370 (sul divieto di mantenimento di trattamenti economici goduti nel servizio o incarico svolto precedentemente), ha riguardato soltanto il predetto art. 202, mentre nella specie si versa nel diverso caso dell’assegno ex art. 3, primo comma, della 312/1971 (norma non incisa dal citato comma 458, primo periodo); – tale assegno segue sì la morfologia strutturale di quelli ex art. 202 del DPR 3/1957 ed è sì ad personam, ma, in quanto afferente al munus ex art. 104, quarto comma, Cost., giammai è assimilabile a quelli inerenti a qualunque incarico amministrativo cui possa esser applicato un pubblico dipendente, onde esso resta regolato non già dalla norma generale del medesimo comma 458, bensì dalla fonte speciale e riservata (la legge n. 312) anche sotto il profilo funzionale, servendo esso a ristorare quei peculiari sacrifici connessi all’incarico di rilevanza costituzionale e conseguenti alla rinuncia ai vari vantaggi attuali o potenziali del componente eletto nel CSM, ristoro di cui il legislatore s’è dato carico con la predetta regola ad hoc”.    La decisione da ultimo richiamata, in sintesi, perviene alla conclusione (di fatto, opposta rispetto a quella tracciata dalle richiamate sentenze numm. 1384 e 1385 del 2018) secondo cui gli interventi normativi del 2012-2013 non avrebbero determinato alcun effetto abrogativo nei confronti dello speciale assegno ad personam di cui alla legge n. 312 del 1971. E l’assenza di un tale effetto emergerebbe sia dalla mancanza di un’abrogazione espressa della richiamata disposizione, sia dal carattere del tutto speciale dell’attribuzione patrimoniale ivi disciplinata, che non potrebbe dirsi “travolta” in conseguenza dell’abrogazione dell’articolo 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 ​​​​​​​
Magistrati
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Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e abuso del rinvio
N. 00371/2021REG.PROV.COLL. N. 00753/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA NON DEFINITIVA sul ricorso numero di registro generale 753 del 2020, proposto da Consorzio Stabile Sinergica, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Vittorio Nardelli e Francesco Paolo Tronca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6;Eurovega Costruzioni s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Massimiliano Mangano e Francesco Stallone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Francesco Stallone in Palermo, via Nunzio Morello, n. 40;Invitalia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Nunzio Pinelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissario straordinario unico acque reflue d.P.C.M. 26/04/2017 prof. Enrico Rolle, non costituiti in giudizio; nei confronti Eurovega s.r.l., Celi Energia s.r.l., Cedit s.r.l. non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del TAR della Sicilia - Sezione Prima - n. 640/2020, depositata il 17.3.2020, resa tra le parti sul ricorso n. 654/2019 R.G. concernente l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione nei confronti del Consorzio ricorrente dell’appalto per l'affidamento di lavori in materia di collettamento, fognatura e depurazione acque; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze, di Eurovega Costruzioni s.r.l. e di Invitalia s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 aprile 2021, tenutasi da remoto ai sensi dell’art. 4, d.l. n. 84/2020 e dell’art. 25, d.l. n. 137/2020, il Cons. Maria Stella Boscarino; Uditi per le parti gli avvocati Giovanni Vittorio Nardelli, Alfonso Celotto su delega di Francesco Paolo Tronca, Massimiliano Mangano, Francesco Stallone e Paola Librizzi su delega di Nunzio Pinelli e vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato distrettuale del 2 febbraio 2021; Visto l'art. 36, comma 2, cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO I. Con l’appello in epigrafe il Consorzio Stabile Sinergica espone di avere partecipato alla procedura aperta indetta, ai sensi dell’art. 60, d.lgs. n. 50/2016, dall’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa -Invitalia s.p.a., quale Centrale di committenza per il Commissario straordinario unico acque reflue ex d.P.C.M. 26 aprile 2017, con bando pubblicato il 17 maggio 2018, per l’aggiudicazione, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, dell’appalto dei “lavori di realizzazione del collettamento del sistema fognario delle acque nere al servizio della zona Tonnarella, Trasmazzaro e collegamento alla rete esistente di Lungomare Mazzini – Comune di Mazara del Vallo (TP)”, per un importo complessivo € 16.845.000,00. Il bando prevedeva la classificazione dei lavori come di seguito indicato: 1) acquedotti, gasdotti, oleodotti, opere d’irrigazione ed evacuazione: categoria OG6 VIII; importo totale: € 16.505.479,14; incidenza percentuale sul totale: 97,98%; qualificazione obbligatoria; 2) interventi a basso impatto ambientale: categoria OS35 II; importo totale: € 339.520,86; incidenza percentuale sul totale: 2,02%; qualificazione obbligatoria. Il Consorzio rappresenta che, a conclusione dell’articolato iter di gara, con provvedimento prot. n. 7171 del 21 gennaio 2019, era risultato aggiudicatario, ma l’aggiudicazione era stata annullata in autotutela, con provvedimento prot. n. 16448 dell’11 febbraio 2019 (allegati 003/1 e 004/2 al ricorso in appello), in quanto dagli accertamenti finalizzati alla verifica dei requisiti era risultato che, a partire dall’11 ottobre 2019 (e sino al 6 febbraio 2019), il Consorzio aveva perso l’attestazione di qualificazione SOA, relativamente alla categoria OS35, per effetto del venir meno della partecipazione al consorzio della Tiemme Energia s.r.l. (allegato 024/22 al ricorso in appello), consorziata non designata per l’esecuzione dei lavori (come da dichiarazione resa in gara, All. 004/3 al ricorso in primo grado). Conseguentemente la gara veniva aggiudicata in favore dell’a.t.i. con mandataria Eurovega Costruzioni s.r.l. con provvedimento parimenti assunto in data 11.2.2019. II. Il Consorzio impugnava sia l’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione in proprio favore che l’aggiudicazione in favore di Eurovega Costruzioni s.r.l. con ricorso avanti al T.A.R. Sicilia, con il quale lamentava l’illegittimità dell’atto impugnato per: 1) omessa comunicazione dell'avvio del procedimento (motivo non riproposto in appello); 2) violazione degli artt. 83, co. 2, 84 e 216, co, 14, d.lgs. n. 50/2016 e 7 del disciplinare di gara: venuta meno dalla compagine consortile la Tiemme Energia s.r.l., il Consorzio era rimasto privo della qualificazione necessaria per la categoria OS35 che era stata assicurata da Tiemme mediante avvalimento di Cargo. Ma con l’ammissione provvisoria al Consorzio, in data 10 settembre 2018, a cui aveva fatto seguito, in data 18 gennaio 2019, quella definitiva, della Cargo s.r.l., qualificata nella categoria OS35, la qualificazione era stata riacquistata; 3) violazione degli artt. 83, co. 2, 84 e 216, co, 14, d.lgs. n. 50/2016 e 7 del disciplinare di gara, eccesso di potere: non sarebbe più vigente l’obbligo del mantenimento del possesso dei requisiti dalla data di presentazione dell’offerta e sino all’esecuzione dei lavori, cosicché l’Amm.ne avrebbe dovuto tener conto del fatto che il Consorzio, qualificato nella categoria OS35 alla data della presentazione dell’offerta, dopo la perdita della qualificazione, l’aveva comunque riacquistata; 4) la stazione appaltante avrebbe dovuto imporre la sostituzione della consorziata, che aveva perduto la qualificazione in questione, ai sensi dell’art. 89, d.lgs. n. 50/2016 e dell’art. 63, direttiva 2014/24/UE, i quali sarebbero applicabili a tutti i casi di affidamento di un’impresa sui requisiti di un altro soggetto, e non solo all’ipotesi dell’avvalimento; 5) violazione e falsa applicazione dell’art. 12, d.l. n. 47/2014: il Consorzio avrebbe potuto eseguire direttamente tutti i lavori oggetto di appalto, in quanto in possesso della SOA VIII illimitata per la categoria prevalente con conseguente assorbimento della categoria scorporabile OS35 (motivo non riproposto in appello); 6) violazione e falsa applicazione dell’art. 83, co. 9, d.lgs. n. 50/2016: l’Amministrazione avrebbe dovuto attivare il soccorso istruttorio (motivo non riproposto in appello). III. Con sentenza n. 640/2020 del 17.3.2020 il T.A.R. Sicilia ha respinto il ricorso. In particolare, quanto al terzo motivo, il giudice di prime cure si richiama al principio di continuità nel possesso dei requisiti di ammissione sancito nella decisione dell’Adunanza plenaria n. 8 del 2015. Sul secondo motivo, la sentenza premette che il Consorzio ricorrente, al momento della presentazione dell’istanza di partecipazione, possedeva la qualificazione nella categoria OS35, classifica III, in base al principio del cumulo alla rinfusa, tramite la propria consorziata Tiemme energia s.r.l., la quale, a sua volta, la derivava da un rapporto di avvalimento con la Cargo s.r.l., ma che, in data 31 agosto 2018, veniva meno il rapporto tra la Tiemme e la Cargo, cosicché, con provvedimento del 14 settembre 2018, l’organismo di attestazione CQOP SOA dichiarava decaduta la prima (e a cascata il Consorzio) dall’attestazione di qualificazione relativa alla categoria OS35; precisato che, in data 10 settembre 2018, l’assemblea dei soci del Consorzio, dichiarata decaduta la Tiemme, contestualmente ammetteva “provvisoriamente” la Cargo, inserita in via definitiva nella compagine consortile solo il 18 gennaio 2019, ha ritenuto infondata la censura in applicazione del principio della valenza costitutiva della certificazione rilasciata dalla SOA. Il quarto motivo è stato poi ritenuto infondato escludendosi che l’impresa consorziata possa essere considerata soggetto terzo rispetto al consorzio, che risponde, pertanto, della sua condotta, senza che possa porsi un problema di affidamento incolpevole. IV. Il ricorso in appello è affidato a tre censure. Con il primo motivo si assume l’erroneità della statuizione in ordine al terzo motivo di ricorso, poiché nell’attuale sistema legislativo non esisterebbe più l’obbligo del mantenimento del possesso dei requisiti dalla data di presentazione dell’offerta sino all’esecuzione dei lavori. Con il secondo motivo di appello si lamenta l’erroneità della statuizione in primo grado, in quanto, alla luce del principio del c.d. cumulo alla rinfusa applicabile in sede di qualificazione in gara, l’ammissione provvisoria al Consorzio in data 10 settembre 2018 della Cargo s.r.l. (qualificata per la OS35) avrebbe consentito al Consorzio di utilizzarne i requisiti ai fini della partecipazione alla gara. Con il terzo motivo di appello si sostiene che il T.A.R. Sicilia avrebbe errato nel ritenere non applicabile ai consorzi stabili la possibilità di sostituire la consorziata non esecutrice “portatrice” della qualificazione che nelle more abbia perso il proprio requisito, in quanto da non considerare soggetto terzo rispetto al consorzio; infatti, l’art. 63, direttiva 2014/24/UE e l’art. 89, d.lgs. n. 50/2016 consentono la sostituzione del soggetto terzo che abbia perso i pertinenti requisiti di selezione e su cui si sia fatto affidamento e tale normativa va applicata al rapporto “consorzio stabile/consorziata non esecutrice” a motivo della alterità tra tali soggetti, con conseguente obbligo dell’amministrazione di ordinare la sostituzione della consorziata. V. La società Eurovega Costruzioni, costituitasi in giudizio, con memoria eccepisce che: a) del Consorzio faceva originariamente parte la Tiemme Energia s.r.l. (dalla quale il Consorzio ripeteva il requisito OS35); b) quest’ultima società, a sua volta, ripeteva il requisito in esecuzione di un contratto di avvalimento ex art. 88, co. 2, d.P.R. n. 207/2010; c) la Cargo s.r.l. ad agosto 2018 cedeva le proprie quote di partecipazione nella Tiemme s.r.l.; d) in ragione di ciò la SOA CQOP, a settembre 2018, accertava la perdita del requisito da parte del Consorzio per fatto della consorziata; e) tali vicende sarebbero “interne” al Consorzio, il quale non ha partecipato alla gara fruendo dei requisiti di un terzo mediante l’istituto dell’avvalimento (che avrebbe consentito di invocare l’art. 89, co. 3, d.lgs. n. 50/2016), ma con requisiti propri. Secondo l’appellata, quindi, nel caso in esame, il Consorzio non avrebbe perduto il requisito di qualificazione “per fatto di un soggetto terzo di cui si è avvalso” per l’esecuzione dell’appalto ai sensi dell’art. 89 del Codice Appalti, ma perché una sua consorziata (Tiemme Energia), nemmeno indicata per l’esecuzione dell’appalto (per cui era stata indicata Apulia S.r.l.), per fatti interni, relativi ai suoi rapporti con un’altra impresa (Cargo S.r.l.), ai sensi dell’art. 88, co. 3, d.P.R. n. 207/2010, è decaduta dalla validità della sua attestazione (nella parte in cui la stessa certificava la qualificazione nella categoria OS35 in capo al Consorzio di cui la medesima Tiemme Energia faceva parte). In altri termini, il Consorzio avrebbe perduto il requisito non per il fatto di un ausiliario su cui aveva poggiato il proprio affidamento ex art. 89 (e/o art. 47, co. 2), d.lgs. n. 50/2016, ma per fatto proprio, ovvero per fatto addebitabile ad un suo consorziato. L’appellata argomenta che l’art. 89 co. 3, d.lgs. n. 50/2016, in applicazione della direttiva 24/2014/UE, ha stabilito che un concorrente, ove, al fine di dimostrare il possesso dei requisiti di qualificazione in gara, concluda un contratto di avvalimento (ex art. 89 d.lgs. n. 50/2016 e ex art. 88 co. 1 d.P.R. n. 207/2010), non può subire un danno dall’affidamento riposto nell’impresa ausiliaria la quale, per causa non imputabile al concorrente, abbia perduto i requisiti che aveva prestato. Ma, conclude l’appellata, si tratta di questione all’evidenza diversa dalla fattispecie in esame, nella quale il Consorzio Stabile, per fatto ad esso imputabile, ha perduto il requisito di qualificazione nella Categoria OS35. Sia Invitalia che il Ministero si sono costituiti in giudizio, e, con memorie, resistono all’appello. VI. Con ordinanza n. 705/2020 del 18.9.2020, ritenuta la preminenza dell’interesse pubblico relativo alla prosecuzione dei lavori in questione, iniziati da diversi mesi ed eseguiti nell’ambito di un intervento strategico disposto per superare una procedura di infrazione euro unitaria, la domanda cautelare è stata accolta ai soli fini della fissazione dell’udienza per la discussione dell’appello nel merito. VII. In esito all’udienza del 16 dicembre 2020, con ordinanza n.1211/2020, pubblicata il 29.12.2020, questo Consiglio ha disposto il deferimento all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sottoponendo le seguenti questioni: 1. se, nell’ipotesi di partecipazione ad una gara d’appalto di un consorzio stabile, che ripeta la propria qualificazione, necessaria ai sensi del bando, da una consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, quest’ultima vada considerata come soggetto terzo rispetto al consorzio, equiparabile all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito durante la gara imponga alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione, in applicazione dell’art. 89 co. 3, d.lgs. n. 50/2016 e/o dell’art. 63, direttiva 24/2014/UE, derogandosi, pertanto, al principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti nel corso della gara e fino all’affidamento dei lavori; 2. in caso di risposta negativa al quesito sub “1”, se comunque, qualora la consorziata - non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori - derivi la qualificazione da un rapporto di avvalimento con altra impresa, trovino applicazione le disposizioni normative sopra citate e la conseguente deroga al richiamato principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti. VIII. L’Adunanza plenaria, con sentenza 18 marzo 2021, n. 5 ha affermato, in risposta al quesito posto a mezzo dell’ordinanza di rimessione, il seguente principio: “La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva 24/2014/UE e dell’art. 89 co. 3 del d.lgs. n. 50/2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione”, rimettendo gli atti a questo Consiglio per l’ulteriore corso della causa. IX. Calendarizzata la causa per l’udienza del 14.4.2021, Eurovega ha presentato istanza di rinvio, motivatamente respinta con decreto n. 55/2021 pubblicato il 22.3.2021. X. L’appellante ha presentato una memoria con la quale insiste per l’accoglimento dell’appello proposto dal Consorzio Sinergica, quale conseguenza automatica e necessaria della statuizione adottata dall’Adunanza Plenaria e del principio di diritto in essa enunciato. Quanto al risarcimento del danno, chiesto con il ricorso introduttivo, l’appellante si afferma disponibile al subentro nel contratto in corso di esecuzione, evidenziando che la stessa appellata ha dimostrato (allegato sub nr.3 produzione 23 marzo 2021, stato avanzamento n°4 dei lavori eseguiti a tutto il 26 febbraio 2021) che le lavorazioni eseguite non superano il 30% dei lavori a base di gara. Nell’ipotesi in cui non fosse possibile il subentro e, comunque, per la parte di lavori già eseguita, il Consorzio insiste per il risarcimento per equivalente. XI. Anche Eurovega Costruzioni ha presentato una memoria, con la quale evidenzia profili che, a suo dire, possono richiedere un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia UE. Evidenzia che un’interpretazione della normativa nazionale che ammetta la possibilità che alla stessa gara possano partecipare sia il Consorzio stabile che la consorziata dal quale il Consorzio ripeta la qualificazione, ancorché non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, consentirebbe di spendere due volte il medesimo requisito nella stessa gara, in contrasto con i principi, posti a tutela della concorrenza, di libertà di stabilimento, di reciprocità, di parità di trattamento e proporzionalità. Altresì, l’appellata ritiene che sussistano profili di illegittimità costituzionale della medesima normativa, per contrasto con gli artt. 3, 97 e 117 Cost., in relazione alla violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 alla CEDU letto congiuntamente con l’art. 14 CEDU, nonché in relazione ai principi del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e in particolare la libera prestazione di servizi, nonché i principi di libertà di stabilimento, parità di trattamento, non discriminazione e proporzionalità. Dalla tesi secondo la quale il rapporto tra il Consorzio e la consorziata Tiemme Energia s.r.l. non sarebbe di terzietà, l’appellata conclude che non possa sostenersi che il Consorzio abbia “incolpevolmente” perso il requisito per aver fatto affidamento su soggetti terzi. Infine, l’appellante evidenzia che l’asserita ammissione provvisoria della Cargo al Consorzio sarebbe basata su documentazione sprovvista di data certa ed inopponibile ai terzi. In subordine, si rileva che i lavori sono il risultato dell’esecuzione di un “progetto” modificato per recepire le offerte migliorative formulate dall’appellata in sede di gara. Interrompere la continuità dei lavori oggetto dell’appalto sarebbe “contrario all’interesse della stazione appaltante” perché si tratta di opere che hanno lo scopo di tutelare della salute dei cittadini e dell’ambiente e di consentire l’uscita dell’agglomerato servito (Mazara) dall’infrazione di cui alle sentenze di condanna della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 19 luglio 2012 (Causa C –565/10) e il 10 aprile 2014 (Causa C-85/13), In caso di subentro sarebbe necessario: 1. verificare lo stato di avanzamento dell’esecuzione dell’opera, 2. verificare se e in che misura le migliorie offerte dall’appellante siano incardinabili nello stato attuale di esecuzione; 3. ottenere il favorevole riesame del progetto modificato da parte degli organi di tutela dei vincoli gravanti sull’area anche mediante una conferma della VIA resa sul progetto originario 4. sostenere l’ulteriore peso economico della sanzione comminata dall’UE (per la parte relativa al necessario ritardo – difficilmente inferiore a 12 mesi – che tali attività determineranno). Infine, anche l’appellata avrebbe titolo al risarcimento per aver fatto incolpevole affidamento sul provvedimento poi annullato, per quanto la questione involga anche profili di giurisdizione. XII. Invitalia s.p.a., con memoria di replica, eccepisce, in ordine alla domanda di subentro nel contratto, che la quantità di opere eseguite è comunque significativa e che le stesse sono esecutive di un progetto diverso da quello messo a gara, in quanto la stazione appaltante ha recepito l’offerta migliorativa progettuale formulata dall’A.T.I. aggiudicataria; quindi, dovrebbe eseguirsi la diversa progettazione proposta dall’appellante e smantellarsi anche (almeno) una parte delle opere già eseguite, con dispendio di tempo e di pubbliche risorse. Sul risarcimento per equivalente si argomenta circa la mancanza di colpa in capo all’amministrazione. XIII. L’appellante replica alle eccezioni delle altre parti. In particolare, sottolinea come la Tiemme, iniziale consorziata non esecutrice dell’appalto del Consorzio Sinergica, non abbia in alcun modo preso parte in proprio alla gara, e nemmeno la Cargo. Quindi non vi è stata alcuna spendita duplice del requisito. Comunque, il caso teorico di consorziata che presta i requisiti al consorzio e che, al contempo, partecipa in proprio alla gara sarebbe escluso dalla previsione dell’art. 83, co. 7, del d.lgs. n. 50/2016, in tal modo neutralizzandosi il rischio, su cui l’appellata fonda le proprie istanze di rimessione in via pregiudiziale e di costituzionalità, di spendita doppia dei requisiti della consorziata. XIV. Eurovega replica argomentando ulteriormente le proprie tesi. XV. All’udienza pubblica del giorno 14 aprile 2021, in esito alla discussione orale (da remoto), la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO XVI. Preliminarmente, in punto di fatto, giova chiarire che, contrariamente a quanto eccepito da Eurovega, nel corso del giudizio di primo grado è stata dimostrata sia l’ammissione provvisoria della Cargo al Consorzio appellante (copia verbale 10.9.2018, all.003 alla doc. dep. il 9.1.20) che l’ammissione definitiva (copia del verbale 18.1.2019 con firme autenticate da notaio, all.006 alla doc. dep. il 9.1.20). Sempre in punto di fatto, si conferma (come eccepito dal Consorzio appellante) che Tiemme (la consorziata dalla quale il Consorzio ripeteva i requisiti ai fini della gara per cui è causa) non ha mai partecipato alla gara in questione (verbale di gara n.1, all.013 alla doc. dep. il 9.1.20). XVII. L’appello è fondato. Il suo accoglimento discende in via immediata e diretta dall’applicazione al caso concreto del principio di diritto espresso in questa stessa causa dall’Adunanza plenaria n. 5/2021. XVII.1. In ordine alle questioni deferite da questo Consiglio, l’Adunanza plenaria, con sentenza 18 marzo 2021, n. 5, ha posto il seguente principio: “La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva 24/2014/UE e dell’art. 89 co. 3 del d.lgs. n. 50/2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione”. A tale conclusione la decisione perviene in forza di una interpretazione dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti pubblici orientata alla corretta applicazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE. La decisione esamina compiutamente la peculiare configurazione del consorzio stabile, prevista dall’art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, rispetto al consorzio ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. del codice civile, precisando, in particolare, che i partecipanti al primo danno vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto. La decisione specifica che il rapporto tra consorzio e le consorziate non designate per l’esecuzione dei lavori è molto simile a quello dell’avvalimento (non a caso espressamente denominato tale dalla vecchia versione dell’art. 47 comma 2 del codice dei contratti, ratione temporis applicabile), anche se, per certi versi, meno intenso, data l’assenza di responsabilità. L’opzione ermeneutica muove dall’ampia formulazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, il quale, nel disciplinare l’avvalimento, vi ricomprende tutti i casi in cui un operatore economico, per un determinato appalto, fa “affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi”, per cui non v’è ragione per riservare al consorzio che si avvale dei requisiti di un consorziato “non designato”, un trattamento diverso da quello riservato ad un qualunque partecipante, singolo o associato, che ricorre all’avvalimento. La decisione, poi, precisa che la chiave interpretativa innanzi delineata non tocca la perdurante validità del principio di necessaria continuità nel possesso dei requisiti, affermato dall’Adunanza Plenaria con sentenza 8/2015, né il più generale principio di immodificabilità soggettiva del concorrente; in particolare, l’argomentazione desumibile dalla richiamata sent. n.8/15 secondo la quale il principio di continuità dovesse valere anche per l’impresa avvalsa, dev’essere letta nel quadro normativo, ratione temporis vigente, anche comunitario, che escludeva la possibilità di una sostituzione dell’impresa rimasta priva di requisiti, a prescindere se essa fosse legata da un vincolo di associazione temporanea con l’aggiudicatario o da un più tenue rapporto di avvalimento (art. 44 della Dir. 31/03/2004, n. 2004/18/CE). Quel quadro normativo è mutato, e per il tramite del più volte citato art. 63 della direttiva 2014/24/UE oggi pacificamente impone che il soggetto avvalso, che nelle more del procedimento di gara o durante l’esecuzione del contratto perda i requisiti, venga sostituito. La sostituzione è appunto lo strumento "del tutto innovativo", che restituisce al soggetto avvalso la sua vera natura di soggetto che presta i requisiti al concorrente, senza partecipare alla compagine e all’offerta da questa formulata e risponde all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione del concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non direttamente riconducibili o imputabili. Esigenza quest’ultima evidentemente strumentale a stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può contare sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti o perda i requisiti prescritti, potrà procedere alla sua sostituzione senza il rischio di essere, solo per questa circostanza, estromesso automaticamente dalla gara. XVII.2. Alla stregua dei principi affermati dalla decisione n.5/2021 fin qui sinteticamente richiamati, risultano fondati i motivi secondo e terzo dell’appello con i quali il Consorzio appellante ripropone i motivi secondo e quarto del ricorso introduttivo. Il Consorzio, al momento della presentazione dell’istanza di partecipazione, possedeva la qualificazione nella categoria OS35, classifica III, in base al principio del c.d. “cumulo alla rinfusa”, tramite la propria consorziata Tiemme energia s.r.l. (non designata per l’esecuzione dei lavori), la quale, a sua volta, la derivava da un rapporto di avvalimento con la Cargo s.r.l. Venuto meno il rapporto tra la Tiemme e la Cargo (per scelta di quest’ultima), l’assemblea dei soci del Consorzio dichiarava la Tiemme decaduta per perdita dei requisiti e contestualmente ammetteva “provvisoriamente” la Cargo, che veniva inserita in via definitiva nella compagine consortile il 18 gennaio 2019. Alla stregua del principio di diritto sopra affermato, poiché la Tiemme, consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, da cui il Consorzio ritraeva la propria qualificazione ai sensi dell’art. 47, co. 2, d.lgs. n. 50/2016 (ratione temporis vigente), avrebbe dovuto essere equiparata all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, all’appellante avrebbe dovuto applicarsi l’art. 89, co. 3, d.lgs. n. 50/2016, consentendogli di procedere alla sostituzione, come di fatto avvenuto nel corso della gara mediante ammissione alla compagine consortile della Cargo. Ne consegue la fondatezza del ricorso introduttivo e l’erroneità in parte qua della statuizione appellata. XVIII. L’A.T.I. Eurovega chiede che venga sollevata davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ex art. 267 TFUE, la seguente questione pregiudiziale: se i principi del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e in particolare la libertà di stabilimento e la libera prestazione di servizi, nonché i principi di parità di trattamento, non discriminazione, mutuo riconoscimento, proporzionalità di cui al considerando 1 della direttiva 2014/24/CE sugli appalti pubblici, nonché l’art. 18, l’art. 58, paragrafo 2, e l’art. 63, paragrafo 1, della medesima direttiva ostino ad una normativa nazionale, come quella di che trattasi di cui agli artt. 45, comma 2, lett. c), 47, comma 2, e 89, comma 3, del d.lgs. 50/2016, che sia interpretata nel senso di: a) ammettere la possibilità che alla stessa gara possano partecipare sia il Consorzio stabile che la Consorziata, dalla quale il Consorzio ripeta la qualificazione, ancorché non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori; b) in ipotesi di perdita da parte della consorziata del requisito dal quale il Consorzio stabile ripeta la qualificazione, imporre alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione. Sostiene l’appellata che se al predetto quesito venisse data risposta nel senso della impossibilità della contemporanea partecipazione tra consorzio e consorziata, verrebbe meno il presupposto teorico della terzietà tra consorzio e consorziata e, per l’effetto, la possibilità di applicare il meccanismo sostitutivo previsto dall’art. 63 della direttiva 24/2014/UE e dell’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016. XIX. Di fatto, l’appellata, pur ponendo due questioni (sub “a” e sub “b”), argomenta solo in ordine alla prima (asserita incompatibilità con il diritto eurounitario della partecipazione ad una medesima gara di un consorzio stabile e di una consorziata, dalla quale il consorzio ripeta la qualificazione, ma non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori). Ma la questione risulta inammissibilmente posta. XIX.1. Come esposto in premesse, nel caso in questione la Tiemme (consorziata, dalla quale il Consorzio appellante ripeteva la qualificazione) non ha affatto partecipato alla gara in questione, né vi ha partecipato Cargo (la consorziata ammessa al Consorzio in sostituzione di Tiemme). Sicché il quesito si presenta meramente astratto, senza alcun collegamento con il giudizio in questione, e la pretesa violazione del diritto dell’Unione costituisce questione “manifestamente priva di rilevanza e teorica nell’ambito del procedimento principale (C.G.U.E., 18 luglio 2013 causa C-136/12, sub 35)”. Al riguardo, a seguito di ordinanza 5 marzo 2012 n.1244, con la quale il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito “se osti o meno all’applicazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria”, la Corte (con la nota decisione 18 luglio 2013 causa C-136/12, punto 26) ha chiaramente risposto che “dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’articolo 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81, Racc. pag. 3415, punto 10)”. Al fine di reprimere un “abuso del rinvio pregiudiziale”, devono ritenersi inammissibili questioni non pertinenti perché manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o perché del tutto generali o di natura meramente ipotetica, o comunque ove risulti in modo evidente che la richiesta di interpretazione del diritto dell’Unione non presenta alcun legame concreto con l’oggetto della causa; la questione sollevata dall’appellante ricade esattamente in tali tipologie. Anche Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4970, ha affermato che la presenza di una “inconferente” e “irrilevante” istanza di rimessione alla Corte di giustizia UE esclude l’obbligo di rinvio pregiudiziale. XIX.2. Quanto, poi, alla richiesta di rimettere alla Corte di giustizia la questione se sia compatibile con il diritto eurounitario “in ipotesi di perdita da parte della consorziata del requisito dal quale il Consorzio stabile ripeta la qualificazione, imporre alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione”, in sostanza la parte chiede a questo CGARS di rimettere in discussione, davanti alla C. giust. UE, l’esatto principio di diritto affermato in questa causa con la decisione della Plenaria n. 5/2021. In questa prospettiva, la istanza è palesemente inammissibile. Invero, il “rinvio pregiudiziale” alla C. giust. UE può essere effettuato in pendenza di un giudizio al fine di decidere questioni che in quel giudizio non sono ancora decise con forza di giudicato. La questione che qui ora la parte sottopone appare intempestiva, perché andava semmai sollevata prima della decisione della Plenaria n. 5/2021. Nella presente causa il principio di diritto espresso dalla Plenaria n. 5/2021 non è un principio astratto e avulso dalla causa, ma costituisce già decisione – sia pur parziale- della causa, con forza di giudicato. Secondo la Corte di giustizia UE il giudicato nazionale è intangibile, se così stabiliscono le norme processuali interne, e per converso tangibile solo se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono (C. giust. UE, 10.7.2014 C-213/13). In tale ottica, questo Consiglio di Giustizia ha avuto occasione di affermare (sent. n. 131/2021 del 22/02/2021) che la Corte di giustizia dell’Unione Europea < ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della I Sez. del 16.3.2006 nel procedimento C-234/04)”>. E se anche ci sono limitati spazi per superare un giudicato nazionale in contrasto con il diritto eurounitario, tanto deve ritenersi ammesso quando il contrasto non era denunciabile prima del giudicato, e si manifesta dopo di esso, a causa di sopravvenienze normativa o di una sopravvenuta decisione della Corte di giustizia. Non è certo concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, ben prospettabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione- parziale- della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente. Questo costituisce una singolare inversione dell’ordine logico delle questioni, in cui quelle “pregiudiziali” vanno decise, per definizione normativa e logica, “prima” del “giudizio di merito” e non dopo, al fine di porre nel nulla un giudizio di merito non conforme alle aspettative di parte. La statuizione della Plenaria n. 5/2021, che enuncia il principio di diritto e rinvia alla Sezione rimettente per il seguito, costituisce decisione parziale da cui discende in via immediata e diretta l’annullamento dell’atto di ritiro dell’aggiudicazione in danno dell’odierna appellante e dell’aggiudicazione all’a.t..i. Eurovega Costruzioni s.r.l. Nessuno spazio decisionale ulteriore residua in capo alla Sezione, in punto di annullamento di tali due provvedimenti. Gli spazi decisionali residui afferiscono solo alle conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione, in punto di sorte del contratto. Non vi è perciò alcuno spazio processuale per rimettere in discussione davanti alla C. giust. Ue il principio di diritto enunciato in questa stessa causa dalla Adunanza plenaria. E’ appena il caso di precisare che quanto fin qui detto non confligge con il principio affermato dalla Corte giust. UE, Grande Camera, 5 aprile 2016, C-689/13, Puligienica c. Airgest s.p.a., secondo il quale <l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo giurisdizionale, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale>. Infatti, il principio in questione venne affermato (come palese dalla lettura dell’ordinanza di questo C.G.A.R.S. n.848/2013 di domanda di pronuncia pregiudiziale) in un caso in cui veniva in rilievo l’applicazione del comma 3 dell’art.99 c.p.a., per cui il Consiglio avrebbe dovuto rimettere la causa all'Adunanza Plenaria non condividendo un principio di diritto dalla stessa enunciato (vale a dire, in relazione ad altra causa, quindi senza efficacia di giudicato nel giudizio in questione). Mentre nel caso in esame l’appellata vorrebbe contestare il principio di diritto affermato dall’Adunanza Plenaria proprio su questo ricorso ed avente autorità di giudicato. XIX.3. L’assoluta irrilevanza della questione posta rispetto al giudizio in questione si evidenzia anche dalle ulteriori considerazioni. Poiché il bando della gara per cui è causa venne pubblicato il 17 maggio 2018 e la gara si concluse con provvedimento prot. n. 7171 del 21 gennaio 2019, trova applicazione (come precisato anche nella decisione della Plenaria n.5/21) l’art. 31 comma 1 d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, vigente all’epoca della gara, per il quale: “I consorzi di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c) e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l’esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l’esecuzione del contratto. Con le linee guida dell’ANAC di cui all’articolo 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l’imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni”. L'art. 1, comma 20, lett. l), n. 1), d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, ha poi ripristinato l’originaria e limitata perimetrazione del cd. cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi alla “disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d'opera, nonché all'organico medio annuo”, i quali sono “computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”. Ma la gara oggetto del giudizio ricade sotto il governo della precedente disciplina. Per cui, l’astratta questione posta dall’appellante potrebbe venire in rilievo in una fattispecie (ipotetica ed all’evidenza diversa da quella in esame) nella quale: - nel vigore della norma illo tempore vigente (che consentiva l’utilizzazione da parte del consorzio dei requisiti di qualificazione posseduti dalle singole imprese consorziate, non designate per l’esecuzione delle prestazioni, mediante l’istituto dell’avvalimento), abbiano partecipato a gara consorzio e consorziata; - e il seggio di gara non abbia ritenuto applicabile il divieto di contemporanea partecipazione a gara dell’impresa ausiliaria e di quella che si avvale dei requisiti di cui all’art. 89, co. 7, del d.lgs. n. 50/2016. Solo in tale evenienza, potrebbe concretamente realizzarsi la fattispecie delineata dall’appellata. Pur senza voler tralasciare che la norma da ultimo citata non trae la propria fonte nel diritto eurounitario, che non prevede siffatto divieto. Non solo; ma va altresì rilevato che, anche sul piano astratto, la parte vorrebbe che venga sottoposto alla Corte un quesito (compatibilità con i principi europei della contemporanea partecipazione a gara di Consorzio ed impresa ausiliaria, tale definita nella norma allora in vigore) già risolto sul piano positivo (giacché l’ordinamento interno, con disposizione più restrittiva, lo vieta, e quello eurounitario no). Quindi, in ordine al quesito, già di per sé irrilevante ai fini della decisione della causa in questione (quale che fosse la risposta della Corte, in nulla influirebbe sulla definizione di questa causa, non interferendo con il principio di diritto affermato dalla Plenaria), non si pone neppure un minimo dubbio riguardo all’interpretazione o alla corretta applicazione del diritto UE. XIX.3. Sotto altra angolatura, l’ipotetica affermazione, da parte della Corte di Giustizia, del divieto della contemporanea partecipazione a gara dell’impresa ausiliaria/consorziata (nella versione della normativa vigente all’epoca della gara per cui è causa) e di quella che si avvale dei requisiti/consorzio (divieto peraltro rinvenibile nel diritto interno ex art. 89, co. 7, del d.lgs. n. 50/2016, dandosi così luogo ad un quesito anche inutile), non servirebbe comunque a scardinare il ragionamento della Plenaria n.5/21, essendo la terzietà (contestata dall’appellata) già positivizzata nel richiamato art. 31 comma 1 d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, che aveva introdotto un meccanismo di qualificazione mediante l’istituto dell’avvalimento dei requisiti posseduti dalle singole imprese consorziate non designate per l’esecuzione del contratto. Con conseguente inutilità della ipotetica decisione della Corte anche sotto tale ulteriore profilo. Senza tralasciare che la Corte di Giustizia (C-376/08, 23 dicembre 2009) si è già pronunciata ritenendo che il diritto comunitario dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che non consenta la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto; ed in tale decisione non ha escluso dal principio alcuna delle tipologie di imprese consorziate. XIX.4. In altri termini, dato atto dell’inquadramento del rapporto consorzio/consorziata come declinato dalla normativa vigente all’epoca ed interpretato dalla Plenaria, ove mai si verificasse un caso di contemporanea partecipazione a gara dell’uno e dell’altra, occorrerebbe, prima, interrogarsi sull’applicabilità della causa di esclusione di cui all’art. 89, co. 7, del d.lgs. n. 50/2016; e poi, eventualmente, della compatibilità con il diritto eurounitario di quest’ultima disposizione, ma in ottica speculare a quella sottoposta dall’impresa appellata. XX. Conclusivamente, in riforma della sentenza appellata ed in accoglimento del ricorso introduttivo, vanno annullati: l’atto di annullamento in autotutela dell’originaria aggiudicazione in favore dell’appellante; l’atto di aggiudicazione in favore di Eurovega Costruzioni s.r.l. XXI. Viene in rilievo la domanda risarcitoria. XXI.1. L’appellante ha ribadito la propria (generica) disponibilità al subentro nel contratto in corso di esecuzione. Le appellate sostengono però che tale soluzione obbligherebbe ad interrompere la continuità dei lavori oggetto dell’appalto, in quanto le opere in corso sarebbero esecutive di un progetto diverso da quello oggetto di gara, essendo stata recepita l’offerta migliorativa progettuale formulata dall’ATI; ove si dovesse eseguire una diversa progettazione, occorrerebbe smantellare almeno una parte delle opere già eseguite ed acquisire sul progetto i pareri degli organi di tutela dei vincoli gravanti sull’area anche mediante una conferma della VIA resa sul progetto originario. Eurovega, al riguardo, sostiene che non appare possibile che l’appellante possa subentrare nell’esecuzione di un progetto che non corrisponde a quello della propria offerta. XXI.2. Il Collegio non condivide detta affermazione, non rinvendendosi, nell’ampia ed elastica previsione dell’art. 122 c.p.a., alcun ostacolo giuridico a che l’appellante subentri nel contratto in corso di esecuzione alle condizioni contrattuali per esso pattuite. Pertanto l’Amministrazione dovrà consentire l’accesso a tutti i documenti del contratto in corso di esecuzione (contratto, progetto, autorizzazioni e nulla osta, stato dei lavori) entro giorni 5 di calendario dalla comunicazione della presente decisione, ponendo a disposizione della parte tutta la documentazione necessaria per una consapevole ed approfondita valutazione delle modalità di esecuzione dell’opera e consentendole sopralluoghi sul posto. A tal fine l’Amministrazione dovrà invitare la parte a esercitare l’accesso con la dovuta tempestività affinché l’accesso abbia effettivamente luogo entro il suddetto termine. L’appellante dovrà, quindi, entro il venti maggio 2021, depositare in giudizio una memoria volta a precisare la domanda risarcitoria, chiarendo se la domanda di subentro si intenda o meno formulata alle condizioni del contratto in corso, mediante prosecuzione nell’esecuzione del progetto approvato, senza soluzione di continuità. Restano invariati i termini per documenti, memorie e repliche, nel rito appalti, da calcolarsi a ritroso dalla nuova udienza che si fissa per il 16.6.2021. Con espressa avvertenza che la condotta processuale costituirà oggetto di valutazione ai sensi dell’art. 124 comma 2 del c.p.a. XXII. Ogni ulteriore determinazione in merito alla domanda risarcitoria, così come ogni statuizione sulle spese, viene rinviata al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, parzialmente non definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, annulla: il provvedimento 11. 2.2019 n. 16448 recante annullamento in autotutela dell’aggiudicazione in favore dell’odierna appellante; il provvedimento 11.2.2019 recante aggiudicazione in favore dell’a.t.i. con mandataria Eurovega costruzioni s.r.l. Dispone a carico delle parti gli incombenti di cui in motivazione entro i termini ivi previsti. Rinvia la causa per l’ulteriore trattazione all’udienza pubblica del 16 giugno 2021. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2021 tenutasi da remoto con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Giudice di ultima istanza – Obbligo – Limiti.    Processo amministrativo​​​​​​​ – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE – Dopo decisione parziale – Esclusione - Limiti.  ​​​​​​​              Al fine di reprimere un “abuso del rinvio pregiudiziale”, devono ritenersi inammissibili questioni non pertinenti perché manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o perché del tutto generali o di natura meramente ipotetica, o comunque ove risulti in modo evidente che la richiesta di interpretazione del diritto dell’Unione non presenta alcun legame concreto con l’oggetto della causa  (1).                Non è concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, quale può essere la rimessione alla Corte di giustizia Ue, ben sollevabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione – parziale - della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente (2).    (1) Ha ricordato la Sezione che Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4970, ha affermato che la presenza di una “inconferente” e “irrilevante” istanza di rimessione alla Corte di giustizia UE esclude l’obbligo di rinvio pregiudiziale.  Ha aggiunto che a seguito di ordinanza 5 marzo 2012 n. 1244, con la quale il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito “se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria”, la Corte (con la nota decisione 18 luglio 2013 causa C-136/12, punto 26) ha chiaramente risposto che “dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’art. 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81).    (2) Ha ricordato il C.g.a. che secondo la Corte di giustizia UE (10 lugllio 2014 C-213/13) il giudicato nazionale è intangibile, se così stabiliscono le norme processuali interne, e per converso tangibile solo se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono.  In tale ottica, il C.g.a. (22 febbraio 2021, n. 131) ha avuto occasione di affermare che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della sez. I, 16 marzo 2006, C-234/04).  E se anche ci sono limitati spazi per superare un giudicato nazionale in contrasto con il diritto eurounitario, tanto deve ritenersi ammesso quando il contrasto non era denunciabile prima del giudicato, e si manifesta dopo di esso, a causa di sopravvenienze normativa o di una sopravvenuta decisione della Corte di giustizia.  Non è certo concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, ben prospettabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione- parziale- della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente. Questo costituisce una singolare inversione dell’ordine logico delle questioni, in cui quelle “pregiudiziali” vanno decise, per definizione normativa e logica, “prima” del “giudizio di merito” e non dopo, al fine di porre nel nulla un giudizio di merito non conforme alle aspettative di parte. ​​​​​​​
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-di-giustizia-ue-quando-il-coordinamento-tra-operatori-economici-formalmente-autonomi-sia-tale-da-configurare-un-unico-centro-decisionale
Alla Corte di Giustizia UE quando il coordinamento tra operatori economici formalmente autonomi sia tale da configurare un unico centro decisionale
N. 07713/2020 REG.PROV.COLL. N. 06516/2018 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 6516 del 2018, proposto da: UNILEVER ITALIA MKT. OPERATIONS S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Luca Raffaello Perfetti, Claudio Tesauro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudio Tesauro in Roma, via Vittoria Colonna, n. 39; contro AUTORITÀ GARANTE DELLA CONCORRENZA E DEL MERCATO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui ufficio è elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti LA BOMBA S.N.C., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 6080 del 2018; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 ottobre 2020 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati Claudio Tesauro e Francesco Sclafani dell’Avvocatura dello Stato; RITENUTO IN FATTO 1.– I fatti principali rilevanti ai fini del decidere possono essere così riassunti: - la Unilever Italia Mkt. Operations s.r.l. (di seguito: “Unilever”) ‒ società attiva nello sviluppo e commercializzazione di prodotti di largo consumo, con marchi di grande notorietà, tra i quali, nel settore dei gelati, “Algida” e “Carte d’Or” ‒ ha impugnato il provvedimento n. 26822 del 31 ottobre 2017, con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (di seguito: “Autorità”) ha contestato alla stessa società di avere posto in essere un abuso di posizione dominante, contrario all’art. 102 del T.F.U.E., consistito nell’adozione di una strategia escludente, realizzata a mezzo dell’ampio utilizzo di clausole di esclusiva merceologica e da una serie articolata di ulteriori condizioni contrattuali, strumenti di politica commerciale e condotte, complessivamente volti a mantenere, durevolmente, l’esclusiva delle forniture sulla propria clientela e a ostacolare, per tale via, la competizione sui meriti; - il procedimento ha tratto origine da un esposto della società La Bomba s.n.c., produttrice di “ghiaccioli” attiva nelle regioni Emilia Romagna, Marche e Lazio, la quale aveva denunciato il fatto che la Unilever, nel corso degli ultimi anni, avrebbe intimato agli esercenti degli stabilimenti balneari e dei bar, di non commercializzare, unitamente ai propri prodotti, anche i ghiaccioli La Bomba, né all’interno dei “freezer Algida”, né in quelli propri di La Bomba, paventando, in caso contrario, la mancata applicazione degli sconti previsti nell’accordo già stipulato e imponendo altresì il pagamento di penali o la risoluzione del contratto; - il provvedimento adottato dall’Autorità a conclusione dell’istruttoria ha comminato ad Unilever una sanzione di € 60.668.850,00, ordinando altresì l’interruzione delle condotte ritenute illecite, sulla base delle seguenti conclusioni: a) sul mercato rilevante ‒ individuato in quello nazionale della distribuzione e commercializzazione di gelati confezionati ai rivenditori attivi nel canale out-of-home (escluso il canale Hotellerie- Restaurant- Cafè) ‒ Unilever detiene una posizione dominante; b) i 150 distributori locali di Unilever (di seguito: “Concessionari”) non costituiscono imprese autonome e la loro politica commerciale è attribuibile ad Unilever; c) le condotte tenute sul mercato da Unilever e dai suoi Concessionari ‒ consistenti nella previsione di obblighi di esclusiva merceologica, applicazione di sconti e compensi condizionati al raggiungimento di obiettivi di fatturato, applicazione di compensi subordinati al mantenimento in assortimento di una determinata gamma di gelati Unilever, previsione di compensi promozionali a fronte di controprestazioni meramente simboliche, erogazioni di compensi ai rivenditori non giustificati da alcun controprestazione promozionale, applicazione di sconti incondizionati di fine anno – rappresentano un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”); - la Unilever argomenta l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio dell’Autorità sulla base delle seguenti censure: i) difetto di motivazione del provvedimento di rigetto degli impegni, a mezzo dei quali Unilever si era impegnata a rimuovere tutti i profili di illegittimità rilevati dall’AGCM; ii) carenza di istruttoria ed errori metodologici in ordine all’affermazione secondo cui il mercato rilevante oggetto di indagine sarebbe costituito dal solo gelato confezionato, con esclusione del gelato sfuso, sia artigianale sia industriale, in quanto non sarebbe stata correttamente valutata la oggettiva sostituibilità dei prodotti; iii) erronea definizione del mercato geografico, avendo l’Autorità preso in considerazione l’intero territorio nazionale, pur essendo il mercato esaminato frammentato in singoli mercati locali; iv) violazione dell’art. 102 del TFUE, in merito alla qualificazione di Unilever come impresa in posizione dominante; v) violazione dell’art. 102 del TFUE, in merito all’attribuibilità a Unilever delle condotte dei concessionari, in quanto i concessionari locali sarebbero responsabili in proprio, ciascuno per la propria zona, della commercializzazione dei prodotti Unilever, così che gli effetti della loro condotta non potrebbero essere addebitati alla società; vi) violazione dell’art. 102 del TFUE, con riferimento alla qualificazione delle condotte di Unilever come abusive, in quanto le varie condotte imputate a Unilever sarebbero indimostrate, non avendo l’Autorità effettuato alcuno studio economico volto a misurare la capacità delle condotte di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, né effettuato alcuna ponderazione degli effetti asseritamente anti-concorrenziali e di quelli pro-concorrenziali; vii) violazione dell’art. 11 della legge n. 689 del 1981 e degli artt. 15 e 31 della legge n. 287 del 1990, in ragione: del legittimo affidamento ingenerato dalla precedente decisione dall’Autorità nel procedimento Sagit del 2003, nel corso del quale la stessa aveva concluso per l’assenza di una posizione dominante di Unilever e l’inidoneità degli accordi contrattuali esistenti a produrre effetti anticoncorrenziali; del mancato riconoscimento di circostanze attenuanti derivanti dalla condotta collaborativa tenuta in corso di procedimento, dalla crisi del settore e dall’adozione di un programma di compliance. 2.‒ Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con sentenza n. 6080 del 2018, ha respinto integralmente il ricorso. 3.– Avverso la predetta decisione ha proposto appello la società la Unilever Italia Mkt. Operations s.r.l. riproponendo le censure sollevate in primo grado sia pure adattate all’impianto motivazionale della sentenza gravata. 4.‒ Ritiene il Collegio che la causa non sia ancora matura per la decisione, essendo necessario sciogliere preliminarmente alcuni dubbi interpretativi relativi all’articolo 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). CONSIDERATO IN DIRITTO 1.– L’articolo 102 del TFUE (ex art. 82 del trattato CE) vieta, «nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo» (l’art. 3 della legge italiana n. 287 del 1990 ne ricalca il contenuto, stabilendo che «è vietato l’abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante […]». La giurisprudenza europea e le comunicazioni della Commissione hanno più volte sottolineato che non è di per sé illegale che un’impresa sia in posizione dominante e che tale impresa dominante ha il diritto (e il dovere) di competere sulla base dei propri meriti. Il divieto concorrenziale trova invece fondamento nella «speciale responsabilità» delle imprese private dotate di un forte potere economico di mercato di non permettere che il suo comportamento ostacoli una concorrenza realmente competitiva e priva di distorsioni nel mercato comune. In termini strutturali, l’illecito dell’abuso di posizione dominante appare integrato dai seguenti tre elementi di fattispecie: la posizione dominante (individuale o collettiva), lo sfruttamento abusivo della stessa, nonché l’assenza di giustificazioni obiettive (preminenti sugli effetti restrittivi della concorrenza). Dalla decodificazione dei citati concetti giuridici indeterminati dipende la latitudine del controllo su di esse esercitabile da parte dei poteri pubblici. 2.‒ Il primo punto da approfondire riguarda la nozione di «impresa» nel diritto antitrust europeo e i conseguenti criteri di imputazione soggettiva dell’illecito. 2.1.‒ Nel caso in esame, le condotte abusive contestate dall’Autorità ‒ pur essendo state poste in essere materialmente, non da Unilever, bensì dai suoi concessionari ‒ sono state imputate alla sola Unilever sulla base del presupposto che quest’ultima e i suoi concessionari siano riconducibili ad una medesima entità economica. La tesi dell’Autorità ‒ secondo cui Unilever eserciterebbe un «certo livello di ingerenza nella politica commerciale dei concessionari» ‒ è stata avallata dal giudice di prime cure, il quale ha parlato al riguardo di «ridotta autonomia decisionale» dei concessionari. La società appellante replica che i concessionari sono imprenditori autonomi i quali determinano liberamente la propria politica commerciale, assumendo in proprio i rischi connessi alla propria attività, come sarebbe confermato dalle dichiarazioni rese da alcuni di essi nell’ambito di un sondaggio condotto in forma anonima da una rinomata agenzia esterna. 2.2.‒ Posto che spetta al giudice nazionale del rinvio accertare, in fatto, i contenuti del rapporto contrattuale intrattenuto tra la Unilever e i suoi concessionari, si pone ‒ in punto di diritto ‒ la necessità di chiarire la nozione di «impresa» in ambito sanzionatorio antitrust, alla luce della dottrina dell’«unica unità economica». Va in particolare chiarito in presenza di quali presupposti il coordinamento tra operatori economici formalmente autonomi e indipendenti sia tale da configurare un unico centro decisionale, con il corollario che le condotte dell’uno possono essere imputate anche all’altro. La questione ha una portata cruciale nel presente giudizio poiché, come si è detto, Unilever è stata sanzionata a causa dell’operato dei concessionari, mentre le sue autonome condotte vengono prospettate dalla difesa come di per sé inidonee a dimostrare l’esistenza di un abuso escludente. L’appellante deduce infatti (senza specifica contestazione di controparte) che: gli accordi di esclusiva conclusi tra Unilever e i rivenditori coprivano lo 0,8% del totale dei punti vendita attivi in Italia; mentre gli accordi di esclusiva sottoscritti dai concessionari con i loro clienti coprivano l’8% del totale dei punti vendita presenti in Italia, corrispondenti al 24% del mercato in termini di fatturato generato. 2.3.‒ È noto che giurisprudenza della Corte di giustizia ha elaborato una nozione autonoma (rispetto al diritto civile e commerciale in vigore nei singoli Stati membri) e funzionale di «impresa», rilevante ai fini dell’applicazione del diritto europeo della concorrenza e antitrust, allo scopo di garantire la massima applicazione utile delle norme che sanzionano i comportamenti contrari alla realizzazione del mercato unico e di aumentarne l’efficacia deterrente (cfr. le conclusioni dell’avvocato generale Bot, presentate il 29 marzo 2011, in cause riunite C-201/09 P e C-216/09 P, ArcelorMittal Luxembourg et altri). In particolare, secondo la Corte di Giustizia, ai fini dell’imputazione delle sanzioni antitrust, non deve farsi necessariamente ed esclusivamente riferimento alla persona giuridica che materialmente ha posto in essere la condotta, in quanto la nozione di impresa deve essere intesa nel senso che essa designa «un’unità economica ancorché, dal punto di vista giuridico, tale unità sia costituita da più persone fisiche o giuridiche» (10 aprile 2014, in cause riunite da C-231/11 P a C-233/11 P, Siemens AG Osterreich et al.; 12 luglio 1984, causa 170/83, Hydroterm, Racc. pag. 2999, punto 11; 14 luglio 1972, causa 48/69, ICI/Commissione, Racc. pag. 619, punto 140; 11-7-2013). La formale separazione tra due imprese conseguente alla loro distinta personalità giuridica non è decisiva, giacché sul piano esterno è decisiva invece l’unità o meno del loro comportamento sul mercato, e quindi la nozione economica di agente economico (11 luglio 2013, in causa C-440/11 P, Portielje, punto 37). 2.4.‒ Le condizioni in presenza delle quali si può affermare l’esistenza di un unico centro decisionale a fronte della sussistenza di una pluralità di persone fisiche e giuridiche sono state precisate dalle sentenze della Corte di giustizia soprattutto con riguardo al fenomeno dei gruppi di impresa. La giurisprudenza europea ritiene che il comportamento di una controllata possa essere imputato alla società controllante quando, «pur avendo personalità giuridica distinta, tale controllata non determini in modo autonomo la sua linea di condotta sul mercato, ma si attenga, in sostanza, alle istruzioni che le vengono impartite dalla società controllante, in considerazione, segnatamente, dei vincoli economici, organizzativi e giuridici che intercorro-no tra le due entità giuridiche» (10 aprile 2014, in cause riunite C-247/11 P e C-253/11, P, Areva et al., punto 30; 18 luglio 2013, in causa C-501/11, Schindler Holding Ltd, punto 101). Affinché possa dirsi che un gruppo corrisponde ad un’unica entità economica e affinché si possa così imputare alla capogruppo il comportamento concorrenziale della controllata è necessario che vengano soddisfatte due condizioni cumulative: la società madre deve avere la capacità di esercitare una influenza determinante sulla controllata e, soprattutto, essa deve aver esercitato in concreto questo potere (Corte, 26-9-2013, causa C-179/12P, Dow Chemical, punto 55). La seconda condizione comporta la necessità di provare, in concreto, l’esercizio effettivo dell’influenza determinante della società madre sulla propria controllata, ossia l’intensità e l’impatto di tale influenza, può essere oggetto di presunzione. A tal fine, occorre guardare ai legami organizzativi, economici e giuridici intercorrenti tra l’impresa controllante e controllata, tenendo conto di tutte le circostanze specifiche del caso. La dottrina dell’unica entità economica viene utilizzata anche per esentare le intese infragruppo dall’applicazione del diritto antitrust. L’impostazione appena esposta, riferita ai rapporti di controllo societario, presenta alcuni punti di contatto con le disposizioni del diritto commerciale italiano, secondo cui una situazione di controllo azionario di diritto o di fatto (art. 2359, comma 1, c.c.), fa presumere ex lege (art. 2497-sexies, c.c.) una attività di direzione e coordinamento esercitata dalla società controllante (attività che costituisce un quid pluris rispetto al mero esercizio del controllo). All’attività di direzione e coordinamento, l’ordinamento riconduce particolari esigenze di disciplina, sia sotto il profilo organizzativo, sia (soprattutto) sotto il profilo della tutela dei soci di minoranza e dei creditori della società dipendente (attraverso la previsione di regole di responsabilità delle società o degli enti per abuso di direzione unitaria). Al di fuori delle ipotesi di controllo societario, l’attività di direzione e coordinamento di società basato di un contratto con le società medesime o di clausole dei loro statuti, deve invece essere dimostrata in concreto (art. 2497-septies, c.c.). 2.5.‒ Il caso oggetto di contestazione nel presente giudizio riguarda un’ipotesi di coordinamento contrattuale. Rispetto a tale fattispecie permangono molti dubbi interpretativi in ordine alla natura e consistenza degli indici rilevatori del legame strutturale che – in astratto ‒ debbono intercorrere tra il produttore e i suoi intermediari al fine di configurare un’unica entità economica ai fini antitrust. I rapporti di collaborazione commerciale costituiscono espressione della tendenza, diffusasi negli ultimi anni, verso uno sviluppo «a rete» dell’impresa, la quale ha condotto allo «scorporo» di alcune fasi distributive (ma anche produttive: è il caso alla c.d. subfornitura) della grande impresa. Per alcune di queste figure il legislatore è intervenuto a delineare un quadro normativo di riferimento al fine di garantire uno sviluppo razionale del fenomeno collaborativo tra imprese di struttura e forza contrattuale diverse, connotate, nella maggioranza dei casi, da uno squilibrio informativo tra affiliante e aspirante affiliato (la legge 6 maggio 2004, n. 129, ha introdotto ad esempio una serie di disposizioni relative al contratto di franchising, denominato contratto di «affiliazione commerciale», con il quale un imprenditore inserisce un altro imprenditore nella propria catena distributiva, determinando un forte grado di integrazione e cooperazione). La concessione di vendita, invece, non costituisce schema contrattuale tipico, trattandosi di un contratto innominato che si caratterizza per una complessa funzione di scambio e collaborazione. Il tipo socialmente diffuso comporta l’obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita, ovvero di concludere contratti di puro trasferimento di prodotti, alle condizioni fissate nell’accordo iniziale. La differenza con in contratto di agenzia sta nel fatto che l’agente è tenuto ad un “facere” consistente nel favorire e rendere possibile la conclusione di contratti futuri tra terzi e committente, limitandosi a mettere in contatto le parti che stipulano tra loro una vendita, mentre nel deposito per vendita il concessionario acquista in proprio e rivende a terzi, con obbligo di propagandare la merce, e lucra il differenziale tra prezzo di acquisto e prezzo di rivendita (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1077). Il concessionario di vendita, in definitiva, vende in proprio cose divenute di sua proprietà (cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20106). I rapporti di collaborazione commerciale sono tutti, a vario titolo e con diversa intensità, connotati da un certo grado di ingerenza del preponente sulle modalità di esecuzione della prestazione dell’intermediario. Tuttavia, non necessariamente i contratti del tipo anzidetto – sol perché disciplinano una collaborazione strutturata e connotata da un certo grado di ingerenza tra soggetti economicamente e giuridicamente indipendenti – danno luogo ad una attività di direzione, ben potendo limitarsi a disciplinare una particolare forma di divisione del lavoro tra grandi aziende e imprese di dimensioni medio-piccole (c.d. «affidamento in outsourcing»). L’autonomia può non essere assoluta, potendo il concessionario incontrare taluni limiti nell’obbligo di osservare talune istruzioni ricevute dal preponente, ma senza che ciò metta in discussione che si tratti sempre e comunque di “imprenditori autonomi” dotati ciascuno di una propria indipendenza commerciale e decisionale e ciascuno direttamente responsabile dei costi e dei rischi connessi alla sua attività. Su queste basi, occorre capire se l’esistenza di un certo livello di ingerenza – invero sussistente nella normalità delle anzidette relazioni commerciali ‒ dell’impresa preponente rispetto all’intermediario della distribuzione, tipica dei rapporti di collaborazione commerciale, possa essere ritenuto sufficiente a qualificare tali soggetti come parte della medesima unità economica. Ovvero se, ai medesimi fini, sia necessario accertare un quid pluris, ossia un vero e proprio collegamento “gerarchico” tra le due imprese, il quale è ravvisabile solo al cospetto di un contratto, in forza del quale più società autonome si «assoggettano» all’attività di direzione e coordinamento di una di esse. Se, in particolare, l’attività di direzione – sebbene non necessiti della totale eterodirezione delle singole imprese – richieda pur sempre l’esercizio di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale, commerciale che attengono alla conduzione degli affari sociali. Cosicché, in mancanza di tali presupposti, è dato ravvisare una attività di mero coordinamento, consistente nel realizzare un sistema di sinergie tra imprese diverse. Accedendo a questa seconda ipotesi, la sussistenza dell’attività di direzione e coordinamento dovrebbe essere accertata in concreto, sulla scorta di atti formali a carattere negoziale (quali deliberazioni o accordi contrattuali, tra le società interessate), o anche di mero indirizzo (quali ordini di servizio, istruzioni, regole di comportamento), idonei ad influenzare significativamente le scelte gestionali dell’intermediario commerciale. L’esigenza di rinvenire indici di natura sostanziale dell’esercizio di un’influenza determinante sul comportamento sugli intermediari tale da comportarne la perdita della qualità di operatori economici indipendenti, sembrerebbe condivisa anche dalla Corte di Giustizia. In alcune pronunce si afferma, che i rapporti tra un committente e il suo intermediario possono essere contrassegnati da una tale unità economica (16 dicembre 1975, in cause riunite 40/73-48/73, 50/73, 54/73-56/73, 111/73, 113/73 e 114/73, Suiker Unie e a./Commissione, punto 480), precisandosi tuttavia che l’elemento determinante per stabilire se un intermediario sia un operatore economico indipendente va ravvisato in relazione all’assunzione dei rischi finanziari e commerciali legati alla vendita di merci a terzi. Si afferma in particolare che: «gli intermediari possono perdere la qualità di operatore economico indipendente soltanto quando non sopportano nessuno dei rischi conseguenti ai contratti negoziati o conclusi per conto del committente e operano come ausiliari integrati nell’impresa» (14 dicembre 2006, in C-17/05). 2.6.‒ Nonostante i riferimenti giurisprudenziali sopra citati, la nozione di «unica unità economica» appare ancora troppo “liquida” e incerta, sia perché fortemente condizionata dalle circostanze fattuali del case law, sia in considerazione della difficoltà di tradurre in rigorosi termini giuridici la nozione (tratta dalle discipline economiche) di “agente economico”. La definizione da parte della Corte di Giustizia di parametri valutativi più certi appare necessario per il soddisfacimento di esigenze di chiarezza e stabilità dei rapporti giuridici. La certezza del diritto, come insegna la stessa Corte di Giustizia, impone infatti che le norme di legge siano chiare e precise, in modo che i cittadini che ne sono destinatari siano in grado di accertare inequivocabilmente quali siano i diritti e gli obblighi loro attribuiti ed agiscano di conseguenza (sentenza 3 giugno 2008, causa C-308/06; 9 luglio 1981, causa 169/80; 13 febbraio 1996, causa C-143/93; 21 giugno 2007, causa C-158/06; 10 settembre 2009, causa C-201/08). Tale esigenza si rende ancor più pressante quando le disposizioni normative «poss(o)no avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese» (sentenza 5 luglio 2012, causa C-318/10, Société d'investissement pour l'agriculture tropicale SA c. État belge). A ciò si aggiunge che la sanzione pecuniaria di cui si discute ha natura «penale» ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in ragione della dimensione intrinsecamente «afflittiva» del suo importo complessivo, e per tale motivo ‒ secondo il diritto italiano ‒ può venire applicata, nel rispetto del canone di prevedibilità e accessibilità della condotta sanzionabile, soltanto «nei casi e per i tempi» considerati dalla legge (art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689). La Corte Costituzione italiana ha precisato che, dall’art. 25 della Carta costituzionale, data l’ampiezza della sua formulazione, si desume il principio secondo cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto» (sentenza n. 196 del 2010; in senso analogo anche le sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del 2014). Tali affermazioni siano state formulate, non solo con riferimento a uno dei corollari del principio di legalità, quello dell’irretroattività delle norme incriminatrici, ma anche con riguardo ad altro corollario di detto principio: il principio di tassatività e determinatezza delle norme sanzionatorie (in tal senso, la sentenza della Corte n. 121 del 2018). 3.‒ Il secondo dubbio interpretativo attiene all’elemento oggettivo dell’illecito (lo «sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato») e, in particolare, allo standard probatorio cui devono attenersi le autorità antitrust ai fini dell’accertamento di condotte abusive di natura escludente. 3.1.‒ Pare di potersi affermare che, mentre l’intesa restrittiva «per oggetto», concretandosi in un’illecita ripartizione del mercato, sia di per sé illecita, senza che sia necessario l’esame dei suoi effetti (ex plurimis, Corte di Giustizia, sentenza del 20 novembre 2008, Beef Industry Development Society e Barry Brothers, C 209/07), per l’abuso di posizione dominante non operi analoga presunzione di abusività delle iniziative di mercato assunte dall’impresa dominante (ed infatti: mentre l’intesa per oggetto è di per sé illecita anche se i prezzi sono equi, nel caso dell’abuso occorre che i prezzi siano iniqui). Secondo un orientamento che appare consolidato in giurisprudenza, l’illecito dell’abuso di posizione dominante può essere accertato anche in fase preparatoria, prima che abbia prodotto effetti restrittivi (ex plurimis: Tribunale di primo grado, 29 marzo 2012, in C-498/07). A questa stregua, non è necessaria la prova attuale degli effetti dell’abuso, essendo sufficiente la dimostrazione della mera potenzialità dell’effetto restrittivo (ex plurimis: Corte di Giustizia dell’Unione Europea 17 febbraio 2011, causa C-52/09). Se costituisce un abuso di posizione dominante qualsiasi comportamento consistente, non solo nell’impedire effettivamente, ma anche soltanto nel tentare di impedire che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo, ciò significa che l’atto idoneo a pregiudicare i concorrenti per un operatore in posizione dominante è di per sé sufficiente a permettere l’accertamento della violazione e l’applicazione dell’apparato sanzionatorio. Non è tuttavia chiaro se – pur in presenza di un comportamento astrattamente idoneo alla produzione di effetti restrittivi – sia comunque ammessa la prova da parte dell’impresa sanzionata che nessun effetto restrittivo si è “storicamente” realizzato, che cioè la condotta contestata è risultata priva di offensività in concreto. In caso di risposta positiva, se sussista in capo all’Autorità antitrust l’obbligo di riscontrare in maniera puntuale le analisi economiche eventualmente prodotte dalla parte sanzionata per dimostrare la concreta incapacità della condotta oggetto di istruttoria di escludere dal mercato i propri concorrenti. Questa Sezione VI del Consiglio di Stato, con ordinanza del 20 luglio 2020, n. 4646, ha recentemente promosso rinvio pregiudiziale posto il seguente quesito, che rileva anche nel presente giudizio: «3) Se, in caso di abuso di posizione dominante consistito nel tentare di impedire che permanga il livello di concorrenza ancora esistente o il suo sviluppo, l’impresa dominante sia comunque ammessa a provare che – nonostante l’astratta idoneità dell’effetto restrittivo – la condotta è risultata priva di concreta offensività; se, in caso di risposta positiva, ai fini della valutazione in ordine alla sussistenza di un abuso escludente atipico, l’articolo 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’Autorità l’obbligo di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità della condotta oggetto di istruttoria di escludere dal mercato i propri concorrenti». 3.2.‒ Il rilievo da attribuire all’impatto attuale o potenziale sulla concorrenza nella valutazione ai sensi dell’articolo 102 va valutato, nella presente fattispecie, soprattutto alla luce della sentenza INTEL, 6 settembre 2017, nella causa C‑413/14 P, relativa agli sconti fidelizzanti. La società Intel (la quale deteneva più del 70 % delle quote di mercato dei processori per computer) era stata accusata di abuso di posizione dominante nel mercato dei processori e di violazione delle regole di concorrenza dell’Unione Europea. Secondo la Commissione, Intel aveva applicato a quattro produttori di computer convenienti sconti a condizione che questi ultimi si rifornissero esclusivamente presso di lei. Inoltre, Intel aveva stabilito pagamenti in favore di un’azienda a patto che quest’ultima vendesse solo PC dotati di processori Intel. Secondo la Commissione Europea, l’intento dei predetti sconti e pagamenti era quello di acquisire un’esclusiva nei confronti di questi clienti (“sconti di esclusiva”) ed escludere una concorrente dalla fornitura delle medesime merci. Su queste basi, la Commissione europea aveva inflitto alla società americana una maxi-sanzione di 1,06 miliardi di euro per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato mondiale dei microprocessori. Il Tribunale di primo grado era giunto alla conclusione che tali tipologie di sconti fossero intrinsecamente anticoncorrenziali e che, pertanto, ai fini dell'accertamento del loro carattere abusivo, non fosse necessario valutarne l’impatto attuale o potenziale sulla concorrenza alla luce di tutte le circostanze del caso. La sentenza INTEL ha così statuito: - «Per un’impresa che si trova in posizione dominante su un mercato, il fatto di vincolare – sia pure a loro richiesta – taluni acquirenti attraverso l’obbligo o la promessa di rifornirsi per tutto o gran parte del loro fabbisogno esclusivamente presso di essa costituisce abuso di posizione dominante ai sensi dell’articolo 102 TFUE, tanto se l’obbligo in questione è imposto sic et simpliciter, quanto se ha come contropartita la concessione di sconti. Lo stesso dicasi se detta impresa, senza vincolare gli acquirenti con un obbligo formale, applica, vuoi in forza di accordi stipulati con tali acquirenti, vuoi unilateralmente, un sistema di sconti di fedeltà, cioè di riduzioni subordinate alla condizione che il cliente – indipendentemente dal volume degli acquisti – si rifornisca esclusivamente per la totalità o per una parte considerevole del suo fabbisogno presso l’impresa in posizione dominante (v. sentenza del 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche/Commissione, 85/76, EU:C:1979:36, punto 89)»; - «Occorre, tuttavia, precisare tale giurisprudenza nel caso in cui l’impresa considerata sostenga nel corso del procedimento amministrativo, sulla base di elementi di prova, che il suo comportamento non ha avuto la capacità di restringere la concorrenza e, in particolare, di produrre gli effetti di esclusione dal mercato addebitati»; - «In tal caso, la Commissione è tenuta, non solo ad analizzare, da un lato, l’ampiezza della posizione dominante dell’impresa sul mercato pertinente e, dall’altro, il tasso di copertura del mercato ad opera della pratica concordata, nonché le condizioni e le modalità di concessione degli sconti di cui trattasi, la loro durata e il loro importo, ma deve anche valutare l’eventuale esistenza di una strategia diretta ad escludere dal mercato i concorrenti quantomeno altrettanto efficaci (v., per analogia, sentenza del 27 marzo 2012, Post Danmark, C 209/10, EU:C:2012:172, punto 29)»; - «L’analisi della capacità di escludere dal mercato è del pari pertinente ai fini della valutazione della questione se un sistema di sconti rientrante in linea di principio nell’ambito del divieto di cui all’articolo 102 TFUE possa essere oggettivamente giustificato. Inoltre, l’effetto preclusivo derivante da un sistema di sconti, pregiudizievole per la concorrenza, può essere controbilanciato, o anche superato, da vantaggi in termini di efficienza che vanno a beneficio anche del consumatore (sentenza del 15 marzo 2007, British Airways/Commissione, C 95/04 P, EU:C:2007:166, punto 86). Una ponderazione siffatta degli effetti, favorevoli e sfavorevoli per la concorrenza, della pratica contestata può essere svolta nella decisione della Commissione solo in esito ad un’analisi della capacità di esclusione dal mercato di concorrenti quantomeno altrettanto efficaci, intrinseca alla pratica considerata»; - «Se, nella decisione che accerta il carattere abusivo di un sistema di sconti, la Commissione effettua un’analisi siffatta, incombe al Tribunale esaminare tutti gli argomenti della parte ricorrente diretti a rimettere in discussione la fondatezza delle constatazioni raggiunte dalla Commissione quanto alla capacità di preclusione dal mercato del sistema di sconti considerato». Su queste basi, la Corte di Giustizia ha concluso che il Tribunale si era a torto astenuto, nell’ambito della sua analisi della capacità degli sconti controversi di limitare la concorrenza, dal prendere in considerazione gli argomenti di Intel diretti a mettere in luce presunti errori commessi dalla Commissione nell’ambito del test AEC. 3.3.‒ L’appellante, invocando la citata sentenza Intel, lamenta che l’Autorità non avrebbe svolto alcuna analisi degli effetti concreti delle condotte di Unilever (quindi, sull’assenza di effetti escludenti rispetto ai suoi concorrenti altrettanto efficienti) e dei relativi effetti pro-competitivi sia in termini di ampliamento della diffusione dei prodotti sia in termini di riduzione del prezzo per esercenti e consumatori (come risulterebbe nello studio commissionato da Unilever ad un’autorevole società di consulenza economica). L’Autorità ritiene invece che i principi espressi nella sentenza Intel non sarebbero applicabili al caso di specie, in quanto: sarebbero validi solamente con riguardo agli abusi realizzati tramite sconti fidelizzanti, mentre l’abusività della condotta di Unilever risiederebbe anche nella diffusa applicazione di clausole di esclusiva; la Corte di Giustizia avrebbe semplicemente rilevato un “vizio formale” del Tribunale, che non si era pronunciato sulle contestazioni sollevate dalla ricorrente in merito all’as efficient competitor test (“AECT”); in ogni caso l’AECT condotto da Unilever sarebbe in ogni caso inidoneo a dimostrare l’assenza di effetti concorrenziali delle sue condotte, perché nessun test sarebbe in grado di analizzare, contemporaneamente, una molteplicità di pratiche abusive. 3.4.‒ Su queste basi, occorre capire: - se i principi della sentenza Intel siano generalizzabili al di là della fattispecie degli sconti di esclusiva o fidelizzanti, e quindi applicabili anche alla previsione di obblighi di esclusiva o a casi di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive, o se invece in tali casi non vi sia alcun obbligo giuridico per l’Autorità di fondare il proprio accertamento sul criterio del concorrente altrettanto efficiente; - se, ogni qual volta l’impresa produca nel corso dell’istruttoria studi e approfondimenti utili a smentire l’effetto escludente contestato, l’Autorità sia onerata di dimostrare che le condotte oggetto di indagine siano effettivamente idonee ad escludere dal mercato i concorrenti altrettanto efficienti, ovvero in quali casi o a quali condizioni possa escludersi la rilevanza del test AECT o degli studi ed approfondimenti prodotti dall’impresa; in particolare, se la valutazione dell’Autorità che esclude la rilevanza del test AECT o degli studi aventi analoga funzione in caso di condotte come quelle oggetto di indagine sia legittima alla luce della sentenza Intel. 4.– Le questioni interpretative sopra svolte hanno dunque portata dirimente ai fini della soluzione della presente controversia, e non constano allo stato prese di posizione univoche da parte della Corte di Giustizia. Emerge, pertanto, la necessità di deferire l’affare alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE. L’ordinamento dell’Unione Europea, privo di un autonomo sistema di tutela giurisdizionale, affida a questo fondamentale meccanismo di “coordinamento”, il compito di assicurare l’uniforme applicazione ed interpretazione delle norme di sua derivazione e di supportare il lavoro dei giudici nazionali (cfr. ex plurimis: Corte di Giustizia UE, 27 febbraio 2018, C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses c. Tribunal de Contas, par. 32). Pertanto, si formulano alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: “1) Al di fuori dei casi di controllo societario, quali sono i criteri rilevanti al fine di stabilire se il coordinamento contrattuale tra operatori economici formalmente autonomi e indipendenti dia luogo ad un’unica entità economica ai sensi degli articoli 101 e 102 TFUE; se, in particolare, l’esistenza di un certo livello di ingerenza sulle scelte commerciali di un’altra impresa, tipica dei rapporti di collaborazione commerciale tra produttore e intermediari della distribuzione, può essere ritenuto sufficiente a qualificare tali soggetti come parte della medesima unità economica; oppure se sia necessario un collegamento “gerarchico” tra le due imprese, ravvisabile in presenza di un contratto in forza del quale più società autonome si «assoggettano» all’attività di direzione e coordinamento di una di esse, richiedendosi quindi da parte dell’Autorità la prova di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale e commerciale”; “2) Al fine di valutare la sussistenza di un abuso di posizione dominante attuato mediante clausole di esclusiva, se l’articolo 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’autorità di concorrenza l’obbligo di verificare se l’effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l’Autorità di fondare la contestazione dell’illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente”. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), VISTO l’art. 267 del TFUE e l’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia delle Comunità europee; VISTO l’art. 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204; VISTE le “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” (2019/C 380/01); RIMETTE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale indicata in motivazione; SOSPENDE il giudizio fino alla definizione della questione pregiudiziale; DISPONE che copia conforme all’originale della presente ordinanza, unitamente a copia integrale del fascicolo della causa, sia trasmesso, in plico raccomandato, alla Cancelleria della Corte di Giustizia dell’Unione Europea; RISERVA alla sentenza definitiva ogni ulteriore pronuncia, anche in ordine alle spese ed onorari del presente giudizio. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 ottobre 2020 con l’intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Concorrenza – Abusi posizione dominante – Coordinamento tra operatori economici formalmente autonomi – Configurabilità di unico centro decisionale – Rimessione alla Corte di Giustizia UE.       Sono rimesse alla Corte di Giustizia UE i quesiti: 1) al di fuori dei casi di controllo societario, quali sono i criteri rilevanti al fine di stabilire se il coordinamento contrattuale tra operatori economici formalmente autonomi e indipendenti dia luogo ad un’unica entità economica ai sensi degli artt. 101 e 102 TFUE; se, in particolare, l’esistenza di un certo livello di ingerenza sulle scelte commerciali di un’altra impresa, tipica dei rapporti di collaborazione commerciale tra produttore e intermediari della distribuzione, può essere ritenuto sufficiente a qualificare tali soggetti come parte della medesima unità economica; oppure se sia necessario un collegamento “gerarchico” tra le due imprese, ravvisabile in presenza di un contratto in forza del quale più società autonome si «assoggettano» all’attività di direzione e coordinamento di una di esse, richiedendosi quindi da parte dell’Autorità la prova di una pluralità sistematica e costante di atti di indirizzo idonei ad incidere sulle decisioni gestorie dell’impresa, cioè sulle scelte strategiche ed operative di carattere finanziario, industriale e commerciale; 2) al fine di valutare la sussistenza di un abuso di posizione dominante attuato mediante clausole di esclusiva, se l’art. 102 TFUE vada interpretato nel senso di ritenere sussistente in capo all’autorità di concorrenza l’obbligo di verificare se l’effetto di tali clausole è quello di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti, e di esaminare in maniera puntuale le analisi economiche prodotte dalla parte sulla concreta capacità delle condotte contestate di escludere dal mercato concorrenti altrettanto efficienti; oppure se, in caso di clausole di esclusiva escludenti o di condotte connotate da una molteplicità di pratiche abusive (sconti fidelizzanti e clausole di esclusiva), non ci sia alcun obbligo giuridico per l’Autorità di fondare la contestazione dell’illecito antitrust sul criterio del concorrente altrettanto efficiente (1).
Concorrenza
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/consumo-di-cannabis-light-da-parte-dell-appartenente-all-arma-dei-carabinieri
Consumo di cannabis light da parte dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri
N. 00195/2021 REG.PROV.CAU. N. 00245/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 245 del 2021, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Salvatore Sansone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Ministero della Difesa, Comando Generale Arma dei Carabinieri, Comando Legione Carabinieri Sicilia, Comando Provinciale Carabinieri Palermo, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6; per la riforma dell’ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sede di Palermo, Sezione Prima, n. -OMISSIS-2020. Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa, del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Comando Legione Carabinieri Sicilia, Comando Provinciale Carabinieri Palermo; Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 marzo 2021, svoltasi in collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25 del decreto legge n. 137 del 2020, il Cons. Roberto Caponigro; Vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Palermo con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato Distrettuale del 2 febbraio 2021; Considerato che, alla delibazione propria della presente fase, l’appello cautelare non è assistito da adeguato fumus boni iuris, in quanto: - l’art. 37 della legge n.40 del 2020, di conversione, con modifiche, del decreto legge 8 aprile 2020, n. 23 ha confermato la sospensione per il periodo compreso tra il 23 febbraio 2020 e il 15 maggio 2020 di tutti i termini relativi a procedimenti amministrativi, su istanza di parte o d'ufficio, pendenti alla data del 23 febbraio 2020 o iniziati successivamente a tale data; - la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che, nel caso di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche un solo episodio di consumo di sostanze stupefacenti legittima la sanzione di grado massimo applicata nel caso di specie, atteso che la condotta, non conforme a criteri di correttezza ed esemplarità anche per un comune cittadino, si rivela particolarmente grave per chi appartiene ad una struttura, come l’Arma dei Carabinieri, che ha come scopo istituzionale quello della lotta al traffico di stupefacenti (ex multis, da ultimo, Cons. Stato, IV, 3 marzo 2020, n. 1562); rilevato che l’appellante: non ha in alcun modo provato la labiale affermazione che si trattasse di canapa light; è risultato positivo anche ad altra sostanza (ossiocodone); se anche –il che non è avvenuto- avesse mai comprovato che la positività discendesse dall’utilizzo di canapa c.d.”light” ciò non farebbe venire meno la gravità della mancanza disciplinare, tenuto conto dei recenti approdi della giurisprudenza penale (Cass. pen. Sez. Unite, 30/05/2019, n. 30475). Liquidate le spese del presente appello cautelare in euro 1.000,00 (mille/00), oltre accessori di legge, e poste le stesse a carico dell’appellante ed a favore dell’Amministrazione appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, respinge l’appello cautelare. Condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente appello cautelare, liquidate in euro 1.000,00 (mille/00), oltre accessori di legge, a favore dell’Amministrazione appellata. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante. Così deciso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, con sede in Palermo, nella camera di consiglio del 18 marzo 2021, tenutasi da remoto ed in modalità telematica con la contemporanea e continuativa presenza dei Signori Magistrati: Fabio Taormina, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere Fabio Taormina, Presidente Raffaele Prosperi, Consigliere Roberto Caponigro, Consigliere, Estensore Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia -  Procedimenti disciplinari - Consumo di cannabis light – E’ grave illecito disciplinare.       Il consumo di cannabis light da parte dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche laddove eventualmente documentato e provato, integra grave illecito disciplinare   (1).    (1) Cass. pen., S.U, 30 maggio 2019, n. 30475. ​​​​​​​Ha ricordato il C.g.a. che nel caso di un appartenente all’Arma dei Carabinieri, anche un solo episodio di consumo di sostanze stupefacenti legittima la sanzione di grado massimo applicata nel caso di specie, atteso che la condotta, non conforme a criteri di correttezza ed esemplarità anche per un comune cittadino, si rivela particolarmente grave per chi appartiene ad una struttura, come l’Arma dei Carabinieri, che ha come scopo istituzionale quello della lotta al traffico di stupefacenti (Cons. Stato, sez, IV, 3 marzo 2020, n. 1562).
Militari, forze armate e di polizia
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Autorizzazione per nuovi impianti viticoli
N. 01084/2020 REG.PROV.COLL. N. 00975/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 975 del 2020, proposto da Enrico Selmin, rappresentato e difeso dagli avvocati Gaetano Alfarano, Lucia Girolami, Giacomo Sartor, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro AV.E.P.A. e Regione Veneto, in persona del rispettivo legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Franco Botteon, Tito Munari, Bianca Peagno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Venezia, piazza S. Marco, 63; Agea, Caa delle Venezie S.r.l., non costituiti in giudizio; nei confronti Società Agricola Vignalta S.S., non costituita in giudizio; per l'annullamento previa sospensione a) della comunicazione sul non riconoscimento del punteggio relativo al regime biologico per la domanda n. 05470185512 (prot. AVEPA n. 143926/2020) trasmesso a mezzo PEC il 6 luglio 2020; b) della comunicazione ulteriore sul non riconoscimento del punteggio relativo al regime biologico per la domanda n. 05470185512 (prot. AVEPA n. 165701/2020) trasmesso a mezzo PEC il 17 luglio 2020; c) del Decreto del Direttore della direzione agroalimentare della Regione Veneto n. 132 del 28 agosto 2020, nella parte in cui non riconosce il punteggio relativo al regime biologico per la domanda n. 05470185512. d) di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguenziale, ancorché allo stato non noto. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Avepa, della Regione Veneto e del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza camerale del giorno 11 novembre 2020, tenutasi ai sensi del combinato disposto degli artt. 25, comma 1, d.l. n. 137 del 2020 e 4, d.l. n. 28 del 2020, il dott. Paolo Nasini; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Enrico Selmin, titolare di un’impresa agricola individuale acquisita a titolo di donazione dal padre, Franco Selmin, in data 29 dicembre 2016, ha presentato, in data 21 marzo 2019, <<domanda di autorizzazione per nuovi impianti viticoli>> per l’estensione di un ettaro, chiedendo l’applicazione del criterio di priorità previsto per le <<superfici in cui l’impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell’ambiente (biologico)>>. Con decreto n. 84 del 10 luglio 2019, la Regione Veneto ha accolto la domanda del ricorrente di autorizzazione per nuovi impianti viticoli per l’intera superficie di un ettaro, in applicazione del criterio prioritario per coltivazione biologica. Nell’anno in corso, Enrico Selmin ha presentato nuovamente la medesima domanda di autorizzazione per nuovi impianti viticoli. Con pec del 6 luglio 2020 AVEPA ha comunicato al richiedente il mancato riconoscimento del punteggio premiale relativo al regime biologico, la superficie vitata dall’azienda non essendo soggetta al predetto regime da almeno 5 anni, come richiesto dalla circolare AGEA 11517/2020, assumendo che il ricorrente vi fosse entrato solo a partire dal 21 febbraio 2017. Con successiva pec del 17 luglio 2020, AVEPA, pur a fronte delle contestazioni di parte ricorrente, ha ribadito il mancato riconoscimento del punteggio richiesto, con motivazioni parzialmente differenti da quelle addotte in precedenza, sottolineando, in particolare, la mancata allegazione del <<documento dell’Organismo di certificazione Biologica>> redatto in conformità al facsimile riportato nell’allegato 2 della circolare AGEA, prot. n. 11517 del 13 febbraio 2020; inoltre, AVEPA ha affermato che il riconoscimento del <<punteggio del biologico richiesto>> è possibile solo in favore di soggetti che presentino domanda e abbiano applicato la coltivazione biologica nelle loro aziende per cinque anni, dal momento che la normativa di riferimento non contemplerebbe possibilità di subentro. Avverso i provvedimenti predetti e indicati in epigrafe, parte ricorrente ha proposto impugnazione, con ricorso depositato in data 6 ottobre 2020, sulla scorta dei seguenti motivi: 1. violazione Regolamento UE n. 1308 del 2013 e s.m.i.; violazione regolamento delegato UE n. 560 del 2015; violazione d.m. n. 12272 del 2015 e s.m.i.; violazione circolare Agea n. 11517 del 2020; eccesso di potere per errore e travisamento dei presupposti di fatto, illogicità ed ingiustizia manifesta, disparità di trattamento: secondo parte ricorrente, Avepa avrebbe errato nel ritenere dirimente il fatto che il ricorrente è <<entrato nel sistema di controllo biologico>> solo nel 2017, perché non ha adeguatamente considerato la successione intervenuta tra l’azienda del padre e quella del figlio a seguito dell’atto di donazione, in conseguenza della quale il ricorrente sarebbe subentrato anche nella titolarità dell’autorizzazione all’impianto, senza soluzione di continuità nemmeno nella gestione dell’azienda; inoltre, il ricorrente sottolinea di aver ottenuto da Avepa anche l’autorizzazione al subentro nella coltivazione biologica nell’ambito del programma di sviluppo rurale e le superfici vitate sono soggette a sistema biologico dal 2006; ancora, parte ricorrente fa presente di aver ottenuto, per l’anno precedente, la medesima autorizzazione negata con il provvedimento impugnato; 2. violazione del regolamento UE n. 1308 del 2013 e s.m.i.; violazione del regolamento delegato UE n. 560 del 2015; violazione d.m. n. 12272 del 2015 e s.m.i.; eccesso di potere per errore e travisamento dei presupposti di fatto, illogicità e ingiustizia manifesta: secondo parte ricorrente, il diniego impugnato è illegittimo in quanto il ricorrente ha allegato alla propria istanza tutta la documentazione necessaria ad attestare il possesso del criterio di priorità invocato, ivi compresi tutti i documenti giustificativi rilasciati nel corso degli anni dall’Organismo di certificazione Biologica Codex S.r.l.; la circolare AGEA, per contro, è mero atto interno e, se interpretata nel senso di imporre una formulazione vincolante a pena del mancato riconoscimento del requisito, pur in presenza di documentazione attestante il relativo possesso, risulterebbe illegittima ponendosi in contrasto con il dettato del Regolamento UE n. 1308 del 2013 e del D.M. n. 12272 del 2015 e dovrebbe pertanto essere disapplicata. Si sono costituiti in giudizio Avepa, la Regione Veneto e il Ministero delle Politiche agricole e forestali eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso e chiedendone il rigetto. All’esito dell’udienza del 11 novembre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione e viene decisa con sentenza in forma semplificata sussistendone i presupposti. DIRITTO 1. Premessa. Preliminarmente, occorre rilevare che la decisione, da parte del Collegio, di definire con sentenza in forma semplificata il presente giudizio, si ricollega, da un lato, al fatto che le questioni controverse si risolvono in due problematiche di diritto (gli elementi di fatto essendo pacifici o comunque risultando chiaramente dagli atti di causa) sulle quali il contraddittorio tra le parti è stato ampio ed effettivo; dall’altro lato, alla necessità di una più celere possibile definizione dei rapporti tra le parti, in considerazione delle peculiarità della fattispecie in esame. 2. Il contesto normativo e l’interpretazione delle norme applicabili al caso di specie. Prima di esaminare i due motivi di impugnazione dedotti da parte ricorrente è opportuno ricostruire la normativa applicabile al caso di specie e la ratio della stessa. Va evidenziato, anzitutto, che la materia trova la sua fonte primigenia e fondamentale nel diritto comunitario, e, per quanto in questa sede di interesse, specificamente nel regolamento UE n. 1308/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio. Come emerge chiaramente dai considerando nn. 55 e ss. del regolamento, con riferimento al settore vitivinicolo, viene dettata una disciplina sostanzialmente finalizzata a superare i pur positivi effetti della riforma del 2008 relativamente all'organizzazione del mercato del vino dell'Unione, in modo da consentire un adeguamento della normativa previgente alle prospettive di un progressivo aumento della domanda a livello di mercato mondiale, così da incentivare l’accrescimento della capacità di offerta, e, quindi, all'impianto di nuovi vigneti, nel decennio 2013-2023. D’altronde, secondo gli organi dell’Unione, pur dovendosi perseguire l'obiettivo di aumentare la competitività del settore vinicolo comunitario, in modo da non perdere quote di mercato nel mercato globale, un incremento eccessivamente rapido dei nuovi impianti viticoli in risposta al previsto sviluppo della domanda internazionale avrebbe potuto condurre nuovamente, nel medio periodo, ad una situazione di capacità di offerta eccessiva con possibili ripercussioni sociali e ambientali in specifiche zone viticole. Per assicurare un aumento ordinato degli impianti viticoli durante il periodo compreso tra il 2016 e il 2030, quindi, si è evidenziata la necessità di istituire a livello di Unione un nuovo sistema di gestione degli impianti viticoli fondato su autorizzazioni per gli impianti viticoli concedibili senza costi a carico dei produttori e tali da scadere dopo tre anni se non utilizzate: ciò al fine di contribuire <<ad un uso celere e diretto delle autorizzazioni da parte dei produttori vinicoli a cui esse vengono concesse, evitando speculazioni>>. Nel considerando n. 57, d’altronde, viene precisato che l'aumento dei nuovi impianti viticoli deve essere strutturato attraverso un meccanismo di salvaguardia a livello di Unione, basato sull'obbligo degli Stati membri di mettere a disposizione annualmente un numero di autorizzazioni per nuovi impianti equivalente all'1 % delle superfici vitate, prevedendo al contempo una certa flessibilità in risposta a circostanze specifiche di ciascuno Stato membro. Secondo il considerando n. 58, quindi, per far sì che le autorizzazioni siano concesse in maniera non discriminatoria, dovrebbero essere stabiliti criteri determinati, in particolare quando gli ettari richiesti nelle domande presentate dai produttori supera il numero degli ettari complessivi messi a disposizione dalle autorizzazioni offerte dagli Stati membri. Le indicazioni sopra riportate consentono di meglio comprendere la ratio delle norme che vengono in esame nella fattispecie che ci occupa: gli artt. 62, 63 e 64 del regolamento medesimo. In forza della prima disposizione, <<1. l'impianto o il reimpianto di varietà di uve da vino classificate a norma dell'articolo 81, paragrafo 2, è consentito solo dietro concessione di un'autorizzazione in conformità con gli articoli 64, 66 e 68 alle condizioni stabilite nel presente capo. 2. Gli Stati membri concedono l'autorizzazione di cui al paragrafo 1, corrispondente ad una specifica superficie espressa in ettari, su presentazione di una richiesta da parte dei produttori in cui si rispettino criteri di ammissibilità oggettivi e non discriminatori. Tale autorizzazione è concessa senza costi a carico dei produttori. 3. Le autorizzazioni di cui al paragrafo 1 saranno valide per tre anni dalla data di concessione. Il produttore che non abbia utilizzato un'autorizzazione concessa nel corso del relativo periodo di validità è soggetto a sanzioni amministrative a norma dell'articolo 89, paragrafo 4, del regolamento (UE) n. 1306/2013…..>>. In forza dell’art. 63, quindi, gli Stati membri, salvo prevedere misure più limitative, ai sensi dei commi 2, 3 e 4, mettono a disposizione ogni anno delle autorizzazioni per nuovi impianti equivalenti all'1 % della superficie vitata totale nel loro territorio, determinata al 31 luglio dell'anno precedente. Quindi, ai sensi dell’art. 64, per quanto riguarda il rilascio di autorizzazioni per nuovi impianti, <<le richieste ammissibili sono accettate nella loro totalità qualora esse, in un determinato anno, riguardino una superficie totale non superiore alla superficie messa a disposizione dallo Stato membro…….>>, come prevista ai sensi del predetto art. 63. Qualora le richieste ammissibili, presentate in un determinato anno, riguardino una superficie totale superiore alla superficie messa a disposizione dallo Stato membro, le autorizzazioni sono concesse secondo una distribuzione proporzionale degli ettari a tutti i richiedenti in base alla superficie per la quale hanno fatto richiesta. Tale concessione può anche essere parzialmente o completamente attuata secondo uno o più criteri di priorità oggettivi e non discriminatori, dei quali nel presente giudizio interessa quello previsto al paragrafo II, sub b): superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente. Infine, in forza dell’art. 69 del regolamento, alla Commissione è conferito il potere di adottare atti delegati, conformemente all'articolo 227, in relazione, per quanto in questa sede di interesse, alle norme riguardanti i criteri di cui all'art. 64, paragrafi 1 e 2, anche mediante aggiunta di criteri rispetto a quelli elencati nell'articolo 64, paragrafi 1 e 2. In attuazione di tale ultima previsione normativa, quindi, la Commissione ha emanato il regolamento delegato UE n. 2015/560 del 15 dicembre 2014 che integra il regolamento (ue) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda il sistema di autorizzazioni per gli impianti viticoli. Il considerando n. 3 del regolamento chiarisce che occorre definire condizioni specifiche abbinate ad alcuni dei criteri di ammissibilità e di priorità, in modo da garantire la parità delle loro condizioni di attuazione ed evitare l'elusione del sistema da parte dei produttori ai quali le autorizzazioni sono concesse. Ai sensi dell’art. 2 del regolamento (recante i criteri di rilascio delle autorizzazione) se gli Stati membri applicano uno o più criteri di priorità di cui all'art. 64, par. 2, del regolamento (UE) n. 1308/2013, si applicano le disposizioni delle parti da A a H dell'allegato II del regolamento delegato. In particolare, per quanto interessa nella fattispecie in esame, il criterio di cui all'art. 64, par. 2, lett. b), del regolamento (UE) n. 1308/2013 è considerato soddisfatto se è soddisfatta una delle condizioni seguenti: <<1) il richiedente si impegna, per un periodo minimo tra cinque e sette anni, a rispettare le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione per la o le superfici da adibire a nuovi impianti o per l'intera azienda agricola…. Gli Stati membri possono considerare che il criterio sia soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta; 2) il richiedente si impegna a osservare uno dei seguenti orientamenti o regimi di certificazione che vanno al di là delle regole obbligatorie stabilite ai sensi del titolo VI, capo I, del regolamento (UE) n. 1306/2013, per un periodo minimo compreso tra cinque e sette anni, che comunque non si estende oltre il 31 dicembre 2030….i regimi di certificazione ….. attestano che l'agricoltore nella propria azienda segue pratiche conformi alle norme definite a livello nazionale sulla produzione integrata, o agli obiettivi ….. ….. Gli Stati membri possono considerare che il criterio sia soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato gli orientamenti o i regimi di certificazione di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta; 3) se il programma o i programmi di sviluppo rurale degli Stati membri comprendono una o più operazioni specifiche di tipo «agro-climatico-ambientale» di cui all'articolo 28 del regolamento (UE) n. 1305/2013 …. il richiedente è ammissibile e si impegna a presentare richiesta per quel tipo di operazione/i per la superficie da adibire a nuovi impianti e a rispettare gli impegni indicati nei rispettivi programmi di sviluppo rurale per la o le operazioni specifiche di tipo «agro-climatico-ambientale»; 4) la o le parcelle agricole specifiche identificate nella richiesta sono situate su pendii terrazzati. Gli Stati membri possono anche esigere che i produttori si impegnino, per un periodo minimo compreso tra cinque e sette anni, a non estirpare e reimpiantare su superfici non conformi alle suddette condizioni. Tale periodo non si estende oltre il 31 dicembre 2030>>. Infine, va ricordato il regolamento delegato (UE) n. 273/2018 della Commissione dell'11 dicembre 2017 che integra il regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda il sistema di autorizzazioni per gli impianti viticoli, lo schedario viticolo, i documenti di accompagnamento e la certificazione, il registro delle entrate e delle uscite, le dichiarazioni obbligatorie, le notifiche e la pubblicazione delle informazioni notificate, che integra il regolamento (UE) n. 1306/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda i pertinenti controlli e le pertinenti sanzioni, e che modifica i regolamenti (CE) n. 555/2008, (CE) n. 606/2009 e (CE) n. 607/2009 della Commissione e abroga il regolamento (CE) n. 436/2009 della Commissione e il regolamento delegato (UE) 2015/560 della Commissione. Il relativo considerando n. 4 precisa che <<l'articolo 64, paragrafi 1 e 2, del regolamento (UE) n. 1308/2013 stabilisce le norme relative al rilascio di autorizzazioni per nuovi impianti e i criteri di ammissibilità e di priorità che gli Stati membri possono applicare. È opportuno definire condizioni specifiche abbinate ad alcuni dei criteri di ammissibilità e di priorità, in modo da garantire la parità delle loro condizioni di attuazione ed evitare l'elusione del sistema da parte dei produttori ai quali le autorizzazioni sono concesse. Inoltre dovrebbero essere mantenuti i tre criteri supplementari introdotti dal regolamento delegato (UE) 2015/560: un criterio di ammissibilità relativo al rischio di usurpazione della notorietà delle indicazioni geografiche protette; un criterio di priorità a favore dei produttori che rispettano le regole del sistema e non hanno vigneti abbandonati nelle loro aziende; e un criterio di priorità a favore delle organizzazioni senza scopo di lucro con fini sociali che hanno ricevuto terreni confiscati per reati di terrorismo e criminalità di altro tipo. Il criterio di ammissibilità risponde al bisogno di proteggere la notorietà di specifiche indicazioni geografiche analogamente alla notorietà di specifiche denominazioni di origine, garantendo che non siano minacciate dai nuovi impianti. Il primo criterio di priorità favorisce taluni richiedenti in base al loro comportamento precedente da cui risulta che rispettano le regole del sistema di autorizzazioni e che, finché possiedono superfici vitate fuori produzione che potrebbero generare autorizzazioni di reimpianto, non presentano richiesta di autorizzazione per nuovi impianti. Il secondo criterio di priorità è volto a favorire le organizzazioni senza scopo di lucro con fini sociali che hanno ricevuto terreni confiscati per reati di terrorismo e criminalità di altro tipo, al fine di promuovere l'uso sociale di terreni che rischierebbero altrimenti di andare fuori produzione>>. Ai sensi dell’art. 4 (recante “Criteri di rilascio delle autorizzazioni), par. 3, <<se gli Stati membri applicano uno o più criteri di priorità di cui all'articolo 64, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 1308/2013, si applicano le disposizioni delle sezioni da A a H dell'allegato II del presente regolamento. Gli Stati membri possono anche applicare il criterio aggiuntivo oggettivo e non discriminatorio del comportamento precedente del produttore e delle organizzazioni senza scopo di lucro con fini sociali che hanno ricevuto terreni confiscati per reati di terrorismo e criminalità di altro tipo. Le disposizioni relative all'applicazione di tale criterio aggiuntivo figurano nella sezione I dell'allegato II>>. L’Allegato II, lett. b, in ordine al “criterio di cui all'articolo 64, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 1308/2013”, prevede che detto criterio <<è considerato soddisfatto se è soddisfatta una delle condizioni seguenti: 1) il richiedente si impegna, per un periodo minimo tra cinque e sette anni, a rispettare le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione per la o le superfici da adibire a nuovi impianti o per l'intera azienda agricola…. Gli Stati membri possono considerare che il criterio sia soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo comma all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta; 2) il richiedente si impegna a osservare uno dei seguenti orientamenti o regimi di certificazione che vanno al di là delle regole obbligatorie stabilite ai sensi del titolo VI, capo I, del regolamento (UE) n. 1306/2013, per un periodo minimo compreso tra cinque e sette anni,….: a) orientamenti specifici per coltura o settore ai fini della difesa integrata, adatti alla viticoltura conformemente all'articolo 14, paragrafo 5, della direttiva 2009/128/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, se tali orientamenti esistono; b) regimi di certificazione nazionali per la produzione integrata, adatti alla viticoltura; c) regimi ambientali nazionali o regionali che attestano la conformità alla normativa ambientale per quanto riguarda la qualità dei suoli e/o delle acque, la biodiversità, la preservazione del paesaggio, la mitigazione dei cambiamenti climatici e/o l'adattamento ai cambiamenti climatici e che sono adatti alla viticoltura. ..….. Gli Stati membri possono considerare che il criterio sia soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato gli orientamenti o i regimi di certificazione di cui al primo comma all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta; 3) se il programma o i programmi di sviluppo rurale degli Stati membri comprendono una o più operazioni specifiche di tipo «agro-climatico-ambientale» di cui all'articolo 28 del regolamento (UE) n. 1305/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, applicabili alle superfici vitate con particolare riferimento alla superficie specifica indicata nella richiesta, e fatta salva la disponibilità di fondi sufficienti, il richiedente è ammissibile e si impegna a presentare richiesta per quel tipo di operazione/i per la superficie da adibire a nuovi impianti e a rispettare gli impegni indicati nei rispettivi programmi di sviluppo rurale per la o le operazioni specifiche di tipo «agro-climatico-ambientale»; 4) la o le parcelle agricole specifiche identificate nella richiesta sono situate su pendii terrazzati. Gli Stati membri possono anche esigere che i produttori si impegnino, per un periodo minimo compreso tra cinque e sette anni, a non estirpare e reimpiantare su superfici non conformi alle suddette condizioni…>>. Analizzando le disposizioni che precedono, si può notare come il legislatore comunitario delegato, al fine di ritenere dimostrato il criterio di priorità previsto dall’art. 64, par. 2, lett. b, regolamento UE n. 1308 del 2013, di natura strettamente oggettiva - deve trattarsi infatti di “superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente” –, abbia specificamente valorizzato, a fini, per così dire, “probatori”, elementi aventi natura strettamente soggettiva o, ancor più, “personalistici”, eccezion fatta per la prima parte del subcriterio n. 4 che precede. In particolare, occorre notare come assuma centralità, nel sistema di subcriteri o criteri dimostrativi previsto dal legislatore comunitario delegato, la manifestazione di volontà/ impegno del richiedente al rispetto di obblighi specifici nell’utilizzo delle superfici e, in via alternativa a questa, la circostanza, parimenti soggettiva, per cui i richiedenti devono essere già viticoltori al momento di presentare la richiesta e devono aver effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta. Il fatto che la previsione debba interpretarsi in chiave strettamente soggettiva/personalistica, essendo cioè rivolta alla persona del singolo imprenditore richiedente e non all’azienda oggetto dell’impresa agricola, si spiega ed è coerente rispetto alle sopracitate finalità che il complesso normativo comunitario intende perseguire: il bilanciamento tra incremento compatibile della produzione vitivinicola e rispetto delle esigenze di tutela del relativo comparto di mercato UE, evitando le discriminazioni e prevenendo gli abusi da parte degli imprenditori agricoli. In questo senso, occorre premettere che l’applicazione di un criterio di priorità consente o comunque rende possibile all’imprenditore, in via sostanzialmente eccezionale, di usufruire della quota parte in “eccesso” degli impianti autorizzabili, sicché non è ammissibile un’interpretazione estensiva, e ancor meno analogica, dei criteri e dei subcriteri sopra ricordati. Nel caso che ci occupa, il criterio di priorità relativo <<alle superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, per quanto ritenuto dallo stesso legislatore europeo di natura oggettiva, collegandosi, testualmente, alle superfici e alla strumentale capacità dell’impianto di apportare un “vantaggio conservativo” all’ambiente, inevitabilmente sconta la necessità di trovare applicazione mediante elementi di natura soggettiva, in quanto si fonda, sostanzialmente, sulla “affidabilità” dell’imprenditore titolare delle superfici e dell’impianto, in ordine all’effettivo rispetto di tutti quegli obblighi e di quelle previsioni tecniche previste dalla normativa di settore, ad es., per le coltivazioni biologiche, a garanzia, cioè, dell’effettivo perseguimento di quella finalità di “conservazione ambientale”. Si comprende, pertanto, come le disposizioni in esame si rivolgano non all’”azienda” o all’impresa considerata nella sua oggettività, ma proprio alla persona dello specifico imprenditore richiedente, dando luogo ad una fattispecie latamente assimilabile ad un rapporto “intuitus personae”. In termini ancora più chiari, deve ritenersi che il legislatore comunitario, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, abbia inteso richiedere una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni. Il legislatore nazionale ha, quindi, dato attuazione alle previsioni predette con il d.m. 15 dicembre 2015 n. 12272, come modificato dal d.m. 30 gennaio 2017 n. 527 e dal d.m. 13 febbraio 2018 n. 935. In particolare, rileva, nella specie, l’art. 7 bis in forza del quale, dal 2018, le Regioni, laddove applichino il criterio di priorità relativo alle <<superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, di cui al par. 2, lett. b), art. 64 del regolamento e l’allegato II del regolamento delegato, ritengono tale criterio soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta. Quindi, il legislatore nazionale ha riprodotto la previsione più stringente prevista dall’Allegato II dei regolamenti delegati UE sopra visti, sicché, anche in ordine alla disposizione interna, valgono gli stessi ragionamenti ermeneutici sopra svolti con riferimento alla disciplina comunitaria. 3. Sul primo motivo di impugnazione. Così tracciate le linee interpretative della disciplina applicabile al caso di specie, si può procedere ad esaminare la prima doglianza sollevata da parte ricorrente. E’ pacifico che il ricorrente può dirsi aver “iniziato” a svolgere, personalmente, attività imprenditoriale nel settore della coltivazione a regime biologico nel 2017 (con la “notifica attività con metodo biologico” del 21 febbraio 2017, doc 7 fasc. parte ricorrente): d’altronde, come ricordato nella parte in fatto che precede, l’impresa individuale esercitata dal ricorrente è costituita dall’azienda dallo stesso acquistata in forza di donazione stipulata con il padre, in data 29 dicembre 2016. A questo proposito, in data 30 ottobre 2017, Avepa ha accolto l’istanza del ricorrente di subentro (al padre) nella coltivazione biologica rilevando che era stata <<verificata la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi per l’adesione alla misura/azione in oggetto, in particolare il diritto da parte della ditta subentrante alla conduzione a premio per tutto il rimanente periodo vincolativo>>. Parimenti pacifico è il fatto che alle superfici di parte ricorrente, per le quali quest’ultimo ha chiesto l’autorizzazione per l’installazione di nuovi impianti, sarebbe astrattamente applicabile il criterio di priorità sub art. 64, par. 2, lett. b), in relazione al sub criterio di cui all’Allegato II, lett. B, regolamento UE n. 560/15, e alle previsioni dell’art. 7 bis, lett. c) d.m. 12272/15 ss.mm.ii. Ciò detto, il ricorrente lamenta che Avepa, illegittimamente, non avrebbe considerato ai fini della dimostrazione e, quindi, dell’applicazione del criterio di priorità suddetto, e, più precisamente, della prova del quinquennio precedente nell’attuazione del regime biologico, gli anni di coltivazione conforme al suddetto regime svolti dal padre del Semin con riguardo all’azienda agricola poi oggetto di donazione. In particolare, secondo il ricorrente, la donazione, configurandosi come una sorta di successione anticipata nella sfera giuridica del padre con subentro nella gestione dell’azienda in regime di biologico, non determinerebbe alcuna “cesura” nella conduzione dell’impresa, di talché ai fini del rispetto del requisito quinquennale la posizione del ricorrente e quella del padre avrebbero dovuto essere considerate in termini di “continuità” gestionale, valorizzando, quindi, la condizione dell’azienda nella sua oggettività. Il Collegio, alla luce di quanto più sopra esposto, non ritiene fondata l’argomentazione offerta dal ricorrente. In primo luogo, come si è detto, la ratio e la finalità del complesso normativo comunitario e interno più sopra riportato sono incentrate sulla valorizzazione di un elemento strettamente soggettivo, quale la specifica attendibilità dello specifico imprenditore richiedente l’autorizzazione al nuovo impianto nel procedere entro i tre anni successivi all’impianto vitivinicolo in conformità al regime del biologico, attraverso la specifica dimostrazione di aver applicato in modo integrale tale regime sull’intera superficie vitata delle proprie aziende. In tal senso, il riferimento all’azienda è la mera conseguenza del fatto che il richiedente è un imprenditore, senza che da ciò sia possibile inferire l’irrilevanza dell’elemento strettamente soggettivo. In questo senso, esaminando le altre previsioni dell’Allegato II al regolamento UE n. 560 del 2015, è agevolmente verificabile come il legislatore comunitario, laddove ha voluto, ha specificamente valorizzato il dato oggettivo delle superfici vitate – e quindi l’elemento aziendale fondamentale nella materia in esame – in assenza di elementi di carattere soggettivo (si vedano ad es. i criteri sub c) e d) dell’Allegato II del regolamento predetto). Il fatto che la norma abbia focalizzato l’attenzione sul comportamento del richiedente si spiega, come detto, in quanto esso rappresenta la dimostrazione della serietà dell’impegno che quello specifico soggetto si assume ottenendo l’autorizzazione ad un nuovo impianto biologico. Quanto sopra, quindi, consente di confutare, altresì, l’altro argomento utilizzato da parte ricorrente, ovvero quello relativo alla valorizzazione del “subentro” del Selmin nella sfera giuridica del padre relativamente all’azienda vitivinicola in questione. Al riguardo, va sottolineato come il ricorrente, a sostegno delle proprie argomentazioni, faccia riferimento: - alla circolare del ministero delle politiche agricole e forestali 25 ottobre 2016 prot. n. 5852, laddove precisa che nonostante l’autorizzazione di cui all’art. 62, regolamento UE n. 1308/2013, non sia di regola trasferibile, tuttavia sono previste delle eccezioni qualora sia impossibile l’uso rapido e diretto dell’autorizzazione della stessa e possa essere esclusa ogni forma di speculazione, eccezioni tra le quali rientra anche l’ipotesi della morte del produttore che aveva ricevuto l’autorizzazione; <<in questo caso, l’erede può usare l’autorizzazione per il tempo residuo della durata dell’autorizzazione e resterà vincolato ad eventuali criteri che hanno determinato la concessione dell’autorizzazione>>; viene equiparata alla successione mortis causa vera e propria la c.d. successione anticipata così come definita dal Decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali prot. n. 1787 del 5 agosto 2004), ovvero, a) il consolidamento dell’usufrutto in capo al nudo proprietario; b) tutti i casi in cui un agricoltore che possa succedere per successione legittima ad altro agricoltore, titolare di autorizzazione, abbia ricevuto, anticipatamente, a qualsiasi titolo, l’azienda o parte dell’azienda; - la nota interpretativa n. 3 del 2015 della DG AGRI della Commissione UE la quale precisa che <<un’autorizzazione è concessa ad uno specifico produttore il quale dispone di un periodo di tre anni per usarla egli stesso. Questa regola impedisce i trasferimenti di autorizzazioni, sia che esse siano trasferite separatamente o congiuntamente ai diritti di detenzione o di proprietà sulla superficie per cui l’autorizzazione è stata concessa. Ciò si applica a tutti i produttori, siano essi persone fisiche o giuridiche. Ad ogni modo, vi sono alcuni casi, quale la morte del produttore cui è stata concessa l’autorizzazione, in cui l’uso celere e diretto diventa impossibile e la speculazione è esclusa… il trasferimento dell’autorizzazione in via ereditaria dovrà essere consentito…. In tal caso, l’erede può utilizzare l’autorizzazione e impiantare viti in quella superficie durante il tempo residuo del periodo di tre anni o il tempo residuo della scadenza associata alle autorizzazioni concesse sulla base della conversione dei diritti di impianto conformemente all’Articolo 68 del Regolamento (UE) n. 1308/2013. Lo stesso deve applicarsi, fatte le dovute distinzioni, al caso di successione anticipata considerato che, ancora una volta, l’uso celere e diretto diventa impossibile e la speculazione è esclusa….>>; - l’art. 3, comma 1, d.m. 5 agosto 2004, prot. n. 1787 (recante “Disposizioni per l’attuazione della riforma della politica agricola comune”) secondo il quale <<nella definizione di “successione anticipata” di cui all’articolo 33 del regolamento (CE) n.1782/2003 del Consiglio rientrano:…b) tutti i casi in cui un agricoltore abbia ricevuto a qualsiasi titolo l’azienda o arte dell’azienda precedentemente gestita da altro agricoltore, al quale il primo può succedere per successione legittima>>. Ebbene, quand’anche si ritenga ammissibile l’eccezionale trasferimento delle autorizzazioni e, quindi, il subentro nella titolarità delle stesse da parte dell’erede o del “successore anticipato” (come nel caso del donatario-potenziale erede legittimo e legittimario), tale fattispecie è profondamente diversa da quella che ci occupa. Infatti, le due note interpretative ricordate si riferiscono al mero trasferimento del titolo autorizzativo già ottenuto il quale ha validità tre anni e che in casi eccezionali potrebbe non essere adeguatamente sfruttato dal titolare (come nel caso di morte), sicché per garantire un uso “tempestivo” ragionevolmente si consente il trasferimento della titolarità, l’effetto autorizzatorio potendo (e dovendo, corrispondendo ad anche un obbligo sanzionato in caso di inadempimento) essere sfruttato dall’erede e per analogia, dal predetto “successore anticipato”. Ciò che rileva, d’altronde, in questo caso, è l’aspetto oggettivo della titolarità dell’autorizzazione già ottenuta, non vengono in gioco cioè elementi volti a comprovare comportamenti soggettivi inerenti in senso stretto la persona del richiedente; per di più si tratta di soluzione che, come detto, non confligge, ma anzi, consente di meglio perseguire gli interessi sottesi alla normativa comunitaria ricordata, perché funzionale all’effettiva coltivazione biologica dei terreni in conformità a quanto programmato. Di qui la compatibilità, sia pure in via eccezionale, della trasferibilità del titolo. Nel caso del criterio di priorità per il quale è causa, invece, come detto, viene in gioco una specifica “qualità” o “comportamento” richiesto proprio all’imprenditore-viticoltore che richiede l’autorizzazione ad un nuovo impianto: si tratta di un elemento strettamente “personale” del soggetto (che può anche essere una persona giuridica) richiedente che deve dar prova di essere affidabile in relazione alla coltivazione conforme alle regole del biologico. Nessun elemento di oggettività viene in gioco, perché il riferimento alle aziende e alle superfici in realtà è strettamente connesso alla titolarità delle stesse da parte del richiedente: è “lui” che deve provare di essersi “personalmente” ed “effettivamente” conformato al regime del biologico. La trasmissibilità del “presupposto” per l’applicabilità del criterio in questione si porrebbe potenzialmente in contrasto con le finalità perseguite dalla normativa comunitaria, che sono volte a garantire l’effettività del rispetto delle norme sul biologico e una ordinata e ben programmata gestione delle autorizzazioni di impianti nuovi: infatti, se così fosse ad es., si dovrebbe ammettere l’uguaglianza di trattamento tra un viticoltore che può far valere ben 5 anni “in proprio” e un altro che appena subentrato al dante causa può solo vantare il requisito temporale “derivato”, non dando, quindi, alcun reale elemento di affidabilità in merito alla propria “persona” di imprenditore. Nel caso di specie, quindi, la valutazione fatta da Avepa con il provvedimento in questa sede impugnato deve ritenersi corretta: la logica del “subentro”, che ha consentito al ricorrente di ottenere la trasmissione della titolarità delle autorizzazioni in capo al padre, non è applicabile anche alle richieste di autorizzazione di nuovi impianti. In questo senso, pertanto, a diversa fattispecie appartiene l’autorizzazione al “subentro” di cui al decreto Avepa n. 210 del 2017, proprio perché inerente il trasferimento dell’autorizzazione e non una autorizzazione “ex novo” fondata su una qualità soggettiva/comportamento personale del richiedente non mutuabile dal dante causa. Nessuna rilevanza, poi, in termini di possibile contraddizione può aversi tra i provvedimenti oggetto di causa e la precedente autorizzazione per nuovi impianti viticoli ottenuta nel 2019, atteso che la corretta interpretazione offerta da Avepa in questa sede non può comunque essere superata da una eventualmente non corretta ricostruzione normativa avvenuta in precedenza. Pertanto, il primo motivo di impugnazione deve essere respinto. 4. Conclusioni e spese. Alla luce di quanto sopra detto, il ricorso deve essere respinto. Al riguardo, occorre rammentare che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza cui il Collegio ritiene di dare seguito, <<in presenza di un atto c.d. plurimotivato è sufficiente la legittimità di una sola delle giustificazioni per sorreggere l'atto in sede giurisdizionale; in sostanza, in caso di atto amministrativo, fondato su una pluralità di ragioni indipendenti ed autonome le una dalla altre, il rigetto delle censure proposte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento>> (In tal senso, tra le altre, C. Stato, sez. VI, 31/07/2020, n.4866, C. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2910; sez. V, 12 settembre 2017, n. 4297; sez. V, 21 agosto 2017, n. 4045; C. Stato, IV, 30 marzo 2018, n. 2019, C. Stato, sez. V, 17 settembre 2019, n. 6190). Poiché, nel caso di specie, la ragione di diniego sopra esaminata è sufficiente a fondare e giustificare il provvedimento impugnato, diviene irrilevante accertare se il secondo motivo di impugnazione sia fondato. Le spese devono essere compensate, attesa la novità e la peculiarità della controversia. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Alessandra Farina, Presidente Alessio Falferi, Consigliere Paolo Nasini, Referendario, Estensore Alessandra Farina, Presidente Alessio Falferi, Consigliere Paolo Nasini, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Agricoltura – Vigneti - Autorizzazione per nuovi impianti viticoli – Presupposti – Individuazione.              La disciplina europea in tema di autorizzazione per nuovi impianti viticoli, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, ha richiesto una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.          (1) La Sezione ha preliminarmente ricordato che la materia trova la sua fonte primigenia e fondamentale nel diritto comunitario e, per quanto in questa sede di interesse, specificamente nel regolamento UE n. 1308/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio.    Assuma centralità, nel sistema di subcriteri o criteri dimostrativi previsto dal legislatore comunitario delegato, la manifestazione di volontà/ impegno del richiedente al rispetto di obblighi specifici nell’utilizzo delle superfici e, in via alternativa a questa, la circostanza, parimenti soggettiva, per cui i richiedenti devono essere già viticoltori al momento di presentare la richiesta e devono aver effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al primo capoverso all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.   Il fatto che la previsione debba interpretarsi in chiave strettamente soggettiva/personalistica, essendo cioè rivolta alla persona del singolo imprenditore richiedente e non all’azienda oggetto dell’impresa agricola, si spiega ed è coerente rispetto alle sopracitate finalità che il complesso normativo comunitario intende perseguire: il bilanciamento tra incremento compatibile della produzione vitivinicola e rispetto delle esigenze di tutela del relativo comparto di mercato UE, evitando le discriminazioni e prevenendo gli abusi da parte degli imprenditori agricoli.       In questo senso, occorre premettere che l’applicazione di un criterio di priorità consente o comunque rende possibile all’imprenditore, in via sostanzialmente eccezionale, di usufruire della quota parte in “eccesso” degli impianti autorizzabili, sicché non è ammissibile un’interpretazione estensiva, e ancor meno analogica, dei criteri e dei subcriteri sopra ricordati.   Nel caso all’esame della Sezione, il criterio di priorità relativo <<alle superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, per quanto ritenuto dallo stesso legislatore europeo di natura oggettiva, collegandosi, testualmente, alle superfici e alla strumentale capacità dell’impianto di apportare un “vantaggio conservativo” all’ambiente, inevitabilmente sconta la necessità di trovare applicazione mediante elementi di natura soggettiva, in quanto si fonda, sostanzialmente, sulla “affidabilità” dell’imprenditore titolare delle superfici e dell’impianto, in ordine all’effettivo rispetto di tutti quegli obblighi e di quelle previsioni tecniche previste dalla normativa di settore, ad es., per le coltivazioni biologiche, a garanzia, cioè, dell’effettivo perseguimento di quella finalità di “conservazione ambientale”.    Si comprende, pertanto, come le disposizioni in esame si rivolgano non all’”azienda” o all’impresa considerata nella sua oggettività, ma proprio alla persona dello specifico imprenditore richiedente, dando luogo ad una fattispecie latamente assimilabile ad un rapporto intuitus personae.    In termini ancora più chiari, deve ritenersi che il legislatore comunitario, per concedere l’autorizzazione al nuovo impianto in “esubero”, abbia inteso richiedere una sorta di “garanzia”, che il legislatore nazionale può modulare o nella forma del mero impegno, ovvero in quella più stringente data dalla prova che l’imprenditore richiedente è degno di fiducia avendo già applicato, lui stesso, la disciplina biologica in modo integrale (l’intera superficie vitata di tutte le aziende) per un periodo di cinque anni.       Il legislatore nazionale ha, quindi, dato attuazione alle previsioni predette con il d.m. 15 dicembre 2015 n. 12272, come modificato dal d.m. 30 gennaio 2017, n. 527 e dal d.m. 13 febbraio 2018, n. 935.    In particolare, rileva, nella specie, l’art. 7 bis in forza del quale, dal 2018, le Regioni, laddove applichino il criterio di priorità relativo alle <<superfici in cui l'impianto di vigneti contribuisce alla conservazione dell'ambiente>>, di cui al par. 2, lett. b), art. 64 del regolamento e l’allegato II del regolamento delegato, ritengono tale criterio soddisfatto se i richiedenti sono già viticoltori al momento di presentare la richiesta e hanno effettivamente applicato le norme relative alla produzione biologica di cui al regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio e, se applicabile, al regolamento (CE) n. 889/2008 della Commissione all'intera superficie vitata delle loro aziende per almeno cinque anni prima di presentare la richiesta.   Quindi, il legislatore nazionale ha riprodotto la previsione più stringente prevista dall’Allegato II dei regolamenti delegati UE sopra visti, sicché, anche in ordine alla disposizione interna, valgono gli stessi ragionamenti ermeneutici sopra svolti con riferimento alla disciplina comunitaria.  ​​​​​​​
Agricoltura
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-costituzionale-la-legge-provvedimento-che-pone-una-data-fissa-per-l-ammissione-degli-specializzandi-iscritti-ai-tirocini-formativi-attivi/s
Alla Corte costituzionale la legge provvedimento che pone una data fissa per l’ammissione degli specializzandi iscritti ai Tirocini formativi attivi/Sostegno (TFA/S) al concorso riservato
N. 00604/2021 REG.PROV.CAU. N. 08728/2020 REG.RIC.            N. 08733/2020 REG.RIC.            N. 08729/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sui ricorsi riuniti A) – NRG 8728/2020, proposto da Angelica Andaloro, Filomena Barletta, Maria Lidia Contu, Sonia D'Ignazio, Maria Grazia Del Giudice, Giacomo Di Marco, Simona Ferraro, Paola Frisenda, Zaira Matera, Angela Olita, Anita Pelaggi, Giusy Perilli, Federica Turco e Marta Virdis, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Esterdonatella Longo e Ida Mendicino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro – il Ministero dell'istruzione, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 e– il Dipartimento per il Sistema educativo e di formazione del Ministero dell’istruzione, nonché gli Uffici scolastici Regionali per il Friuli-Venezia Giulia, per il Lazio, per la Lombardia, per il Piemonte, per la Sardegna, per la Sicilia, per la Toscana e per il Veneto, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; B) – NRG 8733/2020, proposto da Leonarda Cuntuliano, Annarita Favilla, Marica Conny Gemminni, Mariarita Meli e Letizia Pistone Letizia, tutte rappresentate e difese dagli avv.ti Ida Mendicino ed Esterdonatella Longo e, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il Ministero dell'istruzione, nonché gli Uffici scolastici regionali per il Piemonte, per la Puglia, per la Sicilia e per l’Abruzzo, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12; C) – sul ricorso NRG 8729/2020, proposto da Roberta Amoroso, Angelica Andaloro, Rocchina Carlucci, Andrea Caruso, Loredana Coppola, Chiara Costa, Ornella D'Angelo, Nico Disabato, Benedetto Galifi, Alessandro Lucchetti, Rita Montalbano, Nicola Napoli, Giusy Perilli, Michele Pesce, Chiara Piergiovanni, Alessandro Ranieri e Roberta Brizioli, tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Esterdonatella Longo e Ida Mendicino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro – il Ministero dell'istruzione e gli Uffici scolastici regionali per il Lazio, per la Lombardia, per il Molise, per il Piemonte, per la Puglia, per la Sicilia, per la Toscana e per l’Abruzzo, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 e – il Dipartimento per il sistema educativo e di Formazione e l’Ufficio scolastico regionale per la Liguria, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio, per la riforma quanto al ricorso n. 8728/2020: dell'ordinanza cautelare del TAR Lazio, sez. III, n. 5696/2020, resa tra le parti e concernente la mancata ammissione delle appellanti al concorso straordinario, per titoli ed esami, per l’immissione in ruolo di personale docente su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21, in quanto iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019, quanto al ricorso n. 8733/2020: dell'ordinanza cautelare del TAR Lazio, sez, III, n. 5790/2020, resa tra le parti ed avente il medesimo oggetto della precedente e, quanto al ricorso n. 8729/2020: dell'ordinanza cautelare del TAR Lazio, sez. III, n. 5787/2020, resa tra le parti ed avente il medesimo oggetto delle precedenti; Visto l'art. 62 cod. proc. amm; Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio solo del Ministero dell'istruzione e degli Uffici scolastici regionali meglio indicati in premessa Vista le impugnate ordinanze cautelari con cui il TAR ha respinto le domande cautelari presentate dalle parti ricorrenti in primo grado; Relatore alla camera di consiglio del 21 gennaio 2021 il Cons. Silvestro Maria Russo; Dato atto che l’udienza si svolge ai sensi dell’art. 25, co. 2 del DL 28 ottobre 2020 n. 137 attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”, come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario generale della Giustizia Amministrativa; Ritenuto che: – la Angelica Andaloro e consorti dichiarano d’esser tutti docenti precari, idonei all’insegnamento per le rispettive classi di concorso ed iscritti ai Tirocini formativi attivi-TFA/Sostegno, 5° ciclo (2019/20), ossia ai percorsi di specializzazione annuali, a numero chiuso, tenuti presso le Università e gli altri Istituti autorizzati, al fine di conseguire la specializzazione sul sostegno didattico agli alunni disabili nelle scuole di ogni ordine e grado; – fissato in 40.000 il numero massimo di docenti da avviare al 5° ciclo di TFA, col DM 12 febbraio 2020 n. 95 il Ministero dell’Università e della ricerca-MUR aveva fissato sì al 2/3 aprile 2020 le prove preselettive ed indicato al mese di maggio 2021 il termine ultimo entro cui tali percorsi si sarebbero dovuti concludere; – a causa della pandemia di COVID19, il MUR è stato costretto a differire più volte tali date, poi definite al 29 settembre /1° ottobre 2020 per le prove d’esame ed al 16 luglio 2021 per il fine corso; – nel frattempo, allo scopo d’assicurare la stabilità dell'insegnamento nelle istituzioni scolastiche, porre rimedio alla grave carenza di personale di ruolo nelle scuole statali e ridurre il ricorso a forme di precariato mediante contratti a termine, è intervenuto l’art. 1, co. 1 del DL 29 ottobre 2019 n. 126 (conv. modif. dalla l. 20 dicembre 2019 n. 159), che ha previsto un concorso straordinario, per titoli ed esami, preordinato all’immissione in ruolo di personale docente su posti comuni e di sostegno a partire dall’a.s. 2020/21 in poi, stabilendo al successivo co. 5 i relativi requisiti d’ammissione; – in virtù del successivo co. 18-ter, «… sono ammessi con riserva al concorso ordinario e alla procedura straordinaria di cui al comma 1, nonché ai concorsi ordinari, per titoli ed esami, per la scuola dell'infanzia e per la scuola primaria, banditi negli anni 2019 e 2020 per i relativi posti di sostegno, i soggetti iscritti ai percorsi di specializzazione all'insegnamento di sostegno avviati entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. La riserva è sciolta positivamente solo nel caso di conseguimento del relativo titolo di specializzazione entro il 15 luglio 2020…»; – è stato quindi emanato il decreto del Direttore del Dipartimento n. 510 del 23 aprile 2020, con il quale il Ministero dell’Istruzione ha indetto siffatto concorso straordinario, per titoli ed esami, stabilendo pure l’ammissione con riserva ex art. 1, co. 18-ter dei docenti iscritti ai TFA/Sostegno, se avviati entro il 29 dicembre 2019 (data d’entrata in vigore della legge di conversione n. 159/2019); – giova rammentare l’immanenza della predetta clausola di riserva nell’ordinamento scolastico e tra i requisiti generali d’ammissione ai concorsi per il personale docente nelle scuole di ogni ordine e grado, fin dall’art. 402, co. 1, alinea del D.lgs. 16 aprile 1994 n. 297, che permise la partecipazione a siffatti concorsi anche di coloro i quali fossero iscritti all’ultimo anno dei corsi di studi universitari per il conseguimento della specializzazione ex art. 4 della l. 19 novembre 1990 n. 341 e, seppur tali norme furono nel frattempo abolite dall’attuale sistema concorsuale delineato dagli artt. 5 e 21 del D.lgs. 13 aprile 2017 n. 59, senza soluzione di continuità era stato previsto ed attuato, passando per il D.lgs. 17 ottobre 2005 n. 227, il sistema dei TFA per il sostegno didattico di cui all’art. 2, co. 416 della l. 24 dicembre 2007 n. 416, attuato, per quanto d’interesse, dall’art. 13 del DM 10 settembre 2010 n. 249 e dal DM 30 settembre 2011 (sulle modalità di svolgimento dei relativi corsi); – avverso tale clausola e quella sull’obbligo di presentazione solo in via telematica della domanda di partecipazione al citato concorso la sig. Andaloro e consorti si son gravati innanzi al TAR Lazio, con tre distinti, ma sostanzialmente identici ricorsi, deducendo vari profili di censure e sollevando questioni di legittimità costituzionale sul medesimo art. 1, co. 18-ter e di pregiudiziale comunitaria ex art. 267 TFUE; – l’adito TAR, con le ordinanze n. 5696 del 9 settembre 2020 e le ordinanze n. 5787 e n. 5790 del 10 settembre 2020, ha in varia guisa respinto le tre istanze cautelari attoree per assenza del fumus boni juris, precisando, ma soltanto nella prima, che «… non vi siano i presupposti per equiparare la situazione dei frequentatori del IV corso dei Tirocini Formativi Attivi- Sostegno 2019/2020 con quella dei ricorrenti in quanto l’esclusione dalla partecipazione al concorso è conseguenza di una previsione normativa la cui contestazione è ipotizzabile nella fase di merito…»; Considerato in diritto che: – gli appellanti contestano, nei rispettivi ricorsi —che vanno qui riuniti per una trattazione univoca e congiunta—, il difetto di motivazione delle ordinanze gravate, nonché vari profili di illegittimità costituzionale e comunitaria, non esaminate o rinviate in modo espresso o tacito alla trattazione delle tre cause nel merito; – reputa invece il Collegio, stante la ristrettezza dei tempi per la partecipazione degli appellanti al concorso in argomento, di non condividere l’assunto del TAR in ordine alla (mera) eventualità di trattare le questioni di legittimità costituzionale e di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE soltanto alla fase del merito; – con ogni evidenza, nel caso in esame, la misura cautelare è in sé garanzia essenziale e strumento necessario per soddisfacimento, in via interinale e ove vi siano anche minimi ma ragionevoli profili di fondatezza della pretesa azionata, dei legittimi interessi oggetto del giudizio, nonché strumento volto ad evitare che il tempo necessario per la definizione della causa determini un pregiudizio non solo grave, ma addirittura irreversibile in capo agli appellanti a causa della peculiare conformazione delle regole del procedimento concorsuale; – per il Collegio, quindi ed affinché si possa valutare con esattezza la domanda cautelare attorea, in un contesto ove l’effetto preclusivo promani non da un atto amministrativo (pur se discrezionale) o da un’interpretazione della norma superabile in giudizio attraverso la ricostruzione più attenta di tutti gli istituti implicati, bensì direttamente dalla fonte primaria, s’appalesa dirimente proporre fin d’ora la questione di legittimità costituzionale sull’art. 1, co. 18-ter del DL 126/2019 (nei termini che si vedranno tra poco); – tutto questo perché rilevante e non manifestamente infondata s’appalesa tal questione rispetto alla preclusione che tal norma pone alla possibilità di partecipazione, peraltro con riserva, al concorso bandito dal DDG n. 510/2020, che tal disposizione ha ovviamente replicato tal quale di soggetti che si trovano al momento dell’indizione della procedura straordinaria nella medesima situazione di altri abilitandi ammessi ma con l’unica differenza che il loro ciclo di abilitazione è stato avviato il 12 febbraio 2020 ( D.M. n. 95 del 2020 ), in data successiva alla data di conversione del decreto legge n. 126 del 2020 ( 29 dicembre 2019 ), ma comunque precedente l’indizione del concorso straordinario (decreto 23 aprile 2020 n. 510 ); – è per vero avviso del Collegio l’impossibilità sia di rendere allo stato un qualunque responso definitivo sulla domanda cautelare —non potendo il chiaro dato testuale (o, se si vuole, la sottesa ed altrettanto precisa scelta del legislatore) né esser forzato in via di sola interpretazione, né esser assecondato se, come appare, il suo risultato applicativo porti a risultati paradossali—, sia di rinviare alla fase di merito l’eventuale questione di legittimità costituzionale; – in caso contrario si verificherebbe, di fatto (cioè a causa della mera sfasatura temporale tra l’avvio postergato del 5° ciclo di TFA, rispetto ai tempi programmati di esso, e la regola sull’indizione del concorso straordinario, peraltro rinviato al 15 febbraio 2021), quella nociva mora judicii che il giudizio cautelare deve evitare, specie se, come nel caso in esame, occorra apprestare una rapida piena tutela prima della decisione sul merito, in relazione al ristretto e inderogabile termine di partecipazione a tal procedura selettiva; – come si vede, il difetto di ragionevolezza e d’imparzialità, che gli appellanti imputano al termine apposto per legge, si ravvisa non tanto in quest’ultimo in sé, quanto nella sua rigidità, aggravata per il non aver il legislatore previsto un rimedio perequativo nel caso, tutt’altro che infrequente, di mancato rispetto, pur se fortuito, della scansione annuale nell’attivazione dei corsi TFA, neppure in sede di normativa emergenziale conseguente alla pandemia di COVID19, quantunque quest’ultima abbia imposto lo slittamento sia del 5° ciclo di TFA che del concorso straordinario; – in caso di legge provvedimento che preveda un’ammissione con riserva di alcuni soggetti, concretamente individuati, il legislatore, per assicurare insieme il rispetto dei principi di uguaglianza, di ragionevolezza e, del pari, di buon andamento dell’amministrazione, avrebbe dovuto fare riferimento non alla data di conversione in legge del decreto ma all’attivazione della procedura abilitativa c.d. TFA in data antecedente a quella di indizione della procedura concorsuale straordinaria; – non sfugge al Collegio, per un verso, come ogni concorso, qual che sia la sua natura, fissi una propria dimensione temporale circa il possesso dei requisiti d’ammissione, per cui è fisiologico il fatto che taluni aspiranti non facciano comunque in tempo a divenire candidati, senza che ciò, di per sé solo implichi un intento discriminatorio e, per altro verso, come la regola di limite (a certo tempo dato ex lege) alla partecipazione al concorso de quo, esprima sì una funzione agevolativa (ammissione con la riserva di concludere positivamente il ciclo TFA/S), ma non di stretta interpretazione, come predica invece la P.A. resistente, liquidando la domanda attorea a guisa di un’indebita dilatazione anche a favore di soggetti che sono, al momento del bando (in realtà, del termine di legge), ben lungi dall’essere ammessi ai corsi TFA/S riguardando invece proprio soggetti ammessi a detti corsi ; – il Collegio non condivide tal impostazione, poiché l’agevolazione de qua non è una mera deroga al possesso della specializzazione qual requisito d’ammissione al concorso stesso, bensì un regime differenziato d'ausilio per consentire, grazie all’ammissione degli specializzandi o abilitandi, il ravvicinamento tra il tempo della loro specializzazione e quello dell’assunzione in ruolo di essi; – pertanto detta agevolazione vale certo per i destinatari, ma è posta pure nell’interesse generale al reclutamento di docenti muniti, o in via di raggiungimento, della specializzazione sul sostegno —qualifica, questa, che dà effettività al diritto allo studio degli studenti diversamente abili—, tant’è che tutti i cicli di TFA/S son preordinati ad assicurare un definito, ma costante gettito di docenti specializzati da immettere nei ruoli in tempi i più brevi possibili; Considerato allora che: – tuttavia, il termine, relativo al possesso dei requisiti d’ammissione al concorso non è un parametro nella libera disponibilità del legislatore, quando, definita l’architettura dei requisiti stessi, il termine a data fissa, neutro se la scansione tra reclutamento e specializzazione mantenga il passo ipotizzato dal legislatore stesso (attivazione del TFA/S - termine di partecipazione al concorso), è irrazionale e perturbatore quando tal scansione non sia più governabile per un accumulo di eventi non previsti e non risolubili dal mantenimento della data indicata dalla legge; – se conclamato è lo scopo del concorso straordinario (più rapido riassorbimento di detto precariato sia pur nel limite dei 32.000 posti a disposizione), gli eventi straordinari, che già hanno perturbato la citata scansione, si son riverberati pure sullo stesso procedimento selettivo, il quale ha a sua volta subito, non diversamente da quel ch’è accaduto al 5° ciclo dei TFA, una riconfigurazione ancora in itinere dei suoi tempi di svolgimento, a causa dei noti fatti pandemici; – quindi il 5° ciclo ed il concorso si son sovrapposti ma non definiti, così fluidificando nel tempo i relativi assetti tali che, all’odierna udienza camerale (gennaio 2021), si può veder ancora attuale una situazione se non identica, certo simile al modello cronologico descritto dall’art. 1, co. 18-ter del DL 126/2019, con in più le inderogabili date fissate da quest’ultimo recate, sia per l’ammissione con riserva con riferimento alla legge di conversione, sia per lo scioglimento della riserva con riferimento al tempo limite (15 luglio 2020) previsto per il conseguimento dell’abilitazione; – anzi, ben si può ipotizzare che pure tale termine sia irragionevole in quanto fissato arbitrariamente e non con riferimento al concreto andamento della procedura, cosa, questa, che avrebbe comportato il fare riferimento, per lo scioglimento della riserva, al conseguimento del titolo prima dell’immissione in servizio); – in sostanza, la preclusione normativa avrebbe potuto aver un senso non discriminatorio solo se i tempi relativi delle due procedure, sì ontologicamente distinte ma divenute complementari per volizione della stessa norma primaria che le ha collegate fino al 29 dicembre 2019, avessero mantenuto le distanze relative pronosticate ( ed in questo caso dovendosi rilevare comunque l’irragionevolezza del termine fissato anche per lo scioglimento della riserva che –normalmente– andrebbe sciolta a conclusione della procedura e prima dell’assunzione in servizio per assicurare il buon andamento dell’amministrazione ); – occorre dunque non già estendere benefici in modo arbitrario a favore di chi non ne ha titolo ed in violazione del principio meritocratico, bensì riportare a ragionevolezza la disuguaglianza provocata dalla data fissa, giacché, trattandosi di ammissione ad un concorso a pubblici impieghi, il bando e la norma presupposta ex art. 1, co. 18-ter, il bando impugnato e la richiamata normativa che lo ha legificato si pongono, pertanto, in violazione dell'art. 3 Cost., – infatti, nel restringere la platea dei soggetti aventi titolo a partecipare alla procedura concorsuale ai soli docenti che hanno avuto la possibilità di ultimare i corsi entro tale termine di legge, pur avendo titolo a parteciparvi ex ante ed in astratto e non avendo potuto farlo solo per il relativo slittamento dei tempi di indizione delle diverse procedure, dimostrano l’indebita restrizione non solo materiale del principio di ragionevole massima partecipazione, ma soprattutto connessa all’evidente incoerenza della norma primaria con gli interessi pubblici perseguiti col collegamento tra i TFA/S e detto concorso; – già la ferma giurisprudenza costituzionale rammenta come la tutela del legittimo affidamento pure degli abilitandi, se non esclude la possibilità per il legislatore di porre disposizioni modificative della disciplina dei rapporti giuridici in senso sfavorevole agli interessati (pur se aventi ad oggetto diritti), purché le nuove regole non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica (da intendere qual elemento fondamentale dello Stato di diritto), a più forte ragione il legislatore deve o esimersi dallo stabilire regole rigide che non governino i poteri della P.A. in modo congruente coi valori costituzionali implicati, oppure (come pure nella specie) quando tal regolamento provochi distonie, specie a fronte di assetti mutevoli ed in continuo riadattamento, modificare la norma rigida, a pena d’incappare in evidenti, inutili discriminazioni; Considerato pertanto che: – tale principio di ragionevolezza avrebbe dovuto, per la buona qualità della legislazione e per i valori costituzionali implicati prima richiamati, comportare il riferimento, per l’ammissione al concorso straordinario, ad una data di avvio del corso TFA comunque antecedente la concreta indizione del concorso, al fine d’evitare inutili ed irragionevoli esclusioni contrarie alla ratio della stessa norma agevolativa, purché l’ammissione al corso TFA/S fosse avvenuta prima della data di scadenza per la presentazione della domanda al concorso straordinario; – sempre tale principio, poi, avrebbe dovuto comportare, da parte del legislatore, di costruire lo sbarramento temporale di scioglimento della riserva con riguardo al conseguimento dell’abilitazione non ad una data fissa (il 15 luglio 2020), ma al momento della verifica dei requisiti per l’assunzione in servizio (questione rilevante, perché sempre il 5° ciclo si conclude, di programma, proprio il 16 luglio 2020); – in secondo luogo, la norma primaria citata (ed il bando che da essa ripete legittimazione) si pone in contrasto pure con l’art. 97 Cost., non ravvisandosi, dopo la predetta sovrapposizione tra tali due procedimenti, d’un interesse pubblico, attuale e concreto, a disporre l’esclusione dal concorso stesso degli appellanti specializzandi sul sostegno, la norma costituzionale imponendo al legislatore, ancor prima che alla P.A., di definirne funzioni e procedimenti in modo che essa agisca con l’imparzialità che si rinviene dal precedente art. 3 e con la massimizzazione degli interessi collettivi sottesi ad un buon ed efficace reclutamento di docenti capaci e meritevoli, muniti di (o che stanno per conseguire l’) apposita specializzazione e idonei a garantire a tutti i discenti l’effettività del diritto allo studio, in coerenza coi doveri sociali ex artt. 2 e 34 Cost.; – come s’è accennato dianzi, il Collegio non ritiene che la questione posta si configuri come estensione indebita di un privilegio, qual potrebbe sembrare il concorso riservato, giacché anche la procedura selettiva semplificata risponde alla regola costituzionale del pubblico concorso (essendo divenuta nella scuola, per il noto processo in corso di riassorbimento del precariato, una modalità ormai ricorrente ), ma quel che più rileva è l’esigenza che essa riesca a reclutare rapidamente ed efficacemente (sia pur con riserva) anche gli specializzandi sul sostegno sia al fine di sveltirne i tempi d’impiego nella funzione, sia a salvaguardia del diritto alla salute del disabile, cui l’ordinamento riconosce un diritto di natura assoluta, che partecipa della natura del diritto alla salute ex art. 32 Cost., ossia il diritto all’inserimento scolastico con affiancamento di un insegnante di sostegno professionalmente titolato e, quanto più possibile, già pronto (a partire dall’ a.s. 2021/22) a svolgere i propri compiti d’affiancamento al discente; – in definitiva, quanto appena argomentato giustifica la valutazione di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art 1, co. 18-quater del DL 126/2010, nella parte in cui pone una data fissa (senza avere riguardo al fatto che il corso abilitante legittimante la partecipazione sia stato comunque avviato prima dell’indizione del concorso straordinario ed al fatto che l’ammissione al corso abilitante sia avvenuta in data utile per la presentazione della domanda al concorso straordinario ) per l’ammissione degli specializzandi TFA/S al concorso riservato, per titoli ed esami previsto dalla medesima disposizione ed altresì nella parte in cui pone una data fissa pure per il conseguimento della abilitazione (senza considerare chi comunque consegua l’abilitazione in tempo utile per l’ammissione in servizio) e da quelle racchiuse nei commi precedenti, per violazione degli artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 della Costituzione; ritenuto in definitiva che l’ assetto normativo descritto è violativo dell’art. 3 Cost. ed in particolare dei principi di ragionevolezza che deve assistere ogni legge provvedimento ( nella specie giustificata ove ammette gli specializzandi ma non ove limita tale ammissione con un troppo rigido sbarramento temporale che non ha alcuna sua autonoma giustificazione a fronte della adozione delle diverse soluzioni divisate innanzi ) e del principio di uguaglianza ( ove discrimina fra soggetti che sono in situazioni del tutto similari tranne che per il profilo temporale ) nonchè degli artt. 2, 32 e 34 Cost. ossia dei diritti fondamentali alla salute ed all’istruzione ( ove restringe irragionevolmente la platea dei partecipanti alla selezione con possibile compromissione di tali valori evidentemente rilevanti nello svolgimento dell’insegnamento di sostegno a persone con disabilità ) ed in ultimo degli artt. 97 Cost. ( perché, pur in assenza di una attività riservata all’amministrazione, compromette con disposizioni di eccessivo dettaglio gli stessi interessi che la disposizione si propone di tutelare restringendo senza motivo la platea dei soggetti ammessi al concorso straordinario per soluzioni distoniche rispetto a quelle che – in assenza della norma – l’amministrazione avrebbe potuto tranquillamente adottare nella sua ordinaria attività di indizione dei concorsi ) e 113 Cost. perché –legificando i bandi– sottrae senza motivazione alcuna alla tutela giurisdizionale le posizioni degli istanti lasciando al giudice amministrativo –per assicurare tutela– solo ed esclusivamente la strada della rimessione della norma al giudice delle leggi; – si rende di conseguenza necessaria, previa concessione interinale di misure cautelari provvisorie a favore degli appellanti (ai fini della sola loro ammissione con riserva al citato concorso riservato), la sospensione del giudizio cautelare d’appello e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), previa riunione dei ricorsi NRG 8728/2020, NRG 8733/2020 e NRG 8729/2020 in epigrafe, così provvede: 1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 1, co. 18-ter del DL 29 ottobre 2019 n. 126 (conv. modif. dalla l. 20 dicembre 2019 n. 159), in relazione artt. 2, 3, 32, 34 e 97 della Costituzione per le ragioni specificate in parte motiva; 2) dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; 3) dispone al contempo la concessione interinale di misure cautelari provvisorie a favore degli appellanti, ai fini della sola loro ammissione con riserva al concorso riservato citato in parte motiva; 4) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese della fase cautelare all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente pronuncia; 5) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei ministri e ai sigg. Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la Segreteria della Sezione, che provvederà a darne comunicazione alle parti ed agli altri incombenti di legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 21 gennaio 2021, con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore Stefano Toschei, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore Stefano Toschei, Consigliere IL SEGRETARIO
Pubblica istruzione – Concorso - Concorso riservato – Immissione in ruolo su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21 - iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019 - Art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010 – Violazione artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.              E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 2, 3, 32, 34 e 97 e 113 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010, nella parte in cui pone: a) una data fissa per l’ammissione degli specializzandi iscritti ai Tirocini formativi attivi/Sostegno (TFA/S) al concorso riservato, per titoli ed esami, per l’immissione in ruolo di personale docente su posti comuni e di sostegno dall’a.s. 2020/21, in quanto iscritti ai TFA/Sostegno non avviati entro il 29 dicembre 2019, senza avere riguardo al fatto che il corso abilitante legittimante la partecipazione sia stato comunque avviato prima dell’indizione del concorso straordinario ed al fatto che l’ammissione al corso abilitante sia avvenuta in data utile per la presentazione della domanda al concorso straordinario; b) una data fissa pure per il conseguimento della abilitazione (senza considerare chi comunque consegua l’abilitazione in tempo utile per l’ammissione in servizio) (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 1, comma 18-quater, d.l. n. 126 del 2010  è violativo dell’art. 3 Cost. ed in particolare dei principi di ragionevolezza che deve assistere ogni legge-provvedimento (nella specie giustificata ove ammette gli specializzandi ma non ove limita tale ammissione con un troppo rigido sbarramento temporale che non ha alcuna sua autonoma giustificazione a fronte della adozione delle diverse soluzioni divisate innanzi) e del principio di uguaglianza (ove discrimina fra soggetti che sono in situazioni del tutto similari tranne che per il profilo temporale) nonchè degli artt. 2, 32 e 34 Cost., ossia dei diritti fondamentali alla salute ed all’istruzione (ove restringe irragionevolmente la platea dei partecipanti alla selezione con possibile compromissione di tali valori evidentemente rilevanti nello svolgimento dell’insegnamento di sostegno a persone con disabilità) ed in ultimo degli artt. 97 Cost. (perché, pur in assenza di una attività riservata all’amministrazione, compromette con disposizioni di eccessivo dettaglio gli stessi interessi che la disposizione si propone di tutelare restringendo senza motivo la platea dei soggetti ammessi al concorso straordinario per soluzioni distoniche rispetto a quelle che – in assenza della norma – l’amministrazione avrebbe potuto tranquillamente adottare nella sua ordinaria attività di indizione dei concorsi) e 113 Cost. perché – legificando i bandi – sottrae senza motivazione alcuna alla tutela giurisdizionale le posizioni degli istanti lasciando al giudice amministrativo – per assicurare tutela – solo ed esclusivamente la strada della rimessione della norma al giudice delle leggi.  
Pubblica istruzione
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Effetti della mancata adozione dei piani di gestione dello spazio marittimo sui procedimenti di Via, con riferimento alla possibilità di attivare il potere dirimente della Presidenza del Consiglio.
N. 01486/2020REG.PROV.COLL. N. 09884/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9884 del 2018, proposto dalla società Tg Energie Rinnovabili s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Andrea Sticchi Damiani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore, il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministero per i beni e le attività culturali ed il turismo, in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia -sezione staccata di Lecce (Sezione Prima) - n. 1358/2018, resa tra le parti, concernente la sospensione del procedimento di VIA su progetto di centrale eolica off-shore Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo; Viste le memorie e le memorie di replica; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2019 il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Andrea Sticchi Damiani e l'avvocato dello Stato Maurizio Greco; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La “Tg Energie Rinnovabili” s.r.l. (d’ora in avanti, per comodità, solo la Società) ha impugnato innanzi al T.A.R. per la Puglia la nota prot. n. 0029879 del 22 dicembre 2017 a firma del dirigente della Direzione generale per le valutazioni e le autorizzazioni ambientali del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (d’ora in avanti MATTM) con la quale è stato sospeso il procedimento di valutazione di impatto ambientale (VIA) del progetto dalla stessa presentato per un parco eolico da realizzare nel tratto di mare antistante la costa dei Comuni di Brindisi, San Pietro Vernotico (BR) e Torchiarolo (BR). Ha impugnato altresì la nota a firma del Capo del Dipartimento per il coordinamento amministrativo (DICA) della Presidenza del Consiglio dei Ministri posta a base della stessa, prot. n. 0023852 del 22 novembre 2017, con la quale si comunicava l’impossibilità di sottoporre il contrasto insorto nell’ambito del ridetto procedimento tra il MATTM e il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MIBACT) al Presidente del Consiglio dei Ministri, siccome previsto dall’art. 5, comma 2, lett. c bis), della l. n. 400/1988, ritenendo che la mancata attuazione della pianificazione dello spazio marittimo prevista dal d.lgs. n. 201/2016 non lo consentisse. 2. Il T.A.R. per la Puglia, con sentenza n. 1358/2018, ha respinto il ricorso, compensando le spese di giudizio, sull’assunto che la disposta sospensione del procedimento non inciderebbe in alcun modo negativamente nella sfera giuridica della Società, essendo comunque ostativi all’accoglimento della relativa istanza i pareri negativi resi dal MIBACT, ormai inoppugnabili per mancata proposizione di autonomo gravame. Quanto alla procedura di cui all’art. 5, comma 2, lett. c bis) della l. 23 agosto 1988, n. 400, unico sbocco alternativo dell’istanza, essa sarebbe stata legittimamente “bloccata” dal competente Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri in quanto in potenziale contrasto con le esigenze di pianificazione dello spazio marittimo di cui al sopravvenuto assetto normativo. 3. Avverso tale sentenza ha proposto appello la Società, lamentando: a) error in iudicando, avendo il giudice di prime cure ritenuto «in punto di interesse» precluso lo scrutinio dell’avversato provvedimento del MATTM, sulla base del rilievo che il procedimento di VIA avrebbe dovuto comunque concludersi in senso sfavorevole alla parte, stanti i pareri espressi sia dalla Regione Puglia che, soprattutto, dal MIBACT. La circostanza dell’omessa impugnativa dei pareri negativi endoprocedimentali - a prescindere, peraltro, dal pretermesso richiamo al ricorso al T.A.R. per la Puglia n.r. 2240/2014 avverso la deliberazione giuntale n. 1182 del 18 giugno 2014, dichiarato inammissibile giusta la natura non vincolante del parere regionale (T.A.R. per la Puglia, 22 maggio 2018, n. 858) - si paleserebbe del tutto inconferente, essendo proprio il contrasto con il contenuto di tali pareri il presupposto dell’attivazione della procedura di cui all’art. 5, comma 2, lett. c bis) della l. n. 400/1988, indebitamente preclusa dagli uffici; b) error in iudicando laddove si è affermato che nessuna censura sarebbe stata mossa direttamente avverso la nota del DICA del 22 novembre 2017. Il contenuto soprassessorio della stessa, migrato nell’effetto soprassessorio del riscontro fornito alla Società dal MATTM, è censurabile e censurato nella parte in cui pretende di attribuire un indebito effetto paralizzante qualsivoglia progettualità nello spazio marino alla disciplina di cui al d.lgs. n. 201/2016, nelle more della sua concreta attuazione; c) error in iudicando stante che con le note de quibus si è di fatto disposta una sospensione ad libitum del procedimento in palese contrasto con i principi di cui alla l.n. 241/1990, in particolare l’art. 21 quater che non consente di differire l’efficacia di un provvedimento oltre “il tempo strettamente necessario”. In ciò si concretizzerebbe, infatti, il differimento all’avvenuta adozione dei piani di gestione previsti dal d.lgs. n. 201/2016 della riattivazione del procedimento, non potendo certo valere come dies ad quem finale il 31 dicembre 2020, ovvero il termine meramente ordinatorio fissato dal legislatore all’art. 5 del richiamato decreto per definire i ridetti atti attuativi; d) sarebbe infine stata indebitamente esclusa la necessità di rispettare le garanzie partecipative al procedimento sull’errato assunto che l’esito dello stesso, vincolato ai pareri negativi del MIBACT, non avrebbe potuto comunque essere inciso dall’apporto della parte privata. Con ciò pretermettendo che la decisa preclusione del procedimento di cui alla l. n. 400/1988 non era affatto scontata, e la parte avrebbe potuto fornire al riguardo proposte, anche interpretative, tali da scongiurarne gli intervenuti esiti. 4. Si sono costituite in giudizio le Amministrazioni intimate per insistere nelle proprie prospettazioni, chiedendo la conferma della sentenza impugnata. In particolare, esse difendono l’affermazione del T.A.R. circa gli effetti “in punto di interesse” della mancata impugnativa dei due pareri negativi del MIBACT (nota n. 6362 del 4 marzo 2016 e 7934 del 29 luglio 2016), oltre che di quelli, di analogo contenuto, della Regione Puglia (delibere di Giunta n. 1182 del 18 giugno 2014, in verità impugnata con il ricorso richiamato al § precedente, e n. 1754 del 30 ottobre 2017). La nota del DICA non sarebbe da intendere come sospensione ad libitum del procedimento, ma come declaratoria di improcedibilità dell’istanza, alla luce della normativa sopravvenuta, applicabile sulla base della corretta lettura del principio del tempus regit actum, che imporrebbe di tener conto del regime giuridico esistente sia alla data di presentazione dell’istanza che di eventuale rilascio del titolo. Infine, il dies ad quem per la conclusione del procedimento di VIA-VAS non sarebbe affatto mancante, coincidendo con quello di avvenuta definizione degli strumenti di pianificazione dello spazio marittimo previsti dal citato d.lgs. n. 201/2016 (31 dicembre 2020). 5. In vista dell’odierna udienza, le parti hanno presentato memorie e memorie di replica. All’udienza pubblica del 7 novembre 2019, sentite le parti, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 6. Al fine di correttamente perimetrare i confini dell’odierna controversia il Collegio ritiene necessario ripercorrere le tappe salienti del procedimento, avuto riguardo alla disciplina vigente sia al momento di presentazione dell’istanza di VIA, che a quello di adozione delle note avversate. 7. Con istanza in data 28 giugno 2013 la Società presentava al competente Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare un’istanza di valutazione di compatibilità ambientale di un progetto di parco eolico off-shore denominato “Centrale Eolica off-shore Brindisi”, da localizzare nel tratto di mare antistante la costa dei Comuni di Brindisi, San Pietro Vernotico (BR) e Torchiarolo (BR). Il procedimento sotteso al rilascio del provvedimento, da adottare “di concerto” con il MIBACT, è regolamentato dalle disposizioni del Capo IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella versione applicabile ai procedimenti di VIA avviati prima del 16 maggio 2017, giusta la previsione in tal senso contenuta nell’art. 23 del d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104, di recepimento della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014. La relativa istruttoria è stata dunque curata da un punto di vista tecnico-scientifico dall’apposita Commissione tecnica di verifica dell'impatto ambientale prevista dall'art. 7 del d.l.23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio 2008, n. 123. Tale Commissione, ricorda ancora il Collegio, che ha accorpato le funzioni di quella per la valutazione di impatto ambientale, istituita ai sensi dell'art. 18, comma 5, della l.11 marzo 1988, n. 67, e successive modificazioni, e di quella speciale per la valutazione di impatto ambientale, istituita ai sensi dell'art.184, comma 2, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, è composta da cinquanta commissari (originariamente erano 60), oltre il presidente e il segretario, nominati con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, tra liberi professionisti ed esperti provenienti dalle amministrazioni pubbliche, comprese università, Istituti scientifici e di ricerca, con adeguata qualificazione in materie progettuali, ambientali, economiche e giuridiche. Nel caso di specie, dunque, essa ha espresso parere positivo con nota prot. 2392 del 12 maggio 2017, dando peraltro atto in premessa dell’avvenuta richiesta di integrazioni istruttorie proprio da parte del MIBACT, regolarmente evasa in data 28 marzo 2014 dalla Società. Essendo il parere de quo successivo a quelli (negativi) espressi dal MIBACT “nell’ambito del procedimento di VIA di che trattasi” (rispettivamente in data 4 marzo 2016 e 29 luglio 2016) è evidente che con esso la Commissione ha inteso avallare formalmente la procedura malgrado e in contrasto con la diversa opinione dell’Amministrazione preposta alla tutela degli interessi paesaggistici, con ciò creando i presupposti per attingere il Presidente del Consiglio dei Ministri allo scopo di tentare di dirimere la controversia. 8. Afferma il giudice di prime cure che “in punto di interesse” sarebbe esclusa «comunque la possibilità per la ricorrente di ottenere un provvedimento positivo, potendo lo stesso essere eventualmente espresso solo attraverso il ricorso alla procedura di cui all’art. 5 comma 2 lett. c) bis, la quale è stata attivata dal Ministero intimato». Rileva il Collegio come proprio tale affermazione confermi l’assunto della Società che ravvisa nell’indebita preclusione all’accesso alla procedura la lesione del proprio interesse all’evasione dell’istanza proposta, essendo la stessa, per esplicita ammissione del T.A.R., l’unica residua possibilità di sbocco favorevole del procedimento. E’ vero, infatti, che in presenza di ben due pareri sfavorevoli del MIBACT la VIA non avrebbe potuto essere rilasciata; ma lo è egualmente che ciò non vale in assoluto, bensì solo ove tali indicazioni ostative fossero state confermate e conseguentemente avallate dal Consiglio dei Ministri, eventualmente sollecitato dal Presidente del Consiglio sulla base dei poteri attribuitigli dalla l. n. 400/1988. Come già affermato da questo Consiglio di Stato, dalle cui conclusioni non è ragione di discostarsi, alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. Esso è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, «valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto» (Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652; id., 10 giugno 2013, n. 3205). Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione, il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili (cfr. Corte Cost., 29 dicembre 1982, n. 239; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 10 marzo 1988, n. 302; Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378). Anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale (cfr. Cons. Stato, VI, 23 maggio 2012, n. 3039; id., 15 gennaio 2013, n. 220. L’indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall’essere iscritta dall’art.9 della Costituzione tra i principi fondamentali della Repubblica, è stata più volte affermata anche dalla giurisprudenza costituzionale: cfr. ancora Corte Cost., 27 giugno 1986, n. 151; 5 maggio 1986, n. 182; 10 ottobre 1998, n. 302; 19 ottobre 1992, n. 393; 12 febbraio 1996, n. 2; 28 giugno 2004, n. 196; 29 ottobre 2009, n. 272; 23 novembre 2011, n. 309). 9. Mentre, tuttavia, è sicuramente preclusa all’Amministrazione procedente la possibilità di cercare autonomamente di conciliare l’interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco, compreso quello ambientale appannaggio della Commissione tecnica costituita all’uopo, ciò non vale per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ove venga attivata la procedura prevista dall’art. 5, comma 2, lett. c bis), introdotta nella l. 23 agosto 1988, n. 400 dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303. Nel declinare, infatti, le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 95 della Costituzione, la norma gli attribuisce anche la facoltà di «deferire al Consiglio dei Ministri, ai fini di una complessiva valutazione ed armonizzazione degli interessi pubblici coinvolti, la decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti in ordine alla definizione di atti e provvedimenti». 10. Come anche di recente affermato dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 2 novembre 2017, n. 10936), trattasi di una disciplina generale e ordinaria che, quindi, può essere applicata anche alle ipotesi di contrasto tra Amministrazioni statali, senza che sia necessario alcun espresso richiamo normativo, in questo caso del d.lgs. n.152/2006. Ciò era ritenuto compatibile perfino con la previsione (venuta meno a seguito della già ricordata novella attuata con d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104, recante «Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 9 luglio 2015, n. 114» applicabile ai procedimenti di VIA avviati dopo il 16 maggio 2017), contenuta nell’art. 26, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, di un potere sostitutivo della Presidenza del Consiglio dei Ministri solo nel caso di mancata conclusione del procedimento nei termini prescritti. Tale disposizione aveva come presupposto, infatti, il ritardo nell’attività procedimentale, ma non sostituiva affatto (né poteva impedire l’applicazione del) la disciplina generale della legge n. 400/1988. 11. Nel caso di specie, peraltro, occorre altresì ricordare, rileva ancora la Sezione, che la previsione non costituiva lo sbocco eventuale ed opzionale comunque previsto per qualsivoglia tipologia di procedimento e contrasto tra autorità coinvolte, ma l’indicazione peculiare e specifica in materia di VIA contenuta nell’art. 14 quater della l. n. 241/1990. La norma, che si colloca all’interno della disciplina sulla conferenza dei servizi (pure essa interamente novellata, con riferimento ai procedimenti avviati dopo la sua entrata in vigore, dal d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127), all’originario comma 5, oggi abrogato, sotto la rubrica "Effetti del dissenso espresso nella conferenza dei servizi", prevedeva espressamente che: «Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova applicazione l'articolo 5, comma 2, lettera c-bis), della legge 23 agosto 1988, n. 400, introdotta dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303». 12. In tale cornice si colloca dunque la richiesta che il MATTM ha inteso avanzare con nota prot. 24839 del 16 ottobre 2017, al dichiarato scopo di «giungere alla risoluzione del contrasto insorto tra il parere positivo della [….]Commissione tecnica e quello negativo del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo ». La deliberazione del Consiglio dei Ministri doveva essere sollecitata per superare il contrasto fra il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, individuando, a seguito di un esame delle posizioni espresse dalle competenti amministrazioni contrapposte, le ragioni per le quali in un quadro di complessiva valutazione ed armonizzazione degli interessi pubblici coinvolti, condividere il parere espresso dalla Commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale VIA/VAS ovvero quelle sottese alla valutazione negativa contrapposta, oppure ancora cercare possibili punti di convergenza tra le due posizioni estreme in questione. La scelta del Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri (DICA) che, senza in alcun modo attingere la sfera politica, ha sostanzialmente deciso di “bloccare” in limine l’istanza, ritenendola non esaminabile giusta le preclusioni rivenienti dall’entrata in vigore del d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, si pone pertanto in contrasto con la richiamata cornice normativa. 13. La non facile sintesi fra coordinamento e semplificazione, di fronte alla difficoltà di rinvenire un ordine gerarchico degli interessi normativamente predefinito, si esprime dunque, di regola, in un percorso procedimentale dalla cui disciplina la dottrina ha ricavato, sul piano teorico, la prefigurazione di un peculiare modo di esplicarsi della funzione amministrativa (la c.d. funzione amministrativa conferenziale), che ne caratterizza l’esercizio in un sistema a pluralismo maturo. In tale sistema, tuttavia, l’art. 14 quater, che individuava, mediante rinvio alla richiamata disposizione della l. n. 400/1988, nel vertice dell’apparato amministrativo (nazionale) la figura chiamata a comporre il dissenso, attribuisce ad esso una ponderazione comparativa degli interessi coinvolti, resa possibile dalla collocazione istituzionale dell’organo decidente, il cui orizzonte è tale da poter considerare, in un’ottica di sintesi, tutte le diverse posizioni di interesse (quelle ambientali, paesaggistiche, energetiche, urbanistiche, industriali, ecc.). La disposizione, in altri termini, esprime una tipica regola di sussidiarietà verticale, realizzando un’allocazione del meccanismo di coordinamento che coniuga il profilo dell’attività con quello dell’organizzazione. 14. Dalla sopra richiamata sequenza di atti e dall’esame della documentazione è possibile ritenere che la procedura di VIA all’esame del collegio sia stata indebitamente interrotta dall’ufficio, sulla base di un’autonoma interpretazione della normativa sopravvenuta, con ciò sottraendo la relativa competenza, anche sull’ an della condivisione con il Consiglio dei Ministri, al Presidente del Consiglio, cui la normativa ha inteso attribuirla in esclusiva. La delibazione preliminare da parte del Capo Dipartimento, confluita nella avversata nota del 22 novembre 2017, anziché limitarsi agli aspetti tecnico-gestionali ovvero di completezza documentale, si è sostanzialmente spinta fino al merito del procedimento, ritenendo autonomamente intangibile lo status quo in materia di spazio marittimo, a prescindere, pertanto, dalla peculiarità della situazione concreta, caratterizzata dall’insorgenza di contrasti valutativi tra Amministrazioni coinvolte. Di fatto, cioè, essa si è sovrapposta anche al competente MATTM, che aveva comunque portato avanti il procedimento, malgrado l’entrata in vigore del d.lgs. n. 201/2016. 15. La nota, dunque, dopo aver ricordato il contenuto degli artt. 5 e 6 del d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, conclude affermando che in ragione della sicura incidenza degli emanandi strumenti di pianificazione dello spazio marittimo sulle valutazioni da svolgere nel procedimento in esame, «non sussistono, allo stato attuale, i presupposti per compiere l’istruttoria». L’istruttoria, cioè, non ha dato esiti negativi, per qualsivoglia ragione tecnico-giuridica: semplicemente, si è deciso di non attivarla. Il d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" all’art. 5, comma 1, individua in appositi “piani di gestione” lo strumento attuativo attraverso il quale regolamentare la gestione dello spazio marittimo, distribuendo in termini spaziali e temporali le pertinenti attività e usi delle acque marine, presenti e futuri, avuto riguardo anche ad impianti ed infrastrutture per la produzione di energie da fonti rinnovabili, di interesse nel caso di specie. L’elaborazione dei piani di gestione deve avvenire, sulla base di linee guida redatte da un tavolo interministeriale di coordinamento istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 6), a cura di un Comitato tecnico, allocato invece presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che provvederà avuto riguardo ad ogni area marittima individuata nelle linee guida (art. 7). Il comma 5 dell’art. 5 individua infine nel 31 dicembre 2020 il termine entro il quale i piani di gestione dello spazio marittimo devono essere approvati, anche in tempi diversi, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previo parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Per completezza, la Sezione ricorda come, subito dopo la redazione della nota del 22 novembre 2017, che richiama solo l’avvenuta costituzione del Tavolo interministeriale di lavoro, sia stato pubblicato (G.U. del 24 gennaio 2018, n. 19) il D.P.C.M. del 1° dicembre 2017, di approvazione delle ridette Linee guida. 16. Rileva la Società appellante come la nota del MATTM in data 22 dicembre 2017, accettando acriticamente la ricostruzione ermeneutica degli uffici della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha indebitamente sospeso ad libitum il procedimento, risalente peraltro all’anno 2013, in dispregio delle indicazioni al riguardo rivenienti dalla l. n. 241/1990, ed in particolare dal suo art. 21 quater. L’assunto è fondato, né tale affermazione può essere minimamente incisa dalla diversa qualificazione della nota del DICA come mera declaratoria di improcedibilità, stante che sia tale atto, sia il successivo del MATTM, che su di esso si fonda, producono il dichiarato effetto di arresto della procedura fino all’avvenuta attuazione della prevista pianificazione dello spazio marittimo. In sintesi, ancorché in assenza di qualsivoglia disciplina normativa transitoria, quanto meno in termini di clausola di salvaguardia, si è inteso attribuire alla mera previsione di un potere/dovere di regolamentazione generale delle risorse il significato di blocco totale di qualsivoglia istanza concernente le stesse. Ciò peraltro, rileva ancora la Sezione, sovrapponendosi anche alla competenza del Ministero dell’ambiente che, come già detto al § 14, ove fosse corretta la lettura proposta della norma de qua, non solo non avrebbe dovuto stimolare l’intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ma neppure avrebbe potuto portare avanti l’attività della Commissione tecnica, ingenerando inutili aspettative nel privato, a fronte peraltro di un procedimento protraentesi da anni. In sintesi, essendo il d.lgs. n. 201 del 2016 entrato in vigore il 21 novembre 2016, lo stesso parere della Commissione tecnica di verifica si porrebbe in contrasto con l’improcedibilità delle istanze di utilizzo dello spazio marittimo in quanto rilasciato in epoca successiva, ovvero il 12 maggio 2017. Al contrario, pur nella peculiarità dell’oggetto della nuova tipologia di pianificazione (lo spazio marittimo, appunto, peraltro comunque già interessato da altre tipologie di atti programmatori), essa non assurge ex se a vincolo di inutilizzabilità, ma, al contrario, in un’ottica di affermato coordinamento dei vari livelli di governance già previsti, pare inserirsi armonicamente con gli stessi senza soluzione di continuità. 17. Le linee guida per la pianificazione dello spazio marittimo sono state approvate dopo aver acquisito il parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano e sentita la Conferenza nazionale di coordinamento delle Autorità di sistema portuale, dal “Tavolo interministeriale di coordinamento sulla pianificazione dello spazio marittimo”, appositamente costituito presso il Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri con rappresentanti di diversi ministeri. I Piani dovranno, a cascata, attuarne le indicazioni, sviluppando proposte, direttive e raccomandazioni per un processo operativo e transfrontaliero di pianificazione marittima che, secondo gli obiettivi comunitari, permetta lo sviluppo delle diverse attività marittime, aumenti la fiducia per investimenti in infrastrutture e in altre attività economiche, rispondendo alle peculiarità di ogni area e garantendo prevedibilità, trasparenza e norme più chiare. Ciò anche in relazione all’esigenza di «rafforzare lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e delle relative reti, istituire zone marine protette e agevolare gli investimenti nel petrolio e nel gas», assicurando una «razionale pianificazione localizzativa degli impianti eolici offshore, preventiva rispetto alla assegnazione in concessione degli specchi acquei dedicati ed attenta ai valori paesaggistici costieri»; dunque anche avuto riguardo alla materia specificamente sottesa all’odierna controversia. Nel dettare le indicazioni metodologiche per la loro redazione, le Linee guida ne chiariscono la natura di strumento di primo livello, sovraordinato, cioè, agli ulteriori e previgenti atti di pianificazione della gestione del “territorio marino”, il cui contenuto deve necessariamente confluirvi. A mero titolo di esempio, la Sezione ricorda come entro certi limiti finanche la pianificazione urbanistica può attingere lo specchio acqueo marino antistante il Comune costiero, per cui ne è evidente l’esigenza di coordinamento con i nuovi provvedimenti sovraordinati. In termini più generali, la complessità della rete degli intrecci che potrebbe venire a crearsi è percepibile prima facie dalla semplice lettura dell’elencazione di ridetti strumenti contenuta nell’allegato 4, alla voce “Quadro del sistema di pianificazione nazionale e regionale/locale in Italia”. Tra i piani, cioè, di cui la pianificazione marittima dovrà tener conto rientrano, a mero titolo di esempio, i piani regolatori portuali, i piani paesaggistici, i piani regionali di gestione del demanio marittimo e di zone di mare territoriale adottati da alcune Regioni come forma attuativa, in assenza di disciplina statale, della gestione integrata della zona costiera, o anche i piani attuativi comunali di gestione del demanio marittimo, o i piani comunali di costa adottati, ad esempio, proprio dalla Regione Puglia (v. l.r. Puglia, n. 17/2015). In prima applicazione, essi devono essere inclusi ed armonizzati con le previsioni dei piani di gestione dello spazio marittimo (art. 5, comma 3), cioè non solo “presi in considerazione”, ma più propriamente “inglobati” negli stessi, pur con le modifiche necessarie ad armonizzarli all’indicato livello superiore. Una volta elaborato il piano di gestione dello spazio marittimo, invece, sarà esso a divenire il riferimento per i singoli piani di settore, disegnando la cornice entro la quale questi ultimi potranno collocare i propri obiettivi e le proprie azioni specifiche (cap. 14 delle linee guida). In sintesi, la problematica del rapporto fra piani viene risolta non con la caducazione di tutto il pregresso, bensì sancendo la prevalenza di quello di gestione dello spazio marittimo su tutti gli altri, in conformità con le indicazioni della sottesa direttiva europea, il cui scopo è proprio quello di coordinare più politiche settoriali in un unico atto di gestione, in quanto tale necessariamente “integrato”. Le Linee guida, infine, si preoccupano anche di indicare il livello e le forme di collaborazione tra livelli istituzionali per garantire una sorta di “copianificazione” Stato-Regioni qualora il processo finisca per incidere su materia nella quale queste ultime hanno competenza legislativa esclusiva (come la pesca, il turismo, l’acquacoltura) o concorrente (tra cui, per esempio, il governo del territorio, i porti, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali). Rileva cioè la Sezione che il legislatore, una volta individuato lo strumento utilizzabile e tracciate, con le Linee guida, la metodologia di intervento, ivi compresa tempistica e durata, proprio allo scopo di prevenire futuri possibili contrasti tenta di contestualizzarne il più possibile i contenuti inglobandoli nel tessuto già in essere, ovvero, più correttamente, facendo sì che sia esso ad inglobarlo, avendo ben presente che non si va ad incidere su terreno vergine, ma a razionalizzare strumenti di governo del territorio, lato sensu intesi, secondo obiettivi anche transfrontalieri di nuovo e maggior respiro. 18. L'omessa previsione di una disciplina transitoria, dunque, in ossequio al principio generale di continuità dell'azione amministrativa, non può di per sé comportare la sostanziale paralisi di tutti i procedimenti in corso, dovendo al contrario gli stessi essere definiti secondo le regole preesistenti. Giova in proposito evidenziare che l’art. 5 del d.lgs. n. 201/2016 non prevede misure di salvaguardia in pendenza del procedimento di approvazione dei piani di gestione. 19. Né tale disciplina transitoria, ovvero, peggio ancora, la necessità di paralizzare qualsivoglia intervento sullo spazio marittimo è dato rinvenire nella direttiva 2014/89/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, che il d.lgs. n. 201/2016 ha inteso recepire (cfr. art. 15 della Direttiva 23 luglio 2014, n. 2014/89/UE). Nel richiamare la possibilità che gli Stati membri includano o si basino <<sulla politica nazionale esistente, su regolamenti o meccanismi che sono stati istituiti o erano in corso di istituzione prima dell’entrata in vigore della […] direttiva, a condizione che siano conformi ai requisiti della [..] direttiva>> (art. 4, relativo alla “Elaborazione e attuazione della pianificazione dello spazio marittimo”) si sono egualmente volute salvaguardare le scelte pregresse armoniche al nuovo obiettivo, evitando di creare nell’immediato una “zona bianca” di paralisi delle attività e degli interventi interessanti lo spazio marittimo. 20. D’altro canto, la preoccupazione di non pregiudicare gli obiettivi della futura pianificazione sottesi alla scelta del DICA di non istruire neppure l’istanza di sottoposizione al Presidente del Consiglio, non è affatto pregiudicata dalla contraria (e doverosa) attivazione del procedimento previsto, ma anzi la colloca nel più corretto e consono alveo della decisione di vertice. L’art. 5, comma 2, lett. c bis) della l. n. 400/1988, infatti, non obbliga il Presidente del Consiglio a sottoporre il conflitto al vaglio del Consiglio dei Ministri (“può”, non “deve” disporne la convocazione), né vincola la scelta di quest’ultimo, che resta un atto di alta amministrazione espressione di amplissima discrezionalità amministrativa. Ma non ne è ipotizzabile l’aprioristico mancato coinvolgimento di tali organi per autonoma scelta interpretativa degli uffici preposti all’istruttoria. 21. Con il terzo motivo di gravame la Società lamenta altresì il differimento -rectius, temporanea improcedibilità - ad libitum della definizione del procedimento, che si porrebbe in contrasto con il sistema delineato dalla l. n. 241/1990, di cui l’art. 21 quater, laddove consente la sospensione di un provvedimento solo «per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario» costituirebbe specifica declinazione. Il motivo è fondato. Anche a prescindere dal richiamo alla disciplina dell’art. 21 quater, relativo più propriamente alla sospensione dell’efficacia di un provvedimento, laddove nel caso di specie viene all’evidenza la sospensione del procedimento ex se, come tale non sfociato in alcun provvedimento, per quanto qui rileva l’atto soprassessorio con il quale il MATTM ha rinviato ad un accadimento futuro e incerto almeno nel quando il soddisfacimento dell'interesse pretensivo fatto valere dal privato, costituisce un vero e proprio diniego a provvedere, come tale determinante un arresto a tempo indeterminato del procedimento attivato dal privato, lesivo della posizione giuridica del richiedente (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV, 6 dicembre 2019, n. 8349). L’incertezza, infatti, non viene meno enfatizzando, come tenta di fare la difesa erariale, il termine programmaticamente fissato nel 31 dicembre 2020 per l’adozione dei Piani di gestione: la mancanza di qualsivoglia meccanismo per rendere cogente la norma, ovvero, ancora una volta, di qualsivoglia indicazione intertemporale sugli effetti del superamento del termine indicato sulla disciplina concretamente applicabile, non ne consentono la connotazione in termini di certezza, tanto più che nel caso di specie, come reiteratamente ricordato, la vicenda trae origine da un’istanza risalente addirittura all’anno 2013. 22. In sintesi, a fronte della riconosciuta possibilità, vigente ratione temporis, di superare il dissenso insorto in sede di VIA ricorrendo al potere “conciliativo” del Consiglio dei Ministri, ove sollecitato in tal senso dal Presidente del Consiglio, la decisione, unilateralmente assunta in fase istruttoria -rectius, preistruttoria- di non consentire neppure l’accesso a tale rimedio, si palesa illegittima, non trovando giustificazione in alcuna indicazione normativa al riguardo. La disciplina del d.lgs. n.201/2016, infatti, si limita ad individuare nei Piani di gestione lo strumento di coordinamento e concreta realizzazione degli obiettivi europei di un approccio integrato, coordinato e transfrontaliero della pianificazione marittima, senza tuttavia imporre la totale paralisi del settore nelle more della sua attuazione, ma se mai suggerendo una lettura eurounitariamente orientata della disciplina pianificatoria previgente applicabile ai singoli casi di specie. 23 Per tutto quanto sopra, pertanto, l’appello deve essere accolto, e, conseguentemente annullata, nei sensi di cui in motivazione, la sentenza 1358/2018 del T.A.R. per la Puglia. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso. 24. La complessità della vicenda, dimostrata anche dalle vicende processuali riassunte in fatto, giustifica la compensazione delle spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla la sentenza del T.A.R. per la Puglia n.r.g. 168/2018, nei sensi di cui in motivazione. Spese del grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Paolo Troiano, Presidente Leonardo Spagnoletti, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Paolo Troiano, Presidente Leonardo Spagnoletti, Consigliere Daniela Di Carlo, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Demanio – Demanio marittimo - Piani di gestione - Art. 5, comma 1, d.lgs. n. 201 del 2016 – Disciplina transitoria – Omessa previsione - Conseguenza.   Ambiente – Valutazione impatto ambientale - Contrasto tra amministrazioni – Conseguenza.   Ambiente – Tutela - Interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco – Fondamenta.         Il d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" all’art. 5, comma 1, ha previsto l’adozione di appositi “piani di gestione”, da approvare entro il 31 dicembre 2020,  per regolamentare la gestione dello spazio marittimo, distribuendo in termini spaziali e temporali le pertinenti attività e usi delle acque marine, presenti e futuri, avuto riguardo anche ad impianti ed infrastrutture per la produzione di energie da fonti rinnovabili; l'omessa previsione di una disciplina transitoria, tuttavia, in ossequio al principio generale di continuità dell'azione amministrativa, non può di per sé comportare la sostanziale paralisi di tutti i procedimenti in corso, dovendo al contrario gli stessi essere definiti secondo le regole preesistenti (1).            In caso di contrasto tra amministrazioni nell’ambito di un procedimento di VIA/VAS è dunque sempre possibile attivare il rimedio generale previsto dall’art. 5, comma 2, lett. c bis), introdotto nella l. 23 agosto 1988, n. 400 dal d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303. Nel declinare, infatti, le prerogative del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 95 Cost., la norma gli attribuisce anche la facoltà di «deferire al Consiglio dei Ministri, ai fini di una complessiva valutazione ed armonizzazione degli interessi pubblici coinvolti, la decisione di questioni sulle quali siano emerse valutazioni contrastanti tra amministrazioni a diverso titolo competenti in ordine alla definizione di atti e provvedimenti». La norma peraltro  non obbliga il Presidente del Consiglio a sottoporre il conflitto al vaglio del Consiglio dei Ministri (“può”, non “deve” disporne la convocazione), né vincola la scelta di quest’ultimo, che resta un atto di alta amministrazione espressione di amplissima discrezionalità amministrativa (2).         É preclusa all’Amministrazione procedente la possibilità di cercare autonomamente di conciliare l’interesse paesaggistico con gli altri interessi in gioco, compreso quello ambientale appannaggio della Commissione tecnica costituita ai sensi dell’art. 7, d.l. 23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio 2008, n. 123 all’uopo; la funzione di tutela del paesaggio, infatti, è estranea a ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione; tale regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost., il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili; anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale (3). (1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della mancata adozione dei nuovi strumenti di pianificazione dello “spazio marittimo” previsti dal d.lgs. 17 ottobre 2016, n. 201, recante "Attuazione della direttiva 2014/89/UE che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo" e denominati “Piani di gestione”. Dopo averne ricordato  il procedimento -l’elaborazione dei piani di gestione deve avvenire, sulla base di linee guida redatte da un tavolo interministeriale di coordinamento istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri , a cura di un Comitato tecnico, allocato invece presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, che provvederà avuto riguardo ad ogni area marittima individuata nelle linee guida- esamina le conseguenze della mancata previsione di una disciplina transitoria applicabile nelle more della loro adozione. Essa non può risolversi nella sostanziale paralisi dei procedimenti in corso, dovendo gli stessi continuare ad essere esaminati sulla base delle regole vigenti.    (2) Tra tali regole si colloca anche il doveroso coinvolgimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ciò anche in ragione dell’esplicito rinvio in tal senso contenuto nell’art. 14 quater, l. n. 241 del 1990 che, nel dettare a livello generale regole sulla conferenza dei servizi (istituto interamente novellato, con riferimento ai procedimenti avviati dopo la sua entrata in vigore, dal d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127), all’originario comma 5, oggi abrogato, sotto la rubrica "Effetti del dissenso espresso nella conferenza dei servizi", prevedeva espressamente che: «Nell'ipotesi in cui l'opera sia sottoposta a VIA e in caso di provvedimento negativo trova applicazione l'art. 5, comma 2, lett. c-bis), l. 23 agosto 1988, n. 400, introdotta dall'articolo 12, comma 2, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303».     (3)  E’ per contro escluso che il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, competente al rilascio del provvedimento di VIA, da adottare “di concerto” con il MIBACT, sulla base delle disposizioni del Capo IV del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella versione applicabile, come nel caso di specie, ai procedimenti avviati prima del 16 maggio 2017, giusta la previsione in tal senso contenuta nell’art. 23, d.lgs. 16 giugno 2017, n. 104, di recepimento della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, possa autonomamente bilanciare i contrapposti interessi in gioco, operando una propria mediazione rispetto a quello paesaggistico. Alla funzione di tutela del paesaggio, infatti (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione. Esso è atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, «valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto» (Cons. St., sez. VI, 23 luglio 2015, n. 3652; id. 10 giugno 2013, n. 3205). Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione, il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili (Corte Cost. 29 dicembre 1982, n. 239; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 10 marzo 1988, n. 302; Cons. St., sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2378).
Ambiente
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Opposizione alla richiesta di discussione orale della causa
N. 00301/2020 REG.PROV.PRES. N. 04073/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 4073 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da Società Agricola Agribio di Chianese Pietro S.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Somma, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Teverola, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pasquale Mastellone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Campania in persona del Presidente pro tempore, Camera di Commercio di Caserta non costituiti in giudizio; Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: per l'annullamento dell’ordinanza n. 16 del 9/10/2019 a firma del Responsabile dell’Area Tecnica Suap; dei richiamati verbali n. 4/19 e n. 3/19 della Polizia Municipale; degli atti preordinati, connessi e consequenziali. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da SOCIETÀ AGRICOLA AGRIBIO DI CHIANESE PIETRO S.A.S. il 9\1\2020 : avverso gli stessi atti già gravati nel ricorso principale Sulla richiesta del resistente depositata in data 1.6.2020, avente ad oggetto opposizione alla istanza di discussione da remoto presentata da parte ricorrente il 19.5.2020 Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della resistente amministrazione; Visti gli articoli 84 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28; Visto il decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 134 del 22 maggio 2020, recante “Regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico, nonché per la sperimentazione e la graduale applicazione dei relativi aggiornamenti”; Rilevato che per la trattazione del presente ricorso è fissata l’udienza pubblica del 9 giugno 2020; Letta l’istanza depositata in data 19 maggio 2020 con cui il ricorrente ha chiesto che la causa sia discussa oralmente mediante collegamento da remoto ai sensi dell’articolo 4 co 1 del DL n. 28 /2020; Visto l’atto di opposizione depositato dalla difesa del Comune resistente in data 1 giugno 2020; Rilevato che l’atto, pur veicolato nel canale “opposizione ex DL n. 28“, enuncia un contenuto sostanziale dissonante da tale qualificazione : ed invero è intitolato “istanza di passaggio in decisione“, si limita a dichiarare di “non aderire“ all’istanza di parte ricorrente, chiedendo il passaggio in decisione, con riserva di depositare eventuali note integrative; Ritenuto che, in prima istanza , l’atto va inteso secondo il proprio tenore letterale e logico quale richiesta di passaggio in decisione da parte del resistente senza discussione orale; Considerato che, anche qualora residui nell’atto un contenuto oppositivo, nella parte in cui esprime la non adesione all’istanza di parte ricorrente, le ragioni rappresentate non sono idonee a privare la difesa istante della facoltà di discussione orale; ed invero il paradigma normativo , delineato dal DL n. 28 /2020 e dal DPCS n.134 /2020 , consente alla parte non istante la facoltà di opposizione, che non paralizza ex se la richiesta di discussione da remoto, ma deve essere delibata dal Presidente del Collegio, con riferimento a fattori enucleabili dal sistema della normativa non solo emergenziale, ma attraverso il rinvio alle norme ordinarie delle quali le disposizioni del detto decreto legge sono un adattamento tecnologico; Ritenuto al riguardo che l’istituto dell’opposizione alla discussione orale, avente carattere straordinario in quanto non previsto nel sistema processuale del cpa, sia di stretta interpretazione e pertanto possa essere positivamente apprezzabile solo con riguardo ad esigenze di sicurezza e funzionalità del sistema informatico ( che nella specie non si prefigurano) , ovvero ad oggettive esigenze difensive , da esplicitarsi adeguatamente; Considerato che a tali effetti non si presentano meritevoli di apprezzamento le motivazioni riferite alla copiosità della documentazione versata in atti ed alla ampiezza del contraddittorio scritto già espletato, in tal senso manifestando ex latere del resistente la superfluità della discussione orale; mentre le ragioni a sostegno della istanza del ricorrente si presentano adeguatamente motivate, facendo riferimento alla “ molteplicità e complessità delle questioni che hanno scandito il contraddittorio con l’Amministrazione resistente”; Ritenuto pertanto di disporre la discussione del presente ricorso con modalità da remoto ai sensi dell’articolo 4 co 1 del DL n. 28 del 2020; Rilevato che le parti che non intendono intervenire alla discussione potranno depositare note fino alle ore 9:00 del giorno dell’udienza pubblica (9 giugno 2020); P.Q.M. Dispone che la discussione del presente ricorso , fissata all’udienza pubblica del 9 giugno 2020 , avvenga con modalità da remoto. Manda alla Segreteria per la comunicazione del presente decreto ai procuratori delle parti ai sensi dell’articolo 2 co. 5 DPCS n. 134 del 22 maggio 2020, del giorno e dell’ora del collegamento da remoto in video conferenza. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Napoli il giorno 4 giugno 2020. IL SEGRETARIO
Processo amministrativo - Covid-19 – Udienza cautelare e di merito – Richiesta di discussione da remoto dell’avvocato di una parte – Opposizione di un avvocato – Accoglimento – Presupposti – Individuazione.             Va respinta l’opposizione alla richiesta di discussione orale della causa l’istituto dell’opposizione alla discussione orale ex art. 4, d.l. n. 28 del 2000 in quanto, avendo carattere straordinario perchè non prevista nel sistema processuale del codice del processo amministrativo, è di stretta interpretazione e pertanto può essere positivamente apprezzata solo con riguardo ad esigenze di sicurezza e funzionalità del sistema informatico, ovvero ad oggettive esigenze difensive, da esplicitarsi adeguatamente (1).   (1) E’ stato rilevato che non appaiono meritevoli di apprezzamento le motivazioni riferite alla copiosità della documentazione versata in atti ed alla ampiezza del contraddittorio scritto già espletato, in tal senso manifestando ex latere del resistente la superfluità della discussione orale.
Processo amministrativo
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Ricusazione di giudice relatore di causa pendente al C.g.a. designato dalla Regione e retribuito dalla stessa
N. 00038/2022 REG.PROV.COLL. N. 01287/2021 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 1287 del 2021, proposto da -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Daniele Cutolo, Patrizio Messina, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato-OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Regione Siciliana - Assessorato Regionale Energia e Servizi di Pubblica Utilita' - Dipartimento Ener, Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, Regione Siciliana - Ispettorato Agricoltura Enna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6; nei confronti Regione Siciliana - Presidenza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, n. 6; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di -OMISSIS- e di Regione Siciliana - Presidenza e di Regione Siciliana - Assessorato Regionale Energia e Servizi di Pubblica Utilita' - Dipartimento Ener e di Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea e di Regione Siciliana - Ispettorato Agricoltura Enna; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 il Pres. Rosanna De Nictolis; Vista l’istanza di ricusazione proposta prima dell’udienza; vista la decisione, già presa in via di urgenza ai sensi dell’art. 18 comma 4 c.p.a., di manifesta infondatezza dell’istanza di ricusazione e la successiva ordinanza cautelare; Visto l’art. 18 comma 5 c.p.a. e udito il magistrato ricusato, Rilevato e ritenuto che: 1) l’istanza di ricusazione del giudice relatore cons. Caleca si fonda sulla circostanza che lo stesso, essendo stato designato dalla Regione e retribuito dalla stessa, non potrebbe trattare le cause di cui è parte la Regione; e inoltre, essendo stato Assessore all’agricoltura non potrebbe trattare cause in cui è parte detto Assessorato; 2) l’istanza è manifestamente infondata e dilatoria, non adducendo alcuna delle cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c., alla luce delle considerazioni che seguono: a) i giudici “laici” del CGARS non sono nominati dalla Regione, che si limita a designarli, ma dal Presidente della Repubblica, a seguito di un parere vincolante dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa; b) in ogni caso la designazione dei giudici “laici” da parte della Regione non determina nessun dovere, in astratto e di per sé sola, di astensione dalle cause in cui è parte la Regione stessa; seguendo tale ragionamento, nessun giudice ordinario potrebbe trattare le cause in cui è parte il Ministero della giustizia, che concorre al procedimento di nomina; nessun giudice “laico” del Consiglio di Stato potrebbe trattare le cause della Presidenza del Consiglio dei ministri che concorre nel procedimento di designazione; nessun giudice “laico” designato dalle province autonome di Trento e di Bolzano potrebbe mai trattare le cause in cui è parte la relativa Provincia (artt. 1 e 2 d.P.R. n. 426/1984); c) inoltre, presso il CGARS, il collegio giudicante deve essere necessariamente composto con la partecipazione di due giudici “laici”; essendo tutti i giudici laici designati dalla Regione, a seguire il ragionamento della parte ricusante, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti nelle cause in cui è parte la Regione, perché nessun giudice laico potrebbe farne parte (analogamente, nei collegi del Tar di Trento e della sezione autonoma di Bolzano, a partecipazione necessaria dei laici designati dalle rispettive Province autonome, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti se i relativi giudici laici dovessero astenersi dal trattare le cause in cui è parte la Provincia); d) né può rilevare la distinzione tra componente del collegio e giudice relatore, perché le cause di ricusazione e astensione si applicano a tutti i componenti del collegio e non solo ai giudici relatori; e) la “garanzia di indipendenza e imparzialità” dei giudici “laici” è assicurata dai rigorosi requisiti di legge prescritti e dal complesso procedimento di nomina in cui da un lato interviene un parere vincolante dell’organo di autogoverno che oltre a verificare il possesso dei requisiti formali, accerta la piena attitudine allo svolgimento imparziale delle funzioni, e dall’altro lato la nomina avviene con decreto del Presidente della Repubblica; oltre che dalla circostanza fattuale che il “mandato” del giudice laico eccede quello del governo regionale che lo designa, e non è automaticamente prorogabile; la previsione normativa dei giudici “laici” ha già superato positivamente il vaglio della Corte costituzionale; f) il procedimento descritto sub e) garantisce che la persona “designata dalla Regione” dopo la nomina a magistrato non ha alcun legame con la Regione sussumibile sotto l’art. 51 c.p.c. per il solo fatto della precedente designazione; mentre eventuali e diversi legami riconducibili all’art. 51c.p.c. devono essere specificamente provati da chi li eccepisce; g) nemmeno rileva il rapporto di credito-debito inerente il pagamento dello stipendio del giudice laico (che in ogni caso non è a totale carico della Regione, ma solo nella misura del 50%); così ragionando, nessun giudice della Repubblica italiana potrebbe decidere le cause in cui sono parti il Ministero della giustizia, o dell’economia, o la P.C.M., quali soggetti erogatori della retribuzione dei magistrati o comunque partecipanti alla loro determinazione; non è questo il rapporto di credito-debito cui si riferisce l’art. 51 c.p.c.; le sezioni unite della Cassazione hanno statuito che la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore [Cass., sez. un., 11.4.2012 n 5701]; h) la circostanza che il consigliere relatore sia stato, in anni risalenti a prima della nomina a magistrato, Assessore all’agricoltura non determina di per sé sola un obbligo di astensione sulle cause di cui sia parte detto Assessorato, in difetto di impugnazione di atti di tale Assessorato a cui il consigliere Caleca abbia concorso in veste di Assessore; i) in definitiva la parte adduce argomenti generici non indicando e provando nessuna ragione specifica di astensione obbligatoria ai sensi dell’art. 51 c.p.c.; 3) si deve pertanto confermare la decisione sommaria, presa ai sensi dell’art. 18 comma 4 c.p.a., di manifesta infondatezza dell’istanza di ricusazione; 4) ai sensi dell’art. 18 comma 7 c.p.a., le spese dell’incidente di ricusazione seguono la relativa soccombenza e sono poste a carico della parte ricusante e a favore della controparte nella misura di euro mille complessivi; 5) una istanza di ricusazione manifestamente infondata basata non su fatti specifici ma finalizzata a mettere in discussione la formazione istituzionale del Collegio nel rispetto delle norme vigenti (che hanno superato indenni il vaglio di costituzionalità) costituisce violazione dei doveri di lealtà processuale e di economia dei mezzi e risorse processuali, e, comportando per questo un indebito quanto evitabile intralcio alla giustizia, merita la sanzione pecuniaria nel massimo di legge di euro 500 in favore dell’Erario. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull’istanza di ricusazione ai sensi dell’art. 18 comma 5 c.p.a., la respinge. Condanna la parte soccombente alle spese dell’incidente di ricusazione nella misura di euro 1000 complessivi, a favore dell’altra parte. Condanna la parte ricusante al pagamento a favore dell’Erario di una sanzione pecuniaria nella misura di euro 500 e manda alla Segreteria per la riscossione. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità di parte appellante, nonché delle parti appellate persone fisiche e del loro difensore. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 12 gennaio 2022 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente, Estensore Raffaele Prosperi, Consigliere Marco Buricelli, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Giovanni Ardizzone, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente, Estensore Raffaele Prosperi, Consigliere Marco Buricelli, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Giovanni Ardizzone, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo – Astensione e ricusazione – Causa pendente al C.g.a. - Giudice relatore designato dalla Regione e retribuito dalla stessa – Reiezione - Ratio.              Deve essere respinta l’istanza di ricusazione del giudice relatore del Collegio decidente una causa incardinata al Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, che si fonda sulla circostanza che lo stesso, essendo stato designato dalla Regione e retribuito dalla stessa, non potrebbe trattare le cause di cui è parte la Regione ed essendo stato Assessore all’agricoltura non potrebbe trattare cause in cui è parte detto Assessorato, non essendo addotta alcuna delle cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c. (1).    L’ordinanza ha escluso la sussistenza di cause di astensione obbligatoria del giudice previste dall’art. 51 c.p.c., sul rilievo che: a) i giudici “laici” del CGARS non sono nominati dalla Regione, che si limita a designarli, ma dal Presidente della Repubblica, a seguito di un parere vincolante dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa; b) in ogni caso la designazione dei giudici “laici” da parte della Regione non determina nessun dovere, in astratto e di per sé sola, di astensione dalle cause in cui è parte la Regione stessa; seguendo tale ragionamento, nessun giudice ordinario potrebbe trattare le cause in cui è parte il Ministero della giustizia, che concorre al procedimento di nomina; nessun giudice “laico” del Consiglio di Stato potrebbe trattare le cause della Presidenza del Consiglio dei ministri che concorre nel procedimento di designazione; nessun giudice “laico” designato dalle province autonome di Trento e di Bolzano potrebbe mai trattare le cause in cui è parte la relativa Provincia (artt. 1 e 2, d.P.R. n. 426 del 1984); c) presso il C.g.a., il collegio giudicante deve essere necessariamente composto con la partecipazione di due giudici “laici”; essendo tutti i giudici laici designati dalla Regione, a seguire il ragionamento della parte ricusante, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti nelle cause in cui è parte la Regione, perché nessun giudice laico potrebbe farne parte (analogamente, nei collegi del Tar di Trento e della sezione autonoma di Bolzano, a partecipazione necessaria dei laici designati dalle rispettive Province autonome, sarebbe impossibile formare i collegi giudicanti se i relativi giudici laici dovessero astenersi dal trattare le cause in cui è parte la Provincia); d) non può rilevare la distinzione tra componente del collegio e giudice relatore, perché le cause di ricusazione e astensione si applicano a tutti i componenti del collegio e non solo ai giudici relatori; e) la “garanzia di indipendenza e imparzialità” dei giudici “laici” è assicurata dai rigorosi requisiti di legge prescritti e dal complesso procedimento di nomina in cui da un lato interviene un parere vincolante dell’organo di autogoverno che oltre a verificare il possesso dei requisiti formali, accerta la piena attitudine allo svolgimento imparziale delle funzioni, e dall’altro lato la nomina avviene con decreto del Presidente della Repubblica; oltre che dalla circostanza fattuale che il “mandato” del giudice laico eccede quello del governo regionale che lo designa, e non è automaticamente prorogabile; la previsione normativa dei giudici “laici” ha già superato positivamente il vaglio della Corte costituzionale; f) il procedimento descritto sub e) garantisce che la persona “designata dalla Regione” dopo la nomina a magistrato non ha alcun legame con la Regione sussumibile sotto l’art. 51 c.p.c. per il solo fatto della precedente designazione; mentre eventuali e diversi legami riconducibili all’art. 51 c.p.c. devono essere specificamente provati da chi li eccepisce; g) nemmeno rileva il rapporto di credito-debito inerente il pagamento dello stipendio del giudice laico (che in ogni caso non è a totale carico della Regione, ma solo nella misura del 50%); così ragionando, nessun giudice della Repubblica italiana potrebbe decidere le cause in cui sono parti il Ministero della giustizia, o dell’economia, o la P.C.M., quali soggetti erogatori della retribuzione dei magistrati o comunque partecipanti alla loro determinazione; non è questo il rapporto di credito-debito cui si riferisce l’art. 51 c.p.c.; le sezioni unite della Cassazione hanno statuito che la dipendenza del giudice dallo Stato non gli inibisce la trattazione di controversie in cui sia parte quest'ultimo, o altro ente pubblico cui egli sia collegato per ragioni di residenza (ad esempio comune) o di utenza (azienda erogatrice di servizi pubblici), non essendo credibile in queste fattispecie che il giudice sia portato ad avvantaggiare o danneggiare, a seconda dei casi, il proprio debitore o creditore [Cass., sez. un., 11 aprile 2012, n. 5701]; h) la circostanza che il consigliere relatore sia stato, in anni risalenti a prima della nomina a magistrato, Assessore all’agricoltura non determina di per sé sola un obbligo di astensione sulle cause di cui sia parte detto Assessorato, in difetto di impugnazione di atti di tale Assessorato a cui il relatore abbia concorso in veste di Assessore. 
Processo amministrativo
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Legittima la captivazione dell’orso se pericoloso
N. 00571/2021REG.PROV.COLL. N. 06085/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6085 del 2020, proposto dalla signora Piera Rosati, nella qualità di legale rappresentante dell’associazione denominata Lega Nazionale per la Difesa del Cane Animal Protection, rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo Emilio Letrari e Michele Pezone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro la Provincia Autonoma di Trento, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo Stella Richter, Nicolò Pedrazzoli e Marialuisa Cattoni, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Stella Richter, in Roma, viale Giuseppe Mazzini, n. 11, per la riforma della sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 62 del 12 maggio 2020, notificata in data 28 maggio 2020, con la quale è stato dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso avverso i provvedimenti contingibili e urgenti del Presidente della Provincia Autonoma di Trento di intervento di rimozione di un orso pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione della Provincia Autonoma di Trento; Viste le memorie depositate dalla Provincia Autonoma di Trento in date 9 novembre 2020, 19 novembre 2020 e 7 dicembre 2020; Viste le memorie depositate dalla signora Piera Rosati in date 9 novembre 2020 e 7 dicembre 2020; Vista l’istanza di ricusazione depositata dalla Provincia Autonoma di Trento in data 13 novembre 2020; Vista la rinuncia alla domanda di ricusazione, depositata dalla Provincia Autonoma di Trento in data 30 novembre 2020; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del giorno 10 dicembre 2020, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Giulia Ferrari e uditi altresì i difensori presenti delle parti in causa, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. In data 1° luglio 2019, il Presidente della Provincia Automa di Trento ha emesso il provvedimento contingibile e urgente (prot. n. 415057), avente ad oggetto un intervento di rimozione di un orso pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Le ragioni di pubblica sicurezza che hanno portato alla adozione di tale provvedimento sono da ricondurre al comportamento dell’esemplare di orso denominato M49 e, in particolare, ai tentativi di intrusione in abitazioni di montagna e in strutture frequentate stagionalmente per attività zootecniche dallo stesso esemplare, tentati o portati a compimento, e all’intensificazione di tali comportamenti problematici, testimoniata da ben 14 tentativi di intrusione, tra i quali è risultato particolarmente rilevante l’episodio di contatto ravvicinato con un pastore in data 17 giugno 2019. A fronte di tali circostanze è stata ordinata la rimozione dell’orso, mediante cattura per captivazione permanente in area a ciò autorizzata, secondo quanto previsto dalla lettera j) del Piano d’Azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (denominato Pacobace). In data 22 luglio 2019, il Presidente della Provincia autonoma di Trento ha emesso un ulteriore provvedimento di intervento di rimozione dell’orso (prot. n. 458990), con il quale è stata richiamata e confermata la precedente ordinanza ed è stato, altresì, ordinato di procedere all’abbattimento, qualora si fossero verificare situazioni che, in relazione al comportamento assunto da M49, avrebbero potuto determinare un pericolo grave ed imminente per l’incolumità di terzi o degli stessi operatori del Corpo Forestale trentino. Tale ulteriore provvedimento ha rilevato che la pericolosità dell’orso M49 sarebbe stata confermata dalla circostanza che, nella notte tra il 14 e il 15 luglio 2019, l’esemplare è stato catturato e trasportato in un recinto per il contenimento di orsi in captivazione e, dopo circa due ore, lo stesso è fuggito, sfondando e superando 4 recinzioni elettrificate a 7000 V, l’ultima delle quali alta 4,5 metri. Prima di effettuare la procedura d’urgenza, il Presidente della Provincia ha attivato la procedura ordinaria chiedendo al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, attraverso l’invio di più note, l’autorizzazione alla rimozione dell’animale. Il Ministero, con nota del 17 maggio 2019, ha negato l’autorizzazione sulla base dei pareri del 2 aprile 2019 e del 6 maggio 2019 dell’Ispra. L’Ispra si è, altresì, espresso con parere del 13 giugno 2019 e, da ultimo, con parere del 1° luglio 2019, riconoscendo la limitata elusività mostrata dall’animale nei più recenti episodi e i rischi significativi per la sicurezza dell’uomo. 2. Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, la signora Rosati, in qualità di legale rappresentante dell’associazione denominata Lega Nazionale per la Difesa del Cane Animal Protection, ha impugnato le suddette ordinanze contingibili e urgenti, lamentando la violazione di obblighi di trasparenza e pubblicità da parte dell’amministrazione, il difetto di istruttoria e di motivazione e lo sviamento del potere di adozione di ordinanze contingibili e urgenti. 3. Con sentenza n. 62 del 12 maggio 2020, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento ha dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse sul presupposto che, in prossimità dell’udienza di merito e, precisamente, il 28 aprile 2020, l’orso M49 è stato catturato e rinchiuso nell’area faunistica in località Casteller. Il primo giudice, al limitato fine di valutare la c.d. soccombenza virtuale per la regolazione delle spese di lite, ha, altresì, dichiarato infondate le censure mosse da parte ricorrente. 4. La citata sentenza n. 62 del 12 maggio 2020 è stata impugnata dalla signora Rosati con appello notificato il 23 luglio 2020 e depositato il successivo 27 luglio, riproducendo sostanzialmente le censure non accolte in primo grado e ponendole in chiave critica rispetto alla sentenza avversata. In particolare, il primo giudice avrebbe errato: a) nel definire il giudizio con una dichiarazione di improcedibilità. Con le impugnate ordinanze contingibili e urgenti il Presidente della Provincia di Trento ha disposto la rimozione dell’orso mediante cattura ai fini della captivazione permanente, misura che possiederebbe i caratteri della reversibilità sicché, una eventuale pronuncia di illegittimità dell’ordine di captivazione permanente determinerebbe la reintroduzione dell’animale nel suo habitat naturale ed in stato di libertà. Inoltre, la pronuncia di merito di questo Giudice potrebbe conformare il futuro esercizio dell’azione amministrativa; b) nel ritenere che la mancata indicazione del costo previsto degli interventi e del costo effettivo sostenuto dall’amministrazione per la cattura e la captivazione permanente dell’orso non inciderebbe sulla legittimità delle due ordinanze avversate. Al contrario, l’amministrazione avrebbe in tal modo violato l’obbligo di motivazione rafforzata e avrebbe impedito di esaminare gli interessi coinvolti al fine di stabilire se la Provincia avrebbe potuto/dovuto agire diversamente, privilegiando lo strumento perequativo del risarcimento dei danni provocati dall’orso agli allevatori, piuttosto che destinare risorse economiche, anche maggiori, alla cattura e al mantenimento in cattività dell’animale; c) nel non ritenere sussistente lo sviamento del potere di ordinanza ove, per contro, l’amministrazione avrebbe seguito le “vie brevi” dell’ordinanza contingibile e urgente, senza optare per la procedura ordinaria (di cui al combinato disposto dell’art. 19, l. n. 157 del 1992 e dell’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997), in assenza di un pericolo attuale ed imminente per la pubblica incolumità. 5. Si è costituita in giudizio la Provincia Autonoma di Trento, che ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, dell’appello. 6. Con istanza depositata in data 13 novembre 2020 la Provincia Autonoma di Trento ha ricusato il Presidente del Collegio decidente. Il successivo 30 novembre 2020 la Provincia ha rinunciato alla domanda di ricusazione. 7. Alla udienza del 10 dicembre 2020, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Come esposto in narrativa, oggetto della controversia sono le ordinanze contingibili e urgenti, adottate in date 1° luglio 2019 e 22 luglio 2019 dal Presidente della Giunta provinciale della Provincia autonoma di Trento, ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e dell’art. 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige 4 gennaio 1993, n. 1, con le quali: in data 1° luglio è stato ordinato, al Servizio foreste e fauna, di procedere, tramite il personale del Corpo forestale trentino, alla rimozione di un esemplare di orso bruno (denominato orso M49) mediante cattura per captivazione permanente in un’area a ciò autorizzata (ai sensi della lettera j del Pacobace); il successivo 22 luglio è stato rinnovato l’ordine - a seguito della cattura ed immediata fuga, avvenute entrambe nella notte tra il 14 e il 15 luglio 2019, dell’animale dal recinto per il contenimento di orsi in captivazione situato in località Casteller ove era stato rinchiuso - confermando ed integrando la precedente disposizione del 1° luglio 2019 e prevedendo altresì di procedere all’abbattimento dell’orso in presenza di situazioni che, in relazione al comportamento assunto dallo stesso, potevano determinare ulteriore pericolo grave ed imminente per l’incolumità di terzi o degli stessi operatori forestali. L’appello è stato proposto dalla signora Piera Rosati, nella dichiarata qualità di legale rappresentante della Lega Nazionale per la Difesa del Cane Animal Protection, per l’annullamento della sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 62 del 12 maggio 2020, che ha dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, e comunque infondato nel merito, il ricorso proposto per l’annullamento di entrambe le ordinanze. 2. Con istanza depositata in data 13 novembre 2020 la Provincia Autonoma di Trento ha ricusato il Presidente del Collegio designato per la decisione del merito della causa. Il successivo 30 novembre 2020 la Provincia ha rinunciato alla domanda di ricusazione. Tale rinuncia è stata motivata dalla circostanza che lo stesso 13 novembre la Provincia aveva depositato due analoghe domande di ricusazione in relazione agli appelli nn. 7812/20 e 8025/20, proposti, rispettivamente, dall’ENPA onlus e altri e dalla LEAL onlus e altri, avverso le ordinanze cautelari del Trga Trento nn. 41/20 e 42/20. Con ordinanze collegiali nn. 7507/20 e 7508/20 del 27 novembre 2020, tali ultime due domande di ricusazione sono state respinte e presumibilmente la stessa sorte avrebbe avuto la domanda di ricusazione proposta nel presente giudizio, essendo di analogo contenuto rispetto a quelle depositate nei giudizi nn. 7812/20 e 8025/20 e fondata sui medesimi presupposti. 3. Il Collegio ritiene di prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità del deposito, effettuato dall’appellante il 7 dicembre 2020, delle note di udienza e dei documenti, sollevata dalla Provincia di Trento, non essendo gli stessi rilevanti al fine del decidere. Il Collegio ritiene altresì di poter prescindere dal porsi d’ufficio la questione relativa all’ammissibilità dell’appello, essendo lo stesso infondato nel merito. La questione – che è comunque di non poco peso – è legata ai seri dubbi in ordine alla legittimazione ad agire della Lega Nazionale per la Difesa del Cane Animal Protection, considerato che, dall’esame del relativo Statuto, si ricava che tutte le iniziative (art. 2: “Scopi sociali”) sono essenzialmente rivolte a tutela dei cani. Né sembra possibile radicare tale legittimazione nella previsione del punto a) del citato art. 2 che, tra gli obiettivi della Associazione individua anche “creare un movimento di opinione pubblica in favore degli animali in genere e del cane in particolare, illustrando ciò che il cane dà agli uomini sul piano pratico ed affettivo ed il dovere degli uomini di trattare i cani con comprensione ed umanità”. Anche in questo caso, infatti, pare labile l’accenno agli animali in genere (per far così rientrare, tra questi, l’orso), facendo il punto a) riferimento soprattutto ai cani; in ogni caso la previsione è limitata ad un “movimento di sensibilizzazione”. Infine, se è vero che sempre all’art. 2 si premette che la Lega Nazionale per la Difesa del Cane Animal Protection persegue i propri fini postulando e diffondendo l’unitarietà dei fondamentali valori naturalistici, ecologici, ambientali, ecc. (e su questo in primo grado la Lega ha radicato la propria legittimazione) pare doversi ritenere che con la locuzione “suoi fini” si fa sempre riferimento alla tutela del cane, che è la mission della Lega. Giova aggiungere, ed il rilievo assumerebbe carattere assorbente, che a tutto voler concedere, e cioè anche ammettendo una tutela estesa a tutti gli animali, certo è che il primo ad essere oggetto di tale tutela sarebbe il cane, che potrebbe peraltro trovarsi esso stesso in pericolo nel caso in cui, come affermato dal Presidente della Provincia Automa di Trento nelle ordinanze contingibili e urgenti del 1° luglio 2019 e del 22 luglio 2019, l’orso M49 attacchi uomini e animali, e dunque anche i cani. Di qui l’evidente conflitto di interesse in capo all’appellante che da un lato ha come proprio fine statutario la tutela dei cani e, dall’altro, agisce in giudizio a difesa di un’altra specie animale che potrebbe attaccare ed uccidere proprio i cani. Il Collegio esclude peraltro di concludere con una decisione in rito, atteso che la delicatezza delle questioni sottese alla res litigiosa induce ad affrontare il merito dei profili dedotti in appello. 4. Con il primo motivo di appello è censurata la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, con la quale il giudice di primo grado ha definito il giudizio – salvo poi verificare nel merito i motivi ai fini della valutazione della cd. soccombenza virtuale per la regolazione delle spese di lite – sul rilievo che le impugnate ordinanze contingibili e urgenti avevano esaurito gli effetti con la cattura dell’orso M49, poi rinchiuso nell’area faunistica in località Casteller. Si prescinde dal verificare l’interesse concreto a sollevare tale motivo, interesse certamente labile dal momento che il Trga Trento, pur avendo dichiarato la carenza di interesse ha in effetti esaminato il merito della controversia, a nulla rilevando che lo abbia fatto ai soli fini della verifica della soccombenza virtuale. Non c’è stata, quindi, alcuna forma di “denegata giustizia”, avendo il giudice di primo grado esaminato (e motivatamente respinto) tutti i motivi. Il primo motivo di appello è suscettibile di positiva valutazione perché l’annullamento giurisdizionale delle due ordinanze comporterebbe la liberazione dell’animale e la sua reintroduzione nell’habitat naturale. Resta invece inteso – ed è opportuno evidenziarlo – che la conferma giurisdizionale della legittimità delle due ordinanze non escluderebbe, nel caso di nuova fuga del plantigrado, la necessità di una rinnovata valutazione di attualità del “pericolo grave” e della sua estensione a due o più Comuni della Provincia, e cioè dei presupposti che hanno consentito al Presidente di esercitare i poteri demandati dall’art. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e dall’art. 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993. In altri termini, se è vero che gli effetti dell’ordinanza del 22 luglio 2019 (e, dunque, della precedente del 1° luglio 2019) si sono esauriti con la cattura, in data 28 aprile 2020, dell’animale e con la sua traduzione nell’area faunistica in località Casteller - con la conseguenza che in caso, ad esempio, di una sua fuga dal recinto occorrerebbe l’adozione di un nuovo provvedimento per la sua cattura (o il suo abbattimento) - è altresì indubbio che ove fosse accertata, da questo giudice, la mancanza del presupposto del pericolo non ci sarebbero dubbi sulla portata della sentenza e, dunque, sull’annullamento degli effetti prodotti dall’ordinanza illegittima, con il risultato che l’orso dovrebbe essere subito rimesso in libertà. 5. Con il secondo motivo la Lega deduce l’omesso rispetto degli obblighi di cui all’art. 42, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33 (cd. decreto trasparenza), che prevede la pubblicazione dei provvedimenti contingibili e urgenti, con espressa menzione anche: a) dei termini temporali eventualmente fissati per l'esercizio dei poteri di adozione dei provvedimenti straordinari; b) del costo previsto per gli interventi e del costo effettivo sostenuto dall'amministrazione. Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione. Giova premettere una rapida ricostruzione del quadro normativo di riferimento, puntualmente tratteggiato dalla Provincia nelle proprie memorie difensive, perché utile per decidere non solo il secondo motivo, id est l’applicabilità, nella specie, dell’art. 42, d.lgs. n. 33 del 2013 in quanto sia stata esercitata una “disciplina in deroga” alla legislazione vigente (l’art. 42 è, infatti, incluso nel Capo V del d.lgs. n. 33 del 2013, dedicato – come reca la relativa Rubrica – agli “Obblighi di pubblicazione in settori speciali”), ma anche il terzo motivo e, dunque, il corretto esercizio del potere da parte del Presidente della Provincia. La materia è disciplinata dalla normativa sopranazionale e nazionale. Il quadro normativo sovranazionale è nel senso che possono essere autorizzate deroghe ai divieti di uccisione delle specie protette, qualora queste siano necessarie al fine della salvaguardia di altri interessi, e che il loro bilanciamento compete alle autorità nazionali, nel rispetto delle condizioni e dei limiti derivanti dai vincoli europei e internazionali. La direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992 all’art. 16 prevede, infatti, che: “[a] condizione che non esista un’altra soluzione valida e che la deroga non pregiudichi il mantenimento, in uno stato di conservazione soddisfacente, delle popolazioni della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale, gli Stati membri possono derogare alle disposizioni previste dagli articoli 12, 13, 14 e 15, lettere a) e b): a) per proteggere la fauna e la flora selvatiche e conservare gli habitat naturali; b) per prevenire gravi danni, segnatamente alle colture, all’allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e alle acque e ad altre forme di proprietà; c) nell’interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica, e motivi tali da comportare conseguenze positive di primaria importanza per l’ambiente; […]”. Inoltre, la Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa, adottata a Berna il 19 settembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 5 agosto 1981, n. 503, all’art. 6 prescrive che ogni parte contraente adotterà leggi e regolamenti per la salvaguardia delle specie di fauna selvatica specificamente elencate nell’allegato II, per le quali è vietata ogni forma di cattura e uccisione intenzionale. Tra le specie protette rientrano gli orsi (e il lupo). Degli esemplari di tali specie il successivo art. 9 della Convenzione di Berna consente l’abbattimento “per prevenire importanti danni a colture, bestiame, zone boschive, riserve di pesca, acque e altre forme di proprietà”, nonché “nell’interesse della salute e della sicurezza pubblica […]”. Nell’ordinamento interno, anche prima dell’adozione della “direttiva habitat” 92/43/CEE e del suo regolamento di attuazione (il d.P.R. n. 357 del 1997), era stata introdotta la disciplina di tutela delle specie protette e del prelievo venatorio con la l. 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che all’art. 1 annovera la fauna selvatica nel patrimonio indisponibile dello Stato e, all’art. 2, per alcune specie, tra le quali l’orso e il lupo, prevede un particolare regime di protezione, anche sotto il profilo sanzionatorio (l’art. 30 punisce con sanzioni penali chi abbatte, cattura o detiene mammiferi o uccelli compresi nell’elenco di cui all’art. 2, tra cui è compreso il lupo, e specificamente punisce chi abbatte, cattura o detiene esemplari di orso). Ma, nella prospettiva di un bilanciamento della protezione di tali specie con le esigenze di tutela del suolo, del patrimonio zootecnico e delle produzioni agricole, l’art. 19 della stessa l. n. 157 del 1992 demanda proprio alle Regioni il controllo della fauna selvatica, ivi comprese le specie dell’orso e del lupo (anche nelle zone vietate alla caccia), da esercitare selettivamente, mediante l’utilizzo di metodi ecologici e su parere dell’ex Istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs), poi confluito nell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), fino a consentire l’abbattimento di tale fauna quando i metodi ecologici si rivelino inefficaci. Le attività poste in essere nell’ambito dei piani di abbattimento regionali costituiscono legittimo esercizio di un potere previsto dalla stessa l. n. 157 del 1992 e non possono, pertanto, integrare la condotta sanzionata dal successivo art. 30, rientrando nella cornice autorizzatoria del citato art. 19. Alla descritta disciplina statale di tutela delle specie protette contenuta nella l. n. 157 del 1992 si è sovrapposto il regolamento attuativo della “direttiva habitat”, di cui al d.P.R. n. 357 del 1997; tale normativa prevede una protezione rigorosa anche per l’orso e il lupo, riproducendo però la disciplina dei prelievi prevista dalla direttiva stessa, e attribuisce il potere di autorizzare la deroga al divieto di cattura o uccisione delle specie protette al solo Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti per quanto di competenza il Ministro per le politiche agricole e l’Ispra “a condizione che non esista un’altra soluzione valida e che la deroga non pregiudichi il mantenimento, in uno stato di conservazione soddisfacente, delle popolazioni della specie interessata nella sua area di distribuzione naturale […]” (art. 11, comma 1). Lo stesso d.P.R. n. 357 del 1997, all’art. 1, comma 4, attribuisce alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano la competenza a dare attuazione agli obiettivi del regolamento, “nel rispetto di quanto previsto dai rispettivi statuti e dalle relative norme di attuazione” e che la previsione è coerente con l’art. 16 della “direttiva habitat”, che conferisce il potere di deroga agli Stati membri genericamente intesi, lasciando l’individuazione del soggetto competente ad attuare l’art. 16 alle norme interne. Va anche rilevato che il comma 1 dell’articolo unico, l. prov. 11 luglio 2018, n. 9 ha attribuito al Presidente della Provincia di Trento (e di quella di Bolzano) la competenza ad autorizzare il prelievo, la cattura e l'uccisione dell'orso (e del lupo), purché ciò avvenga a specifiche condizioni, ovvero al dichiarato fine di dare attuazione alla normativa comunitaria in materia di conservazione degli habitat naturali e seminaturali e per proteggere la fauna e la flora selvatiche caratteristiche dell'alpicoltura e conservare i relativi habitat naturali, prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico, alle acque ed alla proprietà, nell'interesse della sanità e della sicurezza pubblica. In tali casi, il Presidente della Provincia di Trento (e quello della Provincia di Bolzano) può autorizzare la cattura e l'uccisione dei soli esemplari delle specie protette (ursus arctos e canis lupus), previo parere dell'Ispra e sempre che non sussistano altre soluzioni valide e non venga messa a rischio la conservazione della specie. Condizione per il prelievo, la cattura o l'uccisione dell’orso e del lupo è, dunque, che non esista un'altra soluzione valida e che non si pregiudichi il mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente della popolazione della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale. Nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio, però, il Presidente della Provincia di Trento, con le ordinanze adottate in date 1° luglio 2019 e 22 luglio 2019 non ha fatto esercizio del potere ordinario demandatogli dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997 e dal comma 1 dell’articolo unico, l. prov. Trento n. 9 del 2018, bensì dei poteri contingibili e urgenti ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993. In virtù di tali norme il Presidente della Provincia adotta i provvedimenti contingibili e urgenti in materia di sicurezza e di igiene pubblica nell'interesse delle popolazioni di due o più Comuni; le ordinanze impugnate hanno infatti previsto la captivazione dell’orso M49 perché ritenuto un pericolo per la sicurezza e l’incolumità pubblica. Le impugnate ordinanze del 1° luglio 2019 e del successivo 22 luglio costituiscono, quindi, esercizio del potere “in deroga” previsto dall’art. 42, d.lgs. n. 33 del 2013, potere che avrebbe dovuto essere esercitato secondo le modalità previste dalla stessa norma. Rileva peraltro il Collegio che se questo è vero, è altresì vero che non tutte le previsioni del citato art. 42 sono state, nella specie, disattese, essendo state le due ordinanze pubblicate sul sito istituzionale della Provincia lo stesso giorno della adozione; questo dato di fatto, assunto dall’Amministrazione resistente nella propria memoria difensiva del 9 novembre 2020, non è stato documentalmente smentito dall’appellante. Tale forma di pubblicità pare al Collegio sufficiente. Ai sensi dell’art. 32, l. 18 giugno 2009, n. 69, infatti, a far data dal 2010 gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti dalle amministrazioni con la pubblicazione nei propri siti informatici. Quanto alla mancata indicazione dei costi, giova ricordare che la ratio della previsione introdotta dall’art. 42, d.lgs. n. 33 del 2013 è monitorare le spese affrontate in applicazione di una disciplina (eccezionale), derogatoria di quella ordinaria. Nella specie, ove fosse stata applicata la disciplina ordinaria dettata dall’art. 11, comma 1, d.P.R. n. 357 del 1997, i costi affrontati per la cattura e l’eventuale abbattimento dell’orso M49 sarebbero stati identici; la disciplina ordinaria prevede solo un procedimento “complesso”, con l’acquisizione dell’autorizzazione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e il parere, per quanto di competenza, del Ministro per le politiche agricole e dell’Ispra; prevede cioè la partecipazione al procedimento di altri soggetti, a tutela della specie protetta dell’orso e non della finanza pubblica. Giova aggiungere che la mancata previsione dei costi effettivamente sostenuti dall’amministrazione per la cattura e la captivazione dell’orso M49, ai sensi dall’art. 42, d.lgs. n. 33 del 2013, non incide sulla legittimità delle due ordinanze impugnate dinanzi al Trga Trento. L’art. 46 del citato d.lgs. n. 33 del 2013 dispone, infatti, che l’inottemperanza all’obbligo di pubblicazione normativamente previsti (ivi compresi, quindi, quello relativo ai costi) non impinge sulla legittimità dell’ordinanza ma costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione (danni evidentemente valutabili dal Giudice a ciò competente secondo le norme di contabilità pubblica) ed è comunque valutato ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili. 6. Con una seconda censura, dedotta anch’essa con il secondo motivo, l’Associazione ha affermato (pagg. 15 e 26 dell’appello) che la mancata indicazione del costo della captivazione rileverebbe perché non consentirebbe la comparazione con il costo, per l’ente pubblico, della misura perequativa del risarcimento dei danni provocati dall’orso agli allevatori, comparazione che sarebbe necessaria proprio al fine di valutare la legittimità degli atti impugnati sotto il generale profilo del buon andamento dell’azione amministrativa e dell’equo contemperamento degli interessi coinvolti (conservazione delle specie protette, attività economiche sul territorio, corretto impiego delle risorse economiche pubbliche). Le ordinanze impugnate sarebbero dunque viziate per eccesso di potere nonché per violazione dei principi di economicità, efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa, che costituiscono il corollario del principio generale di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost. Anche questa censura non è suscettibile di positiva valutazione. Come sarà argomentato sub 7, il Presidente della Provincia di Trento ha esercitato il potere a tutela di cose, animali e persone; ne consegue che, in particolare con riferimento ai danni che l’orso potrebbe arrecare agli animali e alle persone, non è possibile pensare ad una comparazione ex ante tra costi, con la conseguente necessità di conoscere, prima dell’esercizio del potere contingibile e urgente, quanto vale, in termini risarcitori, la vita di un animale o di un uomo che potrebbero essere feriti o uccisi dal plantigrado, per valutare se conviene abbattere l’orso o pagare l’eventuale risarcimento. Il corrispondente pecuniario da erogare a titolo di risarcimento deve, infatti, costituire il rimedio ultimo ove non si sia riusciti, nonostante l’esercizio di tutti i poteri previsti dall’ordinamento, ad evitare i danni; non rappresenta, quindi, una possibile alternativa. 7. Con l’ultimo motivo di appello l’Associazione ha affermato che nella specie mancava il presupposto del “rischio immediato”, necessario per legittimare il potere del Presidente della Provincia di Trento di adottare ordinanze contingibili e urgenti. La riprova sarebbe nella circostanza che per catturare l’orso, in esecuzione della prima ordinanza del 1° luglio 2019, non è stata necessaria alcuna sedazione e che quando il plantigrado è fuggito dalla struttura di captivazione di Casteller si è allontanato velocemente senza mostrare alcun atteggiamento aggressivo nei confronti degli operatori della forestale, dando prova, anche dopo, di voler evitare qualsiasi contatto con l’uomo. In altri termini, ad avviso dell’appellante, il comportamento dell’orso M49 non può essere ricondotto alla fattispecie comportamentale classificata sub n. 17 del Capitolo 3, paragrafo 3.1, del Pacobace, non avendo l’animale tentato di introdursi in edifici anche stagionalmente abitati, siti in prossimità dei centri abitati, ma solo - e in pochi casi ci è davvero riuscito - in edifici isolati, quali baite e malghe d’alpeggio, e in nessun caso quando in detti edifici erano presenti persone. Il motivo non è suscettibile di positiva valutazione. Come si è detto sub 5, nella fattispecie sottoposta all’esame del Collegio il Presidente della Provincia di Trento, con le ordinanze adottate in date 1° luglio 2019 e 22 luglio 2019 non ha fatto esercizio del potere ordinario demandatogli dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997 ma dei poteri contingibili e urgenti ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993. Il Presidente della Provincia ha infatti interpellato, in data 22 febbraio 2019, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare per ottenere l’autorizzazione alla rimozione per captivazione permanente dell’orso M49, ai sensi dell’art. 11, comma 1, d.P.R. n. 357 del 1997, facendo presente come le azioni di prevenzioni fossero inattuabili su larga scala mentre quelle di dissuasione e di disturbo si fossero dimostrate inefficaci; ha aggiunto che, alla luce di quanto indicato nel paragrafo 3.4.1 del Pacobace ("Definizione ambiti di intervento per azioni di controllo"), l’esemplare M49 deve essere considerato un orso "problematico dannoso" per il quale il citato Piano prevede l'adozione delle "Azioni energiche" corrispondenti alla fattispecie n. 14 della tabella 3.1 dello stesso ("Grado di problematicità dei possibili comportamenti di un orso e relative azioni"), con cattura per captivazione permanente o abbattimento; il Presidente della Provincia ha quindi concluso che la rimozione dell'orso appare come unica soluzione praticabile alla luce degli elementi contenuti nel Rapporto tecnico, senza pregiudicare il mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente della relativa popolazione, avuto riguardo ai dati di demografia più aggiornati (60-78 orsi presenti - Rapporto Grandi carnivori 2018 della Provincia Autonoma di Trento a fronte del valore di 40-60 orsi quale popolazione minima vitale indicato dallo Studio di fattibilità del progetto). A fronte del silenzio serbato dal Ministero il Presidente della Provincia, con nota del 15 aprile 2019 ha segnalato allo stesso Dicastero che dopo la pausa (di letargo) invernale l’orso M49 aveva ripreso la propria attività, con la conseguenza che diventava nuovamente urgente riscontrare la richiesta di autorizzazione del 22 febbraio 2019, anche alla luce del rapporto tecnico aggiornato, attestante problematicità ulteriori rispetto a quelle già manifestate nel 2019. Con nota del 17 maggio 2019 il Ministero, richiamando la valutazione operata dall’Ispra, ha concluso che non era allo stato opportuno l’intervento richiesto. In effetti l’Ispra, rispondendo al solo Ministero dell’ambiente alla richiesta pervenuta dallo stesso in data del 28 febbraio, ha affermato che dal rapporto redatto dal Settore Grandi Carnivori del Servizio Foreste e Fauna della Provincia Autonoma risulta che gli eventi di danno avvenuti nel 2018, attribuibili con certezza (grazie alla genetica o al monitoraggio radio-telemetrico) all'orso M49, risultano essere trentuno, dei quali dodici a carico della zootecnia (due su bovini, quattro su ovicaprini, tre su equini, uno su suini e due su patrimonio zootecnico avicunicolo; per un totale di 8.605 euro) e i restanti diciannove a carico dei patrimoni apistici, agricoli ed altro (per complessivi 5.226 euro). Tra gli eventi di danno riportati risultano anche alcuni tentativi di penetrazione in strutture adibite a custodia di bestiame o alla trasformazione/conservazione del latte, dei quali solo tre sono riusciti (un evento in località Doss, con predazione di ovino: per questo evento non è chiaro se si trattasse di una struttura adeguata alla difesa dalla predazione di orso; due eventi presso la malga Rosa, con consumo di prodotti del latte: dopo il secondo tentativo riuscito la struttura è stata protetta efficacemente tramite l'apposizione di sbarre alle finestre, come testimoniano i due successivi tentativi falliti). In seguito alle predazioni su bovini verificatesi presso le malghe Maggiasone e Amò, nel mese di luglio 2018, sono state realizzate quattro recinzioni elettrificate semipermanenti, che in base alla cronologia degli eventi di danno sono risultate efficaci (assenza di danni presso tali siti in seguito alla realizzazione delle strutture). La cattura dell'orso a scopo di radiomarcaggio (finalizzato alla sorveglianza e alla realizzazione di interventi di dissuasione) è avvenuta il 27 agosto 2018 mentre il primo intervento di dissuasione andato a buon fine è del 3 settembre 2018; ad esso sono seguiti altri tre interventi, nei giorni 6 e 21 settembre e 20 ottobre. L’Ispra ha quindi concluso che l'analisi degli undici eventi di danno attribuibili all'orso, successivi alla radio-marcatura e alla realizzazione degli interventi di dissuasione, non evidenziano una situazione di particolare criticità, tenuto conto della tipologia (soprattutto alberi da frutta o mangime) e dell'entità del danno (per gli eventi non è stato corrisposto alcun indennizzo ad eccezione dei due eventi di predazione su zootecnia), con la conseguenza che, pur rientrando i comportamenti mostrati dall'orso nella casistica di orso "problematico dannoso", non paiono di particolare gravità e non sembrano comportare rischi per la sicurezza dell'uomo. Con successiva nota del 6 maggio 2019, rispondendo ad altra richiesta del Ministero dell’ambiente di pari data, l’Ispra ha relazionato in ordine al comportamento tenuto dall’orso dall’agosto del 2018, rilevato dal collare GPS di cui era stato fornito, e tolto solo in occasione della prima cattura, avvenuta nella notte tra il 14 e 15 luglio, e non più indossata essendo riuscito a fuggire dal recinto Casteller dove era stato portato, sfondando e superando quattro recinzioni elettrificate a 7000 V, l’ultima delle quali alta 4,5 metri. Il monitoraggio ha permesso di rilevare “la frequentazione, da parte di M49, di zone antropizzate in seguito alla quale sono stati effettuati dei sopralluoghi che hanno evidenziato dei segni riconducibili a tentativi di ingresso in edifici da parte di Orso (zampate su porte e finestre; in un caso viene riportato lo scardinamento di una finestra, ma l’entità economica del danno non viene riportata) dei quali con buona probabilità si può ritenere responsabile l’esemplare in oggetto. Tre di questi tentativi hanno riguardato tre edifici di una medesima località, ricadenti nella categoria di ‘abitazione frequentata stagionalmente’, che coincidono con la frequentazione dell’area da parte dell’individuo nei giorni 18-23 marzo. A questo evento hanno fatto seguito tre eventi in un’altra località, riconducibili al soggetto in base alle sue localizzazioni: un danno ad un deposito di materiale apistico (27 marzo, entità del danno non nota), un altro tentativo di ingresso in abitazione frequentata stagionalmente (28 marzo, ma non attribuibile con certezza ad M49) ed un tentativo di ingresso in un edificio non abitativo (31 marzo). Nei primi giorni del mese di aprile si sono infine verificati tre eventi di danno a produzioni apistiche, attribuibili ad M49, di cui due nella stessa località, con 2-5 arnie danneggiate per ciascun evento, di entità economica non nota per assenza di denuncia da parte dei produttori. Infine viene riportato un ulteriore tentativo di ingresso in “abitazione frequentata stagionalmente” in una nuova località il 6 aprile”. L’Ispra ha aggiunto che nessun comportamento dell’orso ha evidenziato una abituazione all’essere umano in senso stretto, comportamento che peraltro avrebbe facilitato la realizzazione di interventi di dissuasione: la frequentazione da parte dell’esemplare degli ambienti edificati è avvenuta in assenza di persone ed inoltre l’elevata mobilità dell’individuo potrebbe essere riconducibile ad una sua tendenza ad evitare l’essere umano. Da quanto rappresentato, l’Ispra ha tratto la conseguenza che gli eventi di danno ad attività produttive erano di entità modesta, sarebbero stati evitabili applicando metodi preventivi efficaci e che non sussistono particolari rischi per la sicurezza dell’uomo, ma rientrano comunque nella categoria 17 della tabella 3.1 del Pacobace. Per tale categoria comportamentale il Pacobace contempla la possibilità di attivare le seguenti azioni energiche, oltre quella già in corso della cattura con rilascio per spostamento e/o radiomarcaggio, la cattura per captivazione permanente o l’abbattimento. Tutto ciò affermato l’Ispra non ha affatto escluso la cattura per captivazione permanente o addirittura la soppressione dell’esemplare, ma ha solo raccomandato la particolare cautela nel prendere tale decisione, perché la stessa avrebbe comportato, in entrambi i casi, la sottrazione permanente dell’orso dall’ambiente naturale. Il Presidente della Provincia, con nota del 30 maggio 2019, facendo seguito a quanto concordato al Tavolo tecnico del precedente 28 maggio, ha rappresentato al Ministero che i trenta eventi di danno/tentativi di intrusione degli ultimi quattro mesi fanno rientrare l’orso M49 nella categoria di esemplare “altamente problematico” per il quale il Pacobace prevede la rimozione ed ha quindi chiesto l’autorizzazione alla captivazione, a salvaguardia della conservazione della popolazione ursina. Con successiva nota del 20 giugno 2019 il Presidente della Provincia ha rappresentato l’aggravarsi della situazione, sia sul fronte della dannosità per il patrimonio zootecnico, sia per le implicazioni per la pubblica incolumità a fronte della inefficacia delle attività di dissuasione e di prevenzione; ha quindi “avvertito” il Ministero che a fronte di un mancato, “positivo”, riscontro avrebbe adottato gli atti necessari. Con la nota del 30 maggio 2019 il Presidente ha quindi esternato l’intenzione di andare comunque avanti con o senza l’autorizzazione del Ministero. Ed infatti, a fronte del perdurante silenzio del Ministero, in data 1 luglio 2019 ha adottato la prima ordinanza contingibile e urgente, utilizzando i poteri che l’ordinamento gli metteva a disposizione per fronteggiare il pericolo imminente e senza che fosse in quel caso necessaria l’autorizzazione o il parere di altra autorità o organo. 8. Tutto ciò rappresentato, ritiene il Collegio che nello specifico caso di specie sussistono i presupposti per l’adozione dell’ordinanza contingibile e urgente, possedendo il potere esercitato il 1° luglio 2019, e ancora più il 22 luglio 2019, i presupposti richiesti dall’ordinamento, e cioè la necessità di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minaccino l'incolumità dei cittadini. E’ di tutta evidenza come ogni determinazione amministrativa da assumere in subiecta materia implichi a monte il rigoroso svolgimento di una compiuta e mirata istruttoria volta a riscontrare, attraverso una indagine che faccia emergere e dia adeguatamente conto della situazione di fatto da regolare, l’effettiva sussistenza dei presupposti di necessità ed urgenza cui si correla una situazione di effettivo e concreto pericolo per la integrità dei beni tutelati, la quale non sia fronteggiabile con gli ordinari strumenti di amministrazione attiva. All’interno della descritta cornice di riferimento si è mosso il Presidente della Provincia di Trento facendo, ad avviso del Collegio, legittimo esercizio dei propri poteri. Dalla nota dell’Ispra del 6 maggio 2019 risulta che il comportamento tenuto dall’orso non esclude la cattura e finanche l’abbattimento, rientrando tra quelli inclusi nella categoria 17 della tabella 3.1 del Pacobace. Una conferma della corretta valutazione che il Presidente della Provincia ha compiuto risulta dal parere Ispra del 1° luglio 2019, inviato dall’Istituto al Ministero dell’ambiente, nel quale si evidenzia la ricorrenza degli attacchi da parte dell’orso M49 a prede domestiche, in particolare ad asini e bovini (cinque eventi in quindici giorni e hanno portato al decesso di otto capi e al ferimento di uno); la permanenza in ambiti antropizzati; l’ingresso in una stalla e il conseguente evento di incontro ravvicinato con un pastore, avvenuto 48 ore dopo un intervento di dissuasione condotto con efficacia. Risulta altresì la crescente probabilità che si verifichino contatti dell’orso M49 con l’uomo, a causa della maggior frequentazione degli alpeggi da parte di pastori e turisti durante la stagione estiva, e la possibilità che l’abituazione all’ambiente antropico e il comportamento di specializzazione verso prede domestiche anche di grandi dimensioni venga trasmesso dal soggetto ad orsi ad esso presumibilmente associati. Alla luce delle informazioni contenute nella documentazione trasmessa dalla Provincia di Trento, l’Ispra ha preso atto che l’esemplare in oggetto causa frequenti danni ad animali domestici anche di grandi dimensioni per i quali la prevenzione risulta difficilmente attuabile e che gli interventi di dissuasione, pure quando efficacemente condotti, non appaiono modificare tali comportamenti. In riferimento alla pericolosità dell’esemplare, l’Istituto ha ritenuto che l’accresciuta frequentazione delle aree di presenza dell’orso da parte dell’uomo nel periodo di alpeggio, e la limitata elusività mostrata nei recenti episodi dall’esemplare, che penetra frequentemente in edifici produttivi regolarmente utilizzati dagli allevatori, comportino un rilevante incremento della probabilità di incontri tra l’orso e l’uomo e conseguentemente di incidenti, determinando potenzialmente rischi significativi per la sicurezza dell’uomo. Tutto ciò rappresentato, il Collegio ritiene dunque sussistenti nella specie i presupposti per l’esercizio del potere contingibile e urgente ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993. 9. Vale aggiungere che la valutazione in ordine alla pericolosità degli episodi di cui si è reso protagonista il plantigrado M49 ha carattere prettamente discrezionale ed è quindi sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo rimane estraneo l'accertamento della gravità degli episodi posti a base delle due ordinanze. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato di questo giudice solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati. Non costituisce profilo di illogicità o contraddittorietà la circostanza che il pericolo per l’incolumità pubblica che derivava dall’orso in libertà dovesse considerarsi al contempo “immediato” e “probabile”: il comportamento tenuto dal plantigrado, come può desumersi anche dai pareri dell’Ispra, richiedeva, in considerazione dell’intensificarsi degli episodi, un intervento immediato a tutela di persone, animali e cose senza che per legittimare la decisione di catturare l’orso fosse necessario il verificarsi di un evento di ancora maggiore gravità di quelli oggetto delle diverse relazioni intervenute nel tempo. 10. A quanto argomentato sub 8 giova aggiungere che l’utilizzo, da parte del Presidente della Provincia, dei poteri ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993 non ha costituito un modo surrettizio per baipassare il procedimento ordinario dettato dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997, che richiede l’autorizzazione del Ministero dell’ambiente per poter catturare l’esemplare di orso o di lupo (specie protette) per la captazione permanente o addirittura la soppressione. Ciò che ha spinto il Presidente della Provincia a ricorrere alle ordinanze contingibili e urgenti è, come è stato ampiamente illustrato, il pericolo per l’incolumità di persone, animali e cose in più Comuni della Provincia di Trento ad opera dell’orso M49, che più volte si è avvicinano all’uomo (e agli animali) ed ha tentato di entrare in manufatti. A fronte del silenzio del Ministero il Presidente della Provincia ha fatto ricorso al potere di carattere eccezionale che gli consentiva di pervenire, attraverso un procedimento più snello, al risultato oggetto della richiesta di autorizzazione (catturare l’orso). Il fatto che tale provvedimento urgente – che è stato adottato con strumento normativo diverso da quello che impone il parere favorevole preventivo del Ministero dell’Ambiente – sia in questo caso specifico ritenuto legittimo, non significa certo che, in generale, la Provincia Autonoma possa procedere con atti di tal genere che, come appena detto, sono sindacabili e annullabili ove irragionevoli. Nel caso di specie, infatti, la “eccezionalità” dello strumento utilizzato è giustificata dal fatto che lo stesso Ispra non aveva negato né la “problematicità” dell’orso, né la possibilità – tra le altre – della soluzione della cattura, ma successivamente nessun atto, positivo o negativo in merito, era stato adottato dal Ministero dell’Ambiente, mentre la stagione estiva ormai sopraggiunta aumentava il pericolo di “incontri indesiderati” per l’aumento dei frequentatori, anche semplici turisti, nelle aree montane abitate dall’orso M49. Corollario obbligato di tale premessa è che la presente decisione non può che riflettere la legittimità delle ordinanze alla luce dei fatti riferibili all’esemplare M49 e al contesto di riferimento, caratterizzato dalla mancanza di una pronuncia espressa a seguito della seppur invero peculiare “diffida” del Presidente della Provincia contenuta nella nota 20 giugno 2019, con la quale si avvisava il Ministero che, a fronte di un mancato, “positivo”, riscontro sarebbero stati adottati “gli atti necessari”. Né può rilevare il richiamo, operato dall’appellante, ad altre ordinanze contingibili e urgenti adottate dal Presidente della Provincia per catturare o abbattere altri orsi ritenuti pericolosi, a riprova che l’effettivo intendimento della Provincia sarebbe quello del contenimento di tale specie e non della tutela dell’incolumità di persone e animali; il Collegio non può, infatti, che pronunciare sulla legittimità degli atti portati al suo esame e non è certo l’esistenza di più provvedimenti di contenuto analogo a quello delle ordinanze del 1° e del 22 luglio 2019 a dimostrare ex se lo sviamento di potere. Ancora, non può ritenersi che la normativa statale applicativa dei principi sovranazionali in materia di tutela delle specie protette (ursus arctos e canis lupus) escluda l’applicazione di poteri straordinari che eludano autorizzazioni e pareri degli organi competenti. In altri termini, una volta ammessa dall’art. 1, l. prov. Trento n. 9 del 2018 - a determinate condizioni e secondo un procedimento che vede il coinvolgimento di alcune autorità - la possibilità di catturare o (in casi ancor più eccezionali) sopprimere l’orso per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e ad altre forme di proprietà, per garantire l'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica (Corte cost. 27 settembre 2019, n. 215), non può allora escludersi il ricorso al potere d’urgenza (attraverso l’ordinanza contingibile e urgente) nel caso di un pericolo tale da non consentire il ricorso alla disciplina ordinaria, e ciò nella fattispecie per le circostanze anche temporali sopra descritte. Infine, e per concludere sul punto, va rilevato che il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è ammesso anche dal Pacobace (punti 3.2.2 e 3.4.2 del Capitolo 3 – Criteri e procedure d’azione nei confronti degli orsi problematici e d’intervento in situazioni critiche). Più in particolare, il Capitolo 3, al punto 4.1 dispone che “è previsto l’intervento con azioni di controllo nei seguenti casi: su orsi individuati come problematici (dannosi o pericolosi); su orsi che si trovano in situazioni critiche, tali cioè da costituire rischio per le persone o per l'incolumità stessa degli orsi”. Un orso problematico può essere definito "dannoso" o "pericoloso" a seconda del suo comportamento, in relazione alle definizioni di seguito specificate. Un "orso dannoso" è un orso che arreca ripetutamente danni materiali alle cose (predazione di bestiame domestico, distruzione di alveari o danni a coltivazioni, o in generale danni a infrastrutture) o utilizza in modo ripetuto fonti di cibo legate alla presenza umana (alimenti per l’uomo, alimenti per il bestiame o per il foraggiamento della fauna selvatica, rifiuti, frutta coltivata nei pressi di abitazioni, ecc.). Un orso che causa un solo grave danno (o che ne causa solo assai raramente) non è da considerarsi un orso dannoso. Quanto all’”orso pericoloso”, esistono una serie di comportamenti che lasciano prevedere la possibilità che l’orso costituisca una fonte di pericolo per l’uomo. Salvo casi eccezionali e fortuiti, un orso dal comportamento schivo, tipico della specie, non risulta pericoloso e tende ad evitare gli incontri con l’uomo. La pericolosità di un orso è, in genere, direttamente proporzionale alla sua “abituazione” (assuefazione) all’uomo e al suo grado di confidenza con lo stesso. In altri casi la pericolosità prescinde dall’assuefazione all’uomo ed è invece correlata a situazioni particolari, ad esempio un’orsa avvicinata quando è coi piccoli o un orso avvicinato quando difende la sua preda o la carcassa su cui si alimenta. Il Pacobace, alla tabella 3.1 elenca alcuni possibili atteggiamenti dei plantigradi, a questi è affiancata una scala di problematicità e le azioni suggerite. Diversamente da quanto ritiene l’appellante, al punto 17 della tabella è prevista la situazione che ricorre con riferimento all’orso M49 e cioè dell’orso che “cerca di penetrare in abitazioni, anche frequentate solo stagionalmente”; verificandosi tale evenienza il Pacobace consente la captivazione permanente o – in casi estremi - la soppressione dell’orso. A tal fine è sufficiente la possibilità che nel manufatto sia presente l’uomo, potendo trattandosi anche di abitazione stagionale. 11. Per tutte le ragioni sopra esposto l’appello deve quindi essere respinto, stante la legittimità del potere nella specie esercitato dal Presidente della Provincia di Trento Preme peraltro al Collegio evidenziare, prima di concludere, che la possibilità ex lege riconosciuta al Presidente della Provincia di catturare e tenere in captivazione permanente specie protette non esonera lo stesso dall’assicurare all’esemplare posto in captivazione un habitat il più vicino possibile a quello naturale, per non costringere tale esemplare a vivere in uno stato di abbrutimento che, oltre a sostanziarsi in forme di maltrattamento, finisce per rendere ancora più aggressivo il plantigrado. Estranea ai motivi di censura avverso gli atti impugnati, e come tale oggetto di mero riferimento non rilevante, ai fini della decisione della controversia, è la questione relativa al luogo di custodia dell’orso M49 – e di altri due orsi catturati in momenti diversi – e cioè all’adeguatezza del recinto Casteller ad ospitare gli orsi in condizioni tali da salvaguardare il loro benessere. In proposito, anche a seguito della relazione ispettiva dei Carabinieri Forestali, inviata sul posto dal Ministero dell’Ambiente, e conclusa con l’indicazione della assoluta inadeguatezza della struttura e delle condizioni di stress degli orsi captivati, il Collegio può solo ribadire che ad altre Autorità spetta assicurare che le condizioni di inadeguatezza di recente accertate – e fonte di responsabilità che in altre sedi potranno essere valutate – siano eliminate, adottando tutte le misure necessarie, prima fra tutte la tempestiva realizzazione di una nuova area di custodia idonea su cui la stessa Provincia di Trento ha dato precise, ma ancora non attuate, pubbliche assicurazioni. 12. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta con l’atto di appello alla Sezione (e quindi prescindendo da inammissibili profili nuovi introdotti con le memorie difensive), essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c.. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso. 13. In conclusione, per i suesposti motivi, l’appello va respinto e va, dunque, confermata la sentenza di primo grado, seppure con parziale, diversa motivazione, nella parte in cui ha respinto il ricorso di primo grado. Le spese possono essere compensate in considerazione della complessità della vicenda contenziosa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio. Ordina che la prese decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 dicembre 2020, tenutasi in videoconferenza con collegamento da remoto ai sensi dell’art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Animali - Orsi - Pericolo per l'incolumità e la sicurezza pubblica - Cattura per captivazione e possibile soppressione - Ordinanza contingibile ed urgente del Presidente della Provincia di Trento - Legittimità.           E’ legittima l’ordinanza contingibile e urgente del Presidente della Provincia Autonoma di Trento di intervento di rimozione dell’ orso M49 pericoloso per l’incolumità e la sicurezza pubblica (1).    (1) Ha premesso la Sezione che il Presidente della Provincia autonoma di Trento ha adottato l’ordinanza contingibile e urgente ai sensi dell’art. 52, comma 2, d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e dell’art. 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige 4 gennaio 1993, n. 1.  Nella specie, le ragioni di pubblica sicurezza che hanno portato alla adozione di tale provvedimento sono da ricondurre al comportamento dell’esemplare di orso denominato M49 e, in particolare, ai tentativi di intrusione in abitazioni di montagna e in strutture frequentate stagionalmente per attività zootecniche dallo stesso esemplare, tentati o portati a compimento, e all’intensificazione di tali comportamenti problematici, testimoniata da ben 14 tentativi di intrusione, di cui uno con contatto ravvicinato con un pastore.  A fronte di tali circostanze è stata ordinata la rimozione dell’orso, mediante cattura per captivazione permanente in area a ciò autorizzata, secondo quanto previsto dalla lettera j) del Piano d’Azione interregionale per la conservazione dell’Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (denominato Pacobace). A seguito della fuga del plantigrado dall’area faunistica, in località Casteller, dove era stato rinchiuso, avvenuta la stessa notte della sua cattura, con nuova ordinanza il Presidente della Provincia ha ordinato la nuova cattura e, se necessario l’uccisione.  Ha affermato la Sezione che la valutazione in ordine alla pericolosità degli episodi di cui si è reso protagonista il plantigrado M49 ha carattere prettamente discrezionale ed è quindi sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo rimane estraneo l'accertamento della gravità degli episodi posti a base delle due ordinanze. Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato di questo giudice solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.  Non costituisce profilo di illogicità o contraddittorietà la circostanza che il pericolo per l’incolumità pubblica che derivava dall’orso in libertà dovesse considerarsi al contempo “immediato” e “probabile”: il comportamento tenuto dal plantigrado, come può desumersi anche dai pareri dell’Ispra, richiedeva, in considerazione dell’intensificarsi degli episodi, un intervento immediato a tutela di persone, animali e cose senza che per legittimare la decisione di catturare l’orso fosse necessario il verificarsi di un evento di ancora maggiore gravità di quelli oggetto delle diverse relazioni intervenute nel tempo.  Ha aggiunto la sentenza che l’utilizzo, da parte del Presidente della Provincia, dei poteri ex artt. 52, comma 2, d.P.R. n. 670 del 1972 e 18, comma 2, l. reg. Trentino Alto Adige n. 1 del 1993 non ha costituito un modo surrettizio per baipassare il procedimento ordinario dettato dall’art. 11, d.P.R. n. 357 del 1997, che richiede l’autorizzazione del Ministero dell’ambiente per poter catturare l’esemplare di orso o di lupo (specie protette) per la captazione permanente o addirittura la soppressione.  Ciò che, nella specie, ha spinto il Presidente della Provincia a ricorrere alle ordinanze contingibili e urgenti è, come è stato ampiamente illustrato, il pericolo per l’incolumità di persone, animali e cose in più Comuni della Provincia di Trento ad opera dell’orso M49, che più volte si è avvicinano all’uomo (e agli animali) ed ha tentato di entrare in manufatti. A fronte del silenzio serbato dal Ministero il Presidente della Provincia ha fatto ricorso al potere di carattere eccezionale che gli consentiva di pervenire, attraverso un procedimento più snello, al risultato oggetto della richiesta di autorizzazione (catturare l’orso).  Il fatto che tale provvedimento urgente – che è stato adottato con strumento normativo diverso da quello che impone il parere favorevole preventivo del Ministero dell’Ambiente – sia in questo caso specifico ritenuto legittimo, non significa certo che, in generale, la Provincia Autonoma possa procedere con atti di tal genere che, come appena detto, sono sindacabili e annullabili ove irragionevoli. Nel caso di specie, infatti, la “eccezionalità” dello strumento utilizzato è giustificata dal fatto che lo stesso Ispra non aveva negato né la “problematicità” dell’orso, né la possibilità – tra le altre – della soluzione della cattura, ma successivamente nessun atto, positivo o negativo in merito, era stato adottato dal Ministero dell’Ambiente, mentre la stagione estiva ormai sopraggiunta aumentava il pericolo di “incontri indesiderati” per l’aumento dei frequentatori, anche semplici turisti, nelle aree montane abitate dall’orso M49.  Corollario obbligato di tale premessa è che la presente decisione non può che riflettere la legittimità delle ordinanze alla luce dei fatti riferibili all’esemplare M49 e al contesto di riferimento. Né può rilevare il richiamo, operato dall’appellante, ad altre ordinanze contingibili e urgenti adottate dal Presidente della Provincia per catturare o abbattere altri orsi ritenuti pericolosi, a riprova che l’effettivo intendimento della Provincia sarebbe quello del contenimento di tale specie e non della tutela dell’incolumità di persone e animali; il giudice, infatti, non può che pronunciare sulla legittimità degli atti portati al suo esame e non è certo l’esistenza di più provvedimenti di contenuto analogo a quello delle ordinanze portato al suo esame a dimostrare ex se lo sviamento di potere.  Ancora, non può ritenersi che la normativa statale applicativa dei principi sovranazionali in materia di tutela delle specie protette (ursus arctos e canis lupus) escluda l’applicazione di poteri straordinari che eludano autorizzazioni e pareri degli organi competenti.  In altri termini, una volta ammessa dall’art. 1, l. prov. Trento n. 9 del 2018 - a determinate condizioni e secondo un procedimento che vede il coinvolgimento di alcune autorità - la possibilità di catturare o (in casi ancor più eccezionali) sopprimere l’orso per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico e ad altre forme di proprietà, per garantire l'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica (Corte cost. 27 settembre 2019, n. 215), non può allora escludersi il ricorso al potere d’urgenza (attraverso l’ordinanza contingibile e urgente) nel caso di un pericolo tale da non consentire il ricorso alla disciplina ordinaria, e ciò nella fattispecie per le circostanze anche temporali sopra descritte.  Infine, va rilevato che il ricorso allo strumento dell’ordinanza contingibile e urgente è ammesso anche dal Pacobace (punti 3.2.2 e 3.4.2 del Capitolo 3 – Criteri e procedure d’azione nei confronti degli orsi problematici e d’intervento in situazioni critiche). Più in particolare, il Capitolo 3, al punto 4.1 dispone che “è previsto l’intervento con azioni di controllo nei seguenti casi: su orsi individuati come problematici (dannosi o pericolosi); su orsi che si trovano in situazioni critiche, tali cioè da costituire rischio per le persone o per l'incolumità stessa degli orsi”. Un orso problematico può essere definito "dannoso" o "pericoloso" a seconda del suo comportamento, in relazione alle definizioni di seguito specificate. Un "orso dannoso" è un orso che arreca ripetutamente danni materiali alle cose (predazione di bestiame domestico, distruzione di alveari o danni a coltivazioni, o in generale danni a infrastrutture) o utilizza in modo ripetuto fonti di cibo legate alla presenza umana (alimenti per l’uomo, alimenti per il bestiame o per il foraggiamento della fauna selvatica, rifiuti, frutta coltivata nei pressi di abitazioni, ecc.). Un orso che causa un solo grave danno (o che ne causa solo assai raramente) non è da considerarsi un orso dannoso. Quanto all’”orso pericoloso”, esistono una serie di comportamenti che lasciano prevedere la possibilità che l’orso costituisca una fonte di pericolo per l’uomo. Salvo casi eccezionali e fortuiti, un orso dal comportamento schivo, tipico della specie, non risulta pericoloso e tende ad evitare gli incontri con l’uomo. La pericolosità di un orso è, in genere, direttamente proporzionale alla sua “abituazione” (assuefazione) all’uomo e al suo grado di confidenza con lo stesso. In altri casi la pericolosità prescinde dall’assuefazione all’uomo ed è invece correlata a situazioni particolari, ad esempio un’orsa avvicinata quando è coi piccoli o un orso avvicinato quando difende la sua preda o la carcassa su cui si alimenta. Il Pacobace, alla tabella 3.1 elenca alcuni possibili atteggiamenti dei plantigradi, a questi è affiancata una scala di problematicità e le azioni suggerite. Diversamente da quanto ritiene l’appellante, al punto 17 della tabella è prevista la situazione che ricorre con riferimento all’orso M49 e cioè dell’orso che “cerca di penetrare in abitazioni, anche frequentate solo stagionalmente”; verificandosi tale evenienza il Pacobace consente la captivazione permanente o – in casi estremi - la soppressione dell’orso. A tal fine è sufficiente la possibilità che nel manufatto sia presente l’uomo, potendo trattandosi anche di abitazione stagionale. 
Animali
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/per-la-notifica-pec-del-ricorso-alle-amministrazioni-devono-essere-utilizzati-gli-indirizzi-mutuati-dall-elenco-tenuto-dal-ministero-della-giustizia
Per la notifica Pec del ricorso alle Amministrazioni devono essere utilizzati gli indirizzi mutuati dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia
N. 07170/2019REG.PROV.COLL. N. 02738/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2738 del 2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Paola Turarolo, Luca Milani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma via dei Portoghesi, 12, è ope legis domiciliato; per la riforma per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. -OMISSIS-, resa tra le parti e concernente la legittimità del provvedimento di revoca delle misure d'accoglienza. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno in cui si incardina, quale organo periferico, l’Ufficio Territoriale del Governo di Genova; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 ottobre 2019 il Cons. Umberto Maiello e udito per la parte pubblica l’avvocato dello Stato Isabella Piracci; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Il signor-OMISSIS- impugnava in prime cure il decreto di revoca delle misure di accoglienza temporanea emesso dalla Prefettura di Genova ai sensi dell’art.23 co 1, lettera a) del D.Lgs. 142/2015. La suddetta misura ablativa riposa sul fatto che il predetto cittadino extracomunitario, a partire dal 03.05.2018, aveva abbandonato senza giustificato motivo il Centro di accoglienza temporaneo ove era ospitato. A sostegno della suddetta impugnativa il ricorrente deduceva: 1) la nullita' del provvedimento impugnato per incompetenza territoriale della Prefettura di Genova in favore di quella di Savona; 2) la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento ex art. 7 della legge 241/1990, anche in considerazione della natura non vincolata del provvedimento in argomento ed in assenza di documentate esigenze di celerità; 3) l’illegittimità del suddetto provvedimento per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti, violazione dell'art. 20 c. 5 e c. 6 della direttiva 2013/33/UE: il Signor -OMISSIS-, contrariamente a quanto ritenuto, non intendeva abbandonare la struttura presso cui era ospitato. Non a caso, la notifica del provvedimento impugnato era stata effettuata, a mani, pochi giorni dopo il presunto abbandono. Il provvedimento impugnato concreterebbe la violazione dell'art. 20 della direttiva 2013/33/UE, la quale prevede esplicitamente un sistema graduale di limitazione dell’accoglienza ovvero, ma solo quale extrema ratio, la revoca della stessa. Il giudice di prime cure, con la sentenza qui gravata, dichiarava inammissibile il ricorso, ritenendo nulla la notificazione diretta all'Avvocatura distrettuale dello Stato presso l'indirizzo pec genova@mailcert.avvocaturastato.it, in luogo di quello dedicato alla ricezione degli atti giudiziari, cioè ads.ge@mailcert.avvocaturastato, escludendo, al contempo, il beneficio della remissione in termini per la rinnovazione della notificazione essendo la predetta nullità imputabile a negligenza del ricorrente. Avverso la suddetta decisione l’appellante, con il mezzo in epigrafe, ha articolato i seguenti motivi di gravame: a) sarebbe erronea la decisione di prime cure in quanto l'indirizzo pec genova@mailcert.avvocaturastato.it, pur diverso dal domicilio digitale qualificato ai fini processuali, è pur sempre contenuto nell'indice P.A., da ritenersi un pubblico elenco in via generale e, come tale, utilizzabile ancora per le notificazioni alle P.A; b) ad ogni buon conto, la questione sarebbe tuttora oggetto di discussione, vieppiù alla data di notifica del ricorso, di talchè s’imponeva la concessione di un termine per rinnovare la notifica. Muovendo da tale premessa, ripropone, dunque, in questa sede tutti i motivi non delibati in prime cure. Resiste in giudizio il Ministero appellato. Con ordinanza -OMISSIS- del 9.5.2019 questa Sezione ha accolto l’appello cautelare e, per l’effetto, sospeso l’esecutività della sentenza impugnata. L’appello merita accoglimento. Rileva, anzitutto, il Collegio come costituisca una circostanza acquisita il fatto che la notificazione del ricorso introduttivo del giudizio sia stata effettuata all'Avvocatura distrettuale dello Stato presso l'indirizzo pec genova@mailcert.avvocaturastato.it, e non presso l'indirizzo pec dell'Avvocatura Distrettuale dello Stato dedicato alla ricezione degli atti giudiziari, ads.ge@mailcert.avvocaturastato. Sul punto, dalla lettura sistemica delle disposizioni normative, di fonte primaria e secondaria, che disciplinano le notifiche a mezzo PEC in ambito PAT, deve ritenersi che la PEC da utilizzare per la rituale partecipazione del ricorso alle Amministrazioni pubbliche sia quella tratta dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, di cui all’art. 16, comma 12, del D.L. n. 179 del 2012. Segnatamente, l’art. 14, comma 2, del D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del PAT) prevede che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi PEC di cui all’art. 16, comma 12, del D.L. n. 179 del 2012, conv. in L. n. 221/2012, fermo quanto previsto dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Ai sensi del suddetto comma 12, dell’art. 16 del D.L. n. 179 del 2012, nel testo risultante dalla modifica operata col D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla L. n. 114 del 2014, le amministrazioni pubbliche dovevano comunicare, entro il 30 novembre 2014, al Ministero della Giustizia l’indirizzo PEC valido ai fini della notifica telematica nei loro confronti, da inserire in un apposito elenco. Ciò in conformità con quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 16 ter del medesimo D.L. n. 179 (2012 (aggiunto dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in L. 11 agosto 2014, n. 114) che ha reso applicabile alla giustizia amministrativa il comma 1 dello stesso art. 16 ter. Tale ultima disposizione, nella versione vigente, prevede che " a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6-bis, 6-quater e 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dall'articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall'articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”. E’, dunque, di tutta evidenza l’opzione del legislatore di conferire il predicato della ritualità della notifica telematica solo se effettuata presso gli indirizzi mutuati da elenchi ben individuati escludendo, dunque, in apice, ogni forma di equipollenza (cfr. Cassazione civile sez. VI, 27/06/2019, n.17346; Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ord., 25/05/2018, n. 13224; Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 11/05/2018, n. 11574; CdS Sez III 6178 del 29.12.2017; Sez III n. 197 del 20.1.2016; Cons. giust. amm. Sicilia, 12/04/2018, n. 217; CdS 5891 del 13.12.2017). D’altro canto, ha indubbio fondamento l’esigenza di certezza sottesa alla richiamata disciplina, trattandosi di adempimenti che si pongono a presidio dell’effettività del contraddittorio siccome funzionali ad una tempestiva ed efficace organizzazione della linea difensiva delle Amministrazioni intimate. In ragione di quanto fin qui evidenziato nemmeno l’indirizzo PEC risultante dal registro IPA può ritenersi valido ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A. Il registro IPA, di cui all’art. 16, comma 8, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in L. n. 2 del 2009, non viene, infatti, più espressamente menzionato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi PEC ai fini della notifica degli atti giudiziari. In particolare, l’elenco l’IPA era inizialmente equiparato agli elenchi pubblici dai quali poter acquisire gli indirizzi PEC validi per le notifiche telematiche dall’art. 16 ter D.L. n. 179 del 2012, ma tale equiparazione è attualmente venuta meno in seguito alla modifica di tale disposizione. Stessa conclusione di inidoneità va replicata, per le medesime ragioni suesposte, per gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione, che non trovano autonoma legittimazione normativa ai fini delle notifiche degli atti giudiziari. Ciò nondimeno, nemmeno può essere obliterato come l’esegesi della suddetta disciplina abbia avuto approdi non sempre univoci in giurisprudenza, rinvenendosi anche indirizzi inclini a riconoscere validità della notifica a mezzo posta elettronica certificata del ricorso effettuata all'amministrazione all'indirizzo tratto dall'elenco presso l'Indice PA vieppiù se l'amministrazione pubblica destinataria della notificazione telematica sia rimasta inadempiente all'obbligo di comunicare altro e diverso indirizzo PEC da inserire nell'elenco pubblico tenuto dal Ministero della Giustizia. (cfr. ad esempio, di recente, Consiglio di Stato sez. III, 27/02/2019, n.1379; Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12 dicembre 2018 n. 7026). Orbene, in siffatte evenienze, contraddistinte dalla evidenziata oscillazione giurisprudenziale, non può che accordarsi il beneficio della rimessione in termini ex articolo 37 del c.p.a., registrandosi, in definitiva, pur nel rigore valutativo qui esigibile, oggettive ragioni di incertezza sulla questione di diritto suesposta. Va, dunque, rilevata l’erroneità della sentenza di primo grado che, senza concedere tale facoltà, ha dichiarato l’irricevibilità del ricorso. Il giudice di prime cure avrebbe, dunque, dovuto riconoscere l’errore scusabile e consentire alla parte ricorrente di poter rinnovare la notifica del ricorso all’Amministrazione intimata, evocandola in giudizio questa volta mediante una rituale partecipazione del ricorso all’indirizzo corretto. La necessità di accordare alla parte ricorrente tale facoltà implica, pertanto, l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al primo giudice, onde assicurare, nei sensi suddetti, mediante rinnovo della notifica, l’integrazione del contraddittorio, attesa la contumacia dell’Amministrazione nel giudizio di primo grado. La sezione non ignora la regula iuris (di recente autorevolmente espressa dalla giurisprudenza ed, in particolare, da Cons. di Stato, Ad. Plen. 30 luglio 2018, n. 10; Ad. Plen. 5 settembre 2018, n. 14) secondo cui, in coerenza con il generale principio dell'effetto devolutivo - sostitutivo dell'appello, le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall'art. 105 Cod. proc. amm. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive. Si è, invero, affermato che anche l'erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento per rinvio: in tale evenienza, infatti, la chiusura in rito del processo non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattito processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione. Ciò nondimeno, nel caso di specie la suddetta opzione s’impone proprio in applicazione dell’articolo 105 c.p.a. per le divisate ricadute che ne conseguono quanto al rispetto del principio del contraddittorio, che non risulta correttamente assicurato nel giudizio di prime cure. In ragione della peculiarità della vicenda scrutinata possono essere integralmente compensate le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), accoglie l’appello e, per l’effetto, annulla la sentenza impugnata e rimette la causa al giudice di primo grado. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la persona dell’appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 ottobre 2019 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo - Notifica del ricorso – Notifica Pec – A Pubblica amministrazione – Dopo entrata in vigore del Pat – Solo indirizzo mutuato dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia – Errore scusabile – Va riconosciuto.                     La notifica telematica del ricorso alle Amministrazioni deve essere effettuata presso gli indirizzi mutuati dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia escludendo, in apice, ogni forma di equipollenza, con la conseguenza che nemmeno l’indirizzo Pec risultante dal registro IPA e gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione possono ritenersi validi ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A.; l’oscillazione giurisprudenziale riscontrata sul punto giustifica il riconoscimento dell’errore scusabile (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che dalla lettura sistemica delle disposizioni normative, di fonte primaria e secondaria, che disciplinano le notifiche a mezzo PEC in ambito PAT, deve ritenersi che la PEC da utilizzare per la rituale partecipazione del ricorso alle Amministrazioni pubbliche sia quella tratta dall’elenco tenuto dal Ministero della Giustizia, di cui all’art. 16, comma 12, d.l. n. 179 del 2012. Segnatamente, l’art. 14, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del PAT) prevede che le notificazioni alle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi PEC di cui all’art. 16, comma 12, d.l..n. 179 del 2012, conv. in L. n. 221 del 2012, fermo quanto previsto dal regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. Ai sensi del suddetto comma 12, dell’art. 16, d.l. n. 179 del 2012, nel testo risultante dalla modifica operata col D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla l. n. 114 del 2014, le amministrazioni pubbliche dovevano comunicare, entro il 30 novembre 2014, al Ministero della Giustizia l’indirizzo PEC valido ai fini della notifica telematica nei loro confronti, da inserire in un apposito elenco. Ciò in conformità con quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 16 ter del medesimo D.L. n. 179 (2012 (aggiunto dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014, n. 114) che ha reso applicabile alla giustizia amministrativa il comma 1 dello stesso art. 16 ter. Tale ultima disposizione, nella versione vigente, prevede che "a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 6-bis, 6-quater e 62, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall'art. 16, comma 12, del presente decreto, dall'articolo 16, comma 6, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”. E’, dunque, di tutta evidenza l’opzione del legislatore di conferire il predicato della ritualità della notifica telematica solo se effettuata presso gli indirizzi mutuati da elenchi ben individuati escludendo, dunque, in apice, ogni forma di equipollenza (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2019, n.17346; id., ord., 25 maggio 2018, n. 13224; id.  11 maggio 2018, n. 11574; Cons. St., sez. III, 29 dicembre 2017, n. 6178; id. 20 gennaio 2016, n. 197; C.g.a. 12 aprile 2018, n. 217). D’altro canto, ha indubbio fondamento l’esigenza di certezza sottesa alla richiamata disciplina, trattandosi di adempimenti che si pongono a presidio dell’effettività del contraddittorio siccome funzionali ad una tempestiva ed efficace organizzazione della linea difensiva delle Amministrazioni intimate. In ragione di quanto fin qui evidenziato nemmeno l’indirizzo PEC risultante dal registro IPA può ritenersi valido ai fini della notifica degli atti giudiziari alle P.A. Il registro IPA, di cui all’art. 16, comma 8, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. in l. n. 2 del 2009, non viene, infatti, più espressamente menzionato tra i pubblici elenchi dai quali estrarre gli indirizzi PEC ai fini della notifica degli atti giudiziari. In particolare, l’elenco l’IPA era inizialmente equiparato agli elenchi pubblici dai quali poter acquisire gli indirizzi PEC validi per le notifiche telematiche dall’art. 16 ter, d.l. n. 179 del 2012, ma tale equiparazione è attualmente venuta meno in seguito alla modifica di tale disposizione. Stessa conclusione di inidoneità va replicata, per le medesime ragioni suesposte, per gli indirizzi internet indicati nei siti dell’amministrazione, che non trovano autonoma legittimazione normativa ai fini delle notifiche degli atti giudiziari. Ciò nondimeno, nemmeno può essere obliterato come l’esegesi della suddetta disciplina abbia avuto approdi non sempre univoci in giurisprudenza, rinvenendosi anche indirizzi inclini a riconoscere validità della notifica a mezzo posta elettronica certificata del ricorso effettuata all'amministrazione all'indirizzo tratto dall'elenco presso l'Indice PA vieppiù se l'amministrazione pubblica destinataria della notificazione telematica sia rimasta inadempiente all'obbligo di comunicare altro e diverso indirizzo PEC da inserire nell'elenco pubblico tenuto dal Ministero della Giustizia (Cons. St., sez. III, 27 febbraio 2019, n.1379; id., sez. V, 12 dicembre 2018,  n. 7026).  Orbene, in siffatte evenienze, contraddistinte dalla evidenziata oscillazione giurisprudenziale, non può che accordarsi il beneficio della rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., registrandosi, in definitiva, pur nel rigore valutativo qui esigibile, oggettive ragioni di incertezza sulla questione di diritto suesposta.
Processo amministrativo
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Valenza del principio di prossimità nella localizzazione di impianti di smaltimento dei rifiuti speciali
N. 05025/2021REG.PROV.COLL. N. 08824/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8824 del 2019, proposto da Pa Holding S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Umberto Deflorian e Paolo Dell'Anno, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Provincia Autonoma di Bolzano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Michele Costa, Jutta Segna, Renate Von Guggenberg e Fabrizio Cavallar, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di Cortaccia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Claudia Galdenzi e Federico Boezio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Federico Boezio in Milano, via Cadore n. 36; Finstral S.r.l. non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del T.R.G.A., Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n. 166/2019. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Provincia Autonoma di Bolzano e del Comune di Cortaccia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 giugno 2021 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Umberto Deflorian, Paolo Dell'Anno, Fabrizio Cavallar, Claudia Galdenzi e Federico Boezio in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1 - PA Holding s.r.l. è proprietaria nel Comune di Cortaccia sulla Strada del Vino (BZ) dell’area contraddistinta dalle particelle n. 783 e n. 742, che ricade nella “zona per insediamenti produttivi Etscweg”. Nel dettaglio: la p. 742 è una costruzione con destinazione ad uffici; la p. 783 è un capannone industriale all’interno del quale Eco-Energy s.r.l. opera in forza di autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.) del 29.7.2016. 2 - In data 6.3.2018, PA Holding s.r.l. ha depositato il progetto e lo studio d’impatto ambientale (S.I.A.) per la realizzazione dell’impianto di trattamento termico di rifiuti “EEK Eco-Energy” nel comune di Cortaccia. 3 - Il Comitato ambientale ha esaminato il progetto e il relativo studio di impatto ambientale ed ha poi reso il parere negativo n. 16/2018 del 18.7.2018, in cui si legge: “L’impianto di trattamento termico è dimensionato per 95.000 tonn/anno di rifiuti speciali non pericolosi. Alla presentazione pubblica è stato osservato che in base alla comunicazione dell’Ufficio Gestione rifiuti del 13.04.2018 la quantità di rifiuti prodotti in Provincia di Bolzano classificabili con i codici 191212 e 191204 era pari a 39.437 tonnellate (CER 191212) e 19.951 tonnellate (CER 191204) nel 2016 e di 30.529 tonnellate (CER 191212) e 16.155 tonnellate (CER 191204) nel 2017. I dati sono corretti, vanno però letti all’interno degli attuali flussi di rifiuti in Provincia di Bolzano. Per quanto concerne i rifiuti con codice 191212 va tenuto conto che il Piano gestione dei rifiuti speciali della Provincia autonoma di Bolzano (deliberazione della Giunta provinciale 1028/2017, ribadito nella deliberazione della Giunta 593/2018), prevede, nel rispetto del principio di prossimità sancito dall’art. 16 della direttiva 2008/98/CE, che tali rifiuti siano smaltiti in base alla loro qualità e composizione, preferibilmente nel termovalorizzatore di Bolzano. Esso tratta attualmente una quantità di rifiuti che oscilla tra le 23.000 e le 28.000 tonn/anno, cosicché la quantità di rifiuti di questa tipologia disponibile per un ulteriore impianto risulta pari a ca.16.000 tonn/anno. Rispetto ai rifiuti con codice 191204 va osservato che la maggior parte di questa tipologia di rifiuti è importata da fuori provincia (provenienza Milano, Varese, Padova, ecc…) dalla Energie AG, e poi inviata per il trattamento termico a cementifici in Germania (12.655 tonnellate nel 2017). Si ritiene che questa quantità non debba essere considerata nei potenziali rifiuti prodotti all’interno del territorio provinciale e valorizzabili localmente. La quantità potenzialmente destinabile all’impianto della Eco-energie è quindi di 8.000 tonn/anno. Complessivamente quindi a fronte di un impianto della capacità di 95.000 tonnellate sarebbe nota la provenienza soltanto di 24.000 tonnellate delle tipologie di rifiuto nominate che vengono prodotti in Alto Adige. Non è quindi possibile valutare il rispetto del principio di prossimità ai sensi della direttiva rifiuti. Inoltre, il progetto non ha preso in considerazione ubicazioni alternative. Il progetto prevede la reintroduzione delle scorie nel processo di gassificazione. La reintroduzione delle scorie, che in base all’esperienza e fino a prove analitiche contrarie sono da considerare rifiuti pericolosi, comporta la miscelazione degli stessi con rifiuti non pericolosi, per il cui trattamento l’impianto è stato progettato. L’articolo 187 del decreto legislativo 152/2006 prevede espressamente il divieto di miscelare rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi. Dai dati di progetto si può stimare che l’impianto emetterà circa 32 tonn/anno di ossidi di azoto. Prendendo in esame il catasto delle emissioni della Provincia autonoma di Bolzano, si evince che tali emissioni porterebbero ad un significativo aumento, superiore al 3%, delle emissioni di ossidi di azoto nella zona compresa tra il comune di Laives e Salorno. Nella medesima zona inoltre si può stimare un aumento delle emissioni di CO2 superiore al 10%, in considerazione dell’utilizzo di coke e di rifiuti speciali caratterizzati da una componente fossile, variabile a seconda del rifiuto trattato, ma in ogni caso rilevante. Il bilancio risulta negativo anche alla luce dell’impossibilità di recuperare interamente l’energia termica prodotta per alimentare una rete di teleriscaldamento locale. L’impianto non rispetta le linee guida relative all’utilizzazione delle migliori tecniche disponibili in materia di gestione dei rifiuti di cui al decreto 29.01.2007 del Ministero dell’Ambiente, in quanto nel sito in oggetto non risulta possibile recuperare una parte notevole dell’energia termica prodotta. Dall’esame dello studio previsionale di impatto acustico presentato, si evince che l’impianto non garantisce il rispetto dei valori limite di pianificazione durante le ore notturne di cui alla legge provinciale n. 20/2012 per diversi ricettori ubicati in zona produttiva. I livelli sonori previsti nel progetto sono in ogni caso superiori ai limiti di legge e su diverse sorgenti si ottengono inoltre attuando interventi di mitigazione acustica, come in particolare la realizzazione di una barriera acustica di altezza pari a 15 metri, molto complessa e tecnicamente di difficile realizzazione. La “via dell’Adige” è una zona produttiva di piccole dimensioni situata nel fondovalle dell’Oltradige. I dintorni della zono produttiva sono caratterizzati soprattutto da aree agricole. I confini del Parco naturale Monte Corno si trovano ad una distanza di 600 m. In considerazione della situazione paesaggistica, le norme di attuazione del piano urbanistico del Comune prevedono nella zona produttiva una altezza massima di 11,5 m. Gli impianti previsti nel progetto, con un’altezza di ca 40 m, superano di gran lunga l’altezza massima ammissibile Trattandosi non di elementi singoli di ridotte dimensioni, bensì di ampie parti funzionalmente necessarie al ciclo produttivo, esse generano un salto di scala dimensionale rispetto all’edificato circostante e comportano un notevole impatto visivo nelle immediate adiacenze e un considerevole impatto paesaggistico sul profilo trasversale della valle dell’Adige. Il progetto prevede il collegamento tra i lotti funzionali Lodola e Fucine Alto Adige tramite un cunicolo sotterraneo, che verrebbe realizzato sotto l’areale della ditta Finstral SPA. La ditta Finstral ha comunicato in una presa di posizione sul progetto che non darà il proprio assenso alla realizzazione del tunnel. Ciò mette in discussione la fattibilità del progetto nel suo complesso. Inoltre, si rammenta che il Comune di Cortaccia con delibera della Giunta comunale del 17.10.2017 ha approvato la modifica ai piani di attuazione della zona per insediamenti produttivi via dell’Adige, che prevede nella zona suddetta l’esclusione dell’insediamento di impianti con attività di raccolta, lavorazione, trasformazione e incenerimento di rifiuti, in quanto essi pregiudicano lo sviluppo e l’attrattività della zona e sono difficilmente compatibili con altre attività. La Giunta provinciale condivide le valutazioni del Comitato ambientale” Con la deliberazione n. 748 del 31.7.2018, la Giunta provinciale, recependo il parere espresso dal Comitato ambientale, ha respinto il progetto per la realizzazione dell’impianto di trattamento termico di rifiuti. 4 - Con ricorso al Tribunale regionale di giustizia amministrativa, sezione autonoma di Bolzano, PA Holding s.r.l. ha impugnato tale deliberazione unitamente al parere n. 16/2018 del Comitato ambientale, deducendo i seguenti motivi di ricorso: i) Violazione e falsa applicazione di legge (articolo 182-bis, d.lgs. 152/2006). Violazione della Costituzione (art. 117, comma 1 e 117 comma 2, lett. s) – Violazione di legge (art. 177, comma 7, d.lgs. 152/2006) - Eccesso di potere e travisamento dei fatti. Violazione del principio costituzionale di libera circolazione delle cose (art. 120). Violazione di legge (art. 182, comma 3, d. lgs. 152/2006); ii) Falsa applicazione degli artt. 187 del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; iii) Violazione e falsa applicazione degli artt. 7, comma 4, 9, commi 1, 4 e 10, 10, comma 2 e 16, comma 2, e dell’allegato XI del d.lgs. 13.8.2010, n. 152; degli artt. 237-ter, comma 1, lett. b), 237-duodecies e degli Allegati I, paragrafo A, e Allegato 2, paragrafo A del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; iv) Violazione e falsa applicazione degli artt. 237-ter e 237-quater del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 e del d.m. 29.1.2007 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; v) Violazione e falsa applicazione degli artt. 9, 10 e 13, comma 1 della L.P. 5.12.2012, n. 20 e dell’Allegato A, tavole 1, 2, 3 e 4 dalla prima richiamate – Illegittimità costituzionale dell’art. 10 della L.P. 5.12.2012, n. 20 per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), Cost., in riferimento agli articoli 1 della legge n. 447/1995 ed agli articoli da 1 a 7 del D.P.C.M. 14.11.1997 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; vi) Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 delle Norme di attuazione del “Piano di attuazione della zona per insediamenti produttivi Etschweg”, della circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 2474 del 31.01.1973, dell’art. 4 del “Regolamento edilizio” del Comune di Cortaccia (deliberazione del Consiglio comunale n. 57/R/19.10.2004 e della Giunta provinciale n. 23/3552/4.4.2005), degli artt. 20, 6 comma 3, in combinazione con l’art. 4, comma 1, della L.P. 13.10.2017, n. 17, degli artt. 27 bis e 208 del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; vii) Violazione e falsa applicazione degli artt. 20, comma 3, in combinazione con l’art. 4, comma 1, della L.P. 13.10.2017, n. 17, degli artt. 1031 e 1052 c.c., degli artt. 27 bis e 208 del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 - Eccesso di potere per illogicità grave e manifesta, travisamento dei fatti e difetto dei presupposti; viii) a) Violazione e falsa applicazione degli artt. 27 bis e 208 del d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (“provvedimento autorizzativo unico regionale”) - b) Illegittimità costituzionale dell’art. 20, commi 1, 3 e 4, per violazione dell'art. 117, comma 2, lettera s), Cost., in riferimento agli articoli 27-bis, comma 7, del d.lgs. n. 152 del 2006 - c) Illegittimità derivata da quella delle deliberazioni nn. 262/A di data 17.10.2017 e 218/A di data 29.8.2017 della Giunta comunale di Cortaccia per: (i) Violazione e falsa applicazione degli artt. 38 e 44 della L.P. 11.8.1997, n. 13; (ii) Violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 34-bis della L.P. 11.8.1997, n. 13 - Violazione e falsa applicazione dell’art. 26, comma 3, del D.P. Reg. 1.2.2005, n. 3/L e successive modificazioni (“Ordinamento dei Comuni della Regione Autonoma Trentino-Alto Adige”); (iii) Eccesso di potere per manifesta illogicità, carenza dei presupposti, travisamento dei fatti, sviamento, ingiustizia grave e manifesta – Violazione dell’art. 21-octies, comma 1, della Legge 7.8.1990, n. 241; ix) Violazione e falsa applicazione dell’art. 10 bis della Legge 7.8.1990, n. 241 e dell’art. 11/bis della L.P. 22.10.1993, n. 17. 5 – Con la sentenza n. 166/2019, il Tribunale adito ha respinto il ricorso. Avverso tal pronuncia ha proposto appello l’originaria parte ricorrente. All’udienza del 17 giugno 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1 – In via preliminare, giova richiamare le ragioni che hanno portato il giudice di primo grado al rigetto del ricorso. La sentenza impugnata ha respinto il primo motivo di ricorso, assorbendo le ulteriori censure, in quanto, il primo rilievo: “Regge dunque al gravame il primo dei motivi sui quali poggia l’impugnata delibera della Giunta provinciale, da solo sufficiente a sorreggere e giustificare il rigetto del progetto della ricorrente, a prescindere dalla congruità delle ulteriori ragioni addotte a sostegno del contestato provvedimento negativo”. Nel merito, della prima censura, il giudice di primo grado ha rilevato che: a) il parere del Comitato tecnico ed il provvedimento provinciale di recepimento non conterrebbero “alcun divieto generalizzato all’importazione e alla circolazione di rifiuti speciali”, ma si limiterebbero a “rilevare l’impossibilità di valutare la provenienza dei rifiuti de quibus e quindi l’impossibilità di garantire l’osservanza del principio di prossimità sancito dall’art. 16 della direttiva rifiuti 98/2008/CE”; b) il principio di prossimità di cui all’art. 16 della direttiva rifiuti 2008/98/CE, richiamato nella deliberazione impugnata, trova applicazione nell’ordinamento italiano non solo con riferimento allo smaltimento dei rifiuti urbani (art. 182-bis del d.lgs. 152/2006 rubricato “Principi di autosufficienza e prossimità”), ma anche con riguardo al recupero dei rifiuti speciali; c) l’applicazione, da un lato, degli artt. 177, 178, 183 e 199 del d. lgs. n. 152/2006, dall’altro, della L.P. 26.5.2004, n. 4 e della deliberazione della Giunta provinciale n. 1028 del 26.9.2017, di approvazione del “Piano di gestione dei rifiuti speciali della Provincia autonoma di Bolzano”, inibirebbero la realizzazione di un impianto di trattamento di rifiuti speciali, la cui provenienza sia estranea al territorio provinciale, in quanto tutto ciò finirebbe per violare il principio di prossimità; d) il principio di prossimità non può essere inteso nel senso voluto dalla ricorrente, non essendo determinante la posizione del progettato impianto di gassificazione, bensì la provenienza originaria dei rifiuti speciali necessari per l’alimentazione dell’impianto stesso; e) al netto dei rifiuti trattati dall’inceneritore di Bolzano (“ca. 66.000 tonn/annue”), quelli gestiti da PA Holding s.r.l. sfuggirebbero “al controllo secondo il criterio della prossimità, non riuscendo l’Agenzia per l’ambiente a verificarne la provenienza”, e “di specializzazione imposti dall’ordinamento al trattamento dei rifiuti speciali”. 1.1 – Secondo l’appellante, i passaggi motivazioni innanzi sommariamente riassunti si pongono in violazione dei principi fondamentali che regolano la disciplina di settore, e precisamente: a) la parificazione della disciplina dei rifiuti urbani a quella dei rifiuti speciali; b) il disposto dell’articolo 16 della direttiva 2008/98, sui principi di autosufficienza e prossimità; c) l’efficacia della legge provinciale n. 6/2006 rispetto alla sopravvenuta legge statale 205/2010 sui principi di autosufficienza e prossimità. 1.2 – Con il sesto e settimo motivo di appello, con diversi accenti, l’appellante deduce ancora la violazione e falsa applicazione del principio di prossimità di cui all’art. 182-bis del d.lgs. 152/2006, insistendo sul fatto che tale norma preclude ai piani regionali (o provinciali) di limitare la circolazione dei rifiuti speciali. 2 – Il provvedimento impugnato ed il relativo parere tecnico, per la parte relativa alla specifica questione in esame, si esprimono come segue: “L’impianto di trattamento termico è dimensionato per 95.000 tonn/anno di rifiuti speciali non pericolosi. Alla presentazione pubblica è stato osservato che in base alla comunicazione dell’Ufficio Gestione rifiuti del 13.04.2018 la quantità di rifiuti prodotti in Provincia di Bolzano classificabili con i codici 191212 e 191204 era pari a 39.437 tonnellate (CER 191212) e 19.951 tonnellate (CER 191204) nel 2016 e di 30.529 tonnellate (CER 191212) e 16.155 tonnellate (CER 191204) nel 2017. I dati sono corretti, vanno però letti all’interno degli attuali flussi di rifiuti in Provincia di Bolzano. Per quanto concerne i rifiuti con codice 191212 va tenuto conto che il Piano gestione dei rifiuti speciali della Provincia autonoma di Bolzano (deliberazione della Giunta provinciale 1028/2017, ribadito nella deliberazione della Giunta 593/2018), prevede, nel rispetto del principio di prossimità sancito dall’art. 16 della direttiva 2008/98/CE, che tali rifiuti siano smaltiti in base alla loro qualità e composizione, preferibilmente nel termovalorizzatore di Bolzano. Esso tratta attualmente una quantità di rifiuti che oscilla tra le 23.000 e le 28.000 tonn/anno, cosicché la quantità di rifiuti di questa tipologia disponibile per un ulteriore impianto risulta pari a ca.16.000 tonn/anno. Rispetto ai rifiuti con codice 191204 va osservato che la maggior parte di questa tipologia di rifiuti è importata da fuori provincia (provenienza Milano, Varese, Padova, ecc…) dalla Energie AG, e poi inviata per il trattamento termico a cementifici in Germania (12.655 tonnellate nel 2017). Si ritiene che questa quantità non debba essere considerata nei potenziali rifiuti prodotti all’interno del territorio provinciale e valorizzabili localmente. La quantità potenzialmente destinabile all’impianto della Eco-energie è quindi di 8.000 tonn/anno. Complessivamente quindi a fronte di un impianto della capacità di 95.000 tonnellate sarebbe nota la provenienza soltanto di 24.000 tonnellate delle tipologie di rifiuto nominate che vengono prodotti in Alto Adige. Non è quindi possibile valutare il rispetto del principio di prossimità ai sensi della direttiva rifiuti”. 3 – Il quadro normativo entro il quale collocare la questione sottesa al giudizio è il seguente. L’art. 16 della Direttiva 2008/98/CE individua i principi di autosufficienza e prossimità disponendo, tra l’altro, che: “Gli Stati membri adottano, di concerto con altri Stati membri qualora ciò risulti necessario od opportuno, le misure appropriate per la creazione di una rete integrata e adeguata di impianti di smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, inclusi i casi in cui detta raccolta comprenda tali rifiuti provenienti da altri produttori, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili. La rete permette lo smaltimento dei rifiuti o il recupero di quelli menzionati al paragrafo 1 in uno degli impianti appropriati più vicini, grazie all’utilizzazione dei metodi e delle tecnologie più idonei, al fine di garantire un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute pubblica”. Ai sensi dell’art. 178 del d.lgs. n. 152/2006 “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio chi inquina paga. A tale fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali”. L’art. 179 del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce i criteri da seguire nella gestione dei rifiuti, che consiste nelle seguenti attività: “a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento”. Ai sensi del comma 2 del citato art. 179 tali criteri hanno lo scopo di stabilire, in generale, un “ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore opzione ambientale”, prescrivendo che “nel rispetto della gerarchia di cui al comma 1, devono essere adottate le misure volte a incoraggiare le opzioni che garantiscono, nel rispetto degli articoli 177, commi 1 e 4, e 178, il miglior risultato complessivo, tenendo conto degli impatti sanitari, sociali ed economici, ivi compresa la fattibilità tecnica e la praticabilità economica”. L’art. 182-bis, relativo ai principi di autosufficienza e prossimità, prevede che: “Lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati sono attuati con il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi, al fine di: a) realizzare l'autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e dei rifiuti del loro trattamento in ambiti territoriali ottimali; b) permettere lo smaltimento dei rifiuti ed il recupero dei rifiuti urbani indifferenziati in uno degli impianti idonei più vicini ai luoghi di produzione e raccolta, al fine di ridurre i movimenti dei rifiuti stessi, tenendo conto del contesto geografico o della necessità di impianti specializzati per determinati tipi di rifiuti”. Viene inoltre in considerazione, l’art. 199 del d. lgs. n. 152/2006 in base al quale: “Le regioni, sentite le province, i comuni e, per quanto riguarda i rifiuti urbani, le Autorità d'ambito di cui all'articolo 201, nel rispetto dei principi e delle finalità di cui agli articoli 177, 178, 179, 180, 181, 182 e 182-bis ed in conformità ai criteri generali stabiliti dall'articolo 195, comma 1, lettera m), ed a quelli previsti dal presente articolo, predispongono e adottano piani regionali di gestione dei rifiuti. I piani di gestione dei rifiuti di cui al comma 1 comprendono l'analisi della gestione dei rifiuti esistente nell'ambito geografico interessato, le misure da adottare per migliorare l'efficacia ambientale delle diverse operazioni di gestione dei rifiuti, nonché una valutazione del modo in cui i piani contribuiscono all'attuazione degli obiettivi e delle disposizioni della parte quarta del presente decreto”. Rileva in particolare il comma 3 lett. g) del citato articolo, che tra i viari criteri individua esplicitamente: “il complesso delle attività e dei fabbisogni degli impianti necessari a garantire la gestione dei rifiuti urbani secondo criteri di trasparenza, efficacia, efficienza, economicità e autosufficienza della gestione dei rifiuti urbani non pericolosi all'interno di ciascuno degli ambiti territoriali ottimali di cui all'articolo 200, nonché ad assicurare lo smaltimento e il recupero dei rifiuti speciali in luoghi prossimi a quelli di produzione al fine di favorire la riduzione della movimentazione di rifiuti”. 3.1 - La Corte Costituzionale ha affermato che i principi di autosufficienza e prossimità, in diretta attuazione dei quali sono definiti ambiti territoriali ottimali per le tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti, sono cogenti esclusivamente per quanto concerne lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti urbani, ma non già per le medesime attività riguardanti i rifiuti speciali, perché per questa tipologia di rifiuti occorre avere riguardo alle relative caratteristiche ed alla conseguente esigenza di specializzazione nelle operazioni di trattamento dello stesso (in questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, a proposito della legislazione regionale veneta, nella sentenza 4 dicembre 2002, n. 505; si vedano anche le sentenze 19 ottobre 2001, n. 355 e 14 luglio 2000, n. 281). Nella sentenza 23 gennaio 2009, n. 10, la Corte Costituzionale, seppur abbia ribadito l’esclusione della possibilità di imporre un divieto di trattamento dei rifiuti speciali provenienti da altri ambiti territoriali, ha confermato tuttavia che “nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne “permette” anche altre”. 3.2 - In provincia di Bolzano, il “Piano provinciale di gestione dei rifiuti e ambiti territoriali” è disciplinato dalla l. p. n. 4 del 26.5.2006 sulla “gestione dei rifiuti e la tutela del suolo”. L’art. 10, comma 1, della l.p. n. 4/2006, stabilisce che “1. Il piano provinciale di gestione dei rifiuti, che può essere ripartito nel piano per i rifiuti urbani e nel piano per i rifiuti speciali, costituisce il piano di settore di cui al punto IV del piano provinciale di sviluppo e di coordinamento territoriale, approvato con legge provinciale 18 gennaio 1995, n. 3, ed è approvato secondo le modalità di cui agli articoli 11 e seguenti della legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13. Il piano provinciale di gestione dei rifiuti ha una durata di 10 anni”. Con delibera della Giunta provinciale n. 1028 del 26.9.2017, pubblicata sul BUR del 10.10.2017, è stato approvato il “Piano di gestione dei rifiuti speciali della Provincia autonoma di Bolzano”. Come risulta dal punto 1.3 “Strategie ed obiettivi”, lo scopo principale del piano è quello di “descrivere al meglio lo stato della gestione dei rifiuti speciali in Alto Adige. A partire da ciò e progressivamente sono introdotti nuovi interventi che comprendono le indicazioni strategiche, gli strumenti giuridici superiori e la realità territoriale, in modo da rendere possibile anche per il futuro una gestione sostenibile ed efficiente dei rifiuti speciali. Gli obiettivi contenuti sono fondati sulla base di quelli già elencati dalla gerarchia prevista dal D.lgs. 152/2006 (prevenzione, riutilizzo, riciclaggio, recupero e smaltimento). In questi termini, la Provincia di Bolzano ha dato priorità ai seguenti obiettivi: Tutela dell’ambiente e della salute umana - Assicurare le massime garanzie di tutela dell’ambiente e della salute umana Massimizzare le attività di riciclo e recupero: - Massimizzare le attività di riciclo e di recupero, favorendo anche il recupero di energia Favorire il trattamento di rifiuti in Provincia/principio di prossimità - Favorire il trattamento dei rifiuti in provincia e garantire, per quanto possibile, lo smaltimento dei rifiuti speciali in prossimità dei luoghi di produzione Utilizzare soluzioni tecnologiche innovative - Privilegiare soluzioni tecnologiche innovative per la costruzione di nuovi impianti Unicizzare il testo - Il seguente aggiornamento prevede l’assunzione di un testo unico. Le varie tipologie di rifiuti speciali sono trattate in capitoli separati. In questo modo, si agevola la consultazione e si amplifica la comprensione del testo anche da parte dei soggetti non tecnici e non del settore (pubblici cittadini).” 4 – Alla luce della ricognizione normativa esposta, l’appello non deve trovare accoglimento. Invero, emerge in modo inequivoco come, il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani come erroneamente prospettato da parte appellante (cfr. l’art. 182-bis e l’art. 199, comma 3, lett. g). La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ben chiarito che - seppur un divieto di smaltimento dei rifiuti di produzione extraregionale sia applicabile ai rifiuti urbani non pericolosi, mentre il principio dell’autosufficienza locale ed il connesso divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale non possa valere né per quelli speciali pericolosi (sentenze n. 12 del 2007, n. 62 del 2005, n. 505 del 2002, n. 281 del 2000), né per quelli speciali non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001) - l’utilizzazione dell’impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare (sentenza 23 gennaio 2009, n. 10). Anche la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Cons. St. 11 giugno 2013, n. 3215; 19 febbraio 2013, n. 993) ha precisato che per i rifiuti speciali ha rilievo primario il criterio della specializzazione dell’impianto, in relazione al quale deve essere coordinato il principio di prossimità, con cui si persegue lo scopo di ridurre il più possibile la movimentazione di rifiuti (cfr. Cons. Stato, 23 marzo 2015, n. 1556). Il Comune appellato ha richiamato anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza CGUE 16 luglio 2015 in causa C-653/13), in base alla quale: “Il principio di correzione, prioritariamente alla fonte, dei danni causati all’ambiente – principio stabilito per l’azione dell’Unione in materia ambientale all’articolo 191 TFUE – implica che spetta a ciascuna regione, comune o altro ente locale adottare le misure appropriate per garantire il ricevimento, il trattamento e lo smaltimento dei propri rifiuti e che questi ultimi vanno quindi smaltiti il più vicino possibile al luogo in cui vengono prodotti, per limitarne al massimo il trasporto (sentenza Commissione/Italia, C297/08, EU:C:2010:115, punto 67). 4.1 – Alla luce delle considerazioni che precedono, pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuto speciali provenienti da altre regioni, il criterio della prossimità deve comunque ritenersi un criterio di cui tenere conto anche per i rifiuti speciali, unitamente agli ulteriori criteri rilevanti, ai fini della valutazione in questione. Sotto tale profilo la prospettazione dell’amministrazione supera le censure di parte appellante, nel momento in cui, con una precisa analisi di fatto, ha ben messo in luce come tale criterio sia stato completamente trascurato nella proposta progettuale sottoposta a valutazione. In particolare, come già illustrato nella parte in fatto, la Provincia ha rilevato che la capacità di trattamento dell’impianto, pari a 95.000 tonn/annue di rifiuti, sarebbe coperta per la gran parte (ca. 66.000 tonn/annue) da rifiuti di cui allo stato non è nota la provenienza e la natura, dal momento che la quantità di rifiuti disponibili sul territorio provinciale non corrisponde a quanto indicato in progetto (sommando le due tipologie di rifiuti (ca. 29.000 tonn/annue). Alla luce di tali rilievi non appare censurabile la conclusione contenuta nel provvedimento impugnato, ove si legge che “risulta quindi chiaro che il progetto presentato dalla ricorrente PA Holding s.r.l., che non rendendo impossibile il controllo di oltre 2/3 dei rifiuti dei quali si chiedeva l’autorizzazione al trattamento, non permette di verificare il rispetto dei principi di prossimità e di specializzazione imposti dall’ordinamento al trattamento dei rifiuti speciali”. La decisione impugnata non pare aver esorbitato dai limiti della discrezionalità che caratterizza le scelte in questione, anche tenuto conto del fatto che, l’evidenziata mancata considerazione del criterio della prossimità, deve essere letta anche alla luce dei dati per cui, per i rifiuti generati in provincia di Bolzano: quelli con codice 191212, la cui produzione negli anni 2016 e 2017 è stata rispettivamente di circa 40.000 tonnellate e 30.000 tonnellate, in base al piano provinciale sono destinati all’impianto già in funzione a Bolzano (che tratta attualmente dalle 23.000 alle 28.000 tonn/anno); per quelli con codice 191204, la cui produzione negli anni 2016 e 2017 è stata rispettivamente di circa 20.000 tonnellate e 16.000 tonnellate, il parere evidenzia che “la maggior parte di questa tipologia di rifiuti è importata da fuori provincia (provenienza Milano, Varese, Padova, ecc…) dalla Energie AG, e poi inviata per il trattamento termico a cementifici in Germania (12.655 tonnellate nel 2017). I rilievi svolti nel provvedimento impugnato quanto alla mancata considerazione del criterio di prossimità appaiono dunque in sintonia con il dato per cui la Provincia appare già in grado di smaltire nell’impianto esistente buona parte dei rifiuti che produce. 4.2 – Al riguardo, non risulta condivisibile la prospettazione di cui al terzo motivo di appello che, in riferimento alla redazione del piano piano provinciale attraverso i flussi di rifiuti risultanti dal MUD, si limita a denunciare il fatto che tali dati sarebbero riferibili all’esistente, ma non sono in grado di sviluppare nessuna previsione del futuro, perché mancano i dati sulle iniziative industriali che verranno proposte in modo autonomo dalle imprese negli anni a venire dopo l’entrata in vigore del piano. Al riguardo, non risulta in primo luogo censurabile la valutazione che ha preso le mosse da dati storici, ed in quanto tali reali ed oggettivi, tenuto conto che si tratta comunque di dati recenti; secondariamente, l’appellante non ha saputo compiutamente tracciare quale sarebbe la tendenza futura, connotando di genericità la censura, dovendosi in ogni caso evidenziare che dai dati rilevati emerge un decremento dei rifiuti prodotti (tra il 2016 e il 2017), come del resto è auspicabile anche in base alle politiche future volte al contenimento della produzione dei rifiuti; in ogni caso, la differenza rilevata (66.000 tonn/annue) appare di dimensioni tali che non appare ragionevolmente colmabile nell’immediato futuro, anche tenendo conto delle iniziative imprenditoriali che potrebbero nascere. 5 – Gli ulteriori rilievi di parte appellante entrano nel merito, insindacabile, della decisione impugnata che, per le considerazioni che precedono, sotto il profilo della sua illegittimità, non si pone in violazione della legge, né appare irragionevole o illogica rispetto al quadro fattuale sul quale si innesta. Per tale ragione, la sentenza impugnata merita condivisione anche nella parte in cui ha messo in luce l’impossibilità di sindacare il merito della scelta in quesitone - posto che “il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali non può essere mai sostitutivo; tale sindacato deve, pertanto, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non erroneità della valutazione degli elementi di fatto e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa, nei soli limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti” (Cons. Stato, sez. V, 18.2.2013, n. 978; 13.9.2012, n. 4873; cfr. anche Cass. Civ. SS.UU. 17.2.2012) - dovendosi anche sul punto disattendere la censura di parte appellante. 6 – Alla luce delle conclusioni che precedono risulta irrilevante il secondo dei motivi di appello, con cui si contesta il passaggio della sentenza impugnata in cui si dà atto che “l’impianto EEK Eco-Energy, la cui tecnologia è stata realizzata ed applicata in Giappone, non possa costituire un utile parametro di riferimento, operando in un contesto ambientale e socio-economico totalmente diverso da quello del Comune di Cortaccia”. Tale affermazione, ripresa dal provvedimento impugnato, non aggiunge alcun elemento rilevante rispetto alla ragione di diniego innanzi esaminati relativa alla criticità relativamente al criterio della prossimità. 7 – Vale un analogo discorso in riferimento al quinto motivo, con cui l’appellante censura il passaggio della sentenza in cui si contesta la mancata considerazione di ubicazioni alternative, dal momento che, da un lato, l’’individuazione di una diversa localizzazione per considerarsi appropriata implicherebbe di sanare il deficit innanzi riscontrato, da cui la non significatività della questione. 7.1 - Da un altro punto di vista, quando alla “criticità” dell’area individuata dall’appellante, il Comune ha in ogni caso messo in luce come risulti dallo stesso “Studio d’Impatto Ambientale (SIA)” presentato dalla società che: - il contesto territoriale nel quale si inserisce la zona industriale “Etschweg” è di tipo agricolo e costituisce zona di interesse paesaggistico; - la zona è inserita in un contesto territoriale a forte connotazione agricola e nelle sue vicinanze si trovano elementi di interesse paesaggistico quali meleti, biotipi (zone umide) e il Parco Naturale del Monte Corno; - in prossimità del sito prescelto per l’intervento, sono presenti anche dei gruppi di edifici a uso residenziale, sia in direzione sud, sia in direzione nord; - l’area è a rischio alluvioni, così come risulta dal “Piano di Gestione Rischio Alluvioni”, citato dalla stessa società. 7.2 – Sempre a tale riguardo, non risulta decisiva nemmeno la giustificazione della scelta localizzativa del gassificatore da parte di P.A. Holding, che rivendica la necessità di installare l’impianto in posizione contigua all’altro impianto di trattamento rifiuti, di proprietà della stessa PA Holding e gestito da EcoEnergy s.r.l., società controllata dalla stessa appellante. L’amministrazione comunale, in riferimento a tale aspetto, ha correttamente evidenziato che, malgrado l’evidente interconnessione oggettiva e soggettiva che lega tra loro i due insediamenti di PA Holding nel medesimo sito, il progetto presentato non prende mai in considerazione gli “impatti cumulativi” determinati dalla presenza, nelle immediate vicinanze, di altro impianto di trattamento di rifiuti, ponendosi in contrasto con la normativa di riferimento e precludendo una valutazione globale dell’impatto creato dal nuovo impianto (cfr. Cons. Stato, n. 36/2014). Per altro, la prospettata funzione sinergica con l’esistente impianto gestito da Eco-Energy s.r.l. (l’appellante vorrebbe alimentare il gassificatore con i rifiuti provenienti dall’impianto di Eco-Energy/P.A.) è stata ridimensionata dal giudice di primo grado che ha opportunamente rilevato che dall’impianto esistente di Eco-Energy s.r.l. potrebbero derivare solo 9000 ton/annue di rifiuti, per l’effetto resterebbe allo stato non definita la provenienza della gran parte dei rifiuti, così da rendere molto labile il rapporto di interconnessione tra i due impianti. Rispetto a tale disamina le censure di cui al sesto motivo di appello non contestano i dati utilizzati dal giudice di primo grado, limitandosi a riproporre la censura circa la violazione e falsa applicazione dell’art. 182- bis del d.lgs. 152/2006 già disattesa dalle considerazioni che precedono. 8 – Siccome la determinazione negativa di cui all’atto impugnato poggia su una pluralità di motivi, tra loro autonomi e logicamente indipendenti, risultano improcedibili gli ulteriori motivi di ricorso dedotti dalla società, il cui accoglimento non apporterebbe alcuna utilità all’appellante, visto che il provvedimento di diniego si fonda su un’autonoma e legittima ragione. Invero, secondo un consolidato e condiviso indirizzo giurisprudenziale, un provvedimento amministrativo fondato su più ordini di motivi deve considerarsi legittimo, se almeno uno di essi sia esente da vizi e sia idoneo a sostenere congruamente l’atto stesso (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3020; sez. IV, 10 dicembre 2007, n. 6325; Sez. V, 28 dicembre 2007, n. 6732 e TRGA Bolzano, 2 settembre 2008, n. 312; 8 novembre 2005, n. 372; 24 maggio 2005, n. 191, 28 settembre 2004, n. 417 e 15 febbraio 2002, n. 82). 9 - Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta al Collegio, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cassazione civile, sez. II, 22 marzo 1995 n. 3260 e, per quelle più recenti, Cassazione civile, sez. V, 16 maggio 2012 n. 7663). L’appello va, quindi, respinto nei sensi di cui in motivazione. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese di lite, vista la complessità della controversia, possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello e compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore Thomas Mathà, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore Thomas Mathà, Consigliere IL SEGRETARIO
Rifiuti – Smaltimento - Rifiuti speciali – Impianti – Localizzazione – Criterio della prossimità.         Pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che la Corte Costituzionale ha affermato che i principi di autosufficienza e prossimità, in diretta attuazione dei quali sono definiti ambiti territoriali ottimali per le tutte le attività connesse alla gestione dei rifiuti, sono cogenti esclusivamente per quanto concerne lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti urbani, ma non già per le medesime attività riguardanti i rifiuti speciali, perché per questa tipologia di rifiuti occorre avere riguardo alle relative caratteristiche ed alla conseguente esigenza di specializzazione nelle operazioni di trattamento dello stesso (in questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, a proposito della legislazione regionale veneta, nella sentenza 4 dicembre 2002, n. 505; si vedano anche le sentenze 19 ottobre 2001, n. 355 e 14 luglio 2000, n. 281). Nella sentenza 23 gennaio 2009, n. 10, la Corte Costituzionale, seppur abbia ribadito l’esclusione della possibilità di imporre un divieto di trattamento dei rifiuti speciali provenienti da altri ambiti territoriali, ha confermato tuttavia che “nella disciplina statale l'utilizzazione dell'impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali viene a costituire la prima opzione da adottare, ma ne “permette” anche altre”. Ha aggiunto la Sezione che il cd. criterio di prossimità valga anche per la gestione dei rifiuti speciali e non solo per quelli urbani (cfr. l’art. 182-bis e l’art. 199, comma 3, lett. g). La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ben chiarito che - seppur un divieto di smaltimento dei rifiuti di produzione extraregionale sia applicabile ai rifiuti urbani non pericolosi, mentre il principio dell’autosufficienza locale ed il connesso divieto di smaltimento dei rifiuti di provenienza extraregionale non possa valere né per quelli speciali pericolosi (sentenze n. 12 del 2007, n. 62 del 2005, n. 505 del 2002, n. 281 del 2000), né per quelli speciali non pericolosi (sentenza n. 335 del 2001) - l’utilizzazione dell’impianto di smaltimento più vicino al luogo di produzione dei rifiuti speciali costituisce la prima opzione da adottare (sentenza 23 gennaio 2009, n. 10). Anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato (11 giugno 2013, n. 3215; 19 febbraio 2013, n. 993) LINK ha precisato che per i rifiuti speciali ha rilievo primario il criterio della specializzazione dell’impianto, in relazione al quale deve essere coordinato il principio di prossimità, con cui si persegue lo scopo di ridurre il più possibile la movimentazione di rifiuti (Cons. Stato 23 marzo 2015, n. 1556). In conclusione, ad avviso della Sezione, pur dovendosi escludere una soluzione che preveda il divieto assoluto di trattamento di rifiuti speciali provenienti da altre regioni, anche per tali rifiuti speciali deve tenersi conto del criterio della prossimità.    
Rifiuti
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/vincolo-culturale-sulla-casa-famiglia-del-giudice-livatino
Vincolo culturale sulla Casa famiglia del Giudice Livatino
N. 00107/2021REG.PROV.COLL. N. 00561/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 561 del 2017, proposto dalla signora Giuseppa Profita, rappresentata e difesa dall'avvocato Vincenzo Avanzato, con domicilio eletto presso il suo studio in Palermo, via Selinunte, 1; contro Regione siciliana - Assessorato regionale dei beni culturali e dell'identità' siciliana, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato domiciliato per legge presso la sede distrettuale in Palermo, via Villareale 6; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima) n. 02887/2016, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’art. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020, n. 70; Visto l’art. 25 del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione siciliana - Assessorato regionale dei beni culturali e dell'identità' siciliana; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 3 febbraio 2021tenutasi da remoto ed in modalità telematica il Cons. Antonino Caleca, vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato distrettuale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Oggetto del presente procedimento è l'immobile denominato "Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino", sito nel Comune di Canicattì (Ag) in Viale Regina Margherita n. 166, e i beni mobili in esso custoditi. La signora Giuseppa Profita ricorre avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Palermo, n. 288 emessa il 12 dicembre 2016. I fatti di causa rilevanti ai fini del decidere possono essere ricostruiti, succintamente, nei termini che seguono. La Casa Famiglia del Giudice Rosario Livatino e i beni mobili ivi costuditi sono stati dichiarati di “interesse storico, artistico, architettonico e etnoantropologico particolarmente importante, in quanto individuato fra i beni elencati all'art.10, comma 3, lett a) e lett.d) del D.lgs. medesimo ed all'art. 2 della L.R. n. 80/77, e restano pertanto sottoposti a tutte le prescrizioni di tutela contenute nelle predetti leggi" con il Decreto del Dirigente generale dell’Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana della Regione siciliana del 9 settembre 2015 n. 2589. E’ fatto notorio che Rosario Livatino è da tutti ricordato come “il giudice ragazzino”. Quando venne ucciso, il 21 settembre del 1990, da quattro killer per ordine della “Stidda”, la mafia agrigentina, lungo la statale che ogni mattina percorreva con la sua auto da Canicattì ad Agrigento aveva 38 anni: il più giovane dei 27 magistrati uccisi in ragione del loro servizio. In quel periodo svolgeva le funzioni di giudice di Tribunale in servizio ad Agrigento e si occupava di misure di prevenzione. Prima, come Sostituto procuratore della repubblica di Agrigento, si era occupato di importanti indagini che riguardavano il potere mafioso e la nefasta capacità dello stesso di corrompere ed inquinare l’economia legale. I processi penali celebrati a carico degli autori e mandanti dell’omicidio hanno accertato che il giudice è stato ucciso per il suo impegno di magistrato corretto ed integro. La morte di quel giovane magistrato, fino a quel momento conosciuto solo nel suo ambiente di lavoro a motivo della sua estrema riservatezza, aveva avuto in Sicilia una forte eco mediatica e, nel nome del magistrato ucciso, si erano moltiplicate le iniziative volte a sollecitare il risveglio delle coscienze e l’impegno di tutti contro la violenza mafiosa. L’impegno morale ed etico coltivato esclusivamente nel lavoro e nella riservatezza assumeva valenze ulteriori a confronto delle deviazioni cui era andato incontro un certo modo di intendere e praticare l’iniziativa contro la mafia nella regione siciliana. Anche la Chiesa aveva contribuito a rendere viva la lezione di impegno, rettitudine e riservatezza del giovane magistrato: Il 19 luglio del 2011 veniva firmato dall'arcivescovo di Agrigento il decreto per l'avvio del processo diocesano di beatificazione di Rosario Livatino ed il 21 dicembre 2020 Papa Francesco con un decreto ne riconosceva il martirio in odium fidei, avviando la parte conclusiva del procedimento per riconoscerlo quale beato. La breve vita del magistrato si è consumata all’interno della dimensione familiare con frequentazioni limitate al proprio ambito lavorativo. All’interno dell’immobile oggetto del presente procedimento viveva, in riservatezza e solitudine, il giovane giudice. L’immobile "Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino" è sito nel Comune di Canicatti' (Ag) in Viale Regina Margherita nr. 166. Si tratta di un palazzetto formato da tre piani fuori terra pervenuto alla signora Giuseppa Profita in seguito ad eredità dal dottor Vincenzo Livatino deceduto il 5 maggio 2010, ed in assenza di ulteriori eredi che della famiglia Livatino conservassero il nome. Il palazzetto è compiutamente descritto nella “relazione tecnico-scientifica” che accompagna il provvedimento impugnato. La residenza del giudice ucciso è posta al primo livello del palazzetto. Si legge nella relazione che “l'arredamento risulta sobrio e semplice, tutti gli oggetti, le suppellettili, i libri e gli arredi, amorevolmente preservati dalla famiglia, trasmettono al visitatore un'atmosfera emotiva di casa Livatino” E ancora: “Tra gli oggetti personali si annoverano: il vangelo, la macchina da scrivere, il telefono, materiale di documentazione e riviste giuridiche, un quadretto di Paolo VI (richiamato in una delle sue agendine quando muore il Sommo Pontefice), una vecchia radio assieme ad una nutrita videoteca in VHS. Presenti anche la copia della tesi. di specializzazione in Diritto regionale nonché alcuni capi di abbigliamento compresa la toga posta sulla bara il giorno dei funerali”. La relazione si conclude affermando che “La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già un avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" e "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino" di Canicattì nonché di Libera ed Arci.” La relazione è posta a fondamento del decreto assessoriale che dichiara l’interesse storico. Il citato Decreto del Dirigente generale dell’Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana della Regione siciliana del 9 settembre 2015 n. 2589 veniva impugnato innanzi il competente Tribunale amministrativo. L’odierna parte appellante deduceva vizi sia di natura procedimentale che di merito del provvedimento. In modo particolare deduceva: -relativamente al vizio di natura procedimentale la violazione degli obblighi partecipativi previsti dall’art. 11 della L.R. 10/91, in quanto l’Assessorato non avrebbe tenuto in considerazione le osservazioni ritualmente trasmesse dalla ricorrente; -nel merito la violazione di legge sotto il profilo della violazione artt. 10, comma 3 lett. a e d) e 13 D. lgs. 42/2004 – eccesso di potere sotto il profilo dell’illogicità manifesta e del travisamento dei fatti, in quanto l’immobile non presenterebbe alcuno dei requisiti richiesti dalla normativa vigente per la dichiarazione di interesse storico, artistico, architettonico ed etnoantropologico particolarmente importante, sia sotto il profilo del valore culturale, sia con riferimento all’assenza di pregio dei beni mobili presenti all’interno dell’immobile. Si costituiva in primo grado l’Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana della Regione siciliana, Il giudice di primo grado ha respinto il ricorso ritenendo infondati i motivi dedotti. Ricorre in appello la signora Giuseppa Profita affidando le proprie doglianze ad articolati motivi che ripropongono, di fatto, le stesse problematiche affrontate nel giudizio di primo grado. Anche nel presente grado di giudizio si è costituito l’Assessorato regionale chiedendo il rigetto dell’appello. Il perdurare dell’interesse alla decisione del ricorso è stato confermato da parte appellante in data 30 settembre 2020. In vista dell’udienza le parti hanno scambiato memoria e memoria di replica. All’udienza del 3 febbraio 2020 la causa è stata assunta in decisione. L’appello deve essere respinto vista l’infondatezza dei motivi. Con il primo motivo parte appellante deduce:” Error in judicando — Error in procedendo. Violazione dell'art. 11 L.R. 10/91 e dell'art. 64, comma 2, cod. proc. amm. Eccesso di potere sotto il profilo del travisamento dei fatti e dello sviamento della causa tipica”. Risulterebbe violata la norma che regola la partecipazione del privato al procedimento in quanto l’Assessorato nell’adottare il provvedimento definitivo non avrebbe adeguatamente apprezzato le osservazioni prospettate con gli scritti difensivi: in ossequio all'art. 11 L.R. 10/91 sussisterebbe, contrariamente da quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, l’obbligo dell’esame specifico delle singole doglianze da parte della P.A. Il motivo non è fondato. Osserva il Collegio che la partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo, alla stregua della normativa regionale e nazionale, ha la funzione di far emergere gli interessi spiccatamente privati che impattano con l’azione amministrativa, in modo da orientare le scelte della P.A. attraverso una ponderata valutazione di tutti interessi (pubblici e privati) in gioco. La partecipazione al procedimento nel caso di specie viene declinata quale partecipazione difensiva (e non collaborativa). La giurisprudenza ha sempre optato per una lettura sostanziale e non formale delle norme che regolano la partecipazione del cittadino al procedimento amministrativo. Conducenti anche nel caso di specie, ove si rimanda alla legge regionale, sono i principi ribaditi dal Consiglio di Stato per definire il contenuto ed i limiti della partecipazione del privato alla formazione del provvedimento amministrativo. E’ stato ribadito che “La parziale incompletezza della valutazione espressa dall’amministrazione, seppure dimostrata, non determinerebbe, automaticamente, l’illegittimità del provvedimento. Infatti, non è esatto affermare che la previsione contenuta nell’articolo 10-bis della legge n. 241/1990 imporrebbe una totale aderenza ad ognuna delle singole argomentazioni esposte dal soggetto istante. Seguendo questa errata impostazione, il nuovo istituto introdotto dalla legge n. 15/2005 diventerebbe mero espediente per appesantire il fisiologico obbligo di motivazione gravante sulle amministrazioni, senza alcuna garanzia di effettiva giustizia sostanziale. 19. Al riguardo, occorre distinguere due diverse eventualità. La prima consiste nella totale assenza di valutazione delle osservazioni svolte dalla parte istante. In tal caso, il provvedimento finale potrebbe evidenziare una palese illegittimità, per la carenza di un elemento strutturale della motivazione, salva la questione riguardante l’incerta applicabilità dell’articolo 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990. La seconda eventualità riguarda la mera incompletezza, o inadeguatezza, della valutazione operata dall’amministrazione. In tale circostanza, il giudizio di legittimità deve connettersi alla puntuale verifica dell’incidenza dell’omissione sulla congruenza della motivazione dell’atto finale” (Consiglio di stato, sez. V. n. 3655/2007). La sentenza appena citata è stata poi rafforzata dagli ulteriori arresti giurisprudenziali sia del Consiglio di Stato che di questo Consiglio citati dal primo giudice. Giova appena ricordare che per imporre all’Amministrazione di esaminare e rispondere alle singole osservazioni formulate negli scritti difensivi nei procedimenti ad istanza di parte (non quindi, comunque, in quello oggetto della presente fattispecie che rimane estranea alla novella) è stato ritenuto indispensabile apportare modifiche testuali con l’art. 12, c. 1, lett e) del d.l. 16 luglio 2020 n. 76 convertito dalla L. 11 settembre 2020 n. 120 che ha inciso profondamente sull’art. 10 bis, L. 241/90. Ciò a riprova del fatto che prima della detta legge un obbligo in tal senso non si riteneva sussistere. In applicazione della norma applicabile nel caso di specie occorrerà verificare se il privato è stato messo nelle condizioni di predisporre una effettiva difesa all’interno del procedimento amministrativo e se le sue osservazioni sono state, in generale, vagliate dall’Amministrazione procedente. Nel caso oggetto del presente scrutinio sono state rispettate entrambe le condizioni. Rileva la difesa erariale che “l’odierna appellante (cui era stato comunicato l’avvio del procedimento) ha avuto modo di partecipare al procedimento amministrativo, esponendo le proprie ragioni anche in occasione dei numerosi sopralluoghi congiunti effettuati prima e dopo l’avvio del procedimento. I rilievi della Sig.ra Profita, inoltre, sono stati compiutamente apprezzati e valutati dall’Amministrazione, tanto da indurla ad escludere dalla dichiarazione dell’interesse culturale una parte dell’immobile (attualmente ceduta in affitto ad un’attività commerciale)”. Le successive osservazioni formulate all’interno dell’iter procedimentale attenevano al merito intrinseco del provvedimento finale e cioè alla esistenza o meno delle ragioni che avrebbero giustificato il provvedimento finale poi adottato. Le osservazioni trovano una sostanziale risposta proprio nelle motivazioni che sorreggono il provvedimento finale che costituiscono una sostanziale ed implicita risposta alle osservazioni stesse. Non sono fondati i motivi rubricati sub numeri 2 e 3 che possono essere trattati congiuntamente per la stretta contiguità delle problematiche che vengono poste all’esame del Collegio. Ritiene il Collegio che non sussiste la violazione dell’art. 10, comma 3, lett. a) e d) del d.lgs. n. 42/2004. L’articolo 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di seguito Codice, elenca le tipologie di beni culturali sottoposti a tutela integrando la definizione generale di cui all’art. 2, comma 2. Nell’elencare i beni si tengono in considerazione tre aspetti: l’appartenenza del bene (pubblica o privata), il carattere delle cose, il livello di interesse culturale. In modo più specifico, l’interesse culturale può essere: - “semplice” ex art. 10, comma 1; - “presunto” ex art. 10 comma 2; - “particolarmente importante” ex art. 10 comma 3 lett. a), b) e d). Seguono poi i beni il cui interesse culturale è definito “eccezionale” e “rarità e/o pregio”. Il decreto oggetto dell’attuale disamina giurisdizionale accerta che “l'immobile, così come evidenziato con perimetrazione in colore giallo nell' allegata planimetria, il tutto identificato in catasto al F. M. nr. 55 con part. nr. 3887 sub 1 (q.p.), per i motivi illustrati nell'allegata relazione tecnica riveste particolare interesse storico, artistico, architettonico, ed etnoantropologico particolarmente importante ai sensi dell'art. 10 comma 3, lett. a) e lett. d) del menzionato D. Lgs. n. 42 del 22.01.2004 e dell'art. 2 della L. R. n. 80 del 01.08.1977 in quanto connubio tra valenza architettonica e preziosa testimonianza di memoria storica e di avvenimenti socio politici caratterizzanti il territorio di Agrigento e della sua provincia”; Esplicito è il richiamo al dato normativo che prevede la sussistenza di un interesse culturale “particolarmente importante” sia con riferimento al bene immobile che ai beni mobili in esso contenuti. Fondamentale, ai fini del decidere è, quindi, calibrare i l valore semantico del termine “bene culturale”. Occorre premettere che la nozione di “patrimonio culturale” è una delle più rilevanti novità introdotte dal Codice: compongono il patrimonio culturale i beni culturali e i beni paesaggistici. La nozione di bene culturale risente, ora, delle definizioni che della stessa hanno dato gli atti normativi internazionali. In modo particolare si tratta della Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del 1972, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 e la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005 (c.d. Convenzione di Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 non ancora ratificata). In Italia la nozione di “bene culturale” è stata utilizzata per la prima volta dalla c.d. Commissione Franceschini nel 1964. Il “bene culturale” è stato definito come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”. Tenendo conto dell’evoluzione normativa culminata con l’approvazione del Codice dei beni culturali, la giurisprudenza, in accordo con la dottrina più attenta, ha definito i caratteri comuni a tutti i beni culturali. Tra questi rileva, nella presente fattispecie, il carattere dell’immaterialità. Con “immaterialità” si intende l’attitudine del bene ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà. I valori si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società. Rileva la migliore dottrina che il bene materiale è oggetto di diritti patrimoniali, il valore culturale immateriale è oggetto di situazioni soggettive attive da parte dei poteri pubblici. Nota è la decisione Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2003, n. 6344, ove appunto si sottolineava come il bene culturale sia ormai «protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza». Tenendo conto di questa evoluzione normativa e dello sforzo interpretativo della giurisprudenza deve leggersi l’art. 2, comma 2 del Codice: “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”. Osserva la difesa erariale che i beni culturali “sono funzionali a preservare la memoria della comunità nazionale ed a promuovere lo sviluppo della cultura. Proprio attraverso la loro fruizione, il cittadino si riconosce nella storia del proprio Paese e percepisce immediatamente di essere parte di uno Stato - comunità, da intendersi nel senso di una dimensione di massima partecipazione che realizza la sovranità popolare (ex art. 1, co. 1 Cost.)”. E’ stato definitivamente accantonato il criterio estetizzante privilegiando il profilo storicistico. Alla stregua di questa lettura del complessivo quadro normativo non può revocarsi in dubbio che la “Casa famiglia Livatino” e le cose mobili in essa custodita rivestono un interesse culturale “particolarmente importante”. Il valore culturale si identifica nel rimando all’ impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la normalità della sua vita, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione del predominio mafioso. La relazione tecnica, parte integrante del provvedimento impugnato, dà atto di come il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici. In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato. Nella memoria del giovane Livatino si radica la volontà di non cedere di fronte alle pressioni ed alle intimidazioni del potere mafioso. Si ribadisce quanto si legge nella relazione tecnica che motiva il provvedimento oggi impugnato: “La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già un avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" e "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino" di Canicattì nonché di Libera ed Arci”. I manoscritti del giudice, anche in seguito alle scelte operate dalla Chiesa (la beatificazione), hanno certamente i requisiti richiesti dal comma 4 dell’articolo 10 del Codice: lo scritto autografo di un martire della giustizia e di un beato è certamente raro e di pregio. Il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice. Congruamente la relazione evidenzia anche le modalità della pubblica fruizione del bene, ulteriore requisito imposto dalla norma primaria di riferimento. A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia. Per ultimo il Collegio ribadisce come, comunque, il giudizio circa la sussistenza dei requisiti che legittimano l’emissione del provvedimento impugnato è certamente discrezionale e lo stesso meriterebbe censura solo nelle ipotesi in cui debba ritenersi illogico o irrazionale. Consiglio di Stato, sent. n. 4747/2015 “In linea di diritto, si osserva che il giudizio, che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico - scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela – da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 Cost. – è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile. In altri termini, la valutazione in ordine all’esistenza di un interesse culturale (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) particolarmente importante, tale da giustificare l’imposizione del relativo vincolo ai sensi degli artt. 13, comma 1, e 10, comma 3, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, è prerogativa esclusiva dell’Amministrazione preposta alla gestione del vincolo e può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l’inattendibilità della valutazione tecnico-discrezionale compiuta”. Consiglio di Stato sent. n. 4564/2018: “n linea generale, va ribadito che le valutazioni tecniche propedeutiche all'apposizione del vincolo sono basate su apprezzamenti sì rigorosi, ma con un certo grado di opinabilità, essendo soggette anche ad aggiornamenti man mano che evolve la consapevolezza storica sui beni e sul loro contesto urbano; - da ciò ne consegue che l'apprezzamento compiuto dalla P.A. preposta alla tutela, da esercitare in rapporto al principio fondamentale dell' art. 9 della Costituzione, è sindacabile, in sede giurisdizionale, solo sotto i profili di logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l'aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo, però, restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 2 gennaio 2018 n. 17); - in termini di maggior dettaglio, la sezione ha già evidenziato come la stessa eventuale relazione tecnica di parte sul pregio storico-architettonico del bene non possa impingere nel merito della valutazione tecnica espressa dalla Soprintendenza senza essere in grado di evidenziare eventuali errori decisivi sui presupposti di fatto o sui criteri tecnico-scientifici applicati dall'Amministrazione, tali da inficiare, sub specie di illogicità ed incongruità, l'accertamento della sussistenza dell'interesse culturale di un bene”. Consiglio di Stato ent. N. 2061/2020: il “merito della valutazione (e che,) pertanto, non può essere sindacato da questo Giudice, il cui controllo, come già evidenziato, è limitato al vaglio di ragionevolezza e logicità della motivazione”. La stessa sentenza specifica che: “dalla sistematica del Titolo I del D. lgs. 42/2004, non emerge alcuno spazio all’interno del quale, ai fini della dichiarazione del pregio culturale di un bene, affiorino anche gli interessi secondari del privato proprietario. Nella logica seguita dal legislatore, trattasi infatti di un procedimento volto all’accertamento (e si noti come il legislatore utilizzi proprio tale termine) di una qualità che il bene possiede e che non può certo venire meno in considerazione di eventuali interessi secondari riconducibili all’utilizzazione e agli oneri di conservazione del bene.” Concorde la più attenta giurisprudenza di primo grado. T.A.R. Toscana, n. 860/2013: “La scelta di porre un vincolo esercitata dall'Amministrazione costituisce espressione di discrezionalità tecnica, suscettibile di sindacato giurisdizionale di legittimità solo in ipotesi di illogicità manifesta, di difetto di motivazione, ovvero di conclamato errore di fatto. La sistematica delle disposizioni normative del codice dei beni culturali (in tal senso, gli artt. 2, 13 e 10, comma 3, del d. lgs. n. 42/2004) pare orientata nel senso che il potere esercitato dall'Amministrazione in sede di imposizione del vincolo di tutela sia vincolato, o connotato solo da una discrezionalità tecnica, con sensibile riduzione dei margini per l'applicazione del principio di proporzionalità quale misura del potere esercitato dall'Amministrazione e, parimenti, non è possibile introdurre elementi di valutazione esterni rispetto a quello prettamente collegato al pregio culturale dell'immobile” Nel caso che ci occupa il Decreto del dirigente l’Assessorato regionale è ben lungi dal manifestare vizi di irragionevolezza o illogicità. Il Decreto impugnato, con il richiamo alla relazione tecnico-scientifica, è sorretto da adeguata e sufficiente motivazione e la sentenza del primo giudice non merita censura. I motivi a sostegno del gravame non sono fondati e l’appello deve essere respinto. Le spese del secondo grado del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante alle spese del secondo grado di giudizio in favore della parte costituita che liquida in euro 2.500//00 (€ duemilacinquecento) oltre oneri accessori, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2021 tenutasi da remoto in videoconferenza con la partecipazione costante e contemporanea dei magistrati: Fabio Taormina, Presidente Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere, Estensore Fabio Taormina, Presidente Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Maria Stella Boscarino, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Antonino Caleca, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Beni culturali – Tutela – Vincolo culturale - Casa famiglia del Giudice Livatino – Legittimità.              E’ legittimo il decreto dell’Assessorato dei beni culturali della Regione siciliana che ha posto il vincolo culturale sulla Casa famiglia del Giudice Livatino, rivestendo detta dimora e le cose mobili in essa custodita un interesse culturale particolarmente importante (1).    (1) Ha ricordato il C.g.a. che l’immobile "Casa di Famiglia del Giudice Rosario Livatino", nella quale era vissuto il giudice Livantino (ucciso il 21 settembre del 1990, da quattro killer per ordine della “Stidda”, la mafia agrigentina) è sito nel Comune di Canicattì.  Si tratta di un palazzetto formato da tre piani fuori terra; la residenza del giudice ucciso è posta al primo livello del palazzetto.  Il C.g.a. ha premesso che compongono il patrimonio culturale i beni culturali e i beni paesaggistici.  La nozione di bene culturale risente, ora, delle definizioni che della stessa hanno dato gli atti normativi internazionali.  In modo particolare si tratta della Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale del 1972, la Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003 e la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società del 2005 (c.d. Convenzione di Faro, sottoscritta dall’Italia nel 2013 non ancora ratificata).  In Italia la nozione di “bene culturale” è stata utilizzata per la prima volta dalla c.d. Commissione Franceschini nel 1964.  Il “bene culturale” è stato definito come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”.  Tenendo conto dell’evoluzione normativa culminata con l’approvazione del Codice dei beni culturali, la giurisprudenza, in accordo con la dottrina più attenta, ha definito i caratteri comuni a tutti i beni culturali.  Tra questi rileva, nella presente fattispecie, il carattere dell’immaterialità.  Con “immaterialità” si intende l’attitudine del bene ad essere testimonianza di superiori valori di civiltà.  I valori si incardinano inscindibilmente nel bene materiale, ed il bene diventa radice ed espressione di una significazione altra che non si identifica con il supporto materiale ma rimanda ai valori ed ai principi che in dato momento storico guidano l’evoluzione della società.  Rileva la migliore dottrina che il bene materiale è oggetto di diritti patrimoniali, il valore culturale immateriale è oggetto di situazioni soggettive attive da parte dei poteri pubblici.  Nota è la decisione Cons. Stato, sez. VI, 17 ottobre 2003, n. 6344, ove appunto si sottolineava come il bene culturale sia ormai «protetto per ragioni non solo e non tanto estetiche, quanto per ragioni storiche, sottolineandosi l’importanza dell’opera o del bene per la storia dell’uomo e per il progresso della scienza».  Tenendo conto di questa evoluzione normativa e dello sforzo interpretativo della giurisprudenza deve leggersi l’art. 2, comma 2 del Codice, secondo cui “Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.  Alla stregua di questa lettura del complessivo quadro normativo non può revocarsi in dubbio che la “Casa famiglia Livatino” e le cose mobili in essa custodita rivestono un interesse culturale “particolarmente importante”.  Il valore culturale si identifica nel rimando all’impegno etico e morale del giovane magistrato che, con la normalità della sua vita, ha indicato ai giovani, non solo siciliani, la via del riscatto e della liberazione del predominio mafioso.  La relazione tecnica, parte integrante del provvedimento impugnato, dà atto di come il valore storico dei beni oggetto del presente procedimento origina dal loro valore simbolico e si colora di indubbi significati etici.  In quell’appartamento si è formato un ragazzo che con adamantina riservatezza ha interpretato i valori di rettitudine ed indipendenza che devono caratterizzare il lavoro del magistrato.  Nella memoria del giovane Livatino si radica la volontà di non cedere di fronte alle pressioni ed alle intimidazioni del potere mafioso.  Si ribadisce quanto si legge nella relazione tecnica che motiva il provvedimento oggi impugnato:  “La dimora del giudice Livatino, con i suoi ricordi, scritti autografi, foto ed effetti personali, preservata nel tempo nella sua immobile integrità dai genitori, custodi e artefici degli insegnamenti che costituiscono i capisaldi della figura umana ed istituzionale dell'uomo Livatino, rappresentano oggi la memoria storica su cui incentrare una azione di sensibilizzazione e divulgazione di valori fondanti come il perseguimento della legalità, la ricerca della giustizia, il compimento del proprio dovere, tutti valori che concorrono alla costruzione di una società migliore. Costituisce già un avamposto della lotta per la legalità essendo punto di incontro di molti giovani provenienti da tutta Italia, delle associazioni "Tecnopolis" e "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino" di Canicattì nonché di Libera ed Arci”.  I manoscritti del giudice, anche in seguito alle scelte operate dalla Chiesa (la beatificazione), hanno certamente i requisiti richiesti dal comma 4 dell’articolo 10 del Codice: lo scritto autografo di un martire della giustizia e di un beato è certamente raro e di pregio.  Il valore storico-simbolico dell’immobile e delle cose conservate è, infatti, ancora maggiore oggi dopo che la Chiesa ha quasi portato a termine il procedimento di beatificazione del giovane giudice.  Congruamente la relazione evidenzia anche le modalità della pubblica fruizione del bene, ulteriore requisito imposto dalla norma primaria di riferimento.  A fronte dell’assenza di familiari diretti che possano mantenerne viva la memoria, è dovere dello Stato, di cui Livatino è stato un “servitore eccezionale”, riconoscere lo straordinario valore culturale della casa del Giudice ed il suo forte valore simbolico a ricordo di chi ha pagato con la vita la “normale” rettitudine che non si piega alle minacce o alle lusinghe della mafia. 
Beni culturali
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/riorganizzazione-dell-attivita-anestesiologica-per-fronteggiare-l-emergenza-covid-19
Riorganizzazione dell'attività anestesiologica per fronteggiare l’emergenza Covid-19
N. 03980/2020 REG.PROV.CAU. N. 03597/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3597 del 2020, proposto da Comune di Acquapendente, Comune di Bolsena, Comune di Gradoli, Comune di Grotte di Castro, Comune di Latera, Comune di Onano, Comune di Proceno, Comune di San Lorenzo Nuovo, Comunità Montana dell'Alta Tuscia Laziale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Filippo Marcacci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Vincenzo Del Duca in Roma, via degli Scipioni n. 268/A; contro Azienda Unità Sanitaria Locale di Viterbo - A.S.L. Viterbo non costituito in giudizio; nei confronti Azienda Regionale Emergenza Sanitaria 118 - Ares118 non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, previa adozione di misura cautelare provvisoria monocratica ex art. 56 CPA, sino alla definizione del giudizio onde ripristinare immediatamente la piena funzione di pronto soccorso prevista dal DCA U00257/2017 tramite la riassegnazione del personale medico anestesista e la operatività H24 del pronto soccorso stesso in via diretta e non tramite ARES 118; In via principale, in accoglimento dei motivi di ricorso di cui alla parte motiva del presente atto, annullare i provvedimenti impugnati, con espressa riserva di proposizione di motivi aggiunti; In ogni caso con vittoria di spese, compensi e accessori di legge del presente giudizio. Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; ritenuti insussistenti i profili di danno previsti dall’art.56 cpa; P.Q.M. Respinge. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 9 giugno 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 21 maggio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Sanità – Ospedali – Struttura sanitaria pubblica – Ripristino pronto soccorso - Riassegnazione del personale medico anestesista e  operatività H24 del pronto soccorso – Esclusione – Non va sospesa.            Non deve essere sospesa, con decreto monocratico, la nota della direzione sanitaria aziendale Asl di Viterbo di "riorganizzazione dell'attività anestesiologica" (Covid-19), non ravvisandosi gli estremi di un danno grave e irreparabile (1).   (1) I ricorrenti hanno chiesto di ripristinare immediatamente la piena funzione di pronto soccorso tramite la riassegnazione del personale medico anestesista e la operatività H24 del pronto soccorso stesso in via diretta e non tramite ARES 118
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/giurisdizione-ago-sull-impugnazione-dell-indizione-delle-elezioni-regionali-per-mancata-adeguazione-della-legislazione-elettorale-regionale-ai-princip
Giurisdizione Ago sull’impugnazione dell’indizione delle elezioni regionali per mancata adeguazione della legislazione elettorale regionale ai principi di parità di genere
N. 02158/2019 REG.PROV.COLL. N. 01833/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1833 del 2019, proposto da W.W.W. What Women Want, in persona del legale rappresentante pro tempore, Biancamaria Rende, rappresentati e difesi dall'avvocato Rossella Barberio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Calabria, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Angela Marafioti, Franceschina Talarico, Giulia De Caridi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Prefettura U.T.G. di Cosenza, Prefettura U.T.G. di Catanzaro, Prefettura U.T.G. di Reggio Calabria, Prefettura U.T.G. di Vibo Valentia, Prefettura U.T.G. di Crotone, in persona dei Prefetti in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catanzaro, domiciliati presso gli uffici di questa, in Catanzaro, alla via G. Da Fiore, n. 34; nei confronti Comune di Cosenza, non costituito in giudizio; per l'annullamento del decreto del Presidente della Giunta regionale della Calabria del 25 novembre 2019, n. 322, di indizione delle elezioni del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale della Calabria, ai sensi dell’art. 1-bis l.r. 7 febbraio 2005, n. 1. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Calabria, della Prefettura U.T.G. di Cosenza, della Prefettura U.T.G. di Catanzaro, della Prefettura U.T.G. di Reggio Calabria, della Prefettura U.T.G. di Vibo Valentia, della Prefettura U.T.G. di Crotone; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2019 il dott. Francesco Tallaro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. – Con decreto del 25 novembre 2019, n. 322, il Presidente della Giunta regionale della Calabria ha indetto, per domenica 26 gennaio 2020, le elezioni del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale della Calabria. 2. – L’associazione W.W.W. What Women Want, che ha la finalità statutaria di ““aumentare la presenza femminile nelle istituzioni e nei luoghi delle decisioni politiche”, e Biancamaria Rende, cittadina elettrice, hanno impugnato tale decreto d’innanzi a questo Tribunale Amministrativo Regionale. La tesi attorea è che la l.r. 7 febbraio 2005, n. 1, che regola lo svolgimento delle elezioni, sia in contrasto con la Costituzione, in quanto: a) la l. 15 febbraio 2016, n. 20, ha introdotto alcune sostanziali modifiche alla l.2 luglio 2004, n. recante disposizioni di attuazione dell'articolo 122, primo comma, della Costituzione; -b) in particolare, le Regioni, nel disciplinare il procedimento elettorale, debbono perseguire la “promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell'accesso alle cariche elettive, disponendo che: 1) qualora la legge elettorale preveda l'espressione di preferenze, in ciascuna lista i candidati siano presenti in modo tale che quelli dello stesso sesso non eccedano il 60 per cento del totale e sia consentita l'espressione di almeno due preferenze, di cui una riservata a un candidato di sesso diverso, pena l'annullamento delle preferenze successive alla prima (...)”; c) nella Regione Calabria, benché il sistema elettorale preveda l’espressione di preferenze, non è previsto che le liste siano composte in modo che i candidati di un sesso non eccedano il 60 per cento del totale; né è consentita l'espressione di almeno due preferenze, per candidati di sesso diverso; d) ciò comporterebbe la violazione dell’art. 122 Cost., ma anche degli artt. 3, 48, 51, 117 e 123 del testo costituzionale, nonché dell’art. 2 dello Statuo della Regione Calabria, nella parte in cui impegna l’Ente regionale a perseguire la rimozione degli ostacoli che impediscono la piena parità sociale, economica e culturale degli uomini e delle donne. La parte ricorrente, pertanto, sollecita la remissione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della l.r. 7 febbraio 2005, n. 1, e, a seguito dell’auspicato accertamento dell’illegittimità della normativa regionale, chiede al Tribunale Amministrativo Regionale l’annullamento del decreto impugnato; in via cautelare, domanda la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato. 2.1. – Sul piano processuale, va sottolineato come il ricorso sia stato originariamente proposto ai sensi dell’art. 129 c.p.a., con la richiesta subordinata che, ovo il giudice adito ritenga non configurata l’ipotesi di cui alla norma processuale citato, qualifichi l’azione come ricorso ordinario; con successiva nota del 28 novembre 2019 la parte ricorrente ha invece richiesto che il ricorso venga interpretato quale ricorso ordinario. 3. – Si sono costituite le Prefetture evocate in giudizio e la Regione Calabria. 4. – Alla camera di consiglio del 18 dicembre 2019 il ricorso, sussistendone i presupposti e previo avviso alle parti, è stato discusso nel merito e spedito in decisione ai sensi dell’art. 60 c.p.a. 5. – Oggetto del presente giudizio non è il procedimento elettorale, di cui si assuma l’illegittimità, bensì il libero esercizio del diritto di voto, che si afferma leso dalla non conformità a Costituzione della legge regionale che disciplina le modalità di svolgimento delle elezioni. Ed in effetti, la lesione lamentata deriverebbe non già del decreto impugnato, vincolato nell’an e connotato da stretti margini di discrezionalità solo quanto alla scelta della data di effettuazione della consultazione elettorali; bensì dall’inerzia del legislatore regionale, che non ha adeguato la disciplina legislativa alle disposizione di attuazione dell’art. 122 Cost., nella parte in cui impongono l’adozione di una regolamentazione che agevoli l’accesso agli incarichi elettivi del sesso meno rappresentato. È in discussione, dunque, un diritto politico, la cui cognizione non può che spettare al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti (cfr. Cass. Civ.,Sez. I, ord. 17 maggio 2013, n. 12060), atteso che la giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale non è esclusiva (Cass. Civ., Sez. Un., ord. 20 ottobre 2016, n. 21262). 6. – A riprova di tale affermazione vi è che il codice del processo amministrativo, che al Titolo VI disciplina il contenzioso elettorale, non appresta un rito applicabile all’atto di convocazione dei comizi elettorali. Non sarebbe applicabile il previsto dall’art. 129, il quale attiene esclusivamente a“i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali”; nel caso di specie, infatti, non si assume che le cittadine elettrici subiscano la lesione del loro diritto a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali, ma che la disciplina elettorale non assicuri pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive. Ma nemmeno sarebbe applicabile la disciplina dettata dall’art. 130 c.p.a., che si riferisce all’impugnazione degli atti successivi alla convocazione dei comizi elettorali (cfr. CGA 25 giugno 2019, n. 596; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 25 settembre 2018, n. 1326). 7. – In ogni caso, vi è che oggetto del sindacato sollecitato al giudice non vi è l’esercizio del potere amministrativo, ma la violazione di un diritto politico in ragione dell’uso (in tesi scorretto) del potere legislativo da parte della Regione Calabria, che non ha adeguato la legge che disciplina il procedimento elettorale ai principi fondamentali dettati dalla legge ai sensi dell’art. 122 Cost. 8. – Nel corso della discussione, parte ricorrente ha utilizzato, allo scopo di affermare la giurisdizione di questo giudice, una suggestiva argomentazione. È stato, in particolare, ricordato che l’azione di accertamento della lesione del diritto al voto è ritenuta ammissibile solo nella misura in cui vi sia un vuoto di tutela, perché l’ordinamento non ammette, come che accade nelle elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, l’impugnazione d’innanzi ad un organo giurisdizionale degli esiti del voto. Tale azione non è invece ammessa, per difetto di un interesse attuale, laddove sia possibile impugnare gli atti della procedura elettorale d’innanzi a un giudice, nella specie il giudice amministrativo (cfr. Corte cost., sent. 15 giugno 2015, n. 110). Dunque, nella vicenda in esame l’unico modo per far valere la violazione lamentata è quella di impugnare d’innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale l’atto di indizione delle elezioni. Osserva, di contro, il Collegio che l'eventuale carenza di interesse ad un'azione di mero accertamento del diritto di voto non si colloca sul piano dell'individuazione del giudice munito di potestas iudicandi, ma riguarda il diverso ambito della riscontrabilità, o meno, nella causa così come proposta, di detta condizione dell'azione, la cui valutazione è riservata al giudice correttamente adito (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., ord. 20 ottobre 2016, n. 21262). 9. – L’odierno ricorso è pertanto inammissibile per difetto di giurisdizione, salva la possibilità di riproposizione del giudizio, ai sensi degli artt. 11 c.p.a. e 59 l 18 giugno 2019, n. 69, dinnanzi al competente giudice civile. 10. – Le spese di lite possono essere compensate in ragione della peculiarità della vicenda controversa. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Pierangelo Sorrentino, Referendario Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Pierangelo Sorrentino, Referendario IL SEGRETARIO
Giurisdizione - Elezioni – Indizione elezioni – Violazione principio parità di genere – Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.               Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l'impugnazione dell'indizione delle elezioni del Presidente della Giunta regionale e del Consiglio regionale se è censurata la violazione della parità di genere (1).   (1) Ad avviso del Tar  oggetto del gravame non è il procedimento elettorale, di cui si assuma l’illegittimità, bensì il libero esercizio del diritto di voto, che si afferma leso dalla non conformità a Costituzione della legge regionale che disciplina le modalità di svolgimento delle elezioni. Ed in effetti, la lesione lamentata deriverebbe non già del decreto impugnato, vincolato nell’an e connotato da stretti margini di discrezionalità solo quanto alla scelta della data di effettuazione della consultazione elettorali; bensì dall’inerzia del legislatore regionale, che non ha adeguato la disciplina legislativa alle disposizione di attuazione dell’art. 122 Cost., nella parte in cui impongono l’adozione di una regolamentazione che agevoli l’accesso agli incarichi elettivi del sesso meno rappresentato. È in discussione, dunque, un diritto politico, la cui cognizione non può che spettare al giudice ordinario, giudice naturale dei diritti (cfr. Cass. Civ.,Sez. I, ord. 17 maggio 2013, n. 12060), atteso che la giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale non è esclusiva (Cass. Civ., Sez. Un., ord. 20 ottobre 2016, n. 21262). Non sarebbe, dunque, applicabile il previsto dall’art. 129, il quale attiene esclusivamente a “i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali”; nel caso di specie, infatti, non si assume che le cittadine elettrici subiscano la lesione del loro diritto a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni regionali, ma che la disciplina elettorale non assicuri pari opportunità nell’accesso alle cariche elettive. Ma nemmeno sarebbe applicabile la disciplina dettata dall’art. 130 c.p.a., che si riferisce all’impugnazione degli atti successivi alla convocazione dei comizi elettorali.
Giurisdizione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/contenuto-del-contratto-di-avvalimento-tecnico-operativo
Contenuto del contratto di avvalimento tecnico-operativo
N. 01458/2022 REG.PROV.COLL. N. 04888/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4888 del 2021, integrato da motivi aggiunti, proposto da:STCV s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale capogruppo mandataria del costituendo RTP con i mandanti Ing. Antonio Ponticelli e Ing. Giovanni Paragliola, rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Zaccone, Francesco Mollica e Antonio Facchini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di San Lorenzo Maggiore, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Eugenio Carbone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ing. Lorenzo Iannotti, in proprio e quale capogruppo mandatario del RTP con i mandanti Ing. Roberto Iannella e Ing. Luca Sarracco, rappresentato e difeso dall’avvocato Pasquale Marotta, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;Ing. Roberto Iannella, in proprio e quale mandante del RTP con gli Ingg. Lorenzo Iannotti e Luca Sarracco, non costituito in giudizio;Ing. Luca Sarracco, in proprio e quale mandante del RTP con gli Ingg. Lorenzo Iannotti e Roberto Iannella, non costituito in giudizio;Ministero dell’Interno, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Consip S.p.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli alla Via A. Diaz n. 11; per l'annullamento (quanto al ricorso introduttivo) degli atti e dei provvedimenti adottati dal Comune di San Lorenzo Maggiore (BN) nell’ambito della procedura telematica di gara gestita tramite il sistema MePa avente ad oggetto l’affidamento delle “attività di progettazione definitiva, progettazione esecutiva, coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, relative ai lavori di “sistemazione del movimento franoso di Via Pezzillo” (CUP H87C20000020005 - CIG 87401464A5), nella misura in cui a mezzo degli stessi si è disposta l’aggiudicazione in favore del controinteressato RTP Ing. Lorenzo Iannotti anziché nei confronti dell’odierno ricorrente, previa esclusione del primo dalla procedura e/o decurtazione del punteggio assentito all’offerta del RTP controinteressato e, in particolare: - della determinazione del Comune di San Lorenzo Maggiore n. 82 del 12.10.2021 - registro generale n. 167 del 13.10.2021 recante l’aggiudicazione della procedura in favore del controinteressato RTP Ing. Lorenzo Iannotti, comunicata ex art. 76 co. 5 c.c.p. in data 14.10.2021 con nota prot. n. 4674 del 13.10.2021; - della proposta di aggiudicazione in favore del controinteressato contenuta nel verbale di gara n. 5 del 28.06.2021; - ove occorra, dei verbali di gara in seduta pubblica e riservata, ivi compresi nello specifico i verbali n. 1 del 9.06.2021, n. 2 del 14.06.2021, n. 3 del 21.06.2021, n. 4 del 25.06.2021, n. 5 del 28.06.2021, nelle parti in cui non si è disposta l’esclusione del controinteressato e/o è stato attribuito un punteggio di gran lunga superiore a quello effettivamente spettante; - ove occorra, del Bando, del Disciplinare e di ogni altra norma, documento e atto di gara, ove intesi nel senso fatto proprio dalla S.A.; - di ogni altro atto e/o provvedimento preordinato, connesso e conseguente, se ed in quanto lesivo degli interessi del ricorrente; con richiesta di subentro del ricorrente nel contratto eventualmente sottoscritto con il RTP aggiudicatario, ove nelle more stipulato, previa dichiarazione d’inefficacia del contratto stesso ex artt. 121 e/o 122 del c.p.a., ovvero in via subordinata, ove in corso di causa la pretesa al conseguimento di tale bene della vita dovesse risultare impossibile per fatto indipendente da volontà e/o colpa dell’odierno ricorrente, con richiesta di condanna dell’Ente intimato al risarcimento per equivalente del pregiudizio patito; (quanto ai motivi aggiunti depositati il 14/12/2021) di tutti gli atti già gravati col ricorso introduttivo anche a fronte: - della impossibilità per l’ausiliaria di eseguire le prestazioni oggetto d’affidamento a fronte del divieto di contrarre con la pubblica amministrazione e di altre misure cautelari comminate all’amministratore e legale rappresentante, al socio e al direttore tecnico dell’ausiliaria; - del conseguente venir meno dei requisiti di cui all’art. 80 co. 5 lett. c) e lett. f) dell’ausiliaria; - dell’impossibilità di sostituire l’ausiliaria senza determinare un’inammissibile modifica dell’offerta del RTP Ing. Lorenzo Iannotti; - del diniego tacito frapposto dall’Amministrazione resistente all’istanza di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione del 6.12.2021; (quanto ai motivi aggiunti depositati il 24/1/2022) - della nota prot. 140 del 7.01.2022 a mezzo della quale il Comune di San Lorenzo Maggiore ha accordato al controinteressato RTP Ing. Lorenzo Iannotti la possibilità di procedere con la sostituzione dell'ausiliaria a fronte dell'appurata e sopravvenuta incapacità di quest'ultima di contrarre con la Pubblica Amministrazione per provvedimento dell'AGO e, quindi, della perdita dei requisiti di cui all'art. 80 co. 5 c.c.p.; - ove occorra, per la conseguente declaratoria di inefficacia e/o nullità anche del nuovo contratto d'avvalimento sottoscritto in data 15.01.2022 e del conseguente giudizio di ammissione dello stesso adottato dalla S.A.; - per quanto occorrer possa, di tutti i nuovi atti trasmetti dal controinteressato sulla scorta della nota prot. 140/2022 della S.A. relativi alla sostituzione dell'ausiliaria originaria con altro soggetto in possesso dei requisiti di partecipazione richiesti dalla lex specialis; - ove occorra, della nota assunta al prot. gen. n. 286 del 13.01.2022 dell'Ente recante la comunicazione da parte del controinteressato di avvenuta sostituzione dell'originaria ausiliaria con la nuova ausiliaria, nella misura ciò ne importi l'ammissione da parte dell'Ente; - ove occorra, della nota assunta al prot. gen. n. 380 del 18.01.2022 dell'Ente recante la trasmissione della documentazione attestante il possesso dei requisiti di moralità e di qualificazione da parte del nuovo soggetto ausiliario, nella misura ciò ne importi l'ammissione da parte dell'Ente; - di tutti i successivi provvedimenti allo stato sconosciuti di “presa d'atto” della documentazione relativa al nuovo contratto di avvalimento del RTP Ing. Lorenzo Iannotti traendo gli stessi, comunque, origine dall'originaria nota prot. 140 del 7.01.2022 con cui l'Ente ha accordato la sostituzione dell'ausiliaria originaria. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di San Lorenzo Maggiore, dell'Ing. Lorenzo Iannotti in proprio e quale capogruppo mandatario del RTP con i mandanti Ing. Roberto Iannella e Ing. Luca Sarracco, del Ministero dell'Interno, del Ministero dell'Economia e delle Finanze e della Consip S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 febbraio 2022 il dott. Giuseppe Esposito e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO La Società ricorrente partecipava quale mandataria del costituendo RTP alla procedura telematica indetta dal Comune di San Lorenzo Maggiore, per l’affidamento con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa delle attività di progettazione definitiva, progettazione esecutiva e coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, relative ai lavori di sistemazione del movimento franoso di Via Pezzillo, dall’importo al netto di € 171.000,00. All’esito delle operazioni di gara è stata disposta l’aggiudicazione in favore del RTP controinteressato, che ha riportato un punteggio complessivo di 92,347, seguito con 91,787 punti dal raggruppamento di cui è mandataria la Società ricorrente. Quest’ultima ha impugnato con il ricorso introduttivo l’aggiudicazione e i provvedimenti ed atti indicati in epigrafe, reclamando l’aggiudicazione in proprio favore e formulando le riferite richieste. Sono dedotti vizi attinenti al possesso dei requisiti in capo al RTP aggiudicatario, al contratto di avvalimento e alla valutazione dell’offerta tecnica del concorrente. Si sono costituiti in giudizio per resistere il Comune e il controinteressato, producendo memorie difensive; si sono altresì costituite le Amministrazioni statali e la Consip, evocate in giudizio. L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza dell’1/12/2021 n. 2057. Con atto notificato il 10/12/2021 (depositato il 14/12/2021) la ricorrente ha proposto primi motivi aggiunti. Ha tratto spunto dalle vicende interessanti la Società ausiliaria, che ne hanno determinato la perdita dei requisiti ex art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, riguardanti un’inchiesta giudiziaria penale a carico dell’amministratore, del socio e del direttore tecnico (va incidentalmente precisato dal Collegio che, in ragione delle esigenze di tutela della riservatezza, nel prosieguo l’ausiliaria sarà indicata con le sole iniziali della denominazione sociale). Ciò posto, rappresenta di aver diffidato il Comune a revocare in autotutela l’aggiudicazione; evidenzia che il RTP aggiudicatario non può più avvalersi delle prestazioni dell’ausiliaria e sostiene che quest’ultima non potrebbe essere sostituita, altrimenti producendosi la modifica dell’offerta (avendo l’ausiliaria prestato i requisiti di cui l’aggiudicatario era completamente privo ed essendosi direttamente impegnata a eseguire le prestazioni). Il Comune e il controinteressato hanno depositato memorie ed esibito la nota prot. 140 del 7/1/2022, con cui il R.U.P. ha invitato l’aggiudicatario alla sostituzione dell’ausiliaria. La nuova istanza cautelare è stata respinta con ordinanza del 12/1/2022 n. 79. Il contointeressato ha poi prodotto in giudizio la nota con cui ha comunicato di aver sostituito l’ausiliaria, unitamente al nuovo contratto di avvalimento. Con secondi motivi aggiunti (notificati il 21/1/2022 e depositati il 24/1/2022) la ricorrente ha ulteriormente censurato l’attività della stazione appaltante che ha consentito la sostituzione dell’ausiliaria. Per l’udienza pubblica la difesa erariale ha depositato memoria con cui ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva; le parti private hanno prodotto scritti difensivi. All’udienza pubblica del 23 febbraio 2022 la causa è stata assegnata in decisione. DIRITTO 1.- È impugnata, unitamente agli atti indicati in premessa, l’aggiudicazione della gara di cui alla determinazione n. 82 del 12/10/2021 del Responsabile del 3° Settore - Tecnico Manutentivo del Comune di San Lorenzo Maggiore. Occorre preliminarmente dar conto dell’eccezione sollevata dalla difesa erariale, la quale osserva che le domande sono volte a censurare provvedimenti dell’Ente locale e che, pertanto, i Ministeri evocati in giudizio sono privi di legittimazione passiva. L’eccezione è fondata, non rinvenendosi alcuna ragione che giustifichi la partecipazione al giudizio del Ministero dell’Interno e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, alla cui sfera di competenze non è riconducibile l’attività che ha condotto all’aggiudicazione controversa. Per lo stesso motivo, oltre ai suddetti Ministeri, è ravvisabile il difetto di legittimazione passiva della Consip S.p.A., rilevabile d’ufficio. Conseguentemente, va disposta l’estromissione dal giudizio del Ministero dell’Interno, del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Consip. 2.- Si può passare all’esame delle censure. 2.1. La gara ha ad oggetto la progettazione definitiva ed esecutiva e il coordinamento sicurezza in fase di progettazione, relativamente ai lavori di sistemazione del movimento franoso di Via Pezzillo, per opere riconducibili alle categorie S.04 (“Strutture o parti di strutture in muratura, legno, metallo - Verifiche strutturali relative - Consolidamento delle opere di fondazione di manufatti dissestati - Ponti, Paratie e tiranti, Consolidamento di pendii e di fronti rocciosi ed opere connesse, di tipo corrente - Verifiche strutturali relative”) e V.01 (“Interventi di manutenzione su viabilità ordinaria”). Il criterio di aggiudicazione all’offerta economicamente più vantaggiosa ha previsto l’attribuzione di 80 punti all’offerta tecnica, 10 all’offerta temporale e 10 all’offerta economica (punto 18 del disciplinare). 2.2. Relativamente al possesso dei requisiti, per quanto qui interessa, il disciplinare ha richiesto: - al punto 7.2 (requisiti di capacità economica e finanziaria): “d) Fatturato globale minimo per servizi di ingegneria e di architettura relativo ai migliori tre degli ultimi cinque esercizi disponibili antecedenti la data di pubblicazione del bando per un importo pari a 2 (due) volte l’importo posto a base di gara: € 355.680,00”; - al punto 7.3 (requisiti di capacità tecnica e professionale): “f) Elenco di servizi di ingegneria e di architettura espletati negli ultimi dieci anni antecedenti la data di pubblicazione del bando e relativi ai lavori di ognuna delle categorie e ID indicate nella successiva tabella e il cui importo complessivo, per ogni categoria e ID, è almeno pari a 1 (una) volta l’importo stimato dei lavori della rispettiva categoria e ID”; “g) Servizi riferiti a tipologia dei lavori analoghi per dimensione e per caratteristiche tecniche a quelli oggetto dell’affidamento di ingegneria e architettura (servizi di punta) espletati negli ultimi dieci anni antecedenti la data di pubblicazione del bando, con le seguenti caratteristiche: l’operatore economico deve aver eseguito, per ciascuna delle categorie e ID della successiva tabella, due servizi per lavori analoghi, per dimensione e caratteristiche tecniche, a quelli oggetto dell’affidamento, di importo complessivo, per ogni categoria e ID, almeno pari a 0,40 (zerovirgolaquaranta) volte il valore della medesima”. IL RTP aggiudicatario, privo dei requisiti, ha fatto ricorso all’avvalimento. Con il contratto del 28/5/2021 l’ausiliaria G.E. si è impegnata a mettere a disposizione i predetti requisiti (dettagliati ai punti 1, 2 e 3), “ai fini della partecipazione del bando di gara per l’affidamento del presente appalto, nonché per lo svolgimento delle prestazioni di servizi previste dal bando di gara” (pag. 2) e, per ciò che concerne il requisito di capacità tecnica e professionale dei servizi di punta, sono indicati nel contratto di avvalimento tre servizi analoghi svolti dalla ausiliaria, per i Comuni di San Giuliano di Puglia, Foiano di Valfortore e Castelnuovo della Daunia. È dichiarato in contratto (pag. 3) quanto segue: <<B) L’impegno a mettere a disposizione quanto specificato al punto A, e di cui ai punti 1,2,3 decorre dalla data di stipula del presente contratto ed è assunto per l’intera durata dell’appalto. C) L’impresa ausiliaria si impegna ad eseguire direttamente i servizi per cui le capacità sono richieste (Consiglio di Stato, Sentenza n. 2191/2019)>>. 2.3. Tanto esposto circa i requisiti richiesti, quanto ai criteri di valutazione dell’offerta tecnica il punto 18.1 ha previsto l’attribuzione (limitatamente agli aspetti controversi in questo giudizio): - di 30 punti per il criterio A - Professionalità ed adeguatezza dell’offerta (“Professionalità e adeguatezza dell’offerta desunta da un numero massimo di tre servizi relativi a interventi ritenuti dal concorrente significativi della propria capacità a realizzare le prestazioni d’incarico e che sotto il profilo tecnico, tecnologico, funzionale e secondo i criteri desumibili dalle tariffe professionali, siano qualificabili affini a quelli oggetto dell’affidamento”); - di 10 punti per il criterio B - Caratteristiche metodologiche dell’offerta, sub-criterio B.3 (“Adeguatezza dei profili che compongono il gruppo di lavori, in relazione alla qualificazione professionale, alla relativa formazione, alle principali esperienze analoghe all’oggetto del contratto”). Il RTP aggiudicatario ha ottenuto (verbale della Commissione di gara n. 4 del 25/6/2021): - punti 30 per il criterio A; - punti 8,409 per il criterio B.3. Per effetto della riparametrazione ha conseguito il massimo punteggio per l’offerta tecnica. 3.- Come anticipato nelle premesse in fatto, la ricorrente deduce vizi concernenti il contratto di avvalimento e l’attribuzione del punteggio all’offerta tecnica del concorrente, con profili tra loro connessi. Rimarca che il RTP, privo dei requisiti, ha fatto ricorso interamente all’avvalimento con Società ausiliaria, impegnatasi a eseguire le prestazioni. 3.1. Con il primo motivo afferma che: a) non poteva farsi ricorso all’avvalimento in chiave premiale, ossia non solo per comprovare i requisiti di partecipazione ma anche al fine di conseguire la massima valutazione dell’offerta tecnica per il criterio A, relativo ai tre servizi di punta che misurano la capacità tecnica propria del concorrente, ma che non sono stati svolti dall’aggiudicatario bensì dall’ausiliaria; b) il contratto di avvalimento è nullo poiché indeterminato, in quanto privo dell’individuazione delle risorse messe a disposizione da parte dell’ausiliaria. Con lo stesso motivo è contestata l’attribuzione del punteggio per il criterio B.3 – “Adeguatezza dei profili che compongono il gruppo di lavori”, osservando che il RTP aggiudicatario, pur difettando dei requisiti tecnici e professionale (integralmente ricorrendo all’avvalimento) ha pur tuttavia esposto nella propria offerta i profili dei componenti del RTP e non dei professionisti della Società ausiliaria, che esegue le prestazioni e ha svolto i servizi indicati in contratto per la dimostrazione della suddetta capacità. 3.2. L’ulteriore motivo è incentrato sull’attribuzione del punteggio per i suddetti criteri A e B.3, riproponendo sostanzialmente le stesse doglianze. È cioè ripetuto che è illegittima l’assegnazione di 30 punti per i servizi di punta (non svolti dal concorrente ma dall’ausiliaria), nonché di punti 8,409 per i profili professionali dei componenti del RTP (non valutabili in quanto essi non hanno eseguito i servizi spesi quali pregresse esperienze, svolti invece dall’ausiliaria). È ancora dedotto, da ultimo, che neppure vi è corrispondenza tra i servizi di punta indicati per la valutazione dell’offerta tecnica e quelli che formano oggetto del contratto di avvalimento (risulta che in quest’ultimo erano indicati i servizi svolti dalla G.E. per i Comuni di San Giuliano di Puglia, Foiano di Valfortore e Castelnuovo della Daunia, mentre nell’offerta tecnica del RTP aggiudicatario al posto del primo si indicava il servizio svolto per il Comune di San Bartolomeo in Galdo, pur sempre eseguito dalla ausiliaria). La ricorrente sostiene che ciò determina la mancanza di un elemento essenziale e in ogni caso la decurtazione del punteggio, per l’estraneità del servizio indicato al contratto di avvalimento. 3.3. Oggetto di entrambi i motivi aggiunti è l’ammissibilità della sostituzione dell’ausiliaria (incorsa in vicende che ne hanno causato la perdita dei requisiti). È contestato che, eseguendo per l’intero la prestazione ed essendo ad essa riconducibili tutti i requisiti richiesti e i servizi valutati con l’attribuzione dei punteggi, la sua sostituzione determinerebbe una inammissibile modifica dell’offerta tecnica. 4.- Riassumendo, parte ricorrente sostiene che: - si sia fatto ricorso ad un avvalimento premiale non consentito (con l’illegittima attribuzione di 30 punti per il criterio A); - i servizi di punta fatti valere non sono riconducibili ai componenti del RTP aggiudicatario, per cui non poteva essere valutata in loro favore l’adeguatezza dei profili professionali (criterio B.3); - è nullo per indeterminatezza il contratto di avvalimento; - in ragione della specificità dell’avvalimento (con possesso dei requisiti e prestazioni interamente a carico dell’ausiliaria), non potrebbe effettuarsi la sua sostituzione se non determinando la modifica dell’offerta tecnica. 4.1. Per il rapporto di continenza tra le censure articolate con il ricorso introduttivo, va previamente esaminato il motivo con cui si deduce la nullità del contratto di avvalimento. Occorre a tal fine qualificare l’avvalimento in questione come di garanzia o tecnico-operativo. Con riferimento a quanto dispone l’art. 89, co. 1, ultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016 (“il contratto di avvalimento contiene, a pena di nullità, la specificazione dei requisiti forniti e delle risorse messe a disposizione dall'impresa ausiliaria”), la giurisprudenza ha ancora da ultimo operato la distinzione di cui sopra, statuendo che: “E' noto che, secondo orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, a seconda che si tratti di avvalimento c.d. garanzia ovvero di avvalimento c.d. tecnico o operativo, diverso è il contenuto necessario del contratto concluso tra l'operatore economico concorrente e l'ausiliaria; in particolare, solo in caso di avvalimento c.d. tecnico operativo sussiste sempre l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche, e specificamente indicate nel contratto, indispensabili per l'esecuzione dell'appalto che l'ausiliaria ponga a disposizione del concorrente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 4 ottobre 2021, n. 6619; V, 21 luglio 2021, n. 5485; V, 12 febbraio 2020, n. 1120 e le sentenze ivi richiamate; le ragioni alla base del predetto orientamento giurisprudenziale sono in Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giuris., 19 luglio 2021, n.722); solo così sarà rispettata la regola posta dall'art. 89, comma 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 50 del 2016 nella parte in cui commina la nullità all'omessa specificazione dei requisiti e delle risorse messe a disposizione dall'impresa ausiliaria” (Cons. Stato, sez. V, 10/1/2022 n.169). Tanto chiarito, reputa il Collegio che l’avvalimento a cui ha fatto ricorso il RTP aggiudicatario debba qualificarsi come tecnico-operativo. Milita in tal senso la specifica previsione del disciplinare, che al punto 7.3 suindicato ha posto i requisiti prestati tra quelli di capacità tecnico-professionale (cfr. Cons. Stato, cit.: “Il contratto di avvalimento stipulato rientrava senz'altro nella tipologia dell'avvalimento c.d. operativo poiché l'ausiliaria si impegnava a prestare requisiti di capacità tecnico - professionale (giurisprudenza costante, cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2020, n. 6932; V, 21 febbraio 2020, n. 1330)”). Essi, del resto, misurano nella specie la concreta capacità del concorrente all’esecuzione delle prestazioni, tant’è che l’indicazione dei servizi forma altresì oggetto della valutazione dell’offerta tecnica, reputandosene la professionalità ed adeguatezza in base a quelli “relativi a interventi ritenuti dal concorrente significativi della propria capacità a realizzare le prestazioni d’incarico”, in quanto affini “sotto il profilo tecnico, tecnologico, funzionale” (art. 18.1, criterio A). Avuto riguardo a ciò, si profila carente il contratto di avvalimento stipulato tra il RTP aggiudicatario e la G.E., il quale non reca alcuna indicazione delle effettive risorse messe a disposizione dall’ausiliaria. Detto contratto fissa l’impegno dell’ausiliaria “a mettere a disposizione quanto specificato al punto A, e di cui ai punti 1,2,3” (ovverossia, i requisiti di cui ai punti 7.2.d, 7.3.f e 7.3.g: fatturato globale minimo, servizi espletati negli ultimi dieci anni e servizi riferiti a tipologia di lavori analoghi), senza alcuna specificazione in concreto delle risorse umane e materiali. Non si trascura che l’interpretazione del contratto di avvalimento non soggiace a rigidi formalismi e il suo oggetto è determinabile anche per relationem (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20/7/2021 n. 5464, tra le altre), ma ciò non può valere a snaturare la regola dettata dall’art. 89 cit. e a sovvertire l’esigenza di indicazione delle risorse messe a disposizione nel caso di avvalimento c.d. tecnico-operativo, nel senso che occorre quantomeno “"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682); deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30 giugno 2021, n. 4935)” (Cons. Stato n. 169/2022, cit.). Aderendo ai suesposti principi, il Collegio ravvisa l’inadeguatezza del contratto di avvalimento tra il RTP aggiudicatario e la G.E., contenente unicamente l’impegno dell’ausiliaria a mettere a disposizione i requisiti di cui è in possesso, di tal che “non può ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell'appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano (Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 2018, n. 1543)” (TAR Lazio, sez. III-quater, 11/11/2021 n. 11585). Per quanto esposto va dichiarata la nullità del contratto di avvalimento del 28/5/2021 stipulato tra il RTP Iannotti e la G.E., con le conseguenze che ne derivano sull’ammissione alla gara del concorrente, per difetto dei requisiti in assenza di un valido contratto di avvalimento. 4.2. L’accoglimento del motivo spiegato sul punto conduce all’accoglimento del ricorso introduttivo ed è pienamente satisfattivo delle ragioni della ricorrente, cosicché restano assorbiti gli ulteriori motivi sull’ammissibilità dell’avvalimento c.d. premiale e in ordine all’attribuzione del punteggio. Per la denunciata illegittimità derivata, sono inoltre fondati il primo ed il secondo dei motivi aggiunti, derivando “a cascata” dalla nullità del contratto di avvalimento e conseguente illegittima ammissione alla gara del concorrente, in un rapporto di stretta derivazione, l’impossibilità di provvedere in seguito alla sostituzione dell’ausiliaria. 5.- Conclusivamente, previamente estromessi dal giudizio i Ministeri dell’Interno e dell’Economia e delle Finanze e la Consip S.p.A., va dichiarata la nullità del contratto di avvalimento del 28/5/2021 tra il RTP aggiudicatario e la G.E., ai sensi dell’art. 89, co. 1, ultimo periodo, del d.lgs. n. 50/2016. Assorbita ogni altra censura, vanno annullati gli atti impugnati, nella parte in cui il RTP Iannotti non è stato escluso per mancanza dei requisiti di capacità tecnica e professionale richiesti dal disciplinare di gara (punto 7.3), e la determinazione n. 82 del 12/10/2021 del Responsabile del 3° Settore - Tecnico Manutentivo del Comune di San Lorenzo Maggiore, con conseguente declaratoria di inefficacia del contratto nelle more eventualmente stipulato e del diritto della Società ricorrente all’aggiudicazione e al subentro, fatti salvi gli eventuali ulteriori accertamenti spettanti alla stazione appaltante. Per le suesposte ragioni vanno altresì accolti il primo e il secondo dei motivi aggiunti, per la denunciata illegittimità derivata della censurata attività posta successivamente in essere. Il soddisfacimento in forma specifica della pretesa esclude la spettanza del risarcimento per equivalente, domandato dalla ricorrente in via subordinata. Per la connotazione della vicenda sono ravvisabili giustificati motivi per disporre la compensazione per l’intero delle spese di giudizio tra le parti costituite, dichiarandole irripetibili nei confronti delle parti non costituite e ponendo a carico del Comune di San Lorenzo Maggiore il rimborso in favore della ricorrente del contributo unificato per il ricorso introduttivo e, ove dovuto e versato, per i motivi aggiunti depositati il 14/12/2021 e il 24/1/2022. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Prima), definitivamente pronunciando: 1) estromette dal giudizio il Ministero dell'Interno, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la Consip S.pA.; 2) accoglie il ricorso e i primi e secondi motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, e per l'effetto annulla gli atti impugnati, nella parte in cui il RTP Iannotti non è stato escluso dalla gara, e la determina n. 82 del 12/10/2021, con conseguente declaratoria del diritto della ricorrente all’aggiudicazione e al subentro e di inefficacia del contratto nelle more eventualmente stipulato, come chiarito in motivazione fatti salvi gli eventuali ulteriori accertamenti spettanti alla stazione appaltante. Compensa interamente tra le parti costituite le spese di giudizio, dichiarandole irripetibili nei confronti delle parti non costituite; pone a carico del Comune di San Lorenzo Maggiore, in persona del legale rappresentante pro tempore, il rimborso in favore della ricorrente del contributo per il ricorso introduttivo e, ove dovuto e versato, per i motivi aggiunti depositati il 14/12/2021 e il 24/1/2022. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 23 febbraio 2022 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Salamone, Presidente Giuseppe Esposito, Consigliere, Estensore Maurizio Santise, Consigliere Vincenzo Salamone, Presidente Giuseppe Esposito, Consigliere, Estensore Maurizio Santise, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento - Avvalimento tecnico-operativo –Risorse messe a disposizione dall’ausiliaria – Omessa indicazione nel contratto – Nullità del contratto di avvalimento                  Nel caso in cui il disciplinare ponga tra i requisiti di capacità tecnico-professionale quelli che misurino la capacità del concorrente nell’eseguire le prestazioni, ove questi ricorra all’avvalimento, si è in presenza di un avvalimento c.d. tecnico operativo per il quale sussiste l'esigenza della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche per l'esecuzione dell'appalto da parte dell’ausiliaria, quanto meno individuando le esatte funzioni che essa andrà a svolgere e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione; è pertanto nullo, ai sensi dell’art. 89, comma 1, ultimo periodo, d.lgs. n. 50 del 2016, il contratto di avvalimento che sia privo dell’indicazione della concreta messa a disposizione di mezzi e risorse specifiche con conseguente esclusione del concorrente che, avendo fatto ricorso ad un avvalimento nullo, non possegga i predetti requisiti  (1).     (1) Ha chiarito la Sezione che l’interpretazione del contratto di avvalimento non soggiace a rigidi formalismi e il suo oggetto è determinabile anche per relationem (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20/7/2021 n. 5464, tra le altre), ma ciò non può valere a snaturare la regola dettata dall’art. 89 cit. e a sovvertire l’esigenza di indicazione delle risorse messe a disposizione nel caso di avvalimento c.d. tecnico-operativo, nel senso che occorre quantomeno “"l'individuazione delle esatte funzioni che l'impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all'impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione" (Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682);  deve cioè prevedere, da un lato, la messa a disposizione di personale qualificato, specificando se per la diretta esecuzione del servizio o per la formazione del personale dipendente dell'impresa ausiliata, dall'altro i criteri per la quantificazione delle risorse e/o dei mezzi forniti (cfr. Cons. Stato, sez. III, 30 giugno 2021, n. 4935)” (Cons. Stato n. 169/2022, cit.). Aderendo ai suesposti principi, la Sezione ha ravvisato l’inadeguatezza del contratto di avvalimento contenente unicamente l’impegno dell’ausiliaria a mettere a disposizione i requisiti di cui è in possesso, di tal che “non può ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell'appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano (Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 2018, n. 1543)” (TarLazio, sez. III-quater, 11 novembre 2021 n. 11585).
Contratti della Pubblica amministrazione
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Costituzione di società in house per lo svolgimento dei servizi, previsti dal comma 3 dell’art. 103, d.l. n. 104 del 2020, di competenza istituzionale della Agenzia delle accise, dogane e monopolio
Numero 01374/2021 e data 03/08/2021 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 21 luglio 2021 NUMERO AFFARE 00747/2021 OGGETTO: Ministero dell'economia e delle finanze Quesito in ordine alla interpretazione dell’articolo 103, comma 1, del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126. LA SEZIONE Vista la nota 23 giugno 2021, prot. n. 485, con la quale il Ministero dell'economia e delle finanze ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri; 1. Il quesito. Con nota 23 giugno 2021, prot. n. 485, il Ministero dell’economia e delle finanze ha formulato un quesito in ordine alla interpretazione dell’articolo 103, comma 1, del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126. Il predetto Ministero, dopo aver riportato il testo di legge, ha riferito che nella fase istruttoria di predisposizione del decreto costitutivo della società, prevista dalla disposizione in questione, è sorta la necessità di comprendere se, in base alla legge, la società stessa dovesse o meno qualificarsi come società in house. L’amministrazione ha aggiunto che la qualificazione assume una particolare rilevanza in quanto solo le società in house: - possono essere assegnatarie dirette di servizi da svolgere per l’amministrazione pubblica senza previo ricorso ad una gara; - sono soggette al cosiddetto controllo analogo da parte della pubblica amministrazione di riferimento, ovvero un controllo tale che possa vincolare l’affidataria agli indirizzi dell’affidante, qualificandola come una sorta di longa manus dell’amministrazione, pur conservando natura distinta e autonomia rispetto all’apparato organizzativo di questa, così da determinare una sorta di amministrazione indiretta, realizzata attraverso un controllo gestionale e finanziario stringente sull’attività della società affidataria, la quale a sua volta è istituzionalmente destinata, in modo prevalente, ad operare in favore della pubblica amministrazione affidante. Nel caso in esame, il citato articolo 103, prevede che la società può essere costituita – con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze – per consentire all’Agenzia delle accise, dogane e monopoli (d’ora in poi “ADM”) di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di certificazione di qualità dei prodotti e l’uso del certificato del bollino di qualità, riconducibili alle attività tipiche dei laboratori di analisi dell’agenzia medesima. Tutto ciò premesso, il Ministero espone che una diversa interpretazione è stata sostenuta da ADM in base alla quale la disposizione in questione dovrebbe interpretarsi nel senso che l’articolo 103, più volte citato, abbia previsto non già una società in house, bensì una diversa fattispecie di società legale di “diritto singolare”, ai sensi dell’articolo 1, comma 4, TUSP, individuandone la struttura, l’oggetto, l’organizzazione e le condizioni al ricorrere delle quali la società dovrà operare. In tale prospettiva la norma, oltre ad aver tipizzato gli elementi caratterizzanti la società, ne avrebbe anche stabilito la specifica missione da ricondurre alla più ampia finalità di tutela della qualità italiana nei traffici doganali e di contrasto al cosiddetto “Italian sounding”; ciò in linea, peraltro, con il carattere dell’” interesse economico generale” di cui all’articolo 1, comma 4, TUSP. Per ADM non sarebbe l’ente pubblico ad avvalersi della società partecipata, come nel modello in house, bensì quest’ultima ad avvalersi dell’agenzia e dei suoi servizi di laboratorio; i servizi di certificazione di qualità previsti dalla norma sarebbero del resto del tutto nuovi, così come nuova è anche la creazione del bollino di qualità prevista dalla legge: anche in relazione a ciò, la disposizione prevede che la società faccia “uso… del certificato del bollino di qualità… previo riconoscimento all’Agenzia delle dogane e dei monopoli di una royalty per l’utilizzo del bollino di qualità”. Da ciò si ricaverebbe un modello operativo funzionale diverso da quello dell’in house, connotato per il fatto che la società partecipata acquista dall’Agenzia servizi di laboratorio di analisi doganale, servizi che utilizza poi per rilasciare sul mercato, in favore di terzi privati, certificazioni di qualità – contraddistinte da un bollino di qualità di proprietà della stessa Agenzia – riversando all’Agenzia profitti rinvenimenti da tale attività. Con nota 1 luglio 2021, prot. n. 226935, ADM ha inviato una “nota tecnica” con la quale ha ribadito la sua posizione, essenzialmente rilevando: - che non vi sono servizi pubblici da erogare e non vi è un affidamento diretto di contratto pubblico in favore della società; - che, secondo il modello utilizzato dall’articolo 103 più volte citato, la società partecipata compra da ADM servizi di laboratorio di analisi doganale che utilizza per rilasciare certificazioni di qualità sul mercato in favore di terzi privati; tali certificazioni sono contraddistinte da un bollino di qualità, di proprietà di ADM, che potrà essere gestito in modo informatico; - che sarebbe di tutta evidenza che questo modello non è compatibile con l’articolo 16 del d. lgs. 175/2016 in tema di società in house, in particolar modo laddove prevede al comma 3 che “gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che oltre l’80% del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci”; - che, ragionando diversamente, si verificherebbe la situazione paradossale per cui la società – di cui è stato individuato il nome “Qualitalia s.p.a.” – dovrebbe comprare i servizi di laboratorio dall’Agenzia per rivenderli nella misura dell’80% alla stessa Agenzia, non generando alcun vantaggio né in termini erariali né in termini di tutela del brand Italia e di contrasto all’Italian sounding. 2. Il quadro giuridico di riferimento. L’articolo 103 del decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, rubricato “Servizi dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”, testualmente stabilisce: 1. Al fine di consentire alla Agenzia delle dogane e dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze può essere costituita, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico, regolata ai sensi delle disposizioni di cui al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175. Lo svolgimento dell'attività della società è disciplinato nell'ambito della convenzione triennale prevista dall'articolo 59 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. (275) 2. Ove la società di cui al comma 1 sia costituita, il relativo statuto prevede che l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, e che la società medesima opera sulla base di un piano industriale che comprovi la sussistenza di concrete prospettive di mantenimento dell'equilibrio economico e finanziario della gestione. Per il perseguimento dei propri scopi sociali, la società si avvale, tramite apposito contratto di servizio con l'Agenzia delle dogane e dei monopoli, del personale e dei servizi di laboratorio dell'Agenzia stessa. 3. La società di cui al comma 1 può essere costituita per lo svolgimento dei servizi di: a) certificazione di qualità dei prodotti realizzata attraverso l'analisi tecnico - scientifica e il controllo su campioni di merce realizzati presso i laboratori dell'Agenzia; b) uso del certificato del bollino di qualità, qualora il prodotto analizzato soddisfi gli standard di qualità (assenza di elementi nocivi e provenienza certificata), apposto sulla confezione dello stesso, previo riconoscimento all'Agenzia delle dogane e dei monopoli di una royalty per l'utilizzo del bollino di qualità, e sino a quando i controlli previsti dall'Agenzia delle dogane e dei monopoli nei protocolli tecnico scientifici garantiscano il mantenimento degli standard qualitativi. 4. Ogniqualvolta si fa riferimento a: Agenzia delle dogane, Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, Direzione generale dogane ed imposte indirette sugli affari, Dipartimento delle dogane, Ministero delle finanze-Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, Laboratori chimici compartimentali delle dogane e delle imposte indirette, compartimenti doganali, circoscrizioni doganali, dogane, sezioni doganali, posti di osservazione dipendenti da ciascuna dogana, dogane di seconda e terza categoria, ricevitori doganali, posti doganali, Uffici Tecnici di Finanza, ispettorato compartimentale dell'amministrazione dei monopoli di Stato, monopoli di Stato, si intende l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ed i rispettivi Uffici di competenza. 4-bis. Agli oneri derivanti dal presente articolo, pari a 600.000 euro per l'anno 2021 in termini di fabbisogno e indebitamento netto, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo per la compensazione degli effetti finanziari non previsti a legislazione vigente conseguenti all'attualizzazione di contributi pluriennali, di cui all'articolo 6, comma 2, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008, n. 189. Come già messo in evidenza nel paragrafo precedente, la disposizione ha l’ampia finalità di tutelare la qualità italiana nei traffici doganali e di contrastare il cosiddetto “Italian sounding”. Occorre tuttavia comprendere qual è lo strumento individuato dalla norma e se la finalità deve essere realizzata attraverso la costituzione di una società in house, come proposto dall’Ufficio del coordinamento legislativo del MEF, oppure attraverso una società di “diritto singolare”, come sostenuto da ADM. 3.1. La gestione dei servizi pubblici: profili introduttivi. Prima di dare risposta, il Consiglio ritiene che sia necessario effettuare una ricostruzione storica della disciplina degli affidamenti della gestione dei servizi pubblici. Innanzi tutto è utile ricordare che nei servizi pubblici è possibile individuare tre distinti momenti logici e giuridici: 1) l’assunzione; 2) la regolazione; 3) la gestione del servizio. Momento iniziale è l’assunzione da parte dei pubblici poteri di un’attività come servizio pubblico, con legge o con atto amministrativo emanato in base ad una legge; si tratta di una decisione di carattere politico determinata dal fatto che il mercato non è in grado di offrire alla collettività un adeguato livello qualitativo o quantitativo di un determinato bene o servizio. Ne deriva una nozione di servizio pubblico storicamente relativa poiché varia in base all’epoca ed al contesto territoriale di riferimento; ciò spiega perché è estremamente difficile dare una definizione univoca di servizio pubblico. Quando un’attività viene assunta come servizio pubblico, il potere pubblico deve provvedere alla sua regolazione, secondo momento logico, dando attuazione a determinati principi giuridici che si ricavano anche, e soprattutto, dal diritto eurounitario e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, tra i quali ricordiamo: il principio di legalità; il principio di doverosità (i pubblici poteri devono garantire direttamente o indirettamente alla collettività l’erogazione del servizio secondo criteri quantitativi e qualitativi predeterminati); il principio della continuità della gestione ed erogazione dei servizi; il principio di imparzialità; il principio di universalità (le imprese che gestiscono servizi pubblici devono offrire prestazioni anche a fasce di clienti e in aree territoriali non convenienti); il principio dell’accessibilità dei prezzi per tutti; il principio dell’economicità (nel senso che il gestore del servizio deve poter conseguire un margine ragionevole di utile); il principio di trasparenza; il principio di proporzionalità. Per quanto riguarda il terzo, e fondamentale, momento, le forme di gestione dei servizi pubblici con rilevanza economica si caratterizzano per la minore o maggiore afferenza del gestore all’organizzazione pubblica; la gestione può infatti essere: a) diretta, ossia eseguita dalle strutture dello stesso ente che ha assunto il servizio pubblico (aziende speciali, gestione in economia); b) indiretta, ossia affidata ad un altro ente pubblico, ad esempio un ente pubblico economico; c) affidata ad una società in house providing; d) affidata ad una società mista a partecipazione pubblica e privata (c.d. partenariato pubblico privato istituzionale - PPPI); e) affidata in concessione a privati scelti mediante procedure di evidenza pubblica (c.d. concorrenza per il mercato); f) autorizzata a più gestori che erogano il servizio in concorrenza nel rispetto degli obblighi di servizio pubblico stabiliti dal regolatore (c.d. concorrenza nel mercato). Dagli anni novanta in poi, per effetto delle direttive comunitarie, si è passati da un modello di organizzazione del servizio pubblico caratterizzato dalla riserva originaria dell’attività, con i c.d. diritti speciali o di esclusiva, ad un modello sempre più concorrenziale. Le direttive volte alla liberalizzazione dei diversi settori e dei differenti mercati operano una distinzione tra “concorrenza nel mercato” e “concorrenza per il mercato”: nel primo caso, quando le caratteristiche del mercato lo consentono, il servizio può essere svolto da operatori economici in concorrenza tra loro, sulla base di un provvedimento autorizzatorio, non discrezionale, che realizza quindi la piena concorrenza; nel secondo caso, ragioni di tipo tecnico o economico (monopolio naturale, costi eccessivi di duplicazione delle reti e delle infrastrutture), suggeriscono che il servizio pubblico venga svolto in modo efficiente soltanto da un unico gestore. Pertanto, l’amministrazione indice una procedura selettiva di affidamento della concessione del servizio, alla quale possono partecipare tutti gli operatori economici interessati, per la scelta del gestore cui viene riconosciuto un diritto speciale o di esclusiva. In questo modello di gestione, dunque, la concorrenza si realizza a monte, secondo due modalità alternative ed equivalenti: procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento del servizio a soggetto privato ovvero procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato industriale cui affidare la gestione operativa del servizio in una società a partecipazione mista pubblica e privata. In ogni caso, non va dimenticato che, in base all’attuale disciplina generale dei servizi pubblici, le pubbliche amministrazioni possono sempre decidere di gestire direttamente il servizio a mezzo di un soggetto rispondente al modello in house providing, modello quest’ultimo da non confondere con quello delle società miste a partecipazione pubblico-privata. 3.2. Affidamento in house. Con l’espressione in house providing si fa riferimento all’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società controllata dall’ente medesimo, senza ricorrere alle procedure di evidenza pubblica, in virtù della peculiare relazione che intercorre tra l’ente pubblico e la società affidataria. La società in house è una società dotata di autonoma personalità giuridica che presenta connotazioni tali da giustificare la sua equiparazione ad un "ufficio interno" dell’ente pubblico che l’ha costituita, una sorta di longa manus; non sussiste tra l’ente e la società un rapporto di alterità sostanziale, ma solo formale. Queste caratteristiche della società in house giustificano e legittimano l’affidamento diretto, senza previa gara, per cui un’amministrazione aggiudicatrice è dispensata dall’avviare una procedura di evidenza pubblica per affidare un appalto o una concessione. Ciò in quanto, nella sostanza, non si tratta di un effettivo "ricorso al mercato" (outsourcing), ma di una forma di "autoproduzione" o, comunque, di erogazione di servizi pubblici "direttamente" ad opera dell'amministrazione, attraverso strumenti "propri" (in house providing). L’istituto, le cui radici si rinvengono nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, è espressione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche di cui all’articolo 2 della direttiva 2014/23/Ue che afferma: “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni”. In definitiva, un affidamento diretto ad un soggetto che non è sostanzialmente diverso dall’amministrazione affidante non può dare luogo alla lesione dei principi del Trattato e, in particolare, del principio di concorrenza, proprio perché si tratta non di esternalizzazione ma di autoproduzione della stessa P.A. L’in house segna, dunque, una delicata linea di confine tra i casi in cui non occorre applicare le direttive appalti e concessioni, e la relativa normativa nazionale di trasposizione, ed i casi in cui invece è necessaria l’applicazione. I requisiti delle società in house sono stati elaborati nel tempo dalla Corte UE; secondo la giurisprudenza della Corte, a partire dalla sentenza Teckal del 1999 sino alle direttive UE 23, 24 e 25/2014 in materia di appalti e concessioni, le procedure di evidenza pubblica possono escludersi tutte le volte in cui: 1) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello operato sui propri servizi interni (requisito strutturale); 2) il soggetto affidatario realizza la parte più importante della propria attività a favore dell’amministrazione aggiudicatrice che lo controlla (requisito funzionale). Le condizioni necessarie per la configurazione del controllo analogo sono la partecipazione pubblica totalitaria e l’influenza determinante; sin dal 2005, la Corte di Giustizia (Corte di Giustizia UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18 gennaio 2007, C-225/05, Je. Au.) ha chiarito che la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l'amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi. La partecipazione pubblica totalitaria rappresenta una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, dovendosi ulteriormente verificare la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente pubblico più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile a favore del socio totalitario. L'amministrazione aggiudicatrice, infatti, deve essere in grado di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell'entità affidataria e il controllo esercitato deve essere effettivo, strutturale e funzionale (in tal senso, Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, Econord). La Corte di Giustizia ha riconosciuto altresì che, a determinate condizioni, il controllo analogo può essere esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l'ente affidatario, c.d. in house frazionato (Corte di Giustizia UE, 29 novembre 2012, in cause riunite C-182/11 e C-183/11, Econord), e che è configurabile un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo, c.d. in house a cascata (Corte di Giustizia UE 11 maggio 2006 C-340/04). Il secondo requisito indicato dalla Corte è costituito dalla prevalenza dell’attività svolta con l’ente affidante, ossia il soggetto in house deve svolgere la parte più importante della propria attività con il soggetto o i soggetti pubblici che lo controllano e la diversa attività, eventualmente svolta, deve risultare accessoria, marginale e residuale. Sino alle direttive UE del 2014 non vi era una percentuale di attività predeterminata che doveva essere svolta in favore dell’ente affidante e, pertanto, l’interprete era tenuto a prendere in considerazione tutte le circostanze sia qualitative che quantitative del caso concreto. Nel contesto sopra descritto sono intervenute le nuove direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e le concessioni. I requisiti dell’in house sono adesso chiaramente indicati dall’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24/UE, dall’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2014/25/UE e dall’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE; tutte norme di analogo tenore. Non è disciplinato solo l’in house, ma anche la cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici (c.d. accordi di collaborazione), la quale però rimane al di fuori dell’in house, in quanto non comporta la costituzione di organismi distinti rispetto alle amministrazioni interessate all’appalto o alla concessione. In particolare, l’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, relativo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico, prevede che una concessione aggiudicata da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva quando siano soddisfatti tutti i requisiti del controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi, quando oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante e non vi sia alcuna partecipazione di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto. Le direttive sono state attuate con il d.lgs. 50/2016, recante il nuovo codice dei contratti pubblici, che all’articolo 5 – rubricato “principî comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico” – stabilisce una disciplina di principio che tratteggia nelle sue linee essenziali le caratteristiche principali dell’in house; le previsioni codicistiche ricalcano in buona parte le direttive. Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, primo periodo, in presenza di determinate condizioni, le norme del codice non si applicano ai contratti aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una “persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato”; ciò significa che i confini dell’in house sono stati estesi al di fuori del fenomeno delle società di diritto privato comprendendovi anche gli enti pubblici. Per l’individuazione dell’in house sono richiesti adesso tre requisiti: 1) controllo analogo; 2) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante; 3) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati. In ordine al controllo analogo, è stabilito che “un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ... qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata” (articolo 5, comma 1, lett. a). Quanto alla prevalenza dell’attività “intra moenia”, è previsto che oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata deve essere effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’ente controllante (articolo 5, comma 1, lett. b). Per determinare la citata percentuale deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o altra idonea misura alternativa basata sull’attività quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione (articolo 5, comma 7). Con norma che può essere utile anche nel caso di specie, si è chiarito che ove a causa della recente data di costituzione della persona giuridica o dell’amministrazione aggiudicatrice, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, i criteri citati non sono utilizzabili “è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile” (art. 5, comma 8). Il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e, al contempo, sono state consentite forme di partecipazione di capitali privati - le quali però non devono comportare controllo o potere di veto - previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica. Oltre al c.d. in house di tipo tradizionale, dalle direttive UE e dall’articolo 5 del codice dei contratti pubblici sono ricavabili anche altre forme di in house: - in house a cascata: si caratterizza per la presenza di un controllo analogo indiretto “tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo” (articolo 5, comma 2); l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su un ente che a propria volta esercita un controllo analogo sull’organismo in house ed anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto; - in house frazionato o pluripartecipato: ai sensi dell’articolo 5, comma 4, l’affidamento diretto è consentito anche in caso di controllo congiunto; le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono congiuntamente soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti; - in house verticale “invertito” o “capovolto”, si ha quando il soggetto controllato, essendo a sua volta amministrazione aggiudicatrice, affida un contratto al soggetto controllante senza procedura di evidenza pubblica: per il Codice degli appalti “il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante …” (articolo 5, comma 3). Si verifica, pertanto, una sorta di bi-direzionalità dell’in house; la giustificazione a tale possibilità di affidamento diretto risiede nel fatto che, mancando una relazione di alterità, i rapporti tra i due soggetti sfuggono al principio di concorrenza qualunque sia la “direzione” dell’affidamento; - in house “orizzontale” che implica, invece, l’esistenza di tre soggetti; un soggetto A aggiudica un appalto o una concessione a un soggetto B, e sia A che B sono controllati da un altro soggetto C. Non vi è quindi alcuna relazione diretta tra A e B, ma entrambi sono in relazione di in house con il soggetto C, che controlla sia A che B; l’amministrazione aggiudicatrice esercita un controllo analogo su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro. 3.3. Affidamento in house: regola o eccezione? Per lungo tempo è stato ritenuto che i requisiti dell'in house providing dovessero essere interpretati restrittivamente (Cons. Stato, sez. II, n. 456/2007; Cons. Stato, sez. V, n. 5620/2010; Cons. Stato, sez. I, n. 2577/2011). Si rilevava, al riguardo, che l'in house, così come costruito dalla giurisprudenza comunitaria, rappresentava, più che un modello di organizzazione dell'amministrazione, un'eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono la previa gara (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008). E ciò sulla base del principio secondo cui, in via generale, l’assenza totale di procedura concorrenziale per l’affidamento di una concessione di servizi pubblici non è conforme alle esigenze di cui agli artt. 43 CE e 49 CE, e nemmeno ai principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza (C. giust. CE, 6 aprile 2006, C-410/04 e 13 ottobre 2005, C458/03). In particolare si considerava che “l’affidamento diretto del servizio viola il principio di concorrenza sotto un duplice profilo: a) da una parte, sottrae al libero mercato quote di contratti pubblici, nei confronti dei quali le imprese ordinarie vengono escluse da ogni possibile accesso; b) dall’altra, si costituisce a favore dell’impresa affidataria una posizione di ingiusto privilegio, garantendole l’acquisizione di contratti. Il tutto si traduce nella creazione di posizioni di vantaggio economico che l’impresa in house può sfruttare anche nel mercato, nel quale si presenta come ‘particolarmente’ competitiva, con conseguente alterazione della par condicio” (Cons. Stato, Ad.Pl. n.1/2008). Anche più di recente questo Consiglio ha ritenuto di ribadire che l’in house rappresenta “un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara” (sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n. 5732/2015; sez. II, n. 298/2015). Occorre peraltro prendere atto dei mutamenti normativi e giurisprudenziali sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive europee in materia di appalti (n. 2014/24/UE), di concessioni (n. 2014/23/UE) e sui settori speciali (n. 2014/25/UE), del codice appalti (d.lgs. n. 50/2016) e del testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175/2016), di cui si dirà. Pertanto, secondo una diversa prospettiva, l’autorità pubblica, in virtù del principio di libera amministrazione, può discrezionalmente decidere come devono essere gestiti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, vale a dire: - mediante il ricorso al mercato, individuando l’affidatario mediante gara ad evidenza pubblica; - attraverso il c.d. partenariato pubblico privato, ossia per mezzo di una società mista e quindi con una gara a doppio oggetto per la scelta del socio o poi per la gestione del servizio; - ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo (Cons. Stato, sez. V, n. 4599/2014; sez. V, n. 257/2015; sez. V, n. 1900/2016). Il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 7 gennaio 2019, n.138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate (quindi su un piano subordinato ed eccezionale) rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell'Unione europea, trattandosi di stabilire se il citato restrittivo orientamento ultradecennale dell'ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e le disposizioni del diritto dell'Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall'articolo 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione). La Corte giustizia dell’Unione Europea, in risposta, ha chiarito tra l’altro che: "1) L'articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che subordina la conclusione di un'operazione interna, denominata anche «contratto in house», all'impossibilità di procedere all'aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all'operazione interna (Corte di giustizia, nona sezione, ordinanza 6 febbraio 2020, in cause da C-89/19 a C-91/19, Rieco spa). Ancora più di recente la Corte costituzionale ha evidenziato che la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha ribadito che dal principio di libera autorganizzazione delle autorità pubbliche (di cui al quinto considerando della direttiva 2014/24/UE e all’art. 2, paragrafo 1, della direttiva 2014/23 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione) discende la «libertà degli Stati membri di scegliere il modo di prestazione di servizi mediante il quale le amministrazioni aggiudicatrici provvederanno alle proprie esigenze» e, conseguentemente, quel principio «li autorizza a subordinare la conclusione di un’operazione interna all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna». 3.4. Le società a partecipazione pubblica. La disciplina delle società a partecipazione pubblica è oggi contenuta nel d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, adottato in attuazione della delega di cui alla l. 124/2015; il T.U.S.P. costituisce il primo tentativo di disporre una disciplina organica in materia di società a partecipazione pubblica, ispirata a criteri di efficiente gestione delle partecipazioni pubbliche, di tutela e promozione della concorrenza e del mercato, nonché di razionalizzazione e riduzione della spesa pubblica. Il Testo unico introduce disposizioni dedicate alla disciplina dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni che vogliano acquisire o mantenere lo status di soci di società di capitali ed un altro gruppo di norme contenenti le deroghe al diritto delle società necessarie in ragione della natura pubblica delle partecipazioni societarie. Il legislatore delegato ha classificato le società pubbliche in base al controllo pubblico o alla partecipazione (diretta o indiretta) pubblica. La distinzione è, dunque, quella tra società controllate e società meramente partecipate (articolo 2, comma 1, lett. n). L’intento perseguito dal legislatore con il Testo unico è stato quello di applicare la disciplina civilistica alle società a partecipazione pubblica, contenendo le deroghe nella misura strettamente necessaria al concreto soddisfacimento dell’interesse pubblico di volta in volta perseguito attraverso la costituzione di una società o la detenzione di partecipazioni societarie. Conseguentemente, il testo stabilisce che “per tutto quanto non derogato dalle disposizioni del presente decreto, si applicano alle società a partecipazione pubblica le norme sulle società contenute nel codice civile e le norme generali di diritto privato” (articolo 1, comma 3, T.U.). Il D.Lgs. 16 giugno 2017, n. 100 ha poi previsto "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" anche per adeguarsi alla sentenza della Corte cost. 25 novembre 2016, n. 251 con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di buona parte dell'art. 18 della L. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e cioè della norma di delega in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175 recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica. 3.5. Società in house e società miste. Come anticipato al paragrafo 3.1., giova ora sottolineare che i due modelli della società mista e della società in house non vanno sovrapposti. Il Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi, con parere n. 456 del 2007, sulle distinte modalità di affidamento chiarendo che “l’evoluzione giurisprudenziale consente, altresì, di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’in house providing”. Sul punto, si ricorda che l’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 ha definito i requisiti e le condizioni di affidamento alle società in house ed alle società a partecipazione mista pubblico privata, delineando i rispettivi tratti distintivi. Tale impostazione si è poi consolidata con la decisione della Corte di Giustizia secondo cui “gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non ostano all'affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l'esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato per le concessioni” (Corte UE, sez. III, 15 ottobre 2009 C-196/08). Per quanto di interesse in questa sede, giova sottolineare che dal testo unico, in linea con l’evoluzione normativa che si è delineata, emerge chiaramente la differenza tra le società in house, oggetto di disciplina all’articolo 16, e le società miste a partecipazione pubblico-privato, disciplinate al successivo articolo 17. Più precisamente l’articolo 16 stabilisce che le società in house ricevono affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto; in modo sensibilmente differente, invece, il successivo articolo 17 stabilisce che nelle società a partecipazione mista pubblico-privata la quota di partecipazione del soggetto privato non può essere inferiore al trenta per cento e la selezione del medesimo si svolge con procedure di evidenza pubblica a norma dell'articolo 5, comma 9, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e ha a oggetto, al contempo, la sottoscrizione o l'acquisto della partecipazione societaria da parte del socio privato e l'affidamento del contratto di appalto o di concessione oggetto esclusivo dell'attività della società mista. Emergono dunque notevoli differenze sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio privato che, nelle società in house, non deve avere un ruolo determinante e che, al contrario, nelle società miste deve essere determinante tanto che l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita. 3.6. Le società di “diritto singolare”. Va ora esaminata, perché rilevante nella risposta da dare al presente quesito, la nozione di società “di diritto singolare”. Nel definire l’ambito di applicazione, l’art. 1, comma 4, lett. a), T.U.SP.P. fa salve “le specifiche disposizioni contenute in leggi o regolamenti governativi o ministeriali che disciplinano società a partecipazione pubblica di diritto singolare costituite per l’esercizio della gestione di servizi di interesse generale o di interesse economico generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse”. Il richiamo “al diritto singolare” effettuato dal menzionato art. 1, comma 4, lett. a), TUSP, è soltanto nei confronti delle società destinatarie di discipline singolari, ossia di discipline applicabili esclusivamente alle medesime. La deroga disposta dalla normativa in esame è destinata a trovare applicazione, dunque, nella misura in cui tali società siano costituite per la gestione di servizi di interesse generale o per il perseguimento di una specifica missione di pubblico interesse e, in tal senso, nella relazione illustrativa al TUSP, è specificato che l’utilizzo, nel testo legislativo, della nozione considerata è volto a “chiarire che sono fatte salve le norme relative a singole società”. Occorre precisare altresì che la previsione di salvezza di cui all’art. 1, comma 4, lett. a), T.U.S.P., vale a rendere immune la società dall’applicazione delle norme del testo unico esclusivamente nella misura in cui queste ultime risultino incompatibili con le previsioni recate dalla normativa di diritto singolare. Con riferimento alla disciplina non derogata devono invece trovare applicazione le norme del TUSP e, in via residuale, il diritto societario comune. 3.7. Lo svolgimento di attività imprenditoriale da parte della pubblica amministrazione. A giudizio della Sezione, non può darsi risposta al quesito se, innanzitutto sotto un profilo teorico, non si esamina la questione relativa alla possibilità per le amministrazioni di svolgere attività imprenditoriale. Giova, a tal fine, ricordare che l’articolo 3, comma 27, l. 24 dicembre 2007 n. 244 prevedeva che le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. Proprio con riferimento alla disposizione ora richiamata, l’adunanza plenaria ha affermato che nell’ordinamento vi è un evidente disfavore del legislatore nei confronti della costituzione e del mantenimento da parte delle amministrazioni pubbliche di società commerciali con scopo lucrativo, il cui campo di attività esuli dall'ambito delle relative finalità istituzionali, né risulti comunque coperto da disposizioni normative di specie, secondo il modello delle c.d. "società di diritto singolare' (Cons. St., a.p., 3 giugno 2011 n. 10). Per l’Adunanza Plenaria, l’art. 3, comma 27. l. cit. esprimeva regole che già potevano essere desunte dal sistema: a) l'attività di impresa è consentita agli enti pubblici solo in virtù di espressa previsione; b) l'ente pubblico che non ha fini di lucro non può svolgere attività di impresa, salve espresse deroghe normative; c) la possibilità di costituzione di società in mano pubblica, operanti sul mercato, è ordinariamente prevista da specifiche disposizioni legislative; non di rado è la legge a prevedere direttamente la creazione di una società a partecipazione pubblica; d) la costituzione di società per il perseguimento dei fini istituzionali propri dell'ente pubblico è generalmente ammissibile se ricorrono i presupposti dell'in house (partecipazione totalitaria pubblica, esclusione dell'apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente dedicata al socio pubblico), e salvi specifici limiti legislativi. In altri termini «un conto è, dunque, la costituzione di una società in house, da parte di un ente pubblico senza fine di lucro, che è in sé un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell'autonomia organizzativa dell'ente, con il limite intrinseco che ogni forma organizzativa è sempre e necessariamente strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell'ente medesimo, e salvi specifici limiti legislativi. Un altro conto è la costituzione, da parte di un ente pubblico, di una società commerciale che non operi con l'ente socio, ma operi sul mercato, in concorrenza con operatori privati, e accettando commesse sia da enti pubblici che da privati. La società commerciale facente capo ad un ente pubblico, operante sul mercato in concorrenza con operatori privati, necessita di previsione legislativa espressa, e non può ritenersi consentita in termini generali, quanto meno nel caso in cui l'ente pubblico non ha fini di lucro». L’art. 3, comma 27 della legge finanziaria 2008 ha dunque introdotto, con una norma generale, una deroga al modello civilistico, al fine di vincolare l’attività d’impresa, in coerenza con il principio di legalità, al perseguimento di uno scopo pubblico (ancora Cons. St., a.p., 3 giugno 2011 n. 10). Il contenuto della norma in esame è stato poi riprodotto (abrogando contemporaneamente il citato articolo 3, comma 27) all’articolo 4, comma 1, TUSP, trattandosi, ad avviso della Commissione speciale del Consiglio di Stato, di un «chiaro e stringente “vincolo di scopo pubblico”» (Cons. St., Commissione speciale, parere 21 aprile 2016, n. 968). 4. La risposta al quesito. Così esposto il quadro giuridico di riferimento, la Sezione ritiene – nonostante la non perspicua formulazione del testo di legge, secondo quanto si dirà più avanti – che la norma vada interpretata nel senso di prevedere la costituzione di una società in house. In tale direzione militano numerosi argomenti. In primo luogo, va evidenziato che i servizi di cui al più volte citato articolo 103, comma 3, decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, sono in via primaria riconosciuti come di competenza di ADM. Sotto tale aspetto, è chiarissima la formulazione letterale della parte iniziale del comma 1 del predetto articolo 103, ove si utilizza la locuzione “al fine di consentire alla Agenzia delle dogane dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3…”. Viene affermato dunque, senza ombra di dubbio, che “i servizi di cui al comma 3” sono di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle dogane e dei monopoli. Da ciò ne scaturisce la conseguenza che, una volta individuati i servizi da rendere, il legislatore può optare per una delle diverse modalità di erogazione – tutte descritte al paragrafo 3.1. del presente parere – tra cui, naturalmente, anche il modello dell’in house. La circostanza, in secondo luogo, che il legislatore abbia parlato di costituzione di “una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico”, sempre a giudizio della Sezione, dimostra che il legislatore ha, seppure implicitamente, fatto riferimento allo schema dell’in house. È vero che oggi nella società in house vi possono essere – a determinate condizioni previste dalla legge statale (si veda il parere di questa Sezione 7 maggio 2019, n. 1389) – soci privati; tuttavia, come dimostrato al paragrafo 3.2., lo schema dell’in house, per un verso, è stato costruito dal diritto pretorio della C.G.U.E. attorno al socio unico pubblico e, per altro verso, il predetto schema, anche nell’attuale disciplina, ruota ancora attorno al socio unico pubblico (si veda l’art. 5, comma 1, lett. c, d. lgs. 50/2016). Detto in altri termini, il riferimento al socio unico esprime l’intenzione del legislatore di utilizzare lo schema dell’in house, attraverso la costituzione di una società che, essendo a totale partecipazione pubblica, risulti indubitabilmente essere la longa manus di ADM. Nonostante il fatto che i lavori preparatori, sotto il profilo dell’ermeneutica normativa, non possano essere ritenuti risolutivi dei dubbi interpretativi, in terzo luogo, va rilevato che la relazione illustrativa dell'articolo 103 del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, presentato al Senato della Repubblica per la conversione in legge (AS 1925), afferma che "la disposizione prevede la possibilità di costituire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze una apposita società in house avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ...". Nel dossier del servizio studi di Camera e Senato, redatto sul testo approvato dal Senato della Repubblica (AC 2700), si legge che "L'articolo 103, modificato al Senato, autorizza la costituzione, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di una apposita società in house — avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli — per lo svolgimento di alcuni servizi con criteri imprenditoriali ...". Anche l’intenzione del legislatore, quindi, spinge nella direzione dell’utilizzo del modello dell’in house. In quarto luogo, va evidenziato che conferme indirette, circa l’intenzione del legislatore di far riferimento ad una società in house, sono rinvenibili nella chiara previsione per cui “l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Se la società non fosse la longa manus dell’amministrazione, difficilmente si spiegherebbe la previsione per cui è il direttore di ADM ad essere ope legis amministratore unico. In sintesi, anche se la disposizione di legge non lo dice chiaramente, la presenza del socio unico pubblico e l’attribuzione della carica di amministratore al Direttore di ADM sono indizi inequivocabili della volontà del legislatore di ricorrere allo schema dell’in house. A giudizio della Sezione, non colgono nel segno le osservazioni proposte da ADM, secondo cui “non vi sono servizi pubblici da erogare… e non vi è un affidamento diretto di contratto pubblico in favore della società” (pagina 1 della nota tecnica inviata in data 1 luglio 2021, prot. n. 226935). Per un verso, i compiti indicati al comma 3 del più volte citato articolo 103, per la Sezione, devono essere qualificati come veri e propri servizi pubblici. In tal senso milita il dato letterale e, sotto altro aspetto, anche la natura intrinseca delle attività ivi contemplate. La circostanza, poi, che “i servizi di certificazione di qualità previsti dalla norma del 2020 sono del tutto nuovi… come del tutto nuova la creazione del bollino di qualità operata dalla legge”, non esclude che possano qualificarsi come servizi erogati al pubblico. Anche l’altra affermazione per cui “non è l’ente pubblico che si avvale della società partecipata, come nel modello in house… ma l’esatto contrario: è la società partecipata che si avvale di ADM e dei suoi servizi di laboratorio” (sempre pagina 1 della nota tecnica 1 luglio 2021) non trova conferma – per le ragioni prima esposte - nel dato legislativo in considerazione del fatto che, come già detto, i servizi in questione sono istituzionalmente assegnati all’Agenzia delle dogane dei monopoli con la conseguenza che ADM avrebbe dovuto erogarli direttamente attraverso i propri uffici, se non vi fosse stata la norma in commento. Attesa la formulazione dell’articolo 16, comma 3, TUSP – a mente del quale “Gli statuti delle società di cui al presente articolo devono prevedere che oltre l'ottanta per cento del loro fatturato sia effettuato nello svolgimento dei compiti a esse affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci” – ADM reputa che non possa utilizzarsi lo schema dell’in house perché “il 100% del fatturato della società pubblica è effettuato nello svolgimento di compiti di certificazione alla stessa affidati da privati sul libero mercato e non dall’ente pubblico” (pagina 2 della nota inviata in data 1 luglio 2021). In altri termini, per l’Agenzia, la circostanza che la fatturazione dei servizi in questione veda come destinatari i privati (ossia i richiedenti dei servizi stessi) porterebbe a non ritenere esistente una delle condizioni previste per l’in house. Pure tale osservazione va superata in base alla pacifica possibilità di ricorrere allo schema dell’in house per la concessione dei servizi pubblici (oltre che per l’affidamento dei contratti pubblici), ove, per definizione, sono i privati ad essere destinatari dei servizi e della relativa fatturazione. A conferma di ciò, basti il riferimento all’articolo 5 d. lgs. 50/2016, nella parte in cui chiaramente ammette l’in house, oltre che per l’affidamento dei contratti pubblici, anche per la concessione dei servizi pubblici. Peraltro, l’articolo da ultimo richiamato lega il riferimento quantitativo (“oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi”) ai “compiti” affidati e non necessariamente alla fatturazione dei servizi in favore dell’ente pubblico affidante. La fatturazione, invero, sarà rivolta all’amministrazione di riferimento nel caso di affidamento di appalti pubblici di servizi mentre, nel caso di concessione di servizi pubblici, non può che essere rivolta ai destinatari del servizio stesso. Va esclusa ancora la possibilità di ricondurre la società in questione allo schema delle società “di diritto singolare” perché manca nella disposizione di legge una compiuta, e dettagliata, disciplina della società, tale da poterla, si passi la ripetizione, considerare “di diritto singolare”. Peraltro, se l’articolo 103 citato fosse sufficiente per ritenere autorizzata la costituzione di una società “di diritto singolare”, la conseguenza sarebbe l’assenza di una disciplina completa e, sotto altro aspetto, il possibile dubbio circa la compatibilità col principio della concorrenza di origine eurounitaria, interferendo l’attività in questione con servizi potenzialmente incidenti sul mercato. In conclusione, per la Sezione, la non perspicua formulazione della disposizione di legge, valutati tutti gli aspetti, porta a preferire l’interpretazione che propende per la costituzione di una società in house. La Sezione, tuttavia, non nasconde che la disposizione sia di non semplice interpretazione. Si consideri, ad esempio, la difficoltà di comprendere la portata della locuzione “con criteri imprenditoriali” contenuta al comma 1. Per tale ragione, fermo il rispetto dovuto alle scelte del Legislatore e dell’amministrazione richiedente il parere, si sottopone al Ministero la possibilità di farsi promotore di una norma “chiarificatrice” nonché di approfondire con l’Autorità garante della concorrenza e del mercato i possibili profili applicativi, prima di rendere concretamente operativo quanto previsto dalla legge. P.Q.M. nei termini su esposti e il parere della Sezione. IL SEGRETARIO Carola Cafarelli
Società in house – Agenzia delle accise, dogane e monopolio – Società costituita per i servizi ex comma 3 dell’art. 103, d.l. n. 104 del 2020 – E’ società in house.       L’art. 103, comma 1, d.l. 14 agosto 2020, n. 104 deve essere interpretato nel senso di prevedere la costituzione di una società in house, essendo i servizi di cui al comma 3 dello stesso art. 103 di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle accise, dogane e monopolio (1).    (1) Ad avviso della Sezione in tale direzione militano numerosi argomenti. In primo luogo, va evidenziato che i servizi di cui all’art. 103, comma 3, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, sono in via primaria riconosciuti come di competenza dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio. Sotto tale aspetto, è chiarissima la formulazione letterale della parte iniziale del comma 1 del predetto art. 103, ove si utilizza la locuzione “al fine di consentire alla Agenzia delle dogane dei monopoli di svolgere, con criteri imprenditoriali, i servizi di cui al comma 3…”.  Viene affermato dunque che “i servizi di cui al comma 3” sono di competenza ‘istituzionale’ della Agenzia delle dogane e dei monopoli. Da ciò ne scaturisce la conseguenza che, una volta individuati i servizi da rendere, il legislatore può optare per una delle diverse modalità di erogazione tra cui, naturalmente, anche il modello dell’in house.  La circostanza, in secondo luogo, che il legislatore abbia parlato di costituzione di “una apposita società, di cui la predetta Agenzia è socio unico” dimostra che il legislatore ha, seppure implicitamente, fatto riferimento allo schema dell’in house. È vero che oggi nella società in house vi possono essere – a determinate condizioni previste dalla legge statale (si veda il parere di questa Sezione 7 maggio 2019, n. 1389) – soci privati; tuttavia, lo schema dell’in house, per un verso, è stato costruito dal diritto pretorio della C.G.U.E. attorno al socio unico pubblico e, per altro verso, il predetto schema, anche nell’attuale disciplina, ruota ancora attorno al socio unico pubblico (si veda l’art. 5, comma 1, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016). Detto in altri termini, il riferimento al socio unico esprime l’intenzione del legislatore di utilizzare lo schema dell’in house, attraverso la costituzione di una società che, essendo a totale partecipazione pubblica, risulti indubitabilmente essere la longa manus dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio. Nonostante il fatto che i lavori preparatori, sotto il profilo dell’ermeneutica normativa, non possano essere ritenuti risolutivi dei dubbi interpretativi, in terzo luogo, va rilevato che la relazione illustrativa dell'art. 103, d.l. 14 agosto 2020, n. 104, presentato al Senato della Repubblica per la conversione in legge (AS 1925), afferma che "la disposizione prevede la possibilità di costituire con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze una apposita società in house avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli ...". Nel dossier del servizio studi di Camera e Senato, redatto sul testo approvato dal Senato della Repubblica (AC 2700), si legge che "L'art. 103, modificato al Senato, autorizza la costituzione, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di una apposita società in house — avente come socio unico l'Agenzia delle dogane e dei monopoli — per lo svolgimento di alcuni servizi con criteri imprenditoriali ...". Anche l’intenzione del legislatore, quindi, spinge nella direzione dell’utilizzo del modello dell’in house. In quarto luogo, va evidenziato che conferme indirette, circa l’intenzione del legislatore di far riferimento ad una società in house, sono rinvenibili nella chiara previsione per cui “l'organo amministrativo è costituito da un amministratore unico, individuato nel direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli”. Se la società non fosse la longa manus dell’amministrazione, difficilmente si spiegherebbe la previsione per cui è il direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio ad essere ope legis amministratore unico.  In sintesi, anche se la disposizione di legge non lo dice chiaramente, la presenza del socio unico pubblico e l’attribuzione della carica di amministratore al Direttore dell’Agenzia delle accise, dogane e monopolio sono indizi inequivocabili della volontà del legislatore di ricorrere allo schema dell’in house.  ​​​​​​​Va esclusa la possibilità di ricondurre la società in questione allo schema delle società “di diritto singolare” perché manca nella disposizione di legge una compiuta, e dettagliata, disciplina della società, tale da poterla, si passi la ripetizione, considerare “di diritto singolare”. Peraltro, se l’art. 103 citato fosse sufficiente per ritenere autorizzata la costituzione di una società “di diritto singolare”, la conseguenza sarebbe l’assenza di una disciplina completa e, sotto altro aspetto, il possibile dubbio circa la compatibilità col principio della concorrenza di origine eurounitaria, interferendo l’attività in questione con servizi potenzialmente incidenti sul mercato 
Società in house
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/possibilit-c3-a0-di-chiedere-la-didattica-a-distanza-dopo-il-26-aprile-2021-e-sino-a-conclusione-dell-anno-scolastico
Possibilità di chiedere la didattica a distanza dopo il 26 aprile 2021 e sino a conclusione dell’anno scolastico
N. 02811/2021 REG.PROV.CAU. N. 04801/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 4801 del 2021, proposto da Scuole Diffuse in Puglia APS, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Luisa Carpentieri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Associazione Autism Friendly Altamura (Onlus), -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato Dario Belluccio, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, via Quintino Sella 5; -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Luca Monticchio, Luisa Carpentieri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Isabella Fornelli, Rossana Lanza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero dell'Istruzione, Comitato genitori pugliesi favorevoli alla DAD, -OMISSIS-, non costituiti in giudizio; nei confronti -OMISSIS-non costituiti in giudizio; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente le modalità di applicazione della didattica digitale integrata con facoltà di sua scelta in luogo dell'attività in presenza; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Considerato: - che l’ordinanza regionale impugnata ha esercitato “sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020/21” il potere di deroga in senso restrittivo riconosciuto dall’art. 3 co. 1 D.L. 22 aprile 2021 n. 52, con riguardo alle modalità della didattica; - che, ai fini della delibazione della istanza cautelare, occorre tener conto della imminente conclusione dell’anno scolastico, evento da cui deriverebbe la irreparabilità del lamentato pregiudizio ancor prima della discussione collegiale cautelare dell’appello; - che il contesto epidemiologico in cui l’ordinanza regionale è stata adottata, in data 23 aprile 2021, si è profondamente modificato, in senso positivo, anche per la Regione Puglia, che già all’inizio del corrente mese di maggio è stata riclassificata come “zona gialla”; - che le deroghe regionali (come quella qui contestata), di regola vietate espressamente dal citato art. 3 co. 1 D.L. n. 52, possono essere consentite soltanto “in casi di eccezionale e straordinaria necessità dovuta alla presenza di focolai o al rischio estremamente elevato” di diffusione del virus e delle sue varianti nella popolazione scolastica; - che lo stesso decreto legge, a rafforzamento della necessità di considerare restrittivamente le eventuali deroghe, ha precisato che l’eventuale provvedimento deve, nella motivazione, dare atto della valutazione delle competenti autorità sanitarie, nonché rispettare i principi di adeguatezza e proporzionalità; Considerato che, tuttavia, la constatata deroga regionale non ha imposto alle famiglie la didattica a distanza, bensì consentito l’opzione per la didattica digitale integrata (DDI), ove esista una espressa richiesta in proposito; Ritenuto quindi che manca nella fattispecie il danno “grave ed irreparabile” giacché, secondo le previsioni contestate, la didattica in presenza continua ad essere assicurata e le famiglie che intendono avvalersene ben possono farlo; Ritenuto, altresì, che la deroga regionale configuri una solo parziale, e non valutabile in questa sede come manifestamente illegittima, deviazione rispetto ai principi del D.L. n. 52/2021, introducendo non già un regime di “chiusura” ma una facoltà, di ciascuna famiglia, di scegliere tra la didattica in presenza e la DDI, valutando – come genitori – ogni implicazione di tale scelta per il bene dei propri figli; Ritenuto, in conclusione, che la previsione opzionale offerta a ciascuna famiglia renda conforme alla necessaria proporzionalità la misura derogatoria; P.Q.M. Respinge l’istanza cautelare. Fissa per la discussione collegiale la Camera di Consiglio del 24 giugno 2021. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti private. Così deciso in Roma il giorno 25 maggio 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid–19 – Puglia – Didattica a distanza – Dopo il 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021 – Possibilità su richiesta.      Deve essere respinta l’istanza di sospensione monocratica dell'Ordinanza del Presidente della Regione Puglia, con la quale è stato disposto che, con decorrenza dal 26 aprile 2021 e sino alla conclusione dell’anno scolastico 2020-2021, l’attività didattica delle scuole di ogni ordine e grado si svolge in presenza, salva la possibilità di chiedere la didattica a distanza per le istituzioni scolastiche della scuola primaria, della secondaria di primo grado, di secondo grado e CPIA  , non ravvisandosi per gli alunni un danno grave e irreparabile in considerazione della possibilità di esercitare l’opzione per la didattica digitale integrata (DDI). ​​​​​​​
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/fissazione-della-camera-di-consiglio-ex-art.-72-bis-c.p.a.-anche-in-mancanza-di-istanza-di-fissazione-di-udienza
Fissazione della camera di consiglio ex art. 72 bis c.p.a. anche in mancanza di istanza di fissazione di udienza
N. 00214/2021 REG.PROV.PRES. N. 01208/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 1208 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanna Carmela Cantavenera, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro -OMISSIS-, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza in forma semplificata del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Terza) n. -OMISSIS-/2021, resa tra le parti, Visti il ricorso e i relativi allegati; Rilevato e considerato che: - il difensore della parte ricorrente esibisce una relazione di notificazione a mezzo PEC datata 29.10.2021, senza tuttavia esibire le ricevute di spedizione, consegna e accettazione della PEC; - il ricorso risulta depositato in data 1.12.2021, e avuto riguardo alla data dichiarata di notificazione, appare tardivo, essendo depositato oltre il termine perentorio di trenta giorni dal perfezionamento dell’ultima notificazione; - la procura alle liti non risulta, a un sommario esame, regolare: è costituita da atto separato rispetto al ricorso, e, essendo anteriore alla sentenza appellata e facendo generico riferimento “al presente ricorso” senza indicarne l’oggetto, non appare immediatamente e direttamente riferibile al presente appello; inoltre, detta procura alle liti, facendo menzione di mediazione e negoziazione assistita, sembra riferita ad un processo civile e non a un giudizio amministrativo; - ricorrono i presupposti per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a., trattazione a cui non osta la mancanza di una domanda di fissazione di udienza, dato che è prioritaria la declaratoria d’ufficio di una causa di inammissibilità; - la causa è fissata ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. per la camera di consiglio del 16.12.2021; P.Q.M. Fissa la camera di consiglio del 16.12.2021 ai sensi e per gli effetti dell’art. 72-bis c.p.a.; manda alla segreteria per la comunicazione del presente decreto alle parti costituite. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare... Così deciso in Palermo il giorno 3 dicembre 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Processo amministrativo – Camera di consiglio ex art. 72 bis c.p.a. – Istanza di fissazione di udienza - Mancanza – Irrilevanza.           Per la trattazione di un ricorso ai sensi dell’art. 72-bis c.p.a. non osta la mancanza di una domanda di fissazione di udienza, essendo prioritaria la declaratoria d’ufficio di una causa di inammissibilità (1).    (1) Nella specie la camera di consiglio ex art. 72-bis c.p.a. è stata fissata sul duplice presupposto che il deposito dell’appello appare tardivo e che la procura alle liti non risulta, ad un sommario esame, regolare, essendo costituita da atto separato rispetto al ricorso, essendo anteriore alla sentenza appellata e perché, facendo generico riferimento “al presente ricorso” senza indicarne l’oggetto, non appare immediatamente e direttamente riferibile al presente appello.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/termine-per-il-deposito-delle-norme-di-udienza-ex-art.-4-comma-1-penultimo-periodo-d.l.-n.-28-del-2020
Termine per il deposito delle note di udienza ex art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. n. 28 del 2020
N. 00816/2020 REG.PROV.CAU. N. 00845/2020 REG.RIC.            N. 00877/2020 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 845 del 2020, proposto dalla Liberi Cacciatori Siciliani, dall’Associazione Nazionale Cacciatori e dalla Italcaccia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dall'avvocato Angelo Russo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Legambiente Sicilia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Antonella Bonanno e Nicola Giudice, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; L.I.P.U. Odv, W.W.F. Onlus, non costituiti in giudizio; Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale 6; nei confronti Unaves, Federcaccia, non costituiti in giudizio; sul ricorso numero di registro generale 877 del 2020, proposto dalla Un.A.Ve.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Girolamo Rubino e Massimiliano Valenza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro WWF Italia Onlus, Lipu Odv, Legambiente Aps, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Antonella Bonanno e Nicola Giudice, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale 6; Liberi Cacciatori Siciliani, Associazione Nazionale Cacciatori, Italcaccia, Federazione Italiana della Caccia, Federcaccia Sicilia, Anuu - Associazione dei Migratoristi Italiani per la Conservazione dell'Ambiente Naturale, Comitato Regionale Anuu - Associazione dei Migratoristi Italiani per la Conservazione dell'Ambiente Naturale, Arci Caccia Nazionale, Comitato Federativo Siciliano, U.N. Enalcaccia pro tempore, Delegazione Regionale per la Sicilia, non costituiti in giudizio; per la riforma entrambi i ricorsi dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sez. I) n. 944/2020, resa tra le parti, concernente l’impugnazione del Calendario Venatorio 2020/21. Visto l'art. 62 cod. proc. amm.; Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Legambiente Sicilia, WWF Italia Onlus, Lipu Odv, Legambiente Aps, e della Regione Siciliana - Assessorato Regionale Agricoltura Sviluppo Rurale e Pesca Mediterranea; Vista la impugnata ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale di accoglimento della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Relatore il Cons. Nicola Gaviano nella Camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2020, svoltasi con partecipazione da remoto dei magistrati ai sensi degli artt. 25 d.l. n. 137/2020 e 4 d.l. n. 28/2020, e vista la richiesta di passaggio in decisione senza discussione presentata dall'Avvocatura dello Stato con nota di carattere generale a firma dell’Avvocato distrettuale; Osservato preliminarmente che alla luce dell’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. n. 28/2020 (richiamato dall’art. 25 d.l. n. 137/2020) le note d’udienza depositate nell’ambito del giudizio di appello n. 877/2020 risultano tardive, in quanto pervenute oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza, con la duplice precisazione che: (i) il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza); (ii) il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art 4, d.l. n. 28/2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza. Rilevato, sempre preliminarmente, che, dal momento che i due appelli in epigrafe hanno ad oggetto la stessa ordinanza cautelare di primo grado, gli stessi devono essere riuniti affinché su di essi possa essere emessa un’unica decisione; Considerato che l’impostazione di principio che connota la motivata ordinanza oggetto d’appello appare resistere alle contestazioni mosse in questa sede, le quali hanno formato materia, ex adverso, di condivisibili controdeduzioni; Ritenuto, tuttavia, che le doglianze degli appellanti possono reputarsi meritevoli di trovare accoglimento sotto i seguenti due specifici profili: - quello della caccia della specie beccaccia, rispetto alla quale si presenta come soluzione più corretta quella della data intermedia di chiusura del 10 gennaio 2021, ossia quella che è stata privilegiata quale “compromesso ideale” dall’approfondita C.T.U depositata nel recente giudizio cautelare n. 749/2018 R.G. celebrato dinanzi a questo Consiglio (e richiamata dalle parti contrapposte), data che è stata comunque presa in considerazione anche dall’I.S.P.R.A.; - quello della caccia al coniglio selvatico, profilo sollevato unicamente dall’appello n. 877/2020, in ragione del fatto che il parere dell’I.S.P.R.A. non contemplava, in proposito, alcuno specifico vincolo che dalla Regione possa dirsi immotivatamente inosservato; P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, riuniti gli appelli in epigrafe, li accoglie nei limiti di cui in motivazione, ed entro gli stessi limiti, riformando l’ordinanza cautelare impugnata, respinge la domanda cautelare di prime cure. Conferma l’ordinanza cautelare di primo grado nei suoi rimanenti aspetti. Compensa le spese processuali tra le parti in causa. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso dal C.G.A. R. S. con sede in Palermo nella Camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2020, svoltasi con la contemporanea e continuativa presenza da remoto dei componenti il collegio ai sensi degli artt. 25 d.l. n. 137/2020 e 4 d.l. n. 28/2020, con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro, Consigliere Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Covid-19 – Udienze da remoto – Note di udienza – Deposito – Termine – Individuazione.             Ai sensi dell’art. 4, comma 1, penultimo periodo, d.l. n. 28 del 2020, richiamato dall’art. 25, d.l. n. 137 del 2020, sono tardive le note d’udienza depositate pervenute oltre le ore 12 del giorno antecedente l’udienza, con la duplice precisazione che: a) il momento ultimo delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza deve essere inteso come mezzogiorno (ossia 21 ore prima dell’udienza) e non come mezzanotte, perché questa seconda interpretazione non consentirebbe al Collegio di prendere visione dei depositi in tempo utile per l’udienza; b) il termine delle ore 12 del giorno antecedente l’udienza riguarda sia le note di udienza che le istanze di passaggio in decisione menzionate nell’art. 4, d.l. n. 28 del 2020, al fine della fictio iuris della presenza in udienza. ​​​​​​​
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-pronuncia-sulla-competenza-dell-organo-liquidatore-quando-va-emanato-un-atto-di-liquidazione-di-una-somma-spettante-a-seguito-di-a
L’Adunanza plenaria pronuncia sulla competenza dell’organo liquidatore, quando va emanato un atto di liquidazione di una somma, spettante a seguito di acquisizione sanante
N. 00015/2020REG.PROV.COLL. N. 00004/2020 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4 di A.P. del 2020, proposto da Comune di Potenza, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Emilio Bonelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Maria Luisa Antonietta Morlino, Leonardo Antonio Morlino, Rosanna Morlino e Aldo Morlino, rappresentati e difesi dall'avvocato Rocco Baldassini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata n. 467 del 1° giugno 2019, resa tra le parti, concernente l’ottemperanza alla sentenza del medesimo T.a.r. n. 340 del 19 maggio 2018, relativa ad una istanza di disporre ai sensi dell’art. 42-bis d.p.r. n. 327 del 2001. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Maria Luisa Antonietta Morlino, di Leonardo Antonio Morlino, di Rosanna Morlino e di Aldo Morlino; Visti tutti gli atti della causa e, in particolare, l’ordinanza della Sezione Quarta del 20 marzo 2020, n.1994, con la quale l’affare è stato rimesso a questa Adunanza plenaria; Relatore nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2020 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (conv. in L. 24 aprile 2020, n. 27) gli avvocati delle parti costituite in appello. FATTO E’ impugnata la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata del 1° giugno 2019, n. 467 concernente l’ottemperanza alla sentenza del medesimo Tribunale 19 maggio 2018, n. 340, relativa ad un’istanza di disporre ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001. Gli appellati, signori Morlino, sono proprietari di terreni illecitamente occupati e trasformati dal Comune di Potenza; essi, con istanza in data 30 giugno 2016, hanno sollecitato l’Ente a rendere noto se intendesse emanare un provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 e, successivamente, hanno adìto il Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata. Questo, con la citata sentenza 19 maggio 2018, n. 340, ha accolto il ricorso e ha imposto al Comune di Potenza di “concludere il procedimento, attivato dai ricorrenti con l’istanza del 30.6/5.7.2016, di emanazione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42-bis entro il termine di 120 giorni dalla comunicazione telematica della presente sentenza”. I signori Morlino hanno di nuovo adito il Tribunale amministrativo, chiedendo la nomina di un commissario ad acta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a. Il Comune si è costituito nel giudizio di ottemperanza rappresentando di avere già inviato “all’Organo Straordinario di Liquidazione, competente sotto il profilo della liquidazione dell’indennizzo, tutta la documentazione necessaria per emettere il provvedimento conferente” e sollecitando, pertanto, il rigetto del ricorso. Con la sentenza qui appellata il giudice di primo grado ha accolto il ricorso, nominando come commissario ad acta il Prefetto di Potenza, con facoltà di delega a funzionario sottordinato. Il Tribunale amministrativo ha ritenuto che, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 5, comma 2, D.L. n. 80-2004, conv. nella L. n. 140-2004 e 252, comma 4, e 254, comma 3, d.lgs. n. 267-2000, i debiti, ai quali si riferisce l’ipotesi di bilancio riequilibrato e la procedura di dissesto e riequilibrio finanziario, sono: - quelli rilevati contabilmente nell’ambito degli esercizi finanziari precedenti all’anno in cui è stato dichiarato il dissesto, cioè i debiti con impegno contabile, registrato entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello in cui è stato dichiarato il dissesto sul competente capitolo di bilancio di previsione e munito del visto di regolarità contabile da parte del responsabile del servizio finanziario attestante la copertura finanziaria; - oppure i debiti fuori bilancio, riconosciuti dal Consiglio Comunale con delibera anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente alla dichiarazione di dissesto. Ha quindi ritenuto che le parole “fatti ed atti di gestione”, contenute nel citato art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267-2000, vanno interpretate sotto il profilo contabile e perciò non possono riferirsi alla data dell’evento danno, cioè alla data del compimento della fattispecie illecita, ma al momento in cui il debito del Comune è diventato certo, liquido ed esigibile. Poiché, nella specie, il dissesto finanziario del Comune di Potenza è stato dichiarato con Delibera C.C. n. 103 del 20.11.2014 ed il titolo esecutivo, agognato dai ricorrenti, a tutt’oggi non si è formato, in quanto ancora non è stato emanato il provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001, ne consegue –ad avviso del primo giudice- che non sussiste la competenza dell’organo straordinario di liquidazione, dedotta dal Comune, anche perché il predetto organo straordinario non può adottare il suddetto provvedimento di acquisizione sanante. Per contro, in caso di emanazione del predetto provvedimento ex art. 42-bis, il predetto Commissario ad acta potrà utilizzare tutte le somme disponibili, al di fuori del procedimento di dissesto finanziario, relative all’anno in corso o ai due anni successivi, provvedendo, se necessario, anche alla modifica del bilancio con i poteri del Consiglio Comunale, oppure alla predisposizione, soltanto con riferimento alla provvista economica necessaria per l’attuazione della sentenza, dell’apposito piano di rateizzazione triennale ex art. 194, comma 2, d.lgs. n. 267-2000, munito dell’attestazione di copertura finanziaria ex art. 151, comma 4, d.lgs. n. 267-2000, mediante l’individuazione di somme diverse da quelle indisponibili di cui al comma 2 dell’art. 159 d.lgs. n. 267-2000. Il Comune ha interposto appello, censurando la sentenza nella parte in cui impone al commissario ad acta di valersi delle somme del bilancio ordinario. Con ordinanza 20 marzo 2020, n. 1994, la Sezione Quarta, pur senza formulare uno specifico quesito, ha sottoposto a questa Adunanza la problematica relativa all’imputazione del debito conseguente all’emanando provvedimento di acquisizione sanante alla gestione dell’Organo Straordinario di Liquidazione ovvero alla gestione ordinaria del bilancio del Comune. Alla Camera di Consiglio del 15 luglio 2020 la causa veniva trattenuta in decisione. DIRITTO 1. L’art. 252, comma 4, d.lgs. n. 267-2000 stabilisce che “l’organo straordinario di liquidazione ha competenza relativamente a fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”. Tale norma ha subito un’integrazione ad opera dell’art. 5, comma 2, D.L. n. 80-2004 (convertito con L. n. 140-2004) che prevede che “ai fini dell'applicazione degli articoli 252, comma 4, e 254, comma 3, del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, si intendono compresi nella fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, del medesimo Testo Unico”. 2. La materia del contendere ruota, dunque, intorno sia all’interpretazione da riconoscere all’espressione “atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato”, contenuta nell’art. 252 del TUEL, sia intorno al significato da attribuire alla clausola normativa di tipo interpretativo del predetto disposto del TUEL, aggiunta dal citato decreto legge del 2004, secondo cui si intendono compresi nella fattispecie ivi previste tutti i debiti correlati ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre (…) pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data ma, comunque, non oltre quella di approvazione del rendiconto della gestione. 3. L’Adunanza ritiene che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione non solo le poste passive pecuniarie già contabilizzate alla data della dichiarazione di dissesto, ma anche tutte le svariate obbligazioni che, pur se stricto jure sorte in seguito, costituiscano comunque la conseguenza diretta ed immediata di “atti e fatti di gestione” pregressi alla dichiarazione di dissesto. Nel caso di specie è pur vero che l’emanando provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa Adunanza con la sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva. Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e civilistico, un effetto traslativo ex nunc. Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ha per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma) l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”. Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, D.L. n. 80-2004 (convertito con L. n. 140-2004). 4. Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze” (ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve accertare. Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del provvedimento in esame. Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei presupposti di legittimità del medesimo. Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11. In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie, l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito. 5. Peraltro, deve osservarsi che la sentenza della Corte costituzionale 21 giugno 2013, n. 154, relativa ad analoghe disposizioni per le obbligazioni rientranti nella gestione commissariale del Comune di Roma (art. 4, comma 8-bis, ultimo periodo, D.L. 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, in L. 26 marzo 2010, n. 42), ha sostenuto che in una procedura concorsuale – tipica di uno stato di dissesto – una norma che ancori ad una certa data il fatto o l’atto genetico dell’obbligazione è logica e coerente, proprio a tutela dell’eguaglianza tra i creditori, mentre la circostanza che l’accertamento del credito intervenga successivamente è irrilevante ai fini dell’imputazione; e sarebbe irragionevole il contrario, giacché farebbe difetto una regola precisa per individuare i crediti imputabili alla gestione commissariale o a quella ordinaria e tutto sarebbe affidato alla casualità del momento in cui si forma il titolo esecutivo, anche all’esito di una procedura giudiziaria di durata non prevedibile (punto 7.1 del considerato in diritto). 6. Anche sotto il profilo teleologico, le norme sul dissesto finanziario degli Enti Locali, contenute nel Titolo VIII, Capi II-IV del TUEL, sono preordinate al ripristino degli equilibri di bilancio degli enti locali in crisi, mediante un’apposita procedura di risanamento. La normativa che si è succeduta nel tempo (D.L. 2 marzo 1989, n. 66 convertito in L. 24 aprile 1989, n. 144; D.L. 18 gennaio 1993, n. 8 convertito in L. 19 marzo 1993, n. 68; d.P.R. 24 agosto 1993, n. 378; d.lgs. 25 febbraio 1995, n. 77; d.lgs. 11 giugno 1996, n. 336; d.lgs. 15 settembre 1997, n. 342; d.lgs. 23 ottobre 1998, n. 410; d.P.R. 13 settembre 1999, n. 420; d.P.R. 18 agosto 2000, n. 273, artt. 244-272 d.lgs. 267-2000) ha delineato una netta separazione di compiti e competenze tra la gestione passata e quella corrente, a tutela della gestione corrente che sarebbe pregiudicata se in essa confluissero debiti sostanzialmente imputabili alle precedenti gestioni amministrative (che sono state a tal punto fallimentari da determinare il dissesto dell’ente), in modo da garantire, per il futuro, la sostenibilità finanziaria del bilancio ordinario. In particolare, in base al TUEL (e per quanto di interesse in questa sede): - soggetti della procedura di risanamento sono l’Organo straordinario di liquidazione (OSL), incaricato di provvedere al ripiano dell’indebitamento pregresso con i mezzi consentiti dalla legge, e gli organi istituzionali dell’ente, chiamati ad assicurare condizioni stabili di equilibrio della gestione finanziaria e a rimuovere le cause strutturali all’origine del dissesto (art. 245); - l’OSL ha competenza relativamente a “fatti ed atti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell'ipotesi di bilancio riequilibrato» (che il consiglio dell’ente locale presenta per l’approvazione al Ministro dell’interno entro il termine perentorio di 3 mesi dalla data di emanazione del decreto di nomina dell’OSL: art. 259, comma 1) e provvede a: a) la rilevazione della massa passiva, ai sensi dell’art. 254); b) l’acquisizione e la gestione dei mezzi finanziari disponibili ai fini del risanamento, ai sensi dell’art. 255; c) la liquidazione e il pagamento della massa passiva, ai sensi dell’art. 256 (art. 252, comma 4)”. Pertanto, il principio generale è costituito dalla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, che continui a rappresentare l’asse portante dell’intera disciplina del dissesto, nonostante le modifiche intervenute nel tempo su taluni aspetti della procedura. Quanto alla formazione della massa passiva: - l’OSL provvede all’accertamento della massa passiva mediante la formazione di un piano di rilevazione (art. 254, comma 1); - nel piano di rilevazione della massa passiva sono inclusi: a) i debiti di bilancio e fuori bilancio di cui all’art 194 verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato; b) i debiti derivanti dalle procedure esecutive estinte ai sensi dell’art. 248, comma 2; c) i debiti derivanti da transazioni compiute dall’OSL in ordine a vertenze giudiziali e stragiudiziali relative a debiti rientranti nelle fattispecie di cui alle precedenti lett. a) e b) (art. 254, comma 3); - a seguito del definitivo accertamento della massa passiva e dei mezzi finanziari disponibili, e comunque entro 24 mesi dall’insediamento, l’OSL predispone il piano di estinzione delle passività, includendo le passività accertate successivamente all’esecutività del piano di rilevazione dei debiti, e lo deposita presso il Ministero dell’Interno in vista dell’approvazione da parte di quest’ultimo (art. 256, comma 6). E’ evidente, quindi, che la disciplina normativa sul dissesto, basata sulla creazione di una massa separata affidata alla gestione di un organo straordinario, distinto dagli organi istituzionali dell’ente locale, può produrre effetti positivi soltanto se tutte le poste passive riferibili a fatti antecedenti al riequilibrio del bilancio dell’ente possono essere attratte alla predetta gestione, benché il relativo accertamento (giurisdizionale o, come nel caso di specie, amministrativo) sia successivo. Con l’unico limite rappresentato, come detto, dall’approvazione del rendiconto della gestione che segna la chiusura della Gestione Liquidatoria; dopo tale data, infatti, è evidente che non sarà più possibile imputare alcunché a tale organo, in quanto, dal punto di vista giuridico, esso ha cessato la sua esistenza. 7. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, deve dichiararsi il seguente principio di diritto: - l’atto di acquisizione sanante, generatore dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza dell’OSL, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza ammnistrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato. La causa va quindi rimessa alla Sezione semplice di competenza (Quarta Sezione) per la decisione dell’appello. Spese al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede di Adunanza Plenaria, Dichiara il seguente principio di diritto: - l’atto di acquisizione sanante, generatore del debito è attratto nella competenza dell’OSL, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile che sotto il profilo della competenza ammnistrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato. Rimette gli atti alla Quarta Sezione per l’ulteriore corso della causa. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 luglio 2020 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
Enti locali – Comuni – Dichiarazione di dissesto – Competenza organo liquidatore liquidazione di una somma, spettante a seguito della realizzazione di un’opera pubblica su fondo altrui - Epoca anteriore alla dichiarazione di dissesto dell’ente - Competenza dell’organo straordinario di liquidazione – Condizione.     L’atto di acquisizione sanante, generatore dell’obbligazione (e, quindi, del debito), è attratto nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, e non rientra quindi nella gestione ordinaria, sia sotto il profilo contabile sia sotto il profilo della competenza ammnistrativa, se detto provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione è pronunciato entro il termine di approvazione del rendiconto della Gestione Liquidatoria e si riferisce a fatti di occupazione illegittima anteriori al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato (1). (1) Cons. St., sez. IV, ord., 20 marzo 2020, n. 1994. Ha chiarito l’Alto consenso che è pur vero che l’emanando provvedimento ex art. 42-bis T.U. Espropriazione, che farebbe sorgere il debito oggetto della presente controversia, ha natura costitutiva, come confermato da questa Adunanza con la sentenza 20 gennaio 2020, n. 2, che ha escluso la rilevanza del risarcimento del danno ai fini dell’occupazione acquisitiva. Il provvedimento dell’amministrazione che dispone la cd. acquisizione sanante, quindi, non accerta un debito preesistente, ma lo determina ex novo, quantificandone altresì l’ammontare e non ha, quindi, carattere ricognitivo, ma costitutivo, determinando, sul piano amministrativo e civilistico, un effetto traslativo ex nunc. Tuttavia, detto provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, ha per presupposto (ai sensi del primo comma della predetta norma) l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”; inoltre il provvedimento di acquisizione, ai sensi del successivo comma 4, deve recare “l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio”. Pertanto, il provvedimento risulta certamente correlato, sul piano della stessa attribuzione causale, “ad atti e fatti di gestione verificatisi entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, pur se accertati, anche con provvedimento giurisdizionale, successivamente a tale data”, come specifica l’art. 5, comma 2, d.l. n. 80 del 2004 (convertito con l. n. 140 del 2004). Sul piano dell’interpretazione letterale, quindi, le “circostanze” (ovvero i fatti) che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area costituiscono il presupposto per l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante che l’amministrazione, prima della sua adozione, deve accertare. Parimenti, anche l’utilizzazione “di un bene immobile per scopi di interesse pubblico” costituisce un fatto che deve esser oggetto di un accertamento da parte dell’amministrazione, prodromico all’adozione del provvedimento in esame. Si tratta quindi, in entrambi i casi di fatti necessariamente correlati al successivo provvedimento, il cui positivo accertamento costituisce uno dei presupposti di legittimità del medesimo. Pertanto, sotto il profilo finanziario, se tali fatti sono cronologicamente ricollegabili all’arco temporale anteriore al 31 dicembre dell’anno precedente a quello dell’ipotesi di bilancio riequilibrato, il provvedimento successivo (non necessariamente giurisdizionale, come è evidente dalla mera lettura del citato art. 5) che determina l’insorgere del titolo di spesa deve essere imputato alla Gestione Liquidatoria, purché detto provvedimento sia emanato prima dell’approvazione del rendiconto della gestione di cui all’art. 256, comma 11, t.u. n. 267 del 2000. In questo caso, non solo il debito viene imputato al Bilancio della Gestione Liquidatoria sotto il profilo amministrativo-contabile, e non a quello della gestione ordinaria, ma anche la competenza amministrativa ad emanare il provvedimento che costituisce il titolo di spesa (nella specie, l’acquisizione sanante) deve essere attribuita al Commissario Liquidatore, in quanto è quest’ultimo soggetto che deve costituire la relativa partita debitoria del bilancio da lui gestito.  
Enti locali
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Applicazione del principio di rotazione agli appalti sotto soglia con procedura aperta svolta sulla piattaforma SINTEL
N. 02654/2020REG.PROV.COLL. N. 10609/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10609 del 2019, proposto da Consorzio Parts & Services, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Barbara Bari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Azienda Socio Sanitaria Territoriale del Garda, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Domenico Bezzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Paolo Rolfo in Roma, via Appia Nuova n. 96; nei confronti Autosalone Fratelli Bonaglia S.r.l., Carella F.Lli di Bruno e Roberto Carella S.n.c., Bianchi e Trapletti S.n.c. non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) n. 00993/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Azienda Socio Sanitaria Territoriale del Garda; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del giorno 16 aprile 2020 il Cons. Giovanni Tulumello e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso in appello notificato il 13 dicembre 2019, e depositato il successivo 23 dicembre, il Consorzio appellante ha impugnato la sentenza indicata in epigrafe. Si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso, l’Azienda Socio Sanitaria Territoriale del Garda. Preso atto del deposito delle memorie di parte, il ricorso in appello è stato quindi trattenuto in decisione all’udienza del 16 aprile 2020, con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18. 2. La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto in primo grado dal Consorzio odierno appellante contro gli atti della procedura indetta dall’Azienda socio sanitaria territoriale del Garda, ex articolo 36, comma 2, lett. a) del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per l’affidamento del servizio di riparazione ordinaria di tipo elettrico/elettronico degli automezzi aziendali di sua proprietà per un periodo di ventiquattro mesi. Come riporta la sentenza impugnata, “L’intera procedura si è svolta in via telematica, con l’utilizzo della piattaforma SINTEL della Regione Lombardia, previa pubblicazione sul sito istituzionale dell’ASST di apposito avviso. Il servizio è stato distinto in tre lotti, corrispondenti ad altrettante aree territoriali, riferite ai diversi presidi/distretti di assegnazione dei mezzi in dotazione. L’aggiudicazione è stata disposta, in applicazione del criterio del prezzo più basso, in favore di: società Autosalone Fratelli Bonaglia S.r.l. per l’area 1, Carella F.lli di Bruno e Roberto Carella S.n.c. per l’area 2, Bianchi & Trapelli s.n.c. per l’area 3. Consorzio Parts & Services, unico ulteriore concorrente, è risultato secondo per tutti gli ambiti”. Con un’unica, articolata censura il gravame lamenta la violazione del principio di rotazione previsto, per gli appalti sottosoglia, dall’articolo 36 del del d.lgs. 50/2016, assumendo: - l’applicabilità del menzionato principio alla fattispecie dedotta, per il solo fatto della partecipazione dei precedenti gestori (e dunque indipendentemente dal fatto che si sia trattato di una procedura aperta o meno); - in ogni caso, la natura non aperta della procedura de qua, difettando la prova che l’avviso di avvio della procedura sia stato effettivamente pubblicato sul sito web della stazione appaltante, e che siano stati realmente invitati tutti gli operatori che ne hanno fatto richiesta. 3. L’appello è infondato. La sentenza impugnata ha condivisibilmente escluso l’applicazione del principio di rotazione alla fattispecie dedotta, argomentando anche dalle Linee guida ANAC n. 4 [nella versione adottata con Delib. 1° marzo 2018, n. 206 (punto 3.6)], in ragione della natura aperta della procedura per cui è causa: “Il fondamento del principio di rotazione è individuato tradizionalmente nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), in particolare nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Peraltro, così come delineato dal richiamato articolo 36, detto principio costituisce per gli appalti di lavori, servizi e forniture sotto soglia il necessario contrappeso alla significativa discrezionalità riconosciuta all’amministrazione nell’individuare gli operatori economici in favore dei quali disporre l’affidamento (nell’ipotesi di affidamento diretto) o ai quali rivolgere l’invito a presentare le proprie offerte (nel caso di procedura negoziata), in considerazione dell’eccentricità di tali modalità di selezione dei contraenti rispetto ai generali principi del favor partecipationis e della concorrenza. (…) detto principio non trova applicazione ove la stazione appaltante non effettui né un affidamento (diretto) né un invito (selettivo) degli operatori economici che possono presentare le loro offerte, ma la possibilità di contrarre con l’amministrazione sia aperta a tutti gli operatori economici appartenenti ad una determinata categoria merceologica”. Alla luce del corretto inquadramento della fattispecie, si tratta di una ricostruzione esegetica, e di una conseguente applicazione normativa, del tutto condivisibili perché coerenti al sistema, e alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato: la sentenza della V Sezione, 7539/2019, pure invocata dall’appellante, ha infatti in proposito affermato che “non può tuttavia dubitarsi che tale prescrizione va intesa nel senso dell'inapplicabilità del principio di rotazione nel caso in cui la stazione appaltante decida di selezionare l'operatore economico mediante una procedura aperta, che non preveda una preventiva limitazione dei partecipanti attraverso inviti”. 4. Nella memoria di replica depositata il 6 aprile 2020, la parte appellante contesta che la procedura in questione fosse una procedura “aperta” deducendo il richiamato difetto di prova. La sentenza impugnata ha affermato in proposito che “L’intera procedura si è svolta in via telematica, con l’utilizzo della piattaforma SINTEL della Regione Lombardia, previa pubblicazione sul sito istituzionale dell’ASST di apposito avviso”. Nel ricorso in appello si contesta sia che possa qualificarsi aperta una procedura svolta sulla piattaforma SINTEL (alla quale avrebbero accesso solo alcuni operatori), sia che risponda a verità che l’avviso sia stato pubblicato sul sito della stazione appaltante. Osserva preliminarmente il Collegio che l’onere della dimostrazione dei fatti costitutivi della pretesa fatta valere in giudizio incombe, anche in termini di principio di prova, sulla parte che abbia azionato tale pretesa. Non risulta peraltro che l’odierno appellante abbia neppure chiesto alla stazione appaltante l’accesso ai dati inerenti i due elementi fattuali posti a fondamento della propria prospettazione. In ogni caso nel giudizio di primo grado la stazione appaltante ha prodotto, in data 16 ottobre 2019, il report della procedura de qua, estratto dalla piattaforma SINTEL, dal quale risulta la scansione fattuale sopra descritta e solo labialmente contestata dall’appellante. La sentenza impugnata ha chiarito poi ulteriormente (punto 12) che “Con riferimento alla procedura oggetto dell’odierno giudizio va evidenziato che ASST Garda ha pubblicato l’avviso dell’indizione della procedura sul proprio sito istituzionale e non ha effettuato un affidamento diretto (che pure sarebbe stato legittimo, dato l’importo del servizio) né ha rivolto un invito ad alcuni operatori economici discrezionalmente selezionati, ma ha invece demandato al mercato l’individuazione dei concorrenti interessati a presentare la propria offerta per la prestazione del servizio, senza prevedere limiti numerici o filtri selettivi. 13. La procedura negoziata si è svolta quindi con una modalità aperta, atteso che l’amministrazione ha invitato tutti i soggetti che avevano manifestato il loro interesse, senza esclusioni o vincoli in ordine al numero massimo di operatori ammessi alla procedura. Gli operatori economici erano unicamente tenuti ad effettuare l’accesso e l’iscrizione alla piattaforma telematica Sintel, che non prevedono alcuna istruttoria o a selezione da parte dell’amministrazione”. La motivazione resiste alle censure proposte con il ricorso in appello, in quanto sarebbe stato onere dell’appellante dimostrare la non veridicità dell’assunto fattuale su cui poggia la sentenza impugnata con riferimento alla pubblicazione dell’avviso sul sito e al possibile, mancato invito di tutti i richiedenti (censura formulata peraltro in forma perplessa e meramente dubitativa). Inoltre, l’appellante non supera, neppure sul piano del principio di prova, l’accertamento, contenuto nella sentenza impugnata, relativo al fatto che l’iscrizione alla piattaforma SINTEL è un mero adempimento tecnico-burocratico, privo di valenza selettiva (in disparte il possibile difetto d’interesse del Consorzio appellante – che ha regolarmente partecipato alla procedura presentando la propria offerta – a dedurre, al di là del profilo della qualificazione formale della stessa, un simile argomento). 5. La qualificazione della procedura in questione ritenuta dal primo giudice è pertanto corretta, ai fini che qui vengono in rilievo (art. 36 d. lgs. n. 50/2016). Sempre in memoria di replica l’appellante, modificando il proprio argomento di censura, deduce che “In ogni caso, il carattere aperto della procedura è irrilevante, a fronte dei seguenti fondamentali aspetti: − il pregresso affidamento agli stessi operatori, quale unico criterio fattuale che deve orientare la S.A., sia nella fase di invito, che in quella di aggiudicazione, nell'applicazione della rotazione; − l'obbligo motivazionale sull'eventuale mancata applicazione dell'art. 36 del Codice Appalti, rimasto totalmente inadempiuto nella fattispecie”. Entrambi gli argomenti sono da respingere. Il precedente affidamento non ha carattere assolutamente preclusivo rispetto alla partecipazione dei precedenti affidatari alla procedura, se la procedura è aperta, ovvero se, in caso di diversa procedura, la stazione appaltante motiva le ragioni dell’invio dell’invito anche a costoro. Nella seconda ipotesi considerata, peraltro qui non ricorrente, l’obbligo di motivazione che incombe sulla stazione appaltante concerne, anche secondo l’invocata sentenza della V Sezione 7539/2019 (“il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l'invito anche all'operatore uscente”), non già la partecipazione del precedente gestore ad una procedura aperta, bensì l’invito del medesimo ad una procedura ristretta (come ribadito dalla V Sezione nella recente sentenza n. 2182/2020). Non andava pertanto motivato né l’invito a partecipare alla procedura (aperta) rivolto agli operatori “uscenti”, né l’aggiudicazione ai medesimi della commessa. Sul punto appare condivisibile, ed esente dai profili di censura svolti dall’appellante, la considerazione ritenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale “La rotazione pertanto deve essere intesa non già come obbligo di escludere il gestore uscente dalla selezione dell’affidatario bensì, soltanto, di non favorirlo, risolvendosi altrimenti tale principio in una causa di esclusione dalle gare non solo non codificata, ma in totale contrasto col principio di tutela della concorrenza su cui è imperniato l’intero sistema degli appalti. (….) il criterio di scelta degli aggiudicatari è stato individuato nel prezzo più basso e quindi in un criterio di carattere oggettivo, che assicurava l’imparzialità di giudizio della stazione appaltante, anche rispetto agli operatori economici che avevano già svolto il servizio”. L’accoglimento della tesi dell’appellante avrebbe comportato, al contrario, un affidamento non conseguente ad un preliminare confronto concorrenziale, posto che escludendo i precedenti gestori l’unico concorrente in gara sarebbe stato proprio il Consorzio appellante, che si sarebbe pertanto aggiudicato la commessa indipendentemente dal prezzo offerto (il più alto), e dunque senza possibilità per l’amministrazione di scegliere l’offerta caratterizzata dal prezzo più basso. Né, per le ragioni esposte, il fatto di avere gestito il servizio finora può avere in alcun modo agevolato gli aggiudicatari, proprio in ragione del meccanismo – oggettivo, e privo di discrezionalità – di selezione dell’offerta vincente. 6. Il ricorso in appello è pertanto infondato, e come tale deve essere rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la regola della soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna il Consorzio appellante al pagamento, in favore dell’Azienda appellata, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessi euro quattromila/00, oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza (ai sensi dell’art. 84, comma 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18), con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Rotazione – Appalti sotto soglia – Procedura aperta - Svolta sulla piattaforma SINTEL – Inapplicabilità.      Il principio di rotazione, previsto dall’art. 36, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, non si applica agli appalti sottosoglia con procedura aperta svolta sulla piattaforma SINTEL (1).   1) La sentenza ha ricordato quanto previsto anche dalle Linee guida ANAC n. 4 [nella versione adottata con Delib. 1° marzo 2018, n. 206 (punto 3.6)], in ragione della natura aperta della procedura per cui è causa: “Il fondamento del principio di rotazione è individuato tradizionalmente nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), in particolare nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato. Peraltro, così come delineato dal richiamato art. 36, detto principio costituisce per gli appalti di lavori, servizi e forniture sotto soglia il necessario contrappeso alla significativa discrezionalità riconosciuta all’amministrazione nell’individuare gli operatori economici in favore dei quali disporre l’affidamento (nell’ipotesi di affidamento diretto) o ai quali rivolgere l’invito a presentare le proprie offerte (nel caso di procedura negoziata), in considerazione dell’eccentricità di tali modalità di selezione dei contraenti rispetto ai generali principi del favor partecipationis e della concorrenza. (…) detto principio non trova applicazione ove la stazione appaltante non effettui né un affidamento (diretto) né un invito (selettivo) degli operatori economici che possono presentare le loro offerte, ma la possibilità di contrarre con l’amministrazione sia aperta a tutti gli operatori economici appartenenti ad una determinata categoria merceologica”. Nella specie la stazione appaltante ha invitato tutti i soggetti che avevano manifestato il loro interesse, senza esclusioni o vincoli in ordine al numero massimo di operatori ammessi alla procedura. Gli operatori economici erano unicamente tenuti ad effettuare l’accesso e l’iscrizione alla piattaforma telematica Sintel, che non prevedono alcuna istruttoria o a selezione da parte dell’amministrazione. Ha ancora ricordato la sentenza che un eventuale precedente affidamento non ha carattere assolutamente preclusivo rispetto alla partecipazione dei precedenti affidatari alla procedura, se la procedura è aperta, ovvero se, in caso di diversa procedura, la stazione appaltante motiva le ragioni dell’invio anche a costoro. In questa seconda ipotesi l’obbligo di motivazione che incombe sulla stazione appaltante concerne il fatto oggettivo del precedente affidamento impedisce alla stazione appaltante di invitare il gestore uscente, salvo che essa dia adeguata motivazione delle ragioni che hanno indotto, in deroga al principio generale di rotazione, a rivolgere l'invito anche all'operatore uscente  e non già la partecipazione del precedente gestore ad una procedura aperta, bensì l’invito del medesimo ad una procedura ristretta (Cons. St., sez. V, 30 marzo 2020, n. 2182).
Contratti della Pubblica amministrazione
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Interesse ad agire in sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente su aree di proprietà del ricorrente
N. 01011/2020REG.PROV.COLL. N. 04033/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 4033 del 2019, proposto dai signori Pietro Corona, Carlo Tirone, Maria Antonia Schiappapietra, Giacomo Siri, Stefania Scarone, Giampietro Sirello, Enrico Milano, Francesco Gambetta, Mariangela Vallarino, Wilma Parodi e Loredana Baldo, rappresentati e difesi dall'avvocato Daniele Granara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Regione Liguria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Marina Crovetto e Gabriele Pafundi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; il Comune di Albisola Superiore, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio; nei confronti la società Il Garofano s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giovanni Gerbi e Giovan Candido Di Gioia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, sede di Genova, Sezione prima, n. 974 del 17 dicembre 2018, resa tra le parti, concernente gli atti di programmazione urbanistica relativi alla realizzazione di un parco ludico sportivo nel Comune di Albissola Superiore. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Liguria e della società Il Garofano s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 dicembre 2019 il consigliere Nicola D'Angelo e uditi, per gli appellanti, l’avvocato Daniele Granara, per la Regione Liguria, l’avvocato Gabriele Pafundi e, per la società intimata, l’avvocato Giovanni Gerbi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I signori Pietro Corona, Carlo Tirone, Maria Antonia Schiappapietra, Giacomo Siri, Stefania Scarone, Giampietro Sirello, Enrico Milano, Francesco Gambetta, Mariangela Vallarino, Wilma Parodi e Loredana Baldo, tutti residenti nel Comune di Albisola Superiore, hanno proposto un ricorso al Tar per la Liguria, sede di Genova, contro gli atti di programmazione urbanistica finalizzati alla realizzazione di un “parco ludico-sportivo” in una zona del territorio comunale assoggettata a vincolo paesaggistico. 2. I ricorrenti hanno, in particolare, impugnato la deliberazione della Giunta regionale della Liguria n. 747 del 20 settembre 2017 con la quale sono stati approvati una variante al P.U.C. del Comune di Albissola Superiore (relativa all’introduzione di un nuovo ambito di riqualificazione) e la collegata variante al P.T.C.P. (di modifica del regime normativo dell’area interessata dalla realizzazione del parco ludico sportivo). 3. Le varianti contestate sono state approvate dalla Regione Liguria in esito ad una istanza presentata in data 18 maggio 2012 dalla società Il Garofano s.r.l. per la realizzazione di un Piano urbanistico operativo (P.U.O.) relativo ad un’area di sua proprietà di oltre 200.000 mq. In particolare, nel Piano è stata prevista la sistemazione della stessa, con l’apporto e movimentazione di terre e rocce da scavo provenienti dalle opere del cosiddetto “terzo valico ferroviario”, e la successiva realizzazione di un parco per strutture sportive e di servizio, con parcheggi ed interventi sulla viabilità di collegamento e su un corso d’acqua. 4. Con motivi aggiunti i ricorrenti hanno poi impugnato anche il provvedimento del Comune di Albissola Superiore di approvazione del P.U.O., emesso all’esito della conferenza di servizi convocata dallo stesso Comune ed a seguito della favorevole conclusione della procedura di V.A.S. 6. Nel ricorso introduttivo del giudizio e nei motivi aggiunti hanno sostanzialmente prospettato l’illegittimità della realizzazione del progetto sotto il profilo urbanistico ed ambientale (lo stesso, a loro avviso, inciderebbe negativamente sui valori ambientali di una zona coperta da bosco e comporterebbe pregiudizi per la salute della popolazione, a causa del previsto conferimento di rocce e terre da scavo). 6. Il Tar per la Liguria, con la sentenza indicata in epigrafe, ha dichiarato il gravame nel suo complesso inammissibile, rilevando come i ricorrenti avessero dimostrato solo la propria qualità di residenti nel Comune di Albissola Superiore senza tuttavia provare il concreto interesse a ricorrere. 7. Contro la predetta sentenza hanno quindi proposto appello sulla base dei seguenti motivi di gravame. 7.1. Erroneità della sentenza per contraddittorietà e travisamento in ordine alla mancata individuazione della sussistenza dell’interesse a ricorrere. 7.1.1. Il Tar avrebbe erroneamente rilevato un difetto di interesse ad agire dei ricorrenti i quali “hanno solo dimostrato la propria qualità di residenti, ma non la proprietà di immobili nel Comune di Albisola Superiore, essi hanno anche omesso di indicare, nonostante le specifiche eccezioni sollevate dalle controparti, il rapporto spaziale tra le loro unità immobiliari e l’area oggetto degli atti impugnati, nonché, soprattutto, i pregiudizi concreti eventualmente cagionati ai beni in questione”. 7.1.2. Secondo gli appellanti, è invece incontestato che gli stessi siano tutti residenti e proprietari di immobili siti nel comune di Albisola Superiore (circostanza contraddittoriamente rilevata anche nella sentenza laddove si afferma che gli immobili non si trovano all’interno del P.U.O., ma posizionati dal confine dello stesso da un minimo di circa 2 Km ad un massimo di circa 3,5 Km). 7.1.3. Di conseguenza, evidenziano come nel caso di specie sussisterebbe il requisito della c.d. vicinitas che giustificherebbe ampiamente l’interesse a ricorrere (in sostanza, avrebbero una posizione qualificata derivante dallo stabile collegamento con la limitrofa area interessata dal P.U.O., nonché dall’interesse a prevenire un pregiudizio degli interessi ambientali, ecologici e paesaggistici conseguente all’intervento programmato). 7.2. I ricorrenti ripropongono poi i motivi di censura contenuti nel ricorso originario e nei motivi aggiunti (non esaminati dal Tar in conseguenza della predetta dichiarazione di inammissibilità) che di seguito sinteticamente si riportano. 7.2.1. Innanzitutto, nel giudizio di primo grado i ricorrenti hanno prospettano l’illegittimità della delibera di Giunta regionale del 20 settembre 2017, n. 747 in quanto avrebbe determinato l’approvazione di una variante al P.T.C.P. della Liguria ed al P.U.C. del Comune di Albisola Superiore per un’area (quella interessata dal P.U.O.) valliva, sita a nord del Comune di Albisola Superiore presso il confine con il Comune di Stella, interamente coperta di boschi (macchia mediterranea), poco antropizzata, e caratterizzata dalla presenza di due rii (Ispina e Balto), dal rilevante e riconosciuto pregio ambientale e paesistico. Per tale ragione, l’area interessata dal P.U.O. risultava classificata dal P.C.P.T. come zona ANI-MA (Aree Non Insediate – Regime Normativo di Mantenimento) e sottoposta al regime di cui all’art. 52 N.T.A., con l’obiettivo di mantenere sostanzialmente inalterati i caratteri che definiscono e qualificano la funzione della zona in rapporto al contesto paesistico. La delibera impugnata avrebbe invece riclassificato le aree interessate come ANI-TR-AI, trasformando aree non insediate (ANI), da un regime di mantenimento (MA), ad un regime di trasformabilità (TR), senza prima passare ad un regime di modificabilità (MO). 7.2.2. Gli atti impugnati in primo grado e con i motivi aggiunti, sarebbero poi illegittimi anche per non aver considerato i vincoli paesistici che interessano l’area oggetto del P.U.O. 7.2.3. Le gravata variante al P.T.C.P. della Liguria e i conseguenti atti di approvazione del P.U.O. sarebbero inoltre illegittimi per l’irrazionalità e l’incoerenza della scelta pianificatoria operata, in contrapposizione alle peculiari caratteristiche dei luoghi ed agli obbiettivi pianificatori indicati dalla stessa Amministrazione. 7.2.4. I provvedimenti impugnati sarebbero anche illegittimi in quanto aventi ad oggetto l’approvazione di un P.U.O., al quale è sottesa una variante al P.U.C. del Comune di Albisola Superiore inficiata da assoluta irrazionalità, contraddittorietà ed illogicità. 7.2.5. Gli interventi di trasformazione del territorio programmati sarebbero in ogni caso impattanti e critici a livello ambientale anche in ragione dell’utilizzo di materiale di scavo proveniente dai lavori della c.d. variante di valico e della trasformazione geologica, geomorfologica ed idrogeologica dell’area (questi ultimi aspetti sarebbero stati demandati a successiva verifica in sede di V.A.S.). 7.2.6. I provvedimenti impugnati, secondo i ricorrenti, sarebbero comunque caratterizzati da una grave carenza istruttoria e motivazionale, per non aver l’Amministrazione svolto una autonoma istruttoria relativamente alla compatibilità ambientale delle terre e rocce da scavo provenienti dal terzo valico (l’Amministrazione si sarebbe limitata a recepire acriticamente una relazione del COCIV) 7.2.7. Gli atti impugnati, infine, consentirebbero nell’area interessata dal P.U.O., la modifica dell’alveo di un corso d’acqua (Rio Ispina), in palese difetto di presupposti e di motivazione. 8. La società Il Garofano s..r.l. si è costituita in giudizio il 4 maggio 2019, chiedendo il rigetto dell’appello. La stessa società ha anche ribadito le eccezioni di inammissibilità del ricorso di primo grado ed in particolare quella connessa alla carenza di interesse dei ricorrenti conseguente alla mancanza di una lesione concreta delle loro posizioni giuridiche. 9. La Regione Liguria si è costituita in giudizio il 23 maggio 2019, chiedendo anch’essa il rigetto dell’appello. 10. Successivamente due appellanti, la signora Stefania Scarone e il signor Pietro Corona, hanno depositato in giudizio (il 20 giugno 2019) una dichiarazione di rinuncia al ricorso. 11. Nella camera di consiglio del 6 giugno 2019 l’esame dell’incidente cautelare è stato rinviato, su concorde richiesta delel parti, all’udienza pubblica di discussione del merito della causa. 12. Per ultimo, la società Il Garofano e i rimanenti appellanti hanno depositato delle memorie di replica il 21 novembre 2019. Nella sua memoria di replica la società intimata ha anche evidenziato l’irritualità del deposito dei titoli di proprietà dei ricorrenti nel presente grado di giudizio. 13. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 12 dicembre 2019 nel corso della quale le parti appellanti non hanno chiesto l’esame dell’istanza cautelare. 14. Preliminarmente, il Collegio prende atto della rinuncia al presente appello da parte dei signori Stefania Scarone e Pietro Corona. Di conseguenza, relativamente alla loro posizione, dichiara estinto il ricorso ai sensi degli artt. 35, comma 2, lettera c), e 84, commi 1 e 3, c.p.a. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 1 febbraio 2017, n. 414) 15. Sempre in via preliminare, il Collegio ritiene irrilevante, nel particolare caso di specie, la questione prospettata dalla società Il Garofano in ordine all’irritualità del deposito nel grado di appello dei titoli proprietari dei ricorrenti. Anche considerando la proprietà in capo ai ricorrenti degli stessi immobili ubicati nel Comune di Albissola Superiore, l’appello è comunque infondato. 16. La controversia in esame ha per oggetto la delibera della Giunta regionale della Liguria n. 747 del 20 settembre 2017 con la quale sono stati approvati una variante al P.U.C. del Comune di Albissola Superiore ed una variante al P.T.C.P. della Liguria finalizzate all’approvazione di un P.U.O di iniziativa privata per la realizzazione di un parco ludico sportivo nel territorio del Comune di Albissola Superiore. 17. I ricorrenti, residenti e proprietari di immobili nello stesso Comune, hanno impugnato i suddetti atti di programmazione urbanistica sulla base di molteplici profili di censura. 18. Il Tar per la Liguria tuttavia ha ritenuto il ricorso inammissibile non avendo gli stessi dato prova della concreta lesione della loro posizione giuridica derivante dagli atti impugnati. 19. Con il primo mezzo di gravame i ricorrenti hanno innanzitutto contestato la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di primo grado, evidenziando che la loro posizione di proprietari di immobili nel Comune di Albissola Superiore in zone limitrofe al P.U.O. integrerebbe il requisito della c.d. vicinitas che giustifica di per se solo l’interesse a ricorrere. Tale interesse deriverebbe dunque dallo stabile collegamento con l’area di cui è causa, nonché dalla concreta necessità di tutelarsi rispetto al pregiudizio ambientale, sanitario e paesaggistico conseguente all’intervento programmato. 20. La tesi degli appellanti non può essere condivisa. 21. In primo luogo, va rilevato che risulta incontestato da parte degli stessi ricorrenti che gli immobili di loro proprietà non sono collocati all’interno o nell’immediatezza del confine del P.U.O., ma a distanze variabili tra i 2 e i 3,5 Km (cfr. pag. 5 del ricorso in appello dove si afferma: “delle due l’una: o i ricorrenti non hanno dimostrato – come invero non è e si contesta che lo sia - la proprietà degli immobili limitrofi all’area oggetto del P.U.O. gravato, oppure detti “immobili dei ricorrenti” – pertanto di proprietà degli stessi - sono siti ad una distanza compresa tra 2 e 3 km circa dall’area de qua. Tertium non datur”). 21.1. Ciò significa che la vicinitas invocata dagli appellanti, peraltro nel caso di specie non caratterizzata da una immediata contiguità delle aree interessate, non sembra da sola giustificare la proposizione del ricorso. 21.2. La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato. 21.3. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278). Nella fattispecie in esame tuttavia una simile prova non viene fornita. 21.4. L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. Stato: Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo Sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707). 21.5. D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti. 21.6. La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15 dicembre 2017, n. 5908). 21.7. Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico. 21.8. In quest’ultima ipotesi, come ha correttamente rilevato il Tar, l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674). 21.9. Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione. 22. Quanto ai paventati danni ambientali e alla salute, gli stessi non sono stati provati in modo concreto ed attuale, ma solo in via di ipotesi attraverso il ricorso a congetture, cosicché anche per tale profilo non può sostenersi la sussistenza dell’interesse a ricorrere. 22.1. In materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30 settembre 2005, n. 5205). 23. La conferma delle conclusioni della sentenza impugnata rende superfluo l’esame degli ulteriori motivi di appello. 24. Per le ragioni sopra esposte l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata. 25. Per gli appellanti signori Stefania Scarone e Pietro Corona l’appello va invece dichiarato estinto ai sensi dell’art. 35, comma 2, lettera c), c.p.a. 26. Le spese di giudizio, attesa la novità della questione in fatto ad esso sottesa, possono essere compensate tra tutte le parti ex artt. 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c. 27. Tutti i ricorrenti in appello sono da considerarsi soccombenti ai fini del pagamento del contributo unificato. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: a) dichiara estinto il giudizio di appello con riferimento ai ricorrenti Stefania Scarone e Pietro Corona; b) respinge l’appello proposto dai restanti ricorrenti; c) conferma l’impugnata sentenza; d) compensa tra tutte le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere, Estensore Silvia Martino, Consigliere Giuseppa Carluccio, Consigliere Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere, Estensore Silvia Martino, Consigliere Giuseppa Carluccio, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Interesse a ricorrere – Edilizia – Titoli edilizi - Vicinitas – Limiti.            In sede di impugnazione di strumenti urbanistici che non incidono direttamente  su aree di proprietà della parte ricorrente è sempre necessario scrutinare la sussistenza dell’interesse ad agire, sub specie di lesione attuale e concreta o ragionevolmente certa, alla salute, all’ambiente, al valore dei terreni ecc.  (1).   (1) In termini Cons. St., sez. IV, 7 febbraio 2020, n. 962.   Ha chiarito la Sezione che la vicinitas non sempre da sola giustifica la proposizione del ricorso in materia di edilizia e urbanistica. La vicinitas, cioè lo stabile collegamento con la zona interessata dall’intervento, può certamente ritenersi fondamento della legittimazione ad agire purché sia accompagnata anche dalla presenza di una lesione concreta ed attuale della posizione soggettiva di chi impugna il provvedimento. In altri termini, lo stabile collegamento con l’area interessata dall’intervento edilizio non è sufficiente a comprovare anche l’interesse a ricorrere che è invece derivante da un concreto pregiudizio per l’interessato. La giurisprudenza ha chiarito a più riprese che la vicinitas non rappresenta un dato decisivo per riconoscere l’interesse ad agire (che nel giudizio di legittimità davanti al giudice amministrativo si identifica con l’interesse ad impugnare), nel senso che di per sé non è sufficiente, dovendosi dimostrare che l’intervento costruttivo contestato abbia capacità di propagarsi sino a incidere negativamente sul fondo del ricorrente (Cons. St., sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278). L’idea che la nozione di vicinitas, oltre a identificare una posizione qualificata idonea a rappresentare la legittimazione a impugnare il provvedimento urbanistico o edilizio, avrebbe assorbito anche l'interesse a ricorrere è stata infatti superata dall’indirizzo secondo cui, ai fini dell'ammissibilità del ricorso, deve essere concretamente indagato e accertato anche l'interesse ad agire. Questo indirizzo valorizza ragioni di coerenza con i principî generali sulle condizioni per l'azione nel processo amministrativo, nel cui novero rientrano distintamente, oltre alla legitimatio ad causam, il c.d. titolo (o legittimazione al ricorso) e l’interesse ad agire (cfr. Cons. St., Ad. plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente, sez. IV, 19 novembre 2015, n. 5278 citata; per ultimo sez. IV, 5 febbraio 2018, n. 707). D’altra parte, se la distinzione fra i due indirizzi appena richiamati può non risultare sempre percepibile con evidenza (soprattutto in tema di distanze o per ragioni di salubrità), va considerato che nella odierna vicenda contenziosa non si rileva come gli atti di pianificazione ed attuazione contestati potessero incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica dei ricorrenti. La sussistenza della mera vicinitas non costituisce elemento sufficiente a comprovare contestualmente la legittimazione e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione, in relazione alla configurazione dell’interesse ad agire, di un danno (certo o altamente probabile) che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (Cons. St., sez. V, 15 dicembre 2017, n. 5908). Peraltro, l’apprezzamento della presenza dell’interesse al ricorso si declina diversamente a seconda che la controversia sia relativa all’impugnazione di un titolo edilizio (ad esempio, in materia di distanze o per gli insediamenti commerciali), alla localizzazione di un’opera pubblica o, come nel caso in esame, ad uno strumento urbanistico. In quest’ultima ipotesi l’impugnazione degli strumenti urbanistici, generali e attuativi, è ammissibile nel caso in cui la parte ricorrente si dolga di prescrizioni che riguardano direttamente i beni di proprietà ovvero comportino un significativo decremento del valore di mercato o dell’utilità dei suoi immobili (Cons. St., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5674). Con la conseguenza che, nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti è ancor più necessaria l’allegazione di prove in ordine ai concreti pregiudizi subiti, che comunque non possono risolversi nel generico danno all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione. Ha aggiunto la Sezione che in materia di tutela contro i danni all'ambiente, l’interesse ad agire può essere riconosciuto solo se gli stessi sono debitamente evidenziati in ricorso. Se, infatti, la tutela ambientale può svilupparsi anche mediante l’impugnativa degli atti aventi finalità urbanistica, non si può al contempo eludere la necessità che siano proposte censure sorrette da una specifica istanza di protezione degli interessi ambientali, da realizzare attraverso l'annullamento, totale o parziale, dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 30 settembre 2005, n. 5205).
Processo amministrativo
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Indennità di trasferta per i magistrati ordinari in servizio presso l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione
N. 01896/2020REG.PROV.COLL. N. 02821/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 2821 del 2019, proposto da Aldo Ceniccola, Francesco Cortesi, Giovanni Fanticini, Giuseppe Fichera, Andrea Penta, Renato Perinu, Raffaele Rossi, Salvatore Leuzzi e Salvatore Saija, rappresentati e difesi dagli avvocati Franco Gaetano Scoca e Antonio Senatore, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello, n. 55; contro Ministero della Giustizia, in persona del Ministro in carica, e CSM - Consiglio Superiore della Magistratura, in persona del rispettivi legali rappresentanti in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sezione Prima, n. 11178/2018, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del CSM - Consiglio Superiore della Magistratura; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2019 il Cons. Federico Di Matteo e uditi per le parti gli avvocati Franco Gaetano Scoca, Antonio Senatore e l’avvocato dello Stato Pasquale Pucciariello; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. I dottori Aldo Ceniccola, Francesco Cortesi, Giovanni Fanticini, Giuseppe Fichera, Andrea Penta, Renato Perinu, Raffaele Rossi, Salvatore Leuzzi e Salvatore Saija, magistrati ordinari in servizio, in qualità di vincitori di concorso, presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione, con provvedimento del 3 aprile 2015 del Primo Presidente della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 74 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito in l. 9 agosto 2013, n. 98, sono stati applicati alle Sezioni civili della Corte con funzioni di “assistente di studio”. Hanno perciò chiesto con nota del 13 maggio 2015 il riconoscimento dell’indennità di trasferta prevista dall’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 per i magistrati “che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura Generale” nel caso di residenza fuori dal distretto della Corte d’appello di Roma. Il Ministero della Giustizia con nota 1°ottobre 2015 n. 464/M ha respinto la domanda. 2. Gli interessati hanno impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio detto diniego, chiedendone l’annullamento e instando anche per l’accertamento del diritto a percepire quella indennità di trasferta. A sostegno della pretesa hanno sostenuto le funzioni – di “assistenti di studio” – essere del tutto assimilabili alle “funzioni di legittimità” svolte dai consiglieri di ruolo della Corte di Cassazione ai quali l’indennità di trasferta è riconosciuta; in via subordinata hanno dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 79, l. n. 350 del 2013 per violazione dell’art. 3 Cost. per l’irragionevole disparità di trattamento economico che essa determinerebbe tra soggetti che si trovano a svolgere funzioni sostanzialmente uguali (quali i magistrati che esercitano funzioni di legittimità e assistenti di studio), ledendo così anche l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura (riconosciuta anche con riferimento ai meccanismi che consentono di adeguare la retribuzione alle condizioni lavorative). 3. Hanno resistito al ricorso il Ministero della Giustizia e il CSM che ne hanno chiesto il rigetto. 4. Nel frattempo con decreto del Primo Presidente della Corte di Cassazione del 24 febbraio 2017, n. 463, gli stessi magistrati sono stati applicati alle Sezioni civili e penali della Corte ai sensi dell’art 115 R.d. 30 gennaio 1941, n. 12, Ordinamento giudiziario come riformulato dall’art. 1, comma 1, del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197. Anche la loro nuova richiesta (in data 28 febbraio 2017) di riconoscimento dell’indennità di trasferta di cui all’art. 3, comma 79, della l. n. 350 del 2013 è stata respinta dal Ministero della Giustizia con nota 14 luglio 2017 n. 14390, con cui è stato ribadito che quell’indennità è prevista solo a favore dei consiglieri di Cassazione che esercitano stabilmente le funzioni di legittimità e non già per un tempo limitato e in forza di provvedimenti di applicazione giustificati da contingenti esigenze di servizio; ciò senza contare che mancherebbe la copertura finanziaria necessaria per estendere il beneficio economico a loro favore. 5. Tale nuovo diniego è stato impugnato dagli interessati con motivi aggiunti, con cui è stata sostanzialmente estesa la domanda proposta con il ricorso originario all’accertamento del loro diritto a percepire l’indennità di trasferta anche in relazione al periodo di applicazione alle Sezioni civili e penali della Corte, previo annullamento del provvedimento di diniego: in sintesi essi hanno ribadito che, con l’applicazione alle Sezioni civili e penali, ancor più che in precedenza, l’attività da loro svolta è assimilabile alle ordinarie funzioni di legittimità, contestando che il diniego al riconoscimento dell’indennità di trasferta possa fondarsi sulla temporaneità delle funzioni giurisdizionali da loro esercitate, temporaneità che introdurrebbe un inammissibile e artificioso criterio di distinzione, costituzionalmente illegittimo, tra magistrati che svolgono identiche funzioni. 6. L’adito tribunale con la sentenza segnata in epigrafe ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti, ritenendo infondate le censure sollevate. 7. Gli interessati propongono appello, reiterando sostanzialmente i motivi di censura sollevati in primo grado. Hanno resistito il Ministero della Giustizia ed il CSM. 8. All’esito della camera di consiglio fissata per la decisione sull’istanza cautelare di sospensione degli effetti della sentenza impugnata, con ordinanza 17 maggio 2019, n. 2425, è stato chiesto al Segretario generale della Corte di Cassazione il deposito di documentazione ritenuta necessaria per la decisione. L’incombente istruttorio è stato effettivamente adempiuto; anche gli appellanti hanno prodotto ulteriore documentazione a supporto delle proprie domande giudiziali. Gli appellanti hanno ulteriormente illustrato le proprie tesi difensive con apposita memoria difensiva ex art. 73, comma 1, Cod. proc. amm.. 9. All’udienza pubblica del 5 dicembre 2019 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 10. Il tribunale ha negato che gli appellanti abbiano diritto di percepire l’indennità di trasferta di cui all’art. 3, comma 79, della l. n. 350 del 2003 sia per l’attività di “assistenti di studio”, sia per il periodo di applicazione alle Sezioni civili e penali della Corte. 10.1. Quanto al primo profilo, ha osservato che l’attività di “assistente di studio” non è assimilabile alla funzione giurisdizionale espletata dai magistrati della Corte di Cassazione, giusta la chiara indicazione dell’art. 115, comma 2, dell’Ordinamento giudiziario, secondo cui “I magistrati con compiti di assistenti di studio possono assistere alle camere di consiglio della sezione della Corte cui sono destinati, senza possibilità di prendere parte alle deliberazione o di esprimere il voto sulla decisione”. Tale norma infatti impedisce agli assistenti di studio anche solo di intervenire nella discussione in camera di consiglio per evitare qualsiasi condizionamento dei giudicanti; il che è confermato dalla delibera del Plenum del CSM 4 dicembre 2013 ove è richiesto loro di contribuire alla redazione della sentenza attraverso “relazioni preliminari”, contenenti solo la descrizione del fatto e lo svolgimento del processo, l’illustrazione dei motivi di ricorso, le eventuali questioni rilevabili d’ufficio e la giurisprudenza pertinente alla decisione, le relazione preliminari destinate non al consigliere relatore, ma all’intero collegio giudicante. Tale conclusione è ulteriormente confermata dalla scelta legislativa che solo con la riforma del 2016 ha previsto la possibilità di affidare loro funzioni giurisdizionali. 10.2. Secondo il Tribunale, neppure l’esercizio di funzioni giurisdizionali in qualità di magistrati applicati alle Sezioni civili e penali della Corte è utile al riconoscimento dell’indennità di trasferta di cui si discute, in quanto l’art. 3, comma 79, della l. n. 350 del 2003 sottintende un concetto di “funzioni di legittimità” formale e sostanziale, caratterizzato non solo dallo ius dicere (ossia dalla partecipazione ai collegi giudicanti con il compito di contribuire alla decisione della controversia e redigere i provvedimenti, criterio sostanziale), ma anche dal fatto che esse siano svolte dai soli magistrati già formalmente nominati consiglieri di Cassazione (conformemente all’art. 10, comma 6, d.lgs. n. 160 del 2006 per il quale “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di Cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”, criterio formale). 10.3. Ad avviso del tribunale non sono fondati infine i dubbi di illegittimità costituzionale prospettati dagli interessati, in quanto la scelta legislativa – di riconoscere l’indennità di trasferta ai soli magistrati esercitanti funzioni di legittimità – è giustificata dalla volontà di valorizzare lo status di quei magistrati che, avendo già superato diverse valutazioni di professionalità, sono stati riconosciuti idonei e capaci ad esercitare le funzioni giurisdizionali più delicate e complesse considerata la funzione nomofilattica svolta dalla Corte di Cassazione; tale status non è rinvenibile nei magistrati applicati alle Sezioni, per i quali quell’applicazione, limitata temporalmente (non più di tre anni) e funzionalmente (essendo esclusa l’applicazione alla Procura generale) è da considerare una “sorta di tirocinio”, utile ad acquisire la professionalità, ma non a conseguire la nomina, tant’è che i medesimi magistrati non sono esonerati dalla partecipazione al concorso diretto alla nomina a consigliere di Cassazione o sostituto procuratore della Corte di Cassazione. 10.4. L’appello è articolato in quattro motivi, rubricati rispettivamente “Error in iudicando. Violazione dell’art. 3, comma 79, della legge 350/2003” (primo motivo); “Error in iudicando. Violazione dei principi di uguaglianza ex art. 3 della cost., del principio di proporzionalità della retribuzione ex art. 36 della cost., dei principi di autonomia ed indipendenza della magistratura ex artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, cost., funzionali al giusto processo di cui all’art. 24, 101 e 111 della cost.” (secondo motivo); “Error in iudicando. Violazione dell’art. 3, comma 79 della legge n. 350/2003 e s.m.i. e dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 168 del 31 agosto 2016” (terzo motivo); “Error in iudicando. Violazione dei principi di uguaglianza ex art. 3 della cost., del principio di proporzionalità della retribuzione ex art. 36 della cost., dei principi di autonomia ed indipendenza della magistratura ex artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, cost., funzionali al giusto processo di cui all’art. 24, 101 e 111 della cost” (quarto motivo). In sintesi gli appellanti ribadiscono l’illegittimità degli impugnati dinieghi e chiedono di accertare che le funzioni svolte, dapprima come “assistenti di studio” e successivamente come “magistrati applicati alle Sezioni civili e penali della Corte di Cassazione”, coincidono con le “effettive funzioni di legittimità” svolte presso la Corte di Cassazione, ai fini della corresponsione dell’indennità di cui all’art. 3, comma 79, della l. n. 305 del 2003; in caso di deliberazione negativa, chiedono che sia rimessa al giudice delle leggi lo scrutinio di legittimità costituzionale della citata disposizione che ai fini del riconoscimento del beneficio economico di cui si tratta opera una irragionevole distinzione fra magistrati a seconda che facciano parte stabilmente o meno dell’organico della Corte di Cassazione. 11. Al riguardo la Sezione osserva quanto segue. 11.1. L’art. 79, comma 3, l. 24 dicembre 2003, n. 350, prevede, nell’attuale formulazione risultante dalla modifica apportata dalla l. 28 dicembre 2015, n. 208, che “Ai magistrati che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di cassazione e la relativa Procura generale, nonché a quelli in servizio presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, a quelli in servizio presso le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e presso le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti centrale e la relativa Procura generale compete l'indennità di trasferta per venti giorni al mese, escluso il periodo feriale, ove residenti fuori dal distretto della corte d'appello di Roma.”. Ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di trasferta sono pertanto richieste due condizioni, vale a dire: a) l’esercizio “effettivo delle funzioni di legittimità” presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura generale; b) la residenza fuori del distretto della Corte d’appello di Roma. 11.2. Mentre il requisito sub) non pone particolari problemi interpretativi, risolvendosi in un fatto, oggettivamente rilevabile, quanto per definire il requisito sub a) (cioè l’esercizio effettivo di funzioni di legittimità presso la Cassazione e la relativa Procura generale) occorre riferirsi alle previsioni dell’art. 65, comma 1, del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, e dell’art. 10, comma 6, del d. lgs. 5 aprile 2006, n. 160. Il primo stabilisce che “La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”; il secondo dichiara che “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”). Dal coacervo di tali disposizioni si ricava che le “funzioni di legittimità” sono quelle svolte dai magistrati presso la Corte di Cassazione, che si compendiano nella specifica attività rivolta a garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, a regolare “i conflitti di competenza e di attribuzione” e ad adempiere tutti gli altri compiti attribuiti dalla legge all’ufficio giudiziario della Corte di Cassazione. L’effettività di tali funzioni ne implica il concreto svolgimento e che non ricorra una causa di temporanea sospensione dal loro esercizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210). 11.3. Così ricostruito il quadro sistematico – normativo di riferimento agli appellanti non spetta l’indennità di trasferta per l’attività svolta di “assistenti di studio”, in quanto non rientrante nell’esercizio delle funzioni di legittimità, né assimilabile a queste. 11.3.1. Come correttamente rilevato dal tribunale, l’attività svolta dai magistrati in servizio presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione come “assistenti di studio”, come emerge dalla previsione dall’art. 115, comma 2, dell’Ordinamento giudiziario, si sostanzia nella possibilità di “…assistere alle camere di consiglio della sezione della Corte cui sono destinati, senza possibilità di prendere parte alla deliberazione o di esprimere il voto sulla decisione” ed ancora, come previsto dalla delibera del CSM 4 dicembre 2013 (“Criteri per la destinazione dei magistrati addetti all’ufficio del massimario e del ruolo alle Sezione della Corte di Cassazione con compiti di assistente di studio, in attuazione di quanto previsto dall’art. 74 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98)”, di “redigere, sulla base delle istruzioni del presidente e del consigliere relatore, relazioni preliminari contenenti una sintesi dei motivi di ricorso e dei precedenti giurisprudenziali rilevanti, nonché l’indicazione di eventuali questioni rilevabili d’ufficio e, ove occorra, elementi essenziali sullo svolgimento del processo”. Essi dunque non compongono il collegio chiamato a decidere la controversia e non possono partecipare in alcun modo alla formazione della volontà della decisione, limitandosi piuttosto a svolgere un’attività (sia pur di particolare rilevanza) preparatoria e preliminare alla decisione giudiziale in senso stretto ed alla quale non prendono parte: essi pertanto non svolgono alcuna attività di jus dicere. L’attività di “assistenza di studio” così descritta costituisce piena attuazione dei compiti propri dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione che, come avviene mediante la redazione delle “massime”, sono d’ausilio e supporto all’esercizio della funzione giurisdizionale: non vale a farla qualificare diversamente o addirittura a mutarne la natura giuridica il mero fatto che essa sia svolta direttamente presso - e a servizio di - una specifica sezione giudicante della Corte di Cassazione . 11.3.2. Non conduce a conclusioni diverse la circostanza evidenziata dagli appellanti di non essersi limitati, nel periodo di svolgimento dell’attività di “assistenti di studio”, a redigere le relazioni preliminari con il contenuto indicato dalla delibera del CSM, ma di aver anche predisposto veri e propri “schemi di sentenze”, che, deliberati ed approvati dal collegio giudicante, sono divenuti, poi, il testo ufficiale e definitivo della sentenza (circostanza ulteriormente comprovata dal fatto, attestato da apposita produzione documentale, che tali sentenze siano state accompagnate dalla dicitura “redatta con la collaborazione dell’assistente di studio”, che darebbe conto dell’effettivo svolgimento della funzione propria del magistrato giudicante e quindi di quella di legittimità). Sul punto è sufficiente osservare che lo “schema di sentenza” è solo una modalità, alternativa alla “relazione preliminare”, che dà conto dell’attività di studio e approfondimento della causa. Il fatto che il contenuto della bozza sia più o meno integralmente trasfuso nel testo della sentenza non qualifica il redattore come un decisore: il trasferimento del contenuto della bozza nella sentenza non è l’effetto di una mera attività formale e materiale, ma implica un momento volitivo - la decisione - alla quale il redattore della bozza è assolutamente estraneo non solo in punto di fatto, ma anche dal punto di vista giuridico perché egli non fa (e non può far) parte del collegio giudicante. Insomma è solo l’approvazione del collegio che trasforma lo “schema di sentenza” in “sentenza”, ovvero l’attività preparatoria in attività decisoria; per di più quell’approvazione è l’in sé della funzione di ius dicere e ad essa non è immediatamente riferibile l’attività preliminare e preparatoria dell’assistente di studio. 11.3.3. Le considerazioni svolte sulla non assimilabilità dell’attività svolta dagli assistenti di studio alla funzione giurisdizionale di legittimità esclude in radice ogni dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 79, comma 3, della legge n. 305 del 2003: la diversità delle funzioni svolte dai magistrati che esercitano funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione rispetto a quelle svolte dagli assistenti di studio rende non irragionevole il riconoscimento solo ai primi dell’indennità di trasferta prevista. 11.3.4. I primi due motivi di gravame devono essere pertanto respinti. 12. Le stesse ragioni che conducono a negare agli appellanti la spettanza dell’indennità di trasferta di cui al più volte citato art. 3, comma 79, della l. n. 350 del 2003 per l’attività svolta quali assistenti di studio impongono tuttavia di riconoscerne il diritto per il periodo di applicazione alle Sezioni civili e penali della Corte di cassazione, in relazione al quale non può postularsi il non esercizio delle “funzioni di legittimità”. 12.1. Depone innanzitutto in tal senso la specifica previsione del terzo comma dell’art. 115 dell’Ordinamento giudiziario (inserito dall’art. 1, comma 1, del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197) secondo cui “Il primo presidente della Corte di cassazione, al fine di assicurare la celere definizione dei procedimenti pendenti, tenuto conto delle esigenze dell'ufficio del massimario e del ruolo e secondo i criteri previsti dalle tabelle di organizzazione, può applicare temporaneamente, per un periodo non superiore a tre anni e non rinnovabile, i magistrati addetti all'ufficio del massimario e del ruolo con anzianità di servizio nel predetto ufficio non inferiore a due anni, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, alle sezioni della Corte per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità.”. Oltre ad essere precisa ed inequivocabile la cesura con il contenuto del secondo comma 2 del medesimo art. 115, dove per l’attività degli “assistenti di studio” è espressamente esclusa la partecipazione alla deliberazione del collegio e l’espressione del voto in camera di consiglio, è espressamente stabilito che i magistrati applicati sono chiamati a svolgere “funzioni giurisdizionali di legittimità”. Peraltro lo svolgimento di queste ultime costituisce la stessa ratio della norma finalizzata “…alla celere definizione dei procedimenti pendenti”, assicurando al supremo ufficio giudiziario una dotazione organica aggiuntiva nel rispetto della necessaria competenza e professionalità dei magistrati così applicati (possono infatti essere applicati i magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo che abbiano almeno due anni di anzianità di servizio in quell’ufficio e abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità) Dalla documentazione versata in atti è emerso che gli appellanti, applicati alle Sezioni civili e penali per provvedimento del Primo Presidente della Corte di cassazione (decreto 14/2017), sono stati effettivamente inseriti quali componenti pleno iure nei collegi d’udienza dai Presidenti delle sezioni, così che essi sono stati considerati a tutti gli effetti componenti del collegio sin dalla fase di predisposizione dei collegi decidenti, hanno partecipato all’udienza ed alla camera di consiglio ed hanno redatto le sentenze. 12.2. Non può pertanto essere condivisa la diversa ricostruzione operata dal tribunale, secondo cui il periodo di applicazione dei magistrati presso le Sezioni civili e penali sarebbe una “sorta di tirocinio” finalizzato ad acquisire la professionalità del consigliere di cassazione, da conseguire poi in ogni caso solo con la partecipazione al relativo concorso. Come accennato in precedenza, lo scopo della previsione di cui al terzo comma dell’art. 115 dell’Ordinamento giudiziario, come modificato dall’art. 1, comma 2, del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in legge 25 ottobre 2016, n. 197, non è quello di creare un percorso speciale e privilegiato per la formazione di magistrati che dovranno poi svolgere funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione, quanto quello di incrementare il numero dei magistrati delle Sezioni civili e penali della Corte per una “celere definizioni dei procedimenti pendenti”: si tratta pertanto di una misura organizzativa la cui effettività e ragionevolezza impone che i magistrati applicati svolgano effettivamente le funzioni di legittimità. Né a smentire tali conclusioni può opporsi la temporaneità dell’applicazione, che non può essere superiore a tre anni e non è rinnovabile: infatti proprio la temporaneità dell’applicazione non incide né sull’effettività delle funzioni svolte, né sulla natura delle stesse (funzioni di legittimità); per altro essa esclude che la misura organizzativa de qua sia volta a formare una speciale distinta categoria di magistrati destinati ad esercitare in futuro stabilmente le funzioni giurisdizionali di legittimità, avendo essa al contrario lo scopo di fronteggiare adeguatamente l’ingente carico dei processi pendenti. 12.3.Neppure è condivisibile la tesi secondo cui l’impossibilità di riconoscere la spettanza dell’indennità di trasferta anche ai magistrati applicati alle Sezioni civili e penali della Corte deriverebbe dal vincolo imposto dall’art. 81, comma 3, Cost., laddove prevede che “Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”, e di conseguenza dalla mancata previsione ed autorizzazione alla relativa (attualmente consentita solo per i magistrati inseriti stabilmente nell’organico della Corte di cassazione). E’ sufficiente osservare che l’esistenza di un diritto non può essere condizionato all’esistenza della copertura economica della spesa che esso comporta, né la copertura di spesa prevista può essere concepita come limite al riconoscimento del diritto, dovendo al riguardo aggiungersi che lo stesso legislatore ha previsto all’art. 17 (Copertura finanziaria delle leggi), comma 13, della l. 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) che: “Il Ministro dell'economia e delle finanze, allorché riscontri che l'attuazione di leggi rechi pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, assume tempestivamente le conseguenti iniziative legislative al fine di assicurare il rispetto dell'articolo 81 della Costituzione. La medesima procedura è applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri, fermo restando quanto disposto in materia di personale dall'articolo 61 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”. 12.4. Il terzo motivo di appello deve essere pertanto accolto, con assorbimento del quarto. Per l’effetto agli appellanti deve essere riconosciuto agli appellanti il diritto alla corresponsione dell’indennità di trasferta ex art. 3, comma 79, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, per il periodo di applicazione alle sezioni civili e penali presso la Corte di Cassazione in misura proporzionale alla loro effettiva partecipazione ai collegi giudicanti; il Ministero della giustizia deve essere condannato alla pagamento delle relative somme, con interessi legali decorrenti dalle date di maturazione del credito, mentre non spetta la rivalutazione monetaria, stante la natura indennitaria e non retributiva dell’indennità in questione. 13. In conclusione, l’appello va accolto nei limiti indicati in motivazione e, per gli effetti, in parziale riforma della sentenza di primo grado devono essere accolti i motivi aggiunti proposti, con condanna del Ministero della giustizia al pagamento delle somme spettanti come indicato in motivazione 14. Le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio, in ragione della parziale fondatezza della pretesa, possono essere compensate per la metà e per il resto sono poste a carico del Ministero della Giustizia e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata accoglie i motivi aggiunti proposti in primo grado, riconoscendo il diritto dei ricorrenti a percepire l’indennità di trasferta di cui all’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 nei termini di cui in motivazione; condanna il Ministero della Giustizia al pagamento delle somme spettanti, secondo quanto indicato in motivazione. Compensa per metà le spese del doppio grado del giudizio, e per l’altra metà, le pone a carico del Ministero della Giustizia, liquidandole in complessive € 4.000,00 (quattromila), oltre spese ed accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Carlo Saltelli, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere Carlo Saltelli, Presidente Fabio Franconiero, Consigliere Federico Di Matteo, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere IL SEGRETARIO
Magistrati – Magistrati ordinari – In servizio presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione - Funzioni di “assistente di studio” - Indennità di trasferta - Non spetta.        I magistrati ordinari in servizio, in qualità di vincitori di concorso, presso l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione con funzioni di “assistente di studio” non hanno diritto all’indennità di trasferta, prevista dall’art. 3, comma 79, l. 24 dicembre 2003, n. 350 per i magistrati “che esercitano effettive funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura Generale” nel caso di residenza fuori dal distretto della Corte d’appello di Roma (1).   1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 79, comma 3, l. 24 dicembre 2003, n. 350, prevede, ai fini del riconoscimento del diritto a percepire l’indennità di trasferta, due condizioni, e cioè: a) l’esercizio “effettivo delle funzioni di legittimità” presso la Corte di Cassazione e la relativa Procura generale; b) la residenza fuori del distretto della Corte d’appello di Roma. Per definire il requisito sub a) (cioè l’esercizio effettivo di funzioni di legittimità presso la Cassazione e la relativa Procura generale) occorre riferirsi alle previsioni dell’art. 65, comma 1, r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 e dell’art. 10, comma 6, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160. Il primo stabilisce che “La Corte Suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzione ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge”; il secondo dichiara che “Le funzioni giudicanti di legittimità sono quelle di consigliere presso la Corte di cassazione; le funzioni requirenti di legittimità sono quelle di sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione”). Dal coacervo di tali disposizioni si ricava che le “funzioni di legittimità” sono quelle svolte dai magistrati presso la Corte di Cassazione, che si compendiano nella specifica attività rivolta a garantire “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, a regolare “i conflitti di competenza e di attribuzione” e ad adempiere tutti gli altri compiti attribuiti dalla legge all’ufficio giudiziario della Corte di Cassazione. L’effettività di tali funzioni ne implica il concreto svolgimento e che non ricorra una causa di temporanea sospensione dal loro esercizio (Cons. Stato, sez. IV, 7 dicembre 2006, n. 7210).  Gli “assistenti di studio” non compongono il collegio chiamato a decidere la controversia e non possono partecipare in alcun modo alla formazione della volontà della decisione, limitandosi piuttosto a svolgere un’attività (sia pur di particolare rilevanza) preparatoria e preliminare alla decisione giudiziale in senso stretto ed alla quale non prendono parte: essi pertanto non svolgono alcuna attività di jus dicere. L’attività di “assistenza di studio” costituisce piena attuazione dei compiti propri dei magistrati addetti all’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di Cassazione che, come avviene mediante la redazione delle “massime”, sono d’ausilio e supporto all’esercizio della funzione giurisdizionale: non vale a farla qualificare diversamente o addirittura a mutarne la natura giuridica il mero fatto che essa sia svolta direttamente presso - e a servizio di - una specifica sezione giudicante della Corte di Cassazione. Non conduce a conclusioni diverse la circostanza che detti assistenti, nel periodo di svolgimento dell’attività, non si limitino a redigere le relazioni preliminari con il contenuto indicato dalla delibera del CSM, ma di aver anche predisposto veri e propri “schemi di sentenze”, che, deliberati ed approvati dal collegio giudicante, sono divenuti, poi, il testo ufficiale e definitivo della sentenza (circostanza ulteriormente comprovata dal fatto, attestato da apposita produzione documentale, che tali sentenze siano state accompagnate dalla dicitura“redatta con la collaborazione dell’assistente di studio”, che darebbe conto dell’effettivo svolgimento della funzione propria del magistrato giudicante e quindi di quella di legittimità). Sul punto è sufficiente osservare che lo “schema di sentenza” è solo una modalità, alternativa alla “relazione preliminare”, che dà conto dell’attività di studio e approfondimento della causa. Il fatto che il contenuto della bozza sia più o meno integralmente trasfuso nel testo della sentenza non qualifica il redattore come un decisore: il trasferimento del contenuto della bozza nella sentenza non è l’effetto di una mera attività formale e materiale, ma implica un momento volitivo - la decisione - alla quale il redattore della bozza è assolutamente estraneo non solo in punto di fatto, ma anche dal punto di vista giuridico perché egli non fa (e non può far) parte del collegio giudicante. Insomma è solo l’approvazione del collegio che trasforma lo “schema di sentenza” in “sentenza”, ovvero l’attività preparatoria in attività decisoria; per di più quell’approvazione è l’in sé della funzione di ius dicere e ad essa non è immediatamente riferibile l’attività preliminare e preparatoria dell’assistente di studio.
Magistrati
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Rilevanza del contenuto della procura speciale alle liti
N. 00437/2019 REG.PROV.COLL. N. 00354/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 354 del 2019, proposto da Nurc S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Carmine Petteruti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Centrale Unica di Committenza Comuni di Campomarino Guglionesi e Termoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Massimo Flocco;Comune di Campomarino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Massimo Romano, Antonella Morganella, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Etica S.p.A. non costituita in giudizio; per l'annullamento 1) della comunicazione prot. n. 59407/2019 del 02 ottobre 2019 di esclusione della società Nurc s.r.l. dalla procedura di gara per l'affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia; 2) del verbale n. 3 del 01 ottobre 2019 della Commissione di gara per l’affidamento del “Servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia, compreso i relativi impianti di sollevamento”; 3) della nota del 11 settembre 2019 prot. n. 54505 del Presidente della Commissione per l’affidamento del “Servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia, compreso i relativi impianti di sollevamento”; 4) del Bando di gara mediante procedura aperta per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia, compreso i relativi impianti di sollevamento CUP E75G19000030004 CIG 78677375F6 indetta con determinazione del Responsabile del Lavori Pubblici del Comune di Campomarino n. 201 dell’11 novembre 2019; 5) del Disciplinare di gara mediante procedura aperta per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia, compreso i relativi impianti di sollevamento CUP E75G19000030004 CIG 78677375F6 indetta con determinazione del Responsabile del Lavori Pubblici del Comune di Campomarino n. 201 dell’11 novembre 2019; 6) della determinazione del Responsabile del Lavori Pubblici del Comune di Campomarino n. 201 dell’11 novembre 2019 con la quale è stata indetta la gara per l’affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia, compreso i relativi impianti di sollevamento; 7) di ogni atto connesso, conseguente e presupposto agli atti impugnati; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Campomarino; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2019 il dott. Silvio Giancaspro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Nurc s.r.l. ha partecipato alla procedura di gara indetta dalla Centrale Unica di Committenza dei Comuni di Campomarino, Guglionesi e Termoli per l'affidamento del servizio di gestione e manutenzione degli impianti di depurazione di Campomarino e Nuova Cliternia. All’esito della apertura delle buste contenenti la documentazione amministrativa, la Commissione di gara ha ritenuto che la documentazione presentata dalla società fosse carente sotto due distinti profili, e segnatamente per l’omessa riproduzione su apposito supporto informatico, nonché in ragione della presentazione di referenze bancarie non idonee ai fini dell’attestazione della capacità economica dell’impresa nei termini indicati dalla lex specialis. A fronte dell’accertamento delle predette irregolarità la Commissione di gara, nell’esercizio dei poteri di soccorso istruttorio, ha invitato la società a sanare la propria posizione (nota in data 11.09.2019). Da parte sua Nurc s.r.l. ha provveduto a produrre un cd-rom con la copia in digitale della documentazione amministrativa, ma non ha esibito ulteriori referenze bancarie, sicché la Commissione di gara ne ha disposto l’esclusione dalla procedura concorsuale (verbale di gara n. 3 del 01.10.2019, comunicato con nota pec del 02.10.2019). 2. Con l’odierno ricorso Nurc s.r.l. ha impugnato il provvedimento di esclusione, nonché i presupposti atti di gara, articolando due distinte censure con cui, per un verso, ha lamentato l’erroneità del giudizio espresso dalla Commissione di gara in ordine alla difformità delle referenze bancarie rispetto a quanto richiesto dalla lex specialis (primo motivo), e per altro verso ha contestato l’illegittimità del bando nella parte relativa alla individuazione dei requisiti di partecipazione e dei criteri di attribuzione dei punteggi (secondo motivo). 3. Si sono costituiti in giudizio la Centrale Unica di Committenza ed il Comune di Campomarino, che ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per mancanza della procura speciale in capo al difensore, nonché la tardività dell’impugnazione del verbale di gara recante l’esclusione della società, ed ha chiesto comunque il rigetto delle domande. 4. Nella camera di consiglio del 4.12.2019, previo avviso alle parti, la causa è stata trattenuta in decisione, sussistendo i presupposti per la sentenza in forma semplificata. 5. L’eccezione di irricevibilità del ricorso è infondata. 5.1. Invero, la ricorrente ha tempestivamente notificato il ricorso in data 2.11.2019, nel rispetto del termine decadenziale di giorni trenta dalla ricezione della nota pec del 2.10.2019, recante la comunicazione del provvedimento di esclusione. 5.2. Né rileva il fatto che nella seduta di gara del 01.10.2019, in cui è stata disposta l’esclusione, fosse presente un “delegato” della società. Sul punto, questo TAR ritiene di condividere e fare proprio l’orientamento giurisprudenziale secondo cui: “la mera presenza di un rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto … non comporta ex se la piena conoscenza dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione qualora il rappresentante stesso non sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società concorrente” (Consiglio di Stato, Sez. III, 11/07/2016 n. 3026). Nel concreto caso di specie l’amministrazione comunale ha depositato il verbale di gara n. 3/1.10.2019, che riferisce genericamente della presenza di un delegato della società, ma non ha prodotto in giudizio l’atto che disciplina i rapporti inter partes, ciò che non consente di accertare in questa sede che al detto delegato fossero stati attribuiti effettivi poteri di rappresentanza nei confronti dei terzi, tali da giustificare l’imputazione in campo alla società degli effetti prodottisi in sede di gara, anche ai fini della prova della effettiva conoscenza dell’esclusione. Né in tal senso possono essere desunti elementi di prova dal comportamento tenuto dal delegato, atteso che questi non ha assunto alcuna iniziativa nel corso della seduta di gara. In mancanza della prova oggettiva e circostanziata della conoscenza dell’esclusione sin dalla seduta di gara del 01.10.2019, e conseguentemente della tardività del ricorso, l’eccezione di irricevibilità non può essere accolta: “La prova della tardività dell'impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce, secondo i generali criteri di riparto del relativo onere e deve essere assistita da rigorosi ed univoci riscontri oggettivi, dai quali possa arguirsi con assoluta certezza il momento della piena conoscenza dell'atto o del fatto” (Consiglio di Stato, Sez. V, 28/10/2019 n. 7389). 6. E’ invece fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto della procura speciale. 6.1. L’art. 40 c.p.a. stabilisce che il ricorso deve contenere necessariamente l’indicazione “della procura speciale” attribuita al difensore. Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza ha precisato che “deve indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento utile alla individuazione della controversia” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 05/10/2018 n. 5723). Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia della sottoscrizione da parte del difensore, e che  la procura “si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”. A sua volta l’art. 8 del DPCM 16.02.2016 n. 40, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma digitale. 2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'articolo 22, comma 2, del CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un distinto documento sottoscritto con firma digitale. 3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. 4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di tutte le procure”. 6.2. Nella fattispecie in esame, parte ricorrente ha depositato la procura alle liti con il modello di deposito del ricorso. La procura è stata redatta su supporto cartaceo e successivamente asseverata dal difensore, sicché, sotto il profilo delle modalità tecnico-operative del relativo conferimento, la stessa procura risulta conforme alle prescrizioni ritraibili dall’art. 83 c.p.c. e dall’art. 8, co. 2, del DPCM 16.02.2016: “può essere redatta in formato cartaceo, come consentito dall'art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, e rilevando soltanto, ai fini della regolarità, che, al momento del deposito, da effettuare in formato digitale, il difensore compia l'asseverazione dell'art. 22, comma 2, d.lgs. n. 82 del 2005” (Consiglio di Stato, Sez. V, 24/11/2017 n. 5490). 6.3. Lo stesso non può dirsi in merito al contenuto della procura, che è priva degli elementi di specialità richiesti dall’art. 40 c.p.a. 6.3.1. Invero, la procura in questione è assolutamente carente, essendo stata formulata in termini generici, senza alcun riferimento all'oggetto del ricorso, alle parti ed dell'autorità davanti alla quale deve essere incardinato il giudizio (in tal senso TAR Molise, 27.03.2017 n. 110). 6.3.2. Né alle predette carenze può sopperire il fatto che, ai sensi dell’art. 8, co. 3 lett. b), del DPCM 16.02.2016 n. 40, trattandosi di procura rilasciata su foglio separato, da cui è estratta copia informatica depositata unitamente al ricorso, la stessa si considera apposita “in calce all’atto cui si riferisce”. Ed infatti, se pure è vero che la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che “il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione è, per sua natura, speciale” (Cassazione civile, Sez. II, 17/03/2017 n. 7014), è però parimenti vero che la stessa giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la predetta presunzione di specialità è da imputare alla “posizione topografica della procura” che “è idonea a dar luogo alla presunzione di riferibilità della procura stessa al giudizio cui l'atto accede” (Cass, civ., Sez. lav., 03/07/2009 n. 15692), sicché viene meno nel caso in cui la procura presenti contenuti “incompatibili con il ricorso” (Cass. civ., Sez. I, 16.12.2004 n. 23381). Nel caso di specie, la procura allegata dalla ricorrente riporta la firma digitale del difensore con data 1.11.2019, sicché è certo che la stessa sia stata rilasciata in data antecedente alla predisposizione del ricorso che riporta la data del 2.11.2019, e quindi nella ignoranza del relativo contenuto. Ora, a prescindere dai diversi orientamenti espressi nel tempo dalla giurisprudenza in ordine al fatto se la procura speciale possa essere utilmente conferita in data anteriore a quella del ricorso (nega tale possibilità T.A.R. Cagliari, Sez. II, 05/08/2019 n. 697; la ammette invece T.A.R. Potenza, Sez. I, 10/07/2019, n. 578), ciò che in questa sede segnatamente rileva è che, trattandosi di una procura priva di qualsiasi riferimento alla volontà di proporre ricorso dinanzi al TAR Molise, l’indicazione nella procura di una data anteriore a quella del ricorso non consente, nel concreto caso di specie, di presumere la riferibilità dell’una all’altro nei termini indicati dalla Suprema Corte. 6.3.3. Peraltro la procura reca l’elezione di domicilio in Caserta, che evidentemente nulla ha a che vedere con l’ipotetica volontà di proporre ricorso dinanzi al TAR Molise. 6.3.4. In definitiva, all’esito del compiuto esame dei contenuti della procura, deve concludersi che la stessa è priva dei requisiti di specialità richiesti dall’art. 40 c.p.a., ciò da cui consegue l’inammissibilità del ricorso. 7. La natura formale della decisione giustifica la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Campobasso nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Silvio Ignazio Silvestri, Presidente Rita Luce, Primo Referendario Silvio Giancaspro, Referendario, Estensore Silvio Ignazio Silvestri, Presidente Rita Luce, Primo Referendario Silvio Giancaspro, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Procura alle liti -  Mancanza dei requisiti di specialità – Presunzione di riferibilità – Presupposti – Individuazione.            Ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, la procura alle liti si considera apposta in calce, e perciò dotata dei requisiti della specialità, quando è depositata con modalità telematiche, unitamente all’atto cui si riferisce; tuttavia, se la procura è priva in concreto degli elementi di specialità di cui all’art. 40 c.p.a. che consentano l’immediata riconducibilità all’oggetto del ricorso, la presunzione di riferibilità viene meno nel caso in cui sussista nella procura un elemento incompatibile con il ricorso; tale ipotesi si verifica quando la data della procura sia antecedente a quella della sottoscrizione del ricorso (1).   (1) Quanto al contenuto della procura speciale la giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 5 ottobre 2018, n. 5723) ha precisato che deve indicare l'oggetto del ricorso, delle parti contendenti, dell'autorità davanti alla quale il ricorso deve essere proposto ed ogni altro elemento utile alla individuazione della controversia. Le modalità di conferimento della procura sono disciplinate dall’art. 83 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., che prevede che la procura speciale possa essere apposta a margine o in calce al ricorso, con certificazione dell’autografia della sottoscrizione da parte del difensore, e che  la procura “si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all'atto cui si riferisce o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all'atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; fermo restando che se “la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica”.   A sua volta l’art. 8, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, stabilisce che “1. La procura alle liti è autenticata dal difensore, nei casi in cui è il medesimo a provvedervi, mediante apposizione della firma digitale. 2. Nei casi in cui la procura è conferita su supporto cartaceo, il difensore procede al deposito telematico della copia per immagine su supporto informatico, compiendo l'asseverazione prevista dall'art. 22, comma 2, del CAD con l'inserimento della relativa dichiarazione nel medesimo o in un distinto documento sottoscritto con firma digitale. 3. La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. 4. In caso di ricorso collettivo, ove le procure siano conferite su supporti cartacei, il difensore inserisce in un unico file copia per immagine di tutte le procure”.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/distributore-all-ingrosso-di-alimenti-di-origine-animale-e-sistema-di-informazioni-rese-agli-osa
Distributore all’ingrosso di alimenti di origine animale e sistema di informazioni rese agli OSA
N. 03028/2020REG.PROV.COLL. N. 07551/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7551 del 2019, proposto da Pac 2000 A Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fabio Brusa, Franco Stivanello Gussoni e Zosima Vecchio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Zosima Vecchio in Roma, via A. Regolo n. 12/D; contro Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. 00088/2019, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18/2020; Relatore nell'udienza del giorno 7 maggio 2020 il Cons. Ezio Fedullo; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO Con la sentenza appellata, il T.A.R. Calabria ha respinto il ricorso proposto dall’odierna appellante, cooperativa di dettaglianti aderente al Consorzio nazionale CONAD, avverso il verbale n. 196/2016 del 22 dicembre 2016, elevato da personale appartenente al Dipartimento di Prevenzione - UOC Igiene degli alimenti di origine animale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza all’esito della visita ispettiva avviata, in data 22 dicembre 2016, presso il proprio deposito all’ingrosso sito in Corigliano Calabro (CS), nella parte in cui prescrive di predisporre, nel termine di giorni 30 ed ai sensi dell’art. 6, comma 7, d.lvo n. 193/2007, “uno strumento di trasmissione all’OSA a cui tali alimenti vengono forniti, del dato relativo al lotto di produzione (fattura o altro appropriato sistema)” degli alimenti di origine animale. Invero, nell’ambito della suddetta ispezione, occasionata da una “allerta” concernente la presenza di cadmio in calamari al naturale prodotti dalla ditta Ger.Frio. di Striano (NA) di cui al lotto n. 156385, e, più precisamente, in occasione di un accesso presso due dei punti vendita indicati nella lista di distribuzione del prodotto oggetto dell’allerta consegnata dalla cooperativa PAC 2000, gli ispettori avevano rilevato che le fatture emesse dalla ditta PAC 2000, a fronte degli alimenti di origine animale distribuiti agli operatori del servizio alimentare (cd. OSA), riportavano tutte le informazioni all’uopo previste dal Reg. U.E. n. 931/2011, ad eccezione di quelle relative al lotto di produzione: da ciò la formulazione della prescrizione innanzi indicata, oggetto della domanda di annullamento proposta in primo grado. Il T.A.R. ha preliminarmente esaminato il motivo di ricorso inteso ad evidenziare che le pertinenti disposizioni normative di rango europeo (art. 18 Reg. CE n. 178/02 ed art. 3.1 lett. g Reg. CE 931/2011) attribuirebbero carattere meramente facoltativo, ai fini della predisposizione di un adeguato sistema di tracciabilità dei prodotti alimentari di origine animale, al riferimento di identificazione del lotto o della partita, rimettendo la valutazione circa la necessità di tale indicazione alla discrezionalità dell’operatore del settore alimentare, laddove nella specie la prescrizione impugnata, intesa a richiedere la suddetta indicazione all’interno della fattura accompagnatoria, sarebbe ultronea e contrastante pertanto con il principio della proporzionalità, in quanto il venditore al dettaglio che riceve la merce dalla grossista PAC sarebbe “già in grado di leggere il lotto direttamente sulla confezione del prodotto” su cui deve essere apposta, trattandosi di prodotti preconfezionati. Il T.A.R., nel respingere la censura, ha preliminarmente richiamato (nel quadro di una più estesa ricostruzione del quadro normativo, in particolare europeo, in tema di garanzia della rintracciabilità dei prodotti alimentari, in specie di origine animale) l’art. 3, comma 1, lett. g) del predetto Reg. n. 931/2011, rubricato “Requisiti di rintracciabilità”, ai sensi del quale “gli operatori del settore alimentare garantiscono che le seguenti informazioni concernenti le partite di alimenti di origine animale siano messe a disposizione dell’operatore del settore alimentare al quale gli alimenti vengono forniti e dell’autorità competente, se lo richiede: (…) un riferimento di identificazione del lotto o della partita, se necessario”. Il giudice di primo grado ha quindi rilevato che “l’apprezzamento in merito al carattere necessitato dell’identificazione del lotto ovvero della partita dell’alimento non può essere rimesso - per come pretenderebbe parte ricorrente - alla discrezionalità del singolo dell’operatore del settore alimentare. Ne conseguirebbe, infatti, una inaccettabile sovrapposizione tra il ruolo di chi detta le regole e quello di deve rispettarle, tra il ruolo di controllore e quello di controllato, con inevitabile frustrazione delle esigenze di rintracciabilità dei prodotti alimentari che permeano la normativa di riferimento”, laddove la flessibilità caratterizzante l’attuazione del suddetto adempimento informativo potrebbe esclusivamente riguardare “le modalità di esternazione delle informazioni medesime”. Il T.A.R. ha aggiunto che “le prescrizioni tese a garantire la rintracciabilità degli alimenti di cui all’art. 18 del Reg. UE n. 178/2002, secondo l’approccio “una fase prima-una fase dopo”, ineriscono a tutti gli step della produzione, trasformazione e distribuzione dell’alimento, con esplicita esclusione di quella relativa all’immissione del prodotto sul mercato” e che, secondo questo approccio, “gli operatori del settore alimentare devono disporre di un sistema che consenta loro di individuare i loro fornitori e clienti diretti, fuorché nel caso dei consumatori finali” (così considerando n. 5 del Reg. n. 931/2001)”, con la conseguenza che “i cd. OSA (operatori del settore alimentare) devono predisporre un sistema di tracciamento che sia adeguato alle tipiche e consuete modalità di svolgimento dei rapporti commerciali intercorrenti tra produttori e distributori, con esclusione dei consumatori finali”, mentre “la circostanza che sulla confezione del prodotto alimentare di origine animale sia possibile leggere il numero identificativo del lotto di produzione, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non soddisfa l’esigenza di garantire l’immediata identificazione del prodotto medesimo nella filiera produzione-distribuzione, onde consentirne la tracciabilità”, atteso che “tale dato è destinato agli OSA e non anche al consumatore finale”, non essendo “pensabile che il singolo operatore, una volta arrivata una certa partita di merce, si metta a controllare, una ad una, le singole “confezioni”, onde verificarne la provenienza e, quindi, in caso di allerte o origini sospette, attivare i rimedi all’uopo previsti dalla normativa vigente”. A riprova di ciò, il T.A.R. ha evidenziato che la Direttiva UE n. 2011/91, invocata dalla parte ricorrente, è “destinata ad operare esclusivamente nei rapporti con il consumatore, laddove è infatti previsto che l’indicazione della partita della merce venga apposta proprio sulla confezione, posta a diretta ed immediata disponibilità del fruitore finale”. Mediante i motivi di appello, la parte appellante ribadisce, da un lato, che, secondo l’impostazione dei Reg. UE n. 178/2200 e 931/2011, è responsabilità primaria degli operatori del settore alimentare di garantire che nelle imprese da essi controllate gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, anche attraverso la realizzazione di un sistema di rintracciabilità atto a soddisfare le esigenze del controllo ufficiale, ed evidenzia, dall’altro lato, che l’art. 3, comma, lett. g) Reg. n. 931/2011 configura in termini di mera facoltà l’indicazione del lotto (come si evince dall’inciso “se necessario”): da ciò la parte appellante desume l’erroneità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado, spettando all’OSA (e non all’Autorità di controllo) decidere se una prescrizione è necessaria e, di conseguenza, quali misure adottare per la sua attuazione. Tale valutazione, prosegue la parte appellante, deve essere operata tenendo conto delle circostanze concrete, tra le quali l’anello della catena in cui opera l’OSA: nella specie, invero, PAC 2000 A interviene nella fase immediatamente precedente la cessione dell’alimento al rivenditore al dettaglio, il quale, ai sensi dell’art. 8, comma 3, Reg. n. 1169/2011, ha l’obbligo di astenersi dal fornire alimenti di cui conoscono o dovrebbero conoscere, in base alle informazioni in loro possesso quali professionisti, la non conformità alla normativa in materia di informazioni sugli alimenti. Inoltre, deduce la parte appellante, l’informazione relativa al lotto è in realtà destinata a tutti gli attori della catena e non solo al consumatore finale, atteso che l’art. 17 d.lvo n. 231/174 (che ha recepito la Direttiva 2011/91) ha previsto l’obbligatorietà dell’indicazione del lotto direttamente sull’etichetta per tutti i prodotti preconfezionati, ammettendo, per i soli prodotti venduti sfusi, la possibilità di indicazione sui documenti commerciali. Tanto premesso, il motivo di appello in esame, nella sua complessiva articolazione, non è meritevole di accoglimento. Deve muoversi dalle ragioni che hanno generato la prescrizione della cui asserita illegittimità si duole la parte appellante, quali si evincono dal verbale impugnato in primo grado. Come si accennava, nell’ambito delle verifiche conseguenti al ricevimento di una “allerta” relativa alla distribuzione di un lotto di calamari al naturale prodotti dalla ditta Ger.Frio., facenti parte del lotto n. 156385, operate dai funzionari preposti della ASL appellata, i responsabili di due esercizi di vendita al dettaglio che, secondo la lista fornita dalla ditta fornitrice PAC 2000 A, odierna appellante, avevano ricevuto confezioni riconducibili al suddetto lotto, dichiaravano che le confezioni ricevute erano riconducibili a lotti diversi (156402 l’uno e 156398 l’altro). I funzionari procedevano quindi ad un controllo nei confronti della ditta appellante, inteso a verificare il livello di applicazione dei Regg. UE n. 178/2002 e n. 931/2011, con particolare riguardo alla efficacia del sistema di tracciabilità da essa adottato. Dal controllo eseguito, risultava che uno dei due clienti della fornitrice PAC 2000 A aveva venduto n. 50 confezioni del prodotto in questione, appartenenti al lotto di produzione oggetto dell’allerta, mentre l’altro aveva fatto riferimento ad un lotto, diverso da quello “incriminato”, che non risultava mai pervenuto alla fornitrice PAC 2000 A dal produttore Ger. Frio.. I funzionari constatavano altresì che le fatture emesse dalla PAC 2000 A non recavano l’indicazione del lotto di produzione, né questo dato veniva messo a disposizione del rivenditore al dettaglio attraverso “altro appropriato strumento”. Ne derivava la prescrizione, sulla quale si appuntano le doglianze attoree, di “predisporre uno strumento di trasmissione all’OSA a cui tali alimenti vengono forniti del dato relativo al lotto di produzione (fattura o altro appropriato sistema)”. Ebbene, ritiene la Sezione che dal complessivo corredo motivazionale del verbale impugnato si evincano, in misura sufficiente, le ragioni integranti la “necessità” di attivare lo strumento informativo allo stato carente nel sistema di tracciabilità adottato dalla parte appellante: necessità la cui sussistenza è prevista dall’art. 3, comma 1, lett. g) Reg. UE n. 931/2011 ai fini della inclusione della suddetta informazione nell’ambito di quelle che il fornitore deve rendere disponibili al soggetto che si collochi a “ valle” della catena distributiva, ed in ordine al cui mancato apprezzamento da parte del soggetto distributore “a monte”, ad avviso della parte appellante, né il provvedimento impugnato, né la sentenza appellata, recherebbero esaustive giustificazioni. Premesso che il carattere non necessario di quell’adempimento informativo discenderebbe, secondo le deduzioni attoree, dalla specifica responsabilità che le pertinenti previsioni, comunitarie e nazionali, imputerebbero all’operatore del settore alimentare che provvede alla distribuzione dei prodotti alimentari al consumatore finale in ordine al rispetto della legislazione comunitaria in tema di requisiti di sicurezza alimentare e di rispetto dei connessi obblighi informativi in ordine alla provenienza dei prodotti destinati al consumo umano, e che di questi ultimi costituirebbe parte integrante, la cui presenza costituirebbe appunto oggetto di doverosa verifica da parte dell’esercente l’attività di vendita al dettaglio, l’indicazione del lotto di produzione da apporre sui prodotti alimentari preconfezionati, devono opporsi, in senso contrario (e confermativo della bontà del ragionamento svolto dal giudice di primo grado), le seguenti considerazioni. In primo luogo, l’inefficienza del sistema di rintracciabilità applicato dalla parte appellante – e quindi, secondo la logica sottesa al Reg. UE n. 178/2002, la “necessità” di integrarlo attraverso lo strumento informativo in discorso – anche alla luce degli oneri di controllo che, secondo le deduzioni di parte appellante, fanno carico all’operatore “a valle”, emerge dalle stesse difficoltà di procedere alla ricostruzione a posteriori del percorso distributivo dei prodotti alimentari oggetto dell’”allerta”, da cui hanno preso le mosse le verifiche che hanno messo capo al verbale impugnato: difficoltà di cui quest’ultimo dà atto nelle relative premesse motivazionali. In secondo luogo, ma in correlazione col precedente rilievo, l’indicazione del lotto di produzione sui prodotti alimentari preconfezionati, quali quelli menzionati nel verbale impugnato, proprio perché ancorata a dati apposti sulle confezioni, non soddisfa le esigenze di una rintracciabilità ex post della catena distributiva, allorquando, cioè, i prodotti in questione abbiano già costituito oggetto di vendita ai consumatori: esigenza che emerge con prepotenza quando la necessità di procedere al controllo insorga allorché sia ragionevole presumere che il percorso di distribuzione/consumo si è già perfezionato (e quindi quei dati siano andati ormai dispersi). Inoltre, proprio perché il sistema di rintracciabilità si fonda sulla responsabilità di tutti i soggetti che partecipano ed attuano la sequenza distributiva, è evidente che, ai fini dell’efficace funzionamento dei meccanismi di controllo, ciascuno di essi deve osservare le prescrizioni inerenti al segmento di appartenenza, indipendentemente dall’osservanza che vi abbiano prestato, per quanto di loro competenza, gli altri: solo in tal modo, infatti, è possibile ovviare ad eventuali falle del sistema di rintracciabilità, facendo leva sul corretto adempimento da parte dell’operatore “a monte” (e viceversa) degli oneri informativi ad esso facenti capo, in ipotesi di inosservanza da parte dell’operatore “a valle” di quelli di cui ha la diretta responsabilità. Con ulteriore motivo di appello, la parte appellante deduce che il giudice di primo grado non si è pronunciato in ordine alla censura (corrispondente al terzo motivo di ricorso) con la quale, premesso che la prescrizione contestata si fonda sull’“art. 6 comma 7^ D.lgs 193/2007”, attuativo della Direttiva CE 41/2004 relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e di applicazione dei regolamenti comunitari del medesimo settore, a mente del quale “nel caso in cui l’autorità competente riscontri inadeguatezze nei requisiti e nelle procedure di cui ai commi 4, 5 e 6 fissa un congruo termine di tempo entro il quale tali inadeguatezze devono essere esaminate. Il mancato adempimento nei termini stabiliti è punito con la sanziona amministrativa pecuniaria da € 1.000 ad € 6.000”, si lamentava che il verbale impugnato non precisava a quale delle numerose ipotesi previste dai predetti commi 4, 5 e 6 si fosse inteso fare concreto riferimento: senza trascurare, aggiunge la parte appellante, che i citati commi si riferiscono ad ipotesi di inadeguatezza in materia di igiene e di alimenti, come disciplinata dai regolamenti CE nn. 852 e 853/2004, che qui non verrebbero però in rilievo, laddove l’unica ipotesi che presenta caratteri di pertinenza sarebbe costituita dall’inadeguatezza della procedura “in materia di informazioni sulla catena alimentare” (comma 6), la quale tuttavia attiene alle informazioni previste dal Reg. n. 853/2004 allegato II sezione III (“informazioni sulla catena alimentare”), che si riferisce ai soli operatori dei settori alimentari che “gestiscono i macelli”. Nemmeno tale motivo di appello – ed il sotteso motivo del ricorso introduttivo – è meritevole di accoglimento. Deve infatti osservarsi che la prescrizione censurata – recte, il potere di formularla ed imporla – trova idoneo fondamento legittimante nel disposto dell’art. 54 Reg. CE 882/2004, vigente ratione temporis, ai sensi del cui art. 54 (pure richiamato nel verbale impugnato): - “l’autorità competente che individui una non conformità interviene per assicurare che l’operatore ponga rimedio alla situazione. Nel decidere lazione da intraprendere, l'autorità competente tiene conto della natura della non conformità e dei dati precedenti relativi a detto operatore per quanto riguarda la non conformità” (comma 1); - “tale azione comprende, a seconda dei casi, le seguenti misure: a) l’imposizione di procedure di igienizzazione o di qualsiasi altra azione ritenuta necessaria per garantire la sicurezza del mangime e degli alimenti o la conformità alla normativa in materia di mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali” (comma 2, lett. a). Deve solo aggiungersi che la focalizzazione, nei termini esposti, della norma legittimante il potere di cui è espressione l’atto impugnato è contenuta anche nella sentenza appellata, senza che la parte appellante abbia ritenuto di porla ad oggetto di specifici motivi di appello. Parimenti infondato è l’ultimo motivo di appello, inteso a lamentare l’omissione di pronuncia da parte del T.A.R. in ordine al motivo di ricorso con il quale ci si doleva del fatto che il verbale impugnato non avesse concesso un congruo termine di tempo “per l’eliminazione delle inadeguatezze riscontrate”: deduceva infatti la parte ricorrente che l’Amministrazione aveva concesso un termine di appena 30 giorni, tralasciando di valutare la complessità delle procedura da adottare per porre rimedio all’asserita inadeguatezza, tenuto conto che sarebbe stato necessario apportare una rilevante modifica al software che gestisce l’attività degli oltre 140 punti di vendita, cui doveva far poi seguito un’adeguata base di riqualificazione del personale impiegato nella piattaforma di PAC 2000 A. Deve infatti osservarsi che le deduzioni della parte appellante, intese a sostenere la particolare gravosità dell’attività adeguatrice in rapporto al termine concesso dall’Amministrazione per ottemperare alla prescrizione censurata, non sono fornite di un adeguato supporto probatorio: peraltro, a fronte dell’esigenza di garantire un celere adeguamento del sistema di rintracciabilità, per la parte facente capo alla parte appellante, a tutela dell’interesse finale della sicurezza alimentare, non sussistono palesi ragioni per sostenere l’irragionevolezza del termine suindicato. A tanto deve aggiungersi che il verbale de quo non fissa in maniera rigida le modalità di uniformare il sistema di rintracciabilità alle prescrizioni sovraordinate, sì che, da un lato, la parte appellante, oltre a non specificare quale soluzione informativa abbia ritenuto di individuare, dall’altro lato, non dimostra l’impossibilità di ricorrere a metodiche informative diverse e di più semplice implementazione. L’appello in conclusione deve essere complessivamente respinto, mentre la mancata costituzione della parte appellata esime da ogni pronuncia in merito alle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio, svolta con modalità telematiche, del giorno 7 maggio 2020 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello, Consigliere Franco Frattini, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello, Consigliere IL SEGRETARIO
Alimenti - Distributore all’ingrosso - Alimenti di origine animale - Sistema di informazioni rese agli OSA - Strumento di trasmissione del dato relativo al lotto di appartenenza dei prodotti ceduti – legittimità.            E’ legittima, al fine di garantire la piena rintracciabilità “a valle” del processo distributivo dei prodotti alimentari di origine animale, la prescrizione formulata da parte dell’Autorità sanitaria nei confronti di un distributore all’ingrosso di prodotti alimentari di integrare il sistema di informazioni rese agli OSA (“operatori del settore alimentare”) con uno strumento di trasmissione del dato relativo al lotto di appartenenza dei prodotti ceduti (“fattura o altro appropriato sistema”), laddove la “necessità” dello stesso, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. g) Reg. UE n. 931/2011, sia motivata con riferimento alle inefficienze dimostrate dal sistema informativo in essere in occasione di una verifica finalizzata a ricostruire la catena distributiva di un lotto oggetto di “allerta” per la presenza di sostanze tossiche, né la “necessità” del prescritto mezzo informativo è smentita dalle indicazioni in ordine al lotto di appartenenza del prodotto obbligatoriamente recate dalle etichette applicate sulle singole confezioni, ex art. 17, d.lgs. n. 231 del 2017, in quanto, una volta che le stesse siano state cedute ai consumatori, resta preclusa, in mancanza del suddetto strumento informativo, ogni concreta possibilità di ricostruire a posteriori la filiera distributiva del lotto interessato (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’inefficienza del sistema di rintracciabilità applicato   – e quindi, secondo la logica sottesa al Reg. UE n. 178/2002, la “necessità” di integrarlo attraverso lo strumento informativo in discorso – anche alla luce degli oneri di controllo che, secondo le deduzioni di parte appellante, fanno carico all’operatore “a valle”, emerge dalle stesse difficoltà di procedere alla ricostruzione a posteriori del percorso distributivo dei prodotti alimentari oggetto dell’”allerta”, da cui hanno preso le mosse le verifiche che hanno messo capo al verbale impugnato: difficoltà di cui quest’ultimo dà atto nelle relative premesse motivazionali. In secondo luogo, ma in correlazione col precedente rilievo, l’indicazione del lotto di produzione sui prodotti alimentari preconfezionati, proprio perché ancorata a dati apposti sulle confezioni, non soddisfa le esigenze di una rintracciabilità ex post della catena distributiva, allorquando, cioè, i prodotti in questione abbiano già costituito oggetto di vendita ai consumatori: esigenza che emerge con prepotenza quando la necessità di procedere al controllo insorga allorché sia ragionevole presumere che il percorso di distribuzione/consumo si è già perfezionato (e quindi quei dati siano andati ormai dispersi). Inoltre, proprio perché il sistema di rintracciabilità si fonda sulla responsabilità di tutti i soggetti che partecipano ed attuano la sequenza distributiva, è evidente che, ai fini dell’efficace funzionamento dei meccanismi di controllo, ciascuno di essi deve osservare le prescrizioni inerenti al segmento di appartenenza, indipendentemente dall’osservanza che vi abbiano prestato, per quanto di loro competenza, gli altri: solo in tal modo, infatti, è possibile ovviare ad eventuali falle del sistema di rintracciabilità, facendo leva sul corretto adempimento da parte dell’operatore “a monte” (e viceversa) degli oneri informativi ad esso facenti capo, in ipotesi di inosservanza da parte dell’operatore “a valle” di quelli di cui ha la diretta responsabilità.
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https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/all-adunanza-plenaria-questioni-connesse-al-giudicato-civile-di-rigetto-della-domanda-di-risarcimento-del-danno-per-l-equivalente-del-valore-di-mercat
All’Adunanza plenaria questioni connesse al giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato
N. 06531/2020 REG.PROV.COLL. N. 07540/2019 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA sul ricorso numero di registro generale 7540 del 2019, proposto dai signori Francesca Loi, Giovanna Loi, Pierpaolo Loi, Rita Loi, Ignazio Loi, Valentina Loi, Giuseppe Loi, Peppino Loi, Emanuela Ludoni e Federica Ludoni, rappresentati e difesi dall'avvocato Mario Fois, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l’Azienda ospedaliera G. Brotzu, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Valeria Frongia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Paolo Bonaiuti in Roma, via Riccardo Grazioli Lante, n. 16; la Regione Autonoma Sardegna, in persona del Presidente in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandra Camba e Sonia Sau, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; l’Azienda per la tutela della salute - ATS, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Carlo Diana, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna (Sezione Seconda) n. 408/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, della Regione Autonoma Sardegna e dell’Azienda per la tutela della salute; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 luglio 2020 il Cons. Alessandro Verrico e uditi per le parti gli avvocati Mario Fois, Valeria Frongia, Carlo Diana e Alessandra Camba, i quali hanno chiesto il passaggio in decisione con tutti gli effetti di legge; 1. Con decreto del Presidente della Giunta Regionale della Sardegna n. 5/1199/249 del 18 luglio 1977, l’ente ospedaliero “Ospedali Riuniti” Cagliari veniva autorizzato ad occupare d’urgenza, tra gli altri, i terreni di proprietà della signora Maria Chiara Scano, siti in agro del Comune di Selargius distinti al foglio 42 mappale 607 di mq 280 e mappale 379 di mq 680, per la realizzazione del “Nuovo Ospedale Civile”, opera da considerarsi “di pubblica utilità e di urgente ed indifferibile esecuzione” (come da progetto in precedenza approvato con la deliberazione del Comitato tecnico regionale dei ll.pp. n. 449/11121 del 18 maggio 1977). 1.1. Al decreto di occupazione d’urgenza, tuttavia, non faceva seguito il provvedimento finale d’esproprio, pur in presenza dell’effettiva utilizzazione e della trasformazione delle aree, attestata dalla conclusione dei lavori in data 15 luglio 1981 con la realizzazione del complesso ospedaliero (cfr. certificato di ultimazione dei lavori del 24 luglio 1981, in atti), avvenuta pertanto entro il termine finale di occupazione delle aree del 1° settembre 1983. 1.2. In ragione di ciò, l’Azienda U.S.L. n. 21 di Cagliari, succeduta ex lege agli “Ospedali Riuniti”, approvava, con delibera dell’amministratore straordinario n. 1043 del 14 ottobre 1991, gli schemi di accordo bonario-cessione volontaria delle aree già occupate per la realizzazione dell’ospedale Brotzu. Ciò nonostante, la deliberazione, a causa delle riscontrate difficoltà di finanziamento, veniva in seguito annullata, con provvedimento dell’amministratore straordinario n. 1784 del 21 novembre 1991. 2. Con atto di citazione in data 29 aprile 1999, gli odierni appellanti, in qualità di eredi della signora Scano, adivano il Tribunale civile di Cagliari (R.G. 4345/1999), chiedendo: a) in via principale la condanna dell’Azienda sanitaria locale n. 8 (succeduta alla A.S.L. 21)-gestione liquidatoria, nonché dell’Azienda generale ospedaliera G. Brotzu, al pagamento delle somme indicate nell’atto di transazione per la cessione dei terreni in questione (approvato come rilevato dalla A.S.L. 21); b) in subordine, nell’ipotesi in cui non fosse riconosciuta efficacia vincolante ed opponibilità alla transazione, la condanna dei suddetti enti al pagamento della “somma corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati” ovvero (“in alternativa”) al “risarcimento del danno patito e patiendo”; c) in ogni caso, la condanna degli enti “alla corresponsione della indennità conseguente alla patita occupazione abusiva”. 2.1. Con la sentenza n. 2860, depositata in data 22 novembre 2006, il Tribunale civile di Cagliari ha respinto le domande (principale e subordinata), sulla base delle seguenti argomentazioni: a) il contratto di transazione non risulta perfezionato, atteso che le comunicazioni prodotte non contengono la manifestazione di volontà, né l’oggetto; b) “quanto alla domanda subordinata di risarcimento del danno per effetto dell’illecita occupazione del suolo da parte della P.A., deve trovare accoglimento l’eccezione di prescrizione tempestivamente sollevata dalla convenuta”, considerato che, non essendo configurabile nella fattispecie l’illecito permanente vista la preesistenza del decreto di occupazione d’urgenza (“il quale presuppone una valida dichiarazione di pubblica utilità”), “deve presumersi che si fosse realizzata la fattispecie della c.d. occupazione appropriativa”, con la conseguenza che il termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla scadenza del termine di occupazione, risultava ampiamente decorso al momento della notifica dell’atto di citazione. 2.2. La pronuncia, in assenza di impugnazioni, passava in giudicato. 3. Con ricorso, depositato il 3 settembre 2018, presso il T.a.r. Sardegna (R.G. n. 670/2018), gli odierni appellanti, in ragione dell’avvenuta occupazione e trasformazione dei terreni sine titulo per mancato completamento della relativa procedura ablatoria, chiedevano di: a) accertare l’illegittima occupazione dei terreni ‘di loro proprietà’ da parte dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, legittimata passiva, unitamente all'Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.) e alla Regione Sardegna; b) condannare l’Azienda ospedaliera G. Brotzu (attuale occupante) ovvero la Regione autonoma della Sardegna ovvero l'Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.), eventualmente anche in solido, al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino; c) condannare l’Azienda ospedaliera G. Brotzu ovvero la Regione autonoma della Sardegna ovvero l'Azienda per la tutela della salute Sardegna (A.T.S.), eventualmente anche in solido, al risarcimento, per equivalente, dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, a causa dell’indisponibilità dell’area dal momento dell’occupazione fino all’effettivo rilascio. 3.1. Il T.a.r., con la sentenza n. 408 del 13 maggio 2019, ha respinto il ricorso ed ha compensato le spese di giudizio tra le parti, ritenendo che: a) si può prescindere dalla individuazione del “legittimato passivo” in ordine alle pretese avanzate (restitutorie e risarcitorie), attesa l’infondatezza del ricorso nel merito, dovendo essere accolta l’eccezione di giudicato; b) i ricorrenti, nel giudizio civile, optando per la richiesta di risarcimento per equivalente, avevano sostanzialmente abdicato alla richiesta di restituzione del bene, concordando nel ritenere che l’opera realizzata (l’ospedale) aveva reso irreversibile il mutamento dei luoghi ed impediva, in concreto, la restituzione dei terreni (in totale 960 mq.); c) il giudice civile, con la sentenza di rigetto, applicando ‘l’istituto dell’accessione invertita’, aveva ritenuto integralmente prescritto il diritto al complessivo risarcimento del danno; d) i ricorrenti, con il ricorso all’esame, hanno ‘sostanzialmente’ riproposto le domande che sono state già oggetto della causa civile, definita con pronuncia passata in giudicato, che, pertanto, copre anche le pretese oggetto di questo giudizio. Il Tribunale amministrativo ha rilevato che la “decisione, passata in giudicato, rappresenta un elemento oggettivo e vincolante e costituisce un limite impeditivo alla riproposizione di pretese già valutate prescritte”, atteso che “la pretesa risarcitoria, nel suo complesso (sia valore del bene , che occupazione), è stata già oggetto del giudizio civile, definito con sentenza divenuta irrevocabile”, “in quanto la pretesa della parte ricorrente era già stata quantificata in termini di “corrispettivo”, rapportato al valore del bene. Tradotta, cioè, in obbligazione pecuniaria”. 4. La parte soccombente ha proposto appello (R.G. n. 7540/2019), per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente accoglimento integrale del ricorso originario. In particolare, gli appellanti, a mezzo dell’unica censura rubricata “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 del Codice Civile. Erroneità nei presupposti di fatto e normativi. Violazione e/o falsa applicazione di legge, T.U. delle Espropriazioni”, hanno evidenziato il discrimine tra la domanda proposta nel giudizio civile rispetto a quella in esame nel presente giudizio, sia per la causa petendi che per il petitum. Invero, a loro avviso: a) con riferimento alla domanda proposta nel giudizio civile, la causa petendi riguardava ‘l’accessione invertita’ conseguente all’occupazione ed il petitum consisteva nel risarcimento dei danni per equivalente in conseguenza della perdita della proprietà; b) nella domanda svolta nel presente giudizio amministrativo, la causa petendi è costituita dalla illegittima occupazione permanente ed il petitum è rappresentato dalla domanda restitutoria, previa declaratoria dell’illegittima occupazione (utilizzazione) del bene, e dalla corresponsione ai ricorrenti dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, con rivalutazione ed interessi legali. Nella sostanza, secondo gli appellanti, mentre all’epoca della proposizione della domanda avanti il giudice civile i ricorrenti - per la prassi nazionale ed il diritto vivente costituito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione - potevano chiedere non la restituzione del bene, ma unicamente il risarcimento del danno per equivalente, attualmente, per effetto del mutato quadro normativo e giurisprudenziale, essi potrebbero finalmente proporre, con il presente giudizio, la domanda di restituzione del bene, che nulla avrebbe a che vedere – attesa la diversità di petitum e di causa petendi - con quella risarcitoria proposta in sede civile. 4.1. Si è costituita in giudizio l’Azienda ospedaliera G. Brotzu, la quale, depositando memoria difensiva: a) ha in via preliminare eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, non potendo su di essa ascriversi alcuna responsabilità in ordine alla mancata conclusione della procedura di espropriazione, sulla base di quanto disposto dall’art. 66, l. n. 833/1978, con cui sono stati trasferiti in capo ai singoli Comuni tutti i rapporti giuridici relativi alle attività svolte dai soppressi enti ospedalieri, e dalla l.r. n. 13/1981 (“Individuazione, costituzione ed organizzazione delle Unità sanitarie locali, in attuazione della legge 23 dicembre 1978, n. 833”); b) ha rinnovato l’eccezione di giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria avanzata dagli appellanti, già proposta davanti al Tribunale civile di Cagliari e dallo stesso respinta con sentenza n. 2860/2006; c) nel merito, si è opposta all’appello e ne ha chiesto l’integrale rigetto, deducendo che entrambe le forme di tutela, costituite dal risarcimento in forma specifica e dal risarcimento per equivalente, postulerebbero l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, rappresentando mere modalità alternative di attuazione della medesima obbligazione. Le due domande risulterebbero pertanto sovrapponibili, al punto che il risarcimento per equivalente – in base ai principi generali - sarebbe già “implicito” nella richiesta di risarcimento in forma specifica e che rientrerebbe nei poteri discrezionali del giudice attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anziché in forma specifica, domandato dall'attore. L’appellata, infine, ha riproposto l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento, in conseguenza del decorso del termine quinquennale. 4.2. Si è altresì costituita in giudizio l’Azienda per la tutela della salute (A.T.S.), la quale, depositando memoria: a) ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, sostenendo che dell’operato dei disciolti enti ospedalieri rispondono, quali successori universali ai sensi dell’art. 66 l. n. 833/1978, i Comuni nei cui territori insistono le aree illegittimamente occupate e quindi, nella fattispecie, il Comune di Selargius; ad ogni modo, anche nel caso in cui le ragioni di credito prospettate dagli appellanti fossero ritenute causalmente riconducibili alla condotta della cessata U.S.L. n. 21 di Cagliari, quale ente del quale faceva parte l’ospedale Brotzu, conseguirebbe comunque, quale corollario, la declaratoria di difetto di legittimazione passiva della A.T.S., che non risponde delle obbligazioni contratte dalle cessate U.S.L. e comunque dei loro debiti; b) ha dedotto che la fattispecie sarebbe coperta dal giudicato formatosi sulla sentenza n. 2860/2006 del Tribunale civile di Cagliari, considerato che presso entrambe le giurisdizioni è stata richiesta la condanna delle Amministrazioni intimate al pagamento di una somma corrispondente al valore venale del bene oltre ai maggiori danni, con la conseguenza che la domanda risarcitoria sarebbe stata sempre formulata in termini di controvalore pecuniario delle aree; c) ha eccepito la prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, in ragione dell’ininterrotto decorso del relativo termine quinquennale, quanto meno di carattere parziale, ossia riferita a tutto il periodo antecedente alla data del 3 settembre 2013 (considerato che il ricorso introduttivo era notificato in data 3 settembre 2018); d) ha evidenziato che, ad ogni modo, la condotta illecita sarebbe ascrivibile al solo Comune di Selargius, poiché il disciolto ente ospedaliero avrebbe realizzato l’opera pubblica entro il termine di efficacia previsto dall’ordinanza di occupazione delle aree. 4.3. Si è infine costituita in giudizio la Regione Sardegna, la quale, con memoria difensiva: a) ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, deducendo di aver esercitato nella procedura espropriativa in esame esclusivamente potestà autorizzatorie e che l’illecita occupazione dell’area andrebbe imputata esclusivamente all’inerzia dell’ente espropriante; b) ha ritenuto che dovrebbe essere esclusa la propria responsabilità nella condotta causativa del danno, determinato dalla proseguita occupazione, comportamento per converso imputabile all’ente ospedaliero “Ospedali riuniti Cagliari” ed agli enti che ad esso si sono succeduti; c) ha dedotto l’insufficienza di prova dei danni di cui si chiede il risarcimento, ad ogni modo non configurabile per il periodo pregresso allo spirare dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità ed eventualmente riconoscibile solo nei limiti del quinquennio dalla notificazione del ricorso, tenuto anche conto del giudicato formale formatosi sulle statuizioni presenti nel dispositivo della sentenza n. 2860 del 2006 del Tribunale civile di Cagliari. 4.4. Con memoria difensiva depositata il 17 giugno 2020, gli appellanti hanno infine replicato alle avverse deduzioni, in particolare ribadendo la rilevanza dei criteri già precisati per la determinazione del danno, e hanno insistito nella censura dedotta. 4.5. Tutte le parti costituite, con rispettive note di udienza ex art. 84, comma 5, d.l. n. 18/2020, hanno chiesto che la causa fosse trattenuta in decisione. 5. All’udienza del 9 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione dal Collegio. 6. Alla luce delle premesse svolte, in punto di fatto, la Sezione rileva che non è controverso tra le parti che: a) la fattispecie all’esame attiene ad un’ipotesi occupazione sine titulo di terreni, in cui - a seguito della emanazione degli atti con cui è stata disposta la dichiarazione di pubblica utilità e poi l’occupazione d’urgenza - si è dato luogo ad una irreversibile trasformazione delle aree, con la realizzazione del complesso ospedaliero, in assenza della successiva emanazione del relativo provvedimento d’esproprio; b) con atto di citazione in data 29 aprile 1999, i proprietari dei terreni agivano dinanzi al giudice civile per ottenere la condanna dell’Azienda sanitaria locale n. 8 (succeduta alla A.S.L. 21)-gestione liquidatoria e dell’Azienda generale ospedaliera G. Brotzu al risarcimento per equivalente dei danni derivanti dall’occupazione e dall’irreversibile trasformazione dei terreni e per l’acquisizione del bene, sulla base del valore venale di esso; c) il Tribunale civile di Cagliari, con la sentenza n. 2860/2006 passata in giudicato, respingeva la domanda risarcitoria per equivalente, accogliendo l’eccezione di prescrizione, sul presupposto che si fosse realizzata la fattispecie della c.d. occupazione appropriativa; d) con il presente giudizio, instaurato in primo grado con ricorso depositato il 3 settembre 2018, si chiede la condanna dell’Azienda ospedaliera G. Brotzu, della Regione Sardegna e dell’A.T.S. al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino, nonché al risarcimento dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, a causa dell’indisponibilità dell’area dal momento dell’occupazione fino all’effettivo rilascio. 6.1. La questione dirimente ai fini della decisione, e preliminare alla individuazione dei legittimati passivi delle richieste oggetto del giudizio (questione che, pertanto, non verrà affrontata nella presente sede), attiene quindi alla rilevanza giuridica del giudicato civile formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente ed alla efficacia dello stesso rispetto alla domanda di risarcimento in forma specifica, intentata successivamente dinanzi alla giurisdizione amministrativa. La soluzione della questione presuppone peraltro: a) per un verso, la corretta definizione del rapporto tre le due forme di tutela esperite nei due giudizi, quali azioni distinte e autonome ovvero quali modalità alternative di attuazione dell’unitaria obbligazione risarcitoria (tenendo altresì conto dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello - la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo, disciplinato da tale disposizione); b) per altro verso, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulo di immobili, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia ‘nuova’ rispetto a quella decisa dal giudice civile, il che è determinante per verificare se nel caso di specie sia ravvisabile una res giudicata preclusiva della medesima domanda di primo grado. 7. Ciò considerato, il Collegio, in ragione della delicatezza e della oggettiva controvertibilità delle questioni dibattute tra le parti e ritenuto che ciò possa anche dare luogo a contrasti giurisprudenziali, deferisce il presente ricorso all’esame dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a. 8. In merito alla questione de qua, vanno segnalati i precedenti che si inquadrano nell’ambito della giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in linea di principio, ha nettamente rimarcato come – a seguito dapprima dell’introduzione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327/2001 e poi dell’art. 42-bis – il proprietario, in assenza di un provvedimento di acquisizione, può sempre agire per la restituzione del bene, sia con riferimento alle fattispecie successive all’entrata in vigore del Testo Unico espropriazioni che in relazione alle fattispecie pregresse, poiché il testo unico non consente più di dare seguito nell’ordinamento nazionale – e nella sede della ormai prevista giurisdizione amministrativa esclusiva – alla prassi più volte censurata dalla Corte di Strasburgo (Cons. St., Ad. Plen., 29 aprile 2005, n. 2; Cons. St., Sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582; Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Cons. St., Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303). 8.1. Secondo una prima pronuncia che si è occupata del ‘rilievo del giudicato civile inter partes’, non sarebbe favorevolmente scrutinabile una domanda che - a fronte della sussistenza di un giudicato in senso tecnico in ordine all’avvenuto concretarsi del fenomeno acquisitivo a titolo originario dell’area in favore dell’Amministrazione - intenda ottenere l’applicazione “ora per allora” di un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente affermatosi sotto la spinta della Corte Edu, e di un antitetico quadro legislativo, introdotto dal legislatore nazionale, appunto, per conformarsi ai precetti della Corte di Strasburgo (cfr., Cons Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466). 8.2. In senso sostanzialmente conforme, oltre alla maggioritaria giurisprudenza di primo grado, risulta un’altra precedente pronuncia della medesima Sezione (Cons. Stato, Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 303). In tale occasione, il Consiglio, nonostante vi fosse stato in sede giurisdizionale l’annullamento del decreto di espropriazione, giungeva ad escludere l’applicazione al caso di specie dell’art. 43 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, in quanto l’azione intentata dal privato dinanzi al giudice civile - per la corresponsione dei danni in misura pari al controvalore venale dell’immobile - sul presupposto che l’area era divenuta di proprietà pubblica per effetto dell’“espropriazione acquisitiva”, (nonché dell’indennizzo per il periodo di occupazione legittima) - era stata respinta, con sentenza passata in giudicato, per prescrizione quinquennale. Ciò chiarito, la Sezione riteneva che “l’art. 43 del testo unico non si applica quando l'Amministrazione già risulti titolare dell'area (nella specie, in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui è formato il giudicato). Come è noto l’irretrattabilità del giudicato, principio cardine del nostro ordinamento, discende dal principio generalissimo della certezza dei rapporti giuridici, e per esso la norma di legge successiva non può influire sul giudicato anche quando quest’ultima abbia natura interpretativa (Cass. Sez. Lav. 10/04/1993 n. 3939). Natura che, peraltro, non si può certamente riconoscere all’art. 43”. Il Consiglio di Stato rilevava altresì che non emerge dall’insegnamento della Corte europea per i diritti dell’uomo, da cui la norma in questione ha tratto ragione, che lo Stato Italiano si sarebbe dovuto adeguare fino a comprendere anche le controversie irretrattabilmente definite dai giudicati nazionali, piuttosto che circoscrivere l’intervento legislativo solo a quelle tutt’ora pendenti anche se risalenti, imponendo l’art. 32, paragrafo 1, della CEDU, soltanto l’adeguamento della legislazione nazionale alle norme in essa contenute, nel significato loro attribuito dalla Corte. La Sezione quindi concludeva affermando che “il principio dell'irretrattabilità del giudicato, la cui copertura costituzionale è senza dubbio affidata all’art. 111 della nostra Carta, non può ritenersi travolto dalle norme della Convenzione, derivandone altrimenti un'inammissibile contrasto con la Costituzione stessa” e che, ad ogni modo, “la salvaguardia della certezza dei rapporti giuridici è principio operante non soltanto nell’ordinamento interno ma anche in quello internazionale”. 8.3. Del resto, di analogo tenore è la giurisprudenza che ha affermato come la procedura dell’acquisizione ex art. 42-bis testo unico dell’espropriazione possa trovare applicazione solo dove vi sia ancora da acquisire alla proprietà pubblica il bene, occupato senza titolo, da cui deriva l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di applicare il meccanismo di acquisizione nei casi in cui l’amministrazione già risulti titolare dell’area espropriata, in base ad una sentenza del giudice civile che abbia espressamente ravvisato tale titolarità, con una statuizione inequivocabile su cui si è formato il giudicato (Cons. Stato, sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2232). 9. Di diverso avviso è altra pronuncia di questo Consiglio, nella quale, affrontando una questione assimilabile alla presente, veniva proposta una interpretazione volta a garantire la massima tutela del privato che, danneggiato dall’occupazione senza titolo, aveva originariamente chiesto il risarcimento dei danni nel periodo di piena ‘applicazione’ dell’orientamento giurisprudenziale favorevole all’affermazione della ‘occupazione appropriativa’ o ‘espropriazione sostanziale’. 9.1. Si tratta della sentenza della IV Sezione n. 5830 del 16 novembre 2007, sopra citata, avente ad oggetto un’ipotesi di occupazione d’urgenza non seguita dalla regolare conclusione della procedura di esproprio, in relazione alla quale, in particolare: a) inizialmente i privati, agendo in sede civile, si vedevano respinta la domanda di risarcimento del danno conseguente alla dedotta illegittimità degli atti che avevano condotto all’occupazione delle aree; b) nel successivo giudizio amministrativo, venivano invece annullati tutti gli atti che il Comune di Roma e la Regione Lazio avevano emesso “a sanatoria” tra il 1993 e il 1996 per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto; c) dopo la pubblicazione di tale ultima sentenza, poi passata in giudicato, i privati notificavano al Comune una diffida volta a fare esercitare il potere previsto dall’(allora vigente) art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 e, con due ulteriori ricorsi dinanzi al giudice amministrativo, impugnavano il silenzio serbato dal Comune e chiedevano il risarcimento del danno per l’occupazione (a seguito del disposto annullamento degli atti): c.1) quanto alla prima domanda, seguiva un provvedimento espresso di diniego, impugnato con ulteriore ricorso al Ta.r., per ottenerne l’annullamento, che, tuttavia, veniva respinto in ragione dell’intervenuto acquisto della proprietà delle aree da parte del Comune sin dal settembre 1991 “in forza dell’accessione invertita”, realizzatasi in data antecedente all’entrata in vigore dell’art. 43 del testo unico sugli espropri; c.2) con riferimento alla seconda domanda, veniva respinto il ricorso, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del danno decorrente dalla trasformazione irreversibile dell’area o dalla realizzazione dell’opera. 9.2. Nel giudizio di appello, dopo aver riunito le impugnazioni di tali due ultime sentenze, la IV Sezione annullava il provvedimento di diniego di esercizio del potere ex art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, poiché basato su un presupposto inesistente (cioè l’avvenuto acquisto della proprietà a titolo originario da parte del Comune, in assenza di un decreto di esproprio e dell’atto di acquisizione allora consentito dall’art. 43 cit.), e riconosceva il diritto dei privati al risarcimento dei danni subiti, salva l’adozione del provvedimento previsto dal medesimo art. 43. 9.3. Nel dettaglio, nella parte motiva della sentenza, il Consiglio di Stato rilevava che “con l’art. 43 d.p.r. n. 327 del 2001 il legislatore ha introdotto nel sistema una ‘‘norma di chiusura’’ non solo per attribuire all’amministrazione il potere di dare a regime una soluzione al caso concreto quando gli atti del procedimento divengano inefficaci per decorso del tempo o siano annullati dal giudice amministrativo, ma anche per rimuovere il precedente contrasto sussistente tra la prassi interna e la Convenzione europea, così attribuendo all’amministrazione una “legale via d’uscita” per gli illeciti già verificatisi”. Invero, “l’art. 43 … si riferisce anche alle occupazioni sine titulo già sussistenti alla data di entrata in vigore del testo unico”, peraltro, non essendo invocabile, al riguardo, l’art. 57 del testo unico espropri, in quanto esso “si è riferito ai «procedimenti in corso» ed ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l’ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi ‘fisiologiche’ del procedimento”, laddove l’art. 43 “riguarda fattispecie in cui risulta scaduto il termine entro il quale poteva essere emesso il decreto di esproprio, ovvero è stato annullato un atto del procedimento ablatorio, e non può esservi la dichiarazione di pubblica utilità de futuro di un’opera già realizzata”. 9.4. In particolare, la Sezione giungeva a tali affermazioni sulla base dei seguenti presupposti ermeneutici, formulati richiamando il proprio consolidato orientamento e facendo applicazione delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quali primari e fondamentali canoni di interpretazione per la legge italiana: “- l’ordinamento italiano non consente che una Amministrazione, mediante un proprio illecito e in assenza di un atto ablatorio, acquisti a titolo originario la proprietà di un’area altrui, sulla quale sia stata realizzata un’opera pubblica o di interesse pubblico (anche se prevista in una dichiarazione della pubblica utilità); - anche se l’opera pubblica o di interesse pubblico è ultimata, non comincia a decorrere alcun termine di prescrizione per il risarcimento del danno”. Si affermava pertanto che “l’art. 43 presuppone la perdurante sussistenza del diritto di proprietà e di un illecito permanente dell’Amministrazione che si è a suo tempo impossessata del fondo altrui senza concludere tempestivamente il procedimento di esproprio, anche se è stata realizzata l’opera pubblica o di interesse pubblico”. 9.5. Del resto, al pari di quanto avviene nel caso oggetto del presente giudizio, anche nella controversia di cui alla citata sentenza dell’anno 2007 si poneva un problema di giudicato, atteso che: a) la prima sentenza del T.a.r., divenuta irrevocabile, in ordine alla legittimità dei provvedimenti adottati “a sanatoria”, nell’accogliere la domanda di annullamento, richiamava l’istituto della ‘accessione invertita’: tuttavia, il Consiglio di Stato riconosceva che in quell’occasione il T.a.r. non aveva inteso stabilire il regime di appartenenza del bene (tant’è che non vi era né domanda, né statuizione al riguardo), ma aveva citato l’istituto solo per evidenziare un profilo di eccesso di potere del provvedimento autoritativo commissariale e il vizio di illegittimità derivata del decreto d’esproprio regionale, di cui poi aveva disposto l’annullamento; b) nell’originario giudizio civile era stata respinta, con sentenza passata in giudicato, la domanda di risarcimento del danno conseguente alla dedotta illegittimità degli atti di occupazione d’urgenza che avevano condotto all’occupazione delle aree (asseritamente causata dalla mancata approvazione del piano di zona e dalla conseguente mancata dichiarazione di pubblica utilità dei previsti interventi costruttivi): tuttavia, il Consiglio di Stato riconosceva che la domanda dei privati aveva ad oggetto il risarcimento del danno unicamente in ragione della occupazione qualificata ab origine sine titulo in quanto tale, senza aver neppure rappresentato che le opere erano state realizzate, e che la sentenza definitiva aveva invece escluso che l’occupazione dovesse ab origine considerarsi contra ius, in quanto basata su legittimi atti di occupazione d’urgenza. Pertanto, non poteva dirsi formato il giudicato sulla diversa domanda risarcitoria causata dalla mancata restituzione delle aree ove erano stati nel frattempo realizzati gli edifici, malgrado l’assenza del tempestivo decreto d’esproprio e malgrado l’annullamento del decreto di esproprio “in sanatoria”. In ragione di tali considerazioni, può pertanto essere affermato che la Sezione IV, nella citata sentenza n. 5830/2007, abbia escluso la sussistenza di un giudicato preclusivo dell’obbligo di restituzione, sulla base di approfondita analisi delle precedenti pronunce. Per completezza, si segnala che la sentenza della Sezione Quarta n. 5830 del 2007 è stata impugnata dalla Amministrazione soccombente innanzi alle Sezioni Unite, le quali hanno dichiarato inammissibile il ricorso, con la sentenza 16 aprile 2009, n. 9001. 9.6. Ai fini della decisione della controversia, potrebbe rilevare il se la richiamata pronuncia n. 5830 del 2007 costituisca o meno un precedente perfettamente adattabile al caso in esame. Un elemento di diversità è dato dal fatto che: nel presente giudizio, il Tribunale civile ha richiamato in motivazione ‘l’accessione invertita’ per accogliere l’eccezione di prescrizione; nel giudizio conclusosi con la sentenza della Sezione Quarta n. 5830 del 2007 (come si desume dal suo punto 14.3. in diritto) la sentenza del TAR n. 500 del 2004 ha richiamato ‘l’accessione invertita’ in quanto aveva ‘inteso descrivere il fatto accaduto per dare una qualificazione giuridica … al caso in cui le opere di pubblica utilità risultino realizzate su un fondo altrui, in assenza del valido ed efficace decreto d’esproprio’. Un elemento di possibile similitudine potrebbe consistere negli ‘aspetti processuali’ che hanno caratterizzato i due giudicati di rigetto. Infatti, le Amministrazioni in entrambi i casi non avevano ‘formulato una formale domanda di accertamento dell’acquisto della proprietà, con un ricorso o una domanda riconvenzionale’ (tale considerazione è contenuta al punto 13.2. in diritto della sentenza n. 5830 del 2007, sul decisum della sentenza del TAR del Lazio n. 500 del 2004, ma si può estendere con riferimento alla sentenza del Tribunale civile di Cagliari n. 2860/2006, resa tra le parti di questo giudizio). Si potrebbe dunque concludere nel senso che – così come la sentenza del TAR del Lazio n. 500 del 2004 (resa nel giudizio deciso da questo Consiglio nel 2007) – anche la sentenza in questione del Tribunale civile di Cagliari ha richiamato ‘l’accessione invertita’ solo per decidere la domanda risarcitoria al suo esame, senza determinare il ‘regime proprietario’ dei beni. 9.7. Tali considerazioni non possono che tenere conto delle possibili implicazioni della interpretazione delle sopravvenute disposizioni del testo unico sugli espropri, e in particolare di quelle sull’acquisizione ex art. 43 ed ex art. 42-bis d.P.R. n. 367/2001 (introdotto con il d.l. 7 luglio 2011 n. 98, successivamente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 43 cit., disposta dalla sentenza della Corte costituzionale, 8 ottobre 2010, n. 293), soprattutto con riferimento alla preesistente applicazione della prassi sulla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ o ‘espropriazione di fatto o sostanziale’ e al rispetto da parte dell’ordinamento italiano delle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Invero, sulla base delle statuizioni della sentenza del 2007 e dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo, si potrebbe – in ipotesi – giungere ad affermare che la mera pronuncia (di rigetto) sulla domanda di risarcimento per equivalente, sulla quale si è formato il giudicato, non sia di per sé idonea a determinare il passaggio della proprietà in capo all’Amministrazione per ‘accessione invertita’ o ‘espropriazione sostanziale’ (sia per inidoneità in sé, per assenza di un univoco dispositivo traslativo della sentenza del giudice civile, sia per l’assenza – constatata in base all’attuale quadro normativo - di una disposizione attributiva dello stesso potere al giudice civile di disporre l’alienazione), con la conseguenza che andrebbe ritenuto tuttora persistente l’illecito. Pertanto, in ultima analisi, la domanda di restituzione, proposta successivamente alla formazione del giudicato che ha respinto la domanda risarcitoria per prescrizione dell’azione, dovrebbe essere considerata ammissibile, con l’ulteriore conseguenza che potrebbero ritenersi sussistenti i presupposti per l’esercizio del potere-dovere di effettuare la scelta disciplinata dall’art. 42-bis cit. (che può essere ordinata dal giudice amministrativo, come rimarcato dalla Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020). 10. Una questione in qualche modo analoga a quella decisa nel 2007 è stata nuovamente affrontata da questa Sezione, con la sentenza n. 1827 del 13 marzo 2020 (avente ad oggetto una vicenda di occupazione senza titolo di fondi, risalente agli anni in cui la giurisprudenza civile seguiva la prassi sulla ‘occupazione appropriativa’), la quale ha deciso un caso in cui: - il giudice civile, con una sentenza irrevocabile (della Corte d’appello del 2010, contro la quale era stato proposto un ricorso, respinto nel 2012 dalla Corte di Cassazione), aveva respinto la domanda di risarcimento dei danni da occupazione senza titolo, ancora una volta in accoglimento dell’eccezione di prescrizione, essendo decorso il quinquennio tra l’irreversibile trasformazione del suolo e la notifica dell’atto introduttivo del giudizio civile; - dopo l’entrata in vigore dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri e dopo l’esito del giudizio civile, nel 2013 gli originari proprietari avevano agito dinanzi al giudice amministrativo per chiedere la restituzione dell’area e, in alternativa, il pagamento dell’indennizzo per equivalente, per il caso in cui il Comune avesse emanato l’atto di acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis citato e, in ogni caso, la condanna del Comune al risarcimento dei danni da mancato godimento dell’immobile e dei danni extrapatrimoniali (con domande che – dopo una sentenza di primo grado di accoglimento parziale del ricorso – sono state respinte per ragioni processuali attinenti all’irrituale deposito del ricorso introduttivo, con la sentenza di questo Consiglio n. 4040 del 2014, di riforma della sentenza del TAR); - con un ulteriore ricorso dinanzi al giudice amministrativo, gli interessati impugnavano il silenzio serbato dall’Amministrazione sulla loro istanza volta ad ottenere l’adozione di un decreto di esproprio ovvero di un decreto ex art. 42-bis T.U. n. 327/2001, con una domanda respinta in primo grado dal TAR, ma che poi è stata accolta dalla Sez. IV di questo Consiglio, con la citata sentenza n. 1827 del 2020. La questione centrale di tale giudizio riguardava il se il giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria, per rilevata prescrizione, aveva determinato il trasferimento del diritto di proprietà a favore dell’Amministrazione, dovendosi rilevare se il trasferimento del diritto costituiva o meno il presupposto logico-giuridico della statuizione relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento dei danni e se ci fosse sul punto un decisum. La sentenza n. 1827 del 2020, di accoglimento dell’appello della parte privata, ha escluso che il giudice civile aveva affermato la sussistenza dell’acquisto da parte dell’Amministrazione della proprietà dell’area per ‘accessione invertita’ ed ha escluso che, pertanto, si era formato un giudicato, sia pure implicito, sul punto. La Quarta Sezione, quindi, non ha affrontato funditus la questione se la formazione del giudicato (di reiezione) sulla domanda risarcitoria costituisca di per sé un ostacolo alla successiva proposizione della domanda di risarcimento per equivalente ovvero della domanda di emanazione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis cit., avendone ravvisato la mancanza del presupposto (la formazione del giudicato preclusivo). 11. Nel caso di specie, si può rilevare che: a) da un lato, non vi è stata alcuna statuizione in ordine al trasferimento della proprietà dei fondi, non essendo stata mai avanzata una richiesta di accertamento (o una domanda riconvenzionale) in tal senso nel corso del giudizio civile: circostanza, del resto, confermata dalla perdurante doppia intestazione dei terreni in questione presente al catasto (in favore sia della signora Maria Chiara Scano che dell’Azienda Brotzu), come riportato dagli appellanti; b) dall’altro, alla luce delle sentenze dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nn. 2, 3 e 4 del 2020, non è giuridicamente configurabile la c.d. rinuncia abdicativa (intesa come modalità alternativa di cessazione dell’illecito derivante dall’occupazione illegittima), peraltro neanche dedotta dalle parti in causa (pur se evocata nella stessa sentenza impugnata in questa sede). 12. La decisione in un senso o nell’altro – sulla formazione di un ‘giudicato del giudice civile preclusivo’ della domanda di tutela avente per oggetto la restituzione (o l’applicabilità dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri) - determina delle inevitabili conseguenze, ben prospettate dalle parti. 12.1. Invero, per un verso, qualora, dando priorità all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici, si ritenesse sussistente tale ‘giudicato preclusivo’ (avente per oggetto soltanto la domanda risarcitoria per equivalente, ma da ‘estendere’ in via interpretativa al ‘regime proprietario’ del bene), i privati - che hanno subito l’occupazione senza titolo del bene sul quale è stato realizzato il complesso ospedaliero - resterebbero privi di un ristoro effettivo: il giudicato di rigetto dell’azione risarcitoria dovrebbe così essere inteso nel senso che gli interessati non potrebbero agire per ottenere la restituzione del bene e neppure per ottenere dall’Autorità che utilizza il bene l’emanazione del provvedimento discrezionale, previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri. Tale conclusione potrebbe risultare inappagante, sia perché basata su una rilevanza ultra vires del giudicato del giudice civile (concernente la domanda risarcitoria e non anche quella di restituzione, basata su una diversa causa petendi e comportante comunque un diverso petitum), sia perché il giudice civile ha ritenuto di decidere la controversia sulla base di una prassi e di un diritto vivente in contrasto con le previsioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, perché attributivi di rilievo giuridico alla ‘occupazione appropriativa’, quando si riteneva che solo l’azione di risarcimento del danno poteva essere esperibile (per la dettagliata ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato la patologia dell’azione amministrativa in materia di espropri, cfr. la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2020, oltre alle sue sentenze nn. 2 e 3). 12.2. Per altro verso, volendo invece dare rilievo al principio di effettività della tutela del diritto di proprietà, si dovrebbe interpretare letteralmente, o restrittivamente, la sentenza su cui si è formato il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente, potendo risultare anche tale soluzione non del tutto appagante, poiché si consentirebbe – dopo tale giudicato - di intentare l’azione restitutoria (basata quanto meno sulla diversità del petitum) ovvero di chiedere l’adozione del provvedimento discrezionale ex art. 42-bis (quale titolare dell’interesse legittimo da esso tutelato), malgrado a suo tempo non si sia proposto un ricorso alla CEDU, dopo l’esito contrario del giudizio civile. 13. Ciò premesso, il Collegio, ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., ritiene che vada ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente. 13.1. Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che: a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., Sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12168). Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa; b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259/2013; Sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709; Sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552; si veda inoltre Cass. civ., Sez. I, 12 gennaio 2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell'art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica); c) “per come ricavabile dal dato testuale dell'art. 2058 c.c. (là dove precisa che "il danneggiato può chiedere..."), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d'ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l'impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., Sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (Cons. giust. amm. Sicilia , Sez. giurisd., 3 novembre 2017, n. 465); d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli (cfr. Cons. Stato, Sez. IV , 22 gennaio 2014, n. 306; Sez. IV, 1° giugno 2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum (la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex art. 42 bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. Stato, Sez. IV , 22 gennaio 2014, n. 306). 13.2. Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire - a rigore - anche le pretese oggetto di questo giudizio. 14. A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario. 14.1. Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come – in termini generali - la stessa Corte di giustizia (sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16 marzo 2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20). Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16 maggio 2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata). In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 1° giugno 1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47). Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 6 ottobre 2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa. È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale. 14.2. Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., Sez. trib., 28 novembre 2019, n. 31084; Sez. V, 13 luglio 2018, n. 18642; Sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2046; Sez. trib., 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127; Sez. V, 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25320). Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”). 15. Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 15.1. Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili. Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni. 15.2. Nella specie, si potrebbe ritenere che ancora sarebbe rimediabile la violazione del diritto di proprietà incontestabilmente verificatasi in danno degli appellanti, i quali hanno agito con una azione di restituzione, diversa rispetto a quella risarcitoria per equivalente, e comunque risultano ‘protetti’ dal sopravvenuto art. 42 bis del testo unico sugli espropri, che ha innovativamente introdotto il potere di acquisizione, da un lato attribuendo il potere (prima non riconosciuto dal sistema) di acquisire con atto autoritativo il bene, dall’altro rafforzando la posizione dei proprietari, resi titolari dell’interesse legittimo pretensivo, su cui si è univocamente espressa l’Adunanza Plenaria con le citate sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020. Nell’ottica europea, potrebbero avere rilievo le seguenti circostanze: ad oggi, non vi è stato alcun atto di una autorità amministrativa o giurisdizionale che abbia disposto il passaggio di proprietà e i proprietari non hanno ottenuto alcuna somma, essendovi stata una sentenza del giudice civile che ha respinto la domanda risarcitoria per equivalente, proposta quando ancora in sede giurisprudenziale si dava rilievo alla prassi poi superata, perché rivelatasi in contrasto con le sentenze della Corte di Strasburgo e retrospettivamente superata con l’entrata in vigore del testo unico sugli espropri (ovvero del citato art. 42 bis, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del suo art. 43). Sotto tale profilo, si dovrebbe attribuite rilievo proprio alla definitiva espunzione della prassi della ‘occupazione appropriativa’ o della ‘accessione invertita’ dal nostro ordinamento e, in particolare, alle statuizioni della Corte europea dei diritti dell'uomo (a partire da Sez. II, 30 maggio 2000, ric. 31524/96), con cui è stato affermato che tale prassi risultava in contrasto con l'art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che contempla e consacra il principio di legalità (il principio è stato, poi, ribadito, fra l’altro, dalla Corte con le pronunce Sez. IV, 17 maggio 2005; Sez. IV, 15 novembre 2005, ric. 56578/00; Sez. IV, 20 aprile 2006). 15.3. Ciò nonostante, va ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari. 15.4. D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale: a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”; c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene). Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (Cons. Stato, sez. IV, 21 settembre 2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42 bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis). 16. In conclusione, ad avviso del Collegio, va deciso se vi sia coincidenza della domanda risarcitoria con la domanda restitutoria, valutando se vada constatato un effetto preclusivo del giudicato civile, anche sulla base delle seguenti considerazioni sistematiche: a) quando era seguita dal giudice civile la prassi nazionale della ‘occupazione appropriativa’, la domanda risarcitoria per equivalente risultava l’unica ‘in astratto’ utilmente esperibile dal privato il cui bene fosse occupato illecitamente; b) ‘in concreto’, per di più neppure in realtà sussisteva sempre la possibilità giuridica di ottenere il risarcimento del danno per equivalente, dal momento che - mentre prima della sentenza delle Sezioni Unite n. 1464 del 1983 era pacifico che non poteva decorrere alcun termine di prescrizione quinquennale della domanda, per la natura permanente dell’illecito consistente nella occupazione senza titolo – l’overruling disposto da tale sentenza ha in sostanza eliminato irrimediabilmente la tutela risarcitoria per equivalente, per i proprietari che prima di essa ritenevano inapplicabile il termine di prescrizione, in ragione della natura permanente dell’illecito, e non avevano curato la periodica trasmissione di atti interruttivi della prescrizione. Peraltro, al fine di individuare quale sia nella specie l’ambito di operatività del giudicato civile, ci si interroga pure se un tale effetto preclusivo sia necessariamente subordinato alla presenza della formale o quanto meno chiara e inequivocabile statuizione, nella pronuncia del giudice civile divenuta irrevocabile, sull’avvenuto trasferimento del bene in capo all’Amministrazione a seguito dell’irreversibile trasformazione, in considerazione della prassi allora seguita (chiara e inequivocabile statuizione che avrebbe potuto avere un autonomo rilievo anche al fine di far decorrere il termine entro il quale proporre il ricorso alla Corte di Strasburgo, per la regola del previo esaurimento dei rimedi interni). Invero, si potrebbe ritenere ancora controverso il caso, come quello di specie, in cui una formale statuizione in tal senso non vi è stata, sebbene la pronuncia giurisdizionale abbia respinto la domanda risarcitoria per prescrizione, sia pure sul presupposto (rivelatosi retrospettivamente inconfigurabile) dell’operare della ‘occupazione appropriativa’. 17. Le considerazioni che precedono inducono comunque la Sezione a ritenere che – qualora l’Adunanza Plenaria ritenga che gli appellanti siano proprietari del terreno oggetto del giudizio - al giudicato civile formatosi tra le parti si debba attribuire rilievo, in sede di conseguente applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri. Tale articolo dispone che, a seguito dell’emanazione dell’atto discrezionale di acquisizione dell’area, l’Autorità che occupa il terreno deve corrispondere al proprietario non solo il controvalore del bene, ma anche gli importi ulteriori, spettanti in considerazione dell’occupazione senza titolo che si è protratta nel tempo e a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale (nelle misure indicate dallo stesso art. 42 bis). Orbene, ad avviso della Sezione, qualora gli appellanti si dovessero ancora considerare i proprietari dell’area, aventi titolo ad ottenere l’emanazione di un provvedimento ex art. 42 bis, si dovrebbe comunque statuire nel senso che, nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione, l’Autorità debba corrispondere il suo controvalore, ma non debba anche risarcire i danni causati dall’occupazione senza titolo che si è protratta nel tempo: sotto tale profilo, si dovrebbe ritenere che dovrebbe avere comunque rilievo preclusivo la sentenza del giudice civile, che a suo tempo ha accolto l’eccezione di prescrizione con riferimento al diritto al risarcimento del danno. Una tale soluzione risulterebbe pienamente coerente con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale – come sopra si è osservato - ha ammesso come a seguito della realizzazione dell’opera pubblica possa esservi la sanatoria, purché sia corrisposto il controvalore del bene a coloro che ne perdano la titolarità. Qualora ritenga che l’Autorità debba provvedere ai sensi dell’art. 42 bis, valuterà inoltre l’Adunanza Plenaria se – per il caso in cui poi l’Autorità emetta l’atto di acquisizione - il giudicato civile formatosi tra le parti precluda anche il risarcimento del danno non patrimoniale, dovuto ai sensi dell’art. 42 bis nel caso in cui sia disposta l’acquisizione nei casi ‘ordinari’ (cioè non caratterizzati da un precedente giudicato civile concernente la domanda risarcitoria per equivalente) in cui si adegui lo stato di diritto allo stato di fatto. 18. Per tutte le considerazioni che precedono, si rimettono, pertanto, all’Adunanza plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, del cod. proc. amm., le seguenti questioni: a) se - in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ - sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino; b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione - la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria; c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale); d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente). 18. Valuterà l’Adunanza Plenaria se affermare i rilevanti principi di diritto o se definire il secondo grado del giudizio. 19. La statuizione delle spese di lite vi sarà con la sentenza definitiva. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, non definitivamente pronunciando sul ricorso in appello n. 7540 del 2019, di cui in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Manda alla Segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza, e, in particolare, per la trasmissione del fascicolo di causa e della presente ordinanza al Segretario incaricato di assistere all'Adunanza plenaria. Dispone la comunicazione dell’ordinanza alle parti costituite. Spese al definitivo. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 9 luglio 2020 svoltasi ai sensi degli artt. 84 del d.l. n. 18/2020 e 4 del d.l. n. 28/2020, con l’intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Leonardo Spagnoletti, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo, Consigliere Luigi Maruotti, Presidente Leonardo Spagnoletti, Consigliere Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere, Estensore Nicola D'Angelo, Consigliere IL SEGRETARIO
Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione acquisitiva - Risarcimento del danno - Equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato - Giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno – Rimessione alla Adunanza plenaria di questioni connesse.             Sono rimesse all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni: a) se - in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ - sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino; ​​​​​​​b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione - la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria; c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’Amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42 bis del testo unico sugli espropri, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale); d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42 bis del testo unico sugli espropri), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente) (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che ai fini dell’inquadramento della questione ed in particolare con l’obiettivo di valutare se nel caso di specie la proposizione della domanda restitutoria successivamente alla formazione del giudicato sulla domanda di risarcimento per equivalente integri o meno una violazione dell’art. 2909 c.c., va ricostruito il rapporto tra gli istituti del risarcimento in forma specifica e del risarcimento per equivalente.  Al riguardo, la giurisprudenza suole costantemente riconoscere l’esistenza di una relazione di continenza del secondo nel primo, ritenendo che la seconda domanda costituisca un minus rispetto alla prima, al punto che: a) mentre costituisce certamente domanda nuova quella volta ad ottenere il risarcimento in forma specifica rispetto alla domanda proposta di risarcimento per equivalente, viceversa la richiesta di risarcimento del danno per equivalente costituisce mera modificazione (“emendatio”), e non mutamento (“mutatio”), della domanda di reintegrazione in forma specifica, dovendosi la prima ritenere già compresa nella seconda (cfr. da ultimo Cass. civ., sez. VI, 16 maggio 2017, n. 12168). Ne consegue che la domanda risarcitoria per equivalente, proposta in via alternativa a quella risarcitoria in forma specifica, non è incompatibile con quest’ultima, proprio perché è già contenuta in essa; b) in tema di danni, rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica come domandato dall’attore in forza di quanto previsto dall’art. 2058, comma secondo, c.c. e ciò proprio perché il risarcimento per equivalente costituisce un minus rispetto al risarcimento in forma specifica e, quindi, la relativa richiesta è implicita nella richiesta di risarcimento in quest'ultima forma, per cui il giudice può condannare d’ufficio al risarcimento per equivalente senza violare l’art. 112 c.p.c.; per contro non è consentito al giudice, senza violare l'art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa, neppure per implicito, in quella domanda così proposta (cfr., ex plurimis, Cass. civ. n. 259 del 2013; id., sez. III, 21 maggio 2004, n. 9709; id., sez. II, 18 gennaio 2002, n. 552; id., sez. I, 12 gennaio 2010, n. 254, sulla possibilità di ricondurre la domanda di restituzione del fondo allo schema dell'art. 2058 c.c., in tema appunto di reintegrazione in forma specifica); c) “per come ricavabile dal dato testuale dell'art. 2058 c.c. (là dove precisa che "il danneggiato può chiedere..."), mentre la richiesta del risarcimento per equivalente contiene la domanda di risarcimento in forma specifica, sicché domandata la prima si può sempre (validamente) invocare la seconda in corso di causa (che può anche essere concessa d'ufficio dal giudice, senza violare il principio della domanda), la richiesta della prima (esclusivamente riservata ad una libera opzione processuale del soggetto danneggiato) non autorizza la scelta della seconda ad opera del giudice e non postula, per la sua concessione, l'impraticabilità della riparazione in forma specifica” (Cons. St., sez. IV, 10 agosto 2004, n. 5500), ponendosi altrimenti in violazione dell’art. 112 c.p.c. (C.g.a. 3 novembre 2017, n. 465); d) la restituzione del bene, previa eventuale riduzione in pristino, costituisce modalità di risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ., alternativa al risarcimento per equivalente e, quindi, mezzo concorrente per conseguire la riparazione del pregiudizio subito; di conseguenza è da escludere che la scelta, in corso di giudizio, per una delle due modalità costituisca una mutatio libelli, risolvendosi solo in una emendatio libelli (cfr. Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306;  id. 1° giugno 2011, n. 3331), essendo evidente, per un verso, che la tutela in forma specifica e quella per equivalente appaiono come mezzi concorrenti per conseguire la riparazione del pregiudizio subito, per altro verso, che tra esse vi è identità delle posizioni giuridiche soggettive (proprietari di suoli oggetto di illegittima occupazione e trasformazione), del petitum (la restituzione del suolo, salvo esercizio del potere discrezionale di acquisizione ex art. 42 bis) e della causa petendi (l’illecita perdurante occupazione e utilizzazione del suolo) (Cons. St., sez. IV, 22 gennaio 2014, n. 306). Conclusivamente sul punto e con specifico riferimento al caso in esame, si dovrebbe quindi valutare se può essere riconosciuta la ‘piena coincidenza’ dell’azione originariamente intentata dinanzi al giudice civile con l’azione restitutoria di cui al presente giudizio, con la conseguenza che, qualora si ritenesse sussistente l’unicità dell’obbligazione risarcitoria, la pronuncia passata in giudicato relativa alla domanda di risarcimento per equivalente dovrebbe coprire - a rigore - anche le pretese oggetto di questo giudizio.  A tale ultimo riguardo ed in particolare con riferimento all’efficacia del giudicato, rileva anche la giurisprudenza europea e nazionale per la quale il diritto europeo non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l’autorità di cosa giudicata, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario.  Pur se di per sé la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha preso in considerazione le fattispecie di occupazione senza titolo che si sono avute nella prassi nazionale (in quanto la relativa materia non è disciplinata di per sé dai Trattati istitutivi), è opportuno sottolineare come – in termini generali - la stessa Corte di giustizia (sentenza 3 settembre 2009, in causa C-2/8 Olimpiclub, e sentenza 16 marzo 2006, in causa C-234/4, Kapferer) ha sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, in quanto, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (Corte di giustizia UE, sentenza 30 settembre 2003, causa C‑224/01, Köbler, Racc. pag. I‑10239, punto 38, e 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, Racc. pag. I‑2585, punto 20).   Ciò premesso, la Corte ha comunque ricordato che, in assenza di una normativa comunitaria in materia, le modalità di attuazione del principio dell’autorità di cosa giudicata rientrano nell’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, sebbene esse non debbano essere meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) né essere strutturate in modo da rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in tal senso, sentenza 16 maggio 2000, causa C 78/98, Preston e a., Racc. pag. I 3201, punto 31 e giurisprudenza ivi citata).  In conclusione, ad avviso della Corte di giustizia UE, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (v. Corte di giustizia UE, 16 marzo 2006, causa C‑234/04, Kapferer, cit., punto 21; 1° giugno 1999, causa C 126/97, Eco Swiss, Racc. pag. I 3055, punti 46 e 47).   Peraltro, di recente, la Corte di giustizia, ritornando sulla questione (Corte giustizia, grande sezione, 6 ottobre 2015, causa C-69/14, T. c. Gov. Romania), con riguardo al diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi in uno Stato membro in violazione del diritto unionale, ha stabilito che il diritto dell’Unione, in base ai principi di equivalenza e di effettività, dev’essere interpretato nel senso che non osta al fatto che a un giudice nazionale non spetti la possibilità di revocare una decisione giurisdizionale definitiva pronunciata nel contesto di un ricorso di natura civile. E ciò anche quando tale decisione risulti incompatibile con un’interpretazione del diritto dell’Unione accolta dalla Corte di giustizia successivamente alla data in cui la decisione è divenuta definitiva, finanche qualora, di contro, una tale possibilità sussista per le decisioni giurisdizionali definitive incompatibili con il diritto dell’Unione pronunciate nel contesto dei ricorsi di natura amministrativa.  È stata, quindi, ribadita l’importanza che riveste anche nell’ordinamento giuridico dell’Unione il principio dell’intangibilità del giudicato, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, di modo che il giudice nazionale non è vincolato dal diritto dell’Unione a disapplicare le norme processuali interne che conferiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò consentirebbe di rimediare ad una situazione nazionale contrastante col diritto unionale.  Conforme risulta la giurisprudenza nazionale, la quale ha precisato come il diritto dell’Unione europea non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione, salve le ipotesi, assolutamente eccezionali, di discriminazione tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario ovvero di contrasto con una decisione definitiva della Commissione europea emessa prima della formazione del giudicato (cfr. Cass., sez. trib., 28 novembre 2019, n. 31084; sez. V, 13 luglio 2018, n. 18642; Sez. trib., 27 gennaio 2017, n. 2046; Sez. trib., 29 luglio 2015, n. 16032; sez. I, 6 maggio 2015, n. 9127; sez. V, 29 luglio 2015, n. 16032; Sez. trib., 15 dicembre 2010, n. 25320).  Inoltre, la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 71/2015, al punto n. 5.3, ha ammesso, implicitamente, che l’avvenuto giudicato formatosi precluda la rivisitazione della tematica (“Come evidenziato nell'ordinanza di rimessione, ne risulta che se la norma censurata fosse dichiarata incostituzionale, il ristoro economico sarebbe assoggettato al regime del risarcimento ex art. 2043 cod. civ., a prescindere dal riconoscimento del diritto alla restituzione del bene. In altri termini, la rilevanza della questione emerge dal fatto che se la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, il giudizio rimarrebbe incardinato innanzi al giudice amministrativo, investito della domanda di rideterminazione del ristoro economico, che acquisterebbe natura risarcitoria; se essa fosse rigettata, ne deriverebbe invece la traslatio iudicii innanzi al giudice ordinario, per i profili di quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni”).  Le conclusioni a cui conducono le sopra esposte considerazioni devono, d’altro canto, essere ponderate alla luce del peculiare rapporto intercorrente tra il diritto nazionale e le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.  Infatti, le sentenze della Corte di Strasburgo, anche quelle che hanno più volte condannato la Repubblica Italiana per le prassi nazionali sulla ‘occupazione appropriativa’, sono state pronunciate in casi in cui per definizione si erano formati giudicati sfavorevoli per i proprietari, all’esito dei relativi giudizi civili.  Dunque, mentre le sopra citate sentenze della Corte di Giustizia hanno espresso il principio per cui il diritto unionale non impone all’ordinamento e al giudice nazionale di superare il giudicato che con esso si sia posto in contrasto, quando si tratta invece della Convenzione europea dei diritti dell’uomo la Corte di Strasburgo è competente a valutare proprio se il giudicato nazionale si sia posto in contrasto con la Convenzione, una volta esauriti i rimedi interni.  La Sezione ha altresì ricordato che la stessa Corte EDU, pur ritenendo la restituzione del bene quale forma privilegiata di riparazione, ammetteva, “quando la restituzione di un terreno risulta impossibile per motivi plausibili in concreto”, il risarcimento per equivalente in una misura pari al valore integrale del bene alla data della pronuncia (v. Corte EDU, 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia, § 69; 6 marzo 2007, Scordino c. Italia, § 16): la Corte ha ammesso sì in sostanza la sanatoria della situazione venutasi a verificare, ma purché vi sia il ristoro dei proprietari.  D’altra parte, per la soluzione della questione in esame, rilevano anche i principi enunciati dalle sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020 dell’Adunanza Plenaria, la quale:  a) ha ribadito la contrarietà alla Convezione europea dei diritti dell’uomo di qualunque forma di trasferimento della proprietà in favore dell’Amministrazione che sia priva di una base legale, in tal modo negando l’ammissibilità nel nostro ordinamento anche della c.d. rinuncia abdicativa, quale atto implicito nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo; b) ha affermato che “l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali”; c) ha ritenuto che l’art. 42-bis d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, sia applicabile a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene).  Va dunque rimarcato come anche in sede d’appello si possa riconvertire la domanda di restituzione del bene in domanda di applicazione dell’art. 42 bis del testo unico sugli espropri (Cons. St., sez. IV, 21 settembre 2020, nn. 5527 e 5522), sicché anche per questa ragione si potrebbe sostenere che il giudicato civile di rigetto, a suo tempo formatosi sulla domanda risarcitoria per l’accoglimento della eccezione di prescrizione, non precluda l’esame della domanda di tutela basata sul citato art. 42 bis (anche a seguito della conversione della domanda in sede d’appello), nettamente diversa da quella decisa dal giudice civile quanto alla causa petendi (basata sull’interesse legittimo pretensivo) ed al petitum (volto ad ottenere un provvedimento ai sensi dell’art. 42 bis). 
Espropriazione per pubblica utilità
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/inserimento-della-vitis-nell-elenco-delle-piante-sensibili-a-tutti-i-ceppi-batterici-di-xylella-fastidiosa
Inserimento della Vitis nell’elenco delle piante sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa
N. 02096/2021REG.PROV.COLL. N. 05618/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5618 del 2020, proposto da Impresa Individuale Negro Daniele, in persona dell’omonimo titolare, rappresentata e difesa dall'avvocato Valeria Pellegrino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso il suo studio in Roma, corso del Rinascimento n. 11; contro Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Sabino Persichella, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Alfredo Placidi in Roma, via Barnaba Tortolini n. 30; Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali e del Turismo, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 12921/2019, resa tra le parti, concernente la domanda di risarcimento dei danni asseritamente derivanti dal divieto di movimentazione della “Vitis vinifera” all’interno o all’esterno delle zone delimitate. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Puglia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali e del Turismo; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 marzo 2021, tenuta in modalità telematica, il Cons. Giovanni Pescatore e uditi per le parti gli avvocati Valeria Pellegrino e Sabino Persichella; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il Consorzio Vivaisti Pugliesi e l’impresa individuale Negri Daniele hanno agito in primo grado (con ricorso n. 11453/2015) per ottenere l’annullamento dell’art. 12 del decreto ministeriale 19 giugno 2015 , recante “Misure di emergenza per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di Xylella fastidiosa (Well e Raju) nel territorio della Repubblica Italiana”. Il decreto è stato contestato - come irrazionale, sproporzionato e contrastante con principi costituzionali (3 e 41) ed eurocomunitari - nella parte in cui, dando attuazione alla decisione di esecuzione della Commissione UE n. 789/2015, ha vietato “lo spostamento all’interno dell’Unione, all’interno o all’esterno delle zone delimitate, di piante specificate che sono state collegate per almeno parte del loro ciclo di vita in una zona delimitata stabilita ai sensi dell’art. 6”. Tra queste piante specificate (ossia sensibili a tutti i ceppi batterici della Xylella fastidiosa) è stata inclusa anche la Vitis vinifera (v. allegato 1 al d.m. 19 giugno 2015). I ricorrenti hanno avvertito come ingiusto e non motivato l’effetto limitativo della circolazione delle suddette specie vegetali e i conseguenti effetti lesivi della loro libertà di impresa e di iniziativa economica. 2. Va sin d’ora chiarito che le misure ministeriali qui contestate si iscrivono in un più ampio quadro di iniziative adottate al dichiarato fine di fronteggiare la nota emergenza fitosanitaria consistente nella comparsa nel Salento di una grave patologia dell’olivo (il Codiro, complesso di disseccamento rapido dell’olivo), che sin dall’ottobre 2013 è stata associata al rinvenimento nei vasi xilematici di molti ulivi malati del batterio Xylella fastidiosa, patogeno ritenuto da quarantena ai sensi dell’All. 1 della Direttiva 29/2000/CE del Consiglio UE, in quanto sino ad allora mai comparso in Europa. 3. In quel contesto, l’azione di contenimento della circolazione di piante ritenute contaminate o contaminabili dallo specifico agente patogeno da debellare, avviata con il d.m. 19 giugno 2015, è proseguita attraverso i successi decreti ministeriali del 18 febbraio 2016, 7 dicembre 2016 e 13 febbraio 2018, adottati in parallelo al susseguirsi di più aggiornate indicazioni dettate dalla Commissione UE con le decisioni di esecuzione nn. 2417/2015, 764/2016 e 2352/2017. Si è quindi passati da un regime di preclusione assoluta alla movimentazione delle piante, ad un successivo e più mite regime di possibile movimentazione al di fuori della zona infetta previa termoterapia (un trattamento da eseguirsi in appositi impianti consistente nell’immersione delle piante per 45 minuti in acqua riscaldata a 50 gradi) ed, ancora oltre, all’esclusione dell’obbligo di termoterapia per alcune varietà appartenenti alla specie Vitis. 4. All’evoluzione del quadro regolativo si è conformata anche l’iniziativa giudiziale delle ricorrenti le quali, con successivo e separato ricorso (n. 4294/2016) hanno contestato il d.m. del febbraio 2016; la decisione UE n. 2417/2015, in quanto ritenuta in contrasto con superiori principi eurocomunitari (la Direttiva 08/05/2000 n. 29 CE e la presupposta Convenzione Internazionale per la protezione dei vegetali – CIPV – del 6 dicembre 1951; l’art. 216 par. 2 TFUE; i principi di proporzionalità e precauzione); nonché il d.lgs. n. 214/2005 di recepimento della Direttiva UE n. 89/2000, con particolare riferimento all’art. 16, par. 3, censurato come veicolo di possibile ingresso nel nostro ordinamento di provvedimenti vincolanti della Commissione suscettibili di violare i precetti costituzionali (artt. 3, 23 e 113) e non sindacabili innanzi agli organismi dell’UE. Con due atti di motivi aggiunti l’impugnativa è stata infine estesa ai d.m. del 7 dicembre 2016 e del 13 febbraio 2018 che, pur eliminando l’obbligo di termoterapia per tre varietà di vitis (Cabernet Sauvignon, Negramaro e Primitivo elencate sub allegato III), in quanto ritenute “non sensibili al rispettivo ceppo (ST 53) della sottospecie (pauca) dell’organismo specificato”, ne ha invece confermato l’operatività per tutte le altre cultivar. Ciò in asserita esecuzione della sopraggiunta Decisione di esecuzione della Commissione UE n. 2352/2017. 5. Con la sentenza qui appellata n. 12921/2019 il Tar Lazio, previa riunione dei due ricorsi, ha dichiarato improcedibile il primo per sopravvenuta carenza di interesse (in quanto avente ad oggetto un d.m. non più efficace) e respinto nel merito il secondo. 6. Non paga di questo esito, la sola Impresa individuale Negro Daniele ha impugnato la pronuncia di primo grado. 7. Nel corso del giudizio d’appello, svoltosi nel contraddittorio con la Regione Puglia, la parte ricorrente (con memoria ex art. 73 c.p.a. del 28.12.2020) ha precisato di non avere più interesse alla pronuncia demolitoria, stante l’intervenuto superamento delle misure restrittive inizialmente contestate, ma di conservare interesse, in ottica risarcitoria, alla declaratoria di illegittimità degli atti impugnati. 8. La causa è stata discussa e posta in decisione all’udienza pubblica del 4 marzo 2021. 9. Va dato atto del fatto che la Decisione di esecuzione della Commissione UE n. 789/15 è stata impugnata dalla odierna ricorrente anche innanzi al Tribunale di I grado della UE con ricorso in data 4 agosto 2015: il gravame, tuttavia, è stato dichiarato irricevibile sul rilievo che le Decisioni di esecuzione impugnate sono dirette allo Stato Italiano, richiedono misure di esecuzione e quindi non riguardano direttamente ed individualmente le imprese ricorrenti. DIRITTO 1. La pronuncia di primo grado riporta al paragrafo III la ricostruzione dettagliata del quadro normativo di riferimento, la quale prende le mosse dalla direttiva 2000/29/CE (recepita in Italia con d.lgs. n. 214/2005) concernente le misure di protezione contro l'ingresso e la diffusione nella Comunità europea di organismi nocivi ai vegetali o ai prodotti vegetali. 1.1. Detta direttiva è stata modificata dalla successiva 2002/89/CE il cui articolo 3, commi 1 e 4, ha imposto agli Stati membri il divieto di introduzione e diffusione degli organismi nocivi da quarantena, includendo tra questi la “Xylella”. 1.2. A seguito della segnalazione per la prima volta nella Provincia di Lecce del batterio Xylella, con le Decisioni nn. 87/2014 e 97/2014 la Commissione UE ha ordinato allo Stato italiano di adottare tutte le ulteriori misure idonee e necessarie ad impedire l’introduzione e la diffusione della “Xylella fastidiosa” nel territorio dell’Unione, determinando le modalità di accertamento della fitopatia e di delimitazione delle aree già infette. 1.3. Sono seguiti numerosi provvedimenti emessi dallo Stato italiano, sulla base dei quali è stato affidato ai servizi fitosanitari regionali il compito di effettuare annualmente indagini su tutte le piante ospiti sulla base di specifici piani di monitoraggio regionali. Tra questi provvedimenti spicca la delibera del 10 febbraio 2015, con la quale è stato dichiarato nel territorio della Regione Puglia lo stato di emergenza ed è stato nominato il Commissario delegato che ha predisposto il Piano degli interventi, in seguito approvato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 1.4. In tale contesto è sopraggiunta la Decisione di esecuzione UE n. 789/2015, abrogativa della precedente n. 497/2014, il cui articolo 9 ha previsto il divieto di “movimentazione” all’interno o all’esterno delle zone delimitate di piante “specificate” (cioè sensibili al batterio) ivi inclusa tra queste la “vitis vinifera”, coltivate per almeno parte del loro ciclo di vita in zona delimitata. 1.5. Il divieto è stato una prima volta temperato dalla Decisione n. 2417/2015 la quale, attraverso il paragrafo 4-bis dell’art. 9, pur mantenendo la vitis nell’allegato I (piante specificate sensibili a Xylella), ne ha consentito la movimentazione al di fuori della zona infetta previa termoterapia – (trattamento da eseguirsi in appositi impianti consistente nell’immersione delle piante per 45 minuti in acqua riscaldata a 50 gradi). Sono seguiti conformi provvedimenti dello Stato italiano (decreto ministeriale del 18 febbraio 2016, ha introdotto il comma 4-bis all’articolo 12 del precedente decreto in data 19 giugno 2015). 1.6. La nuova decisione di esecuzione UE n. 764/2016 ha aggiunto alla decisione n. 789/2015 l’art. 9 bis (rubricato “Spostamento all'interno dell'Unione di piante specificate che sono state coltivate in vitro”), recante a sua volta una deroga al divieto di spostamento per le “piante di vitis in riposo vegetativo destinate alla piantagione”. La decisione è stata recepita nell’ordinamento italiano con il d.m. 7 dicembre 2016 (art. 12), che ha ammesso lo spostamento di tali piante a condizione che le stesse siano state coltivate in un sito registrato in conformità alla direttiva 92/90/CEE e che, il più vicino possibile al momento dello spostamento, siano sottoposte a un opportuno trattamento di termoterapia in un impianto di trattamento autorizzato per tale scopo e sorvegliato dal Servizio fitosanitario regionale. 1.7. L’obbligo di termoterapia è stato infine escluso dalla decisione di esecuzione n. 2352/2017 per le tre varietà appartenenti alla specie Vitis e identificate nel Cabernet Sauvignon, nel Negramaro e nel Primitivo, in quanto ritenute “varietà non sensibili al rispettivo ceppo (ST 53) della sottospecie (pauca) dell’organismo specificato”. Anche tali disposizioni sono state recepite dal governo italiano con il decreto ministeriale del 13 febbraio 2018. 1.8. Da ultimo, per effetto del Regolamento di Esecuzione della Commissione UE n. 1201/2020 la Vitis risulta inserita tra le piante sensibili alla sola subspecie fastidiosa del batterio Xylella ma non più alla subpsecie pauca, solo con riferimento alla quale, dal 2018, la Regione Puglia delimita la zona del suo territorio in cui è presente il batterio. Da qui il dichiarato difetto di interesse alla pronuncia demolitoria, manifestato dalla parte appellante con memoria del 28.12.2020. 2. Dalla riportata successione di fonti, risulta evidente che il quadro normativo si è evoluto nel senso di un progressivo ammorbidimento del divieto di movimentazione. 3. Ebbene, la tesi offerta in primo grado da parte ricorrente da un lato mirava a contestare la razionalità delle misure limitative di volta in volta adottate - in coerenza con quelle introdotte dalla Commissione Europea - siccome ritenute ingiustificate e foriere di ingenti danni economici; dall’altro, imputava alle autorità nazionali (statali e regionali) la responsabilità di un’omessa azione di arginamento delle elastiche e derogabili misure restrittive comunitarie. I ricorrenti hanno contestato, in modo particolare, la scelta di inserire la Vitis nell’elenco delle piante specificate (cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa), pur trattandosi di pianta non contaminata né contaminabile dallo specifico agente patogeno da debellare (la subspecie pauca ST53 del batterio Xylella). 3.1. Il primo giudice ha respinto detta impostazione, osservando che: -- l’applicazione, in parte qua vincolata, delle decisioni di esecuzione discende dal contenuto precettivo di cui alla Direttiva 2000/29/CE, ripreso puntualmente dal decreto legislativo n. 214 del 2005; -- stante la rilevanza dei rischi fitosanitari fronteggiati, è infondata “.. la questione circa la necessità dei c.d. controlimiti nella applicazione della disciplina comunitaria al fine della tutela dei diritti irrinunciabili dell’ordinamento interno, non rinvenendosi, nel caso che ne occupa, alcuna immotivata compressione dei diritti che, seppure degni di ogni considerazione e tutela, siccome costituzionalmente protetti, si pongono in posizione subalterna rispetto ad altri diritti fondamentali della persona quali il diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente, che la normativa in esame si prefigge di preservare”; -- è quindi manifestamente infondata anche “.. la questione di legittimità costituzionale, paventata .. con riferimento al d.lgs. n. 214/2005, di recepimento della Direttiva UE n. 89/2000, con particolare riferimento all’art. 16, par. 3, nella parte in cui sarebbe consentito l’ingresso nel nostro ordinamento di provvedimenti vincolanti della Commissione suscettibili di violare i precetti costituzionali, apparendo invece compatibile con i principi costituzionali una disciplina che disponga in termini rigorosi gli adempimenti da porre in essere proprio a salvaguardia dei diritti irrinunciabili della persona di cui sopra si è detto”. 3.2. Quanto al tema specifico dell’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, il primo giudice ha rilevato come per lungo tempo si sia registrata l’assenza di qualunque “.. certezza assoluta sulla non contaminabilità della Vitis ad una delle sottospecie del batterio da Xylella” e come, per tale ragione, “.. in una logica di complessiva precauzione, al fine di evitare anche solo la potenziale infezione e diffusione dell'organismo specificato” le misure adottate si siano rivelate “..pienamente funzionali allo scopo e, in definitiva, non manifestamente sproporzionate”. Il Tribunale ha supportato tali conclusioni sulla scorta dei generali principi di matrice comunitaria di precauzione e di proporzionalità, i quali assegnano alla Commissione UE ampia discrezionalità nella determinazione delle misure più idonee per il controllo e la gestione di rischi di questo tipo. 4. Nell’avversare le esposte conclusioni, la parte appellante in questa sede innanzitutto ribadisce (con un primo motivo) il proprio interesse alla declaratoria di illegittimità anche del DM 19 giugno 2015, ex art. 34 comma 3 c.p.a., oltre che di tutta la susseguente serie procedimentale, in quanto tutti atti posti in stretta relazione causale con i lamentati danni economici. 4.1. Nel merito, con un secondo motivo (pagg. 9-14 atto di appello), censura come erronea l’affermazione secondo cui i DM impugnati “risultano in linea con la Direttiva (n. 29 del 08/05/2000) e le conseguenti Decisioni di esecuzione”, a loro volta ritenute vincolanti alla stregua della medesima Direttiva nonché delle procedure individuate dal d.lgs. n. 214/05 (capo IV.1 della sentenza). L’affermazione è ritenuta erronea in quanto, secondo la parte appellante, a valle della Decisione n. 2417/2015 le Autorità italiane avrebbero potuto restringere l’individuazione delle aree delimitate in relazione solo alla subspecie effettivamente isolata (la pauca): e ciò sia perché tale possibilità era ammessa dall’art. 4 della Decisione n. 789/2015 (come modificata dalla Decisione 2417/2015); sia perché era pacifico sin dal 2015 che la vite non è sensibile alla subpsecie pauca, ma solo alla subspecie fastidiosa, batterio che provoca la Malattia di Pierce (v. pareri EFSA 6 gennaio 2015 e 20 marzo 2015); -- a conferma di questo margine di discrezionalità azionabile dalle autorità nazionali rileva il fatto che la movimentazione di piante specificate all’interno della zona infetta è stata ammessa entro certi limiti sia con il d.m. 19 giugno 2015, sia con il successivo 18 febbraio 2016; -- sicché, mentre dall’ottobre 2013 al maggio 2015, sulla scorta dei controlli e delle ispezioni imposte ex lege, è stata consentita la libera movimentazione della vite (a condizione del solo rilascio del passaporto della pianta, da sempre associato alla circolazione della vite), nel 2015 tale regime è stato ribaltato senza che le precedenti attività di controllo sul campo fossero mai state smentite; -- viene contestato come improprio anche il riferimento ai temi della tutela della salute pubblica e ciò in quanto, essendo le barbatelle di vite destinate non al consumo umano ma al commercio, dalla loro movimentazione non potrebbe derivare alcun pericolo per l’incolumità dei consumatori finali. L’unico pericolo che il legislatore ha inteso arginare limitandone la circolazione consiste nel rischio (prettamente economico) di contaminazione di altre merci e produzioni; -- per la stessa ragione viene censurato come erroneo il rigetto delle questioni pregiudiziali comunitaria e costituzionale, motivato sull’esigenza di bilanciamento dei diritti economici azionati dai ricorrenti con un supposto e prevalente diritto della persona alla salute e alla salubrità dell’ambiente. 4.2. Con un terzo motivo (pagg. 14 – 20 atto di appello) vengono censurati i capi IV.2 e IV.3 della sentenza di primo grado, e dunque la conclusiva affermazione secondo cui poiché “non esiste una certezza assoluta sulla non contaminabilità della vite ad una delle sottospecie del batterio Xylella … in una logica di complessiva precauzione, al fine di evitare anche solo la potenziale diffusione, le misure adottate appaiono pienamente funzionali allo scopo e non manifestamente sproporzionate”. 4.3. Osserva di contro la parte appellante che: -- ai sensi della Direttiva 2000/29, le operazioni di contrasto e lotta all’organismo infestante possono essere rivolte ai soli vegetali “riconosciuti contaminati o che possono esserlo stati” (cfr. art. 22 e art. 23 par. 2), sulla base di un’analisi preliminare del rischio fitosanitario (art. 16 par. 5); -- nel caso in esame, le misure introdotte con la Decisione 789/15 (il blocco totale della movimentazione) e con la Decisione 2417/15 (l’obbligo di termoterapia delle piante di vite) hanno disatteso tali principi, in quanto: a) la vite, alla luce di tutti gli studi sin qui condotti, non rientra tra i vegetali “riconosciuti contaminati o che possono esserlo stati”, per i quali soltanto la Direttiva 29/00 consente la distruzione, disinfezione, disinfestazione, sterilizzazione o pulizia; b) la preliminare analisi del rischio fitosanitario, cui sono assimilabili gli studi EFSA e CNR, ha sancito l’immunità della vite dalla subspecie pauca; c) come ammesso dallo stesso EFSA nel parere 2 settembre 2015, la termoterapia non è stata oggetto di un approfondito studio scientifico che ne analizzasse l’effettivo impatto sulla vite ed, in particolare, sulle principali cultivar presenti nella zona delimitata della provincia di Lecce; d) le piante di vite non in fase di riposo vegetativo non sono termo-trattabili, e quindi, non potendo più essere vendute, sono destinate alla distruzione; -- a queste considerazioni la ricorrente aggiunge che né le Decisioni UE, né gli atti interni prevedono alcuna partecipazione finanziaria dell’UE alle spese determinate dall’introduzione dell’obbligo di termoterapia, né alcun regime risarcitorio dei viti-vivaisti danneggiati; -- tanto avrebbe dovuto indurre il TAR a sollevare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, in virtù della evidente discrasia tra le Decisioni UE e le fonti comunitarie poste a loro fondamento; -- infine, viene nuovamente contestato come improprio il riferimento ai principi di precauzione e proporzionalità correlati al rischio di danno per la salute umana in quanto, con riguardo alla circolazione dei vegetali, la direttiva ha declinato tali principi nel senso di pretendere, al fine di giustificare misure restrittive, non una mera probabilità di danno, bensì un’effettiva contaminazione in essere o pregressa, che nel caso di specie non si è mai verificata. 5. Il Collegio reputa fondato il rilievo preliminare (di cui al motivo I), e infondate le censure di merito di cui ai motivi II e III. 5.1. Nell’ordine, è certamente concreto e attuale l’interesse strumentale azionato dalla parte appellante ai sensi dell’art. 34 comma 3 c.p.a. a vedere scrutinata la legittimità dell’intera serie di atti impugnati, ivi incluso il d.m. 19 giugno 2015, e ciò in quanto i danni dedotti vengono prospettati come conseguenti tanto all’iniziale divieto di movimentazione, quanto al successivo obbligo di termoterapia; sicché anche rispetto alla prima misura restrittiva è lecito invocare il sindacato di legittimità. 5.2. Nel merito, le deduzioni della parte ricorrente si concentrano intorno a tre assunti fondamentali: a) l’improprio riferimento ai principi di precauzione e proporzionalità, in quanto non conferenti in un quadro di interessi di carattere essenzialmente economico; b) l’assenza di evidenze scientifiche a fondamento delle determinazioni assunte a livello comunitario e nazionale; c) la conseguente colpevole inerzia dello Stato nell’assumere misure in deroga alle generali limitazioni imposte dalle fonti comunitarie. 5.3. Si tratta di argomenti complessivamente infondati. 5.4. Merita di essere confutata, innanzitutto, la tesi di fondo secondo cui la materia in esame non sarebbe esposta all’applicazione del principio di precauzione. L’ordito delle pertinenti fonti comunitarie trae origine, come già esposto, dalla direttiva UE n. 2000/29, la quale ha inteso perseguire l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione fitosanitaria contro l'introduzione nell'Unione di organismi nocivi nei prodotti importati da paesi terzi. Le più specifiche regole di contenimento della circolazione di piante contaminate o contaminabili dal batterio Xylella si sono conformate a questo obiettivo di fondo, in quanto sono state concepite come misure strettamente funzionali all’eradicazione del batterio, ovvero alla circoscrizione della sua ulteriore diffusione all'infuori della Regione Puglia. Su questo sfondo strategico si innesta il richiamo al principio di precauzione, criterio di orientamento certamente invocabile in un ambito di interessi (la salubrità e la salute delle piante) quali quelli che rilevano nella materia fitosanitaria (v., in tal senso, Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 53-55). Il principio di precauzione, estendendo l’azione di contrasto anche ad aree di rischio non ancora accertate ma potenziali, consente un approccio più efficace avverso l’introduzione e la diffusione degli agenti infestanti; esso quindi amplia l’impatto della tutela di interessi prevalenti (presi in considerazione dalla direttiva del 2000), attraverso una bilanciata e proporzionata opzione di preferenza su altri istanze con essi antagoniste (il commercio e l’iniziativa economico-imprenditoriale). Se queste sono le finalità avute di mira dalle autorità regolatrici, in piena coerenza con i principi della normativa comunitaria, appare del tutto evidente l’irrilevanza della specifica destinazione d’uso della merce potenziale vettrice del batterio. È infatti trascurabile la circostanza che le barbatelle di vite non siano destinate al consumatore finale ma ad altri imprenditori, poiché ciò che rileva è unicamente il nesso tra la loro movimentazione e l’incremento del rischio di diffusione del batterio, nesso che, appunto, le misure di contrasto hanno inteso cautelativamente sciogliere. 5.5. Proprio nella materia delle misure di contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa sul territorio pugliese, questa sezione ha già avuto modo di ricordare, come del resto ha fatto la Corte di Giustizia UE nella già citata sentenza del 9 giugno 2016, in C-78/16 (punti 47-48): a) che il legislatore dell’Unione, al pari del legislatore nazionale, deve tenere conto del principio di precauzione, in virtù del quale, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; b) che qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale (per la salute pubblica o per l’equilibrio fitosanitario) nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive (v., in particolare, Corte di Giustizia UE, 17 dicembre 2015, in C-157/14, punti 81-82); c) che il suddetto principio deve, inoltre, essere applicato tenendo conto del principio di proporzionalità, il quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti (Cons. Stato, Sez. III, n. 1692/2020, punti 9.1-9.3). 6. Chiarita la stretta pertinenza alla materia del principio di precauzione, diventa necessario esaminare l’ulteriore assunto svolto dalla ricorrente, secondo il quale l’azione di contenimento della circolazione della Vitis non sarebbe stata impostata, dalle autorità comunitarie e nazionali, su solide basi scientifiche e istruttorie, sicché le misure restrittive avrebbero ecceduto i limiti della adeguatezza e della proporzionalità, provocando esternalità negative del tutto ingiustificate, sovrabbondanti e facilmente evitabili. 6.1. Per cogliere l’inconsistenza di questa affermazione è sufficiente fare richiamo al 5° considerando della decisione UE n. 2352/2017 (peraltro menzionato nella sentenza di primo grado alle pagg. 25 e 26, ma non investito da specifiche deduzioni della parte appellante), nel quale si legge che “Le prove scientifiche cui fa riferimento l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) nel parere scientifico del gennaio 2015 indicano che esiste la possibilità di una ricombinazione genetica tra diverse sottospecie dell'organismo specificato rilevato in altre parti del mondo, con effetti su nuove specie vegetali che non erano mai risultate infette dalle sottospecie interessate. Di conseguenza, al fine di garantire un approccio più precauzionale e dato che recentemente sono state rilevate diverse sottospecie nell'Unione, è importante chiarire che, qualora in una zona siano state rilevate più di una sottospecie dell'organismo specificato, tale zona dovrebbe essere delimitata in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie. Inoltre, se l'individuazione della presenza di una sottospecie è in corso, lo Stato membro interessato dovrebbe delimitare in via precauzionale anche tale zona in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie”. Sono, dunque, le stesse fonti scientifiche prese in considerazione dalla Commissione UE a confermare come all’epoca non esistesse alcuna certezza assoluta sulla non contaminabilità della Vitis ad una delle sottospecie del batterio da Xylella, il che giustificava, in una logica di complessiva precauzione ed al fine di evitare anche solo la potenziale infezione e diffusione dell'organismo specificato, l’adozione delle misure qui contestate. Su questa base si sono orientate le iniziative delle autorità comunitarie e nazionali, sino a che le evidenze scientifiche hanno giustificato un graduale cambio di strategia. 6.2. La parte appellante non confuta in modo puntuale l’attendibilità scientifica della base motivazionale della decisione n. 2352/2017, in quanto si limita a menzionare con formule del tutto generiche gli studi EFSA e CNR, senza tuttavia precisare in quale punto e con quali argomenti gli stessi attesterebbero una posizione contraria a quella poc’anzi richiamata. 6.3. Non rilevante ai fini della confutazione di quanto sopra riportato è inoltre la correlazione più volte rimarcata dalla parte ricorrente (v. pag. 19 e 20 dell’atto di appello) tra la Malattia di Pierce della vite e il batterio Xylella fastidiosa, subspecie fastidiosa. Invero, questa accertata correlazione nulla dice né dimostra circa l’assenza di rischi di ricombinazioni genetiche tra le diverse sottospecie dell'organismo infettante (pauca e fastidiosa); è esattamente questo fattore di rischio che ha motivato l’azione preventiva del legislatore e nel quale si situa il vero punctum dolens del contendere. 6.4. Il fatto, poi, che nel corso degli anni i controlli subiti dalla vite non abbiano dato esito positivo rispetto al ceppo batterico causa della Xylella (subspecie pauca) è argomento che giustifica la scelta sopravvenuta di sottrarre la Vitis, prima parzialmente e poi definitivamente, alle misure di limitazione alla circolazione. A contrario, il solo fatto che la strategia precauzionale abbia ceduto il passo alle nuove evidenze che non la giustificavano più, non dimostra affatto che sino a quel momento non vi fossero i presupposti per poterla legittimamente invocare. 6.5. E’ già stato ricordato che il principio di precauzione, lungi dal vietare l'adozione di qualsiasi misura in mancanza di certezza scientifica quanto all'esistenza o alla portata di un rischio sanitario, può, del tutto all'opposto, giustificare l'adozione di misure di protezione quand'anche permangano in proposito incertezze scientifiche; e l’appropriatezza di simili iniziative non può che essere valutata alla luce dei dati scientifici e conoscitivi disponibili alla data della loro adozione (v. Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 56 e 60). 6.6. Per altra via, la ricorrente tenta di enucleare dalla direttiva n. 29/2000 una regola restrittiva secondo cui le misure di contenimento potrebbero riguardare i soli vegetali “riconosciuti contaminati o che possono esserlo” (artt. 22 e 23), non quindi quelli meramente “sospettabili” di contaminazione. Anche questa argomentazione si rivela debole, tuttavia, innanzitutto perché l’espressione in commento contiene una formulazione parzialmente dubitativa e aperta (“possono esserlo”) del tutto sintonica con applicazioni di tipo meramente precauzionale; e poi perché gli stessi obiettivi avuti di mira dalla direttiva sono stati interpretati dal Giudice comunitario (lo si è già detto) come ampiamente conciliabili con una azione improntata al principio di precauzione (Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 53-55). 6.7. Dunque, detto principio costituisce criterio orientativo e interpretativo di tutta la serie consecutiva di fonti (comunitarie e nazionali) preposte alla regolamentazione della materia, sicché va ancora una volta respinto il tentativo della parte appellante di espungerlo dal quadro degli elementi di valutazione del thema decidendum. 6.8. Distratta da questa fuorviante interpretazione dei principi regolativi della materia - che alimenta altrettanto mal poste richieste di interpello pregiudiziale ai giudici comunitario e costituzionale - la parte ricorrente non addiviene a contestare la concreta proporzionalità delle misure di contenimento, in quanto non effettua alcun sindacato di adeguatezza e di congruità esteso a tutte le concrete variabili in gioco (la tipologia di rischio scongiurato, l’entità e la capacità diffusiva del batterio, i tempi di vigenza delle misure restrittive). 7. Per concludere, anche l’argomento della mancata attivazione degli strumenti di sussidio finanziario - in asserito contrasto con le disposizioni della direttiva n. 29/2000 - viene agitato in modo generico e non concludente, in quanto la parte non prende in adeguata considerazione le disposizioni che regolamentano questo specifico segmento di materia, né commisura l’iniziativa dello Stato alle condizioni analiticamente imposte dalla direttiva (art. 23). 8. Per le ragioni sin qui esposte, l’appello va integralmente respinto. 9. La natura e la peculiarità dei temi esaminati e degli interessi implicati giustificano la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 marzo 2021 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere IL SEGRETARIO
Ambiente – Ulivi – Puglia – Infezione Xylella Fastidiosa – Piante sensibili alla Xylella Fastidiosa – Vitis – Inclusione – Legittimità.      ​​​​​​​È legittimo l’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, pur trattandosi di pianta non contaminata né contaminabile dallo specifico agente patogeno da debellare (1).    (1) Ha premesso la Sezione che la materia in esame è soggetta all’applicazione del principio di precauzione.  L’ordito delle pertinenti fonti comunitarie trae origine dalla direttiva UE n. 2000/29, la quale ha inteso perseguire l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione fitosanitaria contro l'introduzione nell'Unione di organismi nocivi nei prodotti importati da paesi terzi. Le più specifiche regole di contenimento della circolazione di piante contaminate o contaminabili dal batterio Xylella si sono conformate a questo obiettivo di fondo, in quanto sono state concepite come misure strettamente funzionali all’eradicazione del batterio, ovvero alla circoscrizione della sua ulteriore diffusione all'infuori della Regione Puglia. Su questo sfondo strategico si innesta il richiamo al principio di precauzione, criterio di orientamento certamente invocabile in un ambito di interessi (la salubrità e la salute delle piante) quali quelli che rilevano nella materia fitosanitaria (v., in tal senso, Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 53-55). Il principio di precauzione, estendendo l’azione di contrasto anche ad aree di rischio non ancora accertate ma potenziali, consente un approccio più efficace avverso l’introduzione e la diffusione degli agenti infestanti; esso quindi amplia l’impatto della tutela di interessi prevalenti (presi in considerazione dalla direttiva del 2000), attraverso una bilanciata e proporzionata opzione di preferenza su altri istanze con essi antagoniste (il commercio e l’iniziativa economico-imprenditoriale).  Se queste sono le finalità avute di mira dalle autorità regolatrici, in piena coerenza con i principi della normativa comunitaria, appare del tutto evidente l’irrilevanza della specifica destinazione d’uso della merce potenziale vettrice del batterio. È infatti trascurabile la circostanza che le barbatelle di vite non siano destinate al consumatore finale ma ad altri imprenditori, poiché ciò che rileva è unicamente il nesso tra la loro movimentazione e l’incremento del rischio di diffusione del batterio, nesso che, appunto, le misure di contrasto hanno inteso cautelativamente sciogliere. Proprio nella materia delle misure di contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa sul territorio pugliese, questa sezione ha già avuto modo di ricordare, come del resto ha fatto la Corte di Giustizia UE nella già citata sentenza del 9 giugno 2016, in C-78/16 (punti 47-48): a) che il legislatore dell’Unione, al pari del legislatore nazionale, deve tenere conto del principio di precauzione, in virtù del quale, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; b) che qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale (per la salute pubblica o per l’equilibrio fitosanitario) nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive (v., in particolare, Corte di Giustizia UE, 17 dicembre 2015, in C-157/14, punti 81-82); c) che il suddetto principio deve, inoltre, essere applicato tenendo conto del principio di proporzionalità, il quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti (Cons. Stato, sez. III, n. 1692 del 2020).   Quanto, poi, all’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, ha ricordato la Sezione che il quinto considerando della decisione UE n. 2352/2017 chiarisce che “Le prove scientifiche cui fa riferimento l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) nel parere scientifico del gennaio 2015 indicano che esiste la possibilità di una ricombinazione genetica tra diverse sottospecie dell'organismo specificato rilevato in altre parti del mondo, con effetti su nuove specie vegetali che non erano mai risultate infette dalle sottospecie interessate. Di conseguenza, al fine di garantire un approccio più precauzionale e dato che recentemente sono state rilevate diverse sottospecie nell'Unione, è importante chiarire che, qualora in una zona siano state rilevate più di una sottospecie dell'organismo specificato, tale zona dovrebbe essere delimitata in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie. Inoltre, se l'individuazione della presenza di una sottospecie è in corso, lo Stato membro interessato dovrebbe delimitare in via precauzionale anche tale zona in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie”. ​​​​​​​Sono, dunque, le stesse fonti scientifiche prese in considerazione dalla Commissione UE a confermare come all’epoca non esistesse alcuna certezza assoluta sulla non contaminabilità della Vitis ad una delle sottospecie del batterio da Xylella, il che giustificava, in una logica di complessiva precauzione ed al fine di evitare anche solo la potenziale infezione e diffusione dell'organismo specificato, l’adozione delle misure qui contestate.  Su questa base si sono orientate le iniziative delle autorità comunitarie e nazionali, sino a che le evidenze scientifiche hanno giustificato un graduale cambio di strategia.
Ambiente
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/vincolo-indiretto-posto-a-tutela-del-castello-del-catajo
Vincolo indiretto posto a tutela del Castello del Catajo
N. 04923/2021REG.PROV.COLL. N. 05940/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5940 del 2019, proposto da Fallimento Deda S.r.l. in Liquidazione (già Deda S.r.l.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Marco Feroci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti Comitato Popolare Lasciateci Respirare, Confesercenti del Veneto Centrale, Confcommercio Imprese per l’Italia – Ascom Padova, Confagricoltura Padova, Cia Agricoltori Italiani – Padova, Legambiente Onlus, Italia Nostra, Euroimmobiliare S.r.l. soc. unipersonale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Davide Furlan, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Padova, Galleria Santa Lucia, n. 1; e con l'intervento di ad adiuvandum:Devar Claims S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Xavier Santiapichi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale dei Parioli, n. 112; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto n. 449/2019. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2021 il Cons. Giordano Lamberti e uditi per le parti gli avvocati Marco Feroci, Davide Furlan e Nicoletta Tradardi in sostituzione dell'avv. Santiapichi, in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 2020, n. 70, e dell’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa 13 marzo 2020, n. 6305; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1 - Deda s.r.l. è una società attiva nel settore immobiliare ed è proprietaria di un vasto appezzamento di terreno sito nel comune di Due Carrare (foglio 11, mappali nn. 54, 72, 106, 109, 110, 214, 224, 285, 286, 287, 378, 379, 527, 529, 534, 537, 539, 540, 596, 607, 609, 595, 535, 538). Si tratta di un’area di circa 150.000 mq collocata di fianco al casello autostradale di Terme Euganee, lungo la A13 Padova – Bologna ed a circa 1000 mt. dal bene monumentale rappresentato dal Castello del Catajo. 2 - La Società appellante ha intrapreso su tale area la realizzazione di un’importante iniziativa commerciale (la società riferisce che il relativo progetto, nella sua versione più aggiornata, prevede la realizzazione di un unico edificio, con un massimo di due piani fuori terra ed altezza massima di mt. 12 ed un volume massimo è di mc. 433.500). 3 - Il Castello del Catajo è un bene monumentale tutelato con vincolo di tutela diretta apposto da distinti provvedimenti del 19 aprile 1925, del 15 gennaio 1930 e del 13 aprile 1964, quest’ultimo comprensivo oltre che dell’immobile anche dei parchi annessi e delle adiacenze, che è stato dichiarato di interesse culturale particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. a), del D.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, con decreto del 21 febbraio 2011, che ha esteso il vincolo diretto ad alcuni terreni. 4 - Con la nota n. 26859 del 20 dicembre 2017, la Soprintendenza ha dato comunicazione di avvio del procedimento per l’apposizione di un vincolo di tutela indiretta ai sensi dell’art. 45 del D. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Il vincolo è stato successivamente adottato con il provvedimento del 18 aprile 2018 della Commissione regionale per il patrimonio culturale del Veneto (“Corepacu”). Il vincolo apposto ha un’estensione di circa 3 kmq e comporta anche l’inedificabilità dell’area in cui la società ha progettato di realizzare la struttura commerciale. 5 – L’appellante ha impugnato il provvedimento avanti il T.A.R. per il Veneto, deducendo: a) la nullità del vincolo ai sensi dell’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, per mancanza: di una valida determinazione collegiale della Commissione regionale, carenza di atto presupposto, incompetenza e intervenuto decorso del termine di assunzione del provvedimento; b) la violazione dell’art. 45 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per difetto di istruttoria e di motivazione, perché la norma citata presuppone che ci sia una relazione ed interazione effettiva tra l’oggetto con vincolo monumentale e l’area gravata dal vincolo indiretto, da verificare in concreto in ragione delle caratteristiche e della consistenza dell’area; c) la violazione dell’art. 45 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, il difetto di istruttoria e di motivazione in relazione all’abnorme ed irragionevole estensione del vincolo e alla mancata comparazione tra l’interesse pubblico ed il sacrificio imposto all’interesse privato; d) la violazione degli artt. 45 e 46 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, lo sviamento e la violazione delle competenze comunali e provinciali in materia urbanistica, perché un vincolo di tali dimensioni ed un così minuto grado di dettaglio delle prescrizioni impartite si sostituisce alle previsioni dello strumento urbanistico; e) la violazione degli artt. 136 e seguenti del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, nonché lo sviamento, perché il vincolo indiretto formalmente è giustificato con riferimento alle esigenze di tutela del Castello del Catajo, ma in realtà è motivato con qualità intrinseche del territorio circostante in cui ricade, e tale situazione avrebbe dovuto trovare tutela attraverso lo strumento tipico della tutela paesaggistica di cui all’art. 136, lett. c), del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; f) la carenza di istruttoria e lo sviamento sotto altro profilo, perché le carenze istruttorie tradiscono la volontà di disporre comunque un vincolo di inedificabilità assoluta per precludere l’iniziativa commerciale della ricorrente. 5.1 – Il T.A.R. adito ha respinto il ricorso con la sentenza n. 449 del 10 aprile 2019. 6 – Avverso tale pronuncia ha proposto appello la società originariamente ricorrente per i motivi di seguito esaminati. Si è costituito in giudizio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Si sono altresì costituiti in giudizio: il Comitato Popolare Lasciateci Respirare, Confesercenti del Veneto Centrale e Confcommercio Imprese per l’Italia, ASCOM Padova, Confagricoltura Padova, CIA Agricoltori Italiani, Padova, le Associazioni Legambiente Onlus e Italia Nostra – soggetti già intervenuti nel giudizio di primo grado, nonché Euroimmobiliare s.r.l. Unipersonale per opporsi all’appello. 6.1 – Con atto depositato in data 17 dicembre 2020, l’appellante ha dato atto che, con la sentenza n. 129 del 3 novembre 2020, il Tribunale di Padova, ai sensi dell’art. 92 l. f., ha dichiarato il fallimento della società DEDA s.r.l., originaria appellante nel presente giudizio; contestualmente si è costituito il Fallimento per la prosecuzione del giudizio. 6.2 – E’ intervenuta ad adiuvandum Devar Claims s.r.l., quale società di cartolarizzazione che ha acquistato alcuni crediti ipotecari di Deda s.r.l., sul presupposto che l’area oggetto di causa fosse edificabile. 6.3 – All’udienza pubblica dell’8 giugno 2021 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1 – Con il primo motivo, l’appellante contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ha disatteso il primo motivo di ricorso con il quale la società aveva dedotto che il verbale della seduta del 18.04.2018 della Corepacu del Veneto non era stato predisposto, né sottoscritto, alla data del 18.04.2018 in cui è stato assunto il provvedimento impugnato. 1.1 – La censura è infondata e deve trovare integrale conferma la statuizione del giudice di primo cure. Il verbale è da annoverare entro la categoria degli atti certificativi, in quanto è un documento preordinato alla descrizione di atti o fatti giuridicamente rilevanti compiuti in presenza del soggetto verbalizzante ed ha quindi lo scopo di garantire certezza alla descrizione degli accadimenti, documentandone l’esistenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989: “il verbale, infatti, non è atto collegiale ma solo un documento che attesta, con le dovute garanzie legali, il contenuto della volontà collegiale”). Per giurisprudenza costante, salvo diversa previsione di legge, la redazione del verbale e la sua approvazione non devono avvenire necessariamente in concomitanza della seduta, ben potendo intervenire in un momento successivo, anche rispetto al provvedimento adottato nella seduta della quale il verbale costituisce documentazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4373; id. 30 gennaio 2001, n. 709; Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199; Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 marzo 2001 n. 1189). Ai fini del presente giudizio, deve osservarsi che il provvedimento impugnato è stato assunto secondo le modalità a tal fine previste dall’ordinamento (cfr. art. 46 del D.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e l’art. 39 DPCM 29 agosto 2014, n. 171), ovvero a seguito della votazione resa nella seduta della Commissione tenutasi il 18 aprile, a nulla rilevando che la successiva approvazione del verbale di tale seduta sia successiva. 1.2 - Tale conclusione non risulta inficiata dagli ulteriori rilievi di parte appellante, avuto riguardo al fatto che, in primo luogo, seppur il provvedimento richiami il verbale, la società ha poi potuto avere piena contezza anche di quest’ultimo atto, così da poter verificare quanto avvenuto durante la seduta del 18 aprile all’esito della quale è stata assunta la decisone impugnata; in secondo luogo, deve rilevarsi che, nell’articolare la censura, l’appellante non ha neppure adombrato una supposta discrasia tra il contenuto del provvedimento e quanto certificato nel verbale, né quanto documentato nel verbale, circa la formazione della volontà della Commissione ai fini della decisione, risulta in contrasto con quanto effettivamente deciso con il provvedimento. E’ inoltre fisiologico, proprio perché il provvedimento è stato assunto all’esito della seduta di cui è stata successivamente formalizzata la verbalizzazione, che il contenuto del verbale sia in parte sostanzialmente analogo a quello del provvedimento, non potendosi invece aderire alla prospettazione della società che, senza alcuna fondamento, vorrebbe riconoscere valore provvedimentale anche al verbale. Invero, il provvedimento impugnato esprime in modo non equivoco la decisione assunta dall’amministrazione, dovendosi pertanto, anche nel caso di specie, confermare la mera funzione ricognitiva del verbale, rispetto a quanto avvenuto durante la seduta del 18 aprile, e per l’effetto escluderne qualunque attitudine a produrre effetti diretti nella sfera giuridica dell’appellante. Il fatto che nel verbale, formato e sottoscritto in data successiva al provvedimento, siano indicate anche le valutazioni in riferimento alle osservazioni e alle controdeduzioni della Soprintendenza, che non sono, invece, contenute nel provvedimento (che però richiama il verbale), non può costituire un elemento decisivo al fine di riconoscere una valenza provvedimentale al verbale, potendo al più lo stesso configurare un atto idoneo ad integrare la motivazione del provvedimento (in ipotesi suscettibile di impugnazione con motivi aggiunti), rispetto al quale, come detto, riporta il medesimo contenuto decisorio, senza nulla aggiungere, dovendosene per l’effetto escludere la natura di provvedimento. Come già rimarcato, la circostanza che il verbale - dopo aver richiamato osservazioni e controdeduzioni, contenga le stesse identiche disposizioni che concretizzano il vincolo già previste dal provvedimento - induce ragionevolmente a ritenere che la volontà provvedimentale si sia correttamente formata all’esito della seduta del 18 aprile, durante la quale, evidentemente, il Collegio aveva esaminato anche le osservazioni e le controdeduzioni, come certificato nel verbale seppur formato in data successiva. 1.3 - Anche i dubbi circa l’effettiva data in cui sarebbe stato sottoscritto il verbale e la supposta incertezza sul fatto che le controdeduzioni della Soprintendenza siano state trasmesse alla Commissione per la seduta del 18.04.2018 (per altro, la stessa parte appellante afferma che la Commissione, seppur con compressione dell’istruttoria, avrebbe potuto esaminare il tutto “nell’arco di poche ore” nel corso della seduta del 18 aprile) non colgono nel segno ed appaiono sostanzialmente irrilevanti ai fini del presente giudizio, dal momento che l’appellante neppure ipotizza come tali supposte irregolarità si siano riflesse sulla decisione impugnata e sul suo contenuto, né deduce la lesione delle sue prerogative procedimentali e partecipative. Ad ogni buon conto, in base alla documentazione prodotta in causa, risulta che, a seguito delle memorie istruttorie, la Soprintendenza ha formulato le proprie controdeduzioni con nota del 16 aprile 2018 n. 4574, trasmessa con nota del 17 aprile 2018 n. 4739 e ricevuta in pari data dal Segretariato regionale. In ogni caso, come anticipato, non è dato comprendere come le denunciate irregolarità si siano riflesse in un pregiudizio per l’appellante, essendo pacifico che la società ha potuto esporre le proprie osservazioni durante la fase procedimentale e nel presente giudizio ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa deducendo la criticità e debolezza della decisione assunta, anche in riferimento all’erronea od omessa valutazione degli argomenti dedotti, sotto diversi profili, dalla società durante il procedimento. 1.4 – Per le stesse ragioni, devono essere disattese le contestazioni secondo cui l’atto di imposizione del vincolo sarebbe stato adottato dal solo Presidente della commissione, organo incompetente, ovvero che sarebbe stato assunto dopo la scadenza del termine perentorio di 120 gg dalla proposta, in quanto, come già evidenziato, il provvedimento è stato assunto all’esito della seduta del 18 aprile, a nulla rilevando che la redazione del verbale della seduta sia ad essa successiva. 2 – Il secondo motivo di appello riproduce il secondo motivo del ricorso originario, volto a stigmatizzare il provvedimento di vincolo indiretto per aver ricompreso nel suo perimetro anche aree prive di un’effettiva interazione con il complesso del Catajo e per aver introdotto una tutela dei cd. “coni visuali” invertita. In particolare, l’appellante deduce che: - non sussiste alcuna relazione ed interazione fra il monumento e l’area gravata; - questo rapporto doveva essere oggetto di una verifica puntuale e svolta in concreto, in ragione delle caratteristiche e della consistenza dell’area; - le motivazioni addotte nel provvedimento di vincolo (caratteristiche geomorfologiche dei luoghi e necessità di tutelare la prospettiva da e verso il monumento) si palesano incongruenti ed insufficienti, tenuto conto dell’ampiezza del vincolo; - l’edificazione dell’area in discussione non pregiudica l’integrità e/o le condizioni di ambiente del complesso del Catajo, in quanto si tratta di un’area posta in fregio ad un casello autostradale, a distanza di circa 1,5 km. dal bene; - l’ampio perimetro che si frappone fra il Castello e l’area è occupato, nell’immediato ridosso del complesso del Catajo, da una strada statale (SS n. 16) di grande traffico, che proprio in quel punto si interseca con la strada provinciale; - la zona non è urbanisticamente integra, essendo invece totalmente antropizzata (rinvenendosi, proprio tra il Castello ed il Centro, anche edilizia spontanea e degradata). 2.1 – Con il terzo motivo di appello, la società ripropone il terzo motivo disatteso dal T.A.R., contestando l’irragionevole estensione del vincolo (che comprende un perimetro di circa 300 ettari, coinvolgendo il territorio di tre comuni) e l’omessa considerazione che, tra il Castello ed il centro commerciale, è prevista dalla pianificazione regionale e provinciale la realizzazione di una infrastruttura: la complanare autostrada A13. Secondo l’appellante, a differenza di quanto sostenuto nella sentenza impugnata: - l’area oggetto dell’intervento non si trova affatto in un contesto inedificato ed è contigua ad una importante infrastruttura (il casello dell’autostrada A13); - la vista che si apre dall’ingresso del Castello non è integra, essendo visibili agglomerati edilizi di realizzazione recente (anche di scarsa fattura), alcuni tralicci ed addirittura l’insegna “Motel” posta sul tetto del relativo edificio, il quale risulta essere più alto di circa 1 mt. del progettato centro commerciale (di altezza massima pari a mt. 12). 2.3 - Sotto altro profilo, la società deduce che il Mibac non ha svolto alcuna comparazione fra l’interesse pubblico ed il sacrificio imposto al privato, prevedendo l’inedificabilità delle aree, che si risolve nella impossibilità di realizzare il centro commerciale. 3 – Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente, non devono trovare accoglimento per le ragioni di seguito esposte. In base all’art. 45 del Codice dei beni culturali “Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”. La norma demanda all’amministrazione di delimitare con intensità variabile, non predeterminata, le misure più idonee a preservare il valore ed il significato che il bene colturale rappresenta nel territorio nel quale è collocato. La giurisprudenza ha precisato che il vincolo indiretto concerne la c.d. cornice ambientale di un bene culturale (cfr. Cons. Stato, IV, 9 dicembre 1969, n. 722; VI, 18 aprile 2011, n. 2354). Ne deriva che non è il solo bene in sé – nel caso di specie il Castello del Catajo - a costituire oggetto della tutela, ma l’intero ambiente potenzialmente interagente con il valore culturale, che può richiedere una conservazione particolare. In questo senso il canone di verifica del corretto esercizio del potere deve avvenire secondo un criterio di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità. La giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 3 luglio 2012 n. 3893) ha già avuto modo di precisare che tali criteri sono tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell’esercizio del potere che deve essere congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto. Ai fini del presente giudizio – tenuto conto del particolare rilievo che assume l’area in cui si colloca il Castello, non solo per garantirne la vista, la conservazione e la tutela, ma quale componente del valore e del pregio storico dello stesso (vedasi il richiamo alla relazione tecnica del 2011 che segue) – deve ulteriormente osservarsi come la giurisprudenza abbia precisato che il vincolo indiretto può essere apposto per consentire di comprendere l’importanza dei luoghi in cui gli immobili tutelati dal vincolo diretto si inseriscono mediante la loro conservazione pressoché integrale (Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2493). Deve anche ricordarsi che la valutazione dell’amministrazione nell’ambito in discorso è per lo più insindacabile, se non sotto il profilo della congruità e della logicità della motivazione ed in particolare per difetto o manifesta illogicità della motivazione o errore di fatto (cfr. Cons. St., sez. IV, 22 giugno 2005, n. 3305; Cons. St., sez. VI, 22 agosto 2006, n. 4923; Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2006, n. 659). 3.1 – In base alla relazione tecnico scientifica allegata al provvedimento impugnato, il vincolo indiretto attiene ad un’area che costituisce “una cornice ambientale che si pone in una relazione visuale e prospettica inscindibile con il Castello e ne costituisce il contesto concorrendo a determinarne il carattere di eccezionalità” e “qualsiasi considerazione di carattere architettonico sui contenuti intrinseci e formali del Castello del Catajo deve necessariamente essere accompagnata dalla consapevolezza che una parte fondamentale del suo valore e del suo stesso significato è riconducibile alla relazione attiva che il complesso esprime nei confronti del territorio circostante”. In disparte ogni profilo attinente al merito della scelta, che resta insindacabile per il Giudice, la giustificazione del vincolo indiretto e la sua estensione ed incidenza (il vincolo è stato apposto per una estensione di circa km 3 e comporta l’inedificabilità assoluta delle aree) appaiono coerenti con la natura, le caratteristiche e le ragioni di tutela del bene monumentale al quale è funzionale, come innanzi anticipato. Invero, nella relazione tecnico scientifica del vincolo diretto del 2011, avente ad oggetto il Castello i giardini e le aree limitrofe, si legge che “il Castello appare legato da un rapporto inscindibile al sistema territoriale destinato ad accoglierlo, in quanto baricentro e fulcro di un impianto ordinatore tanto delle pendici dei Colli Euganei, a ovest, quanto delle dirette pertinenze agricole che si estendono lungo il versante pianeggiante orientale, caratterizzate dalla presenza dello straordinario incrocio idraulico tra il Canale Battaglia e il Canale Rialto e dal reticolo di strade e canalizzazioni che nel tempo hanno improntato la morfologia dell’intero paesaggio agrario”; con la conseguenza che il Castello si pone “quale fulcro e origine di tale sistema organico, unico nel suo genere”; con l’ulteriore considerazione che “le architetture e i giardini, che si inseriscono in un disegno del territorio molto ampio da cui prendono senso e ragioni, si raccordano alla campagna proprio grazie alla presenza degli affacci multipli della compagine edilizia, nella sua variegata complessità di relazioni e tracciati, capaci di creare più punti di vista privilegiati rispetto all’intorno circostante”. Le doglianze di parte appellante, suscettibili in astratto di un qualche margine di apprezzamento, devono essere valutate in concreto, avendo presente la peculiarità del Castello del Catajo, ovvero il fatto, ben evidenziato negli atti che ne hanno disposto la tutela, che il Castello è legato da un rapporto inscindibile con il territorio circostante; più precisamente, deve sottolinearsi che una parte del valore artistico ed architettonico del bene monumentale ed il suo significato storico sono stati, da ben prima nell’apposizione del vincolo indiretto impugnato, ricondotti anche alla relazione attiva che il Castello esprime nei confronti del territorio circostante; ciò vale a giustificare la particolare invasività della misura indiretta di tutela imposta. Invero, il provvedimento di tutela indiretta intende conservare i caratteri peculiari della cornice ambientale entro la quale il bene culturale è collocato, della quale vi è una puntuale descrizione nel provvedimento impugnato, mirando alla salvaguardia non solo delle direttrici prospettiche, che consentono di apprezzarne l’inserimento spaziale, ma anche dei molteplici coni visivi godibili dai punti di vista privilegiati del complesso architettonico, mirando a conservare le condizioni di prospettiva e di decoro storiche rispetto “al sistema territoriale di cui il Castello del Catajo risulta essere baricentro visivo e matrice costitutiva”. 3.2 – Alla luce di tali considerazioni, deve essere disatteso il quinto motivo di appello, con il quale la società contesta come sia stato utilizzato uno strumento di tutela di valori storico –artistici (vincolo indiretto) per finalità di tutela paesaggistica. Come già evidenziato, l’estensione del vincolo non trova giustificazione nell’esigenza di preservare i valori del contesto territoriale in sé considerato (pur in sé dotato di valore), bensì i valori che lo stesso esprime in funzione del bene culturale del Castello del Catajo e delle sue pertinenze, a cui è inscindibilmente correlato, come ben evidenziato dai passaggi delle relazioni tecniche innanzi richiamati. Non deve inoltre trascurarsi che l’estensione del vincolo, nel caso in esame, trova una logica spiegazione nell’imponenza e nell’ubicazione del complesso monumentale da tutelare, in quanto nel perimetro del vincolo diretto sono incluse anche la collina che fiancheggia il Castello e alcune aree agricole; pertanto, sussiste una logica congruenza tra l’ampia estensione del vincolo indiretto e l’ampia estensione del vincolo diretto da tutelare (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893). 3.3 – Le caratteristiche del bene sottoposto al vincolo diretto e la peculiarità del contesto sul quale si innesta il vincolo impugnato (già innanzi descritta) portano al superamento anche della prospettazione di parte appellante, secondo cui la tutela prevista dall’art. 45 del D.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 ammetterebbe una tutela della luce, della cornice e del decoro solo verso l’immobile oggetto di tutela diretta, ma non la salvaguardia degli scorci, degli equilibri prospettici e delle visuali godibili anche dall’immobile stesso. Al riguardo, la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare che i valori tutelati dalla norma citata hanno carattere ambivalente ed investono l’ambito territoriale interessato nel loro insieme in ragione della peculiarità dei beni da tutelare, con la conseguenza che il vincolo indiretto può essere apposto per consentire di comprendere l’importanza dei luoghi in cui gli immobili tutelati dal vincolo diretto si inseriscono mediante la loro conservazione pressoché integrale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2493). 3.4 – In definitiva, il contenuto del vincolo impugnato risulta in sintonia con le caratteristiche del bene monumentale al quale è funzionale. In altre parole, il potere concretamente esercitato dall’amministrazione, che come detto è espressione di discrezionalità tecnica, non appare irragionevole o illogico, trovando invece la propria giustificazione nell’esigenza conservativa determinata dal vincolo diretto, tenuto conto delle peculiarità dello specifico bene che viene in considerazione. A fronte delle approfondite valutazioni espresse nella relazione tecnico scientifica, le censure di difetto di istruttoria e di motivazione, riproposte in appello, sono pertanto palesemente inconsistenti e le valutazioni espresse al riguardo dall’appellante sconfinano in un inammissibile giudizio di merito. Del resto, l’amministrazione ha documentato la sussistenza di altri casi nel quale sono stati imposti vincoli indiretti che interessano vaste aree di territorio (a mero esempio: il decreto del 16 luglio 2013 relativo all’area di rispetto di Villa Cornaro di 18 Ha posti ad una distanza di circa 800 m dall’immobile oggetto di vincolo diretto; il decreto del 21 febbraio 2011 nel Comune di Teolo a tutela dell’area circostante l’Abbazia di Praglia per circa 150 Ha; il vincolo apposto in provincia di Brescia nei Comuni di Lonato del Garda e di Padenghe sul Garda con provvedimento del 2 luglio 2015, a tutela dell’area circostante l’Abbazia di Maguzzano per una superficie di oltre 1250 Ha). 3.5 – Quanto alla specifica posizione di parte appellante ed al contenuto della relazione del prof. Galfetti depositata in giudizio dalla società, deve essere in primo luogo ribadita l’insindacabilità del merito della valutazione operata dall’amministrazione. Da un altro punto di vista, nonostante l’effettiva presenza di manufatti nell’area interessata dal vincolo, deve rilevarsi come questi siano di dimensioni contenute, sicché, ad una visione globale dell’area, nonostante tali sporadiche costruzioni, questa appare comunque in gran parte inedificata e l’area dell’appellante si colloca di fronte al Castello da cui la divide il territorio agricolo delimitato dall’autostrada. Per altro, la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare che l’avvenuta edificazione di un’area non costituisce ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati, in quanto l’imposizione del vincolo comporta l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie proprio in funzione della conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso (cfr. Consiglio di Stato n. 3401 del 2012; n. 4196 del 2011). Ne deriva che gli elementi evidenziati dall’appellante non valgono affatto in modo univoco a dimostrare che l’inclusione dell’area in questione entro il perimetro del vincolo non sia necessaria, essendo invece ragionevole, alla luce delle considerazioni già svolte, il contrario, tanto è vero che la stessa parte appellante riferisce di aver progettato la realizzazione di una collina artificiale da frapporre tra il progettato centro commerciale ed il castello, implicitamente riconoscendo la sussistenza di una interferenza tra l’opera che si proponeva di realizzare e le esigenze di tutela del castello e della relativa area nel quale si colloca. Per le stesse ragioni, non appare determinante che l’amministrazione non abbia considerato l’opera viaria prevista dal Piano di assetto del territorio del Comune (la complanare all’autostrada A13), tenuto conto che, per quel che consta, tale opera, allo stato, è in una fase di programmazione non avanzata (non è stata neppure inserita nel Piano degli interventi). Del resto, ad ulteriore conferma dell’attendibilità tecnica della valutazione effettuata dall’amministrazione in riferimento specifico all’area di proprietà della società appellante, deve rilevarsi che: - il Comune di Due Carrare aveva già previsto nello strumento urbanistico del 1994 un’area classificata come D4 per rendere possibile l’insediamento di una struttura commerciale, ma tale previsione è stata stralciata dalla Regione perché la stessa “non riteneva la scelta comunale adeguatamente motivata in relazione all’impatto sul traffico viario e alla tutela visiva di edifici storici esistenti a circa un chilometro e mezzo di distanza”; - il Piano ambientale del Parco dei Colli Euganei del 1998 (che pur non comprende il territorio del Comune di Due Carrare e l’area dell’appellante) detta i criteri cui devono attenersi i Comuni nel redigere gli strumenti urbanistici, e in un’apposita scheda V intitolata “Catajo” afferma che “l’intera UP (unità di paesaggio) è polarizzata sul complesso della villa, e sul suo ruolo simbolico e fruitivo a livello territoriale” ed indica tra le relazioni da conservare quelle visive imponendo “l’esclusione di interventi che possano pregiudicare la fruibilità e l’efficienza”, prevedendo il divieto “della costruzione o dell’ampliamento di edifici, manufatti, barriere vegetali od elementi di arredo urbani o stradale che possano intercettarle o precluderle”, e specificando che tra le relazioni visive da conservare vi è il “fulcro visivo da grande distanza, con asse principale da est (innesto dall’autostrada)” costituito dal complesso della villa; - il Ministero dei beni e delle attività culturali, rispetto ad un progetto per la costruzione nella medesima area dell’appellante di un centro commerciale di più ridotte dimensioni di quello ora previsto, si era già espresso negativamente, come indicato dal parere della Provincia di Padova n. 54474 del 14 aprile 2014, con la seguente motivazione “impatto visivo estetico – visibilità – interruzione della relazione storico visiva con il paesaggio circostante e le emergenze monumentali” con espresso riferimento al sopra menzionato Piano ambientale del Parco dei Colli Euganei, osservando che il progetto “disattende le previsioni della scheda relativa al Catajo, che prevede la conservazione dell’asse principale ad est. Proprio per la presenza del patrimonio culturale e monumentale contermine a tutti gli effetti la struttura commerciale è stata progettata senza considerare l’ambito territoriale come un bersaglio sensibile…la soluzione progettuale proposta si pone quale elemento antropico intrusivo e dissonante all’interno dell’omogenea visione del quadro panoramico, incidendo negativamente sulla visuale del paesaggio che si percepisce dal castello del Catajo e dall’autostrada verso il Catajo…non si può ritenere trascurabile la visibilità della grande struttura vendita dal castello del Catajo e dall’autostrada verso il Catajo e l’incidenza della visibilità del centro commerciale in entrambe le direzioni prospettiche est-ovest”. 4 – Alla luce delle considerazioni che precedono, deve essere disattesa anche la censura con la quale l’appellante lamenta la violazione del principio di proporzionalità e l’ingiusto sacrificio imposto alla proprietà privata. Si è già osservato innanzi che il cd. vincolo indiretto non ha contenuto prescrittivo tipico, per essere rimessa all’autonomo apprezzamento dell’amministrazione la determinazione delle disposizioni utili all’ottimale protezione del bene principale, fino all’inedificabilità assoluta, se e nei limiti in cui tanto è richiesto dall’obiettivo di prevenire un vulnus ai valori oggetto di salvaguardia (cfr. Cons. St. n. 3663/2021). Ad un diverso esito non può pervenirsi nemmeno volendo prestare adesione alla prospettazione teorica di parte appellante, secondo cui proprio l’ampia gamma di strumenti che caratterizza le misure di tutela indirette implica che la loro concreta previsione debba avvenire solo a seguito del confronto tra i diversi interessi in gioco; in questo senso il principio di proporzionalità impone all’amministrazione di valutare l’intensità della misura di tutela non solo in funzione del valore culturale protetto, ma comparando le diverse misure adottabili anche con gli altri valori che possono esserne pregiudicati, non potendo l’amministrazione limitarsi, in virtù di una concezione totalizzante dell’interesse pubblico primario, ad affermarne la rilevanza assoluta, paralizzando con ciò ogni altra attività e sacrificando ogni altro interesse. Quale precipitato di tale impostazione, può ammettersi che l’applicazione del canone di proporzionalità possa anche implicare un parziale sacrificio dell’interesse pubblico primario per la parte non strettamente necessaria rispetto alla garanzia della tutela (propriamente intesa), in modo da consentire anche una ragionevole estrinsecazione (se del caso ridotta) dell’attività privata e della libertà di impresa del proprietario del bene (cfr. Cons. St. n. 3932/2015). 4.1 - Nel caso di specie, come anticipato, anche volendosi accogliere tale connotazione del principio di proporzionalità - non calibrato solo in una prospettiva interna, ovvero in funzione del bene da proteggere, ma estendendone la portata anche agli interessi esterni con i quali l’interesse primario di preservazione del bene culturale deve confrontarsi – la motivazione del provvedimento e gli atti allo stesso allegati resistono alla critica di parte appellante. Sul piano formale, deve rilevarsi che alla società è stata riconosciuta la facoltà di interloquire in sede procedimentale con l’amministrazione, avendo di fatto presentato le proprie osservazioni al fine di perorare le proprie ragioni proprietarie. Le controdeduzioni predisposte dalla Soprintendenza, seppure in modo sintetico, hanno preso posizione sulle obiezioni mosse dall’appellante. Per altro, al riguardo, giova ricordare che la pubblica amministrazione non è tenuta a confutare in maniera analitica ogni singolo punto, ma si può limitare ad una replica che faccia intendere le motivazioni del mancato accoglimento delle osservazioni del privato (ex multis, Cons. St., Sez. VI, 3 luglio 2014, n. 3355). In ogni caso, la motivazione del provvedimento - dando conto in maniera esaustiva delle componenti che contribuiscono a concretizzare il valore storico ed artistico del Castello, del quale, come detto, partecipa in modo determinante l’ambiente circostante, ed al quale, pertanto, deve conformarsi anche la misura indiretta di tutela al fine di poter assolvere alla precipua funzione alla stessa riconosciuta dall’ordinamento – vale anche a giustificare le caratteristiche e l’estensione del vincolo in rapporto al contrapposto interesse proprietario, che nel caso di specie non risulta ingiustamente sacrificato, rispondendo la sua pur intensa limitazione alla necessità di preservare il particolare bene culturale che viene in questione. Lo stesso provvedimento dà esplicitamente atto che “non appaiono percorribili prescrizioni alternative”. 4.2 - Inoltre, in punto di fatto, già il T.A.R. ha opportunamente evidenziato come il progetto dell’appellante non era prossimo alla sua attuazione, “in quanto necessitava ancora di plurime autorizzazioni ed era oggetto di un accordo di pianificazione con il Comune recepito da una variante al Piano degli interventi allo stato attuale solo adottata”. In altri termini, si trattava di un progetto che, seppur oggetto di un complessa e travagliata vicenda amministrativa e giudiziaria (ben descritta da parte appellante nel proprio ricorso), era sostanzialmente sempre rimasto sulla carta, essendo pacifico che alcun atto esecutivo di rilievo sia mai stato intrapreso (il PUA e i titoli edilizi già formati sono superati dalla nuova ipotesi progettuale formulata nel 2017, che non è ancora stata approvata, neppure sotto il profilo urbanistico). Al riguardo, giova inoltre richiamare la giurisprudenza secondo cui “in ogni tempo e pur quando via stata una pianificazione urbanistica (generale o attuativa) che consenta la modifica dello stato dei luoghi, e anche pur dopo che siano stati emanati i relativi titoli abilitativi, l'autorità statale può disporre il vincolo sull'area meritevole della dichiarazione di notevole interesse pubblico” (cfr. Cons. St. n. 118/2013). Oltretutto, come già ricordato, il progetto originario, benché di dimensioni inferiori, era già stato giudicato negativamente in sede di VIA dalla Provincia di Padova, anche sulla scorta di un parere contrario del Ministero dei Beni Culturali. Tali evidenze, anche ai fini di un corretto bilanciamento dei diversi interessi implicati nel procedimento che ha portato al vincolo, pur non eliminando la sussistenza dell’interesse proprietario, portano comunque a ridimensionarne la consistenza, ed a maggior ragione, indirettamente, a giustificarne il sacrificio. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenze 21 febbraio 2008 e 26 giugno 2007) ha chiarito che la classificazione di un’area come rilevante dal punto di vista culturale ed archeologico – ed il conseguente divieto di edificazione che venga eventualmente disposto senza indennizzo alcuno - trova giustificazione nella necessità di proteggere il patrimonio culturale ed archeologico - esso riguardando una collettività ben più vasta di quella che si trova nel territorio ove lo stesso materialmente ricade. Il parametro di riferimento all’interno della Convenzione europea è stato così individuato nella seconda parte dell’art.1 Prot.n.1, allorché viene richiamato il diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale. In definitiva, anche sotto il profilo della proporzionalità della misura al fine da perseguire, il vincolo impugnato appare giustificato da un corredo valutativo e motivazionale coerente ai principi innanzi richiamati ed al contesto specifico di riferimento. 5 – Con il quarto motivo, l’appellante contesta che il Mibac, nell’introdurre un così ampio e stringente vincolo indiretto, che si risolve nella inedificabilità di aree molto estese, ha omesso di considerarne la (diversa) programmazione urbanistica (senza, peraltro, che il Mibac fosse mai intervenuto in quelle sedi), così violando le prerogative del pianificatore. La censura è infondata, dovendo trovare conferma la statuizione di primo grado. Come già esposto, l’estensione del vincolo su una vasta area e l’esigenza di prescrizioni articolate e puntuali è stata dettata dalla necessità di preservare il contesto nel quale si colloca il bene monumentale, il cui è pregio è intimamente legato a quello del territorio che lo circonda. La collocazione dello stesso ha comportato la necessità di intervenire su un’area che interessa il territorio di tre Comuni e che include anche aree disomogenee, alcune con la presenza di edifici ed infrastrutture, che necessitano pertanto di prescrizioni specifiche e differenziate. Tali prescrizioni sono espressione del potere di salvaguardia previsto dall’art. 45 del D.lgs. 22 gennaio 2004, senza indebite sovrapposizioni con il contenuto proprio della pianificazione urbanistica di competenza dell’ente locale. Invero, le valutazioni volte alla tutela storico artistica, tra le quali è compreso il vincolo indiretto, operano su di un piano differente, esterno e sovraordinato rispetto a quello urbanistico, come si desume chiaramente dall’art. 45 comma 2 del D.lgs. 22 gennaio 2004, secondo il quale gli enti pubblici territoriali recepiscono le prescrizioni nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici. La giurisprudenza con riferimento al rapporto tra tutela dei valori culturali e paesaggistici e pianificazione urbanistica, sulla base dell’art. 9 Cost., ha affermato la prevalenza dell’impronta unitaria della tutela culturale e paesaggistica sulle determinazioni urbanistiche, pur nella necessaria considerazione della compresenza degli interessi pubblici intestati alle due funzioni (cfr. Corte Cost. n. 180 e n. 437 del 2008; n. 367 del 2007). 5.1 - Per le stesse ragioni, deve anche essere disatteso il sesto motivo di appello; infatti, non può costituire un vizio di legittimità il fatto che il vincolo è stato apposto a ridosso del momento dell’approvazione da parte del Consiglio comunale del Comune di Due Carrare dell’accordo pianificatorio necessario a consentire l’edificazione sull’area di parte appellante, dal momento che l’esercizio del potere che viene in considerazione in questa sede non risulta subordinato o condizionato dal potere che l’ente locale esercita in ambito urbanistico. Al riguardo, la Corte Costituzionale (sentenza n. 276/2020), in un caso assimilabile, ha chiarito che all’obiettivo di tutelare valori costituzionali primari “non può all'evidenza opporsi l'eventuale approvazione di un progetto di trasformazione edilizia, che, ove realizzata, metterebbe a repentaglio il pregio ambientale dell'area e si porrebbe quindi in contraddizione con l'avvenuto riconoscimento del suo valore. L'aspettativa edificatoria dei privati non può dunque essere considerata un elemento idoneo a impedire il pieno esplicarsi della tutela del bene riconosciuto di valore ambientale”. 6 - La conferma della legittimità del provvedimento impugnato comporta il rigetto anche della domanda risarcitoria. Le spese di lite, vista la complessità della controversia, possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello e compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Andrea Pannone, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Paesaggio – Tutela - Vincolo indiretto - Tutela del Castello del Catajo – Legittimità.  ​​​​​​​         E’ legittimo il ricorso allo strumento di tutela di valori storico –artistici (vincolo indiretto) per finalità di tutela paesaggistica; l’estensione del vincolo non trova giustificazione nell’esigenza di preservare i valori del contesto territoriale in sé considerato (pur in sé dotato di valore), bensì i valori che lo stesso esprime in funzione del bene culturale del Castello del Catajo e delle sue pertinenze, a cui è inscindibilmente correlato, come ben evidenziato dai passaggi delle relazioni tecniche innanzi richiamati; non deve inoltre trascurarsi che l’estensione del vincolo trova una logica spiegazione nell’imponenza e nell’ubicazione del complesso monumentale da tutelare, in quanto nel perimetro del vincolo diretto sono incluse anche la collina che fiancheggia il Castello e alcune aree agricole; pertanto, sussiste una logica congruenza tra l’ampia estensione del vincolo indiretto e l’ampia estensione del vincolo diretto da tutelare (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che ai sensi dell’art. 45 del Codice dei beni culturali “Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”. La norma demanda all’amministrazione di delimitare con intensità variabile, non predeterminata, le misure più idonee a preservare il valore ed il significato che il bene colturale rappresenta nel territorio nel quale è collocato.  La giurisprudenza ha precisato che il vincolo indiretto concerne la c.d. cornice ambientale di un bene culturale (Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 1969, n. 722; id., sez. VI, 18 aprile 2011, n. 2354). Ne deriva che non è il solo bene in sé – nel caso di specie il Castello del Catajo - a costituire oggetto della tutela, ma l’intero ambiente potenzialmente interagente con il valore culturale, che può richiedere una conservazione particolare. In questo senso il canone di verifica del corretto esercizio del potere deve avvenire secondo un criterio di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità.  La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 3 luglio 2012, n. 3893) ha già avuto modo di precisare che tali criteri sono tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell’esercizio del potere che deve essere congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto.  Ha aggiunto la Sezione che, tenuto conto del particolare rilievo che assume l’area in cui si colloca il Castello, non solo per garantirne la vista, la conservazione e la tutela, ma quale componente del valore e del pregio storico dello stesso (vedasi il richiamo alla relazione tecnica del 2011 che segue), la giurisprudenza ha precisato che il vincolo indiretto può essere apposto per consentire di comprendere l’importanza dei luoghi in cui gli immobili tutelati dal vincolo diretto si inseriscono mediante la loro conservazione pressoché integrale (Cons.Stato, sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2493).  Deve anche ricordarsi che la valutazione dell’amministrazione nell’ambito in discorso è per lo più insindacabile, se non sotto il profilo della congruità e della logicità della motivazione ed in particolare per difetto o manifesta illogicità della motivazione o errore di fatto (Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2005, n. 3305; id., sez. VI, 22 agosto 2006, n. 4923; id., sez. IV, 9 febbraio 2006, n. 659).  In base alla relazione tecnico scientifica allegata al provvedimento impugnato, il vincolo indiretto attiene ad un’area che costituisce “una cornice ambientale che si pone in una relazione visuale e prospettica inscindibile con il Castello e ne costituisce il contesto concorrendo a determinarne il carattere di eccezionalità” e “qualsiasi considerazione di carattere architettonico sui contenuti intrinseci e formali del Castello del Catajo deve necessariamente essere accompagnata dalla consapevolezza che una parte fondamentale del suo valore e del suo stesso significato è riconducibile alla relazione attiva che il complesso esprime nei confronti del territorio circostante”.   In disparte ogni profilo attinente al merito della scelta, che resta insindacabile per il Giudice, la giustificazione del vincolo indiretto e la sua estensione ed incidenza (il vincolo è stato apposto per una estensione di circa km 3 e comporta l’inedificabilità assoluta delle aree) appaiono coerenti con la natura, le caratteristiche e le ragioni di tutela del bene monumentale al quale è funzionale, come innanzi anticipato.   Invero, nella relazione tecnico scientifica del vincolo diretto del 2011, avente ad oggetto il Castello i giardini e le aree limitrofe, si legge che “il Castello appare legato da un rapporto inscindibile al sistema territoriale destinato ad accoglierlo, in quanto baricentro e fulcro di un impianto ordinatore tanto delle pendici dei Colli Euganei, a ovest, quanto delle dirette pertinenze agricole che si estendono lungo il versante pianeggiante orientale, caratterizzate dalla presenza dello straordinario incrocio idraulico tra il Canale Battaglia e il Canale Rialto e dal reticolo di strade e canalizzazioni che nel tempo hanno improntato la morfologia dell’intero paesaggio agrario”; con la conseguenza che il Castello si pone “quale fulcro e origine di tale sistema organico, unico nel suo genere”; con l’ulteriore considerazione che “le architetture e i giardini, che si inseriscono in un disegno del territorio molto ampio da cui prendono senso e ragioni, si raccordano alla campagna proprio grazie alla presenza degli affacci multipli della compagine edilizia, nella sua variegata complessità di relazioni e tracciati, capaci di creare più punti di vista privilegiati rispetto all’intorno circostante”. 
Paesaggio
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/scelta-della-amministrazione-non-statale-con-patrocinio-c.d.-facoltativo-dell-avvocatura-dello-stato-di-avvalersi-dell-avvocato-del-libero-foro-motivi
Scelta della Amministrazione non statale con patrocinio c.d. facoltativo dell’Avvocatura dello Stato di avvalersi dell’avvocato del libero foro – Motivi aggiunti in appello - Assunzione di dirigenti medici del servizio sanitario nazionale
N. 06366/2020REG.PROV.COLL. N. 02544/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2544 del 2020, proposto dall’Azienda Ospedaliero Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Vito Aurelio Pappalepore e Raffaella Travi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Rosalba Buquicchio, rappresentato e difeso dall'avvocato Emilio Vito Poli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Gianpaolo Ruggiero in Roma, via Antonio Gramsci, 24;Antonella Contaldo, rappresentata e difesa dall’Avv. Mariano Alteri con domicilio digitale all’indirizzo alterio.mariano@avvocatibari.legalmail.it nei confronti Romita Paolo, Pacello Lucia, Carpentieri Antonio, Filoni Angela non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Prima) n. 322/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Rosalba Buquicchio; Visto l'atto di costituzione in giudizio di ed il ricorso incidentale proposto dal ricorrente incidentale Contaldo Antonella; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 ottobre 2020 il Cons. Giovanni Tulumello e vista l’istanza congiunta delle parti di passaggio in decisione della causa senza discussione orale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza n. 322/2020, pubblicata il 27 febbraio 2020, il T.A.R. Puglia, sede di Bari, ha accolto il ricorso proposto dalla dottoressa Rosalba Buquicchio, contro la delibera dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari in data 28 novembre 2019 n.1692 avente ad oggetto l’approvazione degli atti e nomina dei vincitori della procedura concorsuale indetta con “avviso pubblico” del 1° agosto 2019, finalizzata all’assunzione a tempo determinato di tre dirigenti medici per le discipline di reumatologia, dermatologia e gastroenterologia, relativamente alla graduatoria di merito concernente la disciplina medica di dermatologia. Con ricorso in appello notificato e depositato il 16 marzo 2020, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari ha impugnato l’indicata sentenza. Si sono costituiti in giudizio, per resistere al ricorso, la ricorrente in primo grado e la controinteressata Antonella Contaldo, che nella procedura per cui è causa era risultata vincitrice per la disciplina di gastroenterologia; quest’ultima ha proposto altresì appello incidentale. In data 10 luglio 2020 l’appellata Rosalba Buquicchio ha proposto motivi nuovi in appello, ai sensi dell’art. 104, comma 3, cod. proc. amm. La domanda di sospensione cautelare degli effetti della sentenza impugnata, proposta dalla parte appellante, è stata parzialmente accolta, con riferimento all’incarico di gastroenterologia, con decreto n. 1536/2020, e con successiva ordinanza n. 2380/2020 anche per l’incarico di reumatologia (residuando dunque gli effetti della sentenza per il solo incarico di dermatologia, oggetto del ricorso proposto in primo grado dall’odierna appellata). Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione all’udienza del 15 ottobre 2020. 2. La sentenza impugnata ha esaminato con priorità, ritenendolo fondato, e dichiarando assorbite le ulteriori censure, il secondo motivo di ricorso, con il quale si contestava la previsione della sola prova orale, oltre alla valutazione dei titoli, in violazione del principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi. Ha osservato in proposito il T.A.R. che “la selezione dei partecipanti a procedure per l’ammissione ai ruoli medici avviene mediante concorso per titoli ed esami. La norma di riferimento è l’art. 26 del D.P.R. n. 483/1997, che prevede espressamente per tali selezioni prova scritta, prova pratica e prova orale. Deve sul punto osservarsi, in particolare, che il D.P.R. n. 483/1997 non consente deroghe di alcun tipo quanto a numero e tipologia di prove, anche quando la procedura, come nella fattispecie in esame, sia finalizzata alla costituzione di un rapporto d’impiego a tempo determinato. A sua volta l’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, riguardante proprio le assunzioni a tempo determinato e le altre forme di lavoro “flessibile”, stabilisce che tali assunzioni devono comunque avvenire con le “modalità di reclutamento stabilite dall'articolo 35” dello stesso Decreto Legislativo n. 165/2001. Al contrario, la procedura gestita dall’Azienda Ospedaliero - Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, poiché non rispondente all’unica tipologia ammessa e prevista dal d.P.R. n. 483/1997, oltre a violarne le prescrizioni, ha dato luogo ad un “ibrido” procedimentale manifestamente contrastante con il principio di tipicità degli atti e provvedimenti amministrativi”. 3. Con il primo motivo di appello l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Consorziale Policlinico di Bari critica la sentenza impugnata in relazione all’individuazione del paradigma normativo della fattispecie: assumendo che l’art. 26 del d.P.R. n. 483/1997 (che prevede prova scritta, prova pratica e prova orale) regola l’immissione nel primo livello dirigenziale del ruolo sanitario, laddove nel caso di specie si trattava della selezione di tre dirigenti medici da assumere con contratto di lavoro a tempo determinato, non soggetto alla richiamata disciplina. Con il secondo motivo l’appellante contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che il richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 483/1997, relativo alla valutazione dei titoli e alla selezione della dirigenza medica, avrebbe “dato luogo ad un “ibrido” procedimentale manifestamente contrastante con il principio di tipicità degli atti e provvedimenti amministrativi”. Infine, con il terzo motivo, il ricorso in appello lamenta che la sentenza gravata, in violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, abbia annullato gli atti di tutte e tre le procedure (relative agli incarichi di Reumatologia, Gastroenterologia e Dermatologia e Venerologia), e non soltanto quella relativa alla Dermatologia, alla quale aveva partecipato la ricorrente di primo grado. 4. La dottoressa Antonella Contaldo, che – come accennato - nella procedura per cui è causa era risultata vincitrice per la disciplina di gastroenterologia, nel suo gravame incidentale ha denunciato, nel primo motivo, il vizio di ultrapetizione e di violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, per il fatto che il T.A.R. ha annullato anche gli atti della procedura relativi a specialità non di interesse della ricorrente (analogamente a quanto dedotto nel terzo motivo dell’appello principale dell’ Azienda Ospedaliera); e, nel secondo motivo, l’erroneità e all’ingiustizia nel merito della sentenza gravata in punto di individuazione della disciplina della fattispecie, con una censura sostanzialmente analoga a quella dedotta nel primo motivo dell’appello principale dell’Azienda. Con memoria depositata il 4 maggio 2020 la dottoressa Buquicchio ha eccepito l’inammissibilità dell’appello incidentale per nullità della procura, ed ha comunque resistito alla censura di ultrapetizione, sostenendo che correttamente il primo giudice avrebbe annullato gli atti di tutte e tre le procedure concorsuali, ancorché l’interesse della ricorrente si radicasse solo su una di esse, trattandosi dell’accertamento di un vizio che travolge l’intera procedura, invocando a sostegno la sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 5 del 2019. Ha replicato con successiva memoria del 22 settembre 2020 l’appellante incidentale, sostenendo la diversità fra la fattispecie esaminata dalla Plenaria e quella oggetto dell’odierno giudizio, e domandando al Collegio, qualora ritenesse fondata l’eccezione di nullità della procura, la fissazione di un termine ai sensi dell’art. 182, comma 2 cod. proc. civ. per la sanatoria di tale vizio, citando in proposito la sentenza di questa Sezione n. 2606/2018. 5. Con memoria depositata il 2 maggio 2020, l’appellata Rosalba Buquicchio ha riproposto – oltre alla censura oggetto della sentenza gravata - i motivi del ricorso di primo grado non esaminati dalla senza impugnata, che li ha dichiarati assorbiti, concernenti: 1) composizione e modalità di nomina della commissione esaminatrice; 2) valutazione dei titoli, quanto a previsioni di bando e operazioni svolte dalla commissione; 3) mancato espletamento di taluni adempimenti prodromici alla prova orale. A tali censure ha replicato l’Azienda nella memoria depositata il 4 maggio 2020: deducendo preliminarmente che “i precedenti motivi di doglianza sono stati ritenuti (sostanzialmente) infondati; con la conseguenza che la riproposizione di detti motivi di censura in sede d’appello necessitavano di appello incidentale. Peraltro, la memoria della Buquicchio non risulta nemmeno notificata e, pertanto, non può nemmeno farsi applicazione dei principi generali in tema di raggiungimento dello scopo e/o di conversione dell’azione, sicchè l’avversa sortita merita di essere disattesa anzitutto in rito, appunto per mancanza di appello incidentale”. Anche la controinteressata Antonella Contaldo nella memoria depositata il 5 maggio 2020 ha dedotto che “parte appellata nella memoria depositata il 2.5.2020 ha riproposto pedissequamente i motivi di primo grado, compresi quelli assorbiti, senza aver notificato appello incidentale”. 6. Il 10 luglio 2020 l’appellata Rosalba Buquicchio ha depositato in giudizio “Motivi nuovi in appello ex art. 104, terzo comma, c.p.a.”. Con tale atto la parte ha, espressamente, riproposto “per massimo di cautela”, i motivi (integrati) del ricorso di primo grado dichiarati assorbiti (già riproposti con la richiamata memoria del 2 maggio 2020), chiedendo altresì la “graduazione dei motivi di primo grado”, vale a dire l’esame prioritario del terzo motivo del ricorso di primo grado, relativo alla valutazione dei titoli per l’incarico di dermatologia, e precisando, che “se il terzo motivo sarà integralmente accolto, con affermazione anche implicita del diritto della Dr.ssa Buquicchio al primo posto in graduatoria, ben potrà codesto Consiglio di Stato esimersi dall’esaminare gli altri due motivi di primo grado”. Con memoria depositata il 22 settembre 2020 l’appellante incidentale Antonella Contaldo ha eccepito l’inammissibilità di tale mezzo perché notificato ben oltre il termine ordinario di impugnazione dei provvedimenti amministrativi, e proposto solo in secondo grado. 7. Con memoria depositata il 12 settembre 2020 sempre l’appellata Buquicchio ha eccepito l’inammissibilità dell’appello dell’Azienda per pretesa nullità della procura ad litem rilasciata ai suoi difensori, ed ha ribadito l’analoga eccezione già sollevata con riferimento all’appellante incidentale. L’Azienda ha replicato con memoria del 24 settembre 2020 nel senso dell’infondatezza dell’eccezione, e domandando comunque un termine per la sanatoria ai sensi dell’art. 182, comma 2, cod. proc. civ., chiedendo il deferimento all’Adunanza Plenaria della questione inerente l’applicabilità di tale disposizione al processo amministrativo d’appello, in ragione dell’esistenza di un precedente contrario di questo Consiglio di Stato (sezione VI, sentenza n. 2922/2020). 8. Con successiva memoria del 23 settembre 2020 la difesa della dottoressa Buquicchio: - ha contestato la sanabilità nel giudizio di appello della nullità della procura ex art. 182 c.p.c., invocando in proposito la sentenza della VI Sezione di questo Consiglio di Stato n. 2922/2019, ed assumendo che la sentenza n. 2606/2018 avesse un diverso oggetto; - ha contestato l’interesse della controinteressata Contaldo ad eccepire l’inammissibilità dei motivi nuovi in appello, “atteso che le nostre (ulteriori) contestazioni hanno riguardato la graduatoria stilata per la dermatologia, laddove la Dr.ssa Contaldo partecipò per la gastroenterologia”, e ne ha comunque dedotto l’infondatezza per difetto di prova, affermando che l’onere di dimostrare la tardività del gravame incombe su chi lo eccepisce; - ha chiesto dichiararsi tardiva la memoria di replica della controinteressata Contaldo del 22 settembre 2020. 9. Con note di udienza depositate il 6 ottobre 2020 i procuratori delle parti hanno chiesto il passaggio in decisione del ricorso in appello e dei ricorsi connessi, senza discussione e con riserva di presentazione di note difensive. I ricorsi sono stati trattenuti in decisione all’udienza del 15 ottobre 2020. 10. Nell’ordine di esame delle questioni devono essere prioritariamente scrutinate le eccezioni relative alla validità delle rispettive procure ad litem delle parti appellanti. 10.1 Quanto all’appellante principale l’eccezione, sul presupposto che nella fattispecie l’Azienda soggiace al patrocinio c.d. autorizzato dell’Avvocatura dello Stato, deduce la nullità della procura perché la delibera del Direttore Generale che officia l’avv. Pappalepore (del libero foro) e l’avv. Travi (dell’ufficio legale interno) “non esprime le ragioni per le quali l’Azienda non intese avvalersi dell’Avvocatura di Stato”. L’eccezione è infondata. In astratto è corretta la premessa normativa relativa all’affermazione per cui l’Azienda appellante, quale Policlinico Universitario, soggiace al c.d. il patrocinio c.d. autorizzato (o facoltativo) dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 43 (come modificato dall’art. 11 della legge 3 aprile 1979 n. 103) e 45 r.d. n. 1611 del 1933 (in questo senso, anche in merito alla equiparazione fra patrocinio delle Università e dei Policlinici universitari, oltre alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 2825/2018, anche la sentenza di questo Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 2556/2020). Proprio la richiamata giurisprudenza precisa che fra le conseguenze di tale inquadramento normativo vi è l’ “esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera” (così la sentenza n. 2556/2020 della VI Sezione). Nel caso di specie l’appellante principale ha depositato in giudizio, il 16 marzo 2020, la deliberazione n. 404 dell’11 marzo 2020 con la quale il Direttore Generale dell’Azienda appellante ha conferito l’incarico di difesa nel presente giudizio agli avvocati Raffaella Travi e Vito Aurelio Pappalepore, così non avvalendosi del patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dello Stato. L’appellata ritiene tale delibera insufficiente allo scopo, perché a suo dire non sufficientemente motivata in merito alle ragioni che hanno indotto l’Azienda a non avvalersi di tale patrocinio. Ritiene tuttavia il Collegio che la rispondenza di tale provvedimento allo standard motivatorio legale non possa essere sindacata incidentalmente, in sede di esame di verifica della validità della procura, trattandosi di provvedimento che, ove non ritualmente impugnato, deve ritenersi valido ed efficace sul piano della costituzione dei relativi effetti dispositivi. 10.2. L’appellata Buquicchio ha altresì eccepito, nella memoria depositata il 4 maggio 2020, la nullità della procura rilasciata al difensore dalla dottoressa Contaldo in quanto “priva degli elementi di specialità richiesti dall’art.40 c.p.a., non recando indicazione dell'autorità giudiziaria adita, dell’oggetto del ricorso, dell’atto da impugnarsi e delle parti contendenti”. In argomento osserva il Collegio che la procura in questione è stata rilasciata in calce all’appello incidentale (come riportato – e non contestato - nell’epigrafe dello stesso), e comunque depositata in allegato allo stesso in formato digitale. Conseguentemente, gli elementi cui la stessa si riferisce sono evincibili mediante rinvio all’atto difensivo in calce al quale è stata redatta e sottoscritta. 10.3. L’infondatezza delle eccezioni rende a sua volta irrilevante le relative istanze di rimessione all’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato sulla sanatoria della nullità della procura. 11. L’individuazione dell’ordine di esame dei motivi di gravame suppone uno scrutinio dell’interesse dell’appellata, ricorrente in primo grado. La dottoressa Buquicchio nel ricorso di primo grado ha proposto come primo motivo una censura (relativa alla composizione della Commissione esaminatrice) tendente ad invalidare l’intera procedura. Siffatto interesse è stato ribadito in sede di replica ai motivi di appello (sia principale che incidentale) che censurano il vizio di ultrapetizione da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata, per avere travolto non soltanto la procedura relativa alla selezione di un dermatologo (cui era interessata la dottoressa Buquicchio), ma anche quelle relative alla selezione di un reumatologo e di un gastroenterologo: laddove l’appellata ha resistito a tali mezzi insistendo per la conferma, anche sotto questo profilo, della sentenza del T.A.R.. Nondimeno, con atto depositato il 10 luglio 2020 la difesa della dottoressa Buquicchio ha chiesto una diversa “graduazione dei motivi di primo grado”, vale a dire l’esame prioritario del terzo motivo del ricorso di primo grado, relativo alla valutazione dei titoli per l’incarico di dermatologia, precisando, che “se il terzo motivo sarà integralmente accolto, con affermazione anche implicita del diritto della Dr.ssa Buquicchio al primo posto in graduatoria, ben potrà codesto Consiglio di Stato esimersi dall’esaminare gli altri due motivi di primo grado”. In disparte il profilo dell’ammissibilità di tale mezzo (che sarà trattato infra), tale condotta processuale integra un venire contra factum proprium che costituisce abuso dello strumento processuale (in argomento si rinvia alla sentenza di questa Sezione n. 4089/2020), sicché nel presente giudizio deve essere esaminata prioritariamente la censura graduata come prima dall’appellante principale, relativa a vizio suscettibile di travolgere l’intera procedura (sulla priorità logica del criterio della c.d. radicalità del vizio Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 358/2016), e dunque prioritaria anche nella prospettazione originaria della parte appellata (sull’ordine di esame dei motivi nel giudizio di appello, successivamente alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 5/2015, si veda altresì la sentenza di questa Sezione n. 4211/2015). 12. Il primo motivo dell’appello principale contesta la sentenza impugnata, come ricordato, in relazione al profilo della qualificazione giuridica della fattispecie e alla conseguente individuazione del relativo regime. La selezione per cui è causa era relativa all’assunzione a tempo determinato per la durata di un anno. In particolare, l’avviso pubblico di selezione – “finalizzato al conferimento di n. 3 incarichi a tempo determinato della durata di 1 anno, in favore di n. 3 Dirigenti Medici, di cui n. 1 con specializzazione in Reumatologia, n. 1 Dermatologia e Venereologia, n. 1 Gastroenterologia, nell’ambito del Progetto di rilevanza regionale “Ambulatorio condiviso CROSS” nell’ambito del finanziamento” Percorso diagnostico terapeutico condiviso e personalizzato per i pazienti con multi cronicità”, di cui all’ Accordo Stato-regioni atti n. 150 del 01.08.2018” – pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 93 del 14 agosto 2019, stabiliva, all’art. 5, che “La selezione dei candidati ammessi è finalizzata a formulare una graduatoria di merito sulla base dei punteggi attribuiti per i titoli e per il colloquio, ai sensi del D.P.R. n. 483/1997, con esclusione di quanto previsto per le prove scritta e pratica”, e che “I titoli saranno valutati in base a quanto stabilito nel D.P.R. n. 483/97”. Il problema di fondo è se il rinvio al d.P.R. 483/1997 operato dall’Avviso potesse legittimamente consentire essere parziale (quoad aestimationem: ai soli fini dell’applicazione dei criteri normativi di valutazione dei titoli), con esclusione della prova scritta e della prova pratica. Il Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, approvato con d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483, è attuativo della previsione di rango primario contenuta nell’art. 18, primo comma, del d. lsg. 30 dicembre 1992, n. 502: “Il Governo, con atto regolamentare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, adegua la vigente disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle norme contenute nel presente decreto ed alle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabili, prevedendo: a) i requisiti specifici, compresi i limiti di età, per l'ammissione; b) i titoli valutabili ed i criteri di loro valutazione; c) le prove di esame; d) la composizione delle commissioni esaminatrici; e) le procedure concorsuali; f) le modalità di nomina dei vincitori; g) le modalità ed i tempi di utilizzazione delle graduatorie degli idonei”. Tale disposizione regola l’accesso alla dirigenza medica sanitaria, secondo la disciplina del personale medico del servizio sanitario nazionale recata dal Titolo V del d. lgs. 502/1992. Il richiamato Titolo V disciplina la dirigenza sanitaria “collocata in un unico ruolo” (art. 15, comma1): laddove il riferimento al ruolo, unitamente ai plurimi contenuti incompatibili con un diverso significato rinvenibili nell’intero articolato normativo, hanno riguardo a dirigenti medici in servizio a tempo indeterminato. Conseguentemente, laddove il successivo comma 7 del citato art. 15 - parametro invocato dalla ricorrente in primo grado nel motivo d’impugnazione accolto dal T.A.R. - stabilisce che “Alla dirigenza sanitaria si accede mediante concorso pubblico per titoli ed esami, disciplinato ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483 ivi compresa la possibilità di accesso con una specializzazione in disciplina affine. (….)”, si riferisce (implicitamente, ma – ad un’interpretazione letterale e sistematica - inequivocamente) alla tipologia di accesso alla dirigenza disciplinata dal medesimo articolo 15 (cui il successivo art. 18 ha riguardo nel rinvio alla fonte regolamentare per le modalità di svolgimento delle relative selezioni). Nondimeno, il legislatore nel corpo del medesimo articolato normativo ha distinto diverse tipologie (e relativi regimi) di incarichi: prevedendo – agli artt. 15–septies e 15–octies – forme di assunzione a tempo determinato. Come ricordato, ad esempio, in materia di stabilizzazione da questo Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza n. 426/2018), “i dirigenti assimilabili a quelli previsti dall'art. 19, comma 6, D.Lgs. n. 165 del 2001 sono solo quelli contemplati dall'art. 15-septies, comma 1, D.Lgs. n. 502 del 1992 e non anche quelli di cui all'art. 15-septies, comma 2 (né, tanto meno, quelli di cui al successivo art. 15-octies)”. Ne deriva che la complessiva trama normativa in esame, frutto peraltro di significativi interventi anche successivi all’originario disegno, contempla, accanto all’ipotesi (principale) di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti sanitari, soggetta all’ordinaria disciplina, anche ipotesi di assunzioni a tempo determinato assistite da minori garanzie, ma nel contempo affidate ad un regime di più agile costituzione del rapporto. Oltre alle ipotesi di cui all’art. 15-septies, richiamate dall’arresto da ultimo citato, l’art. 15-octies (inserito dall'art. 13, comma 1, D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229) del d. lgs. 502/1992 prevede che “Per l'attuazione di progetti finalizzati, non sostitutivi dell'attività ordinaria, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere possono, nei limiti delle risorse di cui all'articolo 1, comma 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tal fine disponibili, assumere con contratti di diritto privato a tempo determinato soggetti in possesso di diploma di laurea ovvero di diploma universitario, di diploma di scuola secondaria di secondo grado o di titolo di abilitazione professionale, nonché di abilitazione all'esercizio della professione, ove prevista”. Tale disposizione non prevede – a differenza di quelle precedentemente esaminate – il rinvio alle forme di selezione disciplinate dal Regolamento di cui al d.P.R. n. 483/1997. 13. La procedura in esame concerne un incarico temporaneo che afferisce ad un progetto specifico (l’Accordo Stato Regione rep. N. 150/CSR del 1° Agosto 2018, per l’utilizzo, da parte delle Regioni, delle risorse vincolate ai sensi dell’art. 1, comma 34 e 34 bis della legge 23 dicembre 1996, n. 662). La sistematica del Titolo V, che pur sconta i segnalati limiti di coordinamento, nondimeno è sufficientemente chiara nel perimetrare la diversità di presupposti e di caratteri delle forme di lavoro diverse da quella in ruolo, prevedendo per esse regimi evidentemente funzionali alle peculiarità degli stessi. La tipologia contrattuale in esame afferisce pertanto all’ambito categoriale disciplinato dall’art. 15-octies del d. lgs. 502/1992. Non può pertanto essere condivisa l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale “la procedura gestita dall’Azienda Ospedaliero - Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, poiché non rispondente all’unica tipologia ammessa e prevista dal d.P.R. n. 483/1997, oltre a violarne le prescrizioni, ha dato luogo ad un “ibrido” procedimentale manifestamente contrastante con il principio di tipicità degli atti e provvedimenti amministrativi”. L’ “unica tipologia ammessa e prevista dal d.P.R. n. 483/1997” è infatti tale solo con riferimento all’assunzione a tempo indeterminato dei dirigenti medici: giacché l’art. 18 del d. lgs. 502/1992 – in attuazione del quale è stato emanato il regolamento adottato con il d.P.R. 483/1997 - si riferisce, per le ragioni sopra esposte, alla forma principale, ma non esclusiva, di selezione della dirigenza medica del servizio sanitario nazionale. Ne consegue che in assenza di tale vincolo l’Azienda appellante legittimamente ha mutuato una parte della disciplina regolamentare in esame, escludendone un’altra parte, proprio in considerazione della natura giuridica dell’incarico e delle relative esigenze connesse alla selezione. 14. L’appellata Buquicchio nella memoria depositata il 4 maggio 2020 sostiene, in contrario, che eventuali deroghe rispetto alla – piena – applicazione del regolamento di cui al d.P.R. 483/1997 devono essere comunque espressamente stabilite dal legislatore, ed invoca in tal senso la legislazione emergenziale emanata per fronteggiare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione della malattia da SARS-Cov2 (in particolare, “art.2, comma 2, d.L. 9 marzo 2020, n.14; art.2 - ter d.L. 17 marzo 2020, n.18 come introdotto con la legge di conversione 24 aprile 2020, n.27”). Il richiamo all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 9 marzo 2020, n. 14 non è rilevante neppure quale tertium comparationis, in quanto tale provvedimento è stato abrogato dall'art. 1, comma 2, della legge 24 aprile 2020, n. 27, a decorrere dal 30 aprile 2020. L’art. 2-ter del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (introdotto dalle legge di conversione 24 aprile 2020, n. 27), ai commi 1 e 2 stabilisce invece che: “1. Al fine di garantire l'erogazione delle prestazioni di assistenza sanitaria anche in ragione delle esigenze straordinarie ed urgenti derivanti dalla diffusione del COVID-19, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, verificata l'impossibilità di utilizzare personale già in servizio nonché di ricorrere agli idonei collocati in graduatorie concorsuali in vigore, possono, durante la vigenza dello stato di emergenza di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020, conferire incarichi individuali a tempo determinato, previo avviso pubblico, al personale delle professioni sanitarie e agli operatori socio-sanitari di cui all'articolo 2-bis, comma 1, lettera a). 2. Gli incarichi di cui al presente articolo sono conferiti previa selezione, per titoli o colloquio orale o per titoli e colloquio orale, attraverso procedure comparative che prevedono forme di pubblicità semplificata, quali la pubblicazione dell'avviso solo nel sito internet dell'azienda che lo bandisce e per una durata minima di cinque giorni, hanno la durata di un anno e non sono rinnovabili. I predetti incarichi, qualora necessario, possono essere conferiti anche in deroga, limitatamente alla spesa gravante sull'esercizio 2020, ai vincoli previsti dalla legislazione vigente in materia di spesa di personale, nei limiti delle risorse complessivamente indicate per ciascuna regione con decreto del Ragioniere generale dello Stato 10 marzo 2020, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 66 del 13 marzo 2020. Per la spesa relativa all'esercizio 2021 si provvede nei limiti previsti dalla legislazione vigente in materia di spesa di personale”. Si tratta [come chiarisce il primo comma, lett. a), del precedente art. 2-bis] di una ipotesi speciale di autorizzazione alla stipula di contratti relativi ad “incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, di durata non superiore a sei mesi, prorogabili in ragione del perdurare dello stato di emergenza sino al 31 dicembre 2020, in deroga all'articolo 7 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e all'articolo 6 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122”, riguardanti il “personale delle professioni sanitarie, come individuate dall'articolo 1 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, ratificato dalla legge 17 aprile 1956, n. 561, e dalla legge 18 febbraio 1989, n. 56, e degli operatori socio-sanitari, nonché di medici specializzandi, iscritti all'ultimo e al penultimo anno di corso delle scuole di specializzazione”. La fattispecie dunque è diversa, per oggetto e per soggetti, rispetto a quella dedotta nel presente giudizio: sia perché caratterizzata dalla peculiare specialità dell’oggetto (incarichi di lavoro autonomo relativi alla gestione dell’emergenza sanitaria come sopra normativamente e cronologicamente determinata); sia perché riguardanti non già medici specializzati, ma personale delle professioni sanitarie, operatori socio-sanitari e medici specializzandi. Per tale, nuova ipotesi il legislatore ha dunque introdotto una (altrettanto nuova) disciplina del reclutamento (trattandosi di fattispecie finora non disciplinata: e non già disciplinata in modo diverso) 15. La verifica della tenuta dell’inquadramento normativo in esame mediante confronto con la legislazione emergenziale in atto deve semmai avere riguardo ad un diverso parametro normativo, non indicato nella richiamata memoria dell’appellata, specificamente riguardante l’assunzione di dirigenti medici. L’art. 251, comma 4, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, stabilisce in particolare che “Il Ministero della salute, in deroga alle disposizioni di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483, 24 settembre 2004, n. 272 e 9 maggio 1994, n. 487, è altresì autorizzato a reclutare il personale di cui all'articolo 1, comma 5-ter, del decreto legge 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8, limitatamente ai dirigenti da imputare all'aliquota dei dirigenti sanitari, mediante concorsi pubblici per titoli ed esame orale, da svolgersi anche con le modalità di cui all'articolo 249. Al termine del periodo di prova, cui sono soggetti anche coloro che lo abbiano già superato in medesima qualifica e profilo professionale presso altra amministrazione pubblica, l'assunzione e la conseguente immissione in ruolo è condizionata alla valutazione con esito positivo di un esame teorico-pratico, di una prova scritta e di una prova orale, sulle materie individuate dai relativi bandi di concorso”. La disposizione si riferisce, espressamente, ad un’ipotesi di assunzione a tempo indeterminato di personale medico da parte del Ministero della Salute, con altrettanto espressa previsione di un aumento della relativa dotazione organica (così, testualmente, il citato articolo 1, comma 5-ter, del decreto legge 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2020, n. 8). In tal caso è prevista una disciplina concorsuale derogatoria rispetto a quella generale, proprio perché – contrariamente all’argomento sviluppato in proposito della parte appellata - solo l’assunzione di personale medico a tempo indeterminato necessita di una espressa deroga normativa alla regola stabilita dal combinato disposto degli artt. 15, comma 7, del d. lgs. 502/1992 e dall’art. 26 del d.P.R. 483/1997. 16. Il primo ed il secondo motivo dell’appello principale sono pertanto fondati, dal momento che – in ragione della natura dell’incarico - l’Azienda non era tenuta all’integrale applicazione della procedura concorsuale disciplinata dall’art. 26 del d.P.R. 483/1997, e pertanto legittimamente ha fatto applicazione solo parziale (quanto alla valutazione dei titoli, ma non anche alla strutturazione delle prove di esame) del citato regolamento, senza con ciò violare il principio di tipicità degli atti e dei provvedimenti amministrativi. 17. L’appellata Buquicchio, con memoria depositata il 2 maggio 2020, ha riproposto in appello le censure del ricorso di primo grado non esaminate dal T.A.R. L’Azienda ha dedotto, come ricordato, l’inammissibilità di tali motivi: riproposti però dall’appellata con atto notificato il 1° luglio 2020 e depositato il successivo 10 luglio, denominato “Motivi nuovi in appello ex art. 104, terzo comma, c.p.a.”. Sostiene l’appellata che “il presente atto di motivi aggiunti in appello consegue all’intervenuta conoscenza, in corso appunto di giudizio di appello, di documenti non prodotti in primo grado. Documenti acquisiti dall’appellata Dr.ssa Buquicchio in esito a istanza di accesso agli atti della procedura di concorso. Le illegittimità denunziate nel terzo motivo del ricorso di primo grado, relativo alla valutazione dei titoli di merito, trovano conferma nei documenti acquisiti; documenti dai quali altresì emergono ulteriori illegittimità, pure riferite alla fase di valutazione dei titoli. La riconosciuta fondatezza delle suddette nostre censure potrà comportare il totale sovvertimento dell’ordine di graduatoria, con la Dr.ssa Buquicchio conseguentemente collocata al primo posto e il Dott. Romita retrocesso al secondo posto. Questo se tali nostre censure saranno integralmente accolte; se accolte invece solo in parte la Dr.ssa Buquicchio pur sempre avrà diritto al secondo posto in graduatoria, a fronte del quinto e ultimo posto che le fu assegnato. (….) Il T.A.R., ritenuto fondato il secondo motivo e conseguentemente accolto il ricorso, ha espressamente dichiarati assorbiti gli altri tre motivi di gravame. Riveste però adesso prioritaria importanza, in relazione alle integrazioni che con il presente atto ad esso saranno operate, il terzo degli elencati motivi di primo grado come detto riguardante la fase di valutazione dei titoli. E quindi, se il terzo motivo sarà integralmente accolto, con affermazione anche implicita del diritto della Dr.ssa Buquicchio al primo posto in graduatoria, ben potrà codesto Consiglio di Stato esimersi dall’esaminare gli altri due motivi di primo grado”. In forza di tale prospettazione chiede l’esame prioritario del terzo motivo dell’originario ricorso di primo grado, come integrato dal mezzo in esame. 18. Osserva il Collegio che tale gravame è inammissibile, come eccepito dall’appellante incidentale (la quale ha evidentemente interesse a coltivare tale eccezione, vista la resistenza della difesa della dottoressa Buquicchio all’appello incidentale anche nella parte in cui tale mezzo tende a preservare, attraverso la deduzione del vizio di ultrapetizione, l’efficacia del contratto relativo all’incarico di gastroenterologia). L’art. 104, comma 3, cod. proc. amm. stabilisce che nel giudizio di appello “Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. I motivi aggiunti devono dunque attenere a vizi derivanti dalla conoscenza di documenti non prodotti nel giudizio di primo grado, e rispetto a tale conoscenza se ne deve valutare evidentemente la tempestività. L’appellante incidentale, nel primo scritto difensivo successivo alla proposizione di tali motivi aggiunti (la memoria di replica depositata il 22 settembre 2020), ha eccepito l’inammissibilità e l’irricevibilità di tale mezzo, osservando che “Non viene specificato quando sia stata presentata l'istanza di accesso agli atti, di cui l'appellata non deposita copia, né si fa cenno ad un ipotetico illegittimo diniego di accesso”. La difesa dell’appellata Buquicchio ha eccepito la natura di memoria non di replica di tale scritto difensivo, e conseguentemente la sua tardività, sulla base dell’assunto che essa non replicherebbe ai contenuti della memoria della stessa difesa Buquicchio depositata il 12 settembre. L’assunto è infondato. La memoria in questione, depositata il 22 settembre 2020, è il primo atto difensivo successivo alla proposizione dei motivi aggiunti in appello (ai quali replica), e contiene altresì argomenti di replica (anche) ai temi oggetto della memoria Buquicchio del 12 settembre 2020 (quali la pretesa inammissibilità della procura ad litem). Essa pertanto va qualificata, rispetto alla citata memoria del 12 settembre 2020 della difesa Buquicchio, come memoria di replica, ed è dunque tempestiva rispetto al termine di cui all’art. 73, comma 1, cod. proc. amm. 19. Nel merito dell’eccezione, la difesa dell’appellata Buquicchio nella memoria del 23 settembre 2020 sostiene che la stessa sarebbe generica (dal momento che non contiene l’indicazione del dies a quo di decorrenza del termine per impugnare) e carente di prova (perché la prova della tardività dell’impugnazione incombe sulla parte che la eccepisce, secondo quanto affermato dalla sentenza di questo Consiglio di Stato, sez. V n. 7389/2019). Osserva il Collegio che il richiamo all’orientamento giurisprudenziale formatosi in tema di “verifica della piena conoscenza dell’atto lesivo da parte del ricorrente, al fine di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale” (così la citata sentenza n. 7389/2019) non sia coerente alla fattispecie in esame. I motivi aggiunti in appello si qualificano normativamente come un’eccezione alla regola del divieto dei nova nel giudizio di secondo grado, e l’art. 104, comma 3, cod. proc. amm. individua come fatto che legittima tale eccezione la sopravvenienza di documenti non versati nel giudizio di primo grado. Siffatta disciplina del mezzo processuale impone non una generica affermazione della sussistenza del fatto legittimante, ma quanto meno una precisa enunciazione dello stesso (con indicazione dei relativi presupposti fattuali) da parte di chi intenda avvalersi del rimedio. Nel caso di specie la parte che ha proposto il mezzo non ha indicato, né allegato, i documenti sopravvenuti, e neppure ha riferendosi genericamente alla documentazione relativa alla valutazione dei titoli dei candidati per la branca di dermatologia (tale documentazione peraltro non è stata neppure allegata al ricorso, ma prodotta in giudizio solo in data 31 agosto 2020). Soprattutto, non risulta evincibile la data di ostensione dei documenti medesimi, né la data in cui gli stessi sarebbero stati richiesti (in disparte il rilievo che la prova di tali fatti legittimanti non è nella disponibilità della parte che ha sollevato l’eccezione, ma della parte che sulla base di tali fatti ha proposto - in deroga al generale divieto dei nova in appello - il mezzo). 20. Peraltro nel caso di specie ciò che appare dirimente è il fatto che nel ricorso di primo grado, notificato il 27 gennaio 2020, il procuratore della dottoressa Buquicchio ha specificato (pag. 5) che “La ricorrente ha avuto conoscenza dell’esito del concorso e dell’approvazione degli atti concorsuali in data 23 dicembre 2019, a seguito di istanza di accesso alla relativa documentazione. Altri atti sono stati messi a sua disposizione in data 13 gennaio 2020”: senza alcun riferimento ad eventuali, ulteriori istanze a quella data inevase. Dunque i termini per dedurre (o integrare) motivi di censura afferenti pretesi vizi risultanti dalla documentazione richiesta ed ottenuta decorrevano, nel caso di specie, dal 13 gennaio 2020 (secondo la stessa affermazione della parte), giacché alla data di notifica del ricorso di primo grado non risultavano istanze di accesso non evase. Né varrebbe in contrario allegare che la ricorrente in primo ha, successivamente alla proposizione del ricorso di primo grado, ulteriormente esercitato il proprio diritto di accesso: in disparte il rilievo che una simile circostanza si sarebbe dovuta allegare e documentare come fatto legittimante ex art. 104, comma 3, cod. proc. amm., quanto meno in replica all’eccezione, tuttavia anche ove così fosse si tratterebbe di un’iniziativa tardiva, in quanto la domanda ostensiva formulata non in modo omnicomprensivo ma per scansioni plurime e progressive, se in tesi risponde ad una facoltà dell’interessato, non può comunque fondatamente sorreggere la pretesa di procrastinare in tal modo ad libitum la decorrenza del termine decadenziale per l’impugnazione dei relativi atti, o per la formulazione di nuovi motivi avverso tali provvedimenti (Consiglio di Stato, sez. V, sentenze n. 2909/2019 e n. 5717/2019). L’atto denominato “motivi nuovi in appello” depositato il 10 luglio 2020 dall’appellata Buquicchio è pertanto inammissibile. 21. L’appellata Buquicchio ha, come detto, riproposto nel giudizio di appello i motivi del ricorso di primo grado non esaminati dal T.A.R. In argomento è infondata l’eccezione d’inammissibilità dell’Azienda appellante, secondo cui l’appellata avrebbe dovuto riproporre tali censure con appello incidentale e non con memoria: non è infatti riscontrato il presupposto di tale eccezione, a mente del quale il primo giudice avrebbe ritenuto tali motivi “sostanzialmente infondati”, dal momento che la sentenza chiaramente non li ha esaminati, dichiarandoli assorbiti dalla statuizione di accoglimento del secondo motivo di ricorso e di annullamento dell’avviso pubblico (con conseguente effetto caducante sugli atti e sui contratti a valle). Prevede in proposito l'art. 101, comma 2, cod. proc. amm. che “Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello o, per le parti diverse dall'appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio”. Nel caso di specie l’appellata ha depositato rituale memoria con cui ha riproposto tali censure in data 2 maggio 2020, a fronte della notifica del ricorso in appello avvenuta il 16 marzo 2020. 22. Con il primo motivo del ricorso di primo grado, la dottoressa Buquicchio ha dedotto “Violazione art.25 d.P.R. 10.12.1997 n.483 e art.15, comma 7, d.Lgs 30.12.1992 n.502 - Violazione dell’art.9, comma 2, d.P.R. n.487/1994 - Violazione del combinato disposto dato dagli artt.36, comma 2, d.Lgs n.165/2001 e 35, comma 3, lett. e), stesso testo normativo - Eccesso di potere per illogicità manifesta, difetto di istruttoria e motivazione”. La ricorrente lamenta che i componenti della Commissione esaminatrice non fossero forniti delle specifiche competenze, e in particolare che la Commissione fosse composta dai Direttori dei reparti di dermatologia, di gastroenterologia e di reumatologia dell’Ospedale Policlinico di Bari. La censura è infondata. La procedura in questione mirava, come detto, alla selezione di un dermatologo, di un gastroenterologo e di un reumatologo. La ricorrente lamenta che nella Commissione vi fosse un solo membro dotato di “specifiche competenze” in dermatologia (il Direttore del relativo reparto). Osserva in merito il Collegio anzitutto che il richiamo, fra i parametri normativi, alla disposizione regolamentare di cui all’art. 25 del d.p.r. 483/1997 sconta il medesimo vizio già esaminato a proposito dell’art. 26 del medesimo regolamento, in ragione della natura della fattispecie. La censura, poi, sconta un ulteriore vizio logico: quello conseguente alla mancata considerazione della natura interdisciplinare della procedura (riveniente dalla specificità del progetto CROSS, e dall’esigenza di gestione multidisciplinare di malattie croniche complesse cui è ispirato il richiamato Accordo Stato — Regioni), e alla conseguente necessità di riferire l’attributo delle “specifiche competenze” non già a ciascun singolo componente, bensì alla Commissione nel suo complesso (dal momento che nel caso in esame ogni componente era certamente dotato di specifiche competenze per una delle discipline oggetto di valutazione, e che a voler portare alle estreme conseguenze il ragionamento della ricorrente la Commissione sarebbe stata composta da esperti di una sola disciplina, con pregiudizio per i candidati delle altre due), come peraltro in materia concorsuale già affermato dalla sentenza della IV Sezione di questo Consiglio di Stato n. 5137/2015. In conseguenza non risulta violato nessuno degli ulteriori parametri normativi invocati dalla ricorrente. 22. Con il terzo motivo del ricorso di primo grado la ricorrente deduce “Violazione artt.8, comma 2, e 9, comma 6, d.P.R. 10.12.1997 n.483 - Violazione e falsa applicazione art.27 d.P.R. n.483/1997 - Violazione art.11, comma 1, lett.b) e c), d.P.R. n.483/1997, anche in relazione all’art.3 L. n.241/1990 - Eccesso di potere per manifesta illogicità; travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, difetto di motivazione”. Il motivo concerne la valutazione dei titoli nella selezione dello specialista in dermatologia. L’Azienda appellante ha dedotto l’inammissibilità per difetto d’interesse della censura, in quanto la ricorrente in primo grado, classificatasi quinta ed ultima nella relativa graduatoria, non riuscirebbe neppure in accoglimento di tale censura, in ragione della formulazione della stessa, ad assicurarsi il bene della vita: “Quand’anche fosse vero che i titoli della prima classificata siano stati sovrastimati, oppure sottostimati quelli della ricorrente, quest’ultima nulla dice sui titoli delle altre tre concorrenti che la precedono nella graduatoria, la qual cosa rende inammissibili le censure, per carenza di interesse”. L’eccezione è in effetti fondata: nondimeno la censura in esame è altresì infondata nel merito. 22.1. Il mezzo, per una parte, censura per manifesta illogicità la scelta della Commissione di non attribuire un punteggio aggiuntivo a titoli di cui la ricorrente aveva dichiarato il possesso (“elevati voti di laurea e di specializzazione”; “eventuali borse di studio”; “attestati di idoneità per specifiche attività mediche”). In disparte l’estrema genericità ed indeterminatezza dell’indicazione degli elementi, in tesi sintomatici di un particolare merito, che non sarebbero stati adeguatamente valorizzati, ciò che appare dirimente è che la censura poggia sull’apodittica affermazione della difformità di tale opzione valutativa rispetto alla “prassi in tutti i concorsi per titoli o titoli ed esami” (peraltro indimostrata), senza l’indicazione di un parametro normativo che avrebbe dovuto, nello specifico, premiare proprio gli specifici titoli posseduti dall’interessata. 22.2. Per altro verso la censura lamenta le conseguenze, in punto di attribuzione di punteggi e di “peso” così assunto dalla prova orale, della scelta di non prevedere la prova scritta e la prova pratica, oggetto del secondo motivo di ricorso, e sconta pertanto le medesime ragioni d’infondatezza. 22.3. Infine, lamenta la ricorrente che la valutazione delle pubblicazioni scientifiche dei candidati, nonché del complessivo curriculum formativo e professionale degli stessi, è stata motivata unicamente con l’attribuzione di un punteggio numerico, e non anche in forma analitica. Anche questo profilo di censura risulta infondato, perché oltre ad impingere nel merito dell’esercizio dell’attività tecnico-discrezionale della Commissione tralascia di considerare che, come dedotto dall’Azienda, l’attribuzione dei punteggi è avvenuta in applicazione dei criteri e dei sottocriteri indicati nell’Allegato 1 alla Deliberazione di indizione dell’avviso pubblico n. 1137 del 1° agosto 2019, in conformità a quanto previsto dal d.P.R. 483/1997. 23. Il quarto motivo del ricorso di primo grado lamenta “Violazione art.9, commi 3 e 6, d.P.R. n. 483/1997”, e deduce il mancato espletamento di alcuni adempimenti relativi alla prova orale, previsti dalla disposizione invocata. La censura poggia sul medesimo – infondato – assunto che sorregge il secondo motivo del ricorso. Come già chiarito, l’impugnato avviso pubblico non soggiace al regime previsto dal d.P.R. 483/1997, che ha richiamato unicamente in punto di disciplina della valutazione dei titoli. 24. In accoglimento dell’appello principale, e in conseguente riforma della sentenza impugnata, deve pertanto respingersi il ricorso di primo grado. L’accoglimento dei motivi di appello principale relativi alla censura accolta dal T.A.R., e il rigetto di tutti gli altri motivi del ricorso di primo grado, comportando la riforma della sentenza gravata e il rigetto del ricorso di primo grado esimono il Collegio dall’esame dell’ulteriore motivo dell’appello principale relativo al vizio di ultrapetizione di tale sentenza, nonché dall’esame dell’appello incidentale (con cui sono state peraltro formulate analoghe censure). Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la regola della soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale e pertanto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso di primo grado. Condanna la ricorrente in primo grado Rosalba Buquicchio al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi euro tremila/00, oltre accessori come per legge, in ragione di euro millecinquecento/00 oltre accessori in favore dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Consorziale Policlinico di Bari, e di euro millecinquecento/00 oltre accessori in favore della controinteressata Contaldo Antonella. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: Roberto Garofoli, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Roberto Garofoli, Presidente Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Procura alle liti – Patrocinio facoltativo dell’Avvocatura di Stato – Scelta di conferire la procura ad avvocato del libero foro – Insindacabilità in via incidentale.  Processo amministrativo – Appello - Motivi aggiunti – Limiti.  Processo amministrativo – Abuso del processo – Motivi – Ordine di esame – Richiesta in appello - Ordine diverso da quello indicato in primo grado – È abuso del processo.  Concorso - Sanitari – Disciplina – D.P.R. n. 483 del 1997 – Ambito di applicazione - Dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale.  Concorso – Commissione di concorso – Concorso per sanitari - Dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale –Specifiche competenze della commissione – Sono riferite alla commissione e non ai singoli componenti.      In materia di patrocinio c.d. facoltativo o autorizzato dell’Avvocatura dello Stato previsto per una Amministrazione non statale, la validità della deliberazione richiesta perché l’Amministrazione possa avvalersi di avvocati del libero foro non può essere oggetto di sindacato incidentale in sede di esame dell’eccezione di nullità della procura ad litem sollevata - per difetto dei presupposti legittimanti la deroga alla difesa erariale - nel giudizio introdotto con il ricorso cui la procura si riferisce  (1).       In materia di motivi aggiunti in appello ex art. 104, comma 3, c.p.a.., l’orientamento giurisprudenziale che richiede la “verifica della piena conoscenza dell’atto lesivo da parte del ricorrente, al fine di individuare la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale” deve applicarsi tenendo conto della peculiarità del rimedio, dal momento che i motivi aggiunti in appello si qualificano normativamente come un’eccezione alla regola del divieto dei nova nel giudizio di secondo grado e che l’art. 104, comma 3, c.p.a. individua come fatto che legittima tale eccezione la sopravvenienza di documenti non versati nel giudizio di primo grado: conseguentemente, ove venga eccepita la tardività di tale mezzo, la parte che lo ha proposto ha l’onere di allegare la sopravvenienza del fatto legittimante, di natura eccezionale rispetto al generale divieto di introdurre nuove domande, non nel senso di una generica affermazione della sussistenza in astratto del fatto legittimante, ma quanto meno in termini di una precisa enunciazione dello stesso, con indicazione dei relativi presupposti fattuali concreti.        La richiesta, nel corso del giudizio di appello, di una nuova e diversa graduazione dei motivi del ricorso di primo grado, rispetto a quella prospettata nel giudizio di prime cure e ribadita nelle precedenti fasi del giudizio di impugnazione, integra un venire contra factum proprium che costituisce abuso dello strumento processuale.      La disciplina regolamentare contenuta nel d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483 - espressamente derogata, per l’emergenza SARS-COV2, dall’art. 251, comma 4, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 - concerne la selezione concorsuale dei dirigenti medici da assumere a tempo indeterminato nei ruoli del Servizio sanitario nazionale, ma non anche la selezione dei dirigenti medici assunti con contratto a tempo determinato per progetti specifici ex art. 15-octies, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (2).     In materia di procedure concorsuale per l’assunzione di dirigenti medici del servizio sanitario nazionale, le “specifiche competenze” richieste per la composizione della Commissione d’esame si riferiscono alla Commissione nel suo insieme, e non ai singoli componenti, specie laddove la procedura concorsuali miri alla selezione di medici da inserire nell’ambito di un progetto multidisciplinare, implicante competenze specialistiche diverse da reclutare nell’ambito della medesima procedura  (3).  ​​​​​   (1) Ad avviso della Sezione la rispondenza di tale provvedimento allo standard motivatorio legale non può essere sindacata incidentalmente, in sede di esame di verifica della validità della procura, trattandosi di provvedimento che, ove non ritualmente impugnato, deve ritenersi valido ed efficace sul piano della costituzione dei relativi effetti dispositivi.    (2) Il Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale, approvato con d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483, è attuativo della previsione di rango primario contenuta nell’art. 18, primo comma, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502: “Il Governo, con atto regolamentare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome, adegua la vigente disciplina concorsuale del personale del Servizio sanitario nazionale alle norme contenute nel presente decreto ed alle norme del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, in quanto applicabili, prevedendo: a) i requisiti specifici, compresi i limiti di età, per l'ammissione; b) i titoli valutabili ed i criteri di loro valutazione; c) le prove di esame; d) la composizione delle commissioni esaminatrici; e) le procedure concorsuali; f) le modalità di nomina dei vincitori; g) le modalità ed i tempi di utilizzazione delle graduatorie degli idonei”.  Tale disposizione regola l’accesso alla dirigenza medica sanitaria, secondo la disciplina del personale medico del servizio sanitario nazionale recata dal Titolo V d.lgs. n. 502 del 1992. Il richiamato Titolo V disciplina la dirigenza sanitaria “collocata in un unico ruolo” (art. 15, comma1): laddove il riferimento al ruolo, unitamente ai plurimi contenuti incompatibili con un diverso significato rinvenibili nell’intero articolato normativo, hanno riguardo a dirigenti medici in servizio a tempo indeterminato. Conseguentemente, laddove il successivo comma 7 del citato art. 15  stabilisce che “Alla dirigenza sanitaria si accede mediante concorso pubblico per titoli ed esami, disciplinato ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 10 dicembre 1997, n. 483 ivi compresa la possibilità di accesso con una specializzazione in disciplina affine. (….)”, si riferisce (implicitamente, ma – ad un’interpretazione letterale e sistematica - inequivocamente) alla tipologia di accesso alla dirigenza disciplinata dal medesimo art. 15 (cui il successivo art. 18 ha riguardo nel rinvio alla fonte regolamentare per le modalità di svolgimento delle relative selezioni). Nondimeno, il legislatore nel corpo del medesimo articolato normativo ha distinto diverse tipologie (e relativi regimi) di incarichi: prevedendo – agli artt. 15–septies e 15–octies – forme di assunzione a tempo determinato. Come ricordato, ad esempio, in materia di stabilizzazione dal Consiglio di Stato (sez. IV, sentenza n. 426 del 2018), “i dirigenti assimilabili a quelli previsti dall'art. 19, comma 6, d.lgs. n. 165 del 2001 sono solo quelli contemplati dall'art. 15-septies, comma 1, d.lgs. n. 502 del 1992 e non anche quelli di cui all'art. 15-septies, comma 2 (né, tanto meno, quelli di cui al successivo art. 15-octies)”. Ne deriva che la complessiva trama normativa in esame, frutto peraltro di significativi interventi anche successivi all’originario disegno, contempla, accanto all’ipotesi (principale) di lavoro a tempo indeterminato dei dirigenti sanitari, soggetta all’ordinaria disciplina, anche ipotesi di assunzioni a tempo determinato assistite da minori garanzie, ma nel contempo affidate ad un regime di più agile costituzione del rapporto. Oltre alle ipotesi di cui all’art. 15-septies, richiamate dall’arresto da ultimo citato, l’art. 15-octies (inserito dall'art. 13, comma 1, d.lgs. 19 giugno 1999, n. 229) d.lgs. n. 502 del 1992 prevede che “Per l'attuazione di progetti finalizzati, non sostitutivi dell'attività ordinaria, le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere possono, nei limiti delle risorse di cui all'articolo 1, comma 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tal fine disponibili, assumere con contratti di diritto privato a tempo determinato soggetti in possesso di diploma di laurea ovvero di diploma universitario, di diploma di scuola secondaria di secondo grado o di titolo di abilitazione professionale, nonché di abilitazione all'esercizio della professione, ove prevista”. Tale disposizione non prevede – a differenza di quelle precedentemente esaminate – il rinvio alle forme di selezione disciplinate dal Regolamento di cui al d.P.R. n. 483 del 1997. ​​​​​​​ 
Concorso
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/obbligo-vaccinale-per-i-farmacisti
Obbligo vaccinale per i farmacisti
N. 00182/2022 REG.PROV.CAU. N. 00533/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 533 del 2022, proposto dalla dott.ssa -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Nunzio Condorelli Caff, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l’Ordine dei Farmacisti della Provincia di -OMISSIS- e l’Azienda Sanitaria Provinciale di -OMISSIS-, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia: - del provvedimento, prot. n.-OMISSIS-, con il quale il Presidente dell’Ordine dei Farmacisti della Provincia di -OMISSIS-, ha accertato l’inadempimento in capo alla ricorrente dell’obbligo vaccinale, dal che ne “discende, ai sensi di legge, l’immediata sospensione dall’esercizio della professione”; - del provvedimento, prot. n. -OMISSIS-, con il quale il Direttore del Dipartimento del Farmaco dell’ASP di -OMISSIS-, ha sospeso la ricorrente dall’esercizio della professione di farmacista per inadempimento dell’obbligo vaccinale ai sensi dell’art. 4 d.l. n. 44/2021, conv. in l. n. 76/2021 s.m.i. e ha disposto l’interdizione all’accesso ai locali della farmacia, fino alla revoca del suddetto provvedimento di sospensione; - delle circolari Ministeriali e dell’Ordine di appartenenza; - di ogni altro atto presupposto, connesso e/o conseguenziale; nonché per l'accertamento del diritto della parte ricorrente ad essere reintegrata nell’Albo di appartenenza al fine di poter espletare il proprio lavoro di titolare della “Farmacia -OMISSIS-”, sita a -OMISSIS-, con risarcimento del danno conseguente al mancato svolgimento dell’attività lavorativa nel periodo di sospensione e ordine di immediato di rientro nei locali della farmacia; - nonché per la condanna delle Amministrazioni intimate, ex art. 30 c.p.a., al risarcimento in forma specifica del danno ingiusto subito dalla parte ricorrente e derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa in via equitativa ritenuta di giustizia, nonché per il risarcimento del danno morale; Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dalla parte ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Ritenuto che sussistono alcuni profili di possibile inammissibilità del ricorso: - quanto alla giurisdizione dell’adito giudice amministrativo (v. sentenze T.a.r. Aosta n. 72/2021 e T.a.r. –Venezia, n. 427/2022) e ciò tenuto anche conto del fatto che la stessa parte ricorrente, a prescindere dalla previsione in ordine all’autorità cui proporre ricorso contenuta nel provvedimento di accertamento dell’inadempimento all’obbligo vaccinale, dubita della giurisdizione del g.a. e probabilmente ha adito contemporaneamente anche il giudice ordinario (v. punto 1 della parte in diritto del ricorso che richiama “stranamente” il potere del g.o. di disapplicare gli atti amministrativi); - quanto alla possibile non impugnabilità delle circolari ministeriali, rispetto alle quali non è stata, comunque, evocata in giudizio la parte legittimata passivamente (il Ministero della Salute); Ritenuto che, nelle more della trattazione collegiale dell’istanza cautelare (ove potrà essere delibata la prospettata questione di costituzionalità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021, conv. in l. n. 76/2021 s.m.i., a condizione che sia ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo), l’istanza cautelare debba essere respinta, non solo tenuto conto dell’orientamento del giudice di appello in materia (secondo cui l’obbligo vaccinale discende da un atto avente forza di legge, il quale, in quanto atto politico, non può essere sindacato dal giudice amministrativo), ma anche tenuto conto, da un lato, del fatto che secondo la prospettazione della parte ricorrente, nel caso di specie, vi sarebbe il diritto all’esenzione dall’obbligo vaccinale (diritto che potrebbe - anzi avrebbe potuto da tempo - essere accertato davanti al giudice ordinario, sicuramente munito di giurisdizione sul punto) e, dall’altro lato, del fatto che non risulta essere stata chiesta l’eventuale (temporanea) sostituzione del direttore responsabile, ove possibile; Ritenuto pertanto che l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dalla parte ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm., debba essere respinta e che debbano comunque essere disposti gli incombenti istruttori indicati in dispositivo. P.Q.M. Respinge l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dalla parte ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm. Ordina alla parte ricorrente di depositare in giudizio copia del provvedimento del Direttore del Dipartimento del Farmaco dell’ASP di -OMISSIS- prot. n. -OMISSIS- ed alle pp.aa. intimate, di depositare in giudizio relazione illustrativa relativa ai fatti di cui è causa, corredata di ogni documento ritenuto utile ai fini della decisione (ivi compresa la questione della possibile sostituzione del direttore responsabile della farmacia) e ciò entro il termine di giorni cinque dalla comunicazione in via amministrativa del presente decreto monocratico. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del giorno 28 aprile 2022, ore di rito. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alla parte ricorrente, presso il proprio difensore ed alle parti pubbliche, presso la propria sede legale. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità della parte ricorrente nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte ricorrente e/o il luogo dell’esercizio. Così deciso in Catania il giorno 6 aprile 2022. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Vaccino – Obbligo – Farmacisti – Omissione - Conseguenza.                In materia di obbligo vaccinale per i farmacisti, in disparte i dubbi sulla giurisdizione e salva la proposizione dell’eventuale questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. n. 44 del 2021, conv. in l. n. 76 del 2021, s.m.i., deve essere respinta l’istanza di sospensione, formulata ai sensi dell’art. 56 c.p.a., del provvedimento di accertamento dell’inadempimento in capo alla parte ricorrente dell’obbligo vaccinale, con conseguente sospensione dall’esercizio della professione di farmacista e ciò in quanto: l’obbligo discende direttamente da un atto avente forza di legge, il quale, in quanto atto politico, non può essere sindacato dal giudice amministrativo; il prospettato diritto all’esenzione dall’obbligo vaccinale avrebbe potuto da tempo essere oggetto di accertamento davanti al giudice ordinario, né risulta essere stata chiesta la temporanea sostituzione del direttore responsabile. 
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/obbligo-incondizionato-dell-utilizzo-della-mascherina-su-tutto-il-territorio-del-comune-di-genova
Obbligo incondizionato dell’utilizzo della mascherina su tutto il territorio del Comune di Genova
N. 00147/2020 REG.PROV.CAU. N. 00272/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 272 del 2020, proposto da Alessandra Parodi, Gianna Vittoria Orengo, Matteo Sacchetti, Laura Nicoletta D'Ostino e Francis Pavesio, rappresentati e difesi dagli avvocati Sebastiano Rosso e Isabella Pileri, con elezione di domicilio fisico presso lo studio del primo in Genova, via A. Cecchi, 2/16, scala sinistra, e digitale come segue: sebastiano.rosso@ordineavvgenova.it; contro Comune di Genova, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Maria Paola Pessagno e Caterina Chiesa, con elezione di domicilio fisico in Genova, presso la sede dell’Avvocatura civica, via Garibaldi, 9, e digitale come segue: mariapaola.pessagno@ordineavvgenova.it; per l'annullamento dell'ordinanza sindacale in data 17.5.2020, n. 109, avente ad oggetto “ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell'igiene e sanità pubblica a seguito dell'emergenza sanitaria da Covid -19”; Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di adozione di misure cautelari monocratiche proposta dai ricorrenti, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Atteso che il ricorso in esame contesta l’ordinanza impugnata “nella sola parte in cui si discosta dalla previsione dell’art. 3, secondo comma, DPCM 17.5.2020 e dall’ordinanza regionale n. 30/2020 in punto obbligo incondizionato dell’utilizzo della mascherina su tutto il territorio comunale ad eccezione delle aree di proprietà” privata; Considerato che la precedente ordinanza sindacale n. 106/2020 prevedeva il necessario utilizzo delle mascherine in “parchi; giardini comunali; ville pubbliche; cimiteri; passeggiate per attività motoria; locali privati ad uso pubblico; locali adibiti ad attività commerciali; mezzi di trasporto pubblico”, mentre l’impugnata ordinanza n. 109/2020 lo contempla “nelle aree al di fuori della proprietà privata, tranne per chi pratica attività sportiva”, oltre che “all’interno di parchi, giardini e ville pubbliche, dei cimiteri, dei locali privati ad uso pubblico, dei locali adibiti ad attività commerciali e dei mezzi di trasporto pubblico”; Rilevato che le prescrizioni dettate con l’ordinanza n. 109/2020 non prendono più in specifica considerazione le “passeggiate”, ma estendono l’obbligo di indossare le mascherine a tutte le ipotesi di circolazione in aree non di proprietà privata, senza che con ciò appaia sostanzialmente modificata la situazione precedente, nella quale era già imposto l’uso delle mascherine nell’ipotesi più rilevante di circolazione in area pubblica (“passeggiate”); Ritenuto, in ogni caso, che - tenuto conto dell’esigenza di prevenire il più possibile, nell’ambito del territorio comunale, le occasioni di contagio determinate dall’allentamento delle misure restrittive che caratterizzavano la c.d. fase 1 – l’obbligo di utilizzo delle mascherine, per come prescritto nell’ordinanza impugnata, a tutela della salute pubblica, non possa considerarsi né incongruo, né particolarmente gravoso. P.Q.M. Rigetta la domanda di adozione di misure cautelari provvisorie. Fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 10 giugno 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso il giorno 23 maggio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Liguria – Obbligo mascherine sull’intero territorio del Comune di Genova – Eccezione per le sole proprietà private            Non deve essere sospesa in via monocratica l’ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco di Genova a tutela dell'igiene e sanità pubblica a seguito dell'emergenza sanitaria da Covid -19, nella parte in cui si discosta dalla previsione dell’art. 3, comma 2, d.P.C.M. 17 maggio 2020 e dall’ordinanza della Regione Liguria n. 30 del 2020 in punto di obbligo incondizionato dell’utilizzo della mascherina su tutto il territorio comunale ad eccezione delle aree di proprietà privata, tenuto conto dell’esigenza di prevenire il più possibile, nell’ambito del territorio comunale, le occasioni di contagio determinate dall’allentamento delle misure restrittive che caratterizzavano la c.d. fase 1, con la conseguenza che tale obbligo di utilizzo delle mascherine, a tutela della salute pubblica, non può considerarsi né incongruo né particolarmente gravoso (1).   (1) Ha ricordato il Tar che la precedente ordinanza sindacale n. 106 del 2020 prevedeva il necessario utilizzo delle mascherine in “parchi; giardini comunali; ville pubbliche; cimiteri; passeggiate per attività motoria; locali privati ad uso pubblico; locali adibiti ad attività commerciali; mezzi di trasporto pubblico”, mentre l’impugnata ordinanza n. 109 del 2020 lo contempla “nelle aree al di fuori della proprietà privata, tranne per chi pratica attività sportiva”, oltre che “all’interno di parchi, giardini e ville pubbliche, dei cimiteri, dei locali privati ad uso pubblico, dei locali adibiti ad attività commerciali e dei mezzi di trasporto pubblico”. Le prescrizioni dettate con l’ordinanza n. 109 del 2020 non prendono più in specifica considerazione le “passeggiate”, ma estendono l’obbligo di indossare le mascherine a tutte le ipotesi di circolazione in aree non di proprietà privata, senza che con ciò appaia sostanzialmente modificata la situazione precedente, nella quale era già imposto l’uso delle mascherine nell’ipotesi più rilevante di circolazione in area pubblica (“passeggiate”).
Covid-19
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La gara europea per la gestione dei rifiuti urbani a Milano non è sospesa in via cautelare ma non si aggiudica prima della decisione di merito
N. 01751/2022 REG.PROV.CAU. N. 02525/2022 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 2525 del 2022, proposto dal Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Lepore, Antonello Mandarano, Stefania Pagano e Sara Pagliosa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Lepore in Roma, via Polibio n. 15; contro la società Impresa Sangalli Giancarlo & C. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Roberto Invernizzi, Massimo Luciani e Francesca Maria Moretti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Massimo Luciani in Roma, Lungotevere Raffaello Sanzio n. 9; nei confronti dell’Università degli Studi Milano Bicocca, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n.12; delle società Amsa s.p.a., A2a Ambiente s.p.a., A2a s.p.a, A2a Recycling s.p.a., non costituitesi in giudizio; per la riforma dell’ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione I^, n. 264 del 2 marzo 2022, resa tra le parti; Visto l’art. 62 cod. proc. amm.; Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli atti di costituzione in giudizio della società appellata e dell’Università degli Studi Milano Bicocca; Vista la impugnata ordinanza del Tribunale amministrativo regionale di accoglimento della domanda cautelare presentata dalla parte ricorrente in primo grado; Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2022 il consigliere Silvia Martino; Uditi per le parti rispettivamente rappresentate gli avvocati Antonello Mandarano, Roberto Invernizzi, Massimo Luciani e Francesca Maria Moretti; Considerato che le questioni, in rito e in merito, dedotte dalle parti necessitano dell’adeguato approfondimento nella propria sede di merito, anche all’esito di una eventuale istruttoria di carattere tecnico; Ritenuto – ai fini di un adeguato bilanciamento dei contrapposti interessi - che non sia necessario sospendere integralmente, nelle more, le operazioni di gara e che le esigenze cautelari rappresentate in primo grado siano adeguatamente soddisfatte attraverso la fissazione ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a., dell’udienza pubblica, attualmente prevista per il 9 novembre 2022 (ferma restando la valutazione da parte del T.a.r. di una eventuale anticipazione tenuto conto dello straordinario rilievo della gara in esame); Ritenuto, infine, che ove il Comune decida di riattivare il procedimento di gara non potrà in ogni caso procedere all’aggiudicazione; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), accoglie in parte l’appello cautelare (Ricorso numero: 2525/2022) nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. Compensa tra le parti le spese dell’appello cautelare. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 aprile 2022 con l'intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere, Estensore Claudio Tucciarelli, Consigliere Vito Poli, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Nicola D'Angelo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere, Estensore Claudio Tucciarelli, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - gestione dei rifiuti urbani a Milano – Sospensione cautelare – Esclusione – Limiti.         In sede di adeguato bilanciamento dei contrapposti interessi, la gara europea per la gestione dei rifiuti urbani a Milano non è sospesa in via cautelare ma non va aggiudicata prima della decisione di merito. ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
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Fatturazione a 28 giorni: poteri conformativi ripristinatori ed indennitari dell’Agcom
N. 00987/2020REG.PROV.COLL. N. 09798/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso NRG 9798/2018, integrato da motivi aggiunti, proposto da Fastweb s.p.a. a socio unico, corrente in Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Andrea Guarino, Daniele Maffeis ed Elenia Cerchi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Roma, via Giulio Caccini n. 1 (Studio Guarino), contro l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - AGCOM, con sede in Roma, in persona del Presidente pro tempore, resistente ed appellante incidentale, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12 e nei confronti – dell’Unione per la difesa dei consumatori - U.Di.Con., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio, – dell’Associazione Movimento Consumatori, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Paolo Fiorio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e– del Coordinamento delle associazioni e comitati di tutela dell' ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori - Codacons e dell’Associazione degli utenti per i diritti telefonici – AUSTel. Onlus, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dagli avv.ti Carlo Rienzi e Gino Giuliano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto nello studio Rienzi c/o Codacons in Roma, v.le G. Mazzini n. 73, per la riforma A) con il gravame introduttivo, del dispositivo di sentenza del TAR Lazio, sez. III, n. 11306/2018, reso tra le parti e concernente la delibera AGCOM n. 500/17/CONS; B) con l’atto per motivi aggiunti (e col ricorso incidentale dell’AGCOM), della sentenza del TAR Lazio, sez. III, n. 1956 del 14 febbraio 2019, resa tra le parti e concernente la predetta delibera; Visti il ricorso in appello, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’AGCOM, dell’Associazione Movimento Consumatori, dell’AUS Tel. Onlus e del CODACONS; Visti tutti gli atti della causa; Relatore all'udienza pubblica del 4 luglio 2019 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti costituite, gli avvocati Andrea Guarino, Maffeis, Cerchi, Fiorio e Cristina Adducci (per delega di Rienzi) e l’Avvocato dello Stato Paola Palmieri; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. – Con delibera n. 252/16/CONS del 21 luglio 2016, l’AGCOM stabilì una disciplina aggiornata «sulla trasparenza delle condizioni economiche dell’offerta [rivolta a] tutti i soggetti che operano nel mercato delle comunicazioni elettroniche e che hanno rapporti contrattuali con gli utenti finali…». Tanto al fine di assicurare «… informazioni trasparenti, comparabili, adeguate ed aggiornate in merito ai prezzi vigenti in materia di accesso e di uso dei servizi forniti dagli operatori di comunicazione elettronica…». Invero, detta delibera previde l’obbligo, a carico degli operatori di TLC, di: a) fornire un set di informazioni agli utenti; b) assicurare la trasparenza delle condizioni economiche; c) garantire il funzionamento di meccanismi per una reale comparazione delle offerte, alimentando un motore di calcolo gestito direttamente da AGCOM ed i cui risultati sarebbero stati accessibili agli utenti attraverso l’apposito sito WEB dell’Autorità. La Fastweb s.p.a. a socio unico, corrente in Milano e soggetto operatore autorizzato per i servizi di comunicazione elettronica in voce (telefonia vocale fissa e mobile), dichiara d’aver introdotto nel corso del 2017, esercitando la facoltà attribuitale dall’art. 70 del D.lgs. 1° agosto 2003 n. 259 - CCE, un aumento di circa l’8,6% delle condizioni economiche per i contratti di telefonia fissa. E ciò grazie alla riduzione del periodo di rinnovo e/o fatturazione delle offerte, che passò dalla cadenza mensile ad una quadrisettimanale (28 gg). Detta Società, nel far presente d’aver informato i suoi clienti di tal manovra tariffaria e delle loro facoltà di recesso e migrazione ad altro operatore, rende noto altresì che la manovra stessa non fu contestata da AGCOM, né ritenuta illegittima o distorsiva della concorrenza, come tal Autorità chiarì all’AGCM in un procedimento per l’accertamento di pratiche commerciali scorrette. 2. – L’AGCOM ritenne però che detto aumento tariffario mercé l’introduzione di una “tredicesima mensilità”, fosse pregiudizievole per l’utenza anche sotto il profilo della trasparenza, impedendo la comparabilità delle offerte. L’unilaterale e congiunta modifica dei periodi di fatturazione da parte dei principali operatori di telefonia, in base alle segnalazioni pervenutele a cura delle Associazioni dei consumatori, aveva creato un clima d’incertezza nell’utenza, che non ebbe più chiari i parametri delle offerte. E ciò soprattutto nel mercato della telefonia fissa, tradizionalmente connotata da periodi di fatturazione ordinaria su base mensile, a sua volta coincidente con le modalità di fatturazione di altri servizi ed utenze, oltre che con la cadenza con la quale si genera usualmente il reddito mensile degli utenti. Reputò quindi l’AGCOM che tal manovra avesse determinato una compressione della «…libertà di scelta degli utenti e vanificato, anche considerate le tempistiche ed il contesto di mercato, la ratio sottesa all'esercizio del diritto di recesso nel caso di mancata accettazione di modifiche contrattuali, così come statuito dall'articolo 70, comma 4…» del CCE Sicché l’AGCOM, con delibera n. 121/17/CONS del 15 marzo 2017, modificò la citata delibera n. 252/16/CONS, col medesimo obiettivo di assicurare che fossero fornite agli utenti «… informazioni trasparenti, comparabili, adeguate e aggiornate in merito ai prezzi vigenti in materia di accesso e di uso dei servizi forniti…». Ciò in conformità all’art. 71 del CCE, il quale, attuando l’art. 8 della direttiva quadro sul servizio universale di comunicazioni elettroniche (dir. n. 2002/21/CE), proprio in tali termini delinea il principio di trasparenza a fini informativi e di scelta consapevole del consumatore. L’Autorità impose a detti operatori di telefonia, ma senza contestar loro l’aumento in sé della tariffa, di ritornare, entro il 23 giugno 2017, alla fatturazione su base mensile o suoi multipli per i servizi di telefonia fissa e ad una periodicità almeno quadrisettimanale per quelli di telefonia mobile. Tanto perché, ad avviso dell’Autorità, l’intervento de quo aveva riguardato non già libere scelte imprenditoriali degli operatori di TLC, ma le modalità della cadenza di fatturazione, rivelatasi non rispettosa della dovuta trasparenza, nei confronti degli utenti, in quanto sostanzialmente rivolta a realizzare aumenti tariffari di non immediata percezione da parte dei consumatori. Avverso tal delibera la Fastweb s.p.a. si gravò innanzi al TAR Lazio, col ricorso NRG 4380/2017, deducendo vari profili d’irragionevolezza e contraddittorietà, la violazione del quadro legislativo e regolamentare di riferimento, nonché la sproporzione della misura adottata dall’AGCOM rispetto all’obiettivo in concreto perseguito. 3. – Nelle more di quel giudizio, intervenne l’art. 19-quinquiesdecies del DL 16 ottobre 2017 n. 148 (conv. modif. dalla l. 4 dicembre 2017 n. 172), introducendo talune novelle all’art. 1 del DL 31 gennaio 2007 n. 7 (conv. modif. dalla l. 2 aprile 2007 n. 40). In particolare, il nuovo art. 1, co. 1 del DL 7/2007 stabilì che «i contratti di fornitura nei servizi di comunicazione elettronica disciplinati dal codice di cui al decreto legislativo 1º agosto 2003, n. 259, prevedono la cadenza di rinnovo delle offerte e della fatturazione dei servizi, ad esclusione di quelli promozionali a carattere temporaneo di durata inferiore a un mese e non rinnovabile, su base mensile o di multipli del mese». La novella ha altresì disposto: a) l’obbligo di adeguamento di tutti gli operatori di TLC, al di là dalla tecnologia usata, a tal cadenza di fatturazione entro 120 gg. dall’entrata in vigore della legge di conversione; b) la garanzia dell’AGCOM sulla pubblicazione dei servizi offerti e delle tariffe generali, in modo da consentire ai consumatori scelte informate; c) il potere dell’AGCOM di ordinare «… in caso di violazione del comma 1-bis… all'operatore la cessazione della condotta e il rimborso delle eventuali somme indebitamente percepite o comunque ingiustificatamente addebitate agli utenti, indicando il termine entro cui adempiere, in ogni caso non inferiore a trenta giorni…». Il successivo co. 4 previde pure che «la violazione delle disposizioni di cui ai commi 1, 1-bis, 1-ter, 2, 3, 3-bis, 3-ter e 3-quater è sanzionata dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni applicando l'articolo 98, comma 16, del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo 1º agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni. L'inottemperanza agli ordini impartiti ai sensi del comma 1-quinquies è sanzionata applicando l'articolo 98, comma 11, del medesimo codice…». 3.1. – L’adito TAR, con sentenza n. 3261 del 22 marzo 2018, ha respinto l’impugnazione attorea, poiché: a) la delibera n. 121/17/CONS fu adottata dall’AGCOM nell’esercizio dei poteri di regolazione riconosciuti dall’art.1 della l. 249/1997 e, nella specie, «… tale potere è posto anche al fine di garantire in concreto una tutela effettiva alla parte debole del rapporto contrattuale dei servizi di telefonia, ovvero all’utente del servizio…»; b) detta delibera fu emanata «… al fine di consentire all’utente, in un regime di asimmetria informativa cui porre rimedio, la trasparenza e in particolare la confrontabilità delle varie offerte, ex art.71 del D.Lgs. n. 259 del 2003…»; c) siffatta regolazione si fondava su valutazioni tecnico-discrezionali all’evidenza non irragionevoli, essendosi attestata su «… livelli minimi di intervento, lasciando pressoché intatta l’autonomia negoziale degli operatori sui contenuti rilevanti del rapporto contrattuale, quali modalità di erogazione del servizio e prezzo”, senza comprimere eccessivamente l’autonomia negoziale degli operatori…». Il TAR ha inoltre precisato che, ben lungi dall’abrogare la delibera n. 121/17/CONS, la regola generale posta dall’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017 «… si salda con la disciplina dettata dall’Autorità, rafforzandone le previsioni e disponendo per l’avvenire…», sì da escludere ogni incompatibilità tra la regolazione anteriore ed il citato jus superveniens. Contro tal sentenza, Fastweb s’è appellata col ricorso NRG 4892/2018, tuttora pendente. 3.2. – Con la delibera n. 500/17/CONS, l’Autorità ritenne d’aver accertato che Fastweb s.p.a. non avesse ottemperato alle prescrizioni stabilite dalla delibera n. 121/17/CONS. Sicché l’Autorità anzitutto irrogò alla Fastweb s.p.a. una sanzione di € 1.160.000. Inoltre le impose, secondo detta Società senza contestarle previamente alcunché e senza contraddittorio, di «… provvedere –in sede di ripristino del ciclo di fatturazione con cadenza mensile o di multipli del mese– a stornare gli importi corrispondenti al corrispettivo per il numero di giorni che, a partire dal 23 giugno 2017, non sono stati fruiti dagli utenti in termini di erogazione del servizio a causa del disallineamento fra ciclo di fatturazione quadrisettimanale e ciclo di fatturazione mensile. Nella prima fattura emessa con cadenza mensile l’operatore è tenuto a comunicare con adeguato risalto che lo storno è avvenuto in ottemperanza al presente provvedimento…». Avverso tal statuizione e la nota 9/17/DTC, detta Società ha nuovamente adito il TAR Lazio, con il ricorso NRG 1424/2018, deducendo undici gruppi di censure. Nelle more di tal giudizio, il TAR ha accolto la domanda cautelare, con l’ordinanza n. 997 del 22 febbraio 2018, ritenendo che l’ingiunta restituzione monetaria dei giorni c.d. “erosi” fosse gravosa per la Società, sotto i profili economico e di concreta applicazione d’una siffatta misura. È intervenuta quindi la delibera n. 113/18/CONS del 1° marzo 2018, con la quale l’AGCOM ha revocato la precedente delibera n. 500 nella parte in cui aveva imposto la restituzione “monetaria”, sostituendo l’invero complicato meccanismo dello storno economico (sì con pagamento diretto ai consumatori, ma col paradossale effetto concreto di vincolarli all’operatore fino all’intero saldo), con quello, d’analogo risultato, dell’erogazione gratuita delle prestazioni per un numero di giorni equivalente a quello cui lo stesso ordine di storno si sarebbe riferito. La delibera n. 113 è stata a sua volta gravata dalla Fastweb s.p.a. con l’atto per motivi aggiunti depositato il 22 marzo 2018. Col secondo atto per motivi aggiunti dell’11 giugno 2018, la ricorrente ha impugnato, oltre alla già gravata delibera n. 113, pure il decreto presidenziale n. 9/18/Pres del precedente 9 aprile e la ratifica di questo ad opera delibera n. 187/18/CONS dell'11 aprile 2018. A seguito di ciò, l’AGCOM ha emanato anche la delibera n. 269/18/CONS del 6 giugno 2018, pubblicata il successivo 3 luglio, con cui l’AGCOM ha disposto, nei confronti di tutti gli operatori telefonici e, quindi, della stessa Fastweb, un nuovo termine per l’adempimento agli obblighi di cui alle delibere nn. 112/18/CONS e seguenti, tra cui la n. 113/18/CONS. Anche contro tal statuizione la Fastweb, in data 29 agosto 2018, ha depositato un terzo atto per motivi aggiunti, deducendo vari profili di censura, in parte simili a quelli dei due atti precedenti e in parte incentrati sul difetto di motivazione del differimento del predetto termine al 31 dicembre 2018, basato sul generico ed inconferente accenno alla struttura aziendale attorea e non tenendo conto delle osservazione formulate dalla ricorrente all’Autorità. 4. – Con dispositivo n. 11306 del 21 novembre 2018, l’adito TAR ha dichiarato il ricorso della Fastweb in parte improcedibile e in parte infondato, accogliendo una domanda per quanto di ragione. Avverso tal dispositivo la Fastweb s.p.a. ha proposto l’appello di cui al ricorso in epigrafe, deducendo vari profili di censura. Con sentenza n. 1956 del 14 febbraio 2018, l’adito TAR ha pubblicato la motivazione sulla controversia in esame. 4.1. – Contro detta sentenza è intervenuto l’atto per motivi aggiunti depositato l’8 marzo 2019, con cui la Società appellante ora ne deduce, in via principale, l’erroneità per non aver colto: I) – ad onta di quel che predicano le impugnate delibere, l’insussistenza di giorni “erosi” sul piano economico discendenti dalla fatturazione con cadenza quadrisettimanale, anziché mensile nel periodo di vigenza della delibera n. 121 —come, cioè, se l’appellante avesse così lucrato un compenso maggiore di quello cui avrebbe avuto diritto come giusta remunerazione, mentre ottenne il corrispettivo per il servizio erogato in base alla nuova cadenza a 28 (di rinnovo)/56 giorni (di fatturazione)—, donde l’assenza d’anomalie con riguardo sia al rapporto tra servizio reso e prezzo pagato per singola unità di tempo sia ad ogni incertezza (per il TAR riconducibile al disallineamento tra data fatturazione e la data in cui la buona parte dei clienti, lavoratori dipendenti, impostano con cadenza mensile il pagamento automatico dei conti telefonici tramite RID bancario) e, quindi, non si può parlare d’uno squilibrio sinallagmatico per assenza d’un termine variabile d’adempimento (per il TAR, che avrebbe reso più difficoltoso l’adempimento del debito da parte degli utenti), né di violazione dei doveri di buona fede oggettiva e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., né di difetto delle garanzie informative ex art. 70 CCE, fermo restando che l’aumento della tariffa, pari a circa l’8,6%, è stato mantenuto pure dopo il ripristino della cadenza mensile; II) – l’illegittimità dell’assunto sul fondamento della potestà di eterointegrazione dei contratti tra operatori ed utenti (necessaria per garantire l’attuazione della delibera n. 121), nella specie esercitata da AGCOM e basata sull’art. 71 CCE (in attuazione di principi posti dall’art. 8, n. 2, lettere a e b e n. 4, lettere b e d della dir. n. 2002/21/CE, i quali definiscono gli obbiettivi generali ed i principi dell’attività di regolazione e recepiti nell’art. 13, commi 4 e 6 CCE), nonché sull’art. 2, co. 12, lettere c), d), h) e l) della l. 14 novembre 1995 n. 481 e sull’art. 1, co. 6, n. 2) della l. 31 luglio 1997 n. 249 —che assumono il carattere di parametro di validità del contratto, le cui clausole difformi quanto previsto dall’AGCOM sono nulle ai sensi dell’art. 1418 c.c., appunto a causa della cadenza di fatturazione unilateralmente ridotta a 28 gg. ed alla circostanza che nell’anno l’utenza paga 13 e non più 12 volte il prezzo del servizio, deteriorandone la qualità—, sì da legittimare detta Autorità ad imporre l’obbligo restitutorio dei giorni erosi, mentre in realtà: a) l’ordine restitutorio è una coercizione ingiunta da un corpo amministrativo, che può farlo solo in base all’art. 23 Cost. e nei tassativi casi in cui la legge glielo consente; b) il potere sanzionatorio è cosa diversa dalla potestà di regolazione o di regolamentazione d’una qualunque attività, sicché non per ciò solo detta Autorità l’avrebbe potuto esercitare per garantire il rispetto delle regole precedentemente fissate e, in ogni caso, solo se almeno una delle norme richiamate dal TAR lo avesse previsto in maniera esplicita (il che non è); c) comunque l’Autorità non può usare a fini sanzionatori il potere di regolazione quando la legge le attribuisce, in base all’art. 98 CCE, uno specifico potere per sanzionare l’inottemperanza degli operatori agli atti che essa ha emanato; d) i poteri attribuiti all’AGCOM dall’art. 98 sono disaggregati, per cui essa esercitare soltanto il potere sanzionatorio specificamente previsto per ciascuna delle ipotesi colà previste; e) nella specie, la violazione dell’art. 71 CCE è sanzionata solo ai sensi dell’art. 98, co. 17 CCE, che richiama l’art. 1, co. 31 della l. 249/1997 (cioè la sola sanzione pecuniaria); f) a tutto concedere, l’Autorità non avrebbe mai potuto imporre un obbligo restitutorio e men che mai generalizzato, poiché così avrebbe esercitato un potere di risoluzione di controversie, il quale, però ed ai sensi dell’art. 84, co. 1 CCE, s’invera con altre procedure ed altre misure; g) è pur sempre inconferente il richiamo dell’AGCOM alle disposizioni di cui all’art. 2, co. 12, lettere d), h) e l) della l. 481/1995 ed all’art. 1, co. 6, lett. b) della l. 249/1997, trattandosi di misure o rimedi relativi ai rapporti diretti tra Autorità ed operatori; h) è mancata la specifica pronuncia del TAR sulla deduzione attorea contro il difetto assoluto di potere dell’Autorità nell’imporre l’obbligo restitutorio, non potendosi invocare le citate norme della legge n. 481, fermo restando che l’Autorità, con le delibere n. 73/11/CONS e n. 347/18/CONS, ha predeterminato i casi in cui agli utenti spettava un indennizzo automatico; III) – il senso della doglianza attorea sull’effetto caducante del jus superveniens stabilito dall’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017 nei confronti della delibera n. 121/17/CONS, prodottosi in base non già, come dice il TAR, all’art. 15 preleggi, ma su un pacifico principio di diritto pubblico —secondo cui la soppressione, ad opera di una legge successiva, di un potere amministrativo ha effetto caducante di tutti gli atti regolamentari, qual è appunto la citata delibera n. 121 (atto cogente e non necessitato, né chiesto ad istanza di parte), adottati nell’esercizio del potere così soppresso—, mentre detto art. 19-quinquiesdecies ha cristallizzato la disciplina della materia «cadenza della fatturazione per il servizi di TLC» (ormai non più liberamente modificabile dall’Autorità), donde la caducazione della citata delibera n. 121 e degli atti consequenziali, ferma comunque l’omessa pronuncia del TAR sul conflitto tra il termine posto dall’art. 19-quinquiesdecies entro il quale gli operatori di TLC avrebbero dovuto adottare la cadenza mensile (120 giorni, scadenza al 5 aprile 2018) e quello entro cui gli operatori di telefonia erano obbligati a restituire i giorni “erosi” (dal 23 giugno 2017 fino al momento dell’effettiva adozione della cadenza mensile per la fatturazione ed il rinnovo delle offerte), sicché, essendo per il TAR tal art. 19-quinquiesdecies la norma applicabile a partire dal 6 dicembre 2017 alla cadenza mensile di fatturazione (ma che non impone di adottarla prima del 5 aprile 2018), allora nel periodo compreso tra le due date testé citate il mantenimento di una cadenza diversa da quella mensile è lecito e, quindi le delibere AGCOM impugnate in primo grado sono sicuramente illegittime laddove estendono l’obbligo restitutorio ai giorni “erosi” nel periodo indicato, sicché, onde evitare ogni irrazionale gestione della complessa vicenda derivante dalla simultanea applicazione della delibera n. 121 e del DL 148/2017 (come adombra il TAR), solo questo è l’unico applicabile al caso in esame e determina la caducazione di quella. IV) – l’importanza dirimente della censurata violazione delle garanzie partecipative procedimentali nell’emanazione delle impugnate delibere, non obliterandone l’illegittimità il fatto dell’alternarsi di provvedimenti cautelari emanati nel giudizio di prime cure (per il TAR invece idoneo a consentire agli operatori d’esternare le proprie posizioni, sì da indurre l’AGCOM ad emanare statuizioni di volta in volta correttive), giacché, per un verso, siffatte garanzie vanno ottemperate nell’àmbito del procedimento amministrativo e non sono surrogabili nel processo (in disparte l’inequivoco dato normativo, a cagione delle insopprimibili differenze ontologiche tra l’uno e l’altro) e neppure se questo Giudice adotti misure cautelari conformative della successiva attività della P.A. e, per altro verso, non è vero che non siano emersi in sede giurisdizionale elementi per dimostrare invece l’utilità della partecipazione dell’appellante specie ad un procedimento sanzionatorio (per contro il TAR subordina l’illegittimità sul mancato rispetto di dette garanzie alla dimostrazione, ad onere della parte, che tal partecipazione sia stata utile), tant’è che la serena lettura degli atti processuali dimostra come detta Società abbia illustrato più volte le circostanze che non poté rappresentare ex ante all’AGCOM e che invece erano rilevanti rispetto ai provvedimenti di quest’ultima (p. es., l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità materiale, di determinare per ognuno dei propri clienti il numero dei giorni “erosi”, di svolgere tal attività verso i clienti migrati ad altro operatore, ecc.); V) – ad onta dei profili tecnici dedotti e dell’estrema difficoltà materiale di restituire l’equivalente dei giorni “erosi” a tutti ed a ciascun cliente (al di là del contenuto e della storia dei loro contratti), che tal restituzione non sarebbe potuta esser mai meno afflittiva del rimborso (equivalendo il differimento della fattura comunque ad un mancato ricavo), oltreché in pratica irripetibile in un contesto ancora sub judice, donde l’irrazionalità d’una tal scelta; VI) – nell’affermare che il decreto n. 9/18/PRES servisse solo ad adempiere al decreto cautelare monocratico, a sospendere allo stato la procedura restitutoria e ad ammettere gli operatori al contraddittorio (sia pur limitato tempi da indicare per la restituzione dei giorni “erosi”), il vero contenuto della censura attorea —secondo cui, da un lato, l’Autorità avrebbe dovuto individuare modalità meno afflittive e più proporzionate al risultato da conseguire e, dall’altro, non v’erano i presupposti di straordinaria necessità e urgenza per l’esercizio del potere presidenziale—, mentre la misura cautelare non le impose pure d’emendare i possibili vizi della delibera n. 113/18, donde l’oggettiva insussistenza delle ragioni sottese al decreto n. 9/18 e l’invalidità di tutti gli atti ad esso successivi e conseguenti; VII) – di non aver correttamente o per nulla pronunciato sulla doglianza attorea: a) sull’inesistenza del potere (e quindi del dovere) dell’AGCOM di garantire un ristoro agli utenti, l’unico dovere per questa essendo d’irrogare la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 98 CCE; b) circa il richiamo della delibera n. 121/17/CONS, ricordata dall’appellante solo per evidenziare che il “dovere”, di cui parla l’Autorità, in realtà non esiste; c) in ogni caso, l’AGCOM non avrebbe potuto esercitare il potere sanzionatorio, qualunque ne fosse il contenuto, finché il Consiglio di Stato non avesse giudicato sull’appello verso il rigetto dell’impugnazione attorea della delibera sanzionatoria n. 121/17/CONS, a nulla rilevando, come invece afferma il TAR, che quest’ultima o la sentenza che ne respinse il ricorso non risultino sospese, posto che una sanzione non va irrogata fintanto che il presupposto per l’esercizio del potere sanzionatorio non si sia definitivamente consolidato; d) sulla sanzione di cui alla predetta delibera n. 121, il solo potere dell’AGCOM essendo quello d’aver irrogato la sanzione pecuniaria già in base alla delibera n. 500/17/CONS; e) sull’inadeguatezza in sé del termine (31 dicembre 2018) assegnato dalla delibera n. 269/18/CONS per eseguire la restituzione dei giorni “erosi”, dal TAR ritenuto comunque congruo per gli operatori (che avrebbero ben potuto adempiere fin dal 6 giugno 2018) e invece incurante dei problemi rappresentati, specie con riguardo alla posizione personale di ciascun cliente e stante il difetto d’istruttoria in ordine agli strumenti tecnici (tant’è che il XV motivo del terzo atto per motivi aggiunti viene riproposto); f) sulla possibilità di rateazione dell’adempimento, prevista sì dalla delibera n. 269/18/CONS, ma su cui la sentenza appellata sorvola; g) sul contenuto del decreto n. 9/18/PRES, che aveva sì soppresso il termine originariamente fissato dalla delibera n. 113/18/CONS e disposto un’audizione al fine di determinarne uno nuovo entro cui gli operatori avrebbero dovuto far cessare gli effetti della cadenza di fatturazione a 28 giorni, ma senza dare alcuna indicazione di quale sarebbe potuto essere il nuovo termine e se si potessero modificare le modalità d’adempimento, essendo tutto rimesso alla nuova delibera che l’AGCOM avrebbe adottato in futuro; VIII) – aver dichiarato inammissibile il XII motivo del terzo atto per motivi aggiunti (perché basato su mere ipotesi indimostrate sul carattere non neutrale della misura restitutoria sotto il profilo economico-finanziario), cosa, questa, erronea per l’aspetto sia probatorio (non v’è contraddizione con altre doglianze; entrambe le forme di compensazione implicano per l’operatore una perdita non recuperabile e minano l’equilibrio economico-finanziario; i maggiori proventi furono reinvestiti nel mercato da tutti gli operatori, come risulta dal report annuale ASSTEL 2018; l’appellante adottò misure per neutralizzare l’effetto dell’aumento e ne ha dato contezza nell’audizione del 19 aprile 2018), sia del difetto d’istruttoria (l’affermazione dell’Autorità su tal neutralità non fu sorretta da alcuna effettiva analisi d’impatto, volta a verificare se la misura fosse sostenibile per gli operatori), sia, infine, contenutistico (mentre i restanti operatori erano passata alla cadenza di fatturazione a 28 giorni molto tempo prima della delibera n. 121/17/CONS senza che l’Autorità avesse avuto nulla da obiettare loro, l’appellante effettuò tal passaggio a ridosso della pubblicazione della delibera stessa, cosa, questa, che avrebbe dovuto esser considerata dall’Autorità stessa per una corretta analisi di impatto della misura; IX) – l’indebita declaratoria d’improcedibilità di tutti i motivi (salvo l’XI), proposti con il gravame introduttivo di primo grado contro la delibera n. 500/17/CONS —servendo altresì a rigettare pure il IX motivo del primo atto per motivi aggiunti, tutte le censure d’illegittimità derivata formulate col VI motivo del secondo atto per motivi aggiunti e col XVII motivo del terzo—, sull’erroneo presupposto che tal delibera fosse stata revocata e sostituita dalla delibera n. 113/18/CONS, mentre tal sostituzione riguardò solo la diffida originariamente impartita dalla delibera n. 500, dal che il vizio d’omessa pronuncia concernente sia le parti di detta delibera che costituirono il presupposto del predetto obbligo restitutorio (cfr. § 2.2 della sentenza) e la necessità di riformare la sentenza stessa ai §§ 8 e 16 (in tutte le parti in cui fu dedotta l’illegittimità derivata dai vizi della delibera n. 500), sia i motivi dal XI al XVII del gravame introduttivo in primo grado (nelle parti che ebbero ad oggetto la lesione del diritto degli utenti ad un’informazione adeguata; la carenza assoluta di potere e l’invasione da parte dell’AGCOM della sfera di attribuzione di altro potere dello Stato; la carenza d’istruttoria, la contraddittorietà e perplessità; il difetto d’istruttoria e di motivazione e la violazione della novella recata dall’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017 al DL 7/2007; l’irragionevolezza e la disparità di trattamento), sia, infine, l’illegittimità derivata dedotta col VI motivo del secondo atto per motivi aggiunti e con il XVII motivo del terzo atto per motivi aggiunti (la quale si riferisce, oltre che ai vizi della delibera n. 500, anche a quelli di tutti gli atti antecedenti, rispettivamente, al decreto n. 9/18/PRES ed alla delibera n. 269/18/CONS; X) – l’omessa pronuncia su motivi diversi da quelli testé evidenziati e, in particolare: a) sulla sez. B) del gravame introduttivo al TAR (motivi da III a IX), poiché all’appellante, che aveva formulato all’Autorità una proposta di impegni —specificando al contempo d’aver posto in essere le attività occorrenti per il ripristino della cadenza mensile di fatturazione prima dell’entrata in vigore del DL 148/2017 e l’adozione di precise misure per garantire nelle more la trasparenza e la comparabilità dei prezzi, nonché volte a neutralizzare l’impatto dell’aumento di prezzo, sì da far cessare gli effetti della violazione ed i presupposti per la sanzione e per la diffida—, l’Autorità oppose che la condotta non fosse cessata, di non aver previsto l’implementazione di una struttura di vigilanza indipendente per monitorare detti impegni e di non aver chiarito gli effetti procompetitivi della misura, decisa, tutti questi, che l’appellante contestò in modo specifico in sede procedimentale ed in via d’azione, ma senza risposta dal TAR; b) sulla sez. C) di tal gravame introduttivo (motivo X), per l’illegittima quantificazione della sanzione per ragioni diverse da quella accolta sì dal TAR, ma senza che, in sede di riemanazione, la sentenza avesse esaminato ed accolto anche le ulteriori contestazioni che avverso la quantificazione della sanzione erano state articolate per dimostrare l’errata applicazione del massimo edittale. Resiste nel presente giudizio l’AGCOM, che conclude per il rigetto dell’appello principale. Si son costituiti in giudizio pure il Codacons e l’Associazione CODICI, concludendo in modo articolato per l’infondatezza della pretesa attorea. 4.2. – L’Autorità inoltre propone a sua volta gravame incidentale contro la sentenza n. 12481/2018, atteso che, a suo dire, nell’esercizio della propria giurisdizione di merito il TAR non avrebbe ben individuato la cornice edittale applicabile alla condotta illecita dell’appellante principale. Sul punto, il TAR, in sede di accertamento della sanzione da irrogare a quest’ultima, ha osservato che: a) l’Autorità ha applicato l’art. 98, co. 16 CCE (come richiamato dall’art. 8 della delibera n. 252/16/CONS), che è stato modificato sì dall’art. 1, co. 43 della l. 4 agosto 2017 n. 124 (legge annuale per il mercato e la concorrenza), ma a far tempo dal 29 agosto 2017; b) tale novella ha riguardato l’importo del massimo edittale della sanzione prevista, applicato nel caso di specie, che è stato raddoppiato (oggidì è pari a € 1.160.000; c) tuttavia, nel caso in esame l’Autorità era tenuta ad applicare la previgente misura, in quanto l’illecito sanzionato fu consumato dalla Società appellante principale nel giugno 2017, quando, cioè, spirò il termine d’adempimento concesso agli operatori per adeguare le loro offerte alle prescrizioni della citata delibera n. 252/16/CONS (cfr. l’art. 2, co. 3 della delibera n. 121/17/CONS). L’Autorità, che pure ha provveduto a rideterminare la sanzione originariamente irrogata, chiede la riforma in parte qua della sentenza appellata, deducendo: 1) – l’ultrapetizione in cui essa è incorsa, non avendo l’appellante principale formulato in primo grado una diretta censura quantificazione della sanzione irrogata; 2) – l’erronea valutazione della norma sanzionatoria applicabile, poiché l’inadempimento all’ordine di ripristino del sistema di fatturazione mensile dà luogo ad un illecito permanente, tale, quindi, da imporre l’applicazione non già della lex mitior, ma della norma vigente al momento in cui al momento in cui è stata irrogata la sanzione. L’appellante principale eccepisce l’inammissibilità del gravame incidentale e, comunque, la sua infondatezza. 4.3. Tutte le parti hanno ritualmente depositato documentazione e memorie. Alla pubblica udienza del 4 luglio 2019, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio. 5. – Non avendo quello incidentale alcun vero contenuto preclusivo, non v’è ragione d’anteporne l’esame all’appello principale, il quale è però infondato e va disatteso, ché non uno degli argomenti dedotti resiste all’esatta ricostruzione della res controversa operata dal TAR. 5.1. – Tuttavia, una precisazione preliminare è d’obbligo e s’incentra appunto sull’“eccentricità” della scelta, comune a tutti i principali operatori di telefonia, verso una fatturazione dei servizi erogati con cadenza a 28 giorni, anziché, com’è sempre stato e lo è comunque dall’entrata in vigore della novella recata dall’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017. Ora, la periodicità temporale d'uso per i pagamenti nei contratti di somministrazione continuativi di beni (energia, gas, acqua) e di servizi (telefonia fissa) è sempre stata il mese o suoi multipli (p. es., il bimestre o il trimestre). Ciò è tanto universalmente noto, quanto certo da apparire indubitabile ed incontestabile, assurgendo a fatto notorio ex art. 115, II co., c.p.c. (su tali attributi del notorio, cfr. di recente Cass., III, 21 aprile 2016 n. 8049; id., V, 3 marzo 2017; id., VI/3, 20 settembre 2019 n. 23546 - ord.za). La conferma che la periodicità mensile (o multipli del mese) sia la scadenza d'uso da sempre adoperata per i contratti di durata relativi alle utilities continuativamente erogati (tipo la telefonia fissa) trova buona conferma pure a livello eurounitario nell’art. 5, § 1), lett. e) della dir. n. 2011/83/UE (sugli obblighi informativi precontrattuali del professionista al fine della stipula di contratti da concludere con i consumatori a distanza o negoziati fuori dei locali commerciali). Al di là del peculiare oggetto della norma, essa si premura di precisare, per i contratti di abbonamento o a tempo indeterminato che prevedono l'addebito di una tariffa fissa, che il prezzo totale equivalga anche ai costi mensili totali. Pertanto, anche il legislatore UE reputa un dato di fatto ovvio, ossia un patrimonio di conoscenza comune della collettività per i contratti a prestazioni continuative a cadenza fissa, che il parametro ordinario di riferimento sia appunto il mese solare. Ebbene, definire come eccentrica la scelta, in apparenza ex abrupto ed in realtà dissimulativa d’un aumento tariffario, della cadenza a 28 giorni, non solo è la ragione che mosse la citata delibera n. 121, ma evidenzia i due aspetti eversivi di tal scelta dal sistema: 1) il richiamo a una cadenza temporale estranea, se non contraria agli usi commerciali inveterati ab immemorabili; 2) il tentativo di detti operatori di forzare il sistema dell’autonomia tariffaria eludendo gli obblighi di cui all’art. 70, co. 4, II per. ed all’art. 71, co. 1 CCE per dissimulare l’aumento tariffario e renderlo poco o nient’affatto intelligibile ai consumatori, in contrario avviso alla regola di trasparenza stabilita ai fini dell’esatta definizione delle regole del rapporto e della comparabilità di esse con quelle di altri operatori, non a caso tutti d’accordo sul punto. Si potrebbe ipotizzare che questa scelta sia anche un’intesa restrittiva, oltre che una pratica scorretta (cfr. provvedimento AGCM del 21 dicembre 2016), posto che scaturì dalla denunciata (da AGCOM ad AGCM) situazione di anomalia per cui tutti i principali operatori nel settore della telefonia fissa e mobile erano passati, contemporaneamente, a cicli di fatturazione calcolati su 28 giorni. Ma quel che qui rileva è che essa s’appalesa sleale, non solo perché indusse l’utente, grazie all’apparente piccolo scarto tra 28 giorni e mese intero, a sottovalutare tal sottile discrepanza e non cogliere fin da subito il predetto aumento. Invero la clausola sulla nuova cadenza di fatturazione sembra impedire o, comunque, rende più difficile all’utente rappresentare a se stesso e con la dovuta immediatezza come, attraverso la contrazione della periodicità di tariffazione, il gestore telefonico percepisce, nel corso di un anno, il corrispettivo per 13, anziché per 12 volte. Né basta: la scelta a 28 giorni limitò drasticamente la possibilità di reperire offerte basate su termini temporali mensili e rese difficoltoso, se non inutile, l’esercizio del diritto di recesso, non essendo più reperibili sul mercato alternative diverse da quella così adottata. L’anomalia era legata al riscontro, da parte degli utenti, di un aumento dei prezzi delle tariffe telefoniche con modalità non trasparenti in seguito alla nuova e simultanea rimodulazione dell’offerta. La circostanza che l’odierna appellante principale arrivò, a suo dire, buon ultima a rimodulare la cadenza di tariffazione, ben lungi dall’aver agevolato i suoi clienti, ebbe l’agio di esaminare le reazioni degli altri operatori di telefonia e delle rispettive clientele e di trarne lezione strategica, non dovendo così temere gli effetti di migrazione dei suoi utenti, di fatto impossibilitati a cambiar gestore. Non s’avvede allora l’appellante come il principio di trasparenza ex art. 71, co. 1, I per. CCE serva proprio ad evitare atteggiamenti oscuri ed a garantire la buona fede nei rapporti tra operatore e clientela, intesa come obbligo di celere informazione e divieto di pretermettere in modo irreversibile gli altrui ragioni e affidamenti. Dal che la ravvisata necessità, da parte di AGCOM e al di là del significato attribuibile a pregressi suoi atteggiamenti attendisti, non solo d’inibire forme eccentriche di fatturazione (cioè il ripristino della cadenza mensile), ma pure l’immediato ristoro dell’equilibrio nei contratti della massa degli utenti attraverso gli strumenti di regolazione, la quale implica, anzi richiede che la regola inibitoria sia accompagnata dalla sanzione ripristinatoria. È stato necessario ristabilire così una condizione di simmetria tra operatore di telefonia, ben informato e consapevole delle sue politiche commerciali, e consumatore, obbligato ad accettare le modifiche delle condizioni di rinnovo della fatturazione, se non adeguatamente informato o in assenza di serie alternative praticabili presso altri operatori. Non dura fatica il Collegio a credere alle parole dell’odierna appellante, secondo cui tal ripristino della fatturazione a cadenza mensile le abbia provocato un costo o un disagio, trattandosi, tuttavia, degli stessi costi e disagi indotti in tutti e ciascun suo utente. Dal che la “neutralità” di tal ripristino verso gli utenti, intesa non come mera gratuità —ché gratuita non fu per gli utenti neppure la cadenza a 28 giorni—, bensì come effetto economico a somma zero. Sicché rettamente fu comunque disattesa la doglianza attorea ribadita nell’VIII motivo d’appello, in quanto l’AGCOM non considerò né dirimente, né rilevante la questione di tal passaggio di Fastweb alla cadenza a 28 giorni, a ridosso della pubblicazione della citata delibera n. 121, ai fini dell’analisi d’impatto del ripristino del tempo di fatturazione nello statu quo ante. 5.2. – Soccorre al riguardo, in primo luogo, l’art. 2, co. 20, lett. d) della l. 481/1995, che consente alla predetta Autorità d’imporre agli operatori, a fronte di comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, l’obbligo di corrispondere loro un indennizzo, che, ai sensi del precedente co. 12, lett. g), può pure essere automatico ( ossia, per quanto qui rileva, non necessitare della domanda da parte dell’utente ). Soccorre altresì l’art. 2, co. 12, lett. d) e lett. h) della stessa legge n. 481. Come meglio si dirà infra, la lett. h) consente all’Autorità di definire «… in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all'utente…», se del caso proponendo, ai sensi della precedente lett. d), «… la modifica… delle condizioni di svolgimento dei servizi, ove ciò sia richiesto dall'andamento del mercato o dalle ragionevoli esigenze degli utenti…». Al riguardo, nessuna censura diretta o trasversale è meritevole d’accoglimento, contro le misure regolatorie dell’AGCOM assunte a tutela della trasparenza e con il richiamo all’art. 2, co. 12, lett. d). Invero, la tutela della trasparenza di cui al citato art. 71, co. 1 si fonda sulla potestà dell’Autorità d’«…assicurare che le imprese che forniscono… servizi accessibili al pubblico di comunicazione elettronica pubblichino informazioni trasparenti, comparabili, adeguate e aggiornate in merito ai prezzi e alle tariffe vigenti… (e)… tali informazioni sono pubblicate in forma chiara, esaustiva e facilmente accessibile…», ossia quel che dà contenuto vero ai poteri di cui al predetto art. 2, co. 12. È solo da soggiungere che, essendo tali poteri immanenti nell’ordinamento dell’AGCOM ed in concreto esercitati nella specie, l’omesso specifico richiamo al citato art. 2, co. 12 nelle impugnate delibere di per sé solo non ne è motivo d’illegittimità, né può esser inteso come ripudio di esso nella motivazione delle delibere stesse. Soccorre infine, soprattutto dopo il dirimente intervento della Corte di giustizia (cfr. CGUE, II, 13 settembre 2018 n. 54) —sul criterio di concorrenza/incompatibilità tra le disposizioni di tutela di cui alla dir. n. 2005/29/CE e quelle del CCE (cfr. Cons. St., VI, 25 ottobre 2019 n. 7296)—, tanto il concetto, condiviso dai Giudici nazionali e dalle Corti europee, dell’esistenza d’un corpo normativo multilivello unitario di tutele (che attinge dalle norme antitrust e dalle garanzie per i consumatori le regole comuni), quanto un altrettanto unitaria attività di protezione dei soggetti deboli (si potrebbe dire: di tutela del non predisponente nei contratti di massa per l’erogazione dei servizi d’utilità), che è svolta con criteri similari, da tutte e ciascuna ANR di settore. Ebbene, va evidenziato il concetto, stante il fermo orientamento della Sezione sul punto e per corroborare il principio di trasparenza ex art. 71, per cui, se una pratica commerciale utilizzata da un operatore costituisce, nel suo insieme e in ragione delle singole modalità di sviluppo, il presupposto idoneo ad ingannare in qualsiasi modo le scelte del consumatore, o a fuorviarle inquinando la sua libera scelta, essa va ricondotta nella categoria delle pratiche scorrette (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 4 marzo 2013 n. 1259; id., 25 giugno 2019 n. 4359; id., 2 settembre 2019 n. 6033). Per quanto le violazioni dei diritti degli utenti siano autonome rispetto alle pratiche commerciali scorrette, l’intervento dell'Autorità, stante sia la contiguità logica tra tali due vicende che la sostanziale identità tra i loro metodi inibitori e repressivi, trova la sua legittimazione nelle definizioni delle seconde per verificare l’accadimento delle prime. Sicché non giova alla tesi attorea d’averne a suo tempo dato comunicazione ai clienti, poiché una cosa è aver avuto contezza d’una data pratica (poi rivelatasi scorretta), ben altra è offrire, secondo buona fede, ai propri clienti un insieme di serie e precise informazioni atte a comprendere la misura adottanda e capirne di conseguenza tutte le sue eventuali implicazioni nocive. L’appellante principale si duole pure che il TAR non abbia colto, tra le altre cose, l’importanza dirimente dell’omesso contraddittorio procedimentale nell’interlocuzione con l’AGCOM, specie per quelle circostanze che non poté rappresentare ex ante all’AGCOM e che invece erano rilevanti rispetto ai provvedimenti di quest’ultima (p. es., l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità materiale, di determinare per ognuno dei propri clienti il numero dei giorni “erosi”, di svolgere tal attività verso i clienti migrati ad altro operatore, ecc. In disparte la necessità di ridimensionare le varie censure procedimentali, non è che l’appellante non poté mai render noto siffatte difficoltà nel corso della lunga interlocuzione con AGCOM, ma è che questa non le ritenne opponibili al potere a tutela delle posizioni deboli dei clienti. Non è chi non veda come, al di là dei profili tecnici sulla gestione informatizzata di decine di migliaia di clienti, fu immediato l’abbandono d’un sistema ben noto e collaudato di fatturazione mensile a favore d’uno oggettivamente esoterico, mentre la Società appellante ora oppone difficoltà per tornare alla cadenza originaria. Privo di pregio è poi opporre le questioni tecniche per l’esatto calcolo dei giorni “erosi” a favore di ciascun utente, nonostante che tutti gli operatori (e, dunque, pure Fastweb) abbiano goduto di fatto d’un termine lungo a tal fine ed avrebbero potuto iniziare l’adempimento restitutorio con fatture provvisorie, salvo conguaglio. È appena da osservare sul punto, specie dopo la ribadizione attorea sul mantenimento dell’aumento tariffario —dissimulato mediante la cadenza di fatturazione quadrisettimanale—, che per dar senso al principio di trasparenza ed evitare la predetta “complessità” dei calcoli gli operatori avrebbero assai più semplicemente potuto chiarire, nella fattura o nel modulo per stipulare un contratto a 28 giorni, la proiezione di costo anche sulla misura mensile. Al riguardo, dice l’appellante d’aver reso noto alla clientela il corrispondente costo su base mensile e, quindi, d’aver consentito agli utenti di comparare le proprie con le offerte altrui. Certo, già dar contezza della proiezione del costo (in base, p.es., al seguente schema: il costo per 28 gg. è X, che corrisponde a Y secondo la tariffa a base mensile), è un principio di ravvedimento operoso da parte dell’appellante. Ma lo scopo di una seria e corretta informazione è, al fine d’evitare a priori ogni fraintendimento, non solo tal proiezione, ma soprattutto una chiara esposizione dell’aumento. Se l’appellante avesse chiarito subito ai suoi utenti e, se del caso, alla stessa Autorità, il reale significato del nuovo sistema di fatturazione, ossia l’aumento della tariffa, il cambio della cadenza sarebbe stato inutile. Per contro l’insistenza attorea sulla difesa della cadenza a 28 giorni rafforza la necessità delle misure dissuasive e procompetitive contro una scelta degli operatori rivelatasi se non emulativa, certo dissimulativa, cioè sleale. 6. – L’appellante censura inoltre la sentenza gravata per non aver colto l’insussistenza a priori di giorni “erosi” sul piano economico a causa della fatturazione quadrisettimanale, anziché mensile —nel periodo di vigenza della delibera n. 121, ossia dal 23 giugno 2017 al 5 aprile 2018 (data di scadenza del termine di 120 giorni posto dall’art. 19-quinquiesdecies)—, nel senso, cioè, che essa non ha lucrato un compenso maggiore di quello cui avrebbe avuto diritto. L’appellante afferma quindi che il servizio è stato compiutamente offerto alla clientela e che non vi sarebbe il pregiudizio lamentato, che fonda l’obbligo di ristoro a favore degli utenti. Non è così: s’è già detto come il passaggio dalla fatturazione a cadenza mensile a quella a 28 giorni, quantunque annunciata dall’appellante alla sua clientela, determinò una violazione del principio di trasparenza, rendendo meno intelligibile l’effettivo costo del servizio al fine di non consentire la percezione immediata dell’aumento della tariffa ed impedendo perciò una libera valutazione delle offerte. In disparte che effetto ripristinatorio e misura indennitaria discendono da tal violazione e dal mancato ripristino della fatturazione a cadenza mensile, è evidente che il cambio di passo temporale, nel ridurre a 28 giorni l’obbligo di pagamento dei servizi a carico di ciascun utente e mantenere, però, lo stesso prezzo della fattura mensile, ha determinato un aumento del costo dei servizi stessi pari a ca. l’8,6 %. Tanto senza considerare che, al contempo, tal dato non fu reso esplicito e che il cambio di tal cadenza da parte di tutti i principali operatori non consentì nei fatti la possibilità di recesso. Ora, non è vero che la rideterminazione della cadenza di fatturazione, alla fin fine ed in base a quel che assume l’appellante, non abbia prodotto effetti nocivi sugli utenti. Infatti, il nuovo sistema: a) incorporò l’applicazione d’un aumento tariffario che, per quanto liberamente disponibile da tutti e ciascun operatore nell’esercizio del jus variandi (che l’Autorità non ha mai messo in dubbio) non fu reso comprensibile e, anzi, fu espresso in modo da impedire ogni eventuale recesso; b) determinò il passaggio da 12 a 13 fatture emesse nel corso dell’anno, aumentando così l’onere economico e quello tributario a carico degli utenti, rispetto coeteris paribus al costo del servizio per l’annualità precedente; c) disallineò la data di tale fatturazione da quella in cui la più parte degli utenti, anche se non per forza lavoratori subordinati (ma soprattutto questi ultimi, che di norma ricevono la retribuzione a cadenza mensile, a data fissa), impostano il pagamento automatico dei loro conti telefonici col sistema del RID bancario; d) rese più complicato individuare il giorno esatto in cui ciascun singolo rateo sarebbe venuto a scadere. Dice l’appellante d’aver debitamente comunicato il cambio di cadenza temporale di fatturazione. Ma non s’avvede, oltre che degli effetti peggiorativi di quest’ultimo, d’esser stata sleale coi propri utenti, per non aver fatto loro presente l’aumento sostanziale della tariffa, né tampoco la simultanea scelta di tutti gli operatori nel medesimo senso, così blindando la propria clientela rispetto gli altri operatori di telefonia e viceversa. Né si dica che, in fondo, nessuno avrebbe pagato di più di quel che sarebbe stato il costo del suo servizio acquistato con cadenza mensile, giacché questa è una petizione di principio: la cadenza a 28 giorni determinò comunque maggiori oneri, poiché fu solo apparente l’identità della tariffa rispetto a prima. Al più ciascun cliente avrebbe pagato, con cadenza mensile, il servizio erogato con la nuova tariffa (+ 8,6%), corrispondente sì (ove più, ove meno) a quella precedente, ma soltanto per le prime quattro settimane di ciascun mese e senza creare altri problemi d’interpretazione della fattura a tutti ed a ciascun cliente. Buona fede e correttezza (regole specifiche sia della fase di conclusione che di quella di esecuzione del contratto, artt. 1175 e 1375 c.c.), nonché rispetto del principio di trasparenza appunto questo imponevano all’appellante di render noto ai suoi utenti e ciò già alla luce del solo art. 71, co. 1 CCE, senza bisogno, pertanto, di coinvolgere pure il Codice del consumo. 6.1. – Non a diversa conclusione deve il Collegio pervenire per il rigetto, statuito dal TAR, della pretesa attorea, secondo il quale nessuna delle norme invocate dall’Autorità varrebbe a costituire un vero e idoneo fondamento normativo dell’azione regolatoria per cui è causa. L’art. 2, co. 12, lett. d) della l. 481/1995, nel riferirsi espressamente alle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, stabilì che ognuna di esse «… propone la modifica delle clausole delle concessioni e delle convenzioni, ivi comprese quelle relative all'esercizio in esclusiva, delle autorizzazioni, dei contratti di programma in essere e delle condizioni di svolgimento dei servizi, ove ciò sia richiesto dall'andamento del mercato o dalle ragionevoli esigenze degli utenti, definendo altresì le condizioni tecnico-economiche di accesso e di interconnessione alle reti, ove previsti dalla normativa vigente…». In forza poi della lett. h), l’Autorità «… emana le direttive concernenti la produzione e l'erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all'utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti… (di utenti e consumatori), eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione…». Il successivo co. 37, cui il co. 12, lett. h) rinvia e che si occupa del regolamento di servizio predisposto da ciascun esercente il servizio regolato, precisa che «… le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lettera h), costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio…». Come si vede, e in ciò l’interpretazione resa dal TAR s’appalesa condivisibile, si tratta di norme «… dai tratti generali, che impongono un intervento attuativo dell’Autorità…», cioè di clausole aperte, da implementare in base al prudente apprezzamento di essa a seconda degli scopi di tutela da raggiungere. Il risultato potrà prima facie apparire l’esercizio d’un potere atipico, ma in realtà, a ben vedere, esso discende dal vero e proprio sistema che la dir. n. 2005/29/CE, le direttive settoriali e le fonti interne vanno costruendo tra loro e che trovano unità di principi proprio nell’art. 2, commi 12 e 37 della l. 481/2015 (cui rinvia l’art. 1, co. 6, lett. c, n. 14 della l. 249/1997, istitutiva dell'AGCOM). Tutto ciò accade sotto la guida degli organismi europei e della giurisprudenza CGUE, che così garantiscono l'applicazione unitaria, coerente ed uniforme delle discipline generale e di settore, come all'interno fanno le ANR raccordando e coordinando i propri interventi nelle materie aventi tratti comuni, in primis normativi e regolatori. Sicché, ad onta di quel opina l’appellante, v’è una copertura eurounitaria alle delibere delle ANR di settore (come AGCOM) che, pur talvolta non rinvenendo immediatamente nel proprio sistema se non clausole generali e non anche un puntuale fondamento nelle norme primarie (europee e nazionali) di settore, perseguano obiettivi comunque coerenti con quelli fissati nelle suddette normative primarie, tali da poterne costituire continuazione ideale. Esse, quindi e per il sol fatto d’aver a disposizione le fonti interne e dell’UE —nonché un framework sovranazionale basato sulla formazione, condivisione e circolazione di best practices poste dagli organi dell’Unione—, costruiscono provvedimenti congruenti coi fini di tutela contro le pratiche commerciali scorrette ed a favore dei consumatori, ferme le loro rispettive potestà autonome avanti a fattispecie incompatibili (cioè, irriducibili per specificità tecnica propria del settore). Ebbene, già ben prima dei fatti di causa ed il TAR non ha mancato di rammentarlo, la Sezione (cfr. Cons. St., VI, 24 maggio 2016 n. 2182, ma su tali poteri, sia pur con le cautele del caso, era intervenuta Cass., III, 27 luglio 2011 n. 16401) ha chiarito come tutte tali norme abbiano attribuito all'Autorità poteri ampi di eterointegrazione, suppletiva e cogente, dei contratti per il perseguimento di specifici obiettivi individuati. Tal potere, in quanto attribuito da una norma imperativa, diventa esso stesso, insieme a tale norma, parametro di validità del contratto. Il contenuto dei contratti viene così integrato, secondo lo schema dell'art. 1374 c.c., dall'esercizio di tal potere da parte dell'Autorità o, se del caso (per i contratti contenenti clausole difformi da quanto statuito dall'Autorità stessa), queste ultime sono nulle, ai sensi dell’art. 1418, I c., c.c. Scolorano così tutte le questioni sull’assenza, in capo all’AGCOM, del potere d’assumere misure di carattere ripristinatorio a favore degli utenti ed in applicazione della l. 481/1995. Si può discutere se ordine di storno e restituzione dei giorni erosi a causa della fatturazione a 28 giorni siano, o no, misure d’identico tenore, anche se la questione non rileva, avendo ormai l’azione amministrativa circoscritto il contenuto del provvedimento alla disposizione di forme di erogazione gratuita aventi natura sostanzialmente conformativa. Ma ciò, quantunque sbagliata ne sia la deduzione —posto che l’obbligo restitutorio per i giorni erosi è solo uno degli effetti del ripristino della fatturazione con la cadenza mensile, non la sanzione d’un illecito—, non rileva nella specie, una volta assodato, come visto poc’anzi, che la potestà d’eterointegrazione delle cadenze temporali e la tutela sulla trasparenza delle offerte e dei rinnovi e sulla libera e cosciente determinazione del consumatore costituiscono regole comuni alle ANR che debbano regolare, nel proprio settore, tali vicende. Del pari non sussiste la paventata violazione del principio di legalità ex art. 23 Cost. e non si determina alcuna nullità ex art. 21-septies della l. 241/1990 per le delibere ed i provvedimenti in esame, giacché tal obbligo restitutorio, peraltro più volte differito, è appunto la restitutio in integrum di quanto lucrato, mediante un aumento dissimulato dagli operatori grazie alla cadenza di fatturazione a 28 giorni. Scolorano così le doglianze di cui al V motivo d’appello, giacché l’indennità restitutoria disposta dall’Autorità, ben lungi dall’esser irrazionale o arbitraria, è il metodo più efficace per rimborsare gli utenti ed il meno afflittivo, come meglio si dirà infra, per gli operatori (al fine di non esporli a liti giudiziarie infinite di tipo risarcitorio). 6.2. – Dice ancora l’appellante principale che la misura posta dall’AGCOM è solo un’erogazione gratuita di prestazioni, non già un indennizzo e men che mai un indennizzo automatico. S’è accennato dianzi alla potestà che l’art. 2, co. 20, lett. d) della l. 481/1995 assegna all’Autorità per far cessare comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, se del caso imponendo all’operatore, che li commetta, l’obbligo di corrispondere loro un indennizzo ai sensi del precedente co. 12, lett. g), che può esser anche automatico. Conviene qui ricordare i tratti principali in teoria generale dell’istituto dell’indennità o indennizzo, avendo l’Autorità esercitato, a giudizio del Collegio, in definitiva un potere conformativo che è sostitutivo della potestà d’imposizione di obblighi di natura indennitaria. L’indennizzo o indennità è termine riferito normalmente a prestazioni pecuniarie che ricorrono, in diritto civile, in situazioni molto diverse fra loro; in diritto amministrativo, si ricollega di solito o perlopiù all’adozione di un provvedimento amministrativo che incida sulla sfera patrimoniale di un privato (come nel caso dell’espropriazione). L’indennità si distingue dal risarcimento (collegato ad un danno ingiusto), in quanto essa dipende solo da un fatto di arricchimento a scapito di altri che si deve eliminare, senza alcuna indagine sull’ingiustizia del danno (spettante all’AGO: arg. ex Cass., sez. un., 29 agosto 2008 n. 21934, di norma senza pregiudizio per i poteri inibitori o conformativi spettanti alle ANR). Il danno è una lesione di un bene protetto, mentre il fatto genetico dell’obbligo restitutorio di natura indennitaria è la perdita o limitazione della sfera giuridico-patrimoniale altrui in correlazione ad un trasferimento forzoso od alla nascita di un diritto in capo ad altri che l’ordinamento vuole riequilibrare. L’indennizzo ha una funzione di corrispettività o di carattere sostitutivo del bene che è stato trasferito. Nel caso di specie, l’erogazione gratuita della prestazione (di natura lato sensu indennitaria) sostituisce la somma di danaro che è stata prelevata dalla generalità degli utenti con il sistema di fatturazione a 28 giorni. Da queste coordinate generali deriva l’individuazione dell’esatta natura del potere esercitato, che è un potere conformativo di natura lato sensu indennitaria e non certo un potere sanzionatorio. Va altresì rilevato che la giurisprudenza da tempo ha riconosciuto alle Autorità indipendenti, per la loro collocazione istituzionale, dei poteri impliciti, da esercitarsi in relazione agli scopi stabiliti dalla legge. Basti in proposito menzionare la giurisprudenza della Sezione (cfr. Cons. St., VI, 20 marzo 2015 n. 1532), secondo cui la parziale deroga al principio di legalità in senso sostanziale (che si estrinseca, in particolare, attraverso la tipica forma di esercizio del potere regolamentare ai sensi dell'art. 17 della l. 23 agosto 1988 n. 400, secondo un sistema ispirato a una rigorosa tipicità) si giustifica, nel caso delle Autorità indipendenti, nell'esigenza d’assicurare il perseguimento di fini che la stessa legge predetermina. Il particolare tecnicismo del settore impone, infatti, di assegnare alle Autorità il compito di prevedere e adeguare costantemente il contenuto delle regole tecniche all'evoluzione del sistema; una predeterminazione legislativa rigida risulterebbe invero di ostacolo al perseguimento di tali scopi: da qui la conformità a Costituzione, in relazione agli atti regolatori in esame, dei poteri impliciti. Ma, nella specie, il potere è nominato (essendo di natura inibitorio-conformativa ed indennitaria) ed è stato esercitato, sostanzialmente con una fattispecie procedimentale a formazione progressiva che lo ha sagomato, in contraddittorio con le imprese. Esso è riconducibile all’ampio genus dei poteri conformativi ed inibitori spettanti all’Autorità per garantire la tutela degli utenti sul mercato. In tale chiave, l’unica interpretazione accoglibile dei provvedimenti impugnati è quella che li riconduce a tali poteri ed illumina sull’intento perseguito, che deve essere garantito effettivamente —in quanto conforme agli scopi legalmente perseguiti ed assegnati all’Autorità—, di riequilibrare a tutela degli utenti, la situazione alterata da un aumento dei prezzi non trasparente. In conclusione, in base all’art. 2, co. 20, lett. d), l’AGCOM non ha esercitato un vero e proprio potere sanzionatorio, ma ha attivato il rimedio generale posto dalla legge (dunque, tutt’altro che privo di base normativa) sull’ordinamento delle Autorità di regolazione. Tal rimedio indennitario, infatti e che per sua natura s’attaglia alla situazione cui intende por soluzione, appunto per questo sfugge al principio di tipicità proprio delle sanzioni. Ma non per ciò solo non risponde al fine generale dell’istituzione delle ANR e, in particolare, trova il suo fondamento nella necessità di assicurare, insieme con la promozione della concorrenza e con definizione di sistemi tariffari certi, trasparenti e basati su criteri predefiniti per i servizi erogati, la tutela degli interessi di utenti e consumatori. L’indennizzo, quindi e proprio perché in base alla delibera n. 114/2017/CONS non s’atteggia più a mero rimborso, contempera le esigenze di ripristino della fatturazione a cadenza mensile (il termine per il cui adempimento servendo a risolvere i problemi operativi di tal ripristino nei sistemi interni degli operatori di telefonia) con la refusione dei disagi subiti dagli utenti. L’appellante adombra la necessità della previa diffida ai fini dell’imposizione dell’indennizzo, ma tal dicotomia temporale, non necessaria nella misura lato sensu ripristinatoria assunta da AGCOM, neppure si ravvisa nella legge. Questa, piuttosto, tende a unificare la regolazione del corretto modus agendi degli operatori con le misure di tutela consumeristica, giacché il ripristino dello statu quo ante consta anche della riparazione degli effetti pregiudizievoli: tutto ciò ad un unico fine, ossia al fine d’evitare che la scelta unilaterale degli operatori di telefonia (sul piano della trasparenza, della conoscibilità dei costi del servizio, della buona fede contrattuale e del buon andamento del servizio) incida senza controllo sulla sfera giuridica degli utenti. Questi ultimi, in mercati regolati come quello in esame, sono soggetti che tengono condotte di c.d. “apatia” solo in apparenza razionale, cioè soggetti di minorata difesa: l’attivazione, da parte degli utenti, di meccanismi ordinari di controllo comporterebbe effetti disfunzionali sul piano sia dell’andamento molecolare del contenzioso, sia dell’ingolfamento del sistema giudiziario, sia sul piano della rinuncia alla tutela da parte dei soggetti c.d. apatici. Si tratta della c.d. tutela amministrativa dei diritti o public enforcement, un campo indispensabile di intervento delle Autorità di regolazione nella moderna realtà dei mercati, a fronte delle difficoltà dell’ordinaria risposta giudiziaria (basata sull’innesco di un contenzioso pulviscolare) a rispondere alle problematiche poste dall’economia di massa. Ciò serve ad assicurare un’effettiva e concreta tutela a favore degli utenti, quali soggetti deboli del rapporto negoziale (e senza più necessità, dunque, d’una loro istanza di “rimborso”) e per dissuadere (su un piano general preventivo) gli operatori da condotte illegittime e pregiudizievoli. L’indennizzo quindi non impone a questi ultimi alcuna erogazione patrimoniale né in denaro, né in servizi, né in alcunché d’altro che non sia, da un lato, il mero riallineamento (ovviamente, d’ufficio) della cadenza mensile di fatturazione e, dall’altro, il conseguente conguaglio (sempre d’ufficio) per il disallineamento cagionato da una fatturazione a cadenza diversa. Erronea è quindi la prospettazione attorea, ove vuol inferire dal richiamo dell’art. 2. co. 20, lett. d) della l. 481/1995 al precedente co. 12, lett. g) l’adozione di un atto di regolazione ex ante, nel caso in esame insussistente, per “predeterminare” i casi d’indennizzo a favore degli utenti. Dalla serena lettura completa del co. 12, lett. g) s’evince solo che l’Autorità «… controlla lo svolgimento dei servizi con poteri di ispezione, di accesso, di acquisizione della documentazione e delle notizie utili, determinando altresì i casi di indennizzo automatico da parte del soggetto esercente il servizio nei confronti dell'utente ove il medesimo soggetto non rispetti le clausole contrattuali o eroghi il servizio con livelli qualitativi inferiori a quelli stabiliti nel regolamento di servizio di cui al comma 37, nel contratto di programma ovvero ai sensi della lettera h)…». Non vi sono evidenze d’un dovere di “predeterminazione” regolatoria sui casi d’indennizzo, specie ove sia di carattere non automatico e quindi non necessariamente predeterminabile, com’è appunto quello scaturito nella specie dalla complessa vicenda all’esame del Collegio ( che, pur riguardando un indennizzo non a domanda, concerne un caso che non è predeterminabile, risolto in fondo con una sorta di reintegrazione in forma specifica mirante ad eliminare in toto il pregiudizio subito dagli utenti e quindi non necessitante di alcuna prederminazione di criteri ). È vero il contrario. La determinazione dei casi d’indennizzo è una potestà non per forza di tipo generale, che imponga, cioè, la previa identificazione dei casi per i quali scatti poi l’obbligo d’indennizzo. Essa invero si riconnette direttamente (come ben s’evince dalla locuzione «determinando altresì») agli esiti del controllo, il quale costituisce il potere oggetto principale di tal norma. Sicché tal predeterminazione non è esclusa in assoluto, ma si rende necessaria le quante volte si tratti di forme d’indennizzo che non si traducano nel mero riequilibrio della situazione patrimoniale alterata per effetto dell’esercizio di scelte unilaterali dei gestori, quando queste si palesino non conformi al canone di trasparenza. E tal necessità, che si ravvisa, p. es., nel caso in cui l’indennizzo, per la sua parzialità e per il suo carattere forfetario, si cumuli al risarcimento, non si ha nel caso di specie, ove proprio la decisione dell’Autorità in sostanza finisce per escludere, nello stesso interesse dei gestori e per la logica che la muove (e per la portata e l’efficacia che le si deve riconoscere), l’attivazione di giudizi risarcitori, che si potranno far valere innanzi all’AGO. 6.3. – Non dura fatica il Collegio a prender atto che, stavolta in modo espresso, l’art. 1, co. 1-quinquies del DL 7/2007, nel testo da ultimo novellato dall’art. 19-quinquiesdecies, co. 1, lett. a) del DL 148/2017, ha attribuito all’AGCOM il potere di ordinare «… all'operatore la cessazione della condotta e il rimborso delle eventuali somme indebitamente percepite o comunque ingiustificatamente addebitate agli utenti…», qualora questi abbia violato, tra l’altro, l’obbligo di fatturazione a cadenza mensile. Ma anche in tal caso valgono le medesime (e qui condivise) considerazioni che il TAR ha svolto per descrivere i rapporti tra la ripetuta delibera n. 121 e l’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017: l’intervento legislativo ha completato quello che l’atto di regolazione aveva già stabilito, senza con ciò sovrapporsi a quest’ultimo. Per contro, non v’è alcuna ragione di leggere la novella ex DL 148/2017 con una specie, spuria, di ragionamento a contrario o, peggio, come un annullamento ex tunc di quanto fatto dall’Autorità fin a quel momento. La novella ex DL 148/2017 è solo quel che s’appalesa dall’interpretazione testuale delle sue disposizioni, ossia una norma che definisce erga omnes e, soprattutto, al di fuori della lite in esame il sistema di fatturazione per tutti i servizi di TLC. Ma non si tratta certo né della conferma della carenza di potere dell’Autorità in materia, né tampoco d’una sorta di “sanatoria” della delibera n. 121. Al più detta novella ha avuto l’evidente scopo d’estendere, recte, di rammentare la tutela per la violazione del principio di trasparenza all’erogazione degli altri servizi di TLC Sfugge quindi al Collegio la ragione dell’orientamento dell’appellante, il quale, anzi, s’appalesa una vera fallacia argomentativa, essendo del tutto implausibile la lettura che essa dà al rapporto tra la delibera e la sopravvenuta novella (che ha rango di fonte primaria), sotto i profili logico, fattuale e giuridico. Tra l’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017 e la delibera citata non v’è contrasto il primo condividendo con la seconda il suo contenuto essenziale. Dal che l’impossibilità anzitutto di predicare, alla luce della gerarchia delle fonti e pur dettando una disciplina di settore, che la norma primaria abbia implicitamente abrogato o derogato alla citata delibera preesistente. Né si può inferire dalla novella la dedotta assenza d’un potere regolatorio originario dell’AGCOM sugli effetti nocivi della cadenza della fatturazione dei servizi di telefonia a 28 giorni. Invero, non appaiono così coinvolti nella specie grandi principi di diritto amministrativo, che la norma primaria non ha mai inteso intaccare e, per quanto consta al Collegio, neppure quello del «tempus recit actum». Non è chi non colga l’eadem ratio dei provvedimenti e della citata norma primaria a tutela della trasparenza e del diritto all’accesso pieno e immediato alle informazioni sui prezzi praticati, al fine di garantire la libertà di scelta degli utenti in termini di reale possibilità di comparare le condizioni economiche dei servizi offerti. Sicché non già l’annullamento, non l’abrogazione, non la sanatoria, ma la riaffermazione da parte del legislatore dei valori sottesi alla delibera n. 121 e pianamente ricavabili dal sistema legale istitutivo dell’Autorità si può ravvisare nel ripetuto art. 19-quinquiesdecies, sì da rafforzare il divieto, posto da detta delibera, di scegliere cadenze temporali di fatturazione eccentriche rispetto all'unità temporale individuata (il mese o suoi multipli) e lo stesso vale per la misura indennitaria in questione. È solo da soggiungere che la novella ex art. 19-quinquiesdecies, disponendo per l’avvenire, non ratifica, né sostituisce il predetto intervento regolatorio (che così resta autonomamente fondato sui propri presupposti normativi), mentre il termine d’adeguamento previsto dal jus superveniens riguarda gli altri operatori di TLC, solo verso i quali vige un apposito termine per adeguare le loro offerte, visto che all’appellante ne è stato concesso uno ad hoc. Non nega il Collegio la rilevanza dei lavori parlamentari in sede di conversione del DL 148/2017, fermo restando che quest’ultimo non abroga, ma rafforza il divieto d’adottare fatturazioni con cadenza diversa dal mese o suoi multipli, come del resto si ricava dalla ratio legis citata nella relazione di accompagnamento al DDL di conversione. In ogni caso, detti lavori possono agevolare certo la interpretazione della norma ed evidenziare l’intenzione del legislatore, ma non imporsi a loro volta quale fonte del diritto o escludere l’interpretazione sistematica delle norma alla luce delle fonti eurounitarie. Il Collegio è fermo nel ribadire come l’apparente successione di norme nel tempo imponga, per un verso, di leggere ciascuna di essa nel proprio contesto e secondo le rispettive origini e rationes e, per altro verso, di non intendere l’identità di scopi come sovrapposizione tra le due fonti. È ben vero che, lo dice lo stesso TAR, che l’art. 19-quinquiesdecies la norma applicabile a far tempo dal 6 dicembre 2017 alla cadenza mensile di fatturazione, quantunque l’obbligo d’adeguamento scatti dal 5 aprile 2018. Ma ciò vale solo per tutti quei destinatari che, diversi dagli operatori di telefonia fissa coinvolti già nel procedimento regolatorio e negli obblighi indennitari testé esaminati, sono estranei a tali vicende e non hanno goduto dell’adeguamento dei termini d’adempimento frutto di siffatta regolazione e dell’interlocuzione con l’Autorità. Essi terzi sono rispetto al complesso procedimento regolatorio inerente all’appellante ed agli altri operatori destinatari della delibera n. 121 e, pertanto, quest’ultimo neque iuvat, neque nocet e viceversa. Da ciò discende l’irrilevanza della simultanea applicazione della delibera n. 121 e del DL 148/2017, poiché si tratta d’una simultaneità meramente temporale, non funzionale: a ciascuno il suo. 6.4. – Col quarto motivo, l’appellante principale lamenta che il TAR non avrebbe colto la decisiva rilevanza delle omissioni delle garanzie procedimentali, che invece costituiscono un indispensabile contrappeso ai forti poteri conformativi dell’Autorità intimata. Ancora da ultimo questo Consiglio (cfr., ex multis, Cons. St., IV, 3 dicembre 2018 n. 6824; id., V, 15 luglio 2019 n. 4964) è fermo nel ritenere che le garanzie procedimentali, a partire da quelle degli artt. 7 e segg. della l. 241/1990, vanno seriamente applicate, nel senso che esse son poste a tutela di concreti interessi ma esse non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali, poiché rispondono all'esigenza di provocare l'apporto collaborativo da parte dell'interessato, onde esse non sono violate non solo qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato rispetto alla concreta portata del provvedimento finale (come prevede il successivo art. 21- octies, co. 2) ma anche quando, al di là di forme solenni, la partecipazione procedimentale s’è svolta di fatto e le ragioni del destinatario son state introdotte e vagliate in procedimento, come in definitiva è avvenuto nella specie. Sempre di recente, la Sezione (cfr., per tutti, Cons. St., VI, 15 ottobre 2019 n. 7017), affrontando la tematica dell'avviso d’avvio del procedimento e dei suoi destinatari, ha chiarito, con stringente rigore e aderenza al dato testuale, come tal adempimento è dovuto soltanto a coloro rispetto ai quali il provvedimento finale produce effetti diretti, intesi come ampliamento o restrizione rilevante in termini giuridici della propria sfera. Il «pregiudizio», considerato dalla seconda parte dell'art. 7 —e ancor prima che si ponga la questione di chi siano gli interessati, anzi qual metodo per poterli ben identificare—, dev’essere un pregiudizio giuridicamente rilevante e in qualche misura certo, non soltanto ipotetico ed eventuale. Il Collegio è ben consapevole di taluni recenti arresti della CEDU, con riguardo alle istanze di tutela dei diritti fondamentali prescritte dalla relativa Convenzione, a cagione, tra l’altro, dei caratteri di eterogeneità e di differenziazione interna alla normativa nazionale italiana sulle sanzioni irrogate dalle ANR. Vero è pure che il sistema italiano, valutato nel suo complesso e pur se a tratti connotato da un livello non sempre elevato di tutela del destinatario della misura afflittiva o dissuasiva, resiste bene al vaglio della CEDU. E ciò, in primo luogo grazie ad un controllo giurisdizionale effettivo, cioè attento sia agli aspetti procedurali dell’irrogazione della sanzione, sia all’accertamento fattuale della violazione e della sua gravità (ed è ciò che è accaduto nel caso in esame), nonché ad un attento sistema di consultazione pubblica simultanea degli operatori nel mercato da regolare. Sfugge con ogni evidenza all’appellante che le determinazioni della AGCOM sono frutto non già di un unico procedimento solo sanzionatorio, scaturito ex nihilo, sommario e non accompagnato dalla prescritta interlocuzione tra l’ANR stessa e detta Società, bensì da un insieme di procedure di public enforcement con livelli di avvicinamento progressivo agli obiettivi dell’effettiva tutela indennitaria. Se si legge la scansione degli eventi, s’avrà che: a) la delibera n. 121/17/CONS, che novellò la delibera n. 252/2016/CONS e stabilì la cadenza mensile (o a multiplo di mese) per la fatturazione dei servizi di telefonia fissa, fu a sua volta preceduta dalla delibera n. 462/16/CONS del 19 ottobre 2016, recante la consultazione pubblica sulle modifiche da apportare alla delibera n. 252, cui partecipò pure detta appellante; b) la delibera n. 113/98/CONS, recante la trasformazione dello storno dei giorni erosi in una postergazione della fattura per un periodo pari a questi ultimi in sede di ritorno a tale cadenza mensile, era stata preceduta sì dalla delibera n. 498/17/CONS del 19 dicembre 2017 (ordinanza – ingiunzione di storno), ma quest’ultima, peraltro preceduta dalla nota AGCOM n. 9/17/DTC (avviso d’avvio del procedimento ingiuntivo per inadempimento della delibera n. 121), fu sospesa in sede cautelare dal TAR Lazio; c) tal misura cautelare indusse quindi l’Autorità verso un diverso sistema ripristinatorio nei confronti degli utenti, sfociato appunto nella citata delibera n. 114; d) anche quest’ultima è stata sospesa dal TAR, sicché è intervenuto in via d’urgenza il decreto n. 9/18/PRES, con cui son state apportate modifiche alla delibera n. 114 ed è stata indetta l’audizione per definire, insieme agli operatori ed alle Associazioni dei consumatori, il termine entro il quale gli operatori, inclusa pure l’appellante, avrebbero dovuto far cessare gli effetti dell’illegittima anticipazione della decorrenza delle fatture emesse dopo il 23 giugno 2017; e) ferma la rinuncia attorea alla cautela una volta emanato il decreto n. 9/18 (poi ratificato dalla delibera n. 187/18/CONS), previa audizione indetta da tal decreto è intervenuta la delibera n. 269/18/CONS del 6 giugno 2018, recante la fissazione al 31 dicembre 2018 del termine, assegnato agli operatori, per restituire alle rispettive clientele i giorni erosi dalla precedente cadenza di fatturazione. Come si vede, i momenti salienti della vicenda, compresa la delibera n. 121/17, oggetto di separato giudizio, hanno trovato non solo vari momenti di confronto con l’appellante —anche per agevolarne l’adempimento in tempi non troppo ravvicinati —, ma soprattutto una progressione regolatoria della complessa ma sostanzialmente unitaria fattispecie, di guisa che tutte le delibere possono esser lette come un unico insieme di normae agendi per gli operatori in soggetta materia. È vero che il principio di legalità dell'azione amministrativa, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), impone che sia la legge a individuare, anche se indirettamente, lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, d’ordine procedimentale e sostanziale, per l'esercizio in concreto dell'attività amministrativa. Ma è del pari vero, perlopiù, che la predeterminazione rigorosa dell'esercizio delle funzioni amministrative, quando venga in rilievo il potere regolatorio di un'a Autorità amministrativa indipendente, può avere carattere meno intenso, in ragione dell'esigenza di assicurare, in contesti caratterizzati da un elevato tecnicismo, un intervento regolatorio celere ed efficace. A fronte di tal dequotazione (o, meglio, differente o semplificata definizione normativa) del principio di legalità formale in favore della legalità sostanziale —la quale si giustifica per la valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in dati settori sensibili (p. es., quelli connessi alle ANR), impone il rafforzamento del principio di legalità procedimentale, che si sostanzia, tra l'altro, nella previsione di varie forme di coinvolgimento degli operatori del settore nell'ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari (cfr. così Cons. St., VI, 2 maggio 2012 n. 2521; id., 20 marzo 2015 n. 1532). Nella specie, però, tutto questo non cambia la prospettiva con cui il TAR ha esaminato la censura in primo grado. Il TAR ha voluto precisare sul punto che, anche ad «… ammettere… che vi sia stato un iniziale difetto di contraddittorio, … (l’odierna appellante ha)… comunque avuto modo di esternare adeguatamente le proprie argomentazioni, trovando, peraltro, ad esse puntale riscontro (e tutela) nelle decisioni assunte in sede cautelare da questo Tribunale e dalla stessa Autorità…». In altre parole, per un verso, il Giudice di prime cure e, per altro verso, l’AGCOM hanno costruito un continuum di regole, apportando modifiche di volta in volta anche in base ai decisa cautelari, i quali hanno tenuto conto di talune esigenze di difesa degli operatori. Sicché non è vero nella specie né il difetto d’un qualunque effetto utile per l’appellante (la quale neppure in questa sede, al di là delle enunciazioni di principio, riesce a dire dove ed in qual misura sia stata totalmente pretermessa), né quali norma nazionali o della UE siano state specificamente violate. Né va condiviso l’assunto ove pretende che il difetto di contraddittorio procedimentale conduca all’annullamento dell’atto impugnato, pur se non si dimostri di non aver potuto presentare osservazioni ed opposizioni idonee ad incidere causalmente in termini favorevoli sul provvedimento conclusivo. La proposizione criticata è invece un caposaldo dell’azione amministrativa non perché le garanzie procedimentali siano inutili formalità, ma proprio perché non lo diventino o non siano usate, in violazione della buona fede nel procedimento amministrativo, per lucrare vantaggi indebiti in assenza di valide ragioni di diritto sostanziale. In linea di massima, specie presso le Corti EDU e UE —ove le garanzie partecipative hanno una maggior enfasi nella misura in cui v’è colà una forte tendenza a dilatare la nozione di «sanzione penale» a quelle amministrative comunque afflittive—, non sfugge al Collegio l’esistenza d’una linea di pensiero per cui, pure dinanzi all’esercizio di poteri vincolati (soprattutto di natura sanzionatoria), va sempre assicurata la partecipazione del soggetto interessato. Ciò dovrebbe avvenire, secondo l’appellante, a prescindere dal contributo che questi apporti al procedimento, ma questa conclusione non tien conto della differenza tra le sanzioni afflittive e quelle dissuasive – inibitorie e soprattutto fra i poteri sanzionatori e quelli conformativi. Per questi ultimi vigono i medesimi e ben noti canoni di ragionevolezza e proporzionalità che disciplinano l’interpretazione delle regole partecipative ex l. 241/1990, di talché, in disparte l’impossibilità di confondere fondatezza e meritevolezza della pretesa con le garanzie partecipative —specie se non s’incorra in decadenze ex lege—, nessun “diritto”, se non quelli fondamentali, può dirsi “tiranno” (cioè sempre preminente) innanzi all’esercizio della funzione amministrativa, ove sono in gioco altri e (talvolta più) forti interessi protetti. Poiché la rateazione delle misure indennitarie fu prevista fin dalla delibera n. 269, è onere specifico dell’appellante richiederlo all’Autorità, invece di farlo constare in questa sede. 6.5. – In tal caso, non ha gran senso la doglianza attorea sull’obbligo, per l’Autorità, d’individuare modi meno afflittivi e più proporzionati al risultato da conseguire, poiché la misura indennitaria fu quella più idonea a garantire la restituzione dei giorni “erosi”. È solo da soggiungere che, a fronte della misura cautelare del TAR, non v’è alcun interesse, in capo all’appellante, di dolersi perché, seppur non obbligata, l’Autorità stessa ha voluto emendare anche i vizi della delibera n. 113/18. Parimenti inammissibile è la censura sull’assenza delle ragioni di straordinaria necessità e urgenza per l’esercizio del potere presidenziale per mezzo del decreto n. 9/18, essendo questo stato poi ratificato dal Consiglio, onde tal ultimo provvedimento ha impresso l’assetto agli interessi controversi sul punto. Va respinta poi la doglianza sulla consumazione della potestà sanzionatoria in base alla delibera n. 500/17/CONS, in quanto le misure indennitarie e le modalità restitutorie sono ontologicamente distinte da siffatta sanzione pecuniaria e, quindi, le une non sono il doppione dell’altra. Del pari da rigettare è, a causa della sua manifesta infondatezza, la questione sulla fissazione al 31 dicembre 2008 del termine per adempiere alla misura restitutoria, essendo quest’ultimo quello più recente tra tutti quelli finora inutilmente assegnati all’appellante per adempiere. Va così assorbito il motivo sulla soppressione del termine d’adempimento (fissato in origine dalla delibera n. 113) e disposta allo stato degli atti dal decreto n. 9/18/PRES senza indicazione del nuovo termine, essendo stata tal questione superata ormai dagli eventi. Infine, poiché l’Autorità ha statuito soltanto misure indennitarie e non sanzioni propriamente dette, è priva di pregio la pretesa attorea, laddove asserisce che l’AGCOM stessa non avrebbe potuto statuire finché il Consiglio di Stato non avesse giudicato sull’appello contro il rigetto del gravame sulla delibera n. 121/17/CONS. Per vero, la sentenza (di rigetto) del TAR sul punto non risulta sospesa, mentre l’appellante sarebbe potuta esser parte diligente e chiedere la trattazione congiunta di quello col presente appello. 6.6. – Secondo l’appellante, il TAR non ha considerato che le delibere impugnate, in realtà hanno perseguito il fine, chiarissimo nella delibera n. 269/18/CONS, di garantire «… ai contraenti deboli …la disponibilità di strumenti di tutela efficaci, parimenti generalizzati e di semplice realizzazione …», così sovrapponendosi alla sfera di attribuzione dell’AGO, avanti alla quale, sono esperibili le azioni, collettive o individuali, previste dal Codice del consumo. La tesi è solo in apparenza suggestiva, ma non ha pregio alcuno. La tesi attorea muove da un malinteso senso di separazione dei poteri, come, cioè, se le pronunce dell’AGCOM possano vincolare in via definitiva i poteri d’accertamento o, peggio, la potestà giudiziale dell’AGO e sostituire quest’ultima. Un assunto del genere non ha senso, poiché pure in quegli altri ordinamenti in cui ciò pare accadere, in realtà si crea un raccordo tra l’azione esperita dal privato e gli accertamenti svolti dall’Autorità di regolazione: se ciò accade, serve ad aumentare e non a sminuire le ragioni di tutela del consumatore inciso. Oggidì l’art. 7, co. 1, I per. del D.lgs. 19 gennaio 2017 n. 3, nelle cause per il risarcimento del danno da illecito antitrust, la violazione del diritto della concorrenza, verificata da una decisione dell'AGCM, si ritiene accertata definitivamente nei confronti dell'autore, ove non più passibile di ricorso o confermata con sentenza passata in giudicato. Si ha qui un caso notevole di cooperazione tra public e private enforcement contro i danni antitrust subiti dai privati, in cui si semplifica molto l’accesso del privato all’azione risarcitoria secondo il modello della causa follow on e, fatte le debite differenze, l’oggetto del presente contendere è una delle possibili declinazioni di tali vicende nello specifico campo d’azione dell’AGCOM. Sicché il regime invalso anche in Italia tende non già alla separatezza o alla concorrenza, bensì alla cooperazione collaborativa tra il public ed il private enforcement, con continui travasi di esperienze, accertamenti e documentazione dall’uno all’altro plesso di tutela. Il Collegio ha avuto finora più volte modo di precisare l’esistenza nella specie: 1) d’una diretta consequenzialità tra la violazione del principio di trasparenza sulla periodicità della fatturazione e l’indebita percezione di somme da parte degli operatori; 2) di violazioni generalizzate, incidenti su una moltitudine di utenti in esito ad un’unica condotta. È evidente che il Codice del consumo, agli artt. 138/142 offre al privato un’ampia gamma di tutele stand alone attivabile su istanza di parte (ed anche con l’assistenza delle associazioni consumeristiche), compresa l’azione di classe ex art. 140, le quali rivestono un carattere fondamentale per la tutela dei privati anche per vicende patologiche di massa. Ma tutto questo non è né esclusivo, né alternativo al public enforcement, in quanto, fermi i rispettivi interessi perseguiti, quest’ultimo coopera alla tutela dei privati anzitutto operando come amministrazione neutrale e non meramente imparziale, quindi agendo nel rispetto dell’art. 97 Cost., ma anche di altri valori costituzionali ed assumendo per l’effetto statuizioni paragiustiziali. Ebbene, nella specie l’AGCOM, a fronte di vicende connotate da alta efficacia lesiva, in base alla l. 481/1995 ha inteso attivare i suoi poteri regolatori verso gli operatori, definendo i loro limiti nel mercato di riferimento e tutelando gli utenti incisi mercé lo strumento di tutela indennitaria diffusa ed automatica prevista dalla legge. Innanzi ad un fenomeno tanto pervasivo quanto complesso per il numero di soggetti coinvolti e per la particolare delicatezza, non è che l’Autorità abbia inteso sostituirsi alla, né sminuire la tutela privata, ma s’è affiancata ad essa. L’Autorità ha realizzato così il duplice interesse pubblico sotteso allo strumento indennitario: A) rendere effettiva e ottimizzare la tutela degli utenti, all’evidente scopo d’offrire loro accesso ad un indennizzo automatico in virtù di un atto generale di regolazione, scongiurando perciò la probabile rinuncia di molti utenti ad esperire qualunque azione, giudiziale o stragiudiziale; B) dare maggior efficienza all’azione amministrativa e deflazionare (si badi, non certo impedire) il contenzioso, sia individuale che collettivo, relativo a liti perlopiù di modico valore). In tutta franchezza, si comprendono le ragioni, ma non è condivisibile in punto di diritto l’assunto attoreo, che vede nel public enforcement di detta Autorità una sorta d’avallo a che essa continui a “farsi giustizia da sé”. In realtà, l’Autorità, anche quando applica le norme che regolano le sue competenze, è pur sempre legata al rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti e ad agire secondo legalità, ragionevolezza e proporzionalità in un mercato tecnicamente complesso ed in perenne evoluzione ed operato da imprese di grande rilevanza economica. È evidente che, nel caso in esame, l’intervento regolatorio forte dell’Autorità è stato provocato da innegabili problemi e dalla necessità di mantenere un serio equilibrio per la tenuta stessa del mercato della telefonia. Parimenti evidente è che questa è proprio la missione di tutte le ANR e che la forza dell’intervento non può che esser strettamente commisurata, di volta in volta, al problema da risolvere. Né l’Autorità si fa giustizia da sé, essendovi nel sistema la soggezione della stessa alla giurisdizione del Giudice amministrativo. In ultimo, va ribadito che l’intervento dell’Autorità, per le sue caratteristiche, ben si può reputare spendibile, se del caso, avanti alla giurisdizione ordinaria al fine di affermare che l’ottemperanza al medesimo riequilibra definitivamente le relazioni fra gestori ed utenti prevenendo il contenzioso innanzi all’AGO ed in sostanza svuotandolo ogni significato (con indubbi vantaggi per le certezze del mercato). 7. – Lamenta ancora l’appellante l’indebita declaratoria d’improcedibilità di tutti i motivi (salvo l’XI), proposti con il gravame introduttivo di primo grado contro la delibera n. 500/17/CONS, così disposta dal TAR sull’erroneo presupposto che tal delibera fosse stata revocata e sostituita dalla delibera n. 113/18/CONS: nella prospettazione attorea, tal sostituzione riguardò solo la diffida originariamente impartita dalla delibera n. 500. Dal che il vizio d’omessa pronuncia, concernente sia le parti di tal delibera. che costituirono il presupposto del predetto obbligo restitutorio (cfr. § 2.2 della sentenza) e la necessità di riformare la sentenza stessa ai §§ 8 e 16 (in tutte le parti in cui fu dedotta l’illegittimità derivata dai vizi della delibera n. 500), sia i motivi dall’XI al XVII del gravame introduttivo in primo grado (nelle parti che ebbero ad oggetto la lesione del diritto degli utenti ad un’informazione adeguata; la carenza assoluta di potere e l’invasione da parte dell’AGCOM della sfera di attribuzione di altro potere dello Stato; la carenza d’istruttoria, la contraddittorietà e perplessità; il difetto d’istruttoria e di motivazione e la violazione della novella recata dall’art. 19-quinquiesdecies del DL 148/2017 al DL 7/2007; l’irragionevolezza e la disparità di trattamento). Il motivo è pretestuoso. La serena lettura della delibera n. 113/18/CONS porta il Collegio a concludere che: a) solo in apparenza detta delibera abbia revocato la sola diffida contenuta nella delibera n. 500, mantenendo tutto il resto; b) in realtà la delibera n. 113 ha inteso adempiere al decisum cautelare del TAR e, al contempo, di fornire adeguata protezione agli utenti, disponendo una modalità indennitaria del tutto nuova e non assimilabile a quella posta dalla delibera n. 500; c) il TAR ritenne tal nuovo metodo più equilibrato ed attento alle esigenze degli operatori rispetto al mero storno finanziario stabilito dalla delibera n. 500; d) i tre impegni assunti da Fastweb si son rilevati in parte meramente attuativi dell’obbligo di fatturazione a cadenza mensile, in parte una dichiarazione di intenti preordinata non già ad indennizzare i clienti per i giorni “erosi”, bensì a far loro risparmiare le spese, al fine di migliorare le condizioni di concorrenza ed a rimuovere le conseguenze anticompetitive della misura illegittima; e) la delibera n. 500 reputò i tre impegni inammissibili ed insufficienti. Il Collegio, che condivide la sostanziale inutilità di tali impegni —che non appaiono rinnovati o modificati in esito alla delibera n. 113—, reputa l’assetto recato da quest’ultima ed il nuovo termine per adempiere del tutto nuovo ed incompatibile con quello recato dalla delibera n. 500. Sicché reputa corretta la citata declaratoria, da parte del TAR, dei motivi del gravame introduttivo di primo grado testé richiamati. È solo da soggiungere, quanto ai predetti motivi ed a tutto concedere, che in loro risposta valgono le considerazioni fin qui esaminate dal Collegio, concernendo essi appunto la carenza del potere della Autorità, la violazione dei termini introdotti dal ripetuto art. 19-quinquiesdecies, dei profili del contraddittorio procedimentale (in particolare, sui tre impegni de quibus) e sull’illegittimità della sanzione pecuniaria per erronea applicazione del massimo edittale previsto da norma sopravvenuta (questione risolta dal TAR e di cui meglio si vedrà infra). Resta così assorbito tutto il IX motivo d’appello, anche nella parte in cui ci si duole dell’illegittimità in via derivata dalla delibera n. 500 nei tre atti per motivi aggiunti, nonché degli atti antecedenti al decreto n. 9/18/PRES ed alla delibera n. 269/18/CONS, in varia guisa respinti coi precedenti paragrafi della presente sentenza. L’appellante replica le questioni sugli impegni, in forza del X motivo d’appello, che tuttavia sono del tutto prive di pregio per evidente loro elusività rispetto al cuore della questione controversa, cioè l’indennità ed il termine per l’adempimento di essa, cui ancora adesso l’appellante tenta di sfuggire, donde l’assorbimento anche di questo motivo perché nulla apporta di decisivo a confutazione della motivazione fin qui resa. 8. – Passando alla disamina del gravame incidentale, la norma sanzionatoria applicata in concreto dall’Autorità alla vicenda dell’appellante principale è stata quella racchiusa nell’art. 98, co. 16 CCE, richiamato dall’art. 8 della delibera 252/16/CONS. Si rammenti, però, che tal disposizione fu modificata dall’art. 1, co. 43 della l. 124/2017 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), entrata in vigore il 29 agosto 2017. Tal modifica ebbe ad oggetto l’importo del massimo edittale della sanzione prevista, applicato nella specie, che fu però raddoppiato (da € 580.000 ad € 1.160.000). Il TAR ha sul punto precisato la necessaria applicabilità non di quest’ultima misura, ma di quella massima previgente, posto che la violazione si consumò nel mese di giugno 2017, cioè allo spirare del termine concesso dall’Autorità agli operatori per adeguare le loro offerte alle prescrizioni della delibera n. 252/16/CONS, ossia in data anteriore alla entrata in vigore della modifica recata dalla l. 124/2017. La statuizione del TAR va confermata. 8.1. – Sul primo mezzo di gravame, ove si deduce un vizio d’ultrapetizione, il TAR ha dichiarato in modo espresso di procedere alla rideterminazione della sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità verso la Società appellante e ciò nell’esercizio della sua giurisdizione di merito. In particolare, il TAR ha rilevato come l’appellante principale avesse, in quella sede, dedotto una specifica censura su una sanzione assunta in violazione della regola d’irretroattività della norma sanzionatoria ex art. 1 della l. 24 novembre 1981 n. 689. In base a ciò, nell’esercizio della propria giurisdizione di merito il Giudice di prime cure, a seguito di un’analisi del provvedimento impugnato, ha osservato che in effetti l’Autorità aveva erroneamente individuato la cornice edittale applicabile alla vicenda al suo esame e ha riformato detta sanzione irrogata. Questo precipuo aspetto non è stato colto da detta Autorità nel suo appello incidentale che, quindi, non vi ha fatto una specifica contestazione, pur se il Giudice amministrativo, nel caso in cui si trovi ad esercitare una giurisdizione di merito, lo fa secondo scelte non vincolate, quanto ai mezzi, alla domanda di parte (cfr. così Cons. St., VI, 12 dicembre 2011 n. 6501). Tal motivo va perciò dichiarato inammissibile. 8.2. – Col secondo mezzo di gravame, l’AGCOM deduce che, pur se il TAR ha correttamente ricostruito le norme di riferimento, erroneamente ha ritenuto applicabile il precedente sistema sanzionatorio (lex mitior), anziché quello in vigore dal 29 agosto 2017 (più severo). Ad avviso dell’Autorità, per vero si trattò d’un illecito permanente, che quindi non s’è consumato nel mese di giugno del 2017 ma che si era protratto quantomeno fino alla data di adozione della delibera impugnata, donde l’applicazione della nuova sanzione, vigente al momento in cui essa è stata applicata. Ma anche tale tesi è infondata e va respinta. Invero, nella delibera n. 498/17/CONS: a) fu contestato il mancato adeguamento alle prescrizioni a suo tempo poste dalla delibera n. 121/17/CONS (ripristino della cadenza mensile di fatturazione) alla data del 23 giugno 2017; b) si è tenuto conto della durata dell’infrazione solo per individuare la gravità della sanzione e non anche per la qualificazione della condotta (ossia, illecito permanente), come invece assume l’appellante incidentale. Entrambe queste circostanze sono stante esattamente descritte e valutate dal TAR, onde, in base al chiaro tenore di detta delibera, rettamente la sentenza conclude nel senso l’Autorità contestò alla Vodafone una violazione consumata nel mese di giugno 2017. Pertanto, corretta s’appalesa l’interpretazione, resa dal TAR, sulla sicura prevalenza della sanzione secondo la norma vigente allo spirare del termine concesso dall’Autorità agli operatori per l’adeguamento delle proprie offerte alle prescrizioni della citata delibera n. 252. 8.3. – L’appellante principale, a sua volta, si duole (X motivo del gravame introduttivo di primo grado, in particolare pag. 43 e ss.), riproducendone in appello la censura, che l’Autorità non volle tener conto, nell’irrogare la sanzione nel massimo edittale, in primo luogo la circostanza che essa fu l’unico operatore di telefonia che formulò una proposta di impegni, che attuò le misure specifiche ivi contemplate allo scopo di eliminare l’asserito danno (e ciò indipendentemente dal rigetto di detti impegni da parte dell’AGCOM) e non lese il diritto degli utenti a una corretta informazione (specie con riguardo alla pubblicazione nelle fatture destinate all’utenza dell’equivalente su base mensile del corrispettivo fatturato). Non una di tali proposizioni è condivisibile. Non la prima, perché, a parte la non plausibilità tecnica d’un assunto per cui il cambio della cadenza di fatturazione dal mese a 28 giorni fu immediata e molto problematico l’inverso (nonostante tutte le proroghe di fatto del relativo termine), i predetti impegni non furono seri né in linea con la tutela accordata dall’Autorità e con le correlate esigenze restitutorie e dissuasive, quindi, non sono adesso invocabili come attenuanti. Non la seconda, giacché l’appellante è stata tanto restia nel riportare la cadenza di fatturazione, da predicare un’interpretazione parimenti implausibile del termine inserito nella novella ex art. 19-quinquiesdecies per gli altri operatori di TLC, tale da implicare addirittura un segmento temporale di non ripristino della cadenza mensile. Non la terza, in quanto la corretta informazione agli utenti non si sarebbe dovuta sostanziare se non nel richiamare la loro attenzione all’aumento in sé della tariffa, appalesandosi ogn’altra soluzione, compreso il cambio della predetta cadenza, in un metodo per sviare tal attenzione. Scolora così la connessa censura, che adombra una disparità di trattamento, sull’impatto paritario della sanzione nel massimo edittale verso tutti gli operatori (al di là, quindi del differente fatturato d’ognuno di essi) ed alla condotta di Fastweb per elidere o attutire le conseguenze dell’illecito. In realtà, tal condotta non è stata così idonea come la descrive l’appellante, per le ragioni accennate fin qui. Pertanto, se è ben vero il principio d’adeguatezza che deve guidare il calcolo del quantum della sanzione, affinché quest’ultima svolga un’efficace funzione deterrente essa va parametrata sì al fatturato, ma pure al pregiudizio arrecato ai consumatori in termini di diffusione verso tutta la platea degli utenti dell’appellante, nonché del tempo in cui esso s’è protratto. Ebbene, l’egual misura di tal sanzione per tutti gli operatori, esclusa ogni seria attenuante nella condotta, non appare irrazionale, poiché essi hanno realizzato insieme e con le stesse intensità e durata l’illecito sanzionato. 9. – In definitiva, entrambi gli appelli vanno respinti, ma la reciproca soccombenza e la novità e la complessità della controversia suggeriscono la compensazione integrale, tra tutte le parti, delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. VI), definitivamente pronunciando sul ricorso NRG 9798/2018 in epigrafe, respinge l'appello principale e quello incidentale. Spese del grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 4 luglio 2019, con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore Francesco Gambato Spisani, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere IL SEGRETARIO
Autorità amministrative indipendenti - Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - Operatori di telefonia – Fatturazione a 28 giorni – Indennizzo – Comminatoria – Legittimità.      E’ legittima l’applicazione di un indennizzo, da parte della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche senza previa diffida, a fronte della scelta degli principali operatori di telefonia di fatturare i servizi erogati con cadenza a 28 giorni, anziché con cadenza mensile (1).   (1) In termini v. Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 879 L’art. 2, comma 20, lett. d), l. n. 481 del 1995 assegna all’Autorità per far cessare comportamenti lesivi dei diritti degli utenti, se del caso imponendo all’operatore, che li commetta, l’obbligo di corrispondere loro un indennizzo ai sensi del precedente comma 12, lett. g), che può esser anche automatico.L’indennizzo o indennità è termine riferito normalmente a prestazioni pecuniarie che ricorrono, in diritto civile, in situazioni molto diverse fra loro; in diritto amministrativo, si ricollega di solito o perlopiù all’adozione di un provvedimento amministrativo che incida sulla sfera patrimoniale di un privato (come nel caso dell’espropriazione). L’indennità si distingue dal risarcimento (collegato ad un danno ingiusto), in quanto essa dipende solo da un fatto di arricchimento a scapito di altri che si deve eliminare, senza alcuna indagine sull’ingiustizia del danno (spettante all’AGO: arg. ex Cass., sez. un., 29 agosto 2008 n. 21934, di norma senza pregiudizio per i poteri inibitori o conformativi spettanti alle ANR). Il danno è una lesione di un bene protetto, mentre il fatto genetico dell’obbligo restitutorio di natura indennitaria è la perdita o limitazione della sfera giuridico-patrimoniale altrui in correlazione ad un trasferimento forzoso od alla nascita di un diritto in capo ad altri che l’ordinamento vuole riequilibrare. L’indennizzo ha una funzione di corrispettività o di carattere sostitutivo del bene che è stato trasferito. Nel caso di specie, l’erogazione gratuita della prestazione (di natura lato sensu indennitaria) sostituisce la somma di danaro che è stata prelevata dalla generalità degli utenti con il sistema di fatturazione a 28 giorni. Da queste coordinate generali deriva l’individuazione dell’esatta natura del potere esercitato, che è un potere conformativo di natura lato sensu indennitaria e non certo un potere sanzionatorio. Va altresì rilevato che la giurisprudenza da tempo ha riconosciuto alle Autorità indipendenti, per la loro collocazione istituzionale, dei poteri impliciti, da esercitarsi in relazione agli scopi stabiliti dalla legge. In conclusione, in base all’art. 2, comma 20, lett. d), l’AGCOM non ha esercitato un vero e proprio potere sanzionatorio, ma ha attivato il rimedio generale posto dalla legge (dunque, tutt’altro che privo di base normativa) sull’ordinamento delle Autorità di regolazione. Tal rimedio indennitario, infatti e che per sua natura s’attaglia alla situazione cui intende por soluzione, appunto per questo sfugge al principio di tipicità proprio delle sanzioni. Ma non per ciò solo non risponde al fine generale dell’istituzione delle ANR e, in particolare, trova il suo fondamento nella necessità di assicurare, insieme con la promozione della concorrenza e con definizione di sistemi tariffari certi, trasparenti e basati su criteri predefiniti per i servizi erogati, la tutela degli interessi di utenti e consumatori. L’indennizzo, quindi e proprio perché in base alla delibera n. 114/2017/CONS non s’atteggia più a mero rimborso, contempera le esigenze di ripristino della fatturazione a cadenza mensile (il termine per il cui adempimento servendo a risolvere i problemi operativi di tal ripristino nei sistemi interni degli operatori di telefonia) con la refusione dei disagi subiti dagli utenti.   L’appellante adombra la necessità della previa diffida ai fini dell’imposizione dell’indennizzo, ma tal dicotomia temporale, non necessaria nella misura lato sensu ripristinatoria assunta da AGCOM, neppure si ravvisa nella legge. Questa, piuttosto, tende a unificare la regolazione del corretto modus agendi degli operatori con le misure di tutela consumeristica, giacché il ripristino dello statu quo ante consta anche della riparazione degli effetti pregiudizievoli: tutto ciò ad un unico fine, ossia al fine d’evitare che la scelta unilaterale degli operatori di telefonia (sul piano della trasparenza, della conoscibilità dei costi del servizio, della buona fede contrattuale e del buon andamento del servizio) incida senza controllo sulla sfera giuridica degli utenti. Questi ultimi, in mercati regolati come quello in esame, sono soggetti che tengono condotte di c.d. “apatia” solo in apparenza razionale, cioè soggetti di minorata difesa: l’attivazione, da parte degli utenti, di meccanismi ordinari di controllo comporterebbe effetti disfunzionali sul piano sia dell’andamento molecolare del contenzioso, sia dell’ingolfamento del sistema giudiziario, sia sul piano della rinuncia alla tutela da parte dei soggetti c.d. apatici. Si tratta della c.d. tutela amministrativa dei diritti o public enforcement, un campo indispensabile di intervento delle Autorità di regolazione nella moderna realtà dei mercati, a fronte delle difficoltà dell’ordinaria risposta giudiziaria (basata sull’innesco di un contenzioso pulviscolare) a rispondere alle problematiche poste dall’economia di massa. Ciò serve ad assicurare un’effettiva e concreta tutela a favore degli utenti, quali soggetti deboli del rapporto negoziale (e senza più necessità, dunque, d’una loro istanza di “rimborso”) e per dissuadere (su un piano general preventivo) gli operatori da condotte illegittime e pregiudizievoli. L’indennizzo quindi non impone a questi ultimi alcuna erogazione patrimoniale né in denaro, né in servizi, né in alcunché d’altro che non sia, da un lato, il mero riallineamento (ovviamente, d’ufficio) della cadenza mensile di fatturazione e, dall’altro, il conseguente conguaglio (sempre d’ufficio) per il disallineamento cagionato da una fatturazione a cadenza diversa.  
Autorità amministrative indipendenti
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Non comporta l’automatica esclusione dalla gara aver omesso di dichiarare la condanna per Bancarotta fraudolenta se la stazione appaltante aveva indicato di dichiarare la condanna per frode
N. 00208/2021 REG.PROV.COLL. N. 00746/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 746 del 2020, proposto da -OMISSIS- in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Franco Coccoli, Marco Di Lullo e Lorenzo Aureli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Bologna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonella Trentini e Monica Cattoli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Monica Cattoli in Bologna, piazza Maggiore 6; nei confronti Sater – Sistema per gli Acquisti Telematici dell'Emilia-Romagna Intercent-Er, Agenzia per Lo Sviluppo dei Mercati Telematici non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensiva a) della Determina n. DD/PRO/2020/-OMISSIS- adottata dal Capo Area Segreteria Generale Partecipate e Appalti Opere Pubbliche - UI Appalti e Contratti del Comune di Bologna, recante l'annullamento ex art. 21-nonies, Legge n. 241/1990 del provvedimento di aggiudicazione di cui alla determinazione dirigenziale P.G. n. -OMISSIS-; b) di ogni altro atto e/o provvedimento ad esso presupposto, collegato, connesso, antecedente o successivo, ancorché non conosciuto; nonché per il risarcimento dei danni subiti e subendi a) sia mediante reintegrazione in forma specifica con subentro nell'esecuzione del servizio e nel contratto di appalto ove stipulato; b) sia mediante ristoro per equivalente nella misura da quantificare in corso di causa, fatta salva la valutazione equitativa Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Bologna; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 febbraio 2021 il dott. Paolo Amovilli uditi i difensori da remoto e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.-Espone l’odierna società ricorrente di aver partecipato alla procedura aperta per l’affidamento dei lavori per -OMISSIS-” indetta dal Comune di Bologna con bando pubblicato il -OMISSIS- Con determinazione dirigenziale P.G. n. -OMISSIS-la stazione appaltante ha disposto l’aggiudicazione del suindicato appalto in favore della ricorrente, subordinatamente agli accertamenti sul possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 80 d.lgs. 50/2016 e s.m. Con determina dirigenziale n. DD/PRO/2020/-OMISSIS- la stazione appaltante ha disposto ex art. 21-nonies, legge n. 241/1990 l’annullamento in autotutela del suindicato provvedimento, motivata tra l’altro dall’aver la ricorrente omesso in sede di gara la dichiarazione di aver riportato condanna penale definitiva (per il reato di cui all’art. 216 c.p.) trattandosi di fattispecie esplicitamente ricompresa, al punto 2.2, tra quelle richiamate nelle linea guida ANAC n. 6 quali rilevanti ai fini dell'esclusione di un operatore economico da una procedura di appalto, ai sensi dell'art. 80 comma 5 lett.c) e f-bis) del d.lgs. 50/2016. La stazione appaltante ha altresì evidenziato il comportamento reticente e contraddittorio serbato successivamente all’aggiudicazione in sede di verifica del possesso dei requisiti morali. La ricorrente ha impugnato il suddetto provvedimento deducendo motivi così riassumibili: I)VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 80 E 83 DEL D.LGS. 50/2016. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEI PRINCIPI DI IMPARZIALITÀ, BUON ANDAMENTO DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA, TRASPARENZA E PAR CONDICIO DEI CONCORRENTI. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 1, 3 E 21-NONIES DELLA L. N. 241/1990. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 97 COST. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELLE LINEE GUIDA ANAC N. 6. ECCESSO DI POTERE IN TUTTE LE SUE FIGURE SINTOMATICHE E IN PARTICOLARE PER ILLOGICITÁ E IRRAZIONALITÁ MANIFESTA, DIFETTO DI MOTIVAZIONE, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, SVIAMENTO DI POTERE, CONTRADDITTORIETÀ E DISPARITÁ DI TRATTAMENTO: non si sarebbe al cospetto di una dichiarazione falsa, ai sensi dell’art. 80 c. 5, lett f-bis del d.lgs. 50/2016, bensì di una dichiarazione reticente tuttalpiù rilevante ai fini della lett. c) previo motivato giudizio di inaffidabilità, secondo la distinzione tracciata di recente anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 16 del 2020. II -VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 80.E 83 DEL D.LGS. 50/2016.VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEI PRINCIPI DI IMPARZIALITÀ, BUON ANDAMENTO DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA, TRASPARENZA E PAR CONDICIO DEI CONCORRENTI. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 1, 3 E 21-NONIES DELLA L. N. 241/1990. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 97 COST. VIOLAZIONE E/O FALSA APPLICAZIONE DELLE LINEE GUIDA ANAC N. 6. ECCESSO DI POTERE IN TUTTE LE SUE FIGURE SINTOMATICHE E IN PARTICOLARE PER ILLOGICITÁ E IRRAZIONALITÁ MANIFESTA, DIFETTO DI MOTIVAZIONE, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, SVIAMENTO DI POTERE, CONTRADDITTORIETÀ E DISPARITÁ DI TRATTAMENTO: anche a voler interpretare il provvedimento di esclusione dalla gara come emesso ai sensi della lett. c) del comma quinto dell’art. 80 d.lgs. 50/2016, la stazione appaltante avrebbe del tutto omesso di motivare sulla idoneità della sentenza di condanna riportata dal legale rappresentante ad incidere negativamente sull’affidabilità professionale dell’impresa ricorrente. III-IN VIA SUBORDINATA. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 80, COMMA 12, D.LGS. N. 50/20156. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 1, 3 E 21-NONIES DELLA L. N. 241/1990. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 97 COST. VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEI PRINCIPI DI IMPARZIALITÀ, PROPORZIONALITÀ, RAGIONEVOLEZZA E BUON ANDAMENTO DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA. ECCESSO DI POTERE IN TUTTE LE SUE FIGURE SINTOMATICHE E IN PARTICOLARE PER ILLOGICITÁ E IRRAZIONALITÁ MANIFESTA, DIFETTO DI MOTIVAZIONE, DIFETTO DI ISTRUTTORIA, SVIAMENTO DI POTERE, CONTRADDITTORIETÀ E DISPARITÁ DI TRATTAMENTO: in via subordinata impugna in parte qua la determinazione di esclusione dalla gara nella parte che dispone la segnalazione all’Anac ai sensi dell’art. 80 c. 12 d.lgs. 50/2016 per falsa dichiarazione, non ricorrendo un’ipotesi di dichiarazione mendace bensì, a tutto concedere, reticente. Si è costituito in giudizio il Comune di Bologna eccependo l’infondatezza di tutti i motivi dedotti, poiché in sintesi:- la ricorrente non ha indicato nel DGUE di aver riportato condanna definitiva per bancarotta fraudolenta ai sensi dell’art 216 c. 1 c.p., in violazione dell’ obbligo posto a carico di ogni concorrente di indicare in sede di gara tutte le informazioni utili e le condanne; - la ricorrente avrebbe tenuto nel procedimento di autotutela un comportamento contraddittorio e reticente, idoneo a fuorviare le decisioni della stazione appaltante; - sarebbe infondato anche il terzo motivo, venendo in questione la presentazione di una dichiarazione in tutto e per tutto da ritenersi falsa. La difesa comunale ha inoltre rappresentato la necessità di rivedere il progetto posto a base di gara, si da escludere una nuova aggiudicazione dei lavori in esame. Alla camera di consiglio del 10 dicembre 2020 la ricorrente ha rinunciato alla domanda incidentale cautelare. In prossimità della discussione nel merito le parti hanno depositato memorie e precisato le proprie conclusioni. La ricorrente, in particolare, ha ribadito l’insussistenza nel caso di specie di una dichiarazione falsa nel senso restrittivo recentemente tracciato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, non potendosi ammettere alcun automatismo espulsivo, rappresentando come nella pur subita condanna per bancarotta fraudolenta, divenuta irrevocabile il -OMISSIS-, il GUP del Tribunale di -OMISSIS-abbia rilevato la tenuità del fatto e concesso il beneficio della sospensione condizionale. Il Comune di Bologna, di contro, ha evidenziato come a pag 4 del DGUE la ricorrente abbia barrato la casella “NO” alla richiesta della stazione appaltante di esser stato condannato per i reati di cui sopra (tra cui era ricompresa la “frode”) insistendo per il rigetto di tutti i motivi ivi compreso di quello proposto in via subordinata. All’udienza pubblica del 24 febbraio 2021 uditi i difensori da remoto la causa è stata trattenuta in decisione ai sensi dell’art. 25 del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137. DIRITTO 1.-E’ materia del contendere la legittimità del provvedimento con cui il Comune di Bologna ha annullato in autotutela ex art. 21-nonies L.241/90, in seguito alla verifica del possesso dei requisiti morali indicati in sede di gara, il provvedimento di aggiudicazione in favore della ricorrente dell’appalto dei lavori -OMISSIS- A motivo dell’annullamento l’Amministrazione ha indicato la sussistenza a carico del legale rappresentante di una condanna penale definitiva per bancarotta fraudolenta non dichiarata in sede di gara, con conseguente segnalazione all’Anac ai sensi del comma 12 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016 oltre che l’inaffidabilità conseguente al comportamento contraddittorio e reticente serbato dopo la stessa aggiudicazione. Contesta in buona sintesi parte ricorrente di aver prodotto in sede di gara dichiarazioni false (art. 80 c. 5 lett f-bis d.lgs. 50/2016) avendo tuttalpiù fornito dichiarazioni incomplete o reticenti, da reputarsi rilevanti, ai sensi della lett. c) del medesimo comma, soltanto a seguito di un motivato giudizio di rilevanza della condanna ai fini dell’attendibilità e integrità dell’operatore economico, secondo la distinzione tracciata dalla più recente giurisprudenza amministrativa, motivato giudizio nella fattispecie completamente omesso. 2.- Il ricorso va in parte respinto ed accolto limitatamente all’impugnativa della segnalazione all’Anac ex art. 80 c. 12 d.lgs. 50/2016, come in seguito indicato. 3.- In punto di fatto giova premettere che in sede di verifica del possesso dei requisiti conseguente all’aggiudicazione è emerso dal Casellario Giudiziale a carico del legale rappresentante e direttore tecnico dell’impresa ricorrente una condanna penale ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per il reato di bancarotta fraudolenta ex art. 216 c. 1 c.p. divenuta irrevocabile il -OMISSIS- (ovvero prima della gara) condanna - come è pacifico - non dichiarata nel DGUE presentato in sede di gara. A pag. 4 del DGUE alla domanda “i soggetti di cui all’art. 80 c. 3 del codice sono stati condannati con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena richiesta ai sensi dell’art. 444 del c.p.p. per uno dei motivi indicati sopra (n.d. tra cui è ricompresa la “frode”) con sentenza pronunciata non più di cinque anni fa o in seguito alla quale sia ancora applicabile un periodo di esclusione stabilito direttamente nella sentenza ? “ il legale rappresentante dell’-OMISSIS-ha risposto “No”, pur in presenza della sopra citata sentenza del Tribunale di -OMISSIS-. A pag. 6 del medesimo DGUE alle domande “L’operatore economico può confermare di: a) non essersi reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni richieste per verificare l’assenza di motivi di esclusione o il rispetto dei criteri di selezione; b) non avere occultato tali informazioni?” è stato risposto “SI” ad entrambe. 4. - Ritiene il Collegio che la suddetta dichiarazione non possa presentare i caratteri della dichiarazione mendace ai sensi e per gli effetti della lett. f-bis) comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016. 4.1. - L’art. 80 comma 5 del vigente Codice appalti contempla, per quel che qui interessa, due distinte fattispecie escludenti ovvero l’ipotesi di cui cui (lett. c) ove “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si e' reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrita' o affidabilita'” e quella di cui alla lett. f-bis) “l'operatore economico che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”. E’ senz’altro vero quanto affermato dal ricorrente circa la distinzione operata dalla più recente giurisprudenza (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 5 maggio 2020, n. 2850, id. Adunanza Plenaria 28 agosto 2020, n. 16; id. sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976; id. sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 26 febbraio 2021, n. 1301) tra l’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza, con conseguente facoltà della stazione appaltante di valutare la stessa ai fini dell’attendibilità e dell’integrità dell’operatore economico (Consiglio di Stato, V, 3 settembre 2018, n. 5142) e la falsità delle dichiarazioni, ovvero la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, dove si rappresenta una circostanza in fatto diversa dal vero, cui consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso (Consiglio di Stato, sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407) Solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l'automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell'inaffidabilità e della non integrità dell'operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l'esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull'affidabilità dello stesso (...). Il concetto di “falso”, nell'ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976). 4.2. - Tanto doverosamente premesso è evidente come nel caso di specie la ricorrente abbia solo apparentemente presentato una dichiarazione mendace, rispondendo negativamente alla precisa domanda della stazione appaltante circa le condanne penali riportate nell’arco del quinquennio. Occorre precisare sul punto come il riferimento operato nella pag. 4 del DGUE alla condanna (tra gli altri) per “frode” (ricompreso nell’elenco ivi predisposto dalla stazione appaltante) e non già a quelle di “bancarotta fraudolenta” concretamente riportata, possa esimere da responsabilità il dichiarante, non rientrandovi la fattispecie di cui all’art. 216 c.p., secondo un interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in “subiecta materia” (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 23 marzo 2015, n.1565) e coerente con la disciplina comunitaria. La condanna per frode indicata nello schema di DGUE predisposto dalla stazione appaltante tra le condanne da dichiarare da parte dei concorrenti opera un chiaro riferimento all’art. 80 comma 1 del d.lgs. 50/2016 in tema di condanne penali definitive automaticamente escludenti, tra cui alla lett c) è ricompresa la “frode ai sensi dell’articolo 1 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee”. Trattasi, secondo il Collegio, di una fattispecie incriminatrice riguardante i soli fatti commessi in danno della predetta Comunità potendovi ad es. far rientrare la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 c.p.) ma non la bancarotta fraudolenta, stante la non identità del bene protetto dalla norma ovvero in tal ultima fattispecie dell'interesse dei creditori all'integrità del patrimonio del debitore a garanzia del soddisfacimento del credito (ex multis Cassazione penale sez. V, 21 settembre 2007, n. 39043). Non a caso la stessa Anac nelle Linee Guida n. 6 pur non avendo tale atto valore normativo né vincolante per la stazione appaltante (T.A.R. Trentino-Alto Adige Bolzano 22 gennaio 2019, n.14) annovera i reati fallimentari tra le cause di esclusione non automaticamente escludenti di cui al citato comma 5 lett c) e non del comma 1 dell’art. 80 d.lgs. 50/2016. Sul punto può invece condividersi come nessuna rilevanza può assumere il fatto dell’essere la condanna in questione pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. dal momento che il primo comma dell’art. 80 d.lgs. 50/2016 pone sullo stesso piano le condanne penali e le sentenze di condanna patteggiate (ex multis T.A.R.Lazio Roma, sez. III, 2 novembre 2017, n.10965) né della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 21 febbraio 2018, n. 1991) in assenza di formale provvedimento giudiziale del giudice penale di riabilitazione o di estinzione del reato (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V, 17 giugno 2014, n. 3092). 4.3. - Tale ragionevole dubbio sull’individuazione della concreta fattispecie incriminatrice oggetto della dichiarazione resa dalla ricorrente esclude la sussistenza della “immutatio veri” e dunque della falsità della dichiarazione, con conseguente fondatezza del primo motivo. 5. - Ciò premesso, quanto invece al concorrente motivo di esclusione di cui all’art. 80 c. 5 lett. c) d.lgs. 50/2016 parimenti indicato dalla stazione appaltante, non può condividersi l’assunto della ricorrente in merito all’omessa valutazione in termini negativi della propria affidabilità professionale. Mette conto premettere che - per giurisprudenza pacifica - con riferimento agli adempimenti dichiarativi, i concorrenti sono tenuti a rendere una dichiarazione omnicomprensiva, segnalando tutte le vicende afferenti la propria attività professionale sulla base del noto principio per cui non è configurabile in capo all'impresa alcun filtro valutativo o facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo l'obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, in modo da permettere alla stazione appaltante di espletare, con piena cognizione di causa, le valutazioni di sua competenza (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V, 25 luglio 2018, n. 4532; Id., 11 giugno 2018, n. 3592; Id., 19 novembre 2018, n. 6530). Nel caso di specie l’Amministrazione ha ritenuto non affidabile la condotta serbata dalla ricorrente, la quale non solo ha omesso la dichiarazione della suindicata condanna in sede di DGUE ma ha serbato un comportamento reticente e fuorviante anche nel successivo contraddittorio intercorso tra le parti. In seguito alla mail comunale del 23 marzo 2020 il sig -OMISSIS-ha dichiarato all’Amministrazione di non sapere nulla in merito alla condanna risultante dal casellario giudiziale cambiando poi versione dopo pochi giorni ovvero il 27 marzo ammettendo l’esistenza della condanna, peraltro come detto patteggiata, seppur escludendo l’obbligo dichiarativo. Come chiaramente evidenziato nel provvedimento di riesame impugnato la stazione appaltante negli incontri calendarizzati ha ravvisato nella fase della verifica dei requisiti successiva all’aggiudicazione una condotta complessivamente contraddittoria e reticente ed incurante degli obblighi di correttezza e auto-responsabilità gravanti sull’impresa ricorrente, si da ritener venuta meno l’affidabilità che deve contraddistinguere l’impresa appaltatrice. Giova rilevare come la violazione degli obblighi informativi da parte del concorrente ben può essere apprezzata dalla stazione appaltante quale “grave illecito professionale” ex art. 80 c. 5 lett. c) (ex multis T.A.R. Campania Napoli sez. VIII, 15 giugno 2020, n. 2376) in considerazione dell’ampiezza di tale fattispecie comprensiva di condotte illecite collegate all’esercizio dell’attività professionale (T.A.R. Lazio Roma sez. III, 21 gennaio 2019, n. 732) riguardanti sia la fase di esecuzione del contratto che la fase della stessa gara. Non può parimenti rilevare neppure la dichiarazione effettuata dalla ricorrente di essersi resa colpevole di gravi illeciti professionali di cui all’art. 80 c. 5 lett. c) d.lgs. 50/2016 in considerazione non solo della esaminata distinzione tra la suddetta fattispecie e quella ben più ristretta delineata dalla lett. f bis) del comma 5 quanto soprattutto della genericità del contenuto dichiarativo. 6.- Alla luce delle suesposte considerazioni il secondo motivo risulta infondato con conseguente legittimità dell’ esclusione disposta dall’Amministrazione in sede di riesame dell’aggiudicazione. 7. - Merita invece condivisione il terzo motivo, gradato in via subordinata e consequenziale rispetto al primo, in considerazione dell’accertata natura non mendace della dichiarazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato nella parte in cui si effettua la segnalazione all’Anac ai sensi del comma 12 dell’art. 80 del d.lgs. 50/2016. 8.- Per i suesposti motivi il ricorso va in parte respinto ed in parte accolto, come da motivazione. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese processuali in relazione all’esito della lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna Bologna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo respinge ed in parte lo accoglie, come da motivazione, e per l’effetto annulla in “parte qua” la disposta esclusione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2021 tenutasi da remoto mediante videoconferenza con l'intervento dei magistrati: Andrea Migliozzi, Presidente Umberto Giovannini, Consigliere Paolo Amovilli, Consigliere, Estensore Andrea Migliozzi, Presidente Umberto Giovannini, Consigliere Paolo Amovilli, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Bancarotta fraudolenta – Omessa dichiarazione – Conseguenza.               Costituisce dichiarazione reticente, e quindi incompleta, ma non falsa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50 del 2016, l’omessa indicazione di aver riportato una condanna per bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 c.p.; la bancarotta fraudolenta non rientra, infatti nel reato di frode - annoverato dalla stazione appaltante nel documento di gara unico europeo come condanna da indicare se riportata - secondo un interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia (1).    (1) Ha ricordato il Tar che la più recente giurisprudenza (Cons. Stato, sez. V, 5 maggio 2020, n. 2850, id., A.P., 28 agosto 2020, n. 16; id. sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976; id., sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407; Tar Napoli, sez. VI, 26 febbraio 2021, n. 1301) ha distinto tra l’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza, con conseguente facoltà della stazione appaltante di valutare la stessa ai fini dell’attendibilità e dell’integrità dell’operatore economico (Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 2018, n. 5142) e la falsità delle dichiarazioni, ovvero la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, dove si rappresenta una circostanza in fatto diversa dal vero, cui consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso (Cons. Stato, sez. V, 12 aprile 2019, n. 2407). Solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l'automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell'inaffidabilità e della non integrità dell'operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l'esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull'affidabilità dello stesso (...). Il concetto di “falso”, nell'ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso (Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 2020, n. 2976). Ha aggiunto il Tar, con precipuo riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, che il riferimento operato nel DGUE alla condanna (tra gli altri) per “frode” (ricompreso nell’elenco ivi predisposto dalla stazione appaltante) e non già a quelle di “bancarotta fraudolenta” concretamente riportata, può esimere da responsabilità il dichiarante, non rientrandovi la fattispecie di cui all’art. 216 c.p., secondo una interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia (Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1565) e coerente con la disciplina comunitaria.  La condanna per frode indicata nello schema di DGUE predisposto dalla stazione appaltante tra le condanne da dichiarare da parte dei concorrenti opera un chiaro riferimento all’art. 80, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 in tema di condanne penali definitive automaticamente escludenti, tra cui alla lett. c) è ricompresa la “frode ai sensi dell’articolo 1 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee”. Ad avviso del Tar si tratta di una fattispecie incriminatrice riguardante i soli fatti commessi in danno della predetta Comunità potendovi ad es. far rientrare la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 c.p.) ma non la bancarotta fraudolenta, stante la non identità del bene protetto dalla norma ovvero in tal ultima fattispecie dell'interesse dei creditori all'integrità del patrimonio del debitore a garanzia del soddisfacimento del credito (Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2007, n. 39043). Non a caso la stessa Anac nelle Linee Guida n. 6 pur non avendo tale atto valore normativo né vincolante per la stazione appaltante (Trga Bolzano 22 gennaio 2019, n. 14) annovera i reati fallimentari tra le cause di esclusione non automaticamente escludenti di cui al citato comma 5 lett c) e non del comma 1 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016. 
Contratti della Pubblica amministrazione
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Prezzo ex factory delle confezioni dei farmaci biosimilari
N. 00540/2022REG.PROV.COLL. N. 08532/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8532 del 2021, dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, contro la Sanofi s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Francesco Cataldo e Diego Vaiano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Diego Vaiano in Roma, Lungotevere Marzio n. 3; la Farmacia Misiti di Beniamino Marando s.a.s., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. III quater, 3 agosto 2021, n. 9178, che ha accolto il ricorso proposto per l’annullamento della nota Aifa prot. n. 47413 del 20 aprile 2021, che ha stabilito il prezzo ex factory delle confezioni del farmaco con riferimento al valore del 58,65 % del suo prezzo al pubblico invece che del 66,65 % dello stesso. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Sanofi s.r.l.; Vista la memoria depositata da Sanofi s.r.l in data 25 ottobre 2021; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 gennaio 2022 il Cons. Giulia Ferrari e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La Sanofi s.r.l. ha impugnato dinanzi al Tar Lazio la nota n. 47413 del 20 aprile 2021, con la quale l'Aifa ha imposto l’applicazione, nei confronti del medicinale biosimilare Insulina Aspart Sanofi, delle quote di spettanza sul prezzo di vendita al pubblico dei medicinali equivalenti previste dall'art. 13, comma 1, lettera b), d.l. n. 39 del 2009. L’Aifa avrebbe dato erronea esecuzione alle norme in materia, in quanto la quota di spettanza di 58,65 %, prevista all’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009, non si sarebbe dovuta applicare al prodotto della Sanofi s.r.l., rientrando la fattispecie nel campo di applicazione dell’art. 1, comma 40, l. n. 662 del 1996, con conseguente quota di spettanza maggiorata dell’8% (66,65 %). 2. Con sentenza 3 agosto 2021, n. 9178 la sez. III quater del Tar per il Lazio, sede di Roma, ha accolto il ricorso ritenendo i farmaci biosimilari non del tutto assimilabili a quelli equivalenti, con la conseguenza che sarebbe mancato un presupposto per l’applicazione del citato art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009. 3. La sentenza 3 agosto 2021, n. 9178 del Tar Lazio è stata impugnata dall’Aifa con appello depositato in data 3 ottobre 2021, sul rilievo che erroneamente il giudice di primo grado ha ritenuto non individuabili, con riferimento ai farmaci biosimilari, i presupposti dell’equivalenza e della vendita attraverso il canale della convenzionata, previsti dall’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009. 4. Si è costituita in giudizio la Sanofi s.r.l., che ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello per difetto di interesse mentre nel merito ne ha sostenuto l’infondatezza. 5. All’udienza pubblica del 20 gennaio 2022, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Come esposto in narrativa, la Sanofi s.r.l. ha impugnato dinanzi al Tar Lazio la nota e-mail dell’Aifa che applicava al farmaco biosimilare Insulina Aspart Sanofi, indicato per il trattamento del diabete mellito, la quota di spettanza delle aziende farmaceutiche produttrici del 58,65% del suo prezzo al pubblico ai sensi dell’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. 28 aprile 2009, n. 39, che si applica con riferimento ai farmaci equivalenti, e non la maggiore percentuale del 66,65%, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, comma 40, l. 23 dicembre 1996, n. 662. Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso ritenendo i farmaci biosimilari non del tutto assimilabili a quelli equivalenti perché, a differenza di questi ultimi, sono “intercambiabili” con il prodotto originator di riferimento ma non “automaticamente sostituibili”. Il farmacista, infatti, mentre può automaticamente sostituire un farmaco originator con uno equivalente, non può, a fronte di una prescrizione medica di originator, dare al cliente un biosimilare. Da questo presupposto ne consegue che, nel caso di farmaco biosimilare, manca l’incentivo per il farmacista, sotteso alla previsione della ridotta percentuale di utile per l’azienda farmaceutica. 2. Così chiarita la complessa vicenda contenziosa, il Collegio è chiamato a verificare se, come afferma il Tar, è sufficiente accertare se un farmaco è “equivalente” ai sensi dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 347 del 2001, perché solo in questo caso sarebbe applicabile la riduzione della quota di spettanza alle aziende farmaceutiche del 58,65% oppure se, come deduce l’Aifa nell’atto di appello, ai fini della attribuzione delle quote di spettanza non rileverebbe solo (e tanto) il requisito della equivalenza terapeutica, ma anche il tipo di canale di dispensazione. L’appello proposto dall’Aifa fonda sull’assunto che l’attribuzione delle quote di spettanza e l’inserimento nelle liste di trasparenza attengono a dinamiche diverse, perché la lista di trasparenza tende a realizzare un risparmio per il Servizio sanitario nazionale invogliando la prescrizione di farmaci cd. generici in luogo dei cd. originator, mentre l’attribuzione delle quote di spettanza opera in sede di rilascio dell’autorizzazione al commercio. Diversamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, ai fini della attribuzione delle quote di spettanza non rileverebbe solo il requisito della equivalenza terapeutica, e ciò a prescindere dal rilievo (che peraltro assumerebbe carattere assorbente) che il farmaco biosimilare Insulina Aspart Sanofi è, a tutti gli effetti, “farmaco equivalente”. Sarebbero invece necessari due elementi, id est, oltre all’assenza di copertura brevettuale anche il canale di dispensazione perché, se il farmaco è acquistato attraverso il canale della convenzionata si applica la quota di spettanza del 58,65%. 3. Passando al merito, l’appello è infondato, e ciò consente al Collegio di prescindere dall’esame dell’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse, sollevata dalla società appellata. Ricorda il Collegio che gli elementi che devono esistere perché si possa applicare l’aliquota del 58,65% sono due: la distribuzione convenzionata del farmaco e l’essere il farmaco “equivalente”. Quanto al primo elemento, costituisce presupposto della previsione, stante la ratio alla stessa sottesa. Ed invero, l’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. 28 aprile 2009, n. 39 ha previsto, “al fine di conseguire una razionalizzazione della spesa farmaceutica territoriale”, che per i medicinali equivalenti di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla l. 16 novembre 2001, n. 405, le quote di spettanza sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell'imposta sul valore aggiunto, stabilite dal primo periodo del comma 40 dell'art. 1, l. 23 dicembre 1996, n. 662, sono rideterminate, per le aziende farmaceutiche, nella misura del 58,65% in luogo del 66,65%. Come chiarito dalla Sezione (30 novembre 2020, n. 7533; id. 2 novembre 2020, n. 6724) la modalità di distribuzione dei farmaci nella quale si inscrive la rimodulazione delle percentuali è necessariamente quella “ordinaria” o “territoriale”, non solo perché una chiara indicazione in tal senso si ricava dal primo comma dell’art. 13, d.l. n. 39 del 2009, ma anche perché solo attraverso la distribuzione “territoriale” ha modo di realizzarsi la prevista ripartizione interna dei margini di guadagno tra i diversi soggetti della filiera distributiva, fermo restando il prezzo complessivo rimborsato al farmacista dal Sistema sanitario nazionale. Gli 8 punti di scarto tra le due quote sono traslate in favore di farmacisti e grossisti: la farmacia che distribuisce il farmaco, che attraverso il grossista acquista dal produttore, è in tal modo incentivato a vendere il farmaco generico in luogo dell’originator. Nessun incentivo è possibile nel caso di distribuzione diretta del farmaco da parte del Servizio sanitario nazionale, con la conseguenza che viene meno la necessità di aumentare la quota di spettanza per il farmacista, a scapito di quella dovuta alla azienda farmaceutica perchè nella filiera non risultano coinvolti i farmacisti e i grossisti. Poiché la ratio è, come si è detto, incoraggiare l’uso dei farmaci equivalenti, la norma non può che rivolgersi solo a tali farmaci. Data la premessa, l’appello non è suscettibile di positiva valutazione non concorrendo, con riferimento ai farmaci biosimilari, entrambi detti elementi. L’art. 13, comma 1, d.l. n. 39 del 2009 precisa di fare riferimento ai farmaci equivalenti “di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347”, secondo cui “I medicinali, aventi uguale composizione in principi attivi, nonché forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, numero di unità posologiche e dosi unitarie uguali, sono rimborsati al farmacista dal Servizio sanitario nazionale fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile nel normale ciclo distributivo regionale, sulla base di apposite direttive definite dalla regione; tale disposizione non si applica ai medicinali coperti da brevetto sul principio attivo”. Ciò premesso, va chiarito che il farmaco biosimilare è legato al farmaco biologico, del quale condivide il principio attivo; ma si tratta di un rapporto diverso da quello che lega il farmaco originale e quello equivalente. Come affermato dalla Sezione (15 febbraio 2021, n. 1305; 28 dicembre 2020, n. 8370) i "farmaci biologici", ivi inclusi i farmaci biotecnologici, cioè ottenuti con biotecnologie, sono farmaci il cui principio attivo è rappresentato da una sostanza prodotta o estratta da un sistema biologico, oppure derivata da una sorgente biologica attraverso procedimenti di biotecnologia. La produzione di farmaci biologici è sicuramente più complessa di un farmaco di derivazione chimica, essendo svariati i fattori che incidono sul processo stesso di produzione. I farmaci biologici, proprio per la complessità e la natura dei processi di produzione, non sono mai pienamente identici, ancorché si basino su un medesimo principio attivo ed abbiano le stesse indicazioni terapeutiche. Infatti nel loro caso non si usa il termine “equivalente” (o “generico”), bensì “similare” o “biosimilare” (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572). Si distinguono, dunque, dai farmaci chimici dove “ogni prodotto è pienamente equivalente all’altro (originator o meno) sempreché sia accertata l’identità del composto chimico (molecola)” (Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2011, n. 3572). Per farmaco biosimilare si intende, invece, “un medicinale simile ad un prodotto biologico/biotecnologico c.d. di riferimento, la cui messa in commercio sia già stata autorizzata. Secondo una definizione fornita dall’ European Medicine Agency (Ema) nel 2012, in particolare, “per farmaco biosimilare si intende un medicinale sviluppato in modo da risultare simile ad un prodotto biologico che sia già stato autorizzato – appunto, il c.d. medicinale di riferimento o originator” (Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1305). Quindi i prodotti biologici e biosimilari non sono equivalenti tra loro, per la complessità dei processi produttivi (e dunque non “equivalenti” in senso stretto), anche se nella generalità dei casi, salvo eccezioni, possono essere usati come se fossero equivalenti (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572). Nel secondo position paper dell’Aifa del marzo 2018 sui farmaci biosimilari si legge che “La perdita della copertura brevettuale permette l’entrata sulla scena terapeutica dei farmaci cosiddetti ‘biosimilari’, medicinali ‘simili’ per qualità, efficacia e sicurezza ai prodotti biologici originatori di riferimento e non più soggetti a copertura brevettuale. La disponibilità dei prodotti biosimilari genera una concorrenza rispetto ai prodotti originatori e rappresenta perciò un fattore importante. Quindi, i medicinali biosimilari costituiscono un’opzione terapeutica a costo inferiore per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), producendo importanti risvolti sulla possibilità di trattamento di un numero maggiore di pazienti e sull’accesso a terapie ad alto impatto economico…Come dimostrato dal processo regolatorio di autorizzazione, il rapporto rischio-beneficio dei biosimilari è il medesimo di quello degli originatori di riferimento. Per tale motivo, l’Aifa considera i biosimilari come prodotti intercambiabili con i corrispondenti originatori di riferimento. Tale considerazione vale tanto per i pazienti naïve quanto per i pazienti già in cura. Inoltre, in considerazione del fatto che il processo di valutazione della biosimilarità è condotto, dall’Ema e dalle Autorità regolatorie nazionali, al massimo livello di conoscenze scientifiche e sulla base di tutte le evidenze disponibili, non sono necessarie ulteriori valutazioni comparative effettuate a livello regionale o locale… Lo sviluppo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di soddisfare una crescente domanda di salute, in termini sia di efficacia e di personalizzazione delle terapie sia di sicurezza d’impiego. I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo, informato e tempestivo ai farmaci, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica”. Nel secondo position paper del marzo 2018, quindi, l’Aifa, ritenendo i biosimilari come intercambiabili (n.d.r. a seguito di valutazione del medico curante che conosce le condizioni del proprio paziente e, quindi, non sostituibili in via automatica), ha fugato gran parte dei dubbi che si erano posti in precedenza sulla possibilità di “switch” dal farmaco originator a quello biosimilare e ha, quindi, implicitamente ribadito la sovrapponibilità, in termini di efficacia e di sicurezza, dei farmaci biosimilari presenti sul mercato rispetto all’originator e anche tra di loro. Dunque, seppure simili i due farmaci non sono automaticamente interscambiabili come l’originator lo è con l’equivalente. Come chiarito dalla Sezione in un recente arresto (6 dicembre 2021, n. 8158), il riconoscimento delle peculiari “specialità” dei farmaci biologici, cui si correla il principio della non automatica sostituibilità tra gli stessi, neppure tra l’originator (farmaco biologico già autorizzato e immesso sul mercato) e i suoi biosimilari, farmaci biologici similari a quello di riferimento, ha comportato, sul piano normativo, la definizione di un regime differenziato da quello dei farmaci a sintesi chimica. E, infatti, il legislatore, mentre in via generale prevede la sostituibilità automatica da parte del farmacista, sulla scorta di un criterio di economicità, tra farmaci equivalenti (art. 7, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito in l. 16 novembre 2001, n. 405), al contrario per i farmaci biologici stabilisce che “non è consentita la sostituibilità automatica tra farmaco biologico di riferimento e un suo biosimilare né tra biosimilari” (art. 15, comma 11-quater, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 135). Da questa ricostruzione il Collegio può trarre la conseguenza che nel caso di farmaco biosimilare manca uno dei due presupposti previsti dall’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009, e cioè l’essere il farmaco “equivalente” (ai sensi dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 347 del 2001) all’originator e dunque l’essere il farmacista obbligato a consegnare all’assistito l’equivalente in luogo dell’originator, salva diversa espressa prescrizione del medico (comma 3 dell’art. 7, d.l. n. 347 del 2001). Il farmacista non può, infatti, sostituire automaticamente il farmaco biosimilare a quello biologico di riferimento (art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012), con la conseguenza che alcun incentivo può essere previsto per invogliare il farmacista a fare ciò che per legge non potrebbe fare. La carenza di un elemento (equivalenza tra farmaci) rende irrilevante verificare il sistema di distribuzione del farmaco, se convenzionata o diretta (e, dunque, senza l’intervento del farmacista). 4. Per le argomentazioni sopra esposte l’appello deve essere respinto, in tutti i motivi nei quali si articola (che, per ragioni di ordine logico possono essere esaminati congiuntamente), proprio in applicazione dei principi espressi dal Consiglio di Stato (sez. III, 30 novembre 2020, n. 7533; id. 2 novembre 2020, n. 6724), richiamate dall’Aifa a supporto del proprio argomentare. Infine, contrariamente a quanto assume l’appellante, il richiamo, operato dal giudice di primo grado nella sentenza impugnata ad un proprio precedente (16 giugno 2021, n. 7237) risulta pertinente atteso che, seppure fa riferimento a tutt’altro farmaco (Fenroo, a base del principio attivo “fentanil”, indicato nell'ambito del complessivo intervento di tipo medico per le sofferenze croniche da cancro), di natura chimica e per ben diverso utilizzo, esprime principi di carattere generale sulla determinazione della quota di spettanza per l’azienda farmaceutica, ai fini del calcolo del prezzo ex factory. 5. Conclusivamente, per quanto precede, l’appello deve essere respinto. La novità delle questioni sottese all’appello giustifica la compensazione delle spese e degli onorari del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 gennaio 2022 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Antonella De Miro, Consigliere Michele Corradino, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Antonella De Miro, Consigliere IL SEGRETARIO
Farmaci – Prezzo - Farmaci biosimilari - Prezzo ex factory delle confezioni del farmaco – Individuazione.       Per i farmaci biosimilari, il prezzo ex factory delle confezioni, e cioè la quota di spettanza delle aziende farmaceutiche produttrici è pari al 66,65%, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1, comma 40, l. 23 dicembre 1996, n. 662; nel caso di farmaco biosimilare manca uno dei due presupposti previsti dall’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. n. 39 del 2009, e cioè l’essere il farmaco “equivalente” (ai sensi dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 347 del 2001) all’originator e dunque l’essere il farmacista obbligato a consegnare all’assistito l’equivalente in luogo dell’originator, salva diversa espressa prescrizione del medico (comma 3 dell’art. 7, d.l. n. 347 del 2001); il farmacista non può, infatti, sostituire automaticamente il farmaco biosimilare a quello biologico di riferimento (art. 15, comma 11-quater, d.l. n. 95 del 2012), con la conseguenza che alcun incentivo può essere previsto per invogliare il farmacista a fare ciò che per legge non potrebbe fare (1).      (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 13, comma 1, lett. b), d.l. 28 aprile 2009, n. 39 ha previsto, “al fine di conseguire una razionalizzazione della spesa farmaceutica territoriale”, che per i medicinali equivalenti di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito, con modificazioni, dalla l. 16 novembre 2001, n. 405, le quote di spettanza sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell'imposta sul valore aggiunto, stabilite dal primo periodo del comma 40 dell'art. 1, l. 23 dicembre 1996, n. 662, sono rideterminate, per le aziende farmaceutiche, nella misura del 58,65% in luogo del 66,65%. Come chiarito dalla Sezione (30 novembre 2020, n. 7533; id. 2 novembre 2020, n. 6724) la modalità di distribuzione dei farmaci nella quale si inscrive la rimodulazione delle percentuali è necessariamente quella “ordinaria” o “territoriale”, non solo perché una chiara indicazione in tal senso si ricava dal primo comma dell’art. 13, d.l. n. 39 del 2009, ma anche perché solo attraverso la distribuzione “territoriale” ha modo di realizzarsi la prevista ripartizione interna dei margini di guadagno tra i diversi soggetti della filiera distributiva, fermo restando il prezzo complessivo rimborsato al farmacista dal Sistema sanitario nazionale. Gli 8 punti di scarto tra le due quote sono traslate in favore di farmacisti e grossisti: la farmacia che distribuisce il farmaco, che attraverso il grossista acquista dal produttore, è in tal modo incentivato a vendere il farmaco generico in luogo dell’originator. Nessun incentivo è possibile nel caso di distribuzione diretta del farmaco da parte del Servizio sanitario nazionale, con la conseguenza che viene meno la necessità di aumentare la quota di spettanza per il farmacista, a scapito di quella dovuta alla azienda farmaceutica perchè nella filiera non risultano coinvolti i farmacisti e i grossisti.  Poiché la ratio è, come si è detto, incoraggiare l’uso dei farmaci equivalenti, la norma non può che rivolgersi solo a tali farmaci.  Data la premessa, l’appello non è suscettibile di positiva valutazione non concorrendo, con riferimento ai farmaci biosimilari, entrambi detti elementi. L’art. 13, comma 1, d.l. n. 39 del 2009 precisa di fare riferimento ai farmaci equivalenti “di cui all'art. 7, comma 1, d.l. 18 settembre 2001, n. 347”, secondo cui “I medicinali, aventi uguale composizione in principi attivi, nonché forma farmaceutica, via di somministrazione, modalità di rilascio, numero di unità posologiche e dosi unitarie uguali, sono rimborsati al farmacista dal Servizio sanitario nazionale fino alla concorrenza del prezzo più basso del corrispondente prodotto disponibile nel normale ciclo distributivo regionale, sulla base di apposite direttive definite dalla regione; tale disposizione non si applica ai medicinali coperti da brevetto sul principio attivo”. Ciò premesso, va chiarito che il farmaco biosimilare è legato al farmaco biologico, del quale condivide il principio attivo; ma si tratta di un rapporto diverso da quello che lega il farmaco originale e quello equivalente. Come affermato dalla Sezione (15 febbraio 2021, n. 1305; 28 dicembre 2020, n. 8370) i "farmaci biologici", ivi inclusi i farmaci biotecnologici, cioè ottenuti con biotecnologie, sono farmaci il cui principio attivo è rappresentato da una sostanza prodotta o estratta da un sistema biologico, oppure derivata da una sorgente biologica attraverso procedimenti di biotecnologia. La produzione di farmaci biologici è sicuramente più complessa di un farmaco di derivazione chimica, essendo svariati i fattori che incidono sul processo stesso di produzione. I farmaci biologici, proprio per la complessità e la natura dei processi di produzione, non sono mai pienamente identici, ancorché si basino su un medesimo principio attivo ed abbiano le stesse indicazioni terapeutiche. Infatti nel loro caso non si usa il termine “equivalente” (o “generico”), bensì “similare” o “biosimilare” (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572). Si distinguono, dunque, dai farmaci chimici dove “ogni prodotto è pienamente equivalente all’altro (originator o meno) sempreché sia accertata l’identità del composto chimico (molecola)” (Cons. Stato, sez. III, 13 giugno 2011, n. 3572). ​​​​​​​Per farmaco biosimilare si intende, invece, “un medicinale simile ad un prodotto biologico/biotecnologico c.d. di riferimento, la cui messa in commercio sia già stata autorizzata. Secondo una definizione fornita dall’ European Medicine Agency (Ema) nel 2012, in particolare, “per farmaco biosimilare si intende un medicinale sviluppato in modo da risultare simile ad un prodotto biologico che sia già stato autorizzato – appunto, il c.d. medicinale di riferimento o originator” (Cons. Stato, sez. III, 15 febbraio 2021, n. 1305). Quindi i prodotti biologici e biosimilari non sono equivalenti tra loro, per la complessità dei processi produttivi (e dunque non “equivalenti” in senso stretto), anche se nella generalità dei casi, salvo eccezioni, possono essere usati come se fossero equivalenti (Cons. Stato, sez. III, 3 dicembre 2015, n. 5478; id. 13 giugno 2011, n. 3572). Nel secondo position paper dell’Aifa del marzo 2018 sui farmaci biosimilari si legge che “La perdita della copertura brevettuale permette l’entrata sulla scena terapeutica dei farmaci cosiddetti ‘biosimilari’, medicinali ‘simili’ per qualità, efficacia e sicurezza ai prodotti biologici originatori di riferimento e non più soggetti a copertura brevettuale. La disponibilità dei prodotti biosimilari genera una concorrenza rispetto ai prodotti originatori e rappresenta perciò un fattore importante. Quindi, i medicinali biosimilari costituiscono un’opzione terapeutica a costo inferiore per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), producendo importanti risvolti sulla possibilità di trattamento di un numero maggiore di pazienti e sull’accesso a terapie ad alto impatto economico…Come dimostrato dal processo regolatorio di autorizzazione, il rapporto rischio-beneficio dei biosimilari è il medesimo di quello degli originatori di riferimento. Per tale motivo, l’Aifa considera i biosimilari come prodotti intercambiabili con i corrispondenti originatori di riferimento. Tale considerazione vale tanto per i pazienti naïve quanto per i pazienti già in cura. Inoltre, in considerazione del fatto che il processo di valutazione della biosimilarità è condotto, dall’Ema e dalle Autorità regolatorie nazionali, al massimo livello di conoscenze scientifiche e sulla base di tutte le evidenze disponibili, non sono necessarie ulteriori valutazioni comparative effettuate a livello regionale o locale… Lo sviluppo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di soddisfare una crescente domanda di salute, in termini sia di efficacia e di personalizzazione delle terapie sia di sicurezza d’impiego. I medicinali biosimilari rappresentano, dunque, uno strumento irrinunciabile per lo sviluppo di un mercato dei biologici competitivo e concorrenziale, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, mantenendo garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e garantendo loro un accesso omogeneo, informato e tempestivo ai farmaci, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica”. Nel secondo position paper del marzo 2018, quindi, l’Aifa, ritenendo i biosimilari come intercambiabili (n.d.r. a seguito di valutazione del medico curante che conosce le condizioni del proprio paziente e, quindi, non sostituibili in via automatica), ha fugato gran parte dei dubbi che si erano posti in precedenza sulla possibilità di “switch” dal farmaco originator a quello biosimilare e ha, quindi, implicitamente ribadito la sovrapponibilità, in termini di efficacia e di sicurezza, dei farmaci biosimilari presenti sul mercato rispetto all’originator e anche tra di loro. Dunque, seppure simili i due farmaci non sono automaticamente interscambiabili come l’originator lo è con l’equivalente. Come chiarito dalla Sezione in un recente arresto (6 dicembre 2021, n. 8158), il riconoscimento delle peculiari “specialità” dei farmaci biologici, cui si correla il principio della non automatica sostituibilità tra gli stessi, neppure tra l’originator (farmaco biologico già autorizzato e immesso sul mercato) e i suoi biosimilari, farmaci biologici similari a quello di riferimento, ha comportato, sul piano normativo, la definizione di un regime differenziato da quello dei farmaci a sintesi chimica. ​​​​​​​E, infatti, il legislatore, mentre in via generale prevede la sostituibilità automatica da parte del farmacista, sulla scorta di un criterio di economicità, tra farmaci equivalenti (art. 7, d.l. 18 settembre 2001, n. 347, convertito in l. 16 novembre 2001, n. 405), al contrario per i farmaci biologici stabilisce che “non è consentita la sostituibilità automatica tra farmaco biologico di riferimento e un suo biosimilare né tra biosimilari” (art. 15, comma 11-quater, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito in l. 7 agosto 2012, n. 135). 
Farmaci
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sanabilit-c3-a0-delle-opere-realizzate-nel-lazio-in-zone-vincolate-anche-quando-il-vincolo-c3-a8-posteriore-alla-realizzazione-dell-opera-a-fronte-di
Sanabilità delle opere realizzate nel Lazio in zone vincolate anche quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera a fronte di una domanda di c.d. terzo condono
N. 06827/2021REG.PROV.COLL. N. 06379/2015 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6379 del 2015, proposto da Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Sergio Siracusa, domiciliataria ex lege in Roma, via del Tempio di Giove; contro Franco Marcelli, rappresentato e difeso dall'avvocato Stefano Latella, con domicilio eletto presso lo studio Giovanni Vottari in Roma, via Andrea Bafile 2; Tiziana Andreozzi non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 02703/2015, resa tra le parti, concernente diniego concessione edilizia in sanatoria per opere realizzate in area sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico-ordine di demolizione Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Franco Marcelli; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 settembre 2021 il Cons. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti gli avvocati Latella Stefano. Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Roma Capitale appella la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 02703/2015, d’accoglimento del ricorso e motivi aggiunti proposti dai sig.ri Franco Marcelli e Tiziana Andreozzi averso, rispettivamente, il diniego opposto (d.6.6.2013 n. 392) da Roma Capitale-Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica alla domanda di condono ex l. n. 326/2003 e l.r. n. 12/2004 – avente ad oggetto gli interventi edificatori su un immobile in via Casalotti, in area soggetta a vincoli di interesse paesaggistico – e la successiva ingiunzione a demolire le opere non condonate costituenti un ampliamento di un immobile per mq 13 ottenuto chiudendo una veranda. 1.1 Accogliendo la censura sul punto dedotta dai ricorrenti, il Tar, evocando suoi specifici precedenti, ha escluso che l’art. 3, comma 1, lett. b) della L.R. n. 12/2004, richiamato per tabulas nel diniego impugnato, precluda ipso facto la sanabilità delle opere abusive situate in parchi e aree protette. In definitiva, alla stregua dell’interpretazione della norma regionale esposta in sentenza, “la non sanabilità per le opere realizzate in aree vincolate - anche a prescindere dalla data di realizzazione delle stesse - dipende dalla verifica dell’ulteriore presupposto della non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”. 2.Appella la sentenza Roma Capitale. Resiste il sig. Franco Marcelli, 3. Alla pubblica udienza del 24 settembre 2021, la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo d’appello, Roma Capitale lamenta l’errore di giudizio in cui sarebbe incorso il Tar nell’interpretazione dell’art. 3, comma 1, lett. b) della L.R. n. 12/2004 laddove, facendo mal governo dei criteri ermeneutici, ha ristretto il portata precettiva della norma sul condono degli abusi perpetrati in aree vincolate. 4.1 L’appello è fondato. L’art. 3, comma 1, lettera b) l.r. n.12/2004 dispone: “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 32, comma 27, d.l. n. 269/2003 e successive modifiche, dall'articolo 32 l. n. 47/1985, come da ultimo modificato dall'articolo 32, comma 43, del citato d.l. n. 269/2003, nonché dall'articolo 33 l. n. 47/1985, non sono comunque suscettibili di sanatoria… b) le opere di cui all'articolo 2, comma 1, realizzate, anche prima dell’apposizione del vincolo, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela dei monumenti naturali, dei siti di importanza comunitaria e delle zone a protezione speciale, non ricadenti all'interno dei piani urbanistici attuati vigenti, nonché a tutela dei parchi e delle aree naturali protette nazionali, regionali e provinciali”. La norma, contrariamente a quanto ritenuto dal Tar nella sentenza appellata – peraltro non avallata dalla stessa Sezione del Tar Lazio in altra più recente pronuncia (cfr. Tar Lazio n. 2376/2015) – va letta in conformità alla legge n. 326/2003: l’art. 27, pur collocandosi nell’impianto generale della legge n. 47/85, disciplina in maniera più restrittiva gli abusi realizzati in aree vincolate (tra cui quelli, come il caso in esame, posti a protezione dei beni paesistici), precludendo la sanatoria sulla base della anteriorità del vincolo senza la previsione procedimentale di alcun parere dell’autorità ad esso preposta, inscrivendo l’abuso nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria (ex art. 33 l. n.47/85). Nel caso di specie l’abuso edilizio ricade nella Riserva Naturale ricompresa nella circoscrizione territoriale del Parco istituito in data anteriore alla commissione dell’illecito. Sicché l’indirizzo ermeneutico raggiunto dal Tar, a mente del quale nelle area protetta in questione il diniego del c.d. “terzo condono” del 2003 è subordinato ad un’ulteriore valutazione di non conformità dell’intervento sul piano urbanistico, non è condivisibile. L’autonomizzazione “spinta” ed “assoluta” del requisito della “non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” – secondo l’interpretazione accolta dal giudice di primo grado - quale presupposto da accertare con rigore ed in totale autonomia rispetto al contenuto del vincolo, per escludere la sanabilità dell’opera condurrebbe proprio a ritenere sanabili, nonostante la violazione dei vincoli paesaggistico ambientali, interventi abusivi solo perché per essi sussista una conformità urbanistica sostanziale con interpretatio abrogans della disposizione regionale e travisamento della sua ratio che a questo punto sarebbe quella di escludere la sanabilità solo nel caso in cui ci trovi di fronte ad abusi sostanziali. Ma la disposizione è volta ad escludere la sanabilità delle opere abusive oggetto del terzo condono in via generale nelle zone vincolate con la sola ipotesi che il vincolo sopravvenuto consenta l’accertamento di conformità ed in tali limiti; ma non vi è prova che la natura del vincolo sopravvenuto nella specie dia rilevanza a tali evenienze. In assenza di questo non sussiste la possibilità di ottenere il condono in forza di un parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ( non avendo il vincolo tanto consentito e dovendo quindi in conseguenza della sua mera esistenza – in assenza di previsioni legittimanti il recupero di abusi - ritenere l’opera non conforme alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ). Peraltro le opere in questione quanto a destinazione urbanistica secondo il P.R.G. del 1965, vigente, avevano destinazione "B2" e, secondo il P.R.G. adottato, avevano destinazione "Sistemi e regole – Città consolidata - Tessuti con vincolo archeologico e paesaggistico"; La relazione tecnica prot. n. 80998 del 15/11/2013 la U.0.T. del Municipio XIII (ex XVIII) accertava che le opere eseguite erano in contrasto con le N.T.A. di P.R.G. e precisava che l'immobile ricadeva in area sottoposta al vincolo archeologico paesaggistico. Sul punto del contrasto con le N.T.A. la sentenza non spende alcuna concreta considerazione per cui merita di essere riformata. 5. L’accoglimento del principale motivo d’appello assorbe la residua censura. Conclusivamente, l’appello è fondato e, per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, il ricorso di prime cure deve essere respinto. 6. La natura della controversia e il non perspicuo quadro normativo in cui s’inscrive la vicenda dedotta in causa giustificano la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza, respinge il ricorso di prime cure. Compensa le spese del doppio grado di giudizio .Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 settembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Oreste Mario Caputo, Consigliere, Estensore Dario Simeoli, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Oreste Mario Caputo, Consigliere, Estensore Dario Simeoli, Consigliere Giordano Lamberti, Consigliere Davide Ponte, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia – Sanatoria – Lazio – L. reg. n. 12 del 2004 - Opere realizzate in zone vincolate – Opere sanabili - Individuazione. Ai sensi della l. reg. Lazio n. 12 del 2004, deve escludersi la sanabilità delle opere realizzate in zone vincolate anche quando il vincolo è posteriore alla realizzazione dell’opera (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che l’autonomizzazione “spinta” ed “assoluta” del requisito della “non conformità alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” – secondo l’interpretazione accolta dal giudice di primo grado - quale presupposto da accertare con rigore ed in totale autonomia rispetto al contenuto del vincolo, per escludere la sanabilità dell’opera condurrebbe proprio a ritenere sanabili, nonostante la violazione dei vincoli paesaggistico ambientali, interventi abusivi solo perché per essi sussista una conformità urbanistica sostanziale con interpretatio abrogans della disposizione regionale e travisamento della sua ratio che a questo punto sarebbe quella di escludere la sanabilità solo nel caso in cui ci trovi di fronte ad abusi sostanziali. ​​​​​​​Ma la disposizione è volta ad escludere la sanabilità delle opere abusive oggetto del terzo condono in via generale nelle zone vincolate con la sola ipotesi che il vincolo sopravvenuto consenta l’accertamento di conformità ed in tali limiti; ma non vi è prova che la natura del vincolo sopravvenuto nella specie dia rilevanza a tali evenienze. ​​​​​​​In assenza di questo non sussiste la possibilità di ottenere il condono in forza di un parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ( non avendo il vincolo tanto consentito e dovendo quindi in conseguenza della sua mera esistenza – in assenza di previsioni legittimanti il recupero di abusi - ritenere l’opera non conforme alle norme urbanistiche ed alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ).
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/competenza-della-regione-in-materia-di-appropriatezza-prescrivibilit-c3-a0-e-rimborsabilit-c3-a0-di-un-farmaco
Competenza della Regione in materia di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità di un farmaco
N. 08033/2020REG.PROV.COLL. N. 05586/2014 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5586 del 2014, proposto dalla Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Annalisa Agostinacchio, con domicilio eletto presso lo studio del signor Marco Gardin in Roma, via Laura Mantegazza, n. 24; contro la s.p.a. Istituto Luso Farmaco d'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ivan Marrone, con domicilio eletto presso lo studio legale Marrone Ivan Lessona in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 18; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sede di Bari (Sezione Seconda), n. 239/2014, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della s.p.a. Istituto Luso Farmaco d'Italia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza del giorno 11 dicembre 2020 il Cons. Davide Ponte in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del decreto legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell'art. 25 del decreto legge n. 137 del 28 ottobre 2020 attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”, come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Col ricorso di primo grado (proposto al TAR per la Puglia, Sede di Bari), la società appellata - operante nel settore della commercializzazione dei farmaci rientranti nelle categorie dei Sartani e Ace-inibitori (incluse le associazioni precostituite tra detti farmaci) soggetti a brevetto non ancora scaduto – ha impugnato la delibera di Giunta Regionale della Puglia n. 1581 del 31 luglio 2012, avente ad oggetto “Interventi in materia farmaceutica ai fini del contenimento della spesa e dell’appropriatezza prescrittiva degli antagonisti del Sistema Renina Angiotensina”. Con tale delibera, la Regione Puglia ha disposto che tutti i medici, di medicina generale, pediatri, specialisti convenzionati o ospedalieri di strutture pubbliche o private convenzionate, che intendano prescrivere un farmaco attivo sul sistema Renina-Angiotensina, debbano prescrivere una molecola scelta nel rispettivo gruppo dei farmaci a brevetto scaduto, potendo derogare a tale obbligo solo predisponendo una apposita scheda nella quale motivare la scelta terapeutica. Con la sentenza n. 239 del 2014, il Tar Puglia ha accolto il ricorso, rilevando la violazione del riparto di competenza con lo Stato, ed ha respinto la domanda risarcitoria. La Regione Puglia ha impugnato la sentenza del TAR ed ha chiesto che, in sua riforma, il ricorso di primo grado sia respinto, Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - error in iudicando, erroneo apprezzamento dei fatti posti a base della controversia, violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311; - erroneo apprezzamento dei fatti posti a base della controversia. La società appellata si costituiva in giudizio, chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso per mancata notifica alla controinteressata Mylan s.p.a. ed il rigetto dell’appello. La società ha altresì proposto un appello incidentale in relazione al rigetto della domanda risarcitoria ed ha riproposto le censure di prime cure dichiarate assorbite dal Tar. Con atto depositato in data 6 marzo 2020 parte appellata dichiarava di rinunziare all’appello incidentale. Alla pubblica udienza dell’11 dicembre 2020 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. Preliminarmente, va dato atto della rinuncia alle domande proposte con l’appello incidentale. 2. Può invece prescindersi dall’esame dell’eccezione di inammissibilità dell’appello per mancata notifica ad una parte controinteressata (peraltro superabile con l’eventuale integrazione del contraddittorio in parte qua, ex art. 95, comma 3, del cod proc amm) in quanto, in base ai noti principi in tema di economia processuale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 23 settembre 2015, n. 4440, nonché art. 95, comma 5, del cod proc amm), nel merito, l’appello principale risulta infondato. 3. In linea di diritto, vanno ribaditi i seguenti principi, già evidenziati dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. ad es. Sez. III, sent. n. 7740 del 2019). La legislazione statale di riferimento (cfr. art. 48, comma 2, l. 24 novembre 2003, n. 326) dispone che il farmaco è uno strumento per la tutela della salute, con la conseguenza che la somministrazione del farmaco da parte del servizio sanitario nazionale deve essere inteso come diritto fondamentale dell’individuo e della collettività, nei casi previsti dalla normativa di settore. L’accessibilità al farmaco a condizioni stabilite dal diritto positivo è, infatti, parametro dell’eguaglianza giuridica e attuazione del principio solidaristico stabilito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Orbene, al fine di ampliare l'assistenza farmaceutica, da parte del SSN, nella misura più ampia possibile, il cit. art. 48 del d.l. n. 269 del 2003 ha attribuito alla Agenzia del farmaco il potere – di natura tecnico-discrezionale - di redigere l'elenco dei farmaci rimborsabili dal SSN, sulla base dei criteri del costo e dell’efficacia, stabilendo, peraltro, meccanismi di sconto sul prezzo dei farmaci rimborsabili, al fine del contenimento della spesa farmaceutica a “garanzia, nella misura più ampia possibile, del diritto alla salute mediante l'inserimento del maggior numero di farmaci essenziali nell'elenco di quelli rimborsabili dal SSN” (sul punto cfr. Corte Cost. n. 279 del 2006). In proposito, il diritto positivo fa dunque emergere un quadro ordinamentale in cui l’inserimento dei farmaci in fascia A risulta unicamente finalizzato a garantire il diritto degli utenti del SSN a fruire di terapie farmacologiche gratuite, quando esse siano “essenziali” o riguardino malattie croniche, contemperandolo con la facoltà dello Stato di adottare misure economiche indirizzate al controllo della spesa farmaceutica”. 4. Ciò ricordato, la controversia oggetto di esame deve trovare soluzione sulla base dei principi già espressi dalla Sezione (cfr. ad es. la sentenza n. 4546 del 2017). Nel caso in esame, infatti, la Regione con la delibera in contestazione ha disposto che tutti i medici - di medicina generale, pediatri, specialisti convenzionati o ospedalieri di strutture pubbliche o private convenzionate - che intendano prescrivere un farmaco attivo sul sistema Renina-Angiotensina, debbano prescrivere una molecola scelta nel rispettivo gruppo dei farmaci a brevetto scaduto, potendo derogare a tale obbligo solo predisponendo una apposita scheda nella quale motivare la scelta terapeutica. 5. Ciò si pone al di là delle competenze spettanti agli organi regionali, dando luogo ad una disposizione autoritativa di rilevante incisività, che ha attribuito preminente rilievo ai dati economici e non alle esigenze della tutela della salute, rimesse alla valutazione degli organi statali. Rispetto alle valutazioni effettuate a livello nazionale dall’AIFA, una preclusione anche parziale introdotta dalla Regione è idonea ad incidere sulla attuazione dei principi di eguaglianza sopra richiamati e, dunque, esula dalla competenza regionale. Né può valere l’affermazione della possibile diversa opzione, in quanto la stessa è vincolata, in termini di rigidità inammissibili a fronte dei principi vigenti, ad un onere ultroneo, in capo al medico, rispetto al doveroso esercizio della libera attività medica e scientifica. 6. Va, dunque, ribadito il richiamato orientamento, secondo cui la Regione non può sovrapporre la propria valutazione tecnica ad una valutazione di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità già compiuta dall’AIFA a livello nazionale, in quanto attinente ai livelli essenziali di assistenza. In particolare, va ribadito che il complesso delle disposizioni legislative dedicate a regolare la materia attribuisce esclusivamente all’AIFA - l’Agenzia Italiano del Farmaco – le funzioni relative al rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei medicinali, alla loro classificazione, alle relative indicazioni terapeutiche, ai criterî delle pertinenti prestazioni, alla determinazione dei prezzi, al regime di rimborsabilità e al monitoraggio del loro consumo. Tali competenze sono state ripetutamente ed univocamente qualificate come ‘esclusive’, nel senso che le suddette funzioni – legislative ed amministrative – spettano solo all’autorità statale, sia dalla giurisprudenza costituzionale – v, ex plurimis, Corte cost., 29 maggio 2014, n. 151, e 12 gennaio 2011, n. 8 – sia da quella amministrativa – v., oltre alla richiamata sentenza n. 490 del 2015, anche Cons. St., sez. III, 8 settembre 2014, n. 4538 – laddove hanno precisato che resta preclusa alle Regioni la previsione, sia in via legislativa che amministrativa, di un regime di utilizzabilità e di rimborsabilità contrastante e incompatibile con quello stabilito, in via generale e sulla base dei pareri emessi dalla competente Commissione consultiva tecnico - scientifica – dall’AIFA a livello nazionale. 7. Sulla base delle considerazioni che precedono, l’appello va respinto. Sussistono giunti motivi, anche alla luce della natura degli interessi coinvolti e degli elementi prospettati nelle memorie conclusive, per procedere alla compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello n. 5586 del 2014, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate del secondo grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Dario Simeoli, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello, Consigliere Luigi Maruotti, Presidente Dario Simeoli, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello, Consigliere IL SEGRETARIO
Farmaci – Regioni – Competenza in materia di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità - Esclusione.     La Regione non può sovrapporre la propria valutazione tecnica ad una valutazione di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità già compiuta dall’AIFA a livello nazionale, in quanto attinente ai livelli essenziali di assistenza; il complesso delle disposizioni legislative dedicate a regolare la materia attribuisce esclusivamente all’AIFA le funzioni relative al rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio dei medicinali, alla loro classificazione, alle relative indicazioni terapeutiche, ai criterî delle pertinenti prestazioni, alla determinazione dei prezzi, al regime di rimborsabilità e al monitoraggio del loro consumo (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 48, comma 2, l. 24 novembre 2003, n. 326 dispone che il farmaco è uno strumento per la tutela della salute, con la conseguenza che la somministrazione del farmaco da parte del servizio sanitario nazionale deve essere inteso come diritto fondamentale dell’individuo e della collettività, nei casi previsti dalla normativa di settore. L’accessibilità al farmaco a condizioni stabilite dal diritto positivo è, infatti, parametro dell’eguaglianza giuridica e attuazione del principio solidaristico stabilito dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Orbene, al fine di ampliare l'assistenza farmaceutica, da parte del Servizio sanitario nazionale, nella misura più ampia possibile, il cit. art. 48, d.l. n. 269 del 2003 ha attribuito alla Agenzia del farmaco il potere – di natura tecnico-discrezionale - di redigere l'elenco dei farmaci rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale, sulla base dei criteri del costo e dell’efficacia, stabilendo, peraltro, meccanismi di sconto sul prezzo dei farmaci rimborsabili, al fine del contenimento della spesa farmaceutica a “garanzia, nella misura più ampia possibile, del diritto alla salute mediante l'inserimento del maggior numero di farmaci essenziali nell'elenco di quelli rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale” (Corte cost. n. 279 del 2006). In proposito, il diritto positivo fa dunque emergere un quadro ordinamentale in cui l’inserimento dei farmaci in fascia A risulta unicamente finalizzato a garantire il diritto degli utenti del Servizio sanitario nazionale a fruire di terapie farmacologiche gratuite, quando esse siano “essenziali” o riguardino malattie croniche, contemperandolo con la facoltà dello Stato di adottare misure economiche indirizzate al controllo della spesa farmaceutica”. ​​​​​​​Ha quindi chiarito la Sezione che le competenze in materia di appropriatezza, prescrivibilità e rimborsabilità di un farmaco sono state ripetutamente ed univocamente qualificate come ‘esclusive’, nel senso che le suddette funzioni – legislative ed amministrative – spettano solo all’autorità statale, sia dalla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. 29 maggio 2014, n. 151; 12 gennaio 2011, n. 8). 
Farmaci
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Legittimazione a chiedere il rilascio del titolo edilizio da parte del comproprietario
N. 01766/2020REG.PROV.COLL. N. 00855/2010 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 855 del 2010, proposto dal signor Antonio Aurigemma, rappresentato e difeso dall’avvocato Paola Conticiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Largo Messico, 7, contro il Comune di Tivoli, non costituito in giudizio, nei confronti di Archimede Casadei e Maria Marcangeli, non costituiti in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 7482/2009, resa tra le parti, concernente una concessione in sanatoria. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2020, il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e udita l’avvocato Paola Conticiani; FATTO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, sez. IV, con la sentenza 22 luglio 2003, n. 7482, ha respinto il ricorso, proposto dall’attuale parte appellante, per l’annullamento della concessione in sanatoria n. 1242 del 28 aprile 2003, rilasciata ai controinteressati per l’esecuzione di lavori di realizzazione di un locale garage in Tivoli via Archimede n. 3. Secondo il TAR, sinteticamente: - il ricorrente è proprietario in comunione legale di un fabbricato posto in una zona limitrofa a quella interessata dalla realizzazione di un locale garage; - il Comune ha indicato che, a seguito di domanda di condono, presentata ai sensi della L. n. 47-1985, in data 4 giugno 1986, l’Amministrazione aveva provveduto ad un richiesta istruttoria in data 20 ottobre 1987, cui aveva fatto seguito l’integrazione in data 25 marzo 2003, e la concessione era stata rilasciata in data 8 aprile 2003; - successivamente, in esecuzione della sentenza del TAR. n. 9822-2004, era effettuato un sopralluogo sull’immobile, attraverso il quale si confermava la conformità del garage rispetto a quanto dichiarato, salvo un’apertura da un lato, che era sanzionata con l’ordinanza n. 243-17883 del 26 marzo 2009; - la domanda di condono è stata presentata dal coniuge comproprietario, responsabile dell’abuso, pertanto da soggetto pienamente legittimato a proporre la domanda; - il soggetto interessato ha prontamente ottemperato alla domanda di integrazione documentale richiesta dal Comune, cosicché non può ritenersi che lo stesso sia incorso in un termine di decadenza; - il provvedimento risulta, pertanto, legittimamente rilasciato in ordine alla identificabilità delle caratteristiche dell’opera in esame; - non sussiste alcun dovere da parte del Comune di garantire la partecipazione del terzo, poiché il titolo risulta pacificamente rilasciato sempre nella salvezza dei diritti dei terzi, tutelabili, per quanto riguarda il rispetto delle distanze, in sede civile. L’appellante contestava la sentenza del TAR riproponendo, in sostanza, le censure contenute nel ricorso di primo grado. Con l’appello in esame chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado. All’udienza pubblica del 18 febbraio 2020 la causa veniva trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Rileva il Collegio che il ricorso oggetto del presente giudizio è stato proposto dall’attuale appellante signor Aurigemma Antonio avverso la concessione in sanatoria n. 1242 del 28 aprile 2003 rilasciata a favore degli appellati signori Casadei. Parte appellante deduce che il titolo edilizio era stato richiesto solo da un comproprietario, ovvero dal proprietario pro quota e nella specie dal signor Casadei Archimede, mentre nessuna richiesta in tal senso era stata formalizzata dall’altro soggetto avente titolo (ovvero dalla signora Marcangeli Maria). 2. In effetti, questo Consiglio, in tema di soggetto legittimato all’istanza di rilascio di titolo edilizio e proprietario pro quota, ha affermato inequivocabilmente che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene, pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso. Non può invece riconoscersi legittimazione, al contrario, al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento. In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, di conseguenza, la domanda di rilascio di titolo edilizio - sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati - dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull’immobile, potendosi ritenere d’altra parte legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l’esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 settembre 2016, n. 3823). Pertanto, deve sicuramente, conseguentemente, ritenersi illegittimo il titolo abilitativo rilasciato in base alla richiesta di un solo comproprietario, dovendo l’Amministrazione verificare la sussistenza, in capo al richiedente stesso, di un titolo idoneo di godimento sull’immobile ed accertare, altresì, la legittimazione soggettiva di quest’ultimo, la quale presuppone il consenso, anche tacito, dell’altro proprietario in regime di comunione. Tuttavia, tali principi non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi, come appare la situazione nel caso di specie. Occorre, quindi, trovare un principio in base al quale risolvere le diverse questioni che si possono porre, in quanto la comunione di un bene fra due soggetti non è una comproprietà in cui ciascun compartecipante è titolare di una quota pari ad 1/2 del bene. Si tratta, invece, di un istituto particolare (cosiddetto di tipo “germanico”) senza quote. In sostanza, si può solo dire che tutti i soggetti sono comproprietari dell’intero bene. Questi sono i principi costantemente affermati, nella giurisprudenza di legittimità, relativamente, ad esempio, al pignoramento ed all’espropriazione coattiva di un bene in comunione, in quanto la comunione tra coniugi ha la peculiarità di essere senza quote o “a mani riunite”, nel senso che, pur essendo entrambi i coniugi contitolari al 50%, lo sono, tuttavia, sull’intero bene (o beni in caso di diversi cespiti) (cfr., ex multis, Cassazione civ., sez. III, 31 marzo 2016, n. 6230). Anche sotto il profilo penale emerge la differenza tra bene in comproprietà e bene in comunione legale dei coniugi, proprio in tema di responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro. In tema di reati edilizi, infatti, la responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall’altro può essere rilevata sulla base di oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse all’edificazione, il regime di comunione dei beni, l’acquiescenza all’esecuzione dell’intervento, la presenza sul luogo di esecuzione dei lavori, l’espletamento di attività di controllo sull’esecuzione dei lavori, la presentazione di istanze o richieste concernenti l’immobile o l’esecuzione di attività indicative di una partecipazione all’attività illecita (cfr., ex multis, Cass. pen. Sez. III 14 novembre 2018, n. 51489). Conseguentemente, poiché in tema di comunione legale dei beni, il singolo coniuge è proprietario non pro quota ma indistintamente dell’intero bene, deve ritenersi legittimato a presentare anche uti singuli l’istanza di sanatoria, avendo la stessa, peraltro, effetti favorevoli anche nei confronti del coniuge rimasto inerte, come legittimamente è avvenuto nel caso in esame. 3. Parte appellante deduce altresì l’intempestivo deposito, da parte dell’attuale appellato Casadei, della documentazione richiesta dal Comune in sede di istruttoria sulla istanza di condono, atteso che la richiesta di integrazione documentale da parte del Comune risaliva al 20 ottobre 1987 e il deposito dei documenti è avvenuto 17 anni dopo, in data 25 marzo 2003, e tenuto presente che l’appellato Casadei aveva presentato domanda di condono in data 31 maggio 1986. Rileva il Collegio che l’integrazione documentale in contestazione, è effettivamente avvenuta in data 25 marzo 2003. Ricorda in proposito il Collegio che la legge n. 662-1996 (art. 2, comma 37) ha introdotto, tra le cause di improcedibilità e diniego delle domande di condono ex L. n. 724-94, il tardivo deposito dell’integrazione documentale oltre novanta giorni dalla espressa richiesta notificata dal Comune. Infatti, “la mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal Comune comporta l’improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione”. La stessa causa di improcedibilità vige anche per le domande presentate ai sensi del condono edilizio ex L. n. 326-2003, il quale richiama e rinvia alle stesse procedure di cui alla L. n. 47-1985 e L. n. 724-1994 tramite i commi 25, 38 e 40 dell’art. 32 D.L. n. 269-2003 convertito con modifiche in L. n. 326-2003. Pertanto, l’inottemperanza dell’interessato a concludere e integrare la procedura di condono entro il relativo termine, comporta la decadenza dell’istanza stessa, portando alla sua archiviazione con diniego legittimamente motivata per carenza documentale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, n. 2714-2012). Questo, tuttavia, non implica anche che un’eventuale integrazione tardiva non possa essere presa in considerazione in senso assoluto, trattandosi di una causa che legittima l’Amministrazione ad archiviare (e non, infatti, a respingere nel merito) la pratica, ma non implica decadenza del potere di sanatoria. Peraltro, nel caso di specie, il TAR, con la sentenza n. 9822-2004, emessa tra le stesse parti oggi in causa per “l’annullamento del silenzio-rifiuto, formatosi su atto di diffida e messa in mora per l’esercizio dei poteri di natura repressiva e sanzionatoria, relativamente ad opere abusive in corso di esecuzione su un terreno, confinante con quello di proprietà del ricorrente”, aveva posto l’obbligo del Comune di provvedere in ordine agli abusi segnalati dal sig. Aurigemma, attuale appellante, realizzati dopo il rilascio della concessione. A seguito della sentenza sopra richiamata, in esecuzione della stessa, era stato effettuato un sopralluogo sull’immobile, che confermava la conformità del garage rispetto a quanto dichiarato, salvo un’apertura da un lato, che era sanzionata con l’ordinanza n. 243-17883 del 26 marzo 2009. Pertanto, da un lato, questo Collegio ritiene che non sussista una vera e propria causa di decadenza del potere di provvedere, bensì soltanto un potere-dovere di concludere il procedimento ai fini di evitare la formazione del silenzio assenso, con tutte le conseguenze pregiudizievoli che possono ripercuotersi sul Comune. 4. Pertanto, in sintesi: - il termine di tre mesi per l’integrazione documentale di cui all’art. 39, comma 4, L. n. 724-1994 è stato ritenuto perentorio, sia dalla giurisprudenza della Cassazione penale (cfr. sez. III, 29 maggio 2019, n. 30561; id., 25 novembre 2008, n. 3583; id., 11 luglio 2000, n. 10969) che da quella amministrativa di primo grado (cfr. T.A.R. Firenze, sez. III, 16 gennaio 2014, n. 75; T.A.R. Sardegna, 29 agosto 2003, n. 1043), producendo la sua scadenza l’effetto di rendere improcedibile la domanda di condono; - la predetta disciplina, introdotta dalla L. n. 662-1996, è stata ritenuta applicabile anche alle domande di condono – come quella per cui è causa – precedentemente presentate ai sensi della L. n. 47-1985 per le quali non fosse maturato il silenzio-assenso a causa della carenza di integrazioni documentali necessarie, come previsto dall’art. 49, comma 7, legge 27 dicembre 1997, n. 449 (cfr. T.A.R. Campania, sez. IV, 25 febbraio 2016, n. 1032); - nella specie si è in presenza di un provvedimento di condono emanato a fronte di una situazione in cui, molti anni prima, il Comune avrebbe dovuto dichiarare la domanda improcedibile ai sensi del citato art. 39, comma 4, L. n. 724-1994; - l’improcedibilità della domanda deve tuttavia essere oggetto di una statuizione espressa del Comune, con la conseguenza che finché questa non sopravviene la documentazione tardivamente prodotta dall’istante è sempre esaminabile e suscettibile di portare a determinazioni diverse. Il Collegio propende per tale soluzione, perché la norma non è strutturata in modo da configurare una sorta di ipotesi di silenzio-rigetto. Di conseguenza, se è vero che nella specie oltre al ritardo dell’interessato nel provvedere all’integrazione documentale vi è stata anche una colpevole inerzia del Comune che non ha adottato le determinazioni ai sensi dell’art. 39, comma 4, L. n. 724-1994, ciò non comporta perciò solo l’illegittimità del condono tardivamente rilasciato, potendo, se del caso, configurarsi una responsabilità omissiva dell’Amministrazione che potrebbe essere fatta valere ad altro titolo. 5. Quanto al terzo motivo di appello, con cui si reitera la doglianza concernente l’asserita non identificabilità degli abusi oggetto di sanatoria, reputandosi ammissibile e utilizzabile la tardiva integrazione documentale cui ha provveduto il richiedente, la questione è superata e, quindi, anche questo motivo è infondato. Inoltre, deve aggiungersi che, sotto il profilo dei documenti depositati dalla parte appellante (ove si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 35 L. n. 47-1985 sotto il diverso profilo della indeterminatezza dell’oggetto della sanatoria, atteso che non veniva rappresentata la effettiva consistenza dell’immobile sanando), la successiva sentenza del TAR Lazio già citata (n. 9822-2004) ha statuito che è stato effettuato dal Comune un sopralluogo sull’immobile, che confermava la conformità del garage rispetto a quanto dichiarato, salvo un’apertura da un lato, che era sanzionata con l’ordinanza n. 243-17883 del 26 marzo 2009. Dal tenore degli atti e degli accertamenti compiuti si evidenzia, del tutto ragionevolmente, che non vi fosse alcuna indeterminatezza dell’oggetto della sanatoria, ben rappresentato non solo da parte degli appellanti, ma tenuto perfettamente presente dal Comune, nonché dal controinteressato, che ha perfettamente inteso l’oggetto della sanatoria, evidenziandone infatti con precisione i supposti punti critici. 6. Infondato, infine, è l’ultimo motivo di appello, atteso che non è configurabile, nel caso di specie, una violazione degli artt. 7 e ss. della L. n. 241-1990 per non essere stato il ricorrente in primo grado informato sull’avvio di procedimento del rilascio del titolo in sanatoria. Tale soggetto, infatti, vanta un interesse differenziato rispetto al futuro provvedimento di sanatoria ai fini della sua tutela giurisdizionale, ma non può ritenersi, come nel caso di tutti i titoli edilizi, titolare di un interesse procedimentale alla partecipazione del procedimento di sanatoria, non essendo direttamente contemplato dal provvedimento e non subendone direttamente gli effetti tipici e diretti, ma soltanto, in ipotesi, quelli indiretti, derivanti dalla costruzione già effettuata e asseritamente contrastante con le norme civilistiche in materia di distanze. Pertanto, la condizione di vicinanza con l’area interessata dalle opere oggetto di sanatoria non è di per sé sufficiente ad obbligare l’Amministrazione comunale alla comunicazione dell’avvio del procedimento. Peraltro, come ha osservato anche questo Consiglio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 settembre 2013, n. 4494) in tema di immobile posto a distanza dal confine inferiore a quella minima, il fatto che l’immobile sia posto a distanza dal confine inferiore a quella minima prevista dalla disciplina regolamentare edilizia, non può, di per sé, impedire il condono, restando naturalmente salvo l’interesse di entrambi i proprietari frontisti di far valere il diritto al rispetto delle distanze davanti al giudice ordinario, a tutela del diritto di proprietà, poiché, pur in presenza di un provvedimento di condono (nella specie, usufruito da entrambi i proprietari frontisti), il proprietario del fondo contiguo, leso dalla violazione delle norme urbanistiche o delle distanze legali, in presenza dei relativi presupposti ha comunque il diritto di chiedere ed ottenere l’abbattimento o la riduzione a distanza legale della costruzione in ipotesi illegittima (cfr., in tal senso, anche la giurisprudenza della Corte di legittimità: ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 30131; Cass. civ., sez. II, 26 settembre 2005, n. 18728). In generale, quindi, la sanatoria o il condono degli illeciti urbanistici, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici - amministrativi, penali e/o fiscali - e non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati, lasciando impregiudicati i diritti dei privati confinanti derivanti dalla eventuale violazione delle distanze legali previste dal codice civile e dalla norme regolamentari di esse integratrici. 5. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato. Nulla per le spese di lite del presente grado di giudizio in assenza di costituzione della parte appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe indicato, lo respinge. Nulla per le spese di lite del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2020 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Giancarlo Luttazi, Consigliere Giovanni Sabbato, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore Giancarlo Luttazi, Consigliere Giovanni Sabbato, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia – Permesso di costruire – Istanza di rilascio – Comproprietario – Comunione legale -  Condizione.               Se è vero che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene (pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso), non potendo riconoscersi legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento, tuttavia tali principi non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi (1).     (1) In materia edilizia, se è vero che il soggetto legittimato alla richiesta del titolo abilitativo deve essere colui che abbia la totale disponibilità del bene (pertanto l’intera proprietà dello stesso e non solo una parte o quota di esso), non potendo riconoscersi legittimazione al semplice proprietario pro quota ovvero al comproprietario di un immobile, e ciò per l’evidente ragione che diversamente considerando il contegno tenuto da quest’ultimo potrebbe pregiudicare i diritti e gli interessi qualificati dei soggetti con cui condivida la propria posizione giuridica sul bene oggetto di provvedimento, tuttavia tali principi non sono applicabili per gli immobili che ricadono in comunione legale tra i coniugi. Quest’ultima, infatti, non è una comproprietà in cui ciascun compartecipante è titolare di una quota pari ad 1/2 del bene. Si tratta, invece, di un istituto particolare (cosiddetto di tipo “germanico”) senza quote. In sostanza, si può solo dire che tutti i soggetti sono comproprietari dell’intero bene. Pertanto, ciascun coniuge deve ritenersi legittimato a presentare anche uti singuli l’istanza ad aedificandum, avendo la stessa, peraltro, effetti favorevoli anche nei confronti del coniuge rimasto inerte. La l. 23 dicembre 1996, n. 662 (art. 2, comma 37) ha introdotto, tra le cause di improcedibilità e diniego delle domande di condono edilizio ex l. 23 dicembre 1994, n. 724, il tardivo deposito dell’integrazione documentale oltre novanta giorni dalla espressa richiesta notificata dal Comune (art. 39, comma 4, l. n. 724 del 1994), termine ritenuto perentorio (Cass. pen., sez. III, 29 maggio 2019, n. 30561; id., 25 novembre 2008, n. 3583; id., 11 luglio 2000, n. 10969; Tar Toscana, sez. III, 16 gennaio 2014, n. 75; Tar Sardegna 29 agosto 2003, n. 1043), la cui scadenza produce quindi l’effetto di rendere definitivamente improcedibile la domanda di sanatoria. Inoltre, tale disciplina è applicabile anche alle domande di condono precedentemente presentate ai sensi della l. 28 febbraio 1985, n. 47, per le quali non fosse maturato il silenzio-assenso a causa della carenza di integrazioni documentali necessarie, come previsto dall’art. 49, comma 7, l. 27 dicembre 1997, n. 449 (Tar Napoli, sez. IV, 25 febbraio 2016, n. 1032).  Tuttavia, l’improcedibilità della domanda deve essere oggetto di una statuizione espressa del Comune, con la conseguenza che finché questa non sopravviene la documentazione tardivamente prodotta dall’istante è sempre esaminabile e suscettibile di portare a determinazioni diverse; ciò in quanto la norma non è strutturata in modo da configurare una sorta di ipotesi di silenzio-rigetto né una consumazione del potere dell’amministrazione comunale.
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adozione-del-daspo-prescinde-da-un-necessario-avvenuto-accertamento-di-responsabilita-in-sede-giudiziale
L’adozione del Daspo prescinde da un necessario avvenuto accertamento di responsabilità in sede giudiziale
N. 00392/2020REG.PROV.COLL. N. 00129/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Sezione giurisdizionale ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 129 del 2017, proposto da ex, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Scuderi, Giuseppe Gitto, Ida Linda Reitano, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giuseppe Gitto in Catania, viale XX Settembre, 28; contro il Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria “ex lege” in Palermo, via Villareale, 6; per la riforma della sentenza del TAR Sicilia - sezione staccata di Catania - sezione quarta - n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con la quale è stato accolto soltanto in parte il ricorso, corredato di motivi aggiunti, proposto contro il provvedimento del Questore di Catania prot. n. -OMISSIS-, notificato in data 5.8.2015, con cui si fa divieto al ricorrente di accedere in tutti gli stadi e gli impianti sportivi di Catania, della provincia e del territorio nazionale in cui si svolgono manifestazioni agonistiche di calcio; di accedere in tutti i luoghi in cui si svolgono i ritiri della -OMISSIS-nei giorni in cui si svolgono le manifestazioni sportive e si inibisce allo stesso la presenza presso le stazioni ferroviarie di Catania Centrale e altri luoghi, e avverso ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale; Visto il ricorso in appello, con i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’interno; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il cons. Marco Buricelli nell'udienza del 28.5.2020, svoltasi da remoto in video conferenza senza discussione orale, e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, del d. l. n. 18/2020, conv. con modificazioni dalla l. n. 27/2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.L’impugnazione ha ad oggetto la sentenza della IV sezione del TAR di Catania, n. -OMISSIS-. Con tale sentenza, il TAR ha accolto soltanto in (minima) parte il ricorso promosso dal signor ex avverso il provvedimento del Questore di Catania, prot. n. -OMISSIS-, in data 4.8.2015, notificato in data 5.8.2015, con cui, per la durata di cinque anni, si fa divieto al ricorrente, ex presidente del -OMISSIS-, di accedere in tutti gli stadi e gli impianti sportivi di Catania, della provincia e del territorio nazionale, nei quali si svolgono manifestazioni agonistiche di calcio, di accedere in tutti i luoghi in cui si svolgono i ritiri della -OMISSIS-nei giorni in cui si svolgono le manifestazioni sportive, e si inibisce allo stesso la presenza presso le stazioni ferroviarie di Catania Centrale, presso l’aerostazione e nelle vie limitrofe allo stadio A. Massimino di Catania; divieto esteso per l’arco temporale suddetto anche alle vie di accesso e alle aree di parcheggio adiacenti agli impianti sportivi e a tutti i luoghi, quali percorsi stradali, autostradali e ferroviari etc. che in relazione a specifiche e concrete circostanze di tempo e di luogo fossero interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni sopra indicate. 2.La controversia trae origine dal decreto di c.d. “Daspo” in epigrafe, emesso dal Questore di Catania, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c) della l. n. 401 del 1989. In particolare, nel decreto: -si prendeva atto dell’ordinanza del Tribunale di Catania – Ufficio del Gip, in data 15.6.2015, di applicazione della misura cautelare personale degli arresti domiciliari, considerando sussistenti a carico del soggetto in epigrafe gravi indizi di colpevolezza per i reati di a) frode in competizioni sportive (art. 1 l. 401/89) e b)416 cod. pen. – associazione per delinquere, delitto contro l’ordine pubblico; misura successivamente sostituita, con ordinanza del medesimo Gip in data 3.7.2015, con l’obbligo di presentazione trisettimanale alla Polizia giudiziaria; -si rilevava che detti reati erano stati commessi allo scopo di realizzare una serie indeterminata di delitti di frode in competizioni sportive e di truffe, diretti a influire sui risultati e ad alterare, nel campionato di calcio di serie B, stagione 2014/2015, il naturale esito delle partite nelle quali era impegnato il -OMISSIS-, con la conseguente vittoria di quest’ultima società. Dalla lettura dell’ordinanza del Gip si ricava in particolare che l’indagato, quale “capo”, in concorso con altri dirigenti della squadra, interveniva con offerte o promesse di denaro o altra utilità o vantaggi, nei confronti dei calciatori e dei dirigenti, per raggiungere un risultato diverso da quello conseguente al corretto e leale svolgimento della competizione, con circostanze aggravanti a carico del medesimo; -a seguito di tale arresto, che coinvolgeva, oltre al ricorrente e appellante odierno, anche i vertici della società -OMISSIS-, si registrava, a livello mediatico e sul web, un imponente e preoccupante coinvolgimento di persone, sfociato in data 20.6.2015 in una manifestazione / corteo di protesta, che vedeva sfilare per le vie del centro della città circa 2500 persone, inneggianti cori vibranti di disappunto contro il ricorrente; -si considerava tuttora persistente tale disappunto, che si manifestava attraverso varie forme; -si precisava che l’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989 prevede che il Questore può disporre il Daspo nei confronti tra l’altro delle persone denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni, anche per delitti contro l’ordine pubblico, àmbito che racchiude la fattispecie di cui all’art. 416 cod. pen. ; -si valutava che la presenza del destinatario del Daspo negli impianti sportivi ove si esibisce la squadra del -OMISSIS- possa rappresentare un pericolo concreto per l’ordine e la sicurezza pubblica di quei luoghi, e possa essere motivo di turbativa per il regolare svolgimento delle gare; -si consideravano l’approssimarsi di altre manifestazioni sportive di importante richiamo e segnatamente dell’imminente incontro di Coppa Italia previsto per il 9.8.2015 presso lo stadio della città e l’avvicinarsi dell’udienza del Tribunale federale della FIGC, fissata per l’11.8.2015 per determinare le sorti sportive della squadra del -OMISSIS-, il che impone l’adozione di una misura preventiva in via di urgenza e non consente di comunicare all’interessato, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990, l’avvio del procedimento diretto alla emissione del decreto di divieto di accesso; -si vietava quindi al ricorrente, per cinque anni, di accedere in tutti gli stadi e gli impianti sportivi non solo di Catania ma anche della provincia e del territorio nazionale, in cui si svolgono manifestazioni agonistiche di calcio, con divieto di accesso esteso agli altri luoghi suindicati. Il nominato in epigrafe ha impugnato il Daspo dinanzi al TAR di Catania con svariati motivi, anche aggiunti, concernenti violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili. Nel contraddittorio con l’Amministrazione dell’interno, il TAR ha, dapprima, con ordinanza n. 854/2015, accolto solo in parte, nei limiti che poi sono stati confermati nella sede di merito di primo grado, l’istanza di misure cautelari, evidenziando, nella motivazione della statuizione di rigetto dell’ordinanza, che l’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, sebbene rivolto prevalentemente a fattispecie relative a soggetti che abbiano dimostrato, anche al di fuori dello stretto àmbito delle manifestazioni sportive, una inclinazione alla violenza, non esaurisce alle stesse la sua sfera applicativa, ma la estende a ipotesi delittuose anche di diversa natura; e che il reato associativo, esplicitamente contemplato tra quelli che possono comportare l’applicazione del Daspo, nella specie è collegato a reati di sicura rilevanza proprio nell’ambito sportivo, sì che appare indubbio il carattere legittimo dell’esercizio del potere. Con la sentenza in epigrafe, il giudice di primo grado ha accolto soltanto in (minima) parte il ricorso (v. pag. 17 sent.), considerando illegittimo il Daspo nella parte in cui la misura viene estesa oltre i casi “strettamente pertinenti all’accesso del ricorrente ai luoghi del territorio nazionale in cui si svolgono manifestazioni agonistiche di calcio della squadra del -OMISSIS- e a quelli inerenti ai ritiri della squadra stessa”. “Va invece mantenuta”, ha osservato il giudice di prima istanza, “in finem”, la inibizione “della presenza del ricorrente nei luoghi dove si svolgono manifestazioni agonistiche di calcio della squadra del -OMISSIS- e in quelli inerenti al ritiro della stessa”. 3.Con l’atto di impugnazione la parte appellante, dopo avere premesso che viene in considerazione un sacrificio irragionevole della libertà personale, non collegato a comportamenti dell’interessato caratterizzati da violenza quando, viceversa, per vedersi applicato il Daspo occorre essere autori di episodi di violenza idonei a turbare l’ordine pubblico, ha riproposto, adattandole all’impianto motivazionale della decisione impugnata, le tesi difensive svolte in primo grado. In particolare, sub I), nel dedurre erroneità della sentenza, difetto di istruttoria e di motivazione, violazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza, l’appellante ribadisce che il provvedimento impugnato in prime cure risulta carente di motivazione in ordine al presupposto della pericolosità sociale del soggetto colpito dalla misura, mancando una condotta connotata da violenza da parte di quest’ultimo. In particolare, sarebbe immotivato e arbitrario ritenere che la presenza del ricorrente nei luoghi ove si svolgono le manifestazioni sportive del -OMISSIS- possa rappresentare un pericolo concreto per l’ordine e la sicurezza pubblica in quei luoghi, così da turbare il regolare svolgimento delle gare. Nella specie, manca un quadro indiziario univoco ed evidente a sostegno del vaglio di pericolosità compiuto dall’autorità emanante. Il provvedimento contestato, e la sentenza, risultano emessi in violazione del principio di proporzionalità, inteso come riferibile al senso di equità e giustizia che deve sempre caratterizzare la soluzione del caso concreto. Appaiono scorrette e illegittime le valutazioni e conclusioni operate dal Questore in ordine alla comparazione e al bilanciamento degli interessi pubblici e privati coinvolti nella vicenda. Sub II), è dedotta la violazione degli articoli 7 e seguenti della l. n. 241/1990, e 97 Cost., e si denuncia il vizio di eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà estrinseca e difetto di istruttoria. Nella specie, non ricorrevano estremi di urgenza tali da giustificare la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, atteso che tra la data della manifestazione / corteo di protesta (20.6.2015), richiamato nelle premesse del Daspo, e la data della notificazione del decreto (5.8.2015), sono trascorsi quasi tre mesi, sì che l’azione amministrativa non avrebbe potuto prescindere dalla osservanza delle regole del procedimento poste a tutela degli interessi del destinatario e a garanzia della partecipazione del privato al procedimento amministrativo. Segue, sub III), un articolato motivo di impugnazione, imperniato sulla violazione dell’art. 6 della l. n. 401/1989, e su molteplici figure sintomatiche del vizio di eccesso di potere. Con esso, l’appellante reitera profili di incostituzionalità, denunciati in primo grado e disattesi dal TAR, riguardanti l’art. 6 della l. n. 401/1989, ove interpretato nel senso di consentire che il mero reato associativo non finalizzato alla violenza possa giustificare l’adozione del Daspo, in riferimento agli articoli 16 e 23 Cost. , e inoltre in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. , quest’ultimo in correlazione con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Conv. edu), e con l’art. 2 del protocollo aggiuntivo 4, quali parametri costituzionali interposti. In particolare: -si insiste sul fatto che, per giustificare l’adozione del Daspo, occorrono comportamenti connotati da violenza, e che nella fattispecie il provvedimento del Questore è illegittimo per carenza dei presupposti, di fatto e legali, previsti per legittimare il potere interdittivo esercitato; -si ribadisce che nel caso in esame il Daspo non risulta collegato a nessuna condotta violenta del ricorrente, e che non può essere condivisa la decisione di primo grado là dove ammette che il riferimento operato dall’art. 6 della l. n. 401/1989 ai delitti contro l’ordine pubblico possa anche non essere circoscritto alle sole ipotesi connotate da violenza. Al contrario, la funzione della norma di cui all’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, come modificata nel 2014, è di tutelare l’ordine pubblico durante le manifestazioni sportive con il chiaro fine di prevenire un fenomeno in crescita quale è la violenza negli stadi. L’unica interpretazione dell’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989 coerente coi princìpi di legalità, tassatività e proporzionalità, e conforme ai princìpi della Convenzione edu presuppone che, alla base della emanazione di un Daspo, vi sia una condotta violenta; -si insiste sulle seguenti questioni di legittimità costituzionale: a) se l’art. 6, primo comma della l. 401/1989, nella parte in cui prevede la possibilità di applicare la misura del Daspo nei confronti di soggetti accusati di avere posto in essere condotte integranti il reato di associazione a delinquere senza nessuna violenza, è conforme agli articoli 16 e 23 della Costituzione e ai principi statuiti dalla Corte costituzionale in materia di misure di prevenzione, anche in rapporto al doveroso equilibrio tra le esigenze del singolo e della collettività e gli obiettivi perseguiti dalla norma; b) se l’articolo 6, primo comma della l. 401/1989, nella parte in cui prevede la possibilità di applicare la misura del Daspo nei confronti di soggetti accusati di avere posto in essere condotte integranti il reato di associazione a delinquere senza nessuna violenza, è conforme all’art. 2, quarto protocollo aggiuntivo della Convenzione edu e ai principi affermati dalla Corte di Strasburgo in tema di misure di prevenzione limitative della libera circolazione, anche in rapporto al doveroso equilibrio tra le esigenze del singolo e della collettività e agli obiettivi perseguiti dalla norma nell’ottica del principio di proporzionalità; c) se l’art. 6, primo e quinto comma della l. 401/1989, nella parte in cui non prevedono meccanismi oggettivi di determinazione della pericolosità del soggetto ai fini dell’applicazione, anche quantitativa, della misura di prevenzione da parte dell’autorità amministrativa, lasciando a quest’ultima un’eccessiva discrezionalità, sono conformi ai principi di tassatività, legalità e proporzionalità individuati dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Strasburgo, e in particolare al principio secondo cui la misura deve trovare il suo presupposto in fattispecie di pericolosità previste e descritte dalla legge, destinate a costituire il parametro dell’accertamento giudiziale e del fondamento della singola prognosi di pericolosità; -infine, il Daspo è illegittimo anche nella parte in cui è stato disposto, immotivatamente, che la durata sia di cinque anni, vale a dire il massimo della estensione temporale previsto dalla legge. 4.L’Amministrazione dell’interno si è costituita per resistere. Con ordinanza n. -OMISSIS-questo CGA ha accolto l’istanza di misure cautelari di cui all’art. 98 del c.p.a. . In prossimità dell’udienza di discussione le parti hanno presentato memorie. Parte appellante ha, tra l’altro, richiamato la decisione della Corte edu 23.2.2017 nella causa De Tommaso contro Italia. All’udienza del 28.5.2020, la causa è stata trattenuta in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del d. l. n. 18/2020, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 27/2020, ed è stata deliberata in pari data dai magistrati del collegio riuniti in video conferenza. 5. L’appello è infondato e va respinto. La sentenza va confermata, sia pure con le precisazioni e integrazioni che saranno compiute in motivazione, e che sostituiscono le affermazioni del TAR incompatibili con le puntualizzazioni medesime. 5.1. Preliminarmente e in via generale occorre premettere che in base alla formulazione dell’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, nel testo vigente al momento dell’adozione del Daspo impugnato (2015), “Il questore può disporre il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle manifestazioni medesime, nei confronti di:… c) coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti per alcuno dei reati di cui all'articolo 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, all'articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, agli articoli 6-bis, commi 1 e 2, e 6-ter della presente legge, per il reato di cui all'articolo 2-bis del decreto-legge 8 febbraio 2007, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007, n. 41, o per alcuno dei delitti contro l'ordine pubblico o dei delitti di comune pericolo mediante violenza, di cui al libro secondo, titoli V e VI, capo I, del codice penale o per il delitto di cui all'articolo 588 dello stesso codice, ovvero per alcuno dei delitti di cui all'articolo 380, comma 2, lettere f) e h), del codice di procedura penale, anche se il fatto non è stato commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive”. Tra i delitti menzionati dalla norma primaria vi è anche, come l’autorità emanante non ha mancato di rammentare nelle premesse del Daspo impugnato, quello di cui all’art. 416 cod. pen. , vale a dire l’associazione per delinquere. Sempre in via preliminare, va ribadita la distinzione, correttamente posta in rilievo dal TAR nella sentenza, tra il Daspo c. d. semplice, o amministrativo, disciplinato all’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, misura precauzionale che incide sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), ma non implica restrizioni della libertà personale; e il Daspo con prescrizioni aggiuntive o accessorie, frutto di una autonoma valutazione del Questore, rispetto al divieto di accedere alle competizioni sportive, di cui all’art. 6, comma 2, della l. n. 401/1999, misura “giurisdizionalizzata” che non soltanto prevede il divieto di accesso agli stadi ma che soprattutto implica l’obbligo di comparizione personale presso un ufficio o comando di polizia, incidendo così in via diretta sulla libertà personale (art. 13 Cost.) sia pure in misura assai meno afflittiva rispetto, ad esempio, a un’ordinanza di custodia cautelare, dato che comporta una restrizione della libertà di movimento durante una fascia oraria determinata, e in relazione al quale ultimo decreto ex art. 6 comma 2 vi è obbligo di convalida da parte del Gip con ordinanza ricorribile in Cassazione (conf. Corte cost., nn. 143 e 193 del 1996, p. 3. del Diritto, là dove si evidenzia che la norma primaria di cui all’art. 6 cit. dispone nel senso dell'adottabilità di due tipi di provvedimenti, vale a dire il divieto di accesso ai luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, e la prescrizione di comparire presso l'ufficio o il comando di polizia nel tempo di svolgimento della competizione sportiva, aventi portata ed effetti differenti, con riconduzione della misura di cui all’art. 6 comma 2 nell’alveo dell’art. 13 Cost. e conseguente riserva di giurisdizione; e le sentenze nn. 144 del 1997 e 512 del 2002- pp. 3 del Fatto e 3 del Diritto , sulla diversa incidenza delle misure di cui al comma 1 e al comma 2 sui valori costituzionalmente tutelati, con una conseguente, ragionevole differenziazione anche nella disciplina dei rimedi esperibili e delle garanzie in punto di tutela giurisdizionale; v. poi, sul tema, “ex multis”, Cass. pen. nn. 44273/04, 20780/10, 26641/13 e 24819/16). In questa specifica materia si è cioè venuto a creare un sistema articolato “a doppio binario” di misure amministrativo – precauzionali di polizia, da un lato, ex art. 6, comma 1, e di misure preventive, come detto, giurisdizionalizzate, comportanti l’imposizione della presenza negli uffici di polizia, incidenti sulla libertà personale del destinatario e circondate da particolari garanzie, che si completano nel ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di convalida del Gip, come disposto dall’art. 6, comma 4. Appare opportuno soggiungere che il Daspo è una misura amministrativa di tipo preventivo adottabile nei confronti di persone che, secondo quanto precisato al comma 1, risultino denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, nei cinque anni precedenti, per i reati elencati nel medesimo comma 1. In quanto tale, l’adozione di tale misura prescinde da un necessario avvenuto accertamento di responsabilità in sede giudiziale (e, come si dirà anche più avanti, al p. 5.2., che si tratti di misure preventive e non sanzionatorie è stato sancito di recente dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, in via generale, con riferimento ad analoghe misure previste dalla legislazione croata - v. Corte edu, sez. I, 8.11.2018, ric. n. 19120/15, Seražin c. Croazia, menzionandosi tra le altre legislazioni in materia anche quella italiana e pervenendosi a escludere la natura sanzionatoria della misura amministrativa, sulla base dei cc.dd. criterî Engel, sia per l'applicabilità della misura indipendentemente da una condanna penale, sia per la finalità prevalente della misura, consistente nella creazione di un ambiente che prevenga comportamenti violenti o pericolosi a protezione dell'ordine pubblico e degli altri spettatori e sia infine per la mancanza di carattere afflittivo, non venendo in questione una privazione della libertà o una imposizione di obbligazione pecuniaria). Tornando alla normativa nazionale, sebbene l’art. 6 comma 1 si riferisca prevalentemente a fattispecie relative a soggetti i quali abbiano posto in essere, anche al di fuori dello stretto àmbito delle manifestazioni sportive, condotte violente; nondimeno, il campo di applicazione della disposizione non si esaurisce all’interno di tale categoria di condotte, di per sé considerate, e comunque, in concreto, ben può allargarsi a, e riguardare, anche, situazioni, come quella che interessa il ricorrente, gravemente indiziato per frode in competizioni sportive e per associazione per delinquere, nelle quali, ove anche si ritenga che non vengano in considerazione, per dir così in via diretta e immediata, condotte violente, pure, le circostanze del caso concreto, per come adeguatamente ponderate dall’autorità amministrativa secondo un vaglio di tipo preventivo - prognostico, sono tali da porsi come elementi di innesco capaci di porre a repentaglio l’ordine pubblico e l’interesse generale di garantire l’ordinato e pacifico svolgimento delle gare sportive. A differenza di quanto opina l’appellante, il quale ritiene che per applicare un Daspo non si possa prescindere da condotte violente; che, cioè, l’irrogazione del Daspo presupponga immancabilmente comportamenti del destinatario caratterizzati da violenza; e a prescindere da una, irrilevante ai fini del decidere, verifica stringente sul se nella specie il comportamento del ricorrente sia riconducibile a violenza; resta che il richiamo, operato all’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, anche a fattispecie delittuose non necessariamente contrassegnate da condotte violente in senso stretto è tale da non precludere la possibilità di adottare un divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive anche se il destinatario della misura preventiva non abbia posto in essere direttamente un comportamento violento, sempre che il soggetto colpito dal Daspo risulti denunciato o condannato per i reati indicati all’art. 6, comma 1, cit., e la sua condotta e presenza, fondamentalmente connesse a manifestazioni sportive, secondo la valutazione della Questura, siano tali da arrecare pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica in particolare negli stadi. Vale aggiungere al riguardo come correttamente nella sentenza impugnata si sia fatto riferimento, sia pure solo “per incidens”, alla applicabilità del Daspo anche a una ipotesi delittuosa (ulteriore e differente) rispetto ad altre, per lo più caratterizzate dall’uso della violenza, quale è quella di cui all’art. 380, comma 2, lett. h), del c.p.p., sui delitti concernenti stupefacenti, che, pur nella sua gravità, non presuppone uso di violenza (e in ordine all’utilizzo di luoghi ove si svolgono manifestazioni sportive per il traffico di stupefacenti, appare evidente il rischio di una turbativa per l’ordine pubblico derivante anche comportamenti come questi, di per sé non connotati da violenza). La finalità primaria del Daspo è infatti come detto quella di prevenire pericoli per l’ordinato e pacifico svolgimento delle manifestazioni sportive. Alla luce di queste coordinate interpretative, e guardando adesso più da vicino il caso in esame, proprio avendo riguardo alla finalità di assicurare l’ordinato e pacifico svolgimento delle manifestazioni sportive, non appare arbitrario o ingiustificato, e nemmeno incongruo o sproporzionato rispetto agli scopi del Daspo, risultando al contrario basato su una corretta lettura e interpretazione dell’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, alla luce dei fini perseguiti attraverso tale misura, l’avere stimato che, nel contesto peculiare e nelle specifiche circostanze descritte nel decreto impugnato, come desumibili dagli atti e riassunte sopra al p. 2., contrassegnate tra l’altro “dall’imponente e preoccupante coinvolgimento di persone” di cui alla manifestazione / corteo di protesta del 20.6.2015, e dall’approssimarsi dell’incontro di Coppa Italia previsto per il 9.8.2015 oltre che dell’udienza dinanzi al Tribunale federale della FIGC, la presenza del ricorrente - il quale aveva reso all’A. g. ampie ammissioni sulla “combine” che aveva coinvolto il -OMISSIS- nella stagione 2014/2015, ed era stato colpito da misura cautelare personale - alle manifestazioni calcistiche della squadra della città, potesse costituire motivo di turbativa per il regolare svolgimento delle gare stesse, con pericolo concreto per l’ordine e la sicurezza pubblica di quei luoghi, in vista della tutela della incolumità dei partecipanti alle manifestazioni sportive. In una situazione - come il giudice di primo grado non ha mancato di rilevare, richiamando Corte cost., n. 264/1996, sia pure pronunciata su tematica diversa da quella odierna - nella quale l’art. 16 Cost., sul rapporto tra diritto alla libertà di movimento e limiti all’esercizio della stessa, “va riguardato anche alla luce del criterio generale della ragionevolezza, ossia sotto il profilo del giusto rapporto dell’atto allo scopo”, appaiono evidenti, e rilevanti, sia il disvalore dei comportamenti assunti, inseriti entro un quadro di gravi indizi di colpevolezza, riferibili al presidente della società, elementi di fatto “di partenza” dai quali il Questore prende le mosse nelle premesse del Daspo, e sia la connessione, anche cronologica, con le manifestazioni sportive del -OMISSIS-, circostanze tutte che hanno concorso a giustificare l’adozione di una “misura preventiva atipica” come quella presa nel contesto indicato. La normativa primaria avalla in questa materia una difesa “avanzata” degli interessi dell’ordinamento anche attraverso misure come il Daspo, caratterizzate, come risulta ormai chiaro, da una sufficiente determinatezza della norma primaria nel disciplinare l’emanazione di provvedimenti rivolti a prevenire e a contrastare la violenza negli stadi. Il provvedimento contestato in primo grado risulta dunque tutt’altro che carente dei presupposti di fatto e legali richiesti per consentire l’adozione della misura in parola, e conforme ad appropriatezza e proporzionalità. Il legame tra condotte attribuite al ricorrente, attitudine concreta delle stesse ad arrecare pericolo per l’ordine pubblico e “àmbito” delle manifestazioni calcistiche, è immediato e diretto, come è stato puntualmente indicato nella motivazione del provvedimento del Questore. Il pericolo di turbativa dell’ordine pubblico va ricondotto direttamente ai reati addebitati al ricorrente medesimo (la misura cautelare personale degli arresti domiciliari presuppone gravi indizi di colpevolezza), e va riferito in via diretta all’ambiente, e all’àmbito, delle manifestazioni sportive. La fattispecie è insomma tra quelle che giustificano l’adozione di un Daspo. Considerate le circostanze, in ultima analisi, proporzionalità e appropriatezza sussistono. 5.2. Anche sulla base delle considerazioni svolte e dei richiami, operati sopra al p. 5.1., alla giurisprudenza costituzionale, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’appellante e riassunte al p. 3, “in finem”, sono da ritenersi manifestamente infondate. In primo luogo è da considerarsi tutt’altro che irragionevole, avuto riguardo alla finalità primaria del Daspo, ossia prevenire pericoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, in particolare nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, ove vi sia un legame tra condotta attribuita al destinatario della misura precauzionale amministrativa e àmbito delle manifestazioni medesime (e nella specie, giova ribadirlo, la condotta rilevante, e addebitata, presentava un legame evidente e immediato con gli eventi calcistici della città, in termini tali da poter arrecare turbativa all’ordine e alla sicurezza pubblica), una disciplina, quale quella di cui all’art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, che, pur incentrata principalmente su fattispecie riguardanti soggetti ai quali siano state addebitate condotte violente o la partecipazione attiva a episodi di violenza, preveda la possibilità di applicare la misura amministrativa del Daspo pure nei confronti di soggetti accusati di associazione per delinquere (connessa alla frode in competizioni sportive) benché in assenza di addebiti specifici di comportamenti violenti. Risulta costituzionalmente coerente e razionale, anche nella peculiare fattispecie normativa “sezionata” con l’atto di appello, la limitazione al diritto di circolazione stabilita dal menzionato art. 6, comma 1, in relazione al profilo del giusto rapporto tra atto emesso e scopo perseguito. Quantunque l’art. 6 faccia riferimento, in via principale, a fattispecie che riguardano soggetti ai quali siano state ascritte condotte violente o la partecipazione a episodi di violenza nel contesto indicato, non solo la normativa primaria, per applicare la misura precauzionale del Daspo non richiede sempre e necessariamente una tale condotta o partecipazione, ma, laddove è ammessa l’irrogabilità del Daspo anche indipendentemente da condotte violente e purché in presenza delle condizioni sopra viste, la disciplina chiaramente non contrasta con i principi di ragionevolezze e proporzionalità e col principio costituzionale di libertà di circolazione di cui all’art. 16 Cost. . La disciplina di cui al citato art. 6, comma 1, della l. n. 401/1989, anche nella parte “di interesse”, trova un’adeguata copertura costituzionale. Ancora, l’art. 6 della l. n. 401/1989 descrive con un grado adeguato di determinatezza i presupposti in presenza dei quali consentire l’applicazione del Daspo, senza che risulti violato il principio di legalità o il criterio di tassatività dei casi in cui il Daspo può trovare applicazione. L’esercizio del potere amministrativo in materia, presuppone una descrizione sufficientemente adeguata dei comportamenti e delle ipotesi rilevanti, descrizione che l’art. 6 della l. n. 401/1989 ha compiuto puntualmente. E’ inoltre inappropriato il richiamo operato dall’appellante ai “principi statuiti dalla Corte costituzionale in materia di misure di prevenzione”. Parrebbe venire in rilievo, quale parametro di riferimento, o di comparazione, Corte cost., n. 24/2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la “previsione di pericolosità generica” di cui all’art. 1 della l. n. 1423/1956, poi “confluita” nel d. lgs. n. 159/2011, riferita in primo luogo alla misura di prevenzione personale, “giurisdizionalizzata”, della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con o senza obbligo o divieto di soggiorno. Al riguardo, tornando all’art. 6 della l. n. 401/1989 e ai dubbi sollevati nel giudizio di appello, non solo appare evidente la disomogeneità, o quantomeno la insufficiente omogeneità, tra misure di prevenzione personali legate alla pericolosità sociale come ad esempio la sorveglianza speciale, incidenti in modo restrittivo sulla libertà personale e ricadenti entro l’alveo dell’art. 13 Cost., e misure amministrative “precauzionali” quale è il Daspo di cui all’art. 6, comma 1, che incide soltanto sulla libertà di circolazione (sul punto v. “amplius”, sopra, p. 3., al quale si rinvia); ma occorre considerare inoltre che la fattispecie normativa di cui al menzionato art. 6, comma 1, volta a prevenire violenze in occasione di manifestazioni sportive, risulta contraddistinta da un grado di determinatezza della descrizione legislativa dei presupposti dal cui accertamento è dato dedurre, secondo la logica del “più probabile che non”, un’attitudine concreta della condotta posta in essere a recare pericolo all’ordine pubblico. Nella specie vi è insomma una base legale idonea a sostegno della misura amministrativa della cui adozione si tratta. Improprio, inoltre, risulta il richiamo operato alla sentenza della Corte edu De Tommaso 23.2.2017, poiché relativa a una fattispecie di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, entro un contesto caratterizzato da un insufficiente grado di descrizione legislativa dei presupposti, diversamente da ciò che accade nella controversia odierna. Il carattere preventivo, e non sanzionatorio, della misura del Daspo, trova conferma nella sent. Corte edu, sez. I, 8.11.2028, Serazin / Croazia, che merita di essere nuovamente richiamata (v. sopra, p. 5.1.). Quanto al dubbio di non conformità dell’art. 6 l. n. 401/1989 rispetto all’art. 2 - IV protocollo addizionale alla Convenzione edu, va rimarcato che tale art. 2, nel prevedere il diritto di circolare liberamente sul territorio dello Stato, ammette che l’esercizio di detto diritto possa formare oggetto di restrizioni previste dalla legge mediante, tra l’altro, misure necessarie per salvaguardare la pubblica sicurezza, mantenere l’ordine pubblico e prevenire infrazioni penali (v. art. 2, p. 3.), il che è esattamente quanto è accaduto nel caso in esame. Detto altrimenti, non si ravvisa alcuna difformità tra l’art. 6, “in parte qua”, e l’art. 2 del IV protocollo addizionale, che ammette misure limitative alla libertà di circolazione, in presenza dei presupposti a)della previsione per legge; b)della necessità di assicurare la tutela degli interessi indicati nello stesso art. 2, al 3 (tra cui pubblica sicurezza, ordine pubblico e prevenzione dei reati), e c)della proporzionalità tra osservanza del diritto garantito dalla norma ed esigenze della collettività. Chiaramente non condivisibile è, infine, il dubbio di conformità sollevato con riferimento all’art. 23 Cost., disposizione estranea alla tematica in argomento, in quanto si riferisce a prestazioni personali imposte in base alla legge. In ogni caso, giova ripetere che nella materia “de qua” vi è una base legale idonea a sostegno della misura amministrativa della cui adozione si tratta. 5.3. Per quanto riguarda la reiterata censura di violazione procedimentale di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990, in primo luogo, per le ragioni esposte sopra, può trovare applicazione l’art. 21 – octies, comma 2, della l. n. 241/1990, norma che deve essere interpretata nel senso di evitare che l'Amministrazione sia onerata in giudizio di una prova estremamente rigorosa, vale a dire della dimostrazione che il provvedimento non avrebbe potuto avere contenuto diverso in relazione a tutti i possibili contenuti ipotizzabili, per cui occorre comunque porre previamente a carico del privato l'onere di indicare, quanto meno in termini di allegazione processuale, quali elementi conoscitivi sarebbe stato in grado di introdurre nel procedimento, se previamente comunicatogli, allo scopo di indirizzare l'Amministrazione verso una decisione diversa da quella assunta in concreto. Nella specie, è da ritenere che l’eventuale avviso di avvio del procedimento sarebbe risultato privo di utilità pratica, alla luce di quanto osservato finora. Il contenuto del provvedimento finale, con o senza l’avviso di avvio del procedimento, non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Inoltre, e in ogni caso, occorre considerare che a quanto consta soltanto il 21.7.2015 l’Amministrazione risulta essere venuta a conoscenza dell’impegno ufficiale del -OMISSIS- per il 9.8.2015, sicché in questa situazione di ristrettezza di tempi l’autorità amministrativa, nell’emettere il Daspo in data 4.8.2015, ha valutato in modo non irragionevole la sussistenza di una urgenza qualificata tale da giustificare l’omissione dell’avviso dell’avvio del procedimento. 5.4.Sulla durata massima della misura (cinque anni), è sufficiente osservare come, sulla base di quanto esposto, la gravità della condotta addebitata fosse “in re ipsa”, sicché in questa condizione peculiare l’indicazione della durata massima consentita non esigeva motivazioni particolari. 5.5. In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza impugnata confermata. Nondimeno, l’assoluta peculiarità della fattispecie giustifica in via eccezionale la compensazione tra le parti per la metà delle spese e dei compensi del grado del giudizio. Per la restante metà, spese e compensi seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata. Spese del grado del giudizio compensate per la metà. Per la restante metà, l’appellante viene condannato a rimborsare all’Amministrazione dell’interno la somma di € 2.000,00 (euro duemila/00), per spese e compensi del grado del giudizio. Si dispone che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità e di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellante e a individuarla come (ex) presidente del -OMISSIS-, oscurando comunque anche le parole “-OMISSIS-” o “-OMISSIS-”. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del 28.5.2020, svoltasi da remoto in video conferenza, con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Marco Buricelli, Consigliere, Estensore Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere Rosanna De Nictolis, Presidente Nicola Gaviano, Consigliere Marco Buricelli, Consigliere, Estensore Giuseppe Verde, Consigliere Maria Immordino, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sport – Daspo – Accertamento di responsabilità in sede giudiziale – Non occorre.             Il  Daspo è una misura amministrativa di tipo preventivo adottabile nei confronti di persone che risultano denunciate o condannate, anche con sentenza non definitiva, nei cinque anni precedenti, per alcuni reati espressamente elencati nel comma 1 dell’art. 6, l. n. 401 del 1989; in quanto tale, l’adozione di tale misura prescinde da un necessario avvenuto accertamento di responsabilità in sede giudiziale (1).   (l) Il Daspo c. d. semplice, o amministrativo, disciplinato all’art. 6, comma 1, l. n. 401 del 1989, misura precauzionale che incide sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), ma non implica restrizioni della libertà personale; e il Daspo con prescrizioni aggiuntive o accessorie, frutto di una autonoma valutazione del Questore, rispetto al divieto di accedere alle competizioni sportive, di cui all’art. 6, comma 2, l. n. 401 del 1989, misura “giurisdizionalizzata” che non soltanto prevede il divieto di accesso agli stadi ma che soprattutto implica l’obbligo di comparizione personale presso un ufficio o comando di polizia, incidendo così in via diretta sulla libertà personale (art. 13 Cost.) sia pure in misura assai meno afflittiva rispetto, ad esempio, a un’ordinanza di custodia cautelare, dato che comporta una restrizione della libertà di movimento durante una fascia oraria determinata, e in relazione al quale ultimo decreto ex art. 6 comma 2 vi è obbligo di convalida da parte del Gip con ordinanza ricorribile in Cassazione (conf. Corte cost., nn. 143 e 193 del 1996, p. 3. del Diritto, là dove si evidenzia che la norma primaria di cui all’art. 6 cit. dispone nel senso dell'adottabilità di due tipi di provvedimenti, vale a dire il divieto di accesso ai luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive, e la prescrizione di comparire presso l'ufficio o il comando di polizia nel tempo di svolgimento della competizione sportiva, aventi portata ed effetti differenti, con riconduzione della misura di cui all’art. 6 comma 2 nell’alveo dell’art. 13 Cost. e conseguente riserva di giurisdizione; e le sentenze nn. 144 del 1997 e 512 del 2002- pp. 3 del Fatto e 3 del Diritto , sulla diversa incidenza delle misure di cui al comma 1 e al comma 2 sui valori costituzionalmente tutelati, con una conseguente, ragionevole differenziazione anche nella disciplina dei rimedi esperibili e delle garanzie in punto di tutela giurisdizionale; v. poi, sul tema, “ex multis”, Cass. pen. nn. 44273/04, 20780/10, 26641/13 e 24819/16). In questa specifica materia si è cioè venuto a creare un sistema articolato “a doppio binario” di misure amministrativo – precauzionali di polizia, da un lato, ex art. 6, comma 1, e di misure preventive, come detto, giurisdizionalizzate, comportanti l’imposizione della presenza negli uffici di polizia, incidenti sulla libertà personale del destinatario e circondate da particolari garanzie, che si completano nel ricorso per cassazione avverso l'ordinanza di convalida del Gip, come disposto dall’art. 6, comma 4.
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Principio di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale e i candidati alle elezioni comunali
N. 05292/2020REG.PROV.COLL. N. 06790/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6790 del 2020, proposto dall’avv. Vittorio Sica, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Pitaro e Gaetano Liperoti e con domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia contro Ministero dell’Interno ed Ufficio Territoriale del Governo (Prefettura) di Catanzaro, in persona del legale rappresentante pro tempore, ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli Uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12 I^ Sottocommissione Elettorale Circondariale di Catanzaro, non costituita in giudizio nei confronti sig. Cosimo Arena, non costituito in giudiziosig. Francesco Mangiardi, non costituito in giudizio per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria – Catanzaro, Sezione Seconda, n. 1437/2020 del 27 agosto 2020, resa tra le parti, con cui è stato respinto il ricorso R.G. n. 978/2020, recante domanda di annullamento del verbale n. 207 del 22 agosto 2020 della I^ Sottocommissione elettorale circondariale di Catanzaro, che ha deliberato la ricusazione della lista di candidati per le elezioni del Consiglio comunale di Soverato (CZ) denominata “Patto per lo Jonio” e della collegata candidatura a Sindaco dell’avv. Vittorio Sica. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e della Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo di Catanzaro; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza speciale elettorale del giorno 28 agosto 2020 il Cons. Pietro De Berardinis e uditi per le parti l’avv. Gaetano Liperoti per sé e su delega dichiarata dell’avv. Giuseppe Pitaro e il procuratore dello Stato dott. Federico Giuseppe Russo Considerato: che con l’appello in epigrafe l’avvocato Vittorio Sica, in qualità di candidato Sindaco alle elezioni comunali di Soverato (CZ) del 20/21 settembre 2020 collegato alla lista elettorale “Patto per lo Jonio con Vittorio Sica”, ha impugnato la sentenza del T.A.R. per la Calabria – Catanzaro, Sezione Seconda, n. 1437/2020 del 27 agosto 2020, chiedendone la riforma; che la sentenza di primo grado ha respinto il ricorso presentato dall’appellante avverso il verbale n. 207 del 22 agosto 2020 della I^ Sottocommissione elettorale circondariale di Catanzaro, con cui è stata deliberata la ricusazione della suindicata lista di candidati per le elezioni del Consiglio comunale di Soverato “Patto per lo Jonio” e della collegata candidatura a Sindaco dello stesso avv. Sica; che il provvedimento di ricusazione della lista è motivato con la circostanza che n. 7 dei sottoscrittori della lista (su un totale di n. 26 sottoscrittori) risultano altresì candidati nella medesima lista, cosicché la loro sottoscrizione si deve ritenere invalida, con il corollario che la lista in discorso non raggiunge il limite minimo di sottoscrizioni fissato dalla legge (ridotto a venti per le sole elezioni del 2020 per effetto dell’art. 1-bis, comma 4, del d.l. n. 26/2020, conv. con l. n. 59/2020), essendo le sottoscrizioni valide pari a diciannove; Considerato che l’appellante deduce i seguenti motivi: 1) insussistenza di un divieto per i candidati di sottoscrivere la lista, violazione e falsa applicazione dell’art. 28 del d.P.R. n. 570/1960, nonché eccesso di potere, violazione del principio di tassatività delle limitazioni al diritto di elettorato passivo e violazione del principio del favor participationis in materia elettorale, in quanto il T.A.R. avrebbe erroneamente ritenuto esistente la regola dell’alterità tra sottoscrittori della lista elettorale e candidati della medesima; 2) violazione del diritto di n. 3 elettori di apporre la propria sottoscrizione alla lista, violazione e falsa applicazione dell’art. 28 del d.P.R. n. 570/1960, eccesso di potere, violazione del principio di non contestazione ex art. 64 c.p.a., poiché la sentenza appellata avrebbe errato nel giudicare irrilevanti le dichiarazioni sostitutive di n. 3 elettori secondo cui il Segretario comunale avrebbe impedito al sig. Antonio Rattà, presentatore della lista elettorale, di riprenderla in un momento anteriore al termine di scadenza per consentire ai predetti n. 3 elettori di sottoscriverla; 3) omessa segnalazione di irregolarità da parte del Segretario comunale, eccesso di potere per carenza di istruttoria, violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 570/1960, nonché violazione del principio di affidamento, per non avere il Segretario comunale effettuato, nel caso di specie, una verifica della rispondenza a legge della documentazione presentata all’atto della presentazione della lista di cui si discute; Preso atto: che si sono costituiti nel giudizio di appello, con atto formale, il Ministero dell’Interno e la Prefettura (Ufficio Territoriale di Governo) di Catanzaro, formulando, nel corso della discussione orale della causa, l’eccezione di rito di irregolarità della notifica dell’atto di appello, perché eseguita nei confronti della sola Prefettura e non anche del Ministero; che l’appello risulta notificato via “P.E.C.” ai controinteressati costituiti nel giudizio di primo grado; che all’udienza speciale elettorale del 28 agosto 2020, dopo breve discussione in rito e nel merito tra le parti costituite, la causa è stata trattenuta in decisione; Ritenuto di dover preliminarmente respingere l’eccezione di irregolarità della notifica dell’appello sollevata dall’Avvocatura Generale dello Stato, dal momento che questa si è costituita in giudizio anche per il Ministero dell’Interno, oltre che per la Prefettura di Catanzaro, così sanando – alla luce della regola di cui all’art. 44, comma 2, c.p.a. – eventuali irregolarità della predetta notifica (cfr., da ultimo, C.d.S., Sez. VI, 21 maggio 2020, n. 3220); Ritenuto che nel merito l’appello sia fondato e da accogliere, stante la fondatezza del primo motivo con esso dedotto, avente efficacia pregiudiziale ed assorbente rispetto agli altri; Considerato in particolare: - che la sentenza appellata, condividendo l’orientamento espresso dalla I^ Sottocommissione elettorale circondariale di Catanzaro con il verbale di ricusazione della lista elettorale, ha giudicato sussistente nell’ordinamento giuridico un principio generale di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista ed i candidati della stessa, con conseguente divieto per i candidati di farsi essi stessi sottoscrittori della lista: orientamento affermato in applicazione di un precedente di questo Consiglio di Stato (Sez. V, 6 ottobre 2014, n. 4993), reso, per vero, su fattispecie parzialmente diversa (quella delle elezioni degli organi delle Province, dopo la trasformazione di queste in Enti territoriali di secondo grado operata dalla l. n. 56/2014); - che, cionondimeno, di un principio di tal fatta non si rinviene alcuna esplicita statuizione nelle norme dell’ordinamento giuridico statale e, in particolare, per quanto qui rileva, nelle norme che regolano la presentazione delle liste e delle candidature nei Comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti (fascia in cui è ricompreso il Comune di Soverato); - che, infatti, sia l’art. 28 del d.P.R. n. 570/1960 (in parte abrogato), sia l’art. 3 della l. n. 81/1993 (che lo ha sostituito) prevedono, quale qualità soggettiva che deve essere posseduta dal sottoscrittore della lista elettorale, quella di “elettore”, senza ulteriori specificazioni; - che, più in particolare, l’art. 3, comma 1, lett. f), della l. n. 81/1993 prevede che per i Comuni aventi una popolazione compresa tra 5.001 a 10.000 abitanti, la dichiarazione di presentazione della lista di candidati al Consiglio comunale e della collegata candidatura alla carica di Sindaco debba essere sottoscritta da non meno di 60 e da non più di 120 “elettori”, si ribadisce, senza ulteriori specificazioni; - che, pertanto, sulla scorta di un canone interpretativo di tipo testuale -certo rilevante in una materia come quella elettorale, in cui le limitazioni dell’elettorato passivo devono intendersi giocoforza in senso tassativo– le disposizioni (si ribadisce: statali) che regolano la materia in esame non enunciano il principio di alterità, nei termini in cui lo ha inteso ed enunciato, invece, la sentenza appellata; - che, infatti, sul piano letterale, “elettore” del Comune, legittimato a sottoscrivere la lista, è (anche) colui che, oltre a rivestire la qualità di elettore (ai fini dell’esercizio del diritto di elettorato attivo), sia nel contempo intenzionato a concorrere alle elezioni quale candidato (ai fini stavolta dell’esercizio del diritto di elettorato passivo); - che, in conclusione, l’interpretazione letterale della normativa nazionale contrasta con l’enucleazione del riferito principio di necessaria alterità soggettiva; che, a fortiori, ad avviso del Collegio, un principio di tal fatta non può evincersi dalla normativa regionale emanata in materia, ex se inidonea ad affermare principi generali con validità per l’intero ordinamento nazionale; - che il richiamato principio di alterità non pare del resto ricavabile applicando ulteriori criteri interpretativi, in specie quello logico e/o quello teleologico; - che, invero, quanto al criterio teleologico, attento alla ratio della disciplina da interpretare, non si condivide l’impostazione seguita dal giudice di primo grado laddove, nel ricavare in via interpretativa il principio di necessaria diversità soggettiva tra sottoscrittori della lista e candidati della medesima, valorizza l’esigenza (certo sottesa alla disciplina che regola il segmento preparatorio del procedimento elettorale) di assicurare un’adeguata rappresentatività delle liste di candidati e sostiene che la stessa finirebbe per essere neutralizzata se a sottoscrivere le liste fossero ammessi, sempre se elettori, gli stessi candidati inclusi nelle liste stesse; - che, in primo luogo, infatti, non pare ininfluente rilevare che ben possono essere inseriti nelle liste candidati non elettori, ai quali dunque senza alcun dubbio sarebbe precluso apporre la sottoscrizione (è quanto peraltro si è riscontrato nella competizione elettorale per cui è causa nella quale è coinvolta una terza lista (“Insieme per Soverato”) che, secondo l’appellante, comprende taluni candidati residenti in altri Comuni, peraltro sostenendo un candidato Sindaco a sua volta residente in Comune vicino); che viceversa i candidati, qualora siano anche elettori del Comune nel quale si svolge la competizione elettorale, ben possono concorrere, con la sottoscrizione della dichiarazione di presentazione della lista, a costituire quella base minima di rappresentatività che la disciplina di settore sostanzialmente pretende nel prescrivere un numero minimo di sottoscrizioni ad opera di “elettori”; - che, pertanto, non solo alla stregua del criterio interpretativo di tipo letterale, ma anche alla stregua di quello teleologico, è necessario distinguere l’ipotesi del candidato/non elettore da quella del candidato che sia anche elettore; che, invero, solo nel primo caso, deve essere preclusa la sottoscrizione della dichiarazione di presentazione della lista, non essendo il candidato espressione del corpo elettorale (gli elettori di quel dato Comune) interessato dalle elezioni; che, infatti, la sottoscrizione, da parte sua, della lista non consentirebbe certo di soddisfare l’esigenza cui è preordinato il procedimento di sottoscrizione, quella appunto di verificare che la lista sia espressione di una parte (più o meno ampia) del corpo elettorale; - che ad opposta conclusione deve, invece, pervenirsi ove il candidato alle elezioni comunali sia altresì elettore nel medesimo Comune, perché qui egli, in quanto elettore, è certamente rappresentativo (pro capite) del corpo elettorale, di tal ché, anche sul piano teleologico e delle finalità quindi cui è preordinato il procedimento di sottoscrizione, non si ravvisano ragioni per escluderlo dai soggetti legittimati alla sottoscrizione della lista; - che, nel caso di specie, come emerge dal verbale di ricusazione, solo n. 2 dei n. 7 candidati sottoscrittori della lista non sono elettori del Comune nel quale si svolge la competizione elettorale; che, quindi, solo per questi 2 candidati sarebbe stata corretta l’esclusione dall’elenco dei sottoscrittori, con la conseguenza che il numero dei sottoscrittori si sarebbe comunque mantenuto nei limiti di legge (26 – 2 = 24, superiore quindi ai prescritti 20); - che, da ultimo, l’impostazione seguita dal giudice di primo grado, volta a precludere comunque la sottoscrizione al candidato, anche quando “elettore”, reca con sé il rischio di effetti paralizzanti o comunque di forte limitazione in casi di Comuni di piccole dimensioni con un corpo elettorale molto ristretto, ove potrebbe manifestarsi conseguenti difficoltà (soprattutto per i nuovi attori politici) nel provvedere alla raccolta delle firme; - che, al riguardo, se certo l’ordinamento appronta per l’ipotesi prospettata un meccanismo rimediale escludendo la necessità della sottoscrizione delle liste per i Comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti (art. 3, comma 2, della l. n. 81/1993), non può tuttavia escludersi che il problema emerga in Comuni aventi una popolazione di poco superiore a 1.000 abitanti (numerosi in Italia), lì dove l’obbligo della raccolta delle firme, invece, permane; che, d’altra parte, le argomentazioni sopra espresse non sono neutralizzate dalla circostanza della fissazione di un limite di sottoscrizioni ridotto ad un terzo per la tornata elettorale del 20/21 settembre 2020, trattandosi di una misura eccezionale approntata in funzione del contrasto all’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del COVID-19, come tale non valutabile nel ricostruire le coordinate del regime ordinario di raccolta delle sottoscrizioni; Ritenuto, in conclusione, per tutto quanto si è detto, che l’appello sia fondato e da accogliere, in virtù della fondatezza del primo motivo con esso dedotto e con assorbimento degli altri motivi; Ritenuto, per conseguenza, in riforma della sentenza appellata, di dover accogliere il ricorso di primo grado e per l’effetto di dover annullare il verbale di ricusazione con esso impugnato, contestualmente disponendo la riammissione della lista alla competizione elettorale; Ritenuta, da ultimo, la sussistenza di giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese tra le parti, attese la novità e la complessità delle questioni esaminate P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza (III^), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado, annullando il verbale con lo stesso impugnato e disponendo la riammissione alla competizione elettorale della lista ricusata. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 agosto 2020 con l’intervento dei magistrati: Roberto Garofoli, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore Roberto Garofoli, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere Solveig Cogliani, Consigliere Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Elezioni – Lista - Alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa – Necessità – Esclusione.              Per le elezioni comunali non può dirsi immanente nell’ordinamento il principio di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa, prevedendo sia l’art. 28 del d.P.R. n. 570 del 1960 (in parte abrogato), sia l’art. 3, l. n. 81 del 1993 (che lo ha sostituito), quale qualità soggettiva che deve essere posseduta dal sottoscrittore quella di “elettore”, senza ulteriori specificazioni (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che la sentenza appellata ha giudicato sussistente nell’ordinamento giuridico un principio generale di necessaria alterità tra i sottoscrittori della lista ed i candidati della stessa, con conseguente divieto per i candidati di farsi essi stessi sottoscrittori della lista: orientamento affermato in applicazione di un precedente di questo Consiglio di Stato (Sez. V, 6 ottobre 2014, n. 4993).  Sulla scorta di un canone interpretativo di tipo testuale -certo rilevante in una materia come quella elettorale, in cui le limitazioni dell’elettorato passivo devono intendersi giocoforza in senso tassativo – le disposizioni statali che regolano le elezioni dei Consigli comunali non enunciano il principio di alterità tra i sottoscrittori della lista elettorale ed i candidati della stessa. Anche alla stregua del criterio teleologico, attento alla ratio della disciplina da interpretare, il principio di necessaria diversità soggettiva tra sottoscrittori della lista e candidati della medesima non può essere ricostruito in via interpretativa valorizzando l’esigenza (certo sottesa alla disciplina che regola il segmento preparatorio del procedimento elettorale) di assicurare un’adeguata rappresentatività delle liste di candidati e sostenendo che la stessa finirebbe per essere neutralizzata se a sottoscrivere le liste fossero ammessi, sempre se elettori, gli stessi candidati inclusi nelle liste stesse. I candidati, qualora siano anche elettori del Comune nel quale si svolge la competizione elettorale, ben possono concorrere, con la sottoscrizione della dichiarazione di presentazione della lista, a costituire quella base minima di rappresentatività che la disciplina di settore sostanzialmente pretende nel prescrivere un numero minimo di sottoscrizioni ad opera di “elettori”. L’interpretazione volta a precludere la sottoscrizione al candidato, anche quando “elettore”, reca con sé il rischio di effetti paralizzanti o comunque di forte limitazione in casi di Comuni di piccole dimensioni con un corpo elettorale molto ristretto (di poco superiore a 1000), ove potrebbero manifestarsi conseguenti difficoltà (soprattutto per i nuovi attori politici) nel provvedere alla raccolta delle firme.
Elezioni
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/l-adunanza-plenaria-pronuncia-sulla-legittimazione-a-ricorrere-delle-associazioni-fuori-dai-casi-previsti-dalla-legge
L'Adunanza Plenaria pronuncia sulla legittimazione a ricorrere delle associazioni fuori dai casi previsti dalla legge
N. 00006/2020REG.PROV.COLL. N. 00014/2019 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 14 di A.P. del 2019, proposto dal Codacons, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio eletto presso lo studio Carlo Rienzi in Roma, viale delle Milizie 9; I sigg.ri Ivan Balelli, Giancarlo Bottari, Natalia Braga, Vinicio Cardelli, Luciano Cerini, Salvatore Cigna, Mauro Cioccarelli, Giuseppe Clemente, Giuseppe Di Napoli, Gerardo Dixit Dominus, Maria Fabiani, Valeria Funari, Fausto Giorgetti, Giovanni Giorgetti, Mariano Giuliodori, Angela Iovinelli, Luigi Luzzitelli, Andrea Manfrinato, Pasquale Marino, Giancarla Melecci, Maurilia Menghi, Adriana Montoncello, Silvestro Muzio, Giuseppe Orsi, Lorenzo Perugini, Cesare Pierdominici, Davide Poli, Salvatore Riggio, Marco Rolloni, Domenico Roselli, Maria Rossetti, Maria Chiara Rossetti, Leonardo Salmi, Lorenzo Scarpa, Cristina Targa, Massimiliano Tordi, Alessandro Vanzelli, Pio Zampironi, Mario Zucchini, Simone Agostini, Vincenzo Apicella, Rosalba Asprella, Graziano Bacci, Giovanna Badiali, Stefano Baldi, Daniela Baldini, Anna Elena Bandinu, Franca Bartoletti, Ines Bartoletti, Enrico Beccarini, Pier Luigi Bedani, Raffaello Bedendo, Simone Benelli, Stefano Benocci, Giordano Bertasi, Sonia Bertelli, Angelica Bigoni, Donnino Bigoni, Eleonora Bigoni, Giuseppe Paris Bondi, Ruggero Bonesi, Ernesto Bonetti, Libero Borzi, Vincenzo Borzi, Carla Bottoni, Roberto Bottura, Rita Briglia, Anna Brunori, Vittorio Brusaferro, Angelo Burini, Ennio Burini, Sandra Calamai, Marino Calderoni, Giuliano Caleffi, Alessandro Callai, Adelio Campi, Silvio Canella, Fausto Cantoni Copetti, Fausto Capesciotti, Mario Carboni, Saverio Cardi, Silvia Cardi, Rosa Ascenza Carducci, Giovanni Carli, Lucia Carlucci, Monica Casadei, David Casagrande, Emilia Caselli, Francesca Casillo, Luciano Casillo, Paolo Cavigli, Piero Celli, Annamaria Cerbone, Francesco Cerquetti, Gianni Cerveglieri, Carlo Checchinato, Walter Paolo Cherchi, Maddalena Colalillo, Mauro Coletti, Elio Comparato, Susanna Comparato, Massimo Correggioli, Maria Cortecci, Alessandro Coscarelli, Paolo Croce, Diego D'Angelo, Eugenio D'Angelo, Fabio De Minicis, Rita Dei Giudici, Rossana Del Zio, Andrea Di Cicco, Romeo Di Loreto, Liliana Di Pasquale, Claudia Di Petta, Daniele Dominici, Claudio Espinosa, Lina Fattori, Dario Fava, Antonio Federico, Gabriella Ferranti, Alessandro Ferrari, Giovanni Ferrari, Attilio Ferri, Elio Folco, Pio Franco, Moreno Gazzarrini, Anna Maria Gazzoli, Marisa Gennari, Carlo Luciano Gentili, Orano Ghignoni, Angiolina Ghinassi, Concetta Carla Ghinassi, Edelwais Giannessi, Giuseppe Giarrizzo, Domenico Giordani, Pasquale Giugliano, Luigi Giulietti, Angelo Gregori, Luciano Grifoni, Lucia Guarducci, Giacomo Guberti, Pietro Carlo Guida, Mario Haussmann, Leone Iacovacci, Bruno Lanzi, Roberto Lazzari, Daniela Leggeri, Giuliana Lince, Maurizio Lisi, Alberto Lolli, Enrico Lolli, Maria Giulia Lolli, Paolo Lucchetti, Giuseppe Lunghini, Igor Luzzana, Giuseppe Maggiora, Filippo Magnoni, Cesare Malagù, Ludovico Mantovanelli, Stefano Mappa, Tommaso Mappa, Cristiana Maragno, Guido Marco Maria Marenco, Davide Marescotti, Carla Marinelli, Clara Marinelli, Piergiuseppe Mariotti, Sandrina Martinelli, Walter Martinelli, Gabriele Massa, Gisella Matta, Lorenzo Meloro, Maria Giovanna Menni, Angelo Minari, Bruno Missora, Diego Modonesi, Regina Mucci, Gaspare Mura, Stefano Muscioni, Elvio Nocchi, Luigi Nova, Luigina Orlandi, Tamara Pace, Maurizio Palazzi, Manuela Palmaccio, Turano Palmieri, Enzo Panico, Ettore Panico, Patrizia Paoletti, Santina Paoletti, Gianluca Paone, Tommasina Paris, Emanuele Parisi, Romano Pasello, Rosanna Pastocchi, Massimo Pastorelli, Lara Pavoni, Maurizio Peccia, Paolo Perrone, Emanuele Pezzoli, Paola Pietrangeli, Luca Pilutti, Luigi Pini, Moira Piva, Elisa Polo, Carlo Alberto Porchianello, Chiara Pretolani, Anna Previati, Antonella Previati, Giancarla Quacquarini, Angela Radoccia, Luigi Renzullo, Fabrizio Ricci, Maurizio Righetti, Aldo Rossi, Cristian Rossi, Mario Rucci, Sabine Gisela Salander, Tiziana Salerni, Maria Salsa, Pietro Salto, Mario Salvatore, Denis Sansuini, Maurizio Sansuini, Fabio Santilocchi, Elisabetta Scarano, Francesca Serbenski, Morano Sinatti, Giovanni Sorci, Vera Speroni, Violetta Spigariol, Rosa Stasi, Silvia Strona, Fabrizia Svorinich, Caresio Tamagnini, Orsolina Tenti, Franca Torcolacci, Claudio Tordelli, Maria Cristina Tordelli, Marianna Torelli, Maria Luisa Trevaini, Nicola Tupone, Carlo Vettore, Marilena Viaggi, Luciano Vitiello, Antonio Zaccarini, Michele Zamboni, rappresentati e difesi dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio eletto presso lo studio Carlo Rienzi in Roma, viale delle Milizie 9; contro Banca d'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Marco Mancini, Marco Di Pietropaolo, Donato Messineo, con domicilio eletto presso lo studio Marco Mancini in Roma, via Nazionale, 91; Consob, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Consob - Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giuliana Manto, Salvatore Providenti, Raffaella Sette, Anna Elisabetta Musy, con domicilio eletto presso lo studio Raffaella Sette in Roma, via G.B. Martini, 3; nei confronti Nuova Banca dell'Etruria e del Lazio S.p.A., Nuova Banca Marche S.p.A., Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A., Nuova Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti S.p.A., Banca Popolare dell'Etruria e del Lazio Società Cooperativa in Amministrazione Straordinaria, Banca delle Marche S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti S.p.A. in Amministrazione Straordinaria, non costituiti in giudizio; Nuova Banca Marche S.p.A., Nuova Banca dell'Etruria e del Lazio S.p.A., Nuova Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti S.P.A, rappresentate e difese dagli avvocati Massimo Merola, Luca Raffaello Perfetti, Giuseppe Ruggero Filippo Rumi, Silvia Romanelli, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Luca Raffaello Perfetti in Roma, via Vittoria Colonna, 39; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 165/2017, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Banca d'Italia, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Economia e delle Finanze, del Ministero dello Sviluppo Economico, del Ministero della Giustizia, di Nuova Banca Marche S.p.A., di Nuova Banca dell'Etruria e del Lazio S.p.A., di Nuova Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti S.P.A e di Consob - Commissione Nazionale per le Società e la Borsa; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 dicembre 2019 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Gino Giuliano, Donato Messineo, e Luca Raffaello Perfetti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ordinanza n. 7208 del 23 ottobre 2019, la Sezione VI, rilevato un contrasto sul punto tra le Sezioni e ritenuta ravvisabile una questione di particolare importanza, ha rimesso all’Adunanza Plenaria il seguente quesito: se alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia piuttosto necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore. Oggetto del giudizio sul quale la Sezione rimettente è chiamata a decidere, e dal quale è scaturito il quesito, sono i provvedimenti emessi il giorno 21 novembre 2015 e approvati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze il successivo 22 novembre 2015, con i quali la Banca d’Italia ha disposto la risoluzione degli istituti di credito controinteressati appellati, a causa del ritenuto stato di dissesto in cui essi si trovavano, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 180/2015; nonché i successivi provvedimenti con i quali ha poi disposto: a) la riduzione integrale del valore delle riserve e delle azioni; b) l’azzeramento del valore nominale degli “elementi di classe 2 computabili nei fondi propri”, ovvero in sintesi di parte delle obbligazioni subordinate; c) la cessione dei crediti in sofferenza ad un’unica apposita società veicolo, la permanenza delle residue obbligazioni subordinate nel patrimonio dell’istituto originario in liquidazione e la cessione delle relative aziende, così risanate dalle passività, a distinti enti-ponte, incaricati di cederle successivamente sul mercato; d) il finanziamento, infine, delle necessarie ricapitalizzazioni con l’intervento del Fondo di risoluzione, un fondo di scopo istituito con l’art. 78 del d.lgs. 180/2015 e alimentato con i contributi obbligatori dall’articolo stesso previsti a carico delle banche operanti in Italia. Ad impugnare i citati provvedimenti sono un gruppo di singoli risparmiatori già titolari di azioni, ovvero di obbligazioni anche subordinate emesse dagli istituti di credito in questione, titoli il cui valore è stato azzerato dalle operazioni appena descritte. Tra i ricorrenti v’è anche Codacons, associazione iscritta nello speciale elenco delle associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n.206, la quale ha come fine statutario quello di proteggere, anche attraverso azioni in giudizio, i diritti e gli interessi dei consumatori e dei risparmiatori. In primo grado il TAR Lazio ha dichiarato inammissibile il ricorso per quanto riguarda la posizione dell’associazione Codacons, ritenendola non legittimata a proporlo; lo ha invece respinto nel merito quanto alla posizione dei singoli risparmiatori, ritenendo in sintesi che l’operazione fosse stata legittimamente attuata. Sia l’associazione sia i singoli risparmiatori hanno impugnato la citata sentenza, deducendo a supporto del gravame una serie di motivi, volti anzitutto, per quanto qui rileva, a contestare il capo della sentenza che ha dichiarato il difetto di legittimazione in capo all’associazione stessa. La Sezione rimettente, nell’esprimere i propri dubbi, si è confrontata con la tesi posta a base della citata pronuncia di inammissibilità, rinvenendone il caposaldo nella sentenza, sempre della Sezione VI, del 21 luglio 2016 n.3303. In quella decisione è sostenuto che nell’attuale ordinamento non sarebbe più in vigore la regola di origine giurisprudenziale del cd. doppio binario, secondo la quale gli enti collettivi, e in primo luogo le associazioni, ove presentino determinati requisiti, sono legittimate di per sé, ovvero a prescindere e in aggiunta rispetto a quanto previsto da specifiche disposizioni di legge, ad impugnare dinanzi al giudice amministrativo i provvedimenti che ritengano lesivi degli interessi diffusi della collettività della quale si configurano come ente esponenziale. Tale regola sarebbe stata sostituita da un principio di tassatività, per cui la legittimazione degli enti esponenziali è eccezionale e sussiste nei soli casi espressamente previsti dalla legge, fra i quali non rientrerebbe quello in esame. Il Collegio rimettente, viceversa, ritiene tuttora sostenibile l’orientamento tradizionale secondo il quale la legittimazione a proporre ricorso, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, sussiste in capo a tutte le associazioni, anche se sprovviste di legittimazione espressa in via legislativa, che rispondano a determinati criteri, costituiti dall’effettivo e non occasionale impegno a favore della tutela di determinati interessi diffusi o superindividuali, dall’esistenza di una previsione statutaria che qualifichi detta protezione come compito istituzionale dell'associazione, e dalla rispondenza del paventato pregiudizio agli interessi giuridici protetti posti al centro principale dell'attività dell'associazione. Osserva il Collegio rimettente che “tale indirizzo appare più consono ai valori espressi dalla Carta costituzionale, anzitutto in termini generici perché nel momento in cui, con l’art. 18, si riconosce la libertà di associazione, fra due possibili interpretazioni di una norma è preferibile quella che amplia, e non quella che restringe, le possibilità di azione dell’associazione stessa. Si osserva ancora che, ragionando nei termini opposti, propri dell’indirizzo restrittivo di cui si è detto, si rischierebbe, in ultima analisi, di rimettere alla discrezionalità del legislatore ordinario la tutela in giudizio di interessi di notevole peso e valore sociale, con evidente limitazione dell’effettività della tutela garantita dall’art. 24 Cost. Gli interessi coinvolti, infatti, riguardano settori come l’ambiente, la salute, ovvero, come in questo caso, la stabilità dei mercati finanziari, che i singoli potrebbero proteggere solo agendo in forma associata, con una modalità che del resto è pienamente consona allo spirito dell’art. 2 Cost, che riconosce e garantisce le “formazioni sociali” come luogo in cui la personalità dei singoli va a manifestarsi”. Incardinatosi il giudizio dinanzi a questa Adunanza Plenaria, le parti hanno depositato memorie, illustrando e approfondendo il tema. Ne hanno altresì discusso all’udienza dell’11 dicembre 2019. All’esito la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1.Giunge all’esame dell’Adunanza Plenaria la seguente generale questione: se alla luce dell’evoluzione dell’ordinamento, fermo il generale divieto di cui all’art. 81 c.p.c., possa ancora sostenersi la sussistenza di una legittimazione generale degli enti esponenziali in ordine alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, o se sia invece necessaria, a tali fini, una legittimazione straordinaria conferita dal legislatore. 1.1. Essa, come accennato nell’esposizione in fatto, insorge nell’ambito di una controversia che concerne i provvedimenti con i quali la Banca d’Italia ha disposto la risoluzione degli istituti di credito a causa del ritenuto stato di dissesto in cui essi si trovavano, ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. 180/2015, e adottato i provvedimenti conseguenziali. Il contenzioso si riferisce dunque al settore bancario e l’interesse azionato riguarda l’ambito della tutela dei consumatori. 1.2. L’associazione dei ricorrenti (Codacons) risulta bensì iscritta nello speciale elenco delle associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale di cui all’art. 137 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005 n.206, ma la questione della sua legittimazione si pone in quanto il predetto codice non prevede espressamente che le associazioni in questione siano abilitate ad esperire azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo. In altri termini, argomentando dalla mancata espressa previsione, nell’ambito del codice del consumo, dell’azione di annullamento di provvedimenti amministrativi, e postulata la tassatività delle azioni esperibili dalle associazioni a tutela dei consumatori, tutte di pertinenza della giurisdizione ordinaria, si giunge a dubitare che le associazioni siano provviste di legittimazione generale in ordine alla tutela di interessi collettivi. La questione - per come posta - può essere a ben vedere riguardata sotto il profilo della legittimazione, o della tipologia delle azioni esperibili: infatti, dal dato positivo della mancata previsione di un’azione (di annullamento in sede giurisdizionale amministrativa) si inferisce, in tesi, un’assenza di legittimazione, per così dire, in parte qua, ovvero, secondo il diverso angolo di visuale segnalato, e in positivo, una legittimazione limitata a proporre solo le azioni espressamente previste. 1.3. Tale ultima impostazione già di per sé suscita perplessità, in quanto la configurazione di una legittimazione selettivamente limitata quanto al diritto di azione appare come una situazione soggettiva monca, perché privata dell’ordinario diritto, di derivazione costituzionale, normalmente connesso alla titolarità di una situazione soggettiva. 2.Anche a non voler tener conto della considerazione appena fatta, peraltro, la questione della legittimazione all’impugnazione in sede giurisdizionale amministrativa va riportata nell’ambito generale della questione della legittimazione ad agire nel giudizio amministrativo delle associazioni a tutela degli interessi collettivi, qualunque sia il settore in cui abbia operato la pubblica amministrazione. 2.1. Com’è noto, la protezione degli interessi “diffusi”, ossia adesposti, non consentita in via teorica a causa della mancata sussistenza del requisito della differenziazione che tradizionalmente qualifica la posizione giuridica di interesse legittimo, è stata sin dagli anni ’70 assicurata attraverso il riconoscimento dell’esistenza di un interesse legittimo di natura collettiva imputabile ad un ente che, in forza del possesso di alcuni requisiti giurisprudenzialmente individuati (effettiva rappresentatività, finalità statutaria, stabilità e non occasionalità, in taluni casi collegamento con il territorio) diviene idoneo ad assumerne la titolarità (Cons. Stato, V, 9.3.1973, n. 253; Cass., S.U., 8.5.1978, n. 2207; Cons. Stato, A.P., 19.11.1979, n. 24). 2.2.Il riconoscimento legislativo degli interessi collettivi in materia ambientale e la conseguente legittimazione riconosciuta alle associazioni dall’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) – norma che consente alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 (ossia quelle ricomprese in un elenco approvato con decreto del Ministro dell’Ambiente) di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi” - ha poi generato un dibattito circa l’esclusività di tale legittimazione. 2.3. In relazione a tale aspetto, è ben noto l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 13 della legge 349/86 non determina un rigido automatismo, potendo il giudice, all’esito di una verifica della concreta rappresentatività, ammettere all’esercizio dell’azione anche associazioni non iscritte, secondo il criterio del cd “doppio binario” che distingue tra la legittimazione ex lege delle associazioni di protezione ambientale di livello nazionale riconosciute (che non necessita di verifica) e la legittimazione delle altre associazioni (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2006, n. 5760; sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554). Quest’ultima deve essere accertata in ciascuno dei casi concreti con riguardo alla sussistenza di tre presupposti: gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela ambientale, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex plurimis, Cons. Stato., IV, 16.2.2010, n. 885). 3. L’esperienza e l’evoluzione ordinamentale hanno nel tempo mostrato l’esistenza di una serie di fattispecie di rilievo superindividuale che, sebbene nel dibattito siano state descritte come di interesse collettivo, assumono valenza specifica o addirittura si ascrivono ad altri ed eterogenei fenomeni quali quello degli interessi isomorfi, fortemente avvertito soprattutto nell’ambito della tutela civilistica dei consumatori. La varietà delle fattispecie ha impegnato la giurisprudenza in una considerevole attività di selezione e di differenziazione che non ha tuttavia alterato i profili fondamentali della questione relativa alla tutela degli interessi collettivi dinanzi al giudice amministrativo. 4. Il fondamento teorico della cd. collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo della sua entificazione risiede, come già accennato, nella individuazione di interessi che sono riferibili ad una collettività o a una categoria più o meno ampia di soggetti (fruitori dell’ambiente, consumatori, utenti, etc.) o in generale a una formazione sociale, senza alcuna differenziazione tra i singoli che quella collettività o categoria compongono, e ciò in ragione del carattere sociale e non esclusivo del godimento o dell’utilità che dal bene materiale o immateriale, a quell’interesse correlato, i singoli possono trarre (sul punto, Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2010, n. 6554, cit.). 4.1. E’ evidente da questa definizione, che il discrimen più complesso da stabilire sia, non quello sul versante dell’interesse legittimo individuale (caratterizzato dall’esclusività del godimento o dell’utilità riconoscibile in capo ai singoli) ma, piuttosto, sul diverso e più generale versante dell’interesse pubblico vero e proprio, la cui cura è rimessa, secondo la tradizionale impostazione, unicamente all’amministrazione sulla base del principio di legalità. La circostanza che la cura dell’interesse pubblico generale (ad es. all’ambiente) sia rimessa all’amministrazione non toglie, tuttavia, che essa sia soggettivamente riferibile, sia pur indistintamente, a formazioni sociali, e che queste ultime, nella loro dimensione associata, rappresentino gli effettivi e finali fruitori del bene comune della cui cura trattasi. Le situazioni sono infatti diverse ed eterogenee: l’amministrazione ha il dovere di curare l’interesse pubblico e dunque gode di una situazione giuridica capace di incidere sulle collettività e sulle categorie (potestà); le associazioni rappresentative delle collettività o delle categorie invece incarnano l’interesse sostanziale, ne sono fruitrici, e dunque la situazione giuridica della quale sono titolari è quella propria dell’interesse legittimo, id est, quella pertinente alla sfera soggettiva dell’associazione, correlata a un potere pubblico, che, sul versante processuale, si pone in senso strumentale ad ottenere tutela in ordine a beni della vita, toccati dal potere riconosciuto all’amministrazione. 4.2. Del resto, che possano esservi situazioni soggettive di natura diffusa e collettiva è confermato dal legislatore, il quale, all’art. 2 del codice del consumo, espressamente prevede che “sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti, ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa”; o ancora, dallo Statuto delle imprese (l. 11 novembre 2011, n. 180) che all’art. 4, co. 2, riconosce alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi “lesivi di interessi diffusi”; finanche, e soprattutto, dalla legge generale sul procedimento amministrativo, la quale, all’art. 9 prevede che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”. 5. Tale ricostruzione è stata da ultimo sottoposta a critica con dovizia di argomenti dalla Sezione VI, con sentenza del 21 luglio 2016 n.3303, la quale dubita, in radice, della tenuta attuale della tradizionale impostazione basata sulla collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo dell’associazionismo spontaneo. 5.1. Il primo argomento, di carattere sistematico, utilizzato, è teso a mettere in dubbio la persistente validità e attualità dell’elaborazione giurisprudenziale attraverso la quale si è ammessa la tutela degli interessi legittimi collettivi dinanzi al giudice amministrativo, a prescindere da una specifica previsione di legge (tesi del doppio binario). Secondo tale impostazione, “in una prima fase, a fronte di un ordinamento ancora non adeguato alle emergenti istanze di tutela degli interessi meta-individuali, il ruolo degli enti esponenziali è stato….determinante e meritorio, perché ha consentito a questi interessi di assumere una dimensione giuridica e di avere un centro soggettivo di riferimento. Successivamente, tuttavia, nel corso del tempo l’esigenza di supplire alla carenza di un sistema istituzionale di tutela si è via via attenuata, perché il legislatore ha progressivamente preso atto dei cambiamenti in corso e ha iniziato a prevedere – introducendole per legge – forme e modalità specifiche di tutela. Si è avuta così la progressiva istituzionalizzazione di quella tutela che prima, pretoriamente, era affidata, o lasciata, all’iniziativa dei gruppi e delle associazioni private. Sempre più spesso, quindi, la legittimazione ad agire degli enti esponenziali trova espresso riconoscimento in una puntuale disciplina normativa, che si preoccupa però anche di stabilire chi può agire e, soprattutto, il tipo di azione che può essere esercitata. Si riscontra, in sostanza, l’affermazione di una nuova e più matura “tassatività” delle azioni esperibili (sia sul piano soggettivo, sia su quello oggettivo) nei predetti ambiti”. 5.2. Come può evincersi dalla parte finale del riportato brano della sentenza, la tesi sostenuta fonde, in un’unica considerazione, legittimazione ad agire e tipologia delle azioni esperibili, per limitarne il riconoscimento in capo ai soggetti, e limitatamente agli oggetti, specificamente previsti per legge. L’Adunanza plenaria non condivide una siffatta lettura interpretativa della descritta evoluzione e ritiene che il percorso compiuto dal legislatore sia stato piuttosto contraddistinto dalla consapevolezza dell’esistenza di un diritto vivente che, secondo una linea di progressivo innalzamento della tutela, ha dato protezione giuridica ad interessi sostanziali diffusi (ossia condivisi e non esclusivi) riconoscendone il rilievo per il tramite di un ente esponenziale che ne assume statutariamente e non occasionalmente la rappresentanza. In altri termini, secondo questa Adunanza plenaria, l’evoluzione del dato normativo positivo non può certamente essere letto in una chiave che si risolva nella diminuzione della tutela. 5.2.1. Tralasciando per il momento la materia consumeristica, il legislatore è infatti intervenuto dopo oltre un decennio dall’emersione giurisprudenziale degli interessi collettivi a mezzo dell’articolo 18, comma 5, della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), istitutiva del Ministero dell’Ambiente, consentendo alle associazioni ambientaliste individuate in base all’art. 13 di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi”, e così dando veste positiva ad un fenomeno che, come si è detto, scinde la titolarità della funzione di cura dell’ambiente imputata al neo costituito Ministero dell’Ambiente dalla titolarità dell’interesse sostanziale collettivo, invece riconosciuto alle associazioni, quali organismi rappresentativi dei fruitori ultimi. A questa ipotesi, speciale ratione materiae, si aggiunge la previsione generale di cui all’art. 4, co. 2, l. 11 novembre 2011, n. 180, che riconosce alle associazioni di imprenditori maggiormente rappresentative ai diversi livelli territoriali la legittimazione a impugnare gli atti amministrativi lesivi di interessi diffusi. 5.2.2. Questi interventi normativi non devono essere letti nel senso di previsioni che scindono, in via straordinaria, la legittimazione, dalla lesione di una situazione giuridica, ma quale emersione positiva dell’esigenza di protezione giuridica di interessi diffusi, secondo lo schema già delineato in via generale dalla giurisprudenza, e in linea con il ruolo che l’art. 2 Cost. assegna alle formazioni sociali, oltre che con la più attenta ed evoluta impostazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost.. 5.2.3. Ma ciò che forse è ancora più significativo è il silenzio del legislatore sul generale tema della tutela degli interessi collettivi, che testimonia più di ogni altro elemento, soprattutto in epoca di iperproduzione legislativa come quella attuale, la stabilità e la profonda condivisione di un orientamento che da ormai un cinquantennio caratterizza l’approccio giurisprudenziale, e che è del tutto incompatibile con l’affermazione di un opposto principio di tipizzazione ex lege, soggettiva o oggettiva, della legittimazione a ricorrere o delle azioni esperibili, in controtendenza con l’orientamento “storico” della giurisdizione amministrativa di selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, e perciò necessariamente tutelabili, nel confronto dinamico con il potere pubblico. 6. Il secondo argomento critico, utilizzato al fine di trarre indizi in relazione al preteso affermarsi di un principio di necessaria tipizzazione della legittimazione straordinaria delle associazioni, è ricavato da una norma processuale impeditiva, sostanziantesi nel generale divieto di sostituzione processuale sancito dall’art. 81 del Codice di procedura civile: a mente del quale “fuori dai casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”. “È ben vero” – secondo l’impostazione in commento – “che uno dei risultati raggiunti attraverso la sopra richiamata teoria dell’interesse collettivo è stato quello di trasformare l’interesse diffuso dei singoli in interesse collettivo proprio dell’ente esponenziale; è altrettanto vero, tuttavia, che tale trasformazione sia stato il frutto di una fictio iuris, che non altera il connotato sostanziale del rapporto sottostante e non riesce, quindi, a superare il dato ontologico rappresentato dalla oggettiva alterità esistente tra la effettiva titolarità dell’interesse (il singolo) e il soggetto che lo fa valere (l’ente). Tale fictio iuris, pertanto, non può tradursi in una non consentita forma di legittimazione processuale straordinaria e generalizzata, priva di base legislativa (in contrasto con la regola sancita dall’art. 81 c.p.c.); giacché ogni affermazione di legittimazione ad agire, per avere fondamento, deve trovare in ogni singolo caso una base normativa positiva”. Su tale argomento occorre soffermarsi. 6.1. L’interesse diffuso del quale si sta discorrendo è un interesse sostanziale che eccede la sfera dei singoli per assumere una connotazione condivisa e non esclusiva, quale interesse di “tutti” in relazione ad un bene dal cui godimento individuale nessuno può essere escluso, ed il cui godimento non esclude quello di tutti gli altri. Ciò chiarito, l’interesse sostanziale del singolo, inteso quale componente individuale del più ampio interesse diffuso, non assurge ad una situazione sostanziale “personale” suscettibile di tutela giurisdizionale (non è cioè protetto da un diritto o un interesse legittimo) posto che l’ordinamento non può offrire protezione giuridica ad un interesse sostanziale individuale che non è in tutto o in parte esclusivo o suscettibile di appropriazione individuale. 6.2. E’ solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e che dunque si dota della protezione propria dell’interesse legittimo, sicché - per tornare alla critica mossa dall’orientamento giurisprudenziale citato, incentrata sull’asserita violazione dell’art. 81 cpc - seppur è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni. Non in forza di una fictio ma di un giudizio di individuazione e selezione degli interessi da proteggere, nonché della rigorosa verifica della rappresentatività del soggetto collettivo che ne promuove la tutela. Sin qui la ricostruzione della tutela dell’interesse diffuso, da ritenersi ancora pienamente attuale. 7. La concreta questione portata all’attenzione dell’Adunanza, riguarda, tuttavia, un caso concernente la tutela consumeristica che richiede ulteriori approfondimenti in considerazione della sussistenza di peculiari norme di settore. Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, 21 luglio 2016 n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento. L’art. 32-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che: “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”. Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe – secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata - che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.) Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento. 7.1. Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata. Ciò, non solo per le generali e dirimenti considerazioni di cui al § 1.2. ma anche per quanto ci si appresta ad argomentare. 7.2. Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo. Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori). Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori. Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto – quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato – che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori. 7.3. Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo. La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico - ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità. 8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli articoli 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla L. 12/04/2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa. Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità. La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità. 9. Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato: “Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”. 10. Tanto chiarito in relazione al generale tema della tutela degli interessi diffusi e all’astratta ammissibilità dell’azione di annullamento introdotta dalle associazioni esponenziali, ritiene l’Adunanza di dover dare alla Sezione remittente ulteriori indicazioni utili a dirimere il caso di specie, in cui, quale nota peculiare, sembra esservi la compresenza di interessi individuali e collettivi. Si è sin qui chiarito che, fermi i presupposti individuati nel tempo dalla giurisprudenza, nessun dubbio debba porsi in ordine alla legittimazione delle associazioni, quando siano presenti, nella situazione giuridica azionata, tutti i tratti salienti dell’interesse collettivo. In altri termini, la legittimazione, per sussistere, deve riferirsi a un interesse originariamente diffuso, e quindi adespota, che, attenendo a beni a fruizione collettiva, si “personalizza” in capo a un ente esponenziale, munito di dati caratteri, ponendosi per tale via come interesse legittimo proprio dell’ente (la qual cosa esclude la pertinenza del richiamo, per negare la legittimazione, alla sostituzione processuale di cui all’articolo 81, c.p.c.). 10.1. La situazione in esame è tuttavia peculiare poiché gli atti impugnati hanno verosimilmente provocato la lesioni di plurimi interessi legittimi individuali, e prova ne è che fra i ricorrenti vi sono anche numerosi risparmiatori. Occorre dunque chiedersi se sia ravvisabile, a latere dell’interesse plurisoggettivo dei singoli risparmiatori (id est una sequenza di interessi legittimi di identico contenuto), anche un più ampio interesse collettivo proprio dell’associazione nei termini sino ad ora indicati, ossia una posizione giuridica derivante dalla diffusione nella comunità di meri interessi omogenei non individualmente protetti. Ovvero occorre, detto altrimenti, chiedersi se la sussistenza di interessi individualmente protetti, e quindi azionabili dagli interessati uti singuli, escluda di per sé la possibilità di una “personalizzazione” in capo all’ente di un interesse diffuso e la sua conseguente azionabilità quale interesse proprio di natura collettiva. 10.2. Il tema si pone in relazione alle deduzioni –contenute anche negli scritti di parte- concernenti il profilo dell’omogeneità degli interessi tutelati rispetto alla generalità dei consumatori rappresentati, interessi di cui l’ente esponenziale assume di farsi portatore, in modo da poter escludere qualsiasi contrasto “interno” tra i potenziali interessati. In proposito questa Adunanza ritiene che quando vi sia compresenza di interessi collettivi in capo all’ente associativo e di interessi individuali concorrenti, autonomamente azionabili, sia necessario acclarare che l’ente non si sta affiancando alle posizioni individuali di più soggetti nella difesa di un interesse che resta individuale pur se plurisoggettivo –il che potrebbe al più sorreggere una legittimazione al mero intervento- ma sta facendo valere un interesse proprio, di natura collettiva nei termini dianzi evidenziati, che può coesistere con più posizioni individuali. Tale accertamento non può che essere condotto alla luce dei seguenti punti fermi: - l’interesse collettivo del quale si è occupata la giurisprudenza, sin qui considerata, è una "derivazione" dell'interesse diffuso per sua natura adespota, non già una "superfetazione" o una "posizione parallela" di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività (sul punto, Consiglio di Stato, Sez V, 12 marzo 2019, n. 1640). - esso può considerarsi sussistente ove riferito a beni materiali o immateriali a fruizione collettiva e non esclusiva, tenendo comunque presente, in linea generale, che è pur possibile che un provvedimento amministrativo incida al contempo su interessi sia collettivi che individuali, ma che l’associazione è legittimata ad agire solo quando l’interesse collettivo possa dirsi effettivamente sussistente secondo la valutazione che ne fa il giudice; - la diversità ontologica dell’interesse collettivo (ove accertato secondo il criterio sin qui rappresentato), rispetto all’interesse legittimo individuale, porta ad escludere, in radice, la necessità di un’indagine in termini di omogeneità (oltre che degli interessi diffusi dal quale quello collettivo promana, anche) degli interessi legittimi individuali eventualmente lesi dall’esercizio del potere contestato. Nel senso che se l’interesse collettivo c’è, si tratta di un interesse dell’ente e quindi diventa non pertinente in radice porsi anche il tema dell’omogeneità degli interessi legittimi individuali dei singoli (in tal senso, chiaramente, Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451). E’ ben noto al Collegio quanto affermato da questa Adunanza plenaria con la decisione n. 9/2015, a mente della quale “E’, inoltre, indispensabile che l’interesse tutelato con l’intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all’associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio (cfr. ex multis Cons. St., sez. III, 27 aprile 2015, n.2150)”. L’affermazione deve però essere rettamente intesa, in coerenza con quanto si qui detto, in guisa da evitare che in casi come quello di specie (in cui accanto agli interessi diffusi, coagulatisi nella loro dimensione collettiva in capo all’associazione, convivono interessi legittimi in senso proprio dei singoli) si finisca per porre a raffronto, in nome del requisito dell’omogeneità, gli interessi indistinti e diffusi nella comunità o categoria, con i plurimi interessi legittimi individuali, posto che, com’anzi detto, la tipologia e la natura degli interessi in questione restano ontologicamente distinti. L’omogeneità dell’interesse diffuso nella comunità o categoria rappresentata è infatti requisito consunstanziale dell’interesse collettivo tutelato, inteso quale aggregazione di interessi diffusi oggettivamente assonanti secondo la valutazione che ne fa il giudicante; per converso, l’omogeneità non è requisito che debba riferirsi agli interessi legittimi individuali. 10.3. Trasferita sul piano pratico, l’affermazione può tradursi nel senso che non è affatto necessario che la tutela dell’interesse collettivo ridondi anche in un materiale ed effettivo vantaggio per tutti i singoli componenti della comunità o della categoria che, in relazione agli atti contestati, vantino un interesse individuale, concreto e qualificato. Esemplificando, e con riferimento al caso di specie, se l’interesse collettivo incarnato dall’associazione è quello di tutelare i risparmiatori in presenza di vicende amministrative o normative che ne possano mettere in pericolo il relativo patrimonio, il requisito dell’omogeneità potrà escludersi solo se può ragionevolmente ipotizzarsi che nell’ambito della categoria rappresentata, vi possano essere risparmiatori presso i quali è diffuso un interesse opposto. Sarebbe invece ultroneo verificare se, in concreto, tutti i singoli risparmiatori, nessuno escluso, siano stati effettivamente lesi nel patrimonio, o se piuttosto vi siano uno o più risparmiatori, controinteressati, che da quegli atti impugnati abbiano invece ritratto un vantaggio materiale, poiché così procedendo – se si aprisse cioè ad un’indagine circa la coerenza dell’interesse collettivo (oltre che rispetto all’interesse diffuso, anche) rispetto alle posizioni di interesse legittimo in ordine a “beni della vita” dei singoli - l’inevitabile risultato sarebbe quello di confondere i piani dell’interesse collettivo e della sua lesione con quello della lesione delle singole posizioni giuridiche di ciascuno dei componenti la comunità o la categoria. 11. Tanto chiarito, ritiene il Collegio che, nel caso in esame, sussistano i presupposti perché, a seguito dell’enunciazione del principio di diritto di cui al precedente § 9, la causa sia rimessa alla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, la quale ne valuterà le concrete ricadute al fine di deciderla con la sentenza definitiva, con ogni conseguenza anche in ordine alle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando nella causa d’appello come in epigrafe promossa, enuncia il principio di diritto di cui al precedente § 9, restituendo, per il resto, gli atti alla Sezione rimettente, ai sensi dell’art. 99, comma 4, Cod. proc. amm.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Fulvio Rocco, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Fulvio Rocco, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Associazioni rappresentative di utenti o consumatori - Tutela degli interessi legittimi collettivi – Espressa previsione di legge – Non necessita.        Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso (1). Tali norme di settore, secondo la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303, più volte citata quale caposaldo dell’orientamento contrario a quello prevalente, escluderebbero l’esperibilità dell’azione di annullamento. L’art. 32-bis, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico della finanza) prevede testualmente che “Le associazioni dei consumatori inserite nell'elenco di cui all'articolo 137 del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, sono legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi degli investitori, connessi alla prestazione di servizi e attività di investimento e di servizi accessori e di gestione collettiva del risparmio, nelle forme previste dagli articoli 139 e 140 del predetto decreto legislativo”. Dallo specifico riferimento alle “forme previste dagli articoli 139 e 140” deriverebbe – secondo la ricostruzione giurisprudenziale citata - che le uniche azioni possibili sono quelle proponibili dinanzi al giudice ordinario, tese a: a) inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate” (così l’art. 140 cit.) Dunque mancherebbe, nell’attuale ordinamento, nella materia de qua, una norma che abiliti le associazioni ad agire dinanzi al giudice amministrativo a mezzo dell’azione di annullamento. Ritiene questa Adunanza plenaria che nemmeno questo argomento, specificatamente riferito alla tutela consumeristica, sia in grado di incidere sull’attualità e validità della lunga elaborazione giurisprudenziale assolutamente prevalente, e in effetti consolidata. Le disposizioni citate, a ben vedere, riguardano il diritto civile e il relativo processo. La circostanza che il legislatore sia intervenuto espressamente a disciplinare, in ambito processual-civilistico, un caso di legittimazione straordinaria per la tutela di interessi collettivi non può certamente leggersi come l’epilogo di un generale percorso di delimitazione soggettiva della legittimazione degli enti associativi e di tipizzazione delle azioni esperibili in ogni e qualsiasi altro ambito processuale, come, nello specifico, quello amministrativo. Piuttosto essa rappresenta il definitivo riconoscimento della rilevanza giuridica degli interessi nella loro dimensione collettiva, persino in un ambito, quello civilistico, in cui non viene in rilievo l’esercizio di un potere suscettibile di concretizzarsi in atti autoritativi generali lesivi, impugnabili a mezzo dell’azione demolitoria secondo la traiettoria già tracciata dalla giurisprudenza amministrativa, ma in cui piuttosto assumono importanza anche i temi della disparità di forza contrattuale, dell’asimmetria informativa, dell’abuso di posizione dominante. Temi, questi ultimi, connotati da una dimensione eccedente la sfera giuridica del singolo e da situazioni giuridiche omogenee e seriali di una vasta platea di consumatori, espressamente qualificate come “diritti fondamentali” dalla legge, anche nella loro dimensione collettiva (art. 2 codice dei consumatori). Questo processo di espansione delle posizioni giuridiche verso una dimensione collettiva in ambito civilistico consente di spostare avanti la soglia di tutela, affrancandola dal vincolo contrattuale individuale, e di conferire alla stessa una caratteristica inibitoria idonea a paralizzare, ad un livello generale, gli atti e i comportamenti del soggetto privato “forte” suscettibili di ripercuotersi pregiudizievolemente sui diritti collettivi fondamentali dei consumatori. Interessando posizioni giuridiche paritarie, seppur asimmetriche, è chiaro che tale processo non avrebbe potuto inverarsi senza l’emersione positiva di situazioni giuridiche collettive e la tipizzazione delle azioni giuridiche esperibili da parte di un soggetto – quello a base associativa e con funzioni rappresentative, come anche il Codancos incluso nell’elenco citato – che non sia parte dei rapporti giuridici instaurandi e instauratisi tra il soggetto “forte” e i singoli consumatori. Non è così nei rapporti di diritto pubblico, in cui le posizioni non sono connesse a negozi giuridici, e trovano piuttosto genesi nell’esercizio non corretto del potere amministrativo, tutte le volte che esso impatti su interessi sostanziali (cd. “beni della vita”) meritevoli di protezione secondo l’apprezzamento che ne fa il giudice amministrativo sulla base dell’ordinamento positivo. La cura dell’interesse pubblico, cui l’attribuzione del potere è strumentale, non solo caratterizza, qualifica e giustifica, nel diritto amministrativo, la dimensione unilaterale e autoritativa del potere rispetto agli atti e ai comportamenti dell’imprenditore o del professionista -nel diritto civile invece subordinati al principio consensualistico - ma vale anche a dare rilievo, a prescindere da espliciti riconoscimenti normativi, a posizioni giuridiche che eccedono la sfera del singolo e attengono invece a beni della vita a fruizione collettiva della cui tutela un’associazione si faccia promotrice sulla base dei criteri giurisprudenziali della rappresentatività, del collegamento territoriale e della non occasionalità. 8. In conclusione, la tenuta del diritto vivente sulla tutela degli interessi diffusi non è messa in dubbio nemmeno dagli artt. 139 e 140 del codice del consumo (oggi trasposti nel nuovo titolo VIII-bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe dalla l. 12 aprile 2019, n. 31), che riguardano altro ambito processuale, e che di certo non possono essere letti nell’ottica di un ridimensionamento della tutela degli interessi collettivi nel giudizio amministrativo, nei termini sin qui chiariti dalla giurisprudenza amministrativa. Deve quindi ritenersi che un’associazione di utenti o consumatori, iscritta nello speciale elenco previsto dal codice del consumo oppure che sia munita dei requisiti individuati dalla giurisprudenza per riconoscere la legittimazione delle associazioni non iscritte, sia abilitata a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità. La legittimazione, in altri termini, si ricava o dal riconoscimento del legislatore quale deriva dall’iscrizione negli speciali elenchi o dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza. Una volta “legittimata”, l’associazione è abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità. Alla luce di quanto sino ad ora argomentato può pertanto formularsi il seguente principio di diritto, in relazione al quesito prospettato: “Gli enti associativi esponenziali, iscritti nello speciale elenco delle associazioni rappresentative di utenti o consumatori oppure in possesso dei requisiti individuati dalla giurisprudenza, sono legittimati ad esperire azioni a tutela degli interessi legittimi collettivi di determinate comunità o categorie, e in particolare l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso”.  
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/difetto-di-ossigenazione-per-l-uso-prolungato-della-mascherina-durante-le-lezioni
Difetto di ossigenazione per l’uso prolungato della mascherina durante le lezioni
N. 00304/2021 REG.PROV.CAU. N. 00653/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 653 del 2021, proposto dai sigg.ri -OMISSIS- e -OMISSIS- in proprio e nella qualità di esercenti la patria potestà sul minore -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco Scifo e Linda Corrias, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Presidenza Consiglio Ministri, Provincia Autonoma di Bolzano, Dirigente Scolastico -OMISSIS-, Ministero della Salute, Ministero dell'Interno, Ministero della Pubblica Istruzione, non costituiti in giudizio; per la riforma del decreto cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente obbligo di mascherina a scuola continuativo per minori infradodicenni; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Considerato che l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale, a fronte del testuale disposto normativo di cui all’articolo 56 c.p.a., può essere considerato ammissibile nei soli casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanzialmente decisorio; Ritenuto che tali casi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado; Ritenuto che, nella vicenda in esame, risulta: 1) che l’Amministrazione resistente non ha ancora depositato agli atti, innanzi al T.A.R. Lazio, i documenti che il primo giudice aveva ordinato di produrre entro il termine di 15 giorni, ampiamente decorso; 2) che tali documenti, di cui si conferma la necessità di tempestivo deposito in atti, hanno rilevanza per ciò che attiene a profili decisivi nella controversia in esame; 3) che, nel caso posto all’attenzione di questo giudice, la minore rappresentata dagli odierni appellanti, genitori della stessa, ha documentato con certificati medici, ripetutamente, problemi di difetto di ossigenazione per l’uso prolungato del DPI durante tutto l’orario di lezione; 4) che, nella classe frequentata dalla minore, non risulta – o comunque dagli atti non risulta – essere disponibile neppure un apparecchio di controllo della ossigenazione – saturimetro, strumento di costo minimo e semplicissima utilizzabilità in casi come quello prospettato, ad opera di ogni insegnante, per intervenire ai primissimi segnali di difficoltà di respirazione con DPI da parte del giovanissimo alunno; Ritenuto, perciò, che nelle more della camera di consiglio già fissata innanzi al T.A.R., alla minore non possa essere imposto l’uso del DPI per la durata delle lezioni, essendo il pericolo di affaticamento respiratorio – in mancanza di una costante verificabilità con saturimetro – troppo grave e immediato, né ovviamente si può ipotizzare una sospensione, sino alla decisione cautelare del T.A.R., del diritto costituzionalmente tutelato della giovane allieva di frequentare il corso scolastico; P.Q.M. Accoglie l’istanza cautelare, e sospende, nei confronti degli appellanti, con riguardo all’obbligo della minore -OMISSIS- di indossare il DPI durante l’orario scolastico, l’esecutività del DPCM impugnato per la parte relativa; Restano ferme, a carico dell’istituto scolastico, che la stessa minore frequenta, le responsabilità connesse all’attuazione del presente decreto. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in caso di riproduzione in qualsiasi forma, all’oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la potestà genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare il medesimo interessato riportato nella sentenza o nel provvedimento. Così deciso in Roma il giorno 26 gennaio 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Dispositivi di protezione personale – Obbligo per gli alunni durante le lezioni – Alunno che abbia certificato problemi di difetto di ossigenazione durante l’orario di lezione – Va sospeso.       Deve essere sospeso l’obbligo di indossare la mascherina da parte di un alunno che abbia certificato problemi di difetto di ossigenazione per l’uso prolungato del dispositivo di protezione individuale durante tutto l’orario di lezione, essendo il pericolo di affaticamento respiratorio – in mancanza di una costante verificabilità con saturimetro – troppo grave e immediato (1).  (1) Nel decreto è stato chiarito che nella classe frequentata dalla minore non risulta essere disponibile neppure un apparecchio di controllo della ossigenazione – saturimetro, strumento di costo minimo e semplicissima utilizzabilità in casi come quello prospettato, ad opera di ogni insegnante, per intervenire ai primissimi segnali di difficoltà di respirazione con DPI da parte dell’alunno.   ​​​​​​​
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sospensione-cautelare-dei-lavori-eseguiti-nelle-adiacenze-del-complesso-monumentale-delle-terme-di-caracalla-per-realizzare-un-fast-food
Sospensione cautelare dei lavori eseguiti nelle adiacenze del complesso monumentale delle Terme di Caracalla per realizzare un fast food
N. 05757/2020 REG.PROV.COLL. N. 10732/2019 REG.RIC. N. 10738/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10732 del 2019, proposto da Immobilflora S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Federico Margiotta, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dei Beni e delle Attivita` Culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Regione Lazio, non costituita in giudizio; Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Nicola Sabato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; sul ricorso numero di registro generale 10738 del 2019, proposto da McDonald's Development Italy Llc, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Riccardo Delli Santi, Mauro Renna, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Riccardo Delli Santi in Roma, via di Monserrato 25; contro Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Regione Lazio, non costituita in giudizio; Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Nicola Sabato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; e con l'intervento di ad opponendum:Codacons, Associazione Articolo 32-97, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio C/O Codacons Carlo Rienzi in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 73; per l'annullamento quanto al ricorso n. 10732 del 2019: del provvedimento del Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del 30.07.2019, notificato in data 05.08.2019, (prot. n. 21238) recante in oggetto “Roma, Municipio I. Progetto di riqualificazione e risanamento ambientale di un'area sita in via guido Baccelli n. 85 (NCEU: foglio 520, partt. 25, 28, 29, 40, 41, 42, 68, 69; richiedente: Stefano Ceccarelli). Annullamento del parere della Soprintendenza speciale Archeologica, belle arti e paesaggio di Roma prot. n. 15395 del 24 luglio 2018 e contestuale avocazione del procedimento di valutazione dell'intervento a farsi, anche ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, nonche´ della complessiva attivita` di tutela concernente detta area” (doc. 1 – Provvedimento di annullamento Direzione Generale A.B.A.P. del 30.07.2019); del provvedimento del medesimo Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, del 31.07.2019, (prot. n. 21509), notificato in pari data, con il quale e` stata ordinata la “sospensione dei lavori ai sensi dell'articolo 150, comma 1, del D.Lgs. n. 42/2014, adottato in esercizio del potere di cui all'art. 16, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 165/2001 e dell'art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016” relativamente alla medesima area (doc. 2 – Provvedimento di sospensione Direzione Generale A.B.A.P. del 30.07.2019); di ogni altro atto o provvedimento anteriore, preordinato, connesso e consequenziale, ancorche´ non conosciuto e, in particolare, per quanto occorrer possa: della Comunicazione di avvio del procedimento di annullamento del Comune di Roma Capitale del 02.08.2019 (prot. n. 130509) relativa al procedimento di richiesta di autorizzazione paesaggistica prot. n. QI/34899 del 28.02.2018 (doc. 3 – Comunicazione avvio del procedimento di annullamento del Dipartimento P.A.U. prot. n. 130509 del 02.08.2019); dell'art. 40 delle NTA del PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti” approvato con Delibera di Consiglio Regionale n. 70/2010; dell'art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016, ove inteso nel senso di attribuire al Diretto Generale della Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio il potere di annullamento degli atti ritenuti illegittimi dei Soprintendenti; nonché, quanto al ricorso n. 10738 del 2019: del provvedimento del Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del 30.07.2019, notificato in data 05.08.2019, (prot. n. 21238) recante in oggetto “Roma, Municipio I. Progetto di riqualificazione e risanamento ambientale di un'area sita in via guido Baccelli n. 85 (NCEU: foglio 520, partt. 25, 28, 29, 40, 41, 42, 68, 69; richiedente: Stefano Ceccarelli). Annullamento del parere della Soprintendenza speciale Archeologica, belle arti e paesaggio di Roma prot. n. 15395 del 24 luglio 2018 e contestuale avocazione del procedimento di valutazione dell'intervento a farsi, anche ai sensi dell'art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004, nonché della complessiva attività di tutela concernente detta area”; del provvedimento del medesimo Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, del 31.07.2019, (prot. n. 21509), notificato in pari data, con il quale è stata ordinata la “sospensione dei lavori ai sensi dell'articolo 150, comma 1, del D.Lgs. n. 42/2014, adottato in esercizio del potere di cui all'art. 16, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 165/2001 e dell'art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016” relativamente alla medesima area; di ogni altro atto o provvedimento anteriore, preordinato, connesso e consequenziale, ancorché non conosciuto e, in particolare, per quanto occorrer possa: della Comunicazione di avvio del procedimento di annullamento del Comune di Roma Capitale del 02.08.2019 (prot. n. 130509) relativa al procedimento di richiesta di autorizzazione paesaggistica prot. n. QI/34899 del 28.02.2018; dell'art. 40 delle NTA del PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti” approvato con Delibera di Consiglio Regionale n. 70/2010; dell'art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016, ove inteso nel senso di attribuire al Direttore Generale della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio il potere di annullamento degli atti ritenuti illegittimi dei Soprintendenti. Visti i ricorsi e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale e di Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali; Visto l’atto di intervento ad opponendum di Codacons; Visti tutti gli atti della causa; Vista la richiesta congiunta delle parti di trattenere in decisione le cause ai sensi dell’art. 84 CPA; Relatore la dott.ssa Floriana Rizzetto alla Camera di Consiglio del 7.4.2020 tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 84 DL 18/2020, conv. in L. n. 27/2020; FATTO Con ricorso n. 10732/2019 la società ricorrente premette di essere proprietaria di un compendio immobiliare sito in Roma, Via Guido Baccelli n. 85 costituto da vari fabbricati contraddistinti in N.C.E.U. del Comune di Roma al foglio 520, particelle nn. 28, 29, 40, 41, 42, 68, 69 e di aver concluso con la società Mc Donald’s Italia un contratto preliminare di locazione finalizzata alla conduzione di un pubblico esercizio di ristorazione (tipologia “fast food con modalità drive thru”) in un edificio inserito all’interno del compendio (distinto al foglio 520, particelle nn. 29 e 42) per cui erano stati avviati dei lavori di riadattamento dell’immobile, ottenendo diversi nulla osta e parere favorevoli ritenuti sufficienti alla realizzazione dell’intervento. Con il predetto ricorso vengono impugnati il provvedimento del 30.07.2019 con cui la Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ha disposto l’annullamento del parere favorevole all’intervento già espresso dalla competente Soprintendenza, nonché l’ordine di sospensione dei lavori in parola, disposto in data 31.7.2019 dalla medesima Direzione Generale che ha condizionato la ripresa dei lavori al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 Cod BBCC. Con ricorso n. 10738/2019 la società Mc Donald’s Italia, affittuaria dell’immobile in parola, impugna i medesimi provvedimenti, ribadendo la ricostruzione dei fatti operata dalla proprietaria dell’immobile con il ricorso soprarichiamato e deducendo gli stessi motivi di censura posti a fondamento del gravame. Nella parte in fatto le ricorrenti premettono che l’immobile in contestazione, originariamente realizzato in virtù di una licenza edilizia del 24.02.1970 (per la costruzione di una serra), successivamente era stato oggetto di interventi di ampliamento e cambio di destinazione d’uso abusivamente realizzati, per i quali erano stati rilasciati titoli abilitativi in sanatoria ai sensi della Legge n. 47/1985. Attualmente l’immobile è composto da una porzione di 453,00 mq, con destinazione d’uso commerciale, una porzione di 104,00 mq, con destinazione d’uso ufficio, una porzione di 165,00 mq, adibita a serra, e che esso è attualmente destinato ad attività florovivaistica, esercitata dalla proprietaria. Le ricorrenti precisano, ancora, che l’immobile ricade in area classificata nell’ambito “Paesaggio dei Centri e Nuclei Storici con relativa fascia di rispetto di 150 m” nella Tavola A del Piano Territoriale Paesaggistico Regionale (adottato dalla Giunta Regionale con atti n. 556 del 25.07.2007 e n. 1025 del 21.12.2007), non rientra tra i “Beni Paesaggistici” elencati nella Tavola D del PTPR, bensì tra quelli individuati ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 42/2004, essendo ricompreso tra gli “Insediamenti urbani storici e territori contermini compresi in una fascia di profondità di 150 m – (Tavola B) disciplinato dall’art. 43 delle norme del PTPR) i Beni iscritti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO (riportati alla Tavola C), Le ricorrenti precisano che i lavori in contestazione consistono in un “intervento di restauro conservativo, con cambio d’uso, da commerciale/servizi (uffici) a pubblico esercizio dell’edificio”, finalizzato ad adeguare l’edificio all’attività di fast food, secondo un progetto di “riqualificazione e la riconfigurazione funzionale dell’immobile e generale risanamento ambientale dell’area di intervento limitrofa” sul quale s’erano pronunciate favorevolmente le seguenti Amministrazioni: la Regione Lazio con nota prot. n. 575669 del 24.12.2015; la Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica di Roma (da qui S.S.C.A.A.r.R.) con nota prot. n. 2064 del 06.02.2017; la Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali (da qui Soprintendenza Capitolina) con nota prot. n. 22245 del 17.08.2017; il Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica – U.O. Permessi di Costruire – Ufficio Autorizzazioni Paesaggistiche del Comune di Roma (da qui Dipartimento P.A.U.) con nota prot. 34899 del 28.2.2018; la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma (da qui S.A.B.A.P.) con nota prot. n. 15395 del 24.07.2018. In data 15.2.2019 le società ricorrenti hanno concluso il contratto definitivo di locazione dell’immobile, ritenuto adatto all’attività di ristorazione in parola una volta realizzato l’intervento, ritenuto approvato a seguito del silenzio serbato dall’Amministrazione sulla “SCIA alternativa al permesso di costruire” prot. n. 206704 del 31.10.2018, con conseguente perfezionamento del titolo abilitativo in data 1.12.2018 per decorso il termine di 30 giorni di cui all’art. 23 del D.P.R. n. 380/2001. Dopo aver presentato una SCIA in variante prot. n. 93645, in data 8.5.2019 veniva dato avvio ai lavori in parola, che venivano fatti oggetto di proteste ed esposti da parte di cittadini ed associazioni che sollecitavano l’intervento repressivo del Ministero. Secondo le ricorrenti è solo per placare tali proteste che il Direttore Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio avrebbe adottato i provvedimenti impugnati con cui ha disposto l’immediata sospensione dei lavori, ha avocato il potere di provvedere, disponendo l’annullamento d’ufficio del parere favorevole precedentemente reso dalla Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma con nota prot. n. 15395 del 24 luglio 2018 e diffidato a non riprendere i lavori fino al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica prescritta dall’art. 146 del Codice Beni Culturali, ed ha altresì sollecitato il Comune a provvedere alle relative valutazioni, comunicandone le risultanze al predetto Direttore Generale. Deducono, pertanto: con riferimento all’esercizio del potere di avocazione e sostituzione esercitato dal Direttore Generale: 1) “Nullità per difetto di attribuzione e carenza di potere. Incompetenza. Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 nonies della L. n. 241/1990 ss.mm.ii. Violazione del principio di legalità e di gerarchia delle fonti del diritto. Violazione dell’art. 97 Cost. Violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art 2 del D.M. n. 44/2016. Difetto di motivazione per violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della L. 241/1990 e ss.mm.ii. Esercizio arbitrario del potere. In subordine violazione da parte dell’art. 2 del D.M. n. 44/2016 dell’art. 21 nonies della L. n. 241/1990 ss.mm.ii, degli artt. 16 e 17 del D.Lgs. n. 165/2001, dell’art. 16 del D.L. n. 66/2014, convertito con L. n. 89/2014, dell’art. 1, comma 327, della legge n. 208/2015, dell’art. 97 Cost., nonché del principio di legalità e di gerarchia delle fonti del diritto.” Con il primo motivo le ricorrenti eccepiscono innanzitutto l’incompetenza del Direttore Generale, sostenendo che esso non avrebbe alcun potere di annullare il parere reso dal Soprintendente e di avocare a sé una procedura autorizzativa già definitivamente conclusa in senso favorevole agli interessati. Secondo le ricorrenti il Direttore Generale non può ritenersi investito dei poteri di cui all’art. 16, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 165/2001 e all’art. 2, comma 1, secondo periodo, del D.M. n. 44/2016. Né potrebbe far ricorso al potere di annullamento in autotutela previsto dall’art. 21 nonies della L. n. 241/1990 che spetta solo dall’organo che ha emanato l’atto in parola “ovvero da altro organo previsto dalla legge” (ipotesi eccezionale che, appunto, nel caso in esame, non ricorre dato che l’art. 16, co. 1, lett. e), del d.lgs. n. 165/2001 attribuisce al Direttore Generale un potere sostitutivo in caso di inerzia dei dirigenti, evenienza non verificatasi nella fattispecie, in cui, al contrario, tutte le autorità competenti s’erano pronunciate, peraltro in senso favorevole). Escludono inoltre che il potere esercitato dal Direttore Generale possa trovare adeguato fondamento nell’’art. 2 del D.M. n. 44/2016, trattandosi di un decreto ministeriale di natura non regolamentare – che si limita a conferire al Direttore generale “poteri di indirizzo, coordinamento, controllo”, ma senza alcuna posizione di supremazia gerarchica né poteri di annullamento d’ufficio degli atti delle autorità “sotto-ordinate” –che non può alterare l’assetto delle competenze sancito dagli artt. 16 e 17 D.Lgs. n. 165/01 - confermato anche in sede di riorganizzazione del MiBAC (art. 1, comma 327, della L. 208/2015, c.d. “legge di stabilità 2016”) – che riconosce ai dirigenti di seconda fascia una sfera di autonomia rispetto ai dirigenti superiori e competenze proprie. Le ricorrenti ritengono che il predetto art. 2, ove prevede un potere di avocazione nei circoscritti casi di “necessità e urgenza”, e previa informativa al Segretario generale, ha carattere eccezionale e derogatorio, per cui non può essere interpretato estensivamente fino a farvi rientrare anche il potere di annullamento d’ufficio, pertanto ne chiedono l’annullamento ove interpretato in tal senso. In ogni caso eccepiscono che non sussistono neppure i presupposti di necessità ed urgenza per l’esercizio di tale potere, prospettando lo sviamento di potere, ritenendo che “il Ministero abbia improvvisamente riscontrato la massima urgenza alla luce della deriva mediatica che non gradisce la realizzazione in sito di un ristorante McDonald’s. Si badi bene che il marchio, e non la tipologia del servizio, ha suscitato la deriva di cui trattasi”; con riferimento al provvedimento di sospensione del Direttore Generale prot. n. 21509 del 21.07.2019: 2) “Violazione di legge: violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 146 del D.Lgs. n. 42/2004; violazione e falsa applicazione dell’art. 134, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 42/2004; violazione e falsa applicazione degli artt. 150 e 160 del D.Lgs. n. 42/2004; violazione e falsa applicazione dell’art. 40 delle NTA del PTP 15/12; violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 1, lett. c) e 7, commi 1 e 5, delle norme del PTPR; omessa applicazione dell’art. 43, comma 15, delle norme del PTPR; violazione dell’art. 24 delle NTA del PRG di Roma e del Protocollo di Intesa tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Comune di Roma prot. n. 57701 del 08.09.2009; violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della Legge n. 240/1999 e ss.mm.ii.. Violazione della Circolare del Dipartimento Territorio della Regione Lazio prot. n. 94875 del 19.06.2009. Eccesso di potere per: grave difetto di presupposti, contraddittorietà, irragionevolezza, violazione del giusto procedimento, carenza di istruttoria. Grave sviamento di potere. Arbitrarietà. Falsità. Violazione dei principi di certezza del diritto. Violazione dell’art. 97 della Costituzione. Con il secondo motivo le ricorrenti lamentano l’illegittimità del provvedimento di “sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 150 comma 1 del D.Lgs n. 42/2004” prot. n. 21509 del 31.07.2019, innanzitutto denunciandone “la contraddittorietà intrinseca” ritenendo che il provvedimento inibitorio sarebbe stato “assunto non già sulla base di un vincolo di tutela presupposto, ma sulla base di un vincolo che – in eventualità – deve essere ancora apposto”. A tale riguardo ricordano che i provvedimenti cautelari assunti ai sensi dell’art. 150 del D.Lgs. n. 42/2004 perdono la loro efficacia se entro novanta giorni non sia avviato il procedimento per vincolare l’area. Inoltre sostengono che il Direttore Generale non avrebbe individuato correttamente la normativa applicabile, in quanto avrebbe adottato la misura cautelare tenendo conto unicamente delle previsioni del PTP – che include l’area di intervento all’interno delle tutele orientate con TOc.3, in attuazione dell’art. 143 del D.Lgs. n. 42/2004 e ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 42/2004 – senza tener conto della prevalenza delle previsioni del PTPR adottato (ai sensi dell’art. 7, comma 5, delle norme del PTPR). Quest’ultimo per l’area nella Città storica del PRG di Roma e, quindi, nell’Area del Patrimonio UNESCO, prevede una “disciplina speciale”, all’art. 43 comma 15 stabilendo che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli insediamenti urbani storici ricadenti fra i beni paesaggistici di cui all’art.134 comma 1 lettera a) del Codice, per i quali valgono le modalità di tutela dei “Paesaggi” e alle parti ricadenti negli insediamenti storici iscritti nella lista del Patrimonio dell’Unesco (..) per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla Convenzione UNESCO”. Siccome il PTPR per tali aree “rimanda esclusivamente alle disposizioni di tutela recate dal Piano Generale di gestione UNESCO” e detto piano non è stato ancora approvato, non era necessario richiedere l’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, essendo sufficiente acquisire il parere consultivo della Soprintendenza prescritto dall’art. 24 delle NTA del PRG. Secondo le ricorrenti, nelle more dell’adozione del Piano di Gestione per la tutela e valorizzazione del sito UNESCO, trova applicazione la disciplina sui “Progetti relativi ad immobili non vincolati ai sensi del D.L.N. 42/2004 ricadenti nella parte di Città Storica dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità” contenuta nel Protocollo di intesa prot. n. 57701 del 8.09.2009, che al punto C prevede che “i progetti relativi a tali immobili ove riguardino invece interventi di categoria MS, RC devono essere obbligatoriamente sottoposti al parere consultivo della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma, solo se interessano le parti comuni o private, con rilevanza esterna”. Siccome nel caso in esame la predetta Soprintendenza s’era espressa favorevolmente con nota prot. n. 15395 del 24.07.2018, il progetto doveva ritenersi munito di tutte le autorizzazioni previste dalla normativa vigente. Pertanto, ad avviso delle ricorrenti, il Direttore Generale con l’annullamento del predetto parere sarebbe incorso nello sviamento di potere, dato che ha sospeso un’attività edilizia legittima, in assenza di vincolo (che, ove effettivamente esistente, avrebbe comportato l’esercizio del potere repressivo di cui all’art. 160 del D.Lgs n. 42/2004 anziché del potere cautelare di cui all’art. 150) perché “consapevole che la giurisprudenza amministrativa non consente l’imposizione di un vincolo su un immobile oggetto di un titolo edilizio consolidato, valido ed efficace e in corso di esecuzione”. Pertanto il Direttore Generale avrebbe disposto l’annullamento d’ufficio in autotutela al fine di “rimuovere un ostacolo” all’avvio del procedimento di vincolo, al fine di evitare gli attacchi mediatici, agendo per “pregiudizio”, dato che il “pericolo” è stato ravvisato non nell’intervento che interessa l’immobile in contestazione, bensì dall’avversione al marchio della ricorrente e, in genere, alla tipologia di ristorazione fast food; Con riferimento al provvedimento di annullamento in autotutela determinato dal Direttore Generale, prot. n. 21238 del 30.07.2019, vengono dedotte le seguenti censure: 3.a (rectius 3) “Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della L. n. 241/1990 ss.mm.ii. Violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990 ss.mm.ii. Difetto di motivazione. Violazione dell’art. 41 della Carta di Nizza. Violazione dell’art. 97 Cost. Arbitrarietà dell’esercizio del potere.” Le ricorrenti premettono di aver operato una inversione logica delle censure, attaccando prima il provvedimento di sospensione lavori prot. n. 21509 del 21.07.2019 – con il secondo mezzo di gravame – e poi il provvedimento prot. n. 21238 del 30.07.2019 di annullamento in autotutela del parere della Soprintendenza – al fine di rispettare “l’ordine cronologico secondo il quale i provvedimenti impugnati sono stati notificati (…) da cui emerge la caotica gestione del procedimento” Con il terzo motivo le società ricorrenti lamentano che il Direttore Generale ha disposto l’annullamento in autotutela del parere della Soprintendenza in erronea applicazione degli artt. 21 octies della L. n. 241/1990; l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento nel caso in esame ha impedito di rappresentare “circostanze favorevoli determinanti”, in particolare, che l’area in esame era esentata dall’obbligo di autorizzazione paesaggistica; non sussistevano i presupposti prescritti dall’art. 21 nonies della L. n. 241/,1990 per l’annullamento d’ufficio, dato che il parere favorevole espresso dalla Soprintendenza non era affetto da alcuna illegittimità; in ogni caso il Direttore generale avrebbe prima dovuto effettuare una valutazione comparativa degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, indicando le ragioni della prevalenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto rispetto all’esigenza di tutelare il legittimo affidamento sul perfezionamento del titolo abilitativo maturato dalla società proprietaria, nel rispetto dei principi del diritto comunitario (art. 41 della Carta di Nizza) e dell’art. 97 Costituzione. 3 b (rectius 4) “Violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 7 e 43 PTPR. Violazione e falsa applicazione dell’art. 40, lett. c.4), delle NTA del PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti”. Violazione e falsa applicazione dell’art. 24 delle NTA del PRG. Violazione e falsa applicazione degli artt. 134, comma 1, 143 e 146 D.Lgs. n. 42/2004. Violazione e falsa applicazione della circolare Regione Lazio n. 94875 del 2009. Arbitrarietà dell’esercizio del potere. Eccesso di potere per: grave difetto di presupposti, contraddittorietà, irragionevolezza, violazione del giusto procedimento, carenza di istruttoria. Grave sviamento di potere. Arbitrarietà. Falsità. Violazione dei principi di certezza del diritto. Violazione dell’art. 97 della Costituzione.” Con il quarto motivo le ricorrenti riprendono nuovamente le censure d’ordine sostanziale già prospettate sopra, ribadendo che il Direttore Generale ha errato a ritenere che il progetto in parola dovesse essere sottoposto all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 come previsto dall’art. 40, lett. c.4), delle NTA del PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti” che per la sottozona TOc.3 prescrivono tale titolo, dato che tale prescrizione del PTP non era più applicabile a causa della prevalenza delle Norme del PTPR. Quest’ultimo, dall’art. 7, comma 5, delle NA prevede che: “Per la parte del territorio interessato dai beni paesaggistici, immobili ed aree tipizzati e individuati dal PTPR ai sensi dell’articolo 134 comma 1 lettera c del Codice si applica, a decorrere dalla adozione, esclusivamente la disciplina di tutela del PTPR, anche in presenza di classificazione per zona ai fini della tutela contenuta nei PTP vigenti”. Sebbene l’art. 43 impone, in generale, l’obbligo della previa autorizzazione ai sensi dell’art.146, tuttavia, al comma 15 detta una apposita disposizione “derogatoria” per i siti Unesco, precisando che: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano (...) alle parti ricadenti negli insediamenti storici iscritti nella lista del Patrimonio dell’Unesco (…) per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla Convenzione Unesco”. La prevalenza del Piano Generale Unesco è stata d’altronde espressamente affermata dalla Regione D.G. Territorio e Urbanistica con Circolare prot. n. 94875 del 19.06.2009, che è stata ignorata dal Direttore Generale. 3 c (rectius: quinto) “Difetto di presupposti e travisamento dei fatti. Difetto di motivazione. Il provvedimento di annullamento del Direttore Generale non indica le ragioni per cui il parere favorevole espresso dalla Soprintendenza con nota n. 15935/2018 sarebbe illegittimo.” Con il quinto mezzo di gravame le ricorrenti lamentano che i rilievi mossi dal Direttore Generale sono del tutto assiomatici ed insufficienti, in quanto si limita ad asserire che il parere è “viziato sotto il profilo funzionale da travisamento ed erronea valutazione dei fatti da esso presupposti” in riferimento “all’asserita compatibilità dell’intervento di che trattasi, in rapporto con il contesto della Città Storica” e che è “contraddittorio, essendo, una tale asserzione, peraltro non motivata, in patente contrasto con il rilevante interesse archeologico del contesto territoriale di riferimento”; peraltro detto “rilevante interesse archeologico” non è in alcun modo precisato. Inoltre il predetto non avrebbe tenuto conto del fatto che “l’intervento edilizio oggetto della SCIA alternativa prot. n. 93645 del 08.05.2019 concerne volumetrie preesistenti e legittime” e che la Soprintendenza Archeologica “ha espresso un puntuale benestare con proprio parere prot. n. 2064 del 06.02.2017” (che non è interessato da procedimenti di annullamento). Il provvedimento impugnato non è assistito da un’adeguata motivazione in merito al “patente contrasto” delle opere edilizie previste dal progetto approvato con l’interesse archeologico del contesto territoriale di riferimento e si fonda unicamente sull’erroneo presupposto che l’autorizzazione paesaggistica prevista ex art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 sarebbe necessaria perché richiesta dal PTP predetto. 3 d (rectius: sesto). “Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 octies e 21 nonies della L. n. 241/1990 ss.mm.ii. Difetto di motivazione. Illegittimità derivata.” Con il sesto motivo le ricorrenti censurano l’operato del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica del Comune, lamentando che, a seguito dei provvedimenti del Mibac impugnati, il Comune avrebbe, a sua volta, dato avvio al procedimento di annullamento in via di autotutela - come comunicato con nota prot. n. 130509 del 02.08.2019 - aderendo supinamente alle posizioni del Mibac, incorrendo in illegittimità derivata. In via subordinata, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 81 delle NTA del PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed acquedotti”. Violazione e falsa applicazione dell’art. 150 del D.Lgs. n. 42/2004. Violazione a falsa applicazione degli artt. 143 e 149 del D.Lgs. n. 42/2004. Con il settimo ed ultimo motivo, le ricorrenti asseriscono che, anche a voler riconoscere persistente efficacia al PTP, ove prevede la necessità dell’autorizzazione prevista dall’art. 146 del D.Lgs n. 42/2004, tale previsione ha natura di “mera dichiarazione programmatica priva di disciplina e, quindi, di efficacia prescrittiva. Le prescrizioni di delocalizzazione, infatti, dovranno essere disciplinate da specifici Piani attuativi, secondo quanto previsto dall’art. 81, comma 1, delle NTA del PTP.” Inoltre, in via altrettanto subordinata, lamentano che l’autorizzazione prevista dall’art. 146 del D.Lgs n. 42/2004 non sarebbe stata, in ogni caso, necessaria trattandosi di lavori di restauro conservativo. Secondo le ricorrenti si tratta di “Interventi non soggetti ad autorizzazione” rientranti nell’ambito dell’art. 149, lett. a) D.Lgs. n. 42/2004 (“interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici”), per cui non sarebbe necessaria alcuna autorizzazione paesaggistica. In entrambe le cause si sono costituiti in giudizio il Ministero intimato, che resiste solo formalmente, ed il Comune, che invece, con memoria scritta, eccepisce la natura di mera comunicazione dei propri atti impugnati e comunque ne afferma la correttezza, specificando di essersi attenuto alle prescrizioni sul regime autorizzatorio dei siti UNESCO. È intervenuto ad opponendum il Codacons, che ritiene che il Ministero abbia legittimamente adottato gli atti repressivi impugnati, data la necessità dell’autorizzazione per qualunque intervento di modificazione su area vincolata, qual è quella in esame, tutelata dal PTP n. 15/12 “Valle della Caffarella, Appia antica e Acquedotti”. In vista dell’udienza il Comune ha depositato una memoria conclusionale con cui ha eccepito l’inammissibilità dell’impugnativa nei propri confronti e/o, in subordine, l’improcedibilità per non essere stati impugnati gli atti conclusivi dei propri procedimenti; chiedendo comunque il rigetto dei ricorsi. In vista della trattazione del merito le ricorrenti hanno depositato articolate memorie conclusionali e di replica e note di udienza ai sensi dell’art. 84 CPA. Le cause sono state trattenute in decisione ai sensi dell’art. 84 CPA in data 7.4.2020. DIRITTO Va in via preliminare disposta la riunione dei ricorsi in epigrafe, sussistendo evidenti ragioni di connessione soggettive ed oggettiva. Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile l’impugnativa degli atti indicati in epigrafe sub c), avverso la nota prot. n. 130509 del 02.08.2019 con cui il Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica del Comune ha comunicato l’avvio del procedimento di annullamento d’ufficio, in via di autotutela, dei titoli abilitativi precedentemente rilasciati. Si tratta, infatti, di atti privi di valenza provvedimentale, aventi natura di mera comunicazione, funzionalmente volti a consentire la partecipazione al procedimento di competenza dell’autorità comunale. Risultano pertanto inammissibili, per difetto di attualità dell’interesse data la mancata attitudine lesiva dell’atto impugnato, le censure dedotte con il sesto motivo di ricorso avverso detto atto di comunicazione. Quanto alle difese dell’operato del Comune relativamente alla vicenda urbanistica, il Collegio le ritiene non pertinenti alla presente controversia in quanto attengono a diversa, ulteriore ed autonoma vicenda amministrativa che potrà essere oggetto di eventuale contenzioso e che non influisce sulla decisione della causa in esame. Questa, infatti, riguarda unicamente le contestazioni che le parti ricorrenti hanno sollevato nei confronti dell’Amministrazione dei Beni Culturali, che ha annullato i precedenti atti, mentre il Comune, ha in quest’ultimo procedimento emanato solo atti favorevoli alle medesime parti ricorrenti, ancorché poi difenda le determinazioni finali assunte dal Ministero. Con tali precisazioni, possono essere esaminate le censure dedotte avverso i provvedimenti della Direzione Generale Archeologia Belle arti e Paesaggio. Innanzitutto, vanno disattese le censure dedotte con il primo mezzo di gravame, con cui le ricorrenti eccepiscono l’incompetenza del Direttore Generale, sostenendo che il predetto organo sia privo del potere di avocare il potere di pronunciarsi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento in contestazione ed annullare ai sensi dell’art. 21 nonies della L. n. 241/1990 il parere favorevole già espresso dalla Soprintendenza. Secondo le ricorrenti il Direttore Generale avrebbe agito esorbitando dalla propria sfera di attribuzioni facendo applicazione dell’art. 16, comma 1, lettera e), del D.Lgs. n. 165/2001, in assenza dei presupposti che legittimano il potere sostitutivo del Direttore Generale, cioè dello stato di inerzia dei dirigenti, quando invece la Soprintendenza non sarebbe affatto rimasta inerte, essendosi pronunciata con un parere favorevole. Inoltre, contestano che tale parere possa trovare adeguata “base giuridica” nell’art. 2, comma 1, del D.M. n. 44/2016, dato che, trattandosi di decreto ministeriale di natura non regolamentare, non potrebbe alterare il riparto di competenze tra dirigenti di prima e seconda fascia sancito da fonte di rango superiore, cioè dagli artt. 16 e 17 D.Lgs. n. 165/01. La doglianza non può essere condivisa. Innanzitutto non risulta condivisibile la tesi di fondo secondo cui il potere di avocazione non potrebbe essere attivato in caso di gravi violazioni dell’ordine giuridico, essendo, al contrario, l’adozione di misure atte a ripristinare l’ordine giuridico violato - quali, in particolare l’annullamento di provvedimenti contra legem, come nel caso in esame – la ragione del potere di intervento del vertice dell’apparato sancito con norma di chiusura proprio a salvaguardia dei beni di rilievo costituzionale affidati alle cure dell’Amministrazione. In tale prospettiva, la speciale disciplina dell’organizzazione dell’Amministrazione dei beni culturali prevede espressamente, all’art. 15 del Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni culturali, adottato con D.P.C.M. 29.8.2014 n. 171, che “La Direzione generale Belle arti e paesaggio svolge le funzioni e i compiti relativi alla tutela dei beni storici, artistici (….) ed alla tutela del paesaggio. Con riferimento all'attività di tutela esercitata dalle Soprintendenze Belle Arti e Paesaggio, la Direzione generale esercita i poteri di direzione, indirizzo, coordinamento, controllo e, solo in caso di necessità ed urgenza, informato il Segretario generale, avocazione e sostituzione, anche su proposta del Segretario regionale”. Ciò in coerenza con la particolare struttura organizzativa del Ministero dei Beni Culturali che si caratterizza per l’articolazione in Soprintendenze, e che, nel sistema confermato dagli artt. 31 e 35, ribadisce che le Soprintendenze archeologia, belle arti e paesaggio sono organi periferici del Ministero, configurando un rapporto di sottoposizione di queste alla vigilanza della Direzione Generale che, pertanto, ha poteri non solo di indirizzo, ma anche di sostituzione nell’adozione di provvedimenti soprintendentizi. Tale regolamento, emanato ai sensi dell'art. 16, co. 4, DL 24.4.2014, n. 66 (conv. Legge 23.6.2014, n. 89), costituisce la normativa speciale applicabile ratione temporis, essendo in vigore al momento dell’adozione dell’atto impugnato, fino alla sua abrogazione ad opera dall'art. 41, comma 1, D.P.C.M. 19.6. 2019, n. 76, che peraltro conferma i poteri di abrogazione e sostituzione sopraricordati dall’entrata in vigore del nuovo regolamento. Quanto alla contestazione dell’insussistenza nel caso specifico dei presupposti “necessità e urgenza” previsti per l’attivazione del potere di avocazione, la prospettazione delle ricorrenti non è condivisibile. Le ragioni che hanno indotto la Direzione generale ad intervenire sono stati espressamente indicati e consistono nell’aver la Soprintendenza espresso l’assenso alla realizzazione dell’intervento in contestazione al di fuori del procedimento per l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 Codice, ritenuta un adempimento imprescindibile per assicurare la compatibilità dei lavori di trasformazione dell’immobile in locale adibito all’esercizio di attività di ristorazione. Quindi si tratta di motivi che costituiscono la “causa tipica” del potere esercitato, che trova adeguato fondamento nell’esigenza di bloccare la realizzazione del progetto che incide su un’area tutelata da PTP n. 15/12 Valle della Caffarella, Appia antica e Acquedotti (approvato con delibera del Consiglio Regionale n. 70 del 10.10.2010), inclusa nel Centro Storico tutelato come sito UNESCO, in area attigua alle Terme di Caracalla, complesso storico archeologico monumentale di grande rilevanza e di indiscusso valore identitario, senza sottoporre prima l’intervento in parola a quelle approfondite valutazioni di compatibilità delle opere con i valori simbolici tutelati che sono effettuate mediante l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del d.lgs. 42/2004 (Codice Beni Culturali). Si tratta di verifiche assolutamente necessari per la salvaguardia di un “bene comune” di rilevanza costituzionale che rischia di essere irreparabilmente pregiudicato da interventi “non controllati”. E sotto tale profilo l’intervento del Direttore Generale risultava inoltre un atto dovuto ove si consideri l’esigenza di rispettare gli impegni internazionali scaturenti dall’inserimento dell’area nella “lista del patrimonio mondiale” redatta dall’UNESCO, dato che la “Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale”, firmata a Parigi il 10 novembre 1972 e ratificata con legge 6 aprile 1977, n. 184, obbliga lo Stato di appartenenza ad assicurarne la salvaguardia avvalendosi anche dei contributi economici e tecnici messi a disposizione dall’Unesco; benefici e riconoscimenti che rischierebbero di essere revocati in caso di perdita o degrado del sito protetto. In ogni caso non possono essere seguite le tesi delle ricorrenti ove ventilano – senza fornire alcun concreto elemento a supporto della denuncia – che l’annullamento sia frutto di uno sviamento di potere, ipotizzando che le ragioni l’annullamento siano intese a placare le proteste e l’eco mediatica creatasi attorno alla vicenda, che costituisce un mero episodio concomitante, che è servito a portare a conoscenza dei Superiori livelli ministeriali la problematica, ma non ha assunto alcuna efficacia determinante nell’economia delle decisioni della Direzione Generale. In tale prospettiva vanno disattese anche le censure dedotte con il secondo mezzo di gravame, che investono l’ordinanza di sospensione lavori che, appunto, per le ragioni sopra illustrate, subordina la ripresa dell’attività costruttiva alla verifica della compatibilità dell’intervento con i valori storico-archeologico-identitari espressi dal complesso monumentale adiacente. È vero che la specifica area interessata dall’intervento non risulta allo stato assoggettata a vincolo diretto, nonostante la prossimità all’importante complesso delle Terme di Caracalla, né da altri vincoli diretti, pur offrendo diversi elementi meritevoli di essere attenzionati quali punti panoramici e bellezze d’insieme con valore paesaggistico di “quadro naturale” ai sensi dell’art. 136 Codice BBCC, oltre che ai sensi dell’art. 7 bis del Codice sulla protezione UNESCO quale “testimonianza materiale” del bene del patrimonio culturale ideale della “Civiltà romana”. In ogni caso il fatto che l’area in sé non sia vincolata, non varrebbe nemmeno a precludere l’attivazione del potere cautelare, esercitato con l’ordine di sospensione dei lavori adottato con il prot. n. 21509 del 21.07.2019, che può ben anticipare gli effetti di un futuro vincolo sulla zona in questione. In tal senso, d’altronde, depone la stessa nota della Soprindentenza del 26.7.2019 con cui, nel dare atto dell’inesistenza di vincoli archeologici diretti o indiretti sull’area in questione, esprime “disappunto” per tale status giuridico, osservando che tale area “non risulta essere interessata da alcun dispositivo di tutela (----) nonostante sia circondata da numerose preesistenze archeologiche, a sud e ad ovest, quali le Mura Aureliane, l’Acquedotto Antoniniano e la Necropoli della via Imperiale”. A supporto di tale ricostruzione depone, del resto, l’art. 150 del Codice che così recita: “1. Indipendentemente dall'avvenuta pubblicazione all'albo pretorio prevista dagli articoli 139 e 141, ovvero dall'avvenuta comunicazione prescritta dall'articolo 139, comma 3, la regione o il Ministero hanno facoltà di: a) inibire che si eseguano lavori senza autorizzazione o comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio; b) ordinare, anche quando non sia intervenuta la diffida prevista alla lettera a), la sospensione di lavori iniziati.” L’art. 150 del Codice dei Beni Culturali, dunque, attribuisce espressamente sia alla Regione sia al Ministero il potere di intervenire ed ordinare la sospensione lavori atti ad alterare i valori paesaggistici del territorio attraverso il potere cautelare a tutela sia dei beni già vincolati sia di aree ancora non vincolate, ma che si intende tutelare con l’imminente adozione di un futuro vincolo paesaggistico. Si tratta, pertanto, di un potere che può essere esercitato anche a salvaguardia di aree o immobili non dichiarati di interesse culturale o paesistico ai sensi degli artt. 10, 13 o 136 del Codice, o non ricadenti tra quelli soggetti a vincolo paesistico-ambientale o archeologico paesistico ex lege di cui all’art. 142 del Codice e nemmeno tra quelli individuati come beni paesaggistici direttamente da un Piano Paesistico ai sensi dell’art. 135 co. 1 lett. c) del Codice. Ovviamente, trattandosi di una misura cautelare posta a salvaguardia di aree o immobili ancora non vincolati e che si ritiene di dover tutelare con un provvedimento di vincolo paesistico, di cui si avvia il procedimento, anticipandone gli effetti inibitori, il provvedimento cautelare offre solo una tutela interinale all’area ancora non vincolata. Il provvedimento cautelare in parola infatti può esplicare i suoi effetti solo in un arco di tempo limitato, quello necessario per l’attivazione dei poteri di vincolo, di cui ha effetti prodromici, come sancito dall’art. 150 al co. 2 - “L'inibizione o sospensione dei lavori disposta ai sensi del comma 1 cessa di avere efficacia se entro il termine di novanta giorni non sia stata effettuata la pubblicazione all'albo pretorio della proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico di cui all'articolo 138 o all'articolo 141, ovvero non sia stata ricevuta dagli interessati la comunicazione prevista dall'articolo 139, comma 3” - che fa appunto coincidere la cessazione dell’efficacia della misura cautelare con l’avvio del procedimento di vincolo, che, anch’esso produce un immediato effetto di sospensione di qualunque modifica allo stato dei luoghi. Peraltro, l’area in questione risultava essere comunque già tutelata da vincolo paesistico imposto, ai sensi dell’art. 134 co 1 lett. c), dal PTP 15/12 “Valle della Caffarella, Appia Antica ed Acquedotti”, che alle NTA ribadisce l’obbligo di munirsi di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell’art. 146 del Codice BBCC, sicchè l’ordine di sospensione lavori risultava comunque un atto dovuto quanto meno per assicurare il rispetto delle prescrizioni poste dal Piano Paesistico. In conclusione, il potere inibitorio è stato legittimamente adottato dal Direttore Generale nell’esercizio delle attribuzioni di cui all’art. 150 del Codice, che appunto consente al Ministero (oltre che alla Regione) di inibire i lavori eseguiti senza autorizzazione su beni paesaggistici vincolati o vincolandi, e risulta sostanzialmente giustificato dall’esigenza – espressamente menzionata nello stesso provvedimento - di assicurare il rispetto del procedimento autorizzatorio posto a salvaguardia del bene paesaggistico già tutelato dal PTP. Per quanto invece riguarda la questione della persistente vigenza di tale PTP e dei suoi rapporti con il PTPR si rinvia all’esame delle censure dedotte con il quarto motivo avverso il provvedimento di annullamento del parere soprintendentizio - che viene contestato soprattutto sotto tale profilo – di cui si anticipa l’esame. Occorre pertanto affrontare la questione centrale, che investe la correttezza sostanziale del potere esercitato, di stabilire se, nel caso in esame, fosse effettivamente necessaria l’autorizzazione in parola. Si può già anticipare che la rilevanza costituzionale dei valori tutelati dal vincolo paesistico sopraricordato e le previsioni di legge a tutela di tali beni non consentono al PTPR di vanificare tale vincolo mediante norme derogatorie come quella prevista dall’art. 43 PTPR adottato dalla Regione, il quale dopo aver richiamato, in generale, l’obbligo della previa autorizzazione ai sensi dell’art.146 per tutti gli interventi in area tutelata, introduce, al comma 15, una disposizione “derogatoria” per i siti Unesco statuendo che: “Le disposizioni del presente articolo non si applicano (...) alle parti ricadenti negli insediamenti storici iscritti nella lista del Patrimonio dell’Unesco (…) per i quali è prescritta la redazione del Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla Convenzione Unesco”. È evidente che l’obbligo sancito dal legislatore statale all’art. 146 del Codice - e ribadito dal legislatore regionale all’art. 25 della LR n. 24/1998 – di sottoporre i progetti di lavori comportanti l’alterazione dello stato dei luoghi di una località protetta alla valutazione di conformità e compatibilità della competente Soprintendenza, a salvaguardia di beni tutelati dall’art. 9 della Costituzione, ritenuti dal Ministero dei Beni Culturali di interesse assolutamente eccezionale tanto da sollecitarne l’inserimento nella lista UNESCO e da quest’ultimo dichiarati “Patrimonio Comune dell’Umanità” ai sensi della Convenzione firmata a Parigi il 10 novembre 1972 e ratificata con legge 6 aprile 1977, n. 184 (da cui scaturiscono impegni per lo Stato di appartenenza di assicurare la salvaguardia del bene dichiarato tale, come sopra ricordato), non è suscettibile di essere arbitrariamente derogato dallo strumento pianificatorio, previsto dall’art. 135 che può solo dare concreta attuazione a quelle previsioni poste da fonte di rango primario e non disattenderle. L’art. 43 del PTPR, anziché disciplinare “gli usi compatibili” del territorio, nell’ambito vincolato dal PTP, opera un “rinvio alle prescrizioni d’uso del Piano di Gestione Unesco” che non trova alcun fondamento normativo ed anzi si pone in contrasto con l’art. 135 al co 4 del Codice che prevede che “Per ciascun ambito i piani paesaggistici definiscono apposite prescrizioni e previsioni ordinate in particolare: d) alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i diversi valori paesaggistici riconosciuti e tutelati, con particolare attenzione alla salvaguardia dei paesaggi rurali e dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell'UNESCO”. Il PTPR adottato dalla Regione, pertanto, disattende tale compito nel momento in cui “rinuncia” a prescrivere modalità d’uso a tutela dei siti Unesco, “delegando” la disciplina paesaggistica di questi all’adottando Piano di “gestione e valorizzazione” del sito UNESCO – a cui rinvia - disciplinato dalla legge n. 77/2006, che ha oggetto diverso e che è indirizzato a tutt’altra finalità rispetto a quella perseguita dal PTPR. Pertanto, il rinvio al Piano di Gestione sopraindicato, operato dal PTPR in violazione dell’art. 134 Cod. BBCC (e senza alcun ancoraggio normativo nella legge n. 77/2006), determina un pericoloso “vuoto di tutela” proprio per aree di maggior valore, addirittura di livello “universale” - dichiarate “Patrimonio Comune dell’Umanità” proprio in base al riconoscimento della loro assolutamente “eccezionale” importanza (quindi di un’importanza di grado superiore rispetto all’importanza di grado solo “notevole” richiesto nell’ordinamento interno per la sottoposizione a vincolo paesistico ai sensi dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004) - con evidenti risultati paradossali, inammissibili sul piano logico, ancor prima che giuridico. Si finirebbe, infatti, per non assicurare a luoghi di valore simbolico “assolutamente eccezionale” per qualunque Popolo della Terra nemmeno la stessa tutela che deve essere garantita ad un qualsiasi “grazioso borgo” vincolato ai sensi dell’art. 136 cod. bbcc. in ragione di un valore molto più modesto del suo “aspetto caratteristico di rilevante valore estetico e tradizionale”, con conseguente palese violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità dei mezzi di tutela rispetto al “valore” del bene tutelato. Sotto il profilo del diritto internazionale, va infatti ricordato che l’inserimento di un bene nella “lista del patrimonio mondiale” non viene operata d’ufficio dall’UNESCO, ma avviene sulla base della richiesta dello Stato interessato, che, a mezzo del Ministero competente alla tutela dei beni culturali e paesaggistici, sottopone ad un apposito Comitato intergovernativo la richiesta di includere un bene presente nel suo territorio nella predetta lista in considerazione del suo valore “assolutamente eccezionale per l’Umanità intera”. Risulta pertanto inammissibile che la Regione, che dovrebbe con il proprio PTPR prevedere un elevato grado di tutela di tali beni, ritenuti di interesse “assolutamente eccezionale” dal Ministero che ne ha promosso l’inserimento nella lista UNESCO (e riconosciuti come tali dal Comitato Intergovernativo con la dichiarazione di “patrimonio dell’Umanità”), possa con una previsione come quella dell’art. 43 co. 15 lasciarli del tutto privi di protezione – in contrasto con gli impegni assunti dallo Stato Italiano in base alla Convenzione Unesco - procrastinandone e condizionandone la tutela al momento dell’adozione di un “piano di gestione” che ha oggetto e finalità diverse rispetto al piano paesistico nell’ordinamento interno. Le considerazioni sopra svolte comportano la reiezione anche delle censure dedotte con i restanti motivi di ricorso, dedotti avverso il provvedimento di annullamento d’ufficio, adottato dal Direttore Generale, avocando a sé il potere di pronunciarsi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento in questione. Anche tale provvedimento, infatti, si fonda sulla medesima ragione dell’imprescindibilità dell’autorizzazione paesaggistica per la realizzazione dell’intervento in contestazione. Avverso tale provvedimento si ribadiscono le medesime censure sopra esaminate, reiterate anche con il terzo mezzo di gravame, ove la problematica in parola è prospettata sotto il profilo della violazione sostanziale dell’art. 21 nonies della L. n. 241/,1990, per difetto dei presupposti di fatto prescritti per l’annullamento d’ufficio dalla predetta disposizione, ribadita con il quarto motivo (rubricato come 3b) ove si afferma che l’obbligo di previa autorizzazione paesaggistica imposto dal PTP sarebbe inoperante in virtù dell’esclusione sancita dall’art. 43 co. 15 del PTPRP per le aree ricadenti in sito UNESCO, ripreso ed approfondita con il settimo ed ultimo motivo, dedotto in via subordinata, ove si afferma che il PTP, anche a ritenerlo ancora applicabile, non conterrebbe alcuna “prescrizione” immediatamente vincolante che obbligherebbe l’interessato a munirsi di previa autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 146 del D.Lgs n. 42/2004. Quanto alle censure relative alla “motivazione” dell’atto di autotutela, dedotte con il terzo ed il quinto motivo, con cui si lamenta l’assiomaticità e la contradditorietà della motivazione, e viene persino prospettata la ravvisabilità di un possibile sviamento di potere, sostenendo che il Direttore Generale sarebbe intervenuto per evitare l’attacco mediatico, imponendo un vincolo ad opere già assentite, senza tener conto del legittimo affidamento delle parti interessate, esse risultano del pari infondate alla luce delle considerazioni soprasvolte in sede di esame del primo motivo di ricorso. Va al riguardo ribadito che l’atto di annullamento d’ufficio in contestazione risultava per il Direttore Generale un atto dovuto una volta riscontrata l’attività costruttiva incidente su un’area inserita nella lista dei siti Unesco, tutelata dal PTP n. 15/12 “Valle della Caffarella, Appia antica e Acquedotti” ai sensi dell’art. 134 co 1 lett. c) del Codice in assenza delle previe valutazioni di compatibilità paesaggistica da parte della competente Soprintendenza prescritte dall’art. 146 Codice. Tanto più che, come sopra ricordato, l’area in questione era suscettibile di essere protetta anche da ulteriori vincoli, anche sotto il profilo archeologico, come auspicato dalla nota della Soprintendenza del 26.7.2019 con cui nel rilevare l’inesistenza di “vincoli archeologici” (diretti o indiretti) sull’area in questione, esprime “disappunto” per tale status giuridico, osservando che tale area “non risulta essere interessata da alcun dispositivo di tutela (----) nonostante sia circondata da numerose preesistenze archeologiche, a sud e ad ovest, quali le Mura Aureliane, l’Acquedotto Antoniniano e la Necropoli della via Imperiale” - . Pertanto vanno disattesi anche i restanti profili di censura articolati con il secondo, il terzo ed il quinto motivo ove si lamenta il difetto di motivazione dell’atto impugnato, innanzitutto sotto il profilo della mancata ponderazione del contrapposto interesse privato della ricorrente, che avrebbe fatto “legittimo affidamento” sul titolo autorizzativo rilasciato appena 80 giorni prima, dell’omessa considerazione che l’intervento concerneva “volumetrie preesistenti e legittime” e che sul progetto la Soprintendenza Archeologica aveva “espresso un puntuale benestare con proprio parere prot. n. 2064 del 06.02.2017” che non era stato oggetto di procedimenti di annullamento. Orbene, per quanto riguarda la motivazione dell’atto di ritiro, il Collegio ritiene che esso risulti adeguatamente fondato sull’esigenza di salvaguardare il valore di un contesto ambientale unico al mondo, espressamente tutelato dal PTP 15/12, che richiede che ogni intervento modificativo dello stato dei luoghi sia quantomeno sottoposto al preventivo controllo di compatibilità da parte delle Autorità competenti secondo le procedure autorizzatorie prescritte a tutela delle aree interessate. Peraltro, l’intervento del Dirigente Generale non preclude la realizzazione dell’intervento in questione, ma semplicemente ne richiede la previa valutazione della compatibilità con i valori paesaggistici espressi dal territorio che costituisce, appunto, l’oggetto dell’autorizzazione prevista dall’art. 146 Codice BBCC. Né le ricorrenti possono pretendere di escludere l’esigenza di tali controlli invocando un legittimo affidamento sulla sufficienza degli atti di assenso e dei nulla osta già ottenuti a titolo diverso: le società in parola erano infatti a conoscenza che della necessità di autorizzazione paesaggistica per realizzare l’intervento in questione in quanto l’area era già vincolata dal PTP 15/12 (Valle della Caffarella), oltre che rientrante nell’ambito del sito UNESCO. In ogni caso, l’esigenza di tutela del preteso “legittimo affidamento sulla realizzabilità dell’opera” non è configurabile ove si consideri l’estrema brevità del periodo di tempo intercorso tra il rilascio dei pareri favorevoli e l’intervento del Direttore Generale. Infine, l’invocato affidamento va escluso in quanto l’intervento assentito –almeno dalle descrizioni fattane nei vari permessi e nulla osta rilasciati dalle diverse Soprintendenze– concerneva delle DIA aventi ad oggetto interventi di impatto molto limitato (consistenti nel mero rifacimento delle coperture, con bonifica dall’amianto, sostituzione di serramenti ed altre opere meramente interno) prive di impatto ambientale, etc. Pertanto dagli assensi ottenuti non poteva ritenersi autorizzato un intervento completamente diverso, come quello che si stava realizzando, che investe l’esterno dell’edificio e che comporta la demolizione e la ricostruzione dell’edificio esistente, con conseguente diverso impatto ambientale ed alterazione dello stato dei luoghi (esito che invece era escluso negli atti di assenso espressi dalle ripetute Soprintendenze). A tale riguardo va osservato che il progetto dell’intervento è qualificato dalle ricorrenti come intervento di “riqualificazione e risanamento ambientale”, per cui per la sua realizzazione è stata ritenuta sufficiente una semplice DIA, ma del quale non è stata specificata l’esatta consistenza e questa non si evince nemmeno dagli atti allegati al ricorso (non è stato depositato né il progetto né gli allegati grafici) anche se pare di una certa consistenza visto i costi dell’intervento (a pag. 8 del contratto di appalto lavori viene specificato il corrispettivo preventivato in €. 1.319.672). Pertanto, se gli assensi erano stati acquisiti su un progetto di intervento diverso rispetto a quello in corso di realizzazione, non può essere ravvisato in capo alle ricorrenti alcun affidamento legittimo meritevole di tutela a realizzare un intervento di tipo diverso. Infine, quanto al lamentato omesso annullamento del “benestare” espresso (peraltro in modo condizionato) dalla Soprintendenza Archeologica, va osservato che si tratta di un rilievo inconducente, dato che il provvedimento di annullamento in contestazione è stato disposto in considerazione della mancanza dell’autorizzazione paesaggistica prevista ex art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004 e non per motivi riconducibili all’interesse propriamente archeologico (cioè all’incidenza delle opere sui reperti eventualmente presenti nel sottosuolo) che non erano in discussione nel caso in esame. In conclusione, l’esame complessivo delle censure dedotte con i ricorsi in epigrafe, previa loro riunione, induce alla infondatezza degli stessi che, pertanto, devono essere respinti. Sussistono tuttavia giusti motivi, vista la complessità delle questioni esaminate, per disporre la compensazione delle spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater), definitivamente pronunciando, riuniti i ricorsi in epigrafe, li respinge entrambi. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 7.4.2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza, ai sensi dell’art. 84 DL 18/2020, conv. in L. n. 27/2020, con l'intervento dei magistrati: Donatella Scala, Presidente Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore Roberta Mazzulla, Referendario Donatella Scala, Presidente Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore Roberta Mazzulla, Referendario IL SEGRETARIO
Beni culturali – Sito Unesco – Realizzazione fast food – Autorizzazione – Sospensione cautelare - Legittimità.     È legittimo il decreto con cui la competente Direzione Generale del Ministero dei Bei Culturali dispone la sospensione cautelare dei lavori eseguiti senza la previa autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 Codice BBCC, annullando il parere favorevole reso dal Soprintendente ai sensi della normativa urbanistica sui siti UNESCO per la realizzazione, nelle adiacenze del complesso monumentale delle Terme di Caracalla, di un ristorante ad alta affluenza, tipologia fast food con prelievo “drive thru”, cioè mediante passaggio in macchina (1).   (1) Ha ricordato il Tar che la Convenzione Unesco sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale”, firmata a Parigi il 10 novembre 1972 e ratificata con l. 6 aprile 1977, n. 184, obbliga lo Stato in cui è localizzato il sito dichiarato “Patrimonio dell’Umanità” ad assicurarne la salvaguardia. I siti dichiarati Patrimonio Mondiale dell’UNESCO in quanto riconosciuti di “eccezionale valore universale” sotto il profilo dell’interesse culturale o paesistico devono beneficiare di un grado di tutela almeno corrispondente a quella assicurata ai beni paesaggistici vincolati dalle Autorità Nazionali in quanto riconosciuti di interesse paesaggistico “notevole””, ai sensi dell’art. 136, d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice Beni Culturali e Paesaggio), oppure dichiarati di interesse culturale “particolarmente” importante ai sensi dell’art. 13 del medesimo Codice: il principio di proporzionalità e ragionevolezza impone di assicurare un grado di tutela corrispondente al grado di valore del bene tutelato; è paradossale non tutelare proprio i beni di maggior valore (Patrimonio dell’Umanità). I lavori edilizi nei siti dichiarati Patrimonio Mondiale dell’UNESCO devono essere preceduti dalla valutazione della loro compatibilità paesaggistica nel procedimento di autorizzazione previsto dall’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice Beni Culturali e Paesaggio). L’art. 135 del Codice prevede che sia assicurata un’adeguata tutela ai siti Unesco e non può essere derogato dalle Regione, in sede di pianificazione paesistica, privando di tutela detti siti o “rinviando” ad emanandi strumenti, quali il Piano di “gestione e valorizzazione” dei siti UNESCO disciplinato dalla legge n. 77 del 2006 (che ha oggetto e finalità diverse rispetto a quelle del PTPR), vanificando altresì il vincolo di tutela apposto dal PTP n. 15/12 Valle della Caffarella, Appia antica e Acquedotti (approvato con delibera del Consiglio Regionale n. 70 del 10 ottobre 2010). La struttura organizzativa del Ministero dei Beni Culturali è articolata mediante Soprintendenze Periferiche e prevede un ruolo particolare del Direttore Generale, secondo un modello organizzativo disciplinato da normativa speciale dal Regolamento di organizzazione adottato con d.P.C.M. 29 agosto 2014 n. 171, emanato ai sensi dell'art. 16, comma 4, d.l. 24 aprile 2014, n. 66, convertito dalla l. 23 giugno 2014, n. 89, applicabile ratione temporis alla controversia in esame. Pertanto legittimamente il Direttore generale esercita il potere di annullamento di un parere paesaggistico reso dal Soprintendente in contrasto con le procedure prescritte dell’art. 146 del Codice.  
Beni culturali
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Ammonimento per comportamenti asseritamente persecutori nei confronti di una ex fidanzata
N. 08468/2021REG.PROV.COLL. N. 03384/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3384 del 2021, proposto da Questura Napoli, Ministero dell'Interno, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12; contro -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Antonio Tommaso Ventre, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Antonella Le Rose in Roma, via Cavour 228 B; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Quinta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la domanda di annullamento del provvedimento di ammonimento adottato nei confronti dell’odierno appellato. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 dicembre 2021 il Cons. Giovanni Pescatore e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L’appellante è stato destinatario di provvedimento di ammonimento a cagione di comportamenti asseritamente persecutori che egli avrebbe tenuto nei confronti della sua ex fidanzata. 2. Il procedimento ha preso le mosse da una segnalazione della donna dell’8 agosto 2020 e, a seguito della comunicazione di avvio del 28 agosto 2020, si è sviluppato attraverso la presentazione di memoria difensiva in data 10 settembre 2020; una successiva fase istruttoria - condotta tramite l’audizione dell'interessato e l’acquisizione di sommarie informazioni da parte di terze persone; ed un preavviso di diniego emesso in data 24 ottobre 2020, nel quale la Questura ha dato atto dell’insussistenza dei presupposti di attualità necessari all’adozione del richiesto ammonimento. Il procedimento ha ripreso impulso per effetto di una seconda segnalazione (in data 5 novembre 2020) nella quale la donna denunciava ulteriori atti persecutori, asseritamente verificatisi in data 29 ottobre e 4 novembre 2020 (consistiti in un appostamento dell’uomo all’uscita da una farmacia e nell’invio di una richiesta di amicizia su Facebook) e che la stessa denunciante poneva all’origine del grave stato ansioso diagnosticatole in occasione di un accesso al Pronto soccorso (come da documentazione medica allegata). L’iter si è infine concluso con l’adozione, in data 11 novembre 2020, del provvedimento di ammonimento, emesso inaudita altera parte, ovvero senza previa audizione dell’interessato sui successivi accadimenti oggetto della seconda segnalazione. 3. Da questa omissione hanno tratto spunto le doglianze avanzate in sede giudiziale dal ricorrente per difetto di istruttoria e di motivazione, violazione delle garanzie del contraddittorio procedimentale e, dunque, mancata applicazione dell'art. 8, comma 2, del D.L. n. 11/2009. 4. Le denunce poste a base dell’ammonimento non hanno avuto séguito in sede penale, in quanto il procedimento ex art. 612 bis c.p. inizialmente avviato a carico del -OMISSIS- è stato archiviato (all. 2 e segg. della produzione depositata dal ricorrente il 19.01.2021 presso il TAR). 5. Il ricorso di primo grado avverso il provvedimento di ammonimento è stato accolto dal Tar Campania – Napoli con la qui appellata sentenza n. -OMISSIS-. Il primo giudice ha ritenuto ingiustificata la mancata audizione dell’uomo nel secondo segmento procedimentale, sotto tutti i distinti profili: i) dell’urgenza del provvedere - in quanto non risultante dalla motivazione dell’atto gravato ed, anzi, contraddetta dalla precedente attività procedimentale svolta in contraddittorio; ii) della tipologia degli ulteriori fatti segnalati all’autorità - in quanto non dissimile bensì addirittura meno grave rispetto a quella già vagliata nella prima fase del procedimento e, quindi, del tutto compatibile con lo sviluppo di una analoga istruttoria aperta al contributo dell’interessato; iii) della regola di non annullabilità di cui all'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990 - non applicabile al caso, stanti i numerosi elementi forniti dall’interessato che avrebbero consentito una diversa lettura delle condotte a lui contestate. 6. Appellano in questa sede la Questura Napoli e il Ministero dell’Interno. 7. A seguito della costituzione in giudizio dell’appellato ed in assenza di istanze cautelari, la causa è stata posta in decisione all’udienza pubblica del 16 dicembre 2021. 8. L’amministrazione appellante pone in rilievo alcune circostanze valide, a suo dire, a connotare la valutazione del giudice di primo grado come affetta da contraddittorietà e malgoverno delle disposizioni normative di riferimento. Ciò in quanto: -- la prima fase del procedimento non è sfociata nell’adozione dell’ammonimento semplicemente perché le condotte, certamente gravi e comprovate, non potevano in quel momento ritenersi attuali. A conferma dell’interruzione definitiva della relazione e dei rapporti tra le parti deponeva, infatti, quanto dichiarato dallo stesso -OMISSIS- nelle sue controdeduzioni del 10 settembre 2020; -- il prosieguo del procedimento è stato successivamente condizionato non da una diversa valutazione dei fatti, nella loro gravità e consistenza, ma dalla ripresa delle condotte persecutorie le quali, dunque, “.. unitamente a quanto precedentemente rappresentato nell’istanza di ammonimento e dalla testimonianza del Sig. -OMISSIS-” hanno indotto la Questura a ravvisare l’attualità del pericolo in un primo momento esclusa; -- sul piano della dinamica dell’azione amministrativa, la descritta scansione dell’iter procedimentale non ne ha compromesso l’unitarietà, né può dirsi che l’ammonimento si sia fondato solo sugli eventi sopravvenuti al predetto preavviso ex art. 10 bis, avendo messo a profitto la totalità degli elementi istruttori raccolti; -- non sussiste, quindi, alcuna violazione del contraddittorio procedimentale in quanto la parte, oltre ad essere stata attinta dalla comunicazione di avvio del procedimento, è stata posta in condizione, come effettivamente ha fatto, di esercitare le sue prerogative difensive con il deposito delle memorie; mentre la scelta di non sentirla nuovamente è stata dettata dal timore che ulteriori indugi avrebbero potuto aggravare un contesto già esasperato e, quindi, esporre la donna a conseguenze ulteriori rispetto a quelle già gravissime attestate dal pronto soccorso di Napoli; -- sotto un secondo profilo (oggetto di un ulteriore motivo di appello), le circostanze già vagliate dalla Questura nella prima fase del procedimento erano comunque tali, se valutate unitamente alle nuove, da rendere evidenti le ragioni dell’urgenza connessa alla tutela psico-fisica ed esistenziale della -OMISSIS- e da farle ritenere certamente prevalenti rispetto alle prerogative partecipative del -OMISSIS-. 9. L’appello non può essere accolto. 9.1. Va premesso che le condotte persecutorie in una prima fase denunciate sarebbero consistite, essenzialmente, nell’invio (tramite social network) di flussi costanti di messaggi e nell’instaurazione da parte del -OMISSIS- di contatti diretti con terze persone alle quali sarebbero stati riferiti fatti ed episodi riguardanti la sfera privata della donna. Nella seconda denuncia sono state denunciate ulteriori condotte moleste consistite, sempre nella versione della denunciante, in un appostamento in scooter verificatosi il 29 ottobre 2020 (il -OMISSIS-, a bordo di uno scoter e con indosso il casco, si sarebbe fermato e avrebbe fissato la donna a circa 300 metri di distanza dall’uscita di una farmacia nel Comune di Giugliano) e nella ricezione di “richieste di amicizia” inoltrate, sempre tramite piattaforme “social”, da contatti “sospetti”. Su quest’ultima serie di episodi l’appellato ha avuto modo di fornire le proprie controdeduzioni solo in sede giudiziale, in particolar modo osservando che egli, la sera del 29 ottobre 2020, si trovava alla guida della propria autovettura e che tanto emergerebbe sia dal tracciamento del GPS del quale è munito il veicolo (vds. allegato n.2, pag.2, all’istanza di revoca in autotutela del 24.11.2020 versata in atti sub doc. 7 della produzione introduttiva di primo grado), sia dalla messaggistica scambiata con persona che era, in quelle circostanze di luogo e di tempo, in sua compagnia. 9.2. Tutto ciò premesso, il Collegio ritiene che l’impostazione di ragionamento articolata nell’atto di appello tradisca una trama logica in parte contraddittoria ed in altra parte fondata su assunti di principio non pienamente condivisibili. 9.3. E’ peraltro certamente comprensibile, sia detto in premessa, oltre che condivisibile, l’attenzione riposta dall’amministrazione ad una declinazione attuativa dello strumento preventivo dell’ammonimento funzionale alle esigenze di tutela primaria della parte debole. Trattasi, d’altra parte, di misura deputata a svolgere una funzione avanzata di prevenzione e di dissuasione dei comportamenti sanzionati dall’art. 612-bis c.p., fondata su una logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo probabilistico che, come la Sezione ha ribadito con univoca nettezza (Cons. St., sez. III, n. 758/2019), informa l’intero diritto amministrativo della prevenzione. (Cons. Stato, sez. III, n. 1085/2019). 9.4. Il Collegio ritiene, tuttavia, che nel caso di specie, anche in considerazione della consistenza e tipologia dei fatti segnalati, detta finalità preventiva potesse essere perseguita, senza nulla cedere sul piano della sua efficacia, in forme e modalità compatibili con l’attuazione piena delle garanzie di partecipazione e di difesa della parte sospettata di essere autrice delle condotte moleste. 10. Il punto di contraddizione, dunque. E’ la stessa amministrazione a riconoscere il contributo determinante che le allegazioni difensive del -OMISSIS- avevano assunto nella prima fase del procedimento allorché la Questura, ritenendole evidentemente attendibili e affidanti, le aveva assunte a base di una valutazione di inattualità del pericolo denunciato (pag. 4 dell’atto di appello: “In data 24 ottobre l’Amministrazione inviava all’istante la comunicazione di preavviso di rigetto, fondato questo sulla base della non attualità di comportamenti ascrivili agli atti persecutori, atteso che il -OMISSIS-, nel contesto delle memorie difensive anzidette, aveva dichiarato di aver chiuso ogni tipo di rapporto con la Sig.ra -OMISSIS-”). 10.1. Non vi sono elementi per escludere che analoga utilità investigativa potesse assumere l’apporto partecipativo dell’interessato anche nella seconda fase dell’indagine istruttoria, quanto a validazione sia della effettiva attendibilità di quanto riferito dalla donna (trattandosi di dichiarazioni non immediatamente riscontrabili), sia della rilevanza e gravità della minaccia dagli stessi fatti desumibile. 10.2. Difetta di coerenza, a contrario, un incedere procedimentale che consente l’interlocuzione con la parte sino ad un certo punto e solo su una quota dei dati istruttori, assumendo questo apporto come rilevante ed anzi decisivo nella lettura dell’assetto probatorio sino a quel momento determinatosi; e che, in un secondo momento e senza motivata ragione - pur nel contesto di un quadro istruttorio innovato da elementi inediti, ma di contenuto omogeneo ai precedenti e, quindi, al pari dei primi meritevoli di valutazione e riscontro - ritenga quel medesimo contributo trascurabile e non più reiterabile. 10.3. Non convince appieno neppure l’ulteriore assunto di principio per cui – stante l’unitarietà del procedimento – la parte, avendo beneficiato delle garanzie partecipative offertele dall’originaria comunicazione di avvio del procedimento e dalla possibilità di presentare in allora le proprie controdeduzioni, potendo di ciò dirsi definitivamente appagata, null’altro avrebbe potuto pretendere nel corso del successivo sviluppo procedimentale. L’argomento fonda su una considerazione formalistica e schematica degli obblighi partecipativi, oramai superata da un indirizzo interpretativo di tipo “funzionalistico e pragmatico” che, nel giudicare del rispetto delle facoltà riconosciute alle parti e a queste garantite o negate nella singola vicenda procedimentale, si ispira ad un criterio di “concretezza” e, quindi, guarda alla dinamica e alla ricaduta “effettiva” (in termini di esplicazione o di limitazione reale del diritto al contraddittorio) che la modalità applicativa della norma ha offerto al soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione. Se, dunque, è il coefficiente di realizzazione “effettiva” delle garanzie partecipative il parametro chiave al quale rapportare, in questa materia, il giudizio di legittimità, non ci si può esimere dal considerare l’andamento concreto con il quale il contraddittorio è venuto a svolgersi nel singolo caso: ed in questa valutazione assume rilievo anche lo specifico profilo, qui rilevante, della corrispondenza dei dati ostesi alle parti, sottoposti al loro contributo e poi posti a base della decisione conclusiva. 11. Nel caso di specie è pacifico che, attraverso le memorie presentate il 24 ottobre 2020 (richiamate a pag. 2 del Decreto), la parte è stata posta nella condizione di contraddire utilmente ed efficacemente - prova essendone il preavviso di rigetto della richiesta di ammonimento - solo riguardo ai fatti contestati risalenti a prima del mese di agosto 2020. A contrario, il Questore ha fondato l’emissione del decreto di ammonimento sulla scorta di un pericolo reso evidente dagli accadimenti successivi alla notifica del preavviso di rigetto. 11.1. Emerge quindi una discrasia qualitativa e quantitativa dei dati sottoposti a contraddittorio che non può reputarsi irrilevante né in termini oggettivi (per l’incidenza che essa può avere assunto sull’esito del procedimento), né in termini soggettivi (ovvero se valutata nella prospettiva della parte estromessa dal confronto). 11.2. Per il resto, nulla l’amministrazione adduce per connotare di sicura irrilevanza l’apporto del soggetto destinatario dell’ammonimento, ovvero per escludere che questi potesse documentare elementi decisivi a falsificare o ridimensionare significativamente i fatti addebitatigli. Le allegazioni contenute nella memoria di costituzione dell’appellato non sembrano sprovviste di apprezzabile valenza e, comunque, non hanno ricevuto confutazione alcuna nel corso del doppio grado di giudizio. 12. Quanto all’assunto delle esigenze di celerità ostative all’avvio di contraddittorio procedimentale, esso è smentito dal fatto che nessuna menzione figura al riguardo nel decreto di ammonimento. 12.1. Neppure si coglie, dalla lettura dell’atto, un diverso gradiente qualitativo dei nuovi fatti allegati dalla denunciante, che avrebbe potuto e dovuto sollecitare l’amministrazione ad una celerità non compatibile con la ponderazione dei fatti audita et altera parte. Peraltro, pur prescindendo dal loro riscontro formale e motivazionale, la traccia dei fatti oggetto di indagine istruttoria evincibile dalle risultanze in atti conferma trattarsi di elementi sostanzialmente omogenei ai primi, dal punto di vista tipologico, ed anzi (se si fa eccezione dell’assai controverso appostamento del 29 ottobre 2020) di gravità progressivamente declinante, in quanto da ultimo consistiti in asserite richieste di “amicizia” tramite social pervenute da contatti “sospetti” (non, quindi, inequivocabilmente riconducibili al -OMISSIS-). 12.2. Nell’apprezzare la contingenza del passaggio procedimentale e il carattere della sua asserita urgenza è poi doveroso aggiungere che l’odierno appellato - diversamente da quanto sostenuto dall’amministrazione (a pag. 7 dell’atto di appello) – all’epoca della emanazione dell’ammonimento non era più neanche in possesso della pistola d’ordinanza, per averla spontaneamente consegnata al proprio Comando in data 28 agosto 2020, all’indomani dell’avvio del procedimento (all. 7 della produzione introduttiva di primo grado); e che, comunque, l’amministrazione non ha dimostrato e neppure dedotto che gli incombenti del contraddittorio (nelle forme di una rapida audizione dell’interessato) non fossero espletabili in tempi contratti e compatibili con la ravvisata urgenza, ovvero nell’intervallo intercorso tra la seconda segnalazione (in data 5 novembre 2020) e l’adozione dell’atto (in data 11 novembre 2020). 13. Per quanto esposto, l’appello va conclusivamente respinto. L’effetto conformativo dell’annullamento dell’atto gravato in primo grado determina l’obbligo per l’amministrazione di riattivare e concludere il procedimento nell’osservanza dei parametri di condotta sin qui illustrati. 14. La peculiarità della vicenda ed il rilievo essenzialmente procedimentale del vizio positivamente delibato giustificano la compensazione delle spese relative al presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese di lite compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Massimiliano Noccelli, Presidente FF Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere Massimiliano Noccelli, Presidente FF Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giovanni Pescatore, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sicurezza pubblica -  Ammonimento - Natura.    L’ammonimento è uno strumento preventivo funzionale alle esigenze di tutela primaria di una parte debole; si tratta. di misura deputata a svolgere una funzione avanzata di prevenzione e di dissuasione dei comportamenti sanzionati dall’art. 612-bis c.p., fondata su una logica dimostrativa a base indiziaria e di tipo probabilistico che informa l’intero diritto amministrativo della prevenzione (1).     (1) Cons. Stato, sez. III, n. 1085 del 2019.   Ad avviso della Sezione nella fattispecie sottoposta al suo esame, anche in considerazione della consistenza e tipologia dei fatti segnalati, la finalità preventiva poteva essere perseguita, senza nulla cedere sul piano della sua efficacia, in forme e modalità compatibili con l’attuazione piena delle garanzie di partecipazione e di difesa della parte sospettata di essere autrice delle condotte moleste.  le condotte persecutorie in una prima fase denunciate sarebbero consistite, essenzialmente, nell’invio (tramite social network) di flussi costanti di messaggi e nell’instaurazione da parte del destinatario dell’ammonimento di contatti diretti con terze persone alle quali sarebbero stati riferiti fatti ed episodi riguardanti la sfera privata della donna.  Nella seconda denuncia sono state denunciate ulteriori condotte moleste consistite, sempre nella versione della denunciante, in un appostamento in scooter e nella ricezione di “richieste di amicizia” inoltrate, sempre tramite piattaforme “social”, da contatti “sospetti”.  Su quest’ultima serie di episodi l’appellato ha avuto modo di fornire le proprie controdeduzioni solo in sede giudiziale.  La Sezione ha rimarcato altresì il difetto della fase partecipativa.  Difetta di coerenza un incedere procedimentale che consente l’interlocuzione con la parte sino ad un certo punto e solo su una quota dei dati istruttori, assumendo questo apporto come rilevante ed anzi decisivo nella lettura dell’assetto probatorio sino a quel momento determinatosi; e che, in un secondo momento e senza motivata ragione - pur nel contesto di un quadro istruttorio innovato da elementi inediti, ma di contenuto omogeneo ai precedenti e, quindi, al pari dei primi meritevoli di valutazione e riscontro - ritenga quel medesimo contributo trascurabile e non più reiterabile.  Non convince appieno neppure l’ulteriore assunto di principio per cui – stante l’unitarietà del procedimento – la parte, avendo beneficiato delle garanzie partecipative offertele dall’originaria comunicazione di avvio del procedimento e dalla possibilità di presentare in allora le proprie controdeduzioni, potendo di ciò dirsi definitivamente appagata, null’altro avrebbe potuto pretendere nel corso del successivo sviluppo procedimentale.  L’argomento fonda su una considerazione formalistica e schematica degli obblighi partecipativi, oramai superata da un indirizzo interpretativo di tipo “funzionalistico e pragmatico” che, nel giudicare del rispetto delle facoltà riconosciute alle parti e a queste garantite o negate nella singola vicenda procedimentale, si ispira ad un criterio di “concretezza” e, quindi, guarda alla dinamica e alla ricaduta “effettiva” (in termini di esplicazione o di limitazione reale del diritto al contraddittorio) che la modalità applicativa della norma ha offerto al soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione.  Se, dunque, è il coefficiente di realizzazione “effettiva” delle garanzie partecipative il parametro chiave al quale rapportare, in questa materia, il giudizio di legittimità, non ci si può esimere dal considerare l’andamento concreto con il quale il contraddittorio è venuto a svolgersi nel singolo caso: ed in questa valutazione assume rilievo anche lo specifico profilo, qui rilevante, della corrispondenza dei dati ostesi alle parti, sottoposti al loro contributo e poi posti a base della decisione conclusiva. 
Sicurezza pubblica
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Non sussiste l’obbligo di motivare il regolamento che detta la disciplina del pagamento per occupazione suolo pubblico
N. 07904/2020REG.PROV.COLL. N. 03487/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 3487 del 2020, proposto da A.N.E.V. - Associazione Nazionale Energia del Vento, Daunia Wind s.r.l., Margherita s.r.l., Eurowind Orta Nova s.r.l., Eurowind Ordona s.r.l., Eurowind Ascoli 1 s.r.l., Volturino Wind s.r.l., Wind International Italy s.r.l., Helveticwind Eolo s.r.l., Parco Eolico Stornara s.r.l., Parco Eolico Orta Nova s.r.l., Domitilla Energia s.r.l., Ala s.r.l., Agritre s.r.l., E2i Energie Speciali s.r.l., ciascuna in persona del proprio legale rappresentante, rappresentate e difese dagli avvocati Massimo Ragazzo, Franco Gaetano Scoca e Pier Luigi Pellegrino, con domicilio digitale eletto presso lo studio Massimo Ragazzo in Roma, via Virgilio, 18; contro Provincia di Foggia, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Sergio Delvino e Nicola Martino, con domicilio digitale come da PEC tratta dai Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia (Sezione Prima) n. 00244/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Foggia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2020 il Cons. Federico Di Matteo e uditi per le parti gli avvocati Massimo Ragazzo, Franco Gaetano Scoca, Pier Luigi Pellegrino, Sergio Delvino e Nicola Martino; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L’A.N.E.V. è un’associazione di categoria cui aderiscono imprese che esercitano l’attività di produzione di elettricità da energia eolica; le altre appellanti sono società titolari di impianti alimentati da fonte eolica nella Provincia di Foggia, concessionarie di occupazioni di suolo pubblico per il periodo di 29 anni per la posa in opera di cavidotti interrati e/o per l’apertura di accessi funzionali al collegamento degli impianti alla rete elettrica nazionale. 1.1. Con l’art. 63 (Canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche) d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali) è stato riconosciuto ai comuni e alle province la facoltà di assoggettare l’occupazione di suolo pubblico al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione (C.O.S.A.P.) in sostituzione della già prevista tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (T.O.S.A.P.). A tal fine i comuni e le province avrebbero provveduto all’adozione di un regolamento per definire le modalità di calcolo del canone in base ai criteri posti dal secondo comma dell’art. 63, nel prosieguo meglio descritti. 1.2. Con delibera consiliare 19 novembre 2018 la Provincia di Foggia adottava il predetto regolamento disponendo che le concessioni per l’occupazione di spazi e aree pubbliche fossero assoggettate al pagamento di un canone (la C.O.S.A.P.) e non più al pagamento di tassa (T.O.S.A.P.). Alla delibera consiliare era allegata la Relazione del dirigente del Settore gestione patrimonio che esponeva le ragioni delle disposizioni regolamentari sul calcolo del canone di concessione. In particolare, quanto alle occupazioni del sottosuolo e soprassuolo mediante cavi o condutture era specificato che: “l’Ente, in sede di predisposizione del presente Regolamento che disciplina il COSAP, non ha potuto trascurare la distinzione tra soggetti occupanti che svolgono attività di erogazione di pubblici servizi e soggetti che diversamente svolgono attività di produzione e trasporto di energia prodotta da fonti energetiche rinnovabili, giacchè, come stabilito dalla sez. V del Consiglio di Stato, con sentenza n. 3810/2013, “solo la prima, cioè quella di erogazione di energia in favore direttamente ai cittadini, può essere effettivamente considerata un servizio pubblico, laddove la seconda (produzione di energia da fonti rinnovabili) non è rivolta, direttamente ed esclusivamente ai cittadini, trattandosi soltanto di un’attività presupposta alla successiva attività di erogazione del servizio di energia…né può ammettersi un’interpretazione estensiva di norme agevolative…”; per poi di seguito spiegare che: “E’ evidente come l’Ente non poteva mantenere anche per le aziende aventi ad oggetto l’esercizio di un’attività commerciale di produzione, trasporto e vendita di energia rinnovabile tariffe determinate in virtù di una ratio “agevolativa” e quantificabili in misura pressocchè simbolica”. Da qui la scelta di prevedere per le occupazioni di sottosuolo e soprassuolo con impianti, cavi e condutture un canone determinato mediante applicazione di coefficienti moltiplicatori per le specifiche attività esercitate dai titolari delle concessioni e considerata la modalità di occupazione, che avrebbe comportato per i soggetti esercenti attività di produzione di energia rinnovabile maggiorazioni rispetto alla precedente impostazione regolamentare (che disponeva il pagamento di una tariffa pari ad € 77,43 annui per km); soluzione questa ritenuta idonea “a realizzare una più congrua remunerazione rispetto al sacrificio imposto alla collettività e corrispondente alla significativa manomissione ed agli ingenti interventi realizzati su di un suolo già precario dal punto di vista della viabilità e dell’equilibrio idrogeologico”. 1.3. Il regolamento, pertanto, prevedeva per quanto di interesse al presente giudizio: a) all’art. 23 che “sono soggette al canone di concessione/autorizzazione, come determinato dagli articoli seguenti del presente regolamento, le occupazioni permanenti e temporanee realizzate nelle strade, su suolo demaniale o su patrimonio indisponibile dell'amministrazione” (comma 1) e che “sono parimenti soggette al canone di concessione/autorizzazione le occupazioni permanenti e temporanee degli spazi soprastanti e sottostanti il suolo pubblico di cui al comma 1, effettuate con manufatti di qualunque genere, compresi i cavi, le condutture e gli impianti, nonché le occupazioni di aree private sulle quali si sia costituita nei modi di legge la servitù di pubblico passaggio” (comma 2); b) all’art. 26 che “la tariffa base per la determinazione del canone di concessione/autorizzazione è graduata in rapporto all'importanza delle aree e degli spazi pubblici occupati”; c) all’art. 28 che “la tariffa base per le occupazioni temporanee e permanenti di suolo, soprassuolo, sottosuolo e spazi pubblici si determina in base ai criteri indicati dall'art.63, comma 2 lette) del D. L.vo n. 446/1997 e ss.mm.ii.”; d) all’art. 29 che: “il coefficiente di valutazione del beneficio economico dell’occupazione, da determinarsi con apposta deliberazione, è il valore attribuito all’attività connessa all’occupazione per il quale va moltiplicata la misura di base di tariffa”; e) all’art. 30 in specifica tabella “i coefficienti di valutazione economica per tipologie di occupazioni e categorie”; f) all’art. 31 che “la tariffa base prevista a giorno per categoria di importanza della strada (TB), riportata nella tabella di cui all'art. 28 e applicata nella misura percentuale del 10%, va moltiplicata per il coefficiente di valutazione economica (CE) di cui alla tabella dell'art. 30. L’importo così ottenuto va ulteriormente moltiplicato per il numero dei metri quadrati e successivamente per 365”. 2. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia l’A.N.E.V. e le società in epigrafe indicate impugnavano il regolamento provinciale sulla base di nove motivi di ricorso che possono così esporsi: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 63, comma 2, lettera c) del d.lgs. n. 446 del 1997 per mancata considerazione dei puntuali criteri indicati dalla norma primaria per la determinazione del canone (valore economico della disponibilità dell’area; sacrificio imposto alla collettività; modalità di occupazione) come provato dal fatto che ad essi non era fatto richiamo negli atti presupposti (relazione del dirigente del settore patrimonio; parere di regolarità tecnica allegato alla delibera di approvazione del regolamento); 2) violazione dell’art. 63, comma 2, lett. e) del d.lgs. n. 446 del 1997, dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003; dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2011, della direttiva 2009/28/CE e dei principî comunitari di proporzionalità, concorrenza, libertà di circolazione dei servizi, legittimo affidamento, ragionevolezza e certezza del diritto, per essere gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili annoverabili tra quelli di pubblico interesse e di pubblica utilità, con la conseguenza che nella specie avrebbero dovuto trovare applicazione le “speciali agevolazioni per occupazioni ritenute di particolare interesse pubblico e, in particolare, per quelle aventi finalità politiche ed istituzionali”, come imposto dalla lettera e) dell’art. 63, comma 2 del d.lgs. 446/1997; 3) violazione e falsa applicazione dell’art. 63, comma 2, lettera c) del d.lgs. n. 446 del 1997 per carente motivazione sulle ragioni per le quali le modalità di occupazione di suolo pubblico che caratterizzano le concessioni in esame potessero giustificare un canone di concessione notevolmente incrementato rispetto alla pregressa imposizione, non potendosi, a tal fine, ritenere valida spiegazione il riferimento alle esigenze della viabilità e all’equilibrio idrogeologico, come pure la corrispondenza rispetto a quanto previsto da omologhi regolamenti della Provincia di Lecce e delle province limitrofe di altra Regione; 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 63, comma 2, lettera c) del d.lgs. n. 446 del 1997 per aver introdotto un canone annuo minimo, fissato in €. 516,46, e ciò “a prescindere dall’area effettivamente occupata e, quindi, dal relativo pregiudizio per la viabilità pubblica”, con conseguente obbligo di corrispondere, in taluni casi, una somma addirittura superiore a quella dovuta sulla base del nuovo canone; 5) violazione e falsa applicazione dell’art. 63, comma 2, lettera c) del d.lgs. n. 446 del 1997, eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria e di motivazione, difetto dei presupposti in fatto ed in diritto, travisamento dei fatti per essere completamente mancata la specifica istruttoria richiesta dalla norma primaria per la determinazione della tariffa in relazione alla classificazione delle strade e delle aree pubbliche da sottoporre a concessione, né, tantomeno, in ordine all’entità del sacrificio e delle limitazioni d’uso imposte alla collettività; 6) violazione dei principi comunitari di proporzionalità, legittimo affidamento, ragionevolezza e certezza del diritto, anche in relazione all’art. 1 della legge n. 241 del 1990, dei principi di irretroattività dell’azione amministrativa, imparzialità, correttezza e buona amministrazione, eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà, irrazionalità, ingiustizia manifesta, disparità di trattamento, sviamento in quanto, considerata la notevole durata della concessione rilasciata per la conduzione della propria attività (29 anni), l’imposizione di un canone così esoso avrebbe alterato – in modo illegittimo, perché retroattivamente, e, soprattutto, violando un legittimo affidamento oramai consolidatosi – l’equilibrio economico originariamente individuato a fondamento della decisione di realizzare l’impianto di produzione di energia; 7) violazione e falsa applicazione dell’articolo 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione; degli artt. 3 e 53 della Costituzione, dei principi di proporzionalità, legittimo affidamento, ragionevolezza e certezza del diritto, eccesso di potere per contraddittorietà intrinseca, disparità di trattamento, sviamento, illogicità ed irrazionalità per aver la Provincia, nella relazione dirigenziale allegata al regolamento, ammesso di perseguire finalità meramente lucrative mediante l’introduzione delle maggiorazioni rispetto alla precedente imposizione (TOSAP), con esclusivo carico degli operatori che svolgono l’attività commerciale di produzione, trasporto e vendita di energia da fonti rinnovabili; nonché per violazione del principio costituzionale di proporzione alla capacità contributiva considerata l’abnormità della misura dei canoni; 8) violazione della normativa in materia di espropriazione per pubblica utilità (in particolare, dei Capi IV, V e VI del d.P.R. n. 327 del 2001), per essere il canone annuale stabilito dal regolamento di gran lunga superiore all’indennità di esproprio prevista per la costituzione di servitù coattive di elettrodotto, nella specie applicata dalla Regione Puglia in sede di rilascio dell’autorizzazione unica, (€. 3,00 al mq una tantum rispetto al canone di minimo €. 16,42 al mq.); 9) violazione dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2011, della direttiva 2009/28/CE, dell’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europa, degli artt. 10 e 13 del Trattato sulla Carta dell’Energia; dei principî di proporzionalità, legittimo affidamento, ragionevolezza e certezza del diritto, eccesso di potere per sviamento, illogicità ed irrazionalità; violazione dei principî comunitari in tema di libera concorrenza e di libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali; dei principi di imparzialità, correttezza e buona amministrazione perchè l’imposizione di sproporzionati limiti e condizioni per la conduzione dell’impianto energetico impedirebbe la massima diffusione degli impianti da energia rinnovabile sul territorio nazionale in contrasto con le indicazioni provenienti da svariate disposizioni nazionali ed euro- unitarie. 2.1. Nella resistenza della Provincia di Foggia, il giudice di primo grado con la sentenza 13 febbraio 2020, n. 244 respingeva il ricorso rinviando alle motivazioni contenute nelle sentenze 169 – 172 del 2020. In tali sentenze (e, in particolare, nella sentenza 4 febbraio 2020, n. 171): - era precisata la diversa natura della C.O.S.A.P. rispetto alla T.O.S.A.P., per essere la prima qualificabile come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), “dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, talchè esso è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare (o eccezionale) che ne trae il singolo” (come da indicazioni della Corte di Cassazione nella sentenza 19 gennaio 2018, n. 1435 e della Corte costituzionale nella sentenza 14 marzo 2008); - la modalità di determinazione della “tariffa base” prevista nel regolamento (“a giorno per categoria di importanza della strada (TB), riportata nella tabella di cui all’art. 28 e applicata nella misura percentuale del 10%” poi “moltiplicata pe il coefficiente di valutazione economica (CE) di cui alla tabella dell’art. 30” e l’importo così ottenuto poi “ulteriormente moltiplicato per il numero dei metri quadrati e successivamente per 365”) era ritenuta conforme alla normativa primaria, vale a dire all’art. 3, comma 149, l. n. 662 del 1996, di delega al legislatore per l’adozione di una legge di revisione della disciplina dei tributi locali e all’art. 63, comma 2, lett. c) d.lgs. n. 446 del 1997 ove erano dettati i criteri dei quali il regolamento provinciale avrebbe dovuto tener conto; - era esclusa la disparità di trattamento con le tariffe applicate per le occupazioni di sottosuolo per attraversamenti di condotta idrica per essere il servizio idrico attinente ad una pubblica funzione essenziale per la vita del territorio, esercitato da enti di natura (formalmente o sostanzialmente) pubblicistica, che non perseguono scopi di carattere lucrativo e privatistico, laddove, invece, le attività delle ricorrente hanno carattere imprenditoriale, come pure era respinta la stima della misura del canone in parallelo con l’indennità di esproprio per la costruzione di servitù di elettrodotto ai fini della realizzazione di impianti alimentati da F.E.R., per essere diverso il quadro normativo di riferimento, detti impianti essendo assentiti mediante rilascio dell’autorizzazione unica sul presupposto della loro pubblica utilità come riconosciuto dalla normativa speciale e conseguente conferimento alle società di uno jus ad servitutem habendam ai sensi del R.d. n. 1775 del 1993 con corresponsione di una indennità (determinata in ragionale solamente “della diminuzione del valore che per la servitù subiscono il suolo e il fabbricato in tutto o in parte”); - sterilizzabile era ritenuto l’argomento della sopravvenuta abnormità del canone in ragione dell’applicazione del regolamento in termini percentuali rispetto all’importo della T.O.S.A.P. precedentemente applicata dall’argomento addotto dalla difesa provinciale per il quale tutti gli operatori del settore energetico avrebbero beneficiato per moltissimi anni di tariffe estremamente favorevoli pari a quelle praticate ai privati per la concessione di accessi e passi carrabili; - meritevole di considerazione era stimato il riferimento al sacrificio per la collettività contenuto nella Relazione allegata al regolamento poiché esattamente collegato alla “significativa manomissione ed agli ingenti interventi realizzati su di un suolo già precario dal punto di vista della viabilità e dell’equilibrio idrogeologico”; - era escluso che l’amministrazione provinciale avesse approfittato dell’indispensabilità del suolo per le imprese al fine di richiedere loro un canone di concessione molto elevato in contrasto con il principio della buona fede, poiché, invece, la risalenza nel tempo della regolamentazione TOSAP e l’evoluzione legislativa (a partire dal 1997) conducevano a ritenere del tutto pronosticabile una riforma radicale della disciplina delle occupazioni di aree pubbliche. 3. Propongono appello l’A.N.E.V. e le altre imprese indicate in epigrafe; si è costituita la Provincia di Foggia. Le parti hanno presentato memorie ex art. 73, comma 1, cod. proc. amm., cui sono seguite rituali repliche. All’udienza del 1° ottobre 2020 la causa è stata assunta in decisione. DIRITTO 1. Con il primo motivo di appello la sentenza di primo grado è censurata per “error in iudicando – carente, erronea, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza appellata, in relazione alle censure articolate in primo grado, da un lato, con il primo, il terzo ed il quinto dei motivi di ricorso; nonché, dall’altro, con il quarto e l’ottavo dei motivi di ricorso”: per respingere la censura di carente istruttoria ai fini della determinazione della “tariffa base”, è parso sufficiente al giudice di primo grado richiamare “il rilievo istruttorio” contenuto nella Relazione dirigenziale sulla necessità di compensare il sacrificio per la collettività collegato alla “significativa manomissione ed agli ingenti interventi realizzati su di un suolo già precario dal punto di vista della viabilità e dell’equilibrio idrogeologico”; a parere degli appellanti, però, era questa una “frase meramente assertiva ed apodittica” inidonea ad assolvere all’onere motivazionale richiesto anche per gli atti regolamentari dalla più recente giurisprudenza (che andrebbe superando, quanto alla necessità della motivazione, il criterio dell’astratta qualificazione dell’atto a favore della rilevanza del contenuto in ragione della specifica funzione amministrativa assegnata all’atto dalla normativa di settore). A parere degli appellanti l’amministrazione provinciale era tenuta a motivare espressamente in ordine ai sei, o meglio sette, parametri previsti dall’art. 63, comma 2, lett. c) d.lgs. n. 446 del 1997 per la determinazione della c.d. tariffa base, anche in ragione della sua natura di corrispettivo che avrebbe imposto un concreto ed effettivo riferimento alla specificità delle attività esercitate dai concessionari e alle reali modalità di occupazione, e, dunque, al sacrificio realmente sopportato dalla collettività, non potendosi ritenere che la sua determinazione fosse rimessa alla libera ed incondizionata discrezionalità dell’amministrazione. 1.1. Da altro punto di vista gli appellanti evidenziano che quell’unico riferimento istruttorio alla necessità di compensare con il canone fortemente maggiorato il sacrificio della collettività per la significativa manomissione e gli ingenti interventi realizzati su di un suolo precario e a rischio idrogeologico era anch’esso del tutto inadeguato, tenendo conto che tutte le concessioni imponevano ai concessionari di provvedere, al termine dei lavori di posa in opera del cavo, all’integrale ripristino della sede stradale interessata dall’occupazione e alla sua manutenzione a pena di decadenza, onde erano già a carico del concessionario tutti gli oneri di manutenzione straordinaria e ordinaria del tratto stradale interessato dall’apposizione del cavo e la Provincia di Foggia non aveva mai contestato alle imprese di non aver correttamente ripristinato e successivamente manutenuto le strade stesse. 1.2. Ad ogni modo, continuano gli appellanti, mancherebbe anche l’esposizione degli elementi fattuali in grado di dimostrare lo stato di dissesto delle strade e, dunque, la necessità di far fronte con la C.O.S.A.P. alle esigenze della viabilità e dell’equilibrio idrogeologico, né la Provincia avrebbe dato conto di aver effettuato specifici accertamenti. Altrettanto irrilevante sarebbe il riferimento all’avvenuto allineamento ai canoni previsti dai regolamenti di altre province (e, precisamente, delle Province di Benevento e di Avellino), considerato che ognuno di essi riflette determinazioni proprie dell’amministrazione adottante in relazione alle specifiche caratteristiche dei territori. 1.3. Lamentano ancora gli appellanti la sproporzione del canone loro imposto rispetto a quello previsto per “attraversamenti di condotta irrigua” e segnalano che il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto compresa in questa voce le strutture in connessione con l’Acquedotto Pugliese, laddove, invece, queste ultime rientrerebbero nell’ambito della voce n. 9 della tabella di pag. 20 riferita alle “occupazioni realizzate da aziende erogatrici di pubblici servizi”. 1.4. Si dolgono, infine, della previsione di un canone minimo annuo, di € 516,46, che prescinde dall’area effettivamente occupata e quindi dal relativo pregiudizio per la viabilità pubblica e rilevano come il canone loro richiesto risulti essere di gran lunga superiore all’indennità di esproprio. 2. Il motivo è infondato e va respinto. 2.1. Le appellanti, in sostanza, reiterano nel presente grado di giudizio l’articolato motivo diretto a censurare il regolamento provinciale per carenza di motivazione: non sarebbe possibile evincere dal testo del regolamento stesso, come dagli atti istruttori che l’hanno preceduto, in che modo l’amministrazione provinciale sia giunta a determinare la “tariffa base” per il calcolo del canone concessorio, ovvero, ancor più chiaramente, come in essa siano confluiti i criteri posti dall’art. 63, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 446 del 1997. 2.2. Si impongono, pertanto, talune brevi considerazioni sul rapporto tra normativa primaria e regolamento, indispensabili per definire la questione dell’obbligo di motivazione dei regolamenti. 2.2.1. La norma primaria che autorizza l’adozione di regolamenti di attuazione e integrazione del suo contenuto fissa modalità e criteri cui l’autorità amministrativa (nel caso di specie, l’ente locale) dovrà attenersi nell’elaborazione della disciplina della fattispecie; dalla larghezza di tali criteri dipende l’ampiezza del potere di scelta rimesso alla normazione secondaria, in ogni caso, però, sulla strada segnata dalla norma primaria le disposizioni regolamentari sono espressione di una scelta connotata da significativi spazi di discrezionalità. 2.2.2. Si spiega, allora, l’esclusione della motivazione per i regolamenti al pari de “gli atti normativi” di cui all’art. 3, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241; i regolamenti partecipano della stessa natura della legge (sono fonti del diritto) e come al legislatore – cui, peraltro, è riconosciuta libertà nel fine – non si domanda spiegazione delle scelte di cui v’è traduzione nelle specifiche disposizioni, poiché esse avvengono a livello politico, allo stesso modo l’ente locale che adotta il regolamento non è tenuto ad un onere motivazionale nell’esercizio della sua discrezionalità in quanto anch’essa collocata ad un livello politico, i regolamenti essendo in effetti deliberati da organi di rappresentanza che esprimono l’indirizzo politico – amministrativo dell’ente. Si aggiunge, poi, che non necessita di puntuale motivazione quell’atto che, contenendo prescrizioni a carattere generale, non decide in concreto dell'assetto degli interessi, ma solo identifica regole suscettibili di successive applicazioni (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 novembre 2016, n. 4794). Le ragioni delle disposizioni regolamentari vanno, dunque, ricavate dal dibattito che ha preceduto l’adozione del regolamento (gli atti interni dell’organo deliberativo) e dagli atti istruttori precedenti la deliberazione e l’onere di motivazione risulta comunque soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte, senza necessità di una puntuale motivazione. 2.2.3. Ciò non significa, peraltro, che la discrezionalità che si invera nelle disposizioni regolamentari – come accade per la legge – sia sottratta ad ogni forma di controllo, ma solo che il controllo è rivolto agli effetti dell’atto, ossia a verificare se le prescrizioni in esso contenute non diano luogo ad effetti discriminatori, irragionevoli o non proporzionati per i suoi destinatari. 2.3. La Provincia di Foggia non era, dunque, tenuta a dar puntualmente conto del percorso logico – argomentativo attraverso il quale era giunta a trasfondere i criteri di cui all’art. 63, comma 2, d.lgs. n. 446 del 1997 nella disposizione regolamentare sulla tariffa base per le occupazioni permanenti di suolo pubblico; la discrezionalità si è tradotta in una cifra – di € 0,68 per l’occupazione del sottosuolo di strade di categoria A e di € 0,45 per quelle di categoria B (categorie determinate sulla base della suddivisione del territorio provinciale con conseguente elenco delle strade appartenenti all’una e all’altra categoria allegato al Regolamento come richiesto dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 63 d.lgs. n. 446) – che costituisce sintesi numerica, oltre che del criterio “dell’entità dell’occupazione, espressa in metri quadrati o lineari”, anche “del valore economico della disponibilità dell’area” e “del sacrificio imposto alla collettività”; quest’ultimo, peraltro, esplicitato nella Relazione del dirigente del Settore gestione del Patrimonio che accompagnava la proposta di delibera nei termini già ampiamente esposti. 2.4. Né, d’altra parte, appaiono convincenti le ragioni di inadeguatezza esposte dalle appellanti, anche a mezzo perizia di parte. È proposto, infatti, un diverso apprezzamento del criterio del “valore economico della disponibilità dell’area” da collegare al reale valore economico dell’area occupata, quale potrebbe trarsi, ad esempio, dal costo di costruzione della strada (oppure dal valore di terreni marginali), ma è di immediata percezione, come evidenziato dalla Provincia nella sua memoria, che ben altro è il valore assunto dalla disponibilità dell’area per le imprese appellanti, considerato che l’occupazione del sottosuolo per il passaggio di cavidotti, come anche l’apertura di accessi funzionali al collegamento degli impianti alla rete elettrica nazionale, è imprescindibile per l’esercizio della loro attività di impresa, per cui la concessione di occupazione di suolo pubblico costituisce un asset essenziale per le imprese che operano del settore della produzione dell’energia eolica. 2.5. Non meritano miglior sorte le critiche all’esplicazione del criterio “del sacrificio imposto alla collettività” per l’asserita completa assenza di sacrificio, in quanto limitato al tempo strettamente necessario per l’attività di posa in opera di cavo elettrico nel sottosuolo, come pure per l’obbligo imposto a tutti i concessionari di provvedere alla manutenzione della sede stradale. La Provincia ha ben spiegato nella sua memoria l’incidenza nel tempo delle attività di escavazione del sottosuolo sull’intero ordito strutturale della strada nei suoi vari strati, senza considerare che le manomissioni riguardano inevitabilmente non solo le strade in cui sono interrati i cavi o aperti accessi, per le quali potrebbe valere il predetto obbligo manutentivo, ma tutto l’impianto viario provinciale. 2.6. Il diverso coefficiente previsto per gli attraversamenti di condotta irrigua è giustificato dalla tipologia degli imprenditori che di esso si servono – piccoli imprenditori agricoli per le esigenze di aziende normalmente di modeste dimensioni – come pure dalle modalità con le quali avviene l’occupazione del sottosuolo, mediante trivellazione per passaggio di singolo tubo in senso trasversale alla sede stradale. La comparazione con la misura dell’indennità di esproprio è impropria per la diversa funzione del canone concessorio – che si vuol sinallagmatico rispetto al godimento del sottosuolo consentito dall’ente – e dell’indennità di esproprio, compensativa del sacrificio imposto al privato per la perdita della proprietà in virtù dell’atto ablatorio. 2.7. La Provincia ha, altresì, precisato che il canone annuo di € 516,46 è riferito dall’ultimo periodo dell’art. 27 del regolamento alle occupazioni realizzate da “Aziende erogatrici di pubblici servizi” delle quali, in effetti, tratta il periodo immediatamente precedentemente del medesimo articolo; esso, pertanto, non riguarda le odierne appellanti. 3. Con altro motivo di appello la sentenza di primo grado è contestata per “error in iudicando – omessa o, comunque, carente, erronea ed illogica motivazione della sentenza appellata, in relazione alle censure articolate in primo grado, con il secondo, il settimo, il sesto ed il nono motivo di ricorso”. 3.1. Gli appellanti si dolgono che il giudice di primo grado per il carattere imprenditoriale dell’attività di produzione e trasporto di energia elettrica da fonti rinnovabili abbia ritenuto inapplicabili le agevolazioni nella determinazione del canone concessorio previste dall’art. 63, comma 2, lett. e) d.lgs. n. 446 del 1997; a loro parere, sebbene non qualificabili come “servizio pubblico”, nondimeno sarebbero attività “di interesse pubblico” alla luce della normativa interna e comunitaria, le quali da tempo si prefiggono lo scopo di migliorare le condizioni di compatibilità ambientale nella produzione dell’energia e, per questo, incentivano, tra le altre, l’utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia. In particolare, decisivo rilievo avrebbe l’art. 1, comma 4, l. n. 10 del 1991 che espressamente definisce l’utilizzazione delle fonti di energia rinnovabili come “di pubblico interesse” e l’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 387 del 2003 che qualifica le opere per la realizzazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili “di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti”. 3.2. Il giudice di primo grado sarebbe incorso poi in omissione di pronuncia non avendo dato risposta alle censure (contenute nel settimo motivo di ricorso) di sviamento di potere per aver la Provincia preso di mira i soli operatori del settore di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile, i quali si ritroveranno a dover corrispondere un canone fortemente aumentato rispetto alla precedente tassa. Tale conclusione sarebbe avvalorata – oltre che dal metodo di calcolo della tariffa che appare privo di razionalità come pure dalle migliori condizioni previste per le occupazioni del sottosuolo per “attraversamenti di condotta irrigua” – specialmente dalle dichiarazioni rese agli organi di stampa dal Presidente della Provincia di Foggia che avrebbe rimarcato proprio la volontà di “reperire nuove risorse economiche per la Provincia di Foggia” aumentando “…questa tassa non ai poveri ma ai ricchi”. 3.3. Lamentano ancora gli appellanti che il giudice di primo grado abbia risolto con “frasi meramente assertive, apodittiche e finanche eccentriche” la questione della lesione del loro affidamento sulla remuneratività dell’investimento alla luce dei costi di costruzione ed esercizio dell’impianto da realizzare come valutati al momento della costruzione dell’impianto per l’improvviso e inaspettato mutamento delle condizioni del rapporto concessorio, tanto più che la localizzazione nel sottosuolo degli elettrodotti interrati a servizio degli impianti era prescritta delle autorizzazioni uniche rilasciate dalle amministrazione preposte alla tutela ambientale in quanto meno impattante, onde alle imprese non era data l’alternativa, ipotizzata dal tribunale, di interramento del cavo sul terreno agricolo. 3.4. Con ultima censura è rilevata una ulteriore omissione di pronuncia per non aver il giudice di primo grado esaminato il contrasto del regolamento con i principi comunitari e nazionali in materia di realizzazione di impianti alimentati da fonti energetiche rinnovabili; detti principi non solo vieterebbero l’introduzione di disposizioni peggiorative, idonee a ledere l’affidamento e la certezza del diritto, ma imporrebbero anche che il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione e all’esercizio degli impianti avvenga in maniera “obiettiva, trasparente, non discriminatoria e proporzionata”, evitando “oneri inutili”, mentre le disposizioni regolamentari impugnate, lungi dall’incentivare lo sviluppo degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, introdurrebbero nuovi, illegittimi e immotivati limiti alla loro realizzazione. 4. Il motivo è infondato in tutte le censure in cui è articolato. 4.1. Quanto alla prima censura (sul mancato riconoscimento delle misure agevolative) valgono le seguenti considerazioni. L’art. 63, comma 2, lett. e) d.lgs. n. 446 del 1997 prescrive all’ente locale di prevedere “speciali agevolazioni per occupazioni ritenute di particolare interesse pubblico e, in particolare, per quelle aventi finalità politiche ed istituzionali”. La Provincia ha dato attuazione alla norma primaria riconoscendo un regime agevolato nella determinazione del canone concessorio alle sole attività “di erogazione di pubblici servizi”; la scelta, espressione di valutazione discrezionale in ordine alle attività ritenute dall’ente connotate da una stretta – la norma primaria parla in effetti di “particolare” – attinenza con l’interesse pubblico, risulta ragionevole e non discriminatoria. Come, infatti, l’attività di produzione e trasporto di energia elettrica da fonti rinnovabili, molte altre attività private (svolte mediante l’utilizzo di suolo pubblico) di erogazione di prestazioni a servizio della collettività potrebbero ritenersi caratterizzate da profili di interesse pubblico, onde una maggiore apertura in sede regolamentare avrebbe condotto ad ampliare eccessivamente i beneficiari di un canone agevolato, ben al di là delle indicazioni provenienti dalla disciplina legislativa. Posta la premessa di cui sopra, è sufficiente poi richiamare i passaggi della Relazione allegata alla delibera in cui sono chiarite le ragioni per le quali le imprese che svolgono attività di produzione e trasporto di energia prodotta da fonti energetiche rinnovabili non rientrano tra gli esercenti attività di erogazione di pubblici servizi; nel primo caso, infatti, si è in presenza di un’attività che si pone come presupposto della successiva attività di erogazione del servizio di energia. L’agevolazione presuppone, dunque, dal punto di vista soggettivo, che il soggetto occupante le aree pubbliche svolga attività di erogazione dei pubblici servizi (ovvero attività agli stessi strumentali) e, dal punto di vista oggettivo, che l’attività di erogazione sia in atto, posto che il canone va commisurato al numero delle utenze (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3810). 4.2. Circa lo sviamento asseritamente perpetrato con l’incremento del canone (seconda censura contenuta nel presente motivi di appello), va detto che dalla stessa legge delega (art. 3, comma 149, lett. h), della legge n. 662 del 1996) si ricava l’indicazione della determinazione del canone in applicazione del principio solidaristico – che porta, inevitabilmente, a richiedere maggior contribuzione a chi trae più intenso vantaggio (evidentemente economico) dall’utilizzo della risorsa pubblica – come pure l’affermazione delle esigenze di bilancio come parametro determinante la tariffa, specie in funzione della manutenzione del patrimonio stradale (si fa riferimento infatti ad un canone determinato “secondo una tariffa che tenga conto, oltre che delle esigenze del bilancio, del valore economico della disponibilità dell’area in relazione al tipo di attività per il cui esercizio l’occupazione è concessa, del sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico dell’area stessa, e dell’aggravamento degli oneri di manutenzione derivante dall’occupazione del suolo e del sottosuolo”). Le dichiarazioni del Presidente della Provincia di Foggia – depurate della valenza politica – danno atto delle scelte effettuate che risultano, come detto, pienamente legittime. 4.3. Anche la terza censura, con cui è riproposta la violazione dell’affidamento degli operatori nella conservazione per tutta la sua durata del rapporto concessorio alle condizioni presenti al suo avvio, va disattesa. Occorre tener conto, infatti, che negli atti concessori era espressamente prevista la possibile riparametrazione delle modalità di calcolo del canone con effetti di integrazione – sostituzione delle originarie clausole (si legge al punto 17: “Ogni eventuale variazione che potrà intervenire successivamente circa l’ammontare delle somme in questione sarà automaticamente estesa alla presente concessione”). Va aggiunto, poi, che un rapporto amministrativo di così lunga durata come quello insorto per effetto degli atti concessori di cui si discute, è necessariamente esposto allo ius superveniens (come pure, evidentemente, alle sopravvenienze fattuali) e che questo possa, a partire dalla sua adozione, prevedere profili di disciplina innovativi immediatamente applicabili (essendo, per comune principio, sottratti alla disciplina normativa sopravvenuta solamente i rapporti esauriti); nel caso di specie, peraltro, i concessionari erano pienamente a conoscenza della possibilità che la Provincia avrebbe potuto procedere alla sostituzione della T.O.S.A.P. con la C.O.S.A.P. essendo stata la norma primaria emanata nel 1997. Considerato, poi, che il nuovo regolamento, approvato con la delibera consiliare n. 44 del 19 novembre 2018 (pubblicata nell’albo pretorio dell’amministrazione dal 27 novembre 2018 al 12 dicembre 2018), applicabile ai sensi dell’art. 44 anche alle concessioni in corso, è efficace a fare tempo dal 2019, è possibile escludere ogni portata retroattiva per le annualità pregresse. 4.4. Quanto alla violazione dei principi comunitari in materia di fonti rinnovabili è sufficiente evidenziare come le prescrizioni sulla modalità di determinazione del canone concessorio per l’occupazione del suolo pubblico è aspetto del tutto estraneo alla disciplina di derivazione euro - unitaria e attinente, piuttosto, all’organizzazione dei servizi amministrativi, rimessa, in via di principio, all’autonomia del singolo Stato. Va aggiunto, infine, che il considerando 62 della dir. 2009/28/Ce, nella parte in cui tratta dei “costi di connessione” che vuole “oggettivi, trasparenti e non discriminatori” si riferisce al costo di accesso alla rete per il produttore di energia; onere ben diverso da quello del canone concessorio, del quale, come detto, la normativa europea non si occupa espressamente. 5. In conclusione, l’appello va respinto e la sentenza di primo grado integralmente confermata. 6. La complessità delle questioni poste con i motivi di appello giustificano la compensazione delle spese anche del presente grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella, Presidente Federico Di Matteo, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Alberto Urso, Consigliere Elena Quadri, Consigliere Francesco Caringella, Presidente Federico Di Matteo, Consigliere, Estensore Stefano Fantini, Consigliere Alberto Urso, Consigliere Elena Quadri, Consigliere IL SEGRETARIO
Concessione amministrativa – Aree pubbliche – Regolamento comunale – Disciplina del pagamento per occupazione suolo pubblico – Motivazione – Non occorre.      Il Regolamento comunale che dispone che le concessioni per l’occupazione di spazi e aree pubbliche sono assoggettate al pagamento di un canone (la C.O.S.A.P.) e non più al pagamento di tassa (T.O.S.A.P.) e indica le modalità di calcolo del canone non deve essere motivato (1).    (1) La Sezione ha principiato sul rapporto tra normativa primaria e regolamento, indispensabili per definire la questione dell’obbligo di motivazione dei regolamenti. La norma primaria che autorizza l’adozione di regolamenti di attuazione e integrazione del suo contenuto fissa modalità e criteri cui l’autorità amministrativa dovrà attenersi nell’elaborazione della disciplina della fattispecie; dalla larghezza di tali criteri dipende l’ampiezza del potere di scelta rimesso alla normazione secondaria, in ogni caso, però, sulla strada segnata dalla norma primaria le disposizioni regolamentari sono espressione di una scelta connotata da significativi spazi di discrezionalità. Si spiega, allora, l’esclusione della motivazione per i regolamenti al pari de “gli atti normativi” di cui all’art. 3, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241; i regolamenti partecipano della stessa natura della legge (sono fonti del diritto) e come al legislatore – cui, peraltro, è riconosciuta libertà nel fine – non si domanda spiegazione delle scelte di cui v’è traduzione nelle specifiche disposizioni, poiché esse avvengono a livello politico, allo stesso modo l’ente locale che adotta il regolamento non è tenuto ad un onere motivazionale nell’esercizio della sua discrezionalità in quanto anch’essa collocata ad un livello politico, i regolamenti essendo in effetti deliberati da organi di rappresentanza che esprimono l’indirizzo politico – amministrativo dell’ente. Si aggiunge, poi, che non necessita di puntuale motivazione quell’atto che, contenendo prescrizioni a carattere generale, non decide in concreto dell'assetto degli interessi, ma solo identifica regole suscettibili di successive applicazioni (cfr. Cons. St., sez. V, 17 novembre 2016, n. 4794).  Le ragioni delle disposizioni regolamentari vanno, dunque, ricavate dal dibattito che ha preceduto l’adozione del regolamento (gli atti interni dell’organo deliberativo) e dagli atti istruttori precedenti la deliberazione e l’onere di motivazione risulta comunque soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte, senza necessità di una puntuale motivazione. Ciò non significa, peraltro, che la discrezionalità che si invera nelle disposizioni regolamentari – come accade per la legge – sia sottratta ad ogni forma di controllo, ma solo che il controllo è rivolto agli effetti dell’atto, ossia a verificare se le prescrizioni in esso contenute non diano luogo ad effetti discriminatori, irragionevoli o non proporzionati per i suoi destinatari.  ​​​​​​​Passando al caso all’esame della Sezione, l’Amministrazione non è, dunque, tenuta a dar puntualmente conto del percorso logico – argomentativo attraverso il quale ha trasfuso i criteri di cui all’art. 63, comma 2, d.lgs. n. 446 del 1997 nella disposizione regolamentare sulla tariffa base per le occupazioni permanenti di suolo pubblico; la discrezionalità si è tradotta in una cifra (di € 0,68 per l’occupazione del sottosuolo di strade di categoria A e di € 0,45 per quelle di categoria B: categorie determinate sulla base della suddivisione del territorio provinciale con conseguente elenco delle strade appartenenti all’una e all’altra categoria allegato al Regolamento come richiesto dalla lett. b) del comma 2 dell’art. 63 d.lgs. n. 446) che costituisce sintesi numerica, oltre che del criterio “dell’entità dell’occupazione, espressa in metri quadrati o lineari”, anche “del valore economico della disponibilità dell’area” e “del sacrificio imposto alla collettività”. 
Concessione amministrativa
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/intervento-per-la-prima-volta-nel-giudizio-di-appello-permesso-di-costruire-per-pluralit-c3-a0-di-manufatti-non-parcellizzabili
Intervento per la prima volta nel giudizio di appello - Permesso di costruire per pluralità di manufatti non parcellizzabili
N. 08425/2021REG.PROV.COLL. N. 07042/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7042 del 2020, proposto dalla Talea Società di Gestione Immobiliare S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Luigi Cocchi, Alessandro Ghibellini, Stefano Ghibellini e Franco Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello, 55, contro - i signori Ramon Bernardini, Antonio Caneri, Andrea Garibbo, Alberto Francini, l’impresa Autoservice di Lanati Alberto, la società M.T.C. di Lombardi Tiziano & C. S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore, il signor Giuseppe Lupoli, la società Silvaggio e Marchetti S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore e la società Emmevi di Moretti Andrea e Vico Stefania S.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’avvocato Daniele Granara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del difensore in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 154/3; - il Comune di Sarzana, rappresentato e difeso dall’avvocato Fabio Cozzani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia; - l’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino settentrionale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; e con l'intervento di ad opponendum:della società SIRTAM S.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Alberto Caretti e Riccardo Tagliaferri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Tagliaferri in Roma, via Bisagno, 14; per la riforma, previa sospensione della sentenza del T.A.R. Liguria, sez. II, 7 luglio 2020, n. 467, che ha accolto il ricorso n. 182/2020 R.G. proposto per l’annullamento: a) della determinazione 17 febbraio 2020, n. 79, conosciuta in data imprecisata, con la quale il Dirigente dello Sportello unico attività produttive – SUAP del Comune di Sarzana ha emesso il “Provvedimento conclusivo del procedimento SUAP 13/2014 – riedizione titoli autorizzatori per la realizzazione di impianto di distribuzione carburanti benzina/gasolio/GPL in via Variante Aurelia – via del Corso – società richiedente Talea Società di gestione immobiliare S.p.a.”; di ogni atto preparatorio, presupposto, inerente, conseguente ovvero comunque connesso, e in particolare: b) del parere dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino settentrionale 18 settembre 2019, prot. n. 36228/2019; c) del permesso di costruire n. 35/2019; nonché per la condanna dell’amministrazione intimata e della controinteressata al risarcimento del danno. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti suindicate; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 28 ottobre 2021, il Cons. Francesco Gambato Spisani e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I ricorrenti appellati sono tutti imprenditori del settore, e gestiscono in Comune di Sarzana altrettanti distributori di carburante (fatto pacifico in causa). 2. Come tali, hanno impugnato in primo grado gli atti meglio indicati in epigrafe, con i quali il Comune ha autorizzato la costruzione di un nuovo distributore, gestito dalla controinteressata appellata (doc. 1 appellante, provvedimento 17 febbraio 2020, n. 79, che cita gli altri atti indicati). 3. Le vicende che hanno portato ad autorizzare l’impianto in questione vanno riassunte per chiarezza, così come segue. 3.1. Il terreno di proprietà della controinteressata appellante sul quale l’impianto dovrebbe essere realizzato si trova nella zona commerciale di Sarzana, ed è classificato come terreno a rischio idrogeologico dal Piano stralcio redatto dall’Autorità di bacino del fiume Magra, ora Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino settentrionale. Per la precisione, gran parte dell'area del nuovo distributore è classificata come PI4A (allagamenti con tempo di ritorno – Tr = 30 anni), una piccola striscia è classificata come PI3A (allagamenti per Tr = 200 anni a maggiore pericolosità relativa), mentre la parte più a nord risulta essere PI3B (allagamenti per Tr = 200 anni a minore pericolosità relativa). In particolare ricade in area PI3B gran parte del fabbricato denominato “box gestore”, mentre tutto il resto delle opere ricade in area PI4A e PI3A (doc. 4 appellante, verificazione disposta nel precedente giudizio n. 4145/2017 R.G. di questo Giudice; si tratta comunque di fatti storici non contestati). 3.2. Il regime urbanistico-edilizio delle zone classificate come si è detto è poi previsto dal Piano stralcio di assetto idrogeologico, e in particolare dall’art. 19 delle norme tecniche di attuazione - NTA di esso, trattandosi (fatto non contestato) di “porzioni di territorio nelle quali siano stati perimetrati gli ambiti normativi delle aree inondabili”, di cui al precedente art. 14, comma 3, delle NTA in questione. 3.3. Nelle aree PI4A, “sono consentiti gli interventi di cui all’art. 18 comma 2”, che per quanto qui interessa non comprendono le nuove edificazioni; sono però possibili, in forza del richiamo che l’art. 18, comma 2, fa al precedente art. 17, e senza il parere dell’Autorità di bacino “interventi non qualificabili come volumi edilizi ai fini delle presenti norme, quali recinzioni largamente permeabili, tettoie, pali, tralicci, serre di tipo a ‘tunnel’ senza fondazioni continue”. 3.4. Nelle aree PI3A, sono consentiti, sempre per quanto qui interessa, oltre agli interventi possibili nelle aree PI4A, anche gli interventi di nuova costruzione, ma con tutta una serie di cautele. In primo luogo, le condizioni sono quelle di cui all’art. 18, comma 3, lettera b), ovvero si richiede il “previo parere obbligatorio e vincolante del Comitato tecnico dell’Autorità di bacino” a condizione che gli interventi da realizzare “a seguito di adeguate analisi tecnico-idrauliche: 1) interessino aree classificabili a minor pericolosità in relazione a modesti tiranti idrici e a ridotte velocità di scorrimento rispetto ad eventi con tempi di ritorno T=200 anni, secondo i parametri individuati nell’Allegato n. 8; 2) prevedano le opportune misure od accorgimenti tecnico-costruttivi per la protezione passiva dagli eventi di inondazione finalizzati al non aumento del rischio attuale di cui all’allegato n. 10: 3) non concorrano ad aumentare il livello attuale di pericolosità e di rischio nell’area di interesse né nelle aree limitrofe, a monte e a valle”. In aggiunta, l’art. 19 richiede che si proceda “a seguito di valutazioni di maggior dettaglio, finalizzate a verificare le specifiche condizioni dell’area e la possibilità di adozione di accorgimenti e/o misure per la mitigazione del rischio, eventualmente connessi ad altri interventi locali in grado di riportare le condizioni di pericolosità e di rischio a livelli compatibili con la nuova edificazione, senza aggravio nelle aree limitrofe”. 3.5. Sempre per quanto qui interessa, gli interventi di nuova costruzione sono possibili anche nelle aree PI3B, e in questo caso a condizioni meno rigorose, perché non è richiesto il parere dell’Autorità di bacino. Deve invece attivarsi il Comune, che “nell’ambito dei propri atti istruttori ed autorizzativi, verifica le specifiche condizioni di pericolosità dell’area, attraverso gli studi disponibili presso l’Autorità di bacino e/o valutazioni di maggior dettaglio, anche al fine della definizione degli adeguati misure ed accorgimenti tecnico-costruttivi di cui all’allegato n. 10”. 3.6. Dall’art. 19, si deve infine ritenere richiamata la previsione generale dell’art. 18, comma 1, del Piano, per cui: “Qualsiasi intervento realizzato nelle aree inondabili deve prevedere l’assunzione delle azioni e misure di protezione civile di cui ai Piani comunali di settore, non deve pregiudicare la sistemazione definitiva del corso d’acqua, né aumentare significativamente la pericolosità di inondazione ed il rischio connesso, sia localmente, sia a monte sia valle, e non deve costituire significativo ostacolo al deflusso delle acque di piena o ridurre significativamente la capacità di invaso delle aree stesse” (doc. 5 appellanti, estratto delle NTA di Piano). 3.7. Tutto ciò posto, il Comune aveva rilasciato alla controinteressata appellante un primo permesso di costruire per il distributore in questione, il permesso 5 gennaio 2017, n. 11, impugnato dagli attuali appellati con ricorso di primo grado accolto dal TAR Liguria con sentenza 25 maggio 2017, n. 460. La controinteressata aveva impugnato questa sentenza con l’appello n. 4145/2017 R.G. di questo Consiglio, e nel corso del relativo processo era stata disposta la verificazione sul regime idraulico dei terreni prodotta in questo processo come il doc. 4 appellante citato. Sempre nel corso del procedimento n. 4145/2017, era stato rilasciato il parere favorevole dell’Autorità di bacino di cui in epigrafe, sulla base del quale il Comune aveva rilasciato i titoli autorizzativi impugnati in questa sede. Il procedimento n. 4145/2017 si era quindi concluso con sentenza di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della Sezione 3 marzo 2020, n. 1556, ed il contenzioso era proseguito con l’impugnazione in primo grado dei nuovi titoli rilasciati, per cui appunto ora è processo. 4. Con la sentenza pure indicata in epigrafe, il TAR ha appunto accolto il predetto ricorso contro i nuovi titoli autorizzativi del distributore e annullato gli atti impugnati. In motivazione, ha in sintesi osservato che l’intervento attraverso il quale si intende costruire l’impianto va considerato come un tutto unitario, e non parcellizzato nelle singole strutture di cui esso si compone, e quindi costituisce una nuova costruzione; ciò posto, ha rilevato che esso non è realizzabile come tale perché le nuove costruzioni sul terreno ove esso deve sorgere sono vietate dalla classificazione, come si è visto non controversa in causa, che ne fa il predetto Piano di assetto idrogeologico come zone PI4A, PI3A ovvero PI3B, con le caratteristiche appena descritte. 5. In dettaglio, il TAR in ordine logico ha motivato così come segue. 5.1. In primo luogo, ha ritenuto che l’impianto per cui è causa, in quanto “opera di urbanizzazione secondaria complementare al servizio della circolazione stradale” rappresenti una nuova costruzione ai sensi del T.U. 6 giugno 2001, n. 380. 5.2. Ciò posto, ha richiamato l’art. 5, comma 9, ultima parte, delle NTA di Piano (cfr. sempre doc. 5 appellante), secondo cui “i divieti ed i limiti delle misure stesse vanno riferiti alla natura sostanziale dell’intervento, a prescindere dalla categoria in cui gli stessi sono ascritti in base ai singoli strumenti urbanistici”. 5.3. Su queste premesse, ha ritenuto che l’intervento per cui è causa, unitariamente inteso, non possa essere realizzato anzitutto in base alle prescrizioni della zona PI4A, in cui ricade la maggior parte di esso, prescrizioni che, come si è visto, non ammettono le nuove costruzioni, neanche se si tratti di una nuova costruzione finalizzata ad un servizio di pubblico interesse, perché per i servizi sono consentiti solo “l’adeguamento e la ristrutturazione delle reti dei trasporti e delle reti e degli impianti dei servizi esistenti, pubblici o di interesse pubblico, non delocalizzabili”, come da art. 17 delle NTA, richiamato dall’art. 19 citato. 5.4. Ha poi ritenuto che l’intervento per cui è causa non possa essere realizzato nemmeno in base alle prescrizioni della zona PI3, che consente le nuove costruzioni solo se non aumentino il rischio idraulico. La verificazione citata ha infatti affermato che, ove l’impianto venisse realizzato, il rischio in questione aumenterebbe, dato che il sedime dell’impianto, per forza di cose, verrebbe frequentato da un numero di persone superiore all’attuale. 5.5. Ha quindi considerato illegittimo il parere dell’Autorità di bacino, che considera come nuova costruzione il solo box gestore, isolatamente considerato, e lo considera assentibile perché sito in zona di minore pericolosità; considera poi le residue parti del distributore come opere isolate ammissibili ai sensi dell’art. 17 perché si tratterebbe di “interventi non qualificabili come volumi edilizi”. 5.6. Il TAR ha quindi accolto la domanda di annullamento, e respinto quella risarcitoria, perché generica. 6. Contro questa sentenza, la controinteressata ha proposto impugnazione, con appello che contiene tre censure, riconducibili ad un unico motivo di travisamento del fatto, in cui sostiene, in sintesi estrema, che la parcellizzazione dell’impianto sarebbe ammissibile, e quindi che esso si potrebbe realizzare, dato che le sue singole parti rientrano fra i manufatti consentiti dal Piano nella zona e il ritenuto aumento del rischio idraulico non vi sarebbe, da un lato perché non verrebbe mutata la destinazione di zona, dall’altro perché il progetto prevede misure di mitigazione del rischio stesso, ritenute idonee. 7. I ricorrenti hanno resistito con atto 7 ottobre, ricorso incidentale 8 ottobre e memoria 9 ottobre 2020, in cui ripropongono il motivo di ricorso respinto, secondo il quale essi avrebbero dovuto ricevere l’avviso di inizio procedimento, e chiedono che l’appello sia a sua volta respinto. 8. Con memoria 12 ottobre 2020, la controinteressata appellante ha chiesto la reiezione dell’appello incidentale, e insistito per la tutela cautelare; 9. Con atto 12 ottobre 2020, ha fatto intervento in causa certa SIRTAM, società che gestisce un distributore di carburante in un comune vicino, ed ha chiesto a sua volta che l’appello sia respinto; 10. Si è costituita con atto 14 ottobre 2020 anche l’Autorità di bacino, ed ha chiesto che l’appello sia accolto, ritenendo, nei termini spiegati, coerenti con il parere in precedenza espresso, che unico manufatto qualificabile come nuova costruzione sia il box gestore, considerato come elemento a sé stante, il quale insiste su un terreno sul quale le nuove costruzioni sono consentite. 11. Alla camera di consiglio del giorno 15 ottobre 2020, la causa è stata rinviata al merio su accordo delle parti. 12. Con atto depositato il giorno 6 novembre 2020, l’Autorità ha proposto appello incidentale, con atto che contiene un unico motivo, di contenuto sostanzialmente identico a quello dedotto con l’appello principale. 13. Con memorie 17 maggio e repliche 27 maggio 2021 per l’appellante e gli appellati, e con replica 26 maggio 2021 per l’interveniente, le parti hanno insistito sulle rispettive loro posizioni. In particolare, l’appellante ha eccepito l’inammissibilità dell’intervento, come proposto da un soggetto che avrebbe a sua volta dovuto impugnare tempestivamente in primo grado gli atti impugnati per cui è causa. 14. Con atto 20 settembre 2021, il Comune si è costituito, chiedendo che l’appello sia accolto. 15. Con memoria 27 settembre 2021, l’appellante ha ribadito ancora una volta le proprie tesi. 16. Alla pubblica udienza del giorno 28 ottobre 2021, la Sezione ha trattenuto il ricorso in decisione. 17. Preliminarmente, va dichiarato inammissibile l’intervento in causa proposto dalla società SIRTAM nei termini di cui sopra. 17.1. In termini generali, come chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio, per valutare la legittimazione di un dato soggetto a proporre intervento per la prima volta nel giudizio di appello occorre avere riguardo alla posizione che quel soggetto avrebbe assunto se avesse proposto l’intervento stesso in primo grado. Di conseguenza, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione, ovvero come in questo caso dal controinteressato, l’intervento in appello incontra gli stessi limiti di un intervento ad adiuvandum del ricorrente proposto nel primo grado di giudizio. 17.2. Un intervento in primo grado di questo tipo presuppone poi, come è noto, la titolarità di una posizione giuridica dipendente e accessoria rispetto a quella dedotta dal ricorrente, e non una posizione autonoma. L’interveniente ad adiuvandum titolare di posizione autonoma avrebbe infatti dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo con un ricorso autonomo, e se non lo ha proposto nel relativo termine di decadenza, non ne può eludere l’inosservanza con l’intervento stesso proposto in un momento successivo. 17.3. Lo stesso principio vale per l’intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio rispetto all’appello dell’Amministrazione o del controinteressato, intervento che corrisponde appunto al non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma: nei termini, per tutte, C.d.S. sez. III, 9 febbraio 2021, n. 1230, e 14 dicembre 2016, n. 5268. 17.4. Ciò premesso, la posizione fatta valere dalla SIRTAM è una posizione autonoma rispetto a quella fatta valere dai ricorrenti in primo grado, e non una posizione in qualche modo da essa dipendente. La SIRTAM stessa infatti afferma di essere, così come tutti i ricorrenti in primo grado, gestore di un proprio distributore di carburanti, e di temere, in sintesi, un pregiudizio dall’apertura dell’impianto progettato dalla controinteressata. È quindi del tutto evidente che, per opporvisi, avrebbe dovuto proporre, al pari dei ricorrenti in primo grado, un autonomo ricorso contro i provvedimenti che assentiscono l’impianto da lei avversato. 18. In ordine logico, va poi esaminato l’appello incidentale proposto dai ricorrenti in primo grado, che è infondato e va respinto, per le ragioni di seguito esposte. 18.1. Come si è detto, i ricorrenti in primo grado appellanti incidentali lamentano il mancato avviso dell’inizio del procedimento, a loro avviso dovuto nei loro confronti sulla base della norma generale dell’art. 7 della l. n. 241/1990, che si riporta per chiarezza: “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l’avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall’articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l’amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell’inizio del procedimento.” La norma in questione, va premesso, è sempre stata interpretata dalla giurisprudenza di questo Giudice in modo da conciliare la partecipazione degli amministrati con le esigenze di celerità e non aggravamento del procedimento amministrativo, valori che ricevono entrambi tutela costituzionale come aspetti del principio di buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost. 18.2. In questi termini, si è allora ritenuto che l’avviso di inizio del procedimento sia dovuto soltanto ai soggetti rispetto ai quali il provvedimento finale produce effetti diretti, intesi come ampliamento o restrizione rilevante in termini giuridici della propria sfera, e non come effetti di mero fatto; allo stesso modo, il “pregiudizio” considerato dalla seconda parte della norma deve essere un pregiudizio giuridicamente rilevante e in qualche misura certo, non soltanto ipotetico ed eventuale, e ciò va apprezzato prima ancora che si ponga la questione ulteriore della possibilità di individuare gli interessati: così per tutte C.d.S., sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 7017, ove riferimenti ulteriori. 18.3. Applicando il principio esposto al caso di specie, è allora evidente che il pregiudizio lamentato dai ricorrenti di primo grado, in sintesi una possibile contrazione del loro giro di affari dovuta all’apertura di un impianto concorrente è anzitutto un pregiudizio di fatto, e non un pregiudizio giuridicamente rilevante, dato che la concorrenza, se attuata in modo legittimo, è del tutto lecita, ed anzi incentivata dall’ordinamento nazionale ed europeo; si tratta poi di un pregiudizio ipotetico, dato che il successo commerciale dell’impianto concorrente, ove autorizzato e reso attivo, non è scontato e dipende da fattori imponderabili. Di conseguenza, l’avviso di inizio del procedimento non era in questo caso dovuto. 19. Sempre in ordine logico, va ora esaminato l’appello principale, che nell’unico motivo di cui consta è a sua volta infondato e va respinto. 19.1. Ad avviso del Collegio, è necessario partire da un dato fondamentale, già correttamente apprezzato dal giudice di primo grado: l’intervento urbanistico edilizio come tale non è parcellizzabile, nel senso che la legittimità di un dato intervento di realizzazione di opere va apprezzata guardandolo nel suo complesso, e non considerando separatamente le singole parti che lo compongono: in tal senso la costante giurisprudenza, per tutte C.d.S., sez. IV, 12 giugno 2020, n. 3433, e sez. VI, 8 maggio 2018, n. 2738. Si noti poi che coerente con questa impostazione è il citato art. 5, comma 9, ultima parte, delle NTA di Piano (doc. 5 appellante cit.), secondo cui come si è visto “i divieti ed i limiti delle misure stesse vanno riferiti alla natura sostanziale dell’intervento” e quindi non ad una sua artificiosa scissione. 19.2. Ne consegue, ai fini del decidere, che nel caso di specie ci si trova di fronte ad una stazione di servizio, intesa come unico impianto, e non, in ipotesi, alla semplice giustapposizione di un box, delle pensiline, delle pompe e delle altre attrezzature che la compongono. Rispetto quindi all’unico manufatto “stazione di servizio” è corretta l’affermazione del giudice di primo grado, ovvero che si tratta di un’opera di urbanizzazione secondaria che integra una nuova costruzione e come tale va assentita con permesso di costruire, dato che essa, con tutta evidenza, incrementa il carico urbanistico sull’area. 19.3. La nuova costruzione in parola, tuttavia, non poteva essere assentita sul terreno per cui è causa, per le ragioni ancora una volta correttamente individuate dal giudice di primo grado e sopra esposte. In primo luogo, e ciò basterebbe, perché la maggior parte dell’impianto vi ricade, nelle zone classificate PI4A le nuove costruzioni non sono in generale ammesse, e un nuovo distributore di carburanti non rientra nel concetto di “adeguamento e … ristrutturazione delle reti” di servizi per cui è possibile la deroga, dato che all’evidenza “adeguare” ovvero “ristrutturare” presuppone che si intervenga su qualcosa che già esiste. In secondo luogo, la costruzione non poteva essere assentita nemmeno nelle zone classificate PI3A ovvero PI3B, in cui le nuove costruzioni sono fra l’altro subordinate al non aumento del rischio idraulico: è altrettanto evidente, come osserva il giudice di primo grado, che se un’area libera viene occupata da un nuovo impianto al servizio del pubblico, il rischio invece aumenta, perché vi è un’aumentata frequentazione dell’area stessa. 20. La reiezione dell’appello principale comporta la reiezione anche dell’appello incidentale proposto dall’Autorità di bacino, che come si è detto ha lo stesso contenuto. 21. La complessità della controversia e la reciproca soccombenza sono giusto motivo per compensare per intero fra tutte le parti le spese di questo grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 7042/2020), così provvede: a) dichiara inammissibile l’intervento in causa proposto dalla SIRTAM S.p.a.; b) respinge l’appello incidentale proposto dai signori Ramon Bernardini, Antonio Caneri, Andrea Garibbo, Alberto Francini, Alberto Lanati e Giuseppe Lupoli e dalle società MTC di Lombardi Tiziano S.n.c., Silvaggio e Marchetti S.n.c. ed Emmevi di Moretti Andrea e Vico Stefania S.n.c.: c) respinge l’appello principale; d) respinge l’appello incidentale proposto dall’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino settentrionale; e) compensa per intero fra tutte le parti le spese di questo grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 ottobre 2021 con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere, Estensore Alessandro Verrico, Consigliere Michele Pizzi, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Francesco Gambato Spisani, Consigliere, Estensore Alessandro Verrico, Consigliere Michele Pizzi, Consigliere IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Intervento – Per la prima volta in appello - Condizione e limiti. Edilizia – Permesso di costruire – Pluralità di manufatti non parcellizzabili – Parti per le quali non occorre permesso di costruire – Non rileva – Visione unitaria – Necessità.   ​​​​​​​                  Al fine di valutare la legittimazione di un dato soggetto a proporre intervento per la prima volta nel giudizio di appello, occorre avere riguardo alla posizione che quel soggetto avrebbe assunto se avesse proposto l’intervento stesso in primo grado; pertanto, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione o dal controinteressato, l’intervento in appello incontra gli stessi limiti di un intervento ad adiuvandum del ricorrente proposto nel primo grado di giudizio, presupponendo la titolarità di una posizione giuridica dipendente e accessoria rispetto a quella dedotta dal ricorrente, e non di una posizione autonoma: in quest’ultimo caso infatti l’interessato avrebbe dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo con un ricorso autonomo, e se non lo ha proposto nel relativo termine di decadenza, non ne può eludere l’inosservanza con un intervento ad opponendum stesso proposto in un momento successivo (1).                  Ai fini della definizione del regime di un intervento urbanistico edilizio, seppure questo consista nella realizzazione di una pluralità di manufatti (come nel caso di una stazione di servizio), esso non è parcellizzabile, nel senso che va apprezzato guardandolo nel suo complesso, e non considerando separatamente le singole parti che lo compongono, come se si trattasse della giustapposizione di una serie. di elementi isolatamente considerabili (2).   (1) Ha ricordato la sezione che per valutare la legittimazione di un dato soggetto a proporre intervento per la prima volta nel giudizio di appello occorre avere riguardo alla posizione che quel soggetto avrebbe assunto se avesse proposto l’intervento stesso in primo grado. Di conseguenza, rispetto all’appello proposto dall’Amministrazione, ovvero come in questo caso dal controinteressato, l’intervento in appello incontra gli stessi limiti di un intervento ad adiuvandum del ricorrente proposto nel primo grado di giudizio. Un intervento in primo grado di questo tipo presuppone poi, come è noto, la titolarità di una posizione giuridica dipendente e accessoria rispetto a quella dedotta dal ricorrente, e non una posizione autonoma. L’interveniente ad adiuvandum titolare di posizione autonoma avrebbe infatti dovuto impugnare il provvedimento ritenuto lesivo con un ricorso autonomo, e se non lo ha proposto nel relativo termine di decadenza, non ne può eludere l’inosservanza con l’intervento stesso proposto in un momento successivo. Lo stesso principio vale per l’intervento ad opponendum nel secondo grado di giudizio rispetto all’appello dell’Amministrazione o del controinteressato, intervento che corrisponde appunto al non consentito intervento ad adiuvandum in primo grado per il soggetto titolare di posizione autonoma: nei termini, per tutte, Cons.St., sez. III, 9 febbraio 2021, n. 1230, e 14 dicembre 2016, n. 5268.   (2) Ha chiarito la Sezione che nel caso di specie ci si trova di fronte ad una stazione di servizio, intesa come unico impianto, e non, in ipotesi, alla semplice giustapposizione di un box, delle pensiline, delle pompe e delle altre attrezzature che la compongono. Rispetto quindi all’unico manufatto “stazione di servizio” si tratta di un’opera di urbanizzazione secondaria che integra una nuova costruzione e come tale va assentita con permesso di costruire, dato che essa, con tutta evidenza, incrementa il carico urbanistico sull’area.
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/divieto-di-commercializzazione-affidato-ad-ivass
Divieto di commercializzazione affidato ad Ivass
N. 08216/2019REG.PROV.COLL. N. 03376/2018 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3376 del 2018, proposto da Assicuratrice Milanese S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gianluigi Pellegrino, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso del Rinascimento 11; contro Ivass - Istituto per la Vigilanza Sulle Assicurazioni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Patrizia Rosatone, Massimiliano Scalise, Enrico Galanti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Massimiliano Scalise in Roma, via del Quirinale n. 21; nei confronti Romano Greco non costituito in giudizio; Codacons - Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati di Tutela dell'Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Cons, rappresentato e difeso dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Carlo C/O Codacons Rienzi in Roma, viale Giuseppe Mazzini n. 73; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 00640/2018, resa tra le parti, concernente del provvedimento prot n. 51-14-001585 del 4.11.14 avente ad oggetto la comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 184 comma 2 del D.Lgs n. 209/05 (codice delle assicurazioni private) e prescrizione di misure correttive da adottarsi nel termine di 120 giorni; del rapporto ispettivo del 23.9.2014 del Servizio Ispettorato dell'IVASS, del provvedimento protn. 0047185/15 del 29.5.2015 con cui l'IVASS ha comunicato, nell'ambito del procedimento di cui all'art. 184 comma 2 del D.Lgs 209/05 il divieto di commercializzazione della polizza assicurativa RCP medico e di rinnovo automatico per i contratti in essere e ha prescritto l'adozione di ulteriori misure correttive Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Codacons - Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati di Tutela dell'Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Cons e di Ivass - Istituto per la Vigilanza Sulle Assicurazioni; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Gianluigi Pellegrino, Patrizia Rosatone, Massimiliano Scalise, Gino Giuliano in proprio e per conto dell'avv. Carlo Rienzi; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l’appello in esame la società appellante impugnava la sentenza n. 640 del 2018 con cui il Tar Lazio aveva in parte dichiarato improcedibile ed in parte respinto l’originario gravame. Quest’ultimo era stato proposto dalla stessa società assicuratrice (operatore assicurativo nel settore della responsabilità civile professionale, in specie sanitaria) avverso, in sede di ricorso principale, la comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 184, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005 (c.d. codice delle assicurazioni private), in data 4 novembre 2014, adottata da Ivass (Istituto di vigilanza sulle assicurazioni) e recante anche il divieto di rinnovo automatico dei contratti assicurativi denominati “RCP medico” e “RCP Medico ospedaliero dipendente colpa grave” in essere e la prescrizione di misure correttive, quali: riparametrare la tariffa del contratto “medico ospedaliero dipendente colpa grave” per assicurarne la rispondenza con gli andamenti tecnici; assicurare in via generale la corrispondenza con l’andamento tecnico dei prodotti per la determinazione delle tariffe. Con successivi atti di motivi aggiunti veniva impugnato il provvedimento n. 0047185 del 29 maggio 2015, recante il definitivo divieto di commercializzazione della polizza RCP Medico e il divieto di rinnovo automatico dei contratti in essere. Tale provvedimento era assistito dalla clausola rebus sic stantibus, rimanendo efficace fino alla adozione delle misure correttive, indicate nello stesso provvedimento: effettuare una revisione critica dei prodotti commercializzati, ridisegnando prodotti specificamente calibrati in funzione di differenti target; verificare caso per caso l’adeguatezza del prodotto offerto rispetto alle specifiche esigenze dei singoli professionisti assicurati; riportare il testo contrattuale a intellegibilità e trasparenza, indicando con chiarezza che in mancanza di copertura di primo rischio la polizza non è operativa; impartire adeguate istruzioni alla rete di distribuzione per le verifiche sull’adeguatezza del prodotto rispetto alle specifiche esigenze della clientela; individuare soluzioni idonee a migliorare la policy liquidativa al fine di disincentivare prassi dilatorie. Con ulteriore ricorso per motivi aggiunti veniva impugnato il provvedimento n. 0047185 del 29 maggio 2015, recante il definitivo divieto di commercializzazione della polizza RCP Medico e il divieto di rinnovo automatico dei contratti in essere. All’esito del giudizio di prime cure il Tar, con la sentenza appellata, dichiarava improcedibile il ricorso introduttivo, in parte dichiarava improcedibili e in parte respingeva i motivi aggiunti proposti dall’attuale appellante contro le determinazioni con cui Ivass aveva ingiunto alla ricorrente modifiche ai prodotti di polizza RCP medico nonché imposto il divieto di commercializzazione e di rinnovo di detto prodotto. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante, premessa la permanenza dell’interesse su tutti i motivi di ricorso, formulava i seguenti motivi di appello: - illegittimità della pretesa contenuta nel provvedimento Ivass datato 29 maggio 2015 che la deducente non possa offrire a chi esercita la professione medica una polizza da responsabilità civile che si riferisca sia ad attività libero professionale che ad attività svolta presso strutture pubbliche e private, ma debba articolare due prodotti diversi; - illegittimità della prescrizione che, con riguardo alle condizioni di operatività dell’assicurazione per l’attività svolta presso Case di cura pubbliche e private, ritiene che le stesse renderebbero troppo limitato l’ambito della garanzia; - illegittimità della successiva contestazione di Ivass, anche avverso la modifica dell’oggetto della garanzia precedente con la previsione per cui in presenza della prescritta assicurazione da parte della struttura la polizza in favore del medico avrebbe operato a secondo rischio, secondo cui in tal modo sarebbe stata del tutto esclusa una polizza a primo rischio; - illegittimità del divieto di richiamare l’art. 1893 cc; - illegittimità della ingiunzione di modificare il glossario con riferimento alla definizione di “responsabilità diretta”; - in tema di policy liquidativa, illegittimità dell’obbligo di definizione ex ante della casistica della fattispecie in cui è possibile stabilire in modo incontrovertibile l’inoperatività della polizza; - illegittimità della previsione sulle penali ai legali; - illegittimità della immediata interdizione alla commercializzazione per violazione della leale collaborazione. L’autorità si costituiva in giudizio chiedendo la declaratoria di improcedibilità e di inammissibilità nonché il rigetto dell’appello. Si costituiva in giudizio anche il codacons, concludendo, analogamente all’Istituto appellato, nel senso della declaratoria di inammissibilità od improcedibilità nonché per il rigetto del gravam -e. Alla pubblica udienza del 21 novembre 2019, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione. DIRITTO 1. L’appello in esame ha ad oggetto la sentenza resa dal Tar Lazio in merito alla controversia concernente la impugnativa degli atti adottati dall’Autorità, odierna appellata, nei confronti della società appellante. In particolare, trattasi dei seguenti atti: la nota datata 4 dicembre 2014, con cui è stata comunicata alla società l’avvio del procedimento di cui all’art. 184, comma 2, decreto legislativo n. 209 del 2005 (c.d. codice delle assicurazioni private), contenente prescrizioni e misure correttive da adottare entro il termine di 120 giorni; il provvedimento datato 29 maggio 2015, recante il divieto di commercializzazione del prodotto polizza r. c. medica e il divieto di rinnovo automatico dei contratti in essere, con contestuale previsione della declaratoria di inefficacia ex nunc del provvedimento subordinatamente all’implementazione da parte dell’impresa di una serie di misure correttive; il provvedimento datato 29 luglio 2015 con cui l’Istituto ha accertato l’adempimento delle misure correttive individuate nel divieto di commercializzazione nonché nel provvedimento del 13 luglio 2015 e ne ha dichiarato la sopravvenuta inefficacia (ex nunc). 2. La vicenda nasce, in fatto, dall’attività istruttoria avviata da Ivass nel 2013, attraverso una serie di contestazioni alla società odierna appellante in materia di riservazione, di operazioni con parti correlate nonché di criticità, sia nel contratto di assistenza legale stipulato dall’impresa con un gruppo di legali, sia nelle “Condizioni di polizza del ramo r. c. generale”. In particolare, veniva richiesto all’impresa di adottare specifiche misure, ai sensi degli artt. 221 e 229 del codice predetto, per la rimozione ed il superamento delle violazioni accertate. Successivamente, pervenivano all’Istituto due esposti del Codacons (datati 9 dicembre 2013 e 6 febbraio 2014), con cui venivano segnalati l’opacità di alcune clausole contrattuali relative al prodotto r. c. medico dell’impresa, nonché il presunto comportamento scorretto dell’impresa in sede di gestione dei sinistri. All’esito dell’approfondimento istruttorio e del dialogo procedimentale, l’Istituto giungeva all’archiviazione con provvedimento 41-14-006455 del 3 dicembre 2014. Peraltro, con un diverso ed autonomo avvio di procedimento, di cui alla nota del 4 novembre 2014, l’Istituto comunicava all’impresa l’apertura di un procedimento volto all’adozione del divieto di commercializzazione dei prodotti relativi alla responsabilità civile medica. In particolare, l’Ivass, dopo aver richiamato i pertinenti profili del verbale ispettivo acquisito, individuava le disposizioni primarie e secondarie asseritamente violate dalla società: 1) art. 183 d.lgs. 209 cit., in materia di regole di comportamento che l’impresa è tenuta a rispettare in sede di offerta ed esecuzione dei contratti; 2) art. 31 del Reg. ISVAP 26 maggio n. 35/2010, recante indicazioni che le imprese devono rispettare nella redazione della documentazione precontrattuale e contrattuale; 3) artt. 47, 49 e 52 del Reg. ISVAP n. 5/2006, che impongono all’impresa di adottare nei confronti dei propri intermediari tutte le misure di carattere organizzativo, procedurale e documentale necessarie affinché gli stessi adempiano, per quanto di loro spettanza, i principi generali di trasparenza, correttezza, diligenza e adeguatezza nei rapporti con i contraenti e con gli assicurati. All’esito dei riscontri dell’impresa, l’Istituto adottava il provvedimento n. 0047185 del 29 maggio 2015, recante il divieto di commercializzazione della polizza “RCP Medico”, con efficacia del provvedimento inibitorio perdurante fino a quando l’impresa non avesse implementato le misure correttive ritenute necessarie a porre rimedio alle violazioni persistenti riscontrate. All’esito degli ulteriori riscontri della società, seguiva il provvedimento del 29 luglio 2015, con cui l’Istituto accertava l’adempimento delle misure correttive individuate nel divieto di commercializzazione e ne dichiarava la sopravvenuta inefficacia. 3. Così ricostruita la vicenda in fatto, è possibile passare all’esame delle eccezioni di carattere preliminare, sollevate dalle parti appellate sia in termini di improcedibilità che di inammissibilità 3.1 Sotto il primo versante, l’esame delle eccezioni si combina con quello dei motivi di appello dedotti avverso la declaratoria di improcedibilità in parte qua, statuita nella sentenza impugnata in relazione al ricorso originario avverso la nota del 4 novembre 2014 ed ai motivi aggiunti avverso la misura interdittiva di cui all’atto 29 maggio 2015, in quanto per il Tar la stessa è “venuta meno con l’adeguarsi della società assicuratrice alle prescrizioni impartite, come sancito dal provvedimento in data 29 luglio 2015, cosicché in relazione a tale profilo non può che pronunciarsi la sopravvenuta carenza di interesse”. Le odierne parti appellate insistono per l’estensione della declaratoria di improcedibilità anche ai restanti provvedimenti e statuizioni oggetto di impugnazione, per mancanza della permanenza dell’interesse dell’appellante all’accertamento dell’illegittimità delle misure prescritte, venute meno con effetto ex nunc. In opposta visione, la società appellante censura la parziale declaratoria di improcedibilità, evidenziando la lesività di tutte le misure applicate ed impugnate, avendo in ogni caso le stesse mantenuto la propria efficacia per un dato periodo di tempo; permane quindi un interesse della società all’accertamento dell’illegittimità dell’interdizione, sia in prospettiva risarcitoria che sul versante dell’interesse morale, stante il carattere afflittivo e punitivo dell’interdizione anche con riferimento all’immagine pubblica dell’impresa e del prodotto. 3.2 Se per un verso l’eccezione è infondata, per un altro verso i vizi di appello dedotti avverso la declaratoria di improcedibilità del gravame originario in parte qua sono fondati. 3.2.1 In linea di diritto, come noto, la dichiarazione di improcedibilità del gravame per sopravvenuto difetto di interesse può essere pronunciata al verificarsi di una situazione di fatto o di diritto del tutto nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l'inutilità della sentenza per essere venuta meno, per il ricorrente, qualsiasi utilità, anche solo strumentale o morale comunque residua, della pronuncia del giudice. In questa prospettiva l'interesse permane ove la parte possa pretendere il risarcimento del pregiudizio patrimoniale sofferto in conseguenza della determinazione giudicata illegittima (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 28 febbraio 2018, n. 1214). 3.2.2 Nel caso di specie, se da un canto la stessa invocazione della parte appellante, da ultimo riportata, della sussistenza di un interesse (anche) morale a fronte del carattere delle misure imposte e delle conseguenze sull’immagine della società assume un rilievo ex sé dirimente in termini di permanenza dell’interesse e di conseguente insussistenza dei presupposti per la declaratoria di improcedibilità, da un altro canto tutte le prescrizioni contestate, anche quelle originarie, risultano aver mantenuto la propria lesività per un qualche periodo, come reso evidente dal fatto che la stessa Autorità ne ha dichiarato l’inefficacia sopravvenuta ma con effetto ex nunc, quindi non retroattivo. Non a caso, lo stesso atto iniziale del 4 novembre 2014 contiene la formula indicativi di termini e modalità di impugnazione, in coerenza al principio di cui all’art. 3 comma 4 della legge n. 241 del 1990. 3.2.3 Né l’accertato parziale o totale adeguamento successivo da parte della società è tale da comportare acquiescenza, come peraltro correttamente riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata. Infatti, come noto, per principio generale l’acquiescenza, è ipotizzabile solo in presenza di dichiarazioni o comportamenti univoci, volontariamente posti in essere e che dimostrino una chiara ed incondizionata volontà del destinatario dell'atto di accettarne l'operatività. Nulla di ciò è rilevabile nel caso di specie, a fronte della specifica contestazione di tutte le misure. 3.3 Se le considerazioni appena svolte evidenziano altresì l’infondatezza delle eccezioni formulate in termini di inammissibilità per presunta carenza di interesse alla contestazione di tutte le misure, a partire da quelle irrogate con la nota del 4 novembre 2014, occorre procedere ad esaminare l’ulteriore eccezione di inammissibilità in parte qua, dedotta da entrambe le parti appellate (nell’ambito di difese per la verità curiosamente coincidenti), in relazione ai singoli motivi di appello per violazione del divieto di nova in appello ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 104 cod.proc.amm.. 3.3.1 In linea di diritto, va evidenziato come l’eccepita inammissibilità possa riguardare unicamente i motivi di appello “nuovi”, in quanto diversi da quelli di prime cure. In generale, come noto, nel giudizio di appello, contro gli atti già impugnati non sono ammesse nuove censure, laddove le stesse potevano essere proposte in primo grado, ciò perché la novità dei motivi equivale a una domanda nuova, vietata dalle norme di rito vigenti (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 23 aprile 2019, n. 2579). Peraltro, in termini di chiarimento della predetta regola generale, va ricordato come nel processo amministrativo, il divieto di nova in appello non impedisca alle parti di confutare tutti gli argomenti adoperati dal Tar, quand’anche non perfettamente coincidenti con i motivi di ricorso di primo grado, atteso che le mere difese sono sempre esaminabili anche per la prima volta in appello, mentre è l'impugnazione proposta in tal guisa di atti rimasti estranei alla cognizione del Tar o con motivi colà non dedotti ad essere del tutto inammissibile; pertanto, il ricorso in appello è inammissibile nella parte in cui introduce censure diverse rispetto a quelle che hanno fissato il perimetro del thema decidendum in primo grado, in violazione del divieto dei nova sancito in appello, ma non è certo inammissibile la riproposizione in appello di censure dedotte in primo grado e assistite da una serie di argomenti maggiormente circostanziati, poiché essa non può essere definita come deduzione di motivi nuovi, tali essendo quelli che la parte sostenga per la prima volta e vizi rimasti del tutto sconosciuti in quella sede (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 4 febbraio 2019, n. 849). 3.3.2 Nel caso di specie, se per un verso gli atti in contestazione sono sempre gli stessi oggetto dell’impugnativa originaria e non atti rimasti estranei alla cognizione del Tar, per un altro verso, dal confronto tra i motivi di prime cure ed i vizi di appello emerge una comprensione di questi ultimi nell’ambito dei primi, accompagnata dalla critica alle argomentazioni di prime cure. In dettaglio, il primo, il secondo ed il terzo motivo di appello costituiscono specificazione del secondo motivo principale del ricorso al Tar, incentrato proprio sull’art. 16 e l’oggetto dell’assicurazione. Il quarto motivo di appello costituisce altresì una specificazione di una parte del terzo motivo del ricorso originario, in relazione all’art. 1893 c.c.. Il sesto motivo di appello costituisce una specificazione del ricorso originario nonché del quarto motivo del primo atto di motivi aggiunti di prime cure. I restanti motivi di appello costituiscono sviluppo del primo e del quinto ordine di motivi di ricorso originario, anche alla luce delle argomentazioni svolte dalla sentenza appellata e delle conseguenti considerazioni critiche svolte. Di conseguenza, anche tale eccezione di inammissibilità risulta destituita di fondamento. 4. Nel merito, occorre svolgere un preliminare inquadramento delle norme che l’Autorità ha inteso porre a fondamento del potere esercitato, al fine di una corretta analisi ed un completo inquadramento delle questioni dedotte coi motivi di appello residui. 4.1 In termini legislativi, le prescrizioni contestate trovano il proprio fondamento sostanziale nelle regole di cui all’art. 183 d.lgs. 209 cit. secondo cui: “1. Nell'esecuzione dei contratti le imprese [e gli intermediari] devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati; [b) acquisire dai contraenti le informazioni necessarie a valutare le esigenze assicurative o previdenziali ed operare in modo che siano sempre adeguatamente informati;] (Lettera abrogata dall'articolo 1, comma 29, lettera b), del D.Lgs. 21 maggio 2018, n. 68, con applicazione a decorrere dal 1° ottobre 2018) c) organizzarsi in modo tale da identificare ed evitare conflitti di interesse ove ciò sia ragionevolmente possibile e, in situazioni di conflitto, agire in modo da consentire agli assicurati la necessaria trasparenza sui possibili effetti sfavorevoli e comunque gestire i conflitti di interesse in modo da escludere che rechino loro pregiudizio; d) realizzare una gestione finanziaria indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei contraenti e degli assicurati. 2. L'IVASS adotta, con regolamento, specifiche disposizioni relative alla determinazione delle regole di comportamento da osservare nei rapporti con i contraenti, in modo che l'attività si svolga con correttezza e con adeguatezza rispetto alle specifiche esigenze dei singoli. 3. L'IVASS tiene conto, nel regolamento, delle differenti esigenze di protezione dei contraenti e degli assicurati, nonché della natura dei rischi e delle obbligazioni assunte dall'impresa, individua le categorie di soggetti che non necessitano in tutto o in parte della protezione riservata alla clientela non qualificata e determina modalità, limiti e condizioni di applicazione delle medesime disposizioni nell'offerta e nell'esecuzione dei contratti di assicurazione dei rami danni, tenendo in considerazione le particolari caratteristiche delle varie tipologie di rischio”. Dal punto di vista anche procedurale assume rilievo il successivo art. 184: “1. Avuto riguardo all'obiettivo di protezione degli assicurati, l'IVASS sospende in via cautelare, per un periodo non superiore a novanta giorni, la commercializzazione del prodotto in caso di fondato sospetto di violazione delle disposizioni del presente titolo o delle relative norme di attuazione, nonche' delle disposizioni in materia di requisiti di Governo e controllo del prodotto di cui agli articoli 30-decies, 121-bis e 121-ter. 2. L'IVASS vieta la commercializzazione in caso di accertata violazione delle disposizioni indicate al comma 1 e dispone, a cura e spese dell'impresa o del distributore interessato, la diffusione al pubblico, mediante le forme più utili alla generale conoscibilità, dei provvedimenti adottati”. 4.2 Nel caso di specie, in termini asseritamente attuativi del predetto disposto normativo, l’Autorità ha inteso fare altresì applicazione delle norme regolamentari reputate rilevanti nella specie, di due ordini: l’art. 31 del Reg. ISVAP 26 maggio n. 35/2010, recante indicazioni che le imprese devono rispettare nella redazione della documentazione precontrattuale e contrattuale; gli artt. 47, 49 e 52 del Reg. ISVAP n. 5/2006, che impongono all’impresa di adottare nei confronti dei propri intermediari tutte le misure di carattere organizzativo, procedurale e documentale necessarie affinché gli stessi adempiano, per quanto di loro spettanza, i principi generali di trasparenza, correttezza, diligenza e adeguatezza nei rapporti con i contraenti e con gli assicurati. 4.2.1 In particolare, nell’ambito del primo Regolamento (il n. 35 del 26 maggio 2010), concernente la disciplina degli obblighi di informazione e della pubblicità dei prodotti assicurativi, di cui al Titolo XIII del codice in questione ed ora abrogato, l’art. 31 statuiva i criteri di redazione: “1. Nella redazione della documentazione precontrattuale e contrattuale le imprese: a) utilizzano espressioni chiare e sintetiche affinché il contraente sia in grado di comprendere il contenuto del contratto che si appresta a sottoscrivere, con le relative coperture assicurative offerte; b) adottano caratteri di stampa e accorgimenti grafico-tipografici e redazionali tali da rendere agevole la lettura; c) illustrano, con caratteri grafici di particolare evidenza, le clausole che prevedono oneri e obblighi a carico del contraente e dell’assicurato, nullità, decadenze, esclusione, sospensione e limitazione della garanzia, rivalse nonché le informazioni qualificate come “Avvertenze” dal presente Regolamento; d) assicurano la coerenza delle informazioni contenute all’interno dei documenti precontrattuali e contrattuali; e) non inseriscono espressioni o formulazioni di natura pubblicitaria o promozionale”. 4.2.2 Nell’ambito del secondo regolamento (il n. 5 del 16 ottobre 2006), concernente la disciplina dell'attività di intermediazione assicurativa e riassicurativa ed ora parimenti abrogato, gli artt. Applicati statuivano: articolo 47, regole di comportamento. 1. Nello svolgimento dell’attività d’intermediazione ed in particolare nell’offerta dei contratti di assicurazione e nella gestione del rapporto contrattuale, gli intermediari devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza, trasparenza e professionalità nei confronti dei contraenti e degli assicurati; b) osservare le disposizioni legislative e regolamentari, anche rispettando le procedure e le istruzioni a tal fine impartite dalle imprese per le quali operano; c) acquisire le informazioni necessarie a valutare le esigenze assicurative e previdenziali dei contraenti ed operare in modo che questi ultimi siano sempre adeguatamente informati; d) agire in modo da non recare pregiudizio agli interessi dei contraenti e degli assicurati. 2. Gli intermediari sono tenuti a garantire la riservatezza delle informazioni acquisite dai contraenti o di cui comunque dispongano in ragione dell’attività svolta, salvo che nei confronti del soggetto per il quale operano o di cui distribuiscono i contratti, nei casi di cui all’articolo 189 del decreto ed in ogni altro caso in cui le vigenti disposizioni normative ne impongano o consentano la rivelazione. E’ comunque vietato l’utilizzo delle suddette informazioni per finalità diverse da quelle strettamente inerenti lo svolgimento dell’attività di intermediazione, salvo espresso consenso prestato dall’interessato a seguito di apposita informativa fornita ai sensi del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. 3. Gli intermediari possono ricevere dal contraente, a titolo di pagamento dei premi assicurativi: a) assegni bancari, postali o circolari, muniti della clausola di non trasferibilità, intestati o girati all’impresa per conto della quale operano o a quella di cui sono distribuiti i contratti, oppure all’intermediario, espressamente in tale qualità; b) ordini di bonifico, altri mezzi di pagamento bancario o postale, sistemi di pagamento elettronico, che abbiano quale beneficiario uno dei soggetti indicati alla precedente lettera a). 36 Agli intermediari è fatto divieto di ricevere denaro contante a titolo di pagamento di premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita, di cui all’articolo 2, comma 1 del decreto. Per i contratti di assicurazione contro i danni, di cui all’articolo 2, comma 3 del decreto, il divieto riguarda i premi di importo superiore a settecentocinquanta euro annui71 per ciascun contratto. Il divieto non opera per le coperture del ramo responsabilità civile auto e per le relative garanzie accessorie, se ed in quanto riferite allo stesso veicolo assicurato per la responsabilità civile auto. Articolo 49, informativa precontrattuale, nel testo applicabile ratione temporis in quanto poi modificato nel 2015): 1. In occasione del primo contatto con il contraente, gli intermediari consegnano a quest’ultimo copia di un documento riepilogativo dei principali obblighi di comportamento cui gli stessi intermediari sono tenuti a norma del decreto e del presente Regolamento, conforme al modello di cui all’allegato n. 7A.”. 2. Prima di far sottoscrivere una proposta o, qualora non prevista, un contratto di assicurazione, gli intermediari consegnano al contraente: a) copia di una dichiarazione, conforme al modello di cui all’allegato n. 7B, da cui risultino i dati essenziali degli intermediari e della loro attività. La dichiarazione è aggiornata ad ogni variazione dei dati in essa contenuti. In caso di modifiche di rilievo del contratto o di rinnovo la dichiarazione è consegnata se i dati in essa contenuti sono modificati; a bis) copia di un documento, conforme al modello di cui all’allegato n. 7A, che riepiloga i principali obblighi di comportamento cui gli intermediari sono tenuti a norma del decreto e del presente Regolamento; b) la documentazione precontrattuale e contrattuale prevista dalle vigenti disposizioni. 3. La consegna della documentazione di cui al comma 2 deve risultare da un’apposita dichiarazione, redatta con caratteri idonei per dimensione e struttura grafica, da far sottoscrivere al contraente. L’intermediario conserva la documentazione atta a comprovare l’adempimento degli obblighi di consegna previsti dal comma 2. 4. Sono esclusi dagli obblighi informativi di cui al comma 2, lettera a) e a bis), nonché da quanto disposto al comma 3 in relazione a tali obblighi, gli intermediari di assicurazione quando operano nei grandi rischi. Art. 52, adeguatezza dei contratti offerti. 1. Le imprese impartiscono istruzioni agli intermediari di cui si avvalgono affinché, in fase precontrattuale, acquisiscano dal contraente ogni informazione utile a valutare l’adeguatezza del contratto offerto in relazione alle esigenze assicurative e previdenziali di quest’ultimo, nonché, ove appropriato in relazione alla tipologia del contratto, alla propensione al rischio del contraente medesimo. 2. In ogni caso, gli intermediari sono tenuti a proporre o consigliare contratti adeguati in relazione alle esigenze di copertura assicurativa e previdenziale del contraente. A tal fine, prima di far sottoscrivere una proposta o, qualora non prevista, un contratto di assicurazione, acquisiscono dal contraente ogni informazione che ritengono utile in funzione delle caratteristiche e della complessità del contratto offerto, conservandone traccia documentale. 3. Con riferimento ai contratti di assicurazione sulla vita, gli intermediari chiedono in particolare notizie sulle caratteristiche personali del contraente, con specifico riferimento all’età, all’attività lavorativa, al nucleo familiare, alla situazione finanziaria ed assicurativa, alla sua propensione al rischio e alle sue aspettative in relazione alla sottoscrizione del contratto, in termini di copertura, durata ed eventuali rischi finanziari connessi al contratto da concludere. 4. Il rifiuto di fornire una o più delle informazioni richieste deve risultare da apposita dichiarazione, da allegare alla proposta, sottoscritta dal contraente, nella quale è inserita specifica avvertenza riguardo la circostanza che il rifiuto del contraente di fornire una o più delle informazioni pregiudica la capacità di individuare il contratto adeguato alle sue esigenze. 5. Gli intermediari che ricevono proposte assicurative e previdenziali non adeguate informano il contraente di tale circostanza, specificandone i motivi. Dell’informativa fornita, inclusi i motivi dell’inadeguatezza, è data evidenza in un’apposita dichiarazione, sottoscritta dal contraente e dall’intermediario.” 4.3 Invero, sia il testo della normativa richiamata del codice delle assicurazioni, sia in specie quello delle norme regolamentari (non a caso abrogate e modificate), scontano una generalità tale da imporre all’Istituto uno sforzo rilevante in termini di individuazione ed esplicazione dei relativi presupposti. 4.4 La sezione ha già avuto modo di ricordare (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI, 10 maggio 2013, n.2568) il ruolo dell’Istituto: l’Ivass svolge compiti esclusivi di regolazione e vigilanza sul settore assicurativo, che lo hanno svincolato da ogni forma originaria, e sia pure attenuata, di assoggettamento a poteri governativi o ministeriali di indirizzo, controllo o vigilanza. L'ampiezza e l'esclusività dei poteri di regolazione e vigilanza del settore assicurativo, i connessi poteri regolamentari, i rapporti di collaborazione e scambio informativo con altre autorità indipendenti (Banca d'Italia, Commissione nazionale per le società e la borsa, Commissione di vigilanza sui fondi pensione) e la finalizzazione delle varie attribuzioni alla più complessiva funzione di garanzia della trasparenza e della concorrenzialità del mercato assicurativo, ne connotano la natura giuridica quale autorità amministrativa indipendente, presentando l'Istituto i tratti distintivi essenziali degli enti di tale tipo, costituiti dalla separazione e autonomia dal governo e, in generale, dal potere esecutivo nelle sue articolazioni ministeriali, in ragione della preposizione alla cura e tutela di diritti ed interessi costituzionalmente rilevanti, in settori ordinamentali di primaria importanza. Orbene, proprio la rilevanza (in termini applicativi di precetti costituzionali fondamentali), l’autonomia e l’incisività dei compiti impongono che le relative statuizioni siano adeguate, conformi alle norme di riferimento, come nel caso di specie in cui la norma impone delle violazioni accertate. Pur nei limiti di sindacato tipici del presente giudizio amministrativo, occorre che il potere esercitato, nel caso di specie la singola prescrizione, risulti compresa dei presupposti dettati dalla norma, nonché accompagnata da attività istruttoria e da valutazione motivazionale, tipica di ogni attività provvedimentale incisiva su attività economiche. 5. Fatta questa premessa, sotto il cui faro emerge prima facie una non immediata coerenza di fondo, nel caso di specie, fra le indicazioni prescrittive (non adeguatamente puntuali) e i divieti connessi di commercializzazione e di rinnovo, è possibile analizzare le singole prescrizioni censurate, in ordine di motivi di appello. 6.1 Con il primo motivo si contesta l’illegittimità della pretesa contenuta nel provvedimento Ivass datato 29 maggio 2015, formulata nel senso che la deducente non possa offrire a chi esercita la professione medica una polizza da responsabilità civile che si riferisca sia ad attività libero professionale che ad attività svolta presso strutture pubbliche e private, ma debba articolare due prodotti diversi. L’Istituto, oltre alla presunta inammissibilità (smentita dall’analisi delle censure di prime cure di cui il vizio in esame costituisce pieno svolgimento), ritiene il vizio infondato in quanto nella specie l’attività di vigilanza ha avuto ad oggetto solo ed esclusivamente la riconduzione della compagnia ai princìpi guida in tema di corretta offerta ed esecuzione contrattuale, cioè di norme cornice che guidano e conformano l’autonomia privata delle imprese. 6.2 Il motivo è fondato sotto l’assorbente profilo dell’irragionevolezza e del difetto di adeguata motivazione. 6.3 Nell’originario atto adottato ai sensi dell’art. 184 comma 2 cit., in merito all’art. 16 delle condizioni di contratto rubricato “oggetto della copertura”, l’Istituto prescriveva di “disciplinare in modo autonomo, all’interno di separati articoli, i diversi regimi di svolgimento dell’attività medica (prestazione del medico dipendente; attività libero professionale intramoenia, attività libero professionale extramoenia) e specificare se la coperture offerte sono di primo e/o secondo rischio, per consentire al professionista di individuare esattamente le garanzie applicabili al proprio caso. Tali modificazioni sono da ritenersi necessarie a ripristinare una corretta e trasparente informativa in favore degli assicurati in relazione all’oggetto e alle caratteristiche essenziali delle coperture offerte”. Nel successivo atto del 29 maggio 2019, all’esito di una attenta ed approfondita analisi delle prescrizioni e delle modifiche apportate dalla società, l’Istituto indicava fra i vari obiettivi il primo (sub lettera a), nel senso di effettuare una revisione critica dei prodotti commercializzati, ridisegnando prodotti più specificamente calibrati in funzione dei differenti target di clienti a cui sono destinati e delle specifiche esigenze di copertura manifestate. In tale contesto, solo a titolo esemplificativo l’Istituto indica la possibilità, in termini quindi di facoltatività della soluzione e non di obbligo inderogabile, di prevedere “ad es. la costruzione di due distinti prodotti, uno riguardante i rischi derivanti dall’attività svolta dai medici presso strutture pubbliche o private, l’altro concernente l’attività di tipo ambulatoriale svolta dai professionisti”. 6.4 Oltre alla già evidenziata globale genericità rispetto agli specifici divieti di commercializzazione e rinnovo, la prescrizione individua in termini contraddittori e di non adeguata chiarezza l’obbligo di duplicazione come possibilità al fine di rispondere alle esigenze evidenziate dall’Istituto. Emerge altresì la dedotta irragionevolezza della prescrizione finale di articolare necessariamente due prodotti distinti, quando la stessa Ivass nel primo atto aveva ritenuto sì necessario ma anche sufficiente una migliore specificazione all’interno dell’unico prodotto. Pertanto nel secondo atto manca la necessaria consequenzialità, in quanto non si comprende su quali basi l’Istituto, invece che richiedere una ulteriore specificazione in quanto ritenuta non interamente soddisfatta la prima prescrizione, si sia invece orientata a richiedere la separazione in due prodotti con evidente contraddizione ed aggravamento per l’impresa. 6.5 In termini più generali, la fondatezza (anche) di tale censura trova conferma nella contraddittorietà fra divieti immediati, di commercializzazione e rinnovo, e prescrizioni caratterizzate da una generalità ed ampiezza tale da renderle oggetto di una pluralità di possibili opzioni attuative e modificative delle polizze, nonché di un connesso dialogo procedimentale teso non solo a mutarle ma altresì ad esplicarle. In tale ottica, appare altresì carente il presupposto della “accertata violazione”, richiesto dalla norma, applicata dall’Istituto, di cui al comma 2 dell’art. 184 cit., il quale non può che fondarsi su di una chiara esplicazione sia della clausola oggetto di necessaria eliminazione, sia delle modifiche richieste, sia delle specifiche violazioni delle norme oggetto di contestazione. Nulla di ciò è rilevabile nella prescrizione in contestazione, avente ad oggetto una sorta di esortazione ad un adeguamento delle offerte, senza indicazione di specifiche clausole viziate, anche attraverso una esemplificazione dei possibili mutamenti. Tale modus operandi appare non coerente al potere attribuito dalla norma in termini di accertamento di violazione e di conseguente divieto di commercializzazione. 6.6 Nel bilanciamento dei contrapposti interessi e dei relativi principi anche di origine costituzionale, la giustificazione dello stesso potere affidato dagli artt. 183 s. nonché delle conseguenze limitative dell’esercizio di iniziativa economica, deve trovare fondamento nell’accertamento di una specifica violazione da correggere (come reso evidente dalla stessa formulazione della norma applicata sub art. 184 comma 2) anche a fini di tutela dell’affidamento non solo dei privati incisi ma, nel caso in esame, degli stessi utenti finali che l’attività dell’Istituto intende compiutamente tutelare. 6.7 In linea generale, lo stesso Istituto ricorda il proprio compito fondamentale di vigilare sulla correttezza dei comportamenti delle imprese nei confronti del consumatore e sulla trasparenza dei prodotti assicurativi, stabilendo regole di comportamento che le imprese e gli intermediari sono tenuti a osservare nell’offerta e nell’esecuzione dei contratti e ne verifica il puntuale adempimento. Orbene, proprio tali compiti impongono una adeguata chiarezza delle prescrizioni e del relativo fondamento, pena l’impossibilità di puntuale adempimento, come dimostrato nel caso di specie dove alla carenza di specificazione si è accompagnato un dialogo procedimentale fonte di incertezze per tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. 6.8 Sempre in termini generali, parimenti valevoli per la gran parte delle ulteriori prescrizioni oggetto dei motivi di appello, appare evidente il difetto di istruttoria. Infatti, questa ed altre prescrizioni risultano basate, in relazione alle prescrizioni in oggetto di cui ai primi tre ordini di motivi, sul solo dell’esposto del Codacons e sul connesso unico caso di contrasto applicativo ivi segnalato. Manca il necessario svolgimento di doverose ulteriori verifiche istruttorie, sia in relazione al mercato delle polizze e quindi del raffronto con le imprese concorrenti della odierna appellante, sia in relazione alla eventuale casistica ulteriore di questioni applicative ed eventuali contrasti sorti in sede esecutiva di rapporti contrattuali. Se per un verso a tale fine non è adeguato il riferimento alle relazioni ispettive, anche in considerazione del fatto che le stesse sono state poste a fondamento di un coevo atto di archiviazione, per un altro verso tale difetto di istruttoria non può che riverberarsi sulla genericità delle valutazioni e delle prescrizioni; genericità e generalità che in ogni caso, giova ribadirlo anche nel presente contesto, appare incoerente ed insufficiente rispetto alla puntualità delle conseguenze incisive imposte all’operatore economico, in termini di divieto di commercializzazione e di rinnovo. Né al riguardo possono invocarsi i reclami in generale ricevuti dall’Istituto, in quanto, come evidenziato dalle difese appellanti, ancora da ultimo in sede di memoria di replica, le altre richieste pervenute nel triennio da Ivass in relazione a tutti i prodotti “RCP Medica” non si riferiscono a profili in esame ovvero di di chiarezza della polizza o di coerenza tra la polizza e le esigenze di copertura dell’assicurato, concernenti le criticità oggetto dell’iter avviato con l’atto del 4 novembre 2014, attenendo a profili diversi, concernenti spese legali, all’interpretazione e concreta applicazione dell’art. 1917 c.c., 1° e 2° comma, a contestazioni di merito sulla ricorrenza dei presupposti fattuali per l’applicazione dell’art. 1892 c.c., ovvero ancora a profili di tipo amministrativo. Sul punto, peraltro, assume rilievo preminente e dirimente la genericità delle prescrizioni già evidenziata, anche sotto tale rilevante profilo, connesso alla verifica effettiva dei reclami acquisiti e dei seguiti relativi effettuati. 7.1 Con il secondo motivo, si contesta l’illegittimità della prescrizione – contenuta nella nota del novembre 2914 - che, con riguardo alle condizioni di operatività dell’assicurazione per l’attività svolta presso Case di cura pubbliche e private, ritiene che le stesse renderebbe troppo limitato l’ambito della garanzia. 7.2 Oggetto di contestuale esame è altresì il terzo ordine di motivi, con cui parte appellante contesta la illegittimità della successiva contestazione di Ivass, anche avverso la modifica dell’oggetto della garanzia precedente con la previsione per cui in presenza della prescritta assicurazione da parte della struttura la polizza in favore del medico avrebbe operato a secondo rischio, cosicché in tal modo sarebbe stata del tutto esclusa una polizza a primo rischio. 7.3 Al riguardo assumono rilievo dirimente le considerazioni sopra svolte, sia in termini di genericità della prescrizione e di difetto di motivazione, in specie rispetto ai connessi divieti – immediatamente operativi – di commercializzazione e di rinnovo, sia in termini di difetto di istruttoria, non basandosi la stessa prescrizione su di una analisi di casi e di questioni applicative. Invero, se per un verso l’Istituto non ha individuato alcuna specifica norma anche regolamentare, tale da costituire fonte di tali considerazioni critiche rispetto alle clausole in contestazione, per un altro verso il conseguente difetto di motivazione appare confermato dal fatto che le clausole in contenevano una chiara indicazione degli ambiti e dei limiti di operatività della polizza proposta, non a caso connessa ad un prezzo adeguato all’estensione limitata. Tale chiarezza, oltre che generale, appare coerente alle caratteristiche del medico (potenziale interessato) quale consumatore qualificato, in qualità di operatore professionale del settore oggetto di proposte assicurative. Se in termini di chiarezza ben avrebbe potuto richiedersi una specificazione del concetto di insolvenza, nei provvedimenti impugnati nulla di doverosamente specifico risulta richiesto rispetto alle previsioni contestate, anche sul punto. 8.1 Ad analoghe conclusioni favorevoli, di fondatezza del gravame, deve giungersi rispetto al quarto ordine di rilievi, con cui parte appellante lamenta la illegittimità del divieto di richiamare l’art. 1893 c.c.. 8.2 Invero, la norma del codice civile costituisce espressione di un principio generale, la cui applicabilità, proprio per il carattere legislativo e di principio della stessa disposizione, non può costituire, sia logicamente che normativamente, oggetto di una prescrizione di non applicazione, nei termini sostanzialmente assoluti formulati dall’Istituto nei provvedimenti impugnati. Secondo tale norma, come noto: “1. Se il contraente ha agito senza dolo o colpa grave, le dichiarazioni inesatte e le reticenze non sono causa di annullamento del contratto, ma l'assicuratore può recedere dal contratto stesso, mediante dichiarazione da farsi all'assicurato nei tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l'inesattezza della dichiarazione o la reticenza. 2. Se il sinistro si verifica prima che l'inesattezza della dichiarazione o la reticenza sia conosciuta dall'assicuratore, o prima che questi abbia dichiarato di recedere dal contratto, la somma dovuta è ridotta in proporzione della differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose”. 8.3 La norma costituisce espressione di principio generale in materia di contratto di assicurazione; conseguentemente, oggetto di prescrizione, lungi dalla esclusione dalla relativa applicazione, può essere l’eventuale errata applicazione pratica, ovvero dalla previsione di clausole limitative rispetto al dato normativo stesso. Nulla di ciò risulta contestato ed individuato a corredo della prescrizione contestata, la quale conseguentemente si rileva viziata nei termini dedotti da parte appellante. In termini di dettaglio, anche per l’eventuale futura attività ed a fronte delle considerazioni svolte dalle difese sul punto, va peraltro evidenziato come nei contratti di assicurazione della responsabilità civile l'estensione della copertura alle responsabilità dell'assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto (cosiddetta clausola "claims made") non faccia venire meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento della stuipula le parti (e, in specie, l'assicurato) ignoravano l'esistenza di questi fatti, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 cod. civ. per le dichiarazioni inesatte o reticenti (cfr. ad es. Cassazione civile, sez. III, 17 febbraio 2014, n. 3622). 9.1 A diverse conclusioni deve giungersi rispetto alle rimanenti censure, in quanto le stesse, se da un canto non trovano immediato riscontro nelle prescrizioni conclusive dei provvedimenti impugnati, da un altro canto risultano nella sostanza attinte dalle considerazioni di ordine generale sin qui svolte. Pur dinanzi alla citazione nell’ambito delle premesse degli stessi, gli elementi in questione non risultano inseriti – e quindi rilevanti anche in termini di operatività, efficacia diretta e lesività – nelle prescrizioni connesse ai divieti di commercializzazione e rinnovo. Ciò si collega, trovandone conferma, alla rilevata genericità delle prescrizioni nonché al rilevato difetto di istruttoria e di motivazione, vizi aventi valore assorbente rispetto alle stesse rimanenti censure dovendosi il potere rieditare nel suo complesso con un canone di maggiore chiarezza e precisione di dettaglio che potrà riguardare anche gli altri aspetti della vicenda, invero di rilevanza marginale, non meritevoli per quanto si è detto di essere censurati da questo giudice, essendo sufficienti le statuizioni precedenti di stampo metodologico a conformare l’azione futura dell’amministrazione. 9.2 In termini conclusivi dell’analisi, occorre fare altresì un riferimento allo jus superveniens, citato dalle parte. Se è pur vero che le norme sostanziali contenute nella legge n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca precedente alla loro entrata in vigore (cfr. ad es. Cassazione civile, sez. III, 11 novembre 2019, n. 28994), dalle stesse possono trarsi indicazioni di ordine generale. Al riguardo, l’art. 10, nel disciplinare l’obbligo di assicurazione, non prevede prescrizioni nei termini invocati dall’Istituto. Ciò peraltro potrà essere oggetto di esame in sede di eventuale riedizione del potere da parte della stessa Autorità. A fini di completezza si riporta la norma citata, nella parte di preminente interesse: “1. Le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private devono essere provviste di copertura assicurativa o di altre analoghe misure per la responsabilità civile verso terzi e per la responsabilità civile verso prestatori d'opera, ai sensi dell'articolo 27, comma 1-bis, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, anche per danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica. La disposizione del primo periodo si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina..”. 10. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello risulta fondato in parte qua, in relazione ai motivi di appello sopra individuati; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accolto in parte qua il ricorso di primo grado. Sussistono giusti motivi, anche a fronte della complessità e novità della questione, per compensare fra le parti le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado in parte qua. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Francesco Mele, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Francesco Mele, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Autorità amministrative indipendenti – Ivass – Poteri – Prodotti assicurativi - Divieto di commercializzazione – Presupposti – Specifica violazione – Necessità.   Nel bilanciamento dei contrapposti interessi e dei relativi principi anche di origine costituzionale, la giustificazione del potere di divieto di commercializzazione affidato ad Ivass dagli artt. 183 e 184, d.lgs. n. 209 del 2005 (c.d. codice delle assicurazioni private), deve trovare fondamento nell’accertamento di una specifica violazione da correggere, come reso evidente dalla stessa formulazione della norma applicata sub art. 184, comma 2 cit., anche a fini di tutela dell’affidamento non solo dei privati incisi ma degli stessi utenti finali che l’attività dell’Istituto intende compiutamente tutelare (1).   (1) Ha premesso la Sezione che l’Ivass svolge compiti esclusivi di regolazione e vigilanza sul settore assicurativo, che lo hanno svincolato da ogni forma originaria, e sia pure attenuata, di assoggettamento a poteri governativi o ministeriali di indirizzo, controllo o vigilanza. L'ampiezza e l'esclusività dei poteri di regolazione e vigilanza del settore assicurativo, i connessi poteri regolamentari, i rapporti di collaborazione e scambio informativo con altre autorità indipendenti (Banca d'Italia, Commissione nazionale per le società e la borsa, Commissione di vigilanza sui fondi pensione) e la finalizzazione delle varie attribuzioni alla più complessiva funzione di garanzia della trasparenza e della concorrenzialità del mercato assicurativo, ne connotano la natura giuridica quale autorità amministrativa indipendente, presentando l'Istituto i tratti distintivi essenziali degli enti di tale tipo, costituiti dalla separazione e autonomia dal governo e, in generale, dal potere esecutivo nelle sue articolazioni ministeriali, in ragione della preposizione alla cura e tutela di diritti ed interessi costituzionalmente rilevanti, in settori ordinamentali di primaria importanza. Orbene, proprio la rilevanza (in termini applicativi di precetti costituzionali fondamentali), l’autonomia e l’incisività dei compiti impongono che le relative statuizioni siano adeguate, conformi alle norme di riferimento, come nel caso di specie in cui la norma impone delle violazioni accertate. Pur nei limiti di sindacato tipici del presente giudizio amministrativo, occorre che il potere esercitato, nel caso di specie la singola prescrizione, risulti compresa dei presupposti dettati dalla norma, nonché accompagnata da attività istruttoria e da valutazione motivazionale, tipica di ogni attività provvedimentale incisiva su attività economiche (Cons. St., sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2568). Ha aggiunto la Sezione che nel bilanciamento dei contrapposti interessi e dei relativi principi anche di origine costituzionale, la giustificazione dello stesso potere affidato dagli artt. 183 s., d.lgs. n. 209 del 2005 nonché delle conseguenze limitative dell’esercizio di iniziativa economica, deve trovare fondamento nell’accertamento di una specifica violazione da correggere (come reso evidente dalla stessa formulazione della norma applicata sub art. 184, comma 2) anche a fini di tutela dell’affidamento non solo dei privati incisi ma, nel caso in esame, degli stessi utenti finali che l’attività dell’Istituto intende compiutamente tutelare. Va poi ricordato il compito fondamentale di vigilare dell’Ivass sulla correttezza dei comportamenti delle imprese nei confronti del consumatore e sulla trasparenza dei prodotti assicurativi, stabilendo regole di comportamento che le imprese e gli intermediari sono tenuti a osservare nell’offerta e nell’esecuzione dei contratti e ne verifica il puntuale adempimento. Orbene, proprio tali compiti impongono una adeguata chiarezza delle prescrizioni e del relativo fondamento, pena l’impossibilità di puntuale adempimento, come dimostrato nel caso di specie dove alla carenza di specificazione si è accompagnato un dialogo procedimentale fonte di incertezze per tutti i soggetti potenzialmente coinvolti.  
Autorità amministrative indipendenti
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Obbligo di provvedere su istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo
N. 04333/2020 REG.PROV.COLL. N. 01473/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1473 del 2020, proposto da Punto Servizi di Pietro Costantino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Alfonso Lucia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti di Goldbet S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Angelo Clarizia, Nino Paolantonio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Angelo Clarizia in Roma, via Principessa Clotilde n. 2; per l’accertamento dell’obbligo della P.A. di provvedere sulla richiesta di annullamento del titolo autorizzatorio rilasciato al concessionario in relazione all’esercizio del punto di vendita sito in Rosarno, Via Nazionale s.n.c., identificato con il codice AAMS n. 13728. Visto l’art. 84, decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e di Goldbet S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 22 aprile 2020 il dott. Luca Iera e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il ricorrente è di titolare di un locale commerciale in relazione al quale ha sottoscritto in data 9 dicembre 2016 un contratto “per la commercializzazione dei giochi pubblici” con la Intralot Italia S.p.a. (a cui ora è subentrata la Goldbet S.p.a.), titolare del rapporto concessorio (identificato con il n. 4098) per l’esercizio di giochi pubblici ai sensi dell’art. 38, comma 2, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, conv. dalla legge n. 248 del 2006. Il contratto stipulato tra le parti ha ad oggetto l’attività di raccolta delle scommesse sportive da svolgersi nel proprio locale commerciale individuato, nell’ambito della rete di punti di vendita assentiti al concessionario, quale punto di vendita di giochi pubblici n. 13728 in virtù dell’autorizzazione rilasciata dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (ADM) (c.d. diritto del negozio di gioco sportivo). 2. Il ricorrente afferma che, nella qualità del gestore del punto di vendita n. 13728, è stato costretto a recedere, per causa imputabile alla condotta del concessionario, dal contratto del 9 dicembre 2016 e che a partire dal mese di giugno 2019 ha interrotto l’attività di raccolta delle scommesse per conto del concessionario. Pertanto con nota del 5 novembre 2019, “al fine di evitare l’irrogazione delle sanzioni previste dalla normativa vigente in materia per l’illegittima interruzione dell’attività”, ha formulato istanza all’ADM per il ritiro del titolo autorizzatorio alla raccolta dei giochi pubblici in relazione al punto di vendita n. 13728. 3. Scaduto il termine per provvedere sulla propria istanza, a seguito del silenzio inadempimento formatosi, il gestore ha proposto l’odierno ricorso con cui impugna il silenzio dell’amministrazione chiedendo la condanna a provvedere sulla propria istanza, previa nomina di un Commissario ad acta in caso di persistente inerzia dopo il termine concesso per provvedere. Il ricorso è affidato a quattro motivi. Con il primo, il secondo ed il quarto motivo, lamenta sostanzialmente che, in difetto dell’invocato provvedimento di annullamento del titolo autorizzatorio, vi sarebbe l’impossibilità di “proseguire l’attività di raccolta” con altro concessionario in altro esercizio commerciale limitrofo a quello in cui insiste il punto di vendita Intralot, nonché di destinare l’immobile in cui insiste il diritto n. 1327 “allo svolgimento di altra attività” commerciale. Fonda l’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione sul principio generale di buon andamento sancito dall’art. 97 della Costituzione, sull’art. 2 della legge n. 241 del 1990, su ragioni di equità e di giustizia, oltre che nella circolare AAMS 13 giugno 2017, prot. 62147, ai sensi della quale, secondo il ricorrente, “l’annullamento del titolo si rende necessario per il venir meno di uno dei requisiti essenziali richiesti per l’esercizio del diritto alla raccolta, ossia la disponibilità del locale”, circostanza appunto verificatasi a seguito del recesso dal rapporto contrattuale. Proprio quest’ultima previsione comporterebbe che “in mancanza di espressa richiesta di annullamento del titolo proveniente dal concessionario, è l’amministrazione stessa a dover assegnare un termine, ai sensi della legge n. 241/1990, affinché l’interessato provveda in tal senso, pena la revoca d’ufficio del titolo stesso”. Con il terzo motivo, sostiene che il ritiro dell’autorizzazione relativa al punto di vendita n. 1327 si pone quale attività doverosa e vincolata proprio in virtù dell’art. 4, comma 7 della convenzione di concessione n. 4098 (stipulata tra ADM e Intralot Italia s.r.l. in data 2 luglio 2007) secondo cui “il concessionario è tenuto a garantire la continuità del servizio presso il singolo punto di vendita di gioco sportivo. L’interruzione del servizio per un periodo di tempo superiore a 30 giorni, anche non continuativi nell’anno solare per i negozi di gioco sportivo, ovvero superiore a 90 giorni, anche non continuativi nell’anno solare per i punti di gioco sportivo, determina la decadenza del diritto”. 4. All’udienza del 22 aprile 2020 la causa è passata in decisione secondo quanto prevede l’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. 5. In via preliminare, il Collegio ritiene di non potere ammettere nel giudizio i documenti prodotti dalla resistente (in data 3 aprile 2020) e dal ricorrente (in data 19 aprile 2020) perché depositati oltre il termine dimidiato stabilito per i giudizi camerali dal combinato disposto degli artt. 73, comma 1 e art. 87, comma 3, c.p.a.. Non possono ammettersi altresì la memoria e i documenti depositati dalla controinteressata (in data 20 aprile 2020) poiché entrambi tardivi in quanto depositati sia oltre il termine dimidiato sopra ricordato sia oltre il termine perentorio (“sino a”) di “due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione” (22 aprile 2020), previsto con riferimento alla “facoltà di presentare brevi note”, stabilito per “tutte le controversie”, a prescindere dal rito a cui sono soggette, dall’art. 84, comma 5, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18. Infine, il Collegio evidenzia che nessuna parte si è valsa della facoltà prevista dal terzo periodo del comma 5 dell’art 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, secondo cui “Il giudice, su istanza proposta entro lo stesso termine [ovverosia sino a due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione] dalla parte che non si sia avvalsa della facoltà di presentare le note, dispone la rimessione in termini in relazione a quelli che, per effetto del secondo periodo del comma 1, non sia stato possibile osservare e adotta ogni conseguente provvedimento per l’ulteriore e più sollecito svolgimento del processo”. 6. Il ricorso è fondato. La questione controversia va risolta alla luce delle disposizioni sull’obbligo di provvedere contenute sia nel comma 1 dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 ai sensi del quale “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso” che nel comma 1 dell’art. 31 c.p.a. secondo cui “Decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”. 7. Prima di accertare la sussistenza dell’obbligo di provvedere, occorre stabilire se il ricorrente sia titolare di una situazione giuridica rilevante che lo abiliti a richiedere tutela avverso il silenzio inadempimento. È pertanto indispensabile una premessa di fondo sulla posizione giuridica dell’esercente che svolge l’attività di raccolta delle scommesse pubbliche. Dall’ordito normativo composto dall’art. 38, comma 2, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, conv. dalla legge n. 248 del 2006, dalla Convezione n. 4098 per l’affidamento in concessione dell’esercizio dei giochi pubblici stipulata tra l’ADM e il concessionario, individuato a seguito di procedura ad evidenza pubblica (secondo il modello della concorrenza per il mercato), avente natura di contratto ad oggetto pubblico ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990 e dal contratto di commercializzazione del 9 dicembre 2016 concluso tra il concessionario e l’esercente, emerge come l’esercente l’attività di raccolta delle scommesse sia parte integrante della c.d. filiera del gioco pubblico delle scommesse. Con il contratto di commercializzazione l’esercente riceve in concessione il diritto per l’esercizio dei giochi pubblici “limitatamente” ad un determinato esercizio (art. 3) ed è autorizzato a raccogliere e custodire le somme derivanti dalla scommesse (denaro avente natura pubblica), nonché ad effettuare il pagamento delle scommesse vincenti e a riversare al concessionario le somme raccolte (art. 5), al netto del proprio compenso (art. 10), il quale è, a suo volta, tenuto ad un analogo versamento in favore del concedente ai sensi della Convenzione. In virtù dell’impianto normativo sopra ricordato, l’esercente è tenuto a rispettare non solo le previsioni di legge che si riferiscono allo svolgimento di questa attività e alla sua qualità di agente contabile, ma altresì, la Convenzione stipulata tra l’amministrazione e il concessionario, le circolari e le disposizioni dell’ADM, laddove applicabili, che costituiscono per espressa previsione contrattuale quale “parte integrante e sostanziale” del contrato (artt. 3, 5, 8). Il contratto di commercializzazione quindi partecipa della stessa natura latu sensu pubblicistica della Convenzione, sicchè anche per esso può predicarsi la natura di contratto ad oggetto pubblico ai sensi dell’art. 11 della legge n. 241 del 1990. Più in particolare, nella filiera del gioco pubblico la posizione dell’esercente assumere rilievo sia nel momento genetico che nella fase esecutiva dell’attività di raccolta delle scommesse. Sotto il profilo genetico, l’autorizzazione all’attivazione della rete e all’esercizio dei punti di vendita dei giochi, rilasciata al concessionario, è subordinata al positivo riscontro (e mantenimento) del possesso di una serie di requisiti soggettivi ed oggettivi relativi sia all’esercente del punto di vendita che allo stesso esercizio commerciale, riscontro che viene effettuato ex ante dall’ADM mediante apposite “verifiche amministrative” (come si evince tra l’altro dall’art. 4, comma 1, lett. a), del contratto di commercializzazione) oppure dal concessionario che opera nell’interesse del concedente nell’ambito di un rapporto pubblicistico. Sotto il profilo funzionale, una volta autorizzato, il punto di vendita rimane soggetto ex post, nel corso del rapporto, al potere “di verifica e di controllo”, oltre che sanzionatorio (come prevede la Convezione), dell’ADM in relazione al rispetto dei requisiti stabiliti per svolgere l’attività di raccolta delle scommesse, oltre alle indicazioni contenute nelle circolari e nelle disposizioni del concedente (art. 4, lett. a); art. 5 lett. c), j), l), p), u), z); art. 8, commi 3 e 4, del contratto di commercializzazione). 8. Chiarito che l’esercente è titolare di una posizione giuridica qualificata nell’ambito del rapporto che viene qui in emersione e che assume, a certi fini, la qualifica di agente contabile, occorre ora verificare la sussistenza dell’obbligo di provvedere sull’istanza del ricorrente. Il dovere di provvedere può sorgere sia in relazione all’obbligo di concludere un procedimento che deve essere avviato ad istanza di parte o d’ufficio (comma 1, art. 2, legge n. 241 del 1990) oppure “negli altri casi previsti dalla legge” (comma 1 dell’art. 31 c.p.a.). In caso di mancata conclusione del procedimento oppure negli “altri casi previsti dalla legge”, il soggetto interessato dal provvedimento può agire, ai sensi degli artt. 31, commi 2 e 3, e 117, c.p.a., per l’accertamento del silenzio serbato dell’amministrazione e chiedere la condanna a provvedere. Da tempo tuttavia la giurisprudenza ha interpretato in senso sostanziale la previsione dell’obbligo di provvedere posto a carico dall’amministrazione stabilendo che “sussistete l’obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari” dove “ragioni di giustizia e di equità” impongano l'adozione di un provvedimento e quindi “tutte le volte in cui” in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione “sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487)” (Cons. St., Sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2468). Difatti, va evidenziato che, ove si limitasse l’obbligo di provvedere alle sole ipotesi in cui sia il diretto destinatario a lamentarsi della mancata conclusione del procedimento, molte posizioni giuridiche sostanziali verrebbero private di tutela o comunque le istanze ad esse collegate rimarrebbero prive di una adeguata risposta proveniente dai soggetti destinatori delle stesse. 9. Quest’ultima evenienza si verifica in relazione a tutte quelle posizioni giuridiche di cui sono titolari soggetti, terzi rispetto ad un determinato rapporto di diritto pubblico, i cui interessi materiali sono comunque coinvolti, in via diretta o indiretta, in quel rapporto e che pertanto subiscono pregiudizio, nella propria sfera giuridica, dalla mancata conclusione di un procedimento oppure dalla mancata adozione di un provvedimento inerente al rapporto di diritto pubblico posto a monte collegato al rapporto a valle di cui sono titolari. In queste ipotesi, ove non si dovesse ravvisare a carico dell’amministrazione l’obbligo di provvedere su istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo, gli interessi materiali di questi, sottesi alla predetta posizione, non riceverebbero adeguata protezione dall’ordinamento e ciò si risolverebbe nella violazione dei principi costituzionali di tutela del diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.) nei confronti dell’attività dell’amministrazione (art. 113 Cost.). Secondo un consolidato canone di interpretazione giuridica, tra le interpretazioni possibili di una disposizione occorre privilegiare quella che sia compatibile con le disposizioni costituzionali e ciò a maggior ragioni laddove viene in rilievo non solo la tutela di posizioni giuridiche sostanziali (artt. 24 e 113 Cost.), ma altresì il perseguimento del buon andamento e dell’imparzialità amministrativa dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). 10. Tutto ciò è quanto si verifica nel caso di specie dove occorre scongiurare che un’interpretazione formalistica e restrittiva delle disposizioni dell’obbligo di provvedere si tramutino nella lesione di valori costituzionali. Il ricorrente, quale esercente dell’attività di raccolta delle scommesse, è titolare di una posizione giuridica sostanziale, qualificata e differenziata, in relazione all’attività condotta nel proprio esercizio commerciale individuato dall’ADM quale punto di vendita n. 13728 rientrante nella rete di vendita del concessionario. Afferma che a causa dell’attuale presenza dell’autorizzazione n. 13728 non può svolgere l’attività di raccolta in altro esercizio commerciale per conto di un diverso concessionario, né può svolgere un’altra attività commerciale in quel medesimo esercizio. Evidenzia che l’atto autorizzatorio dovrebbe essere ritirato dall’amministrazione per la sopravvenuta carenza di uno dei suoi presupposti ossia per la mancanza di disponibilità da parte del concessionario del locale in cui si volge l’attività di raccolta (a seguito del suo recesso dal rapporto contrattuale in essere con il concessionario) e quindi chiede all’amministrazione di adottare, sempre che ne ricorrano i presupposti, gli atti di competenza per rimuovere il provvedimento che comprime la propria sfera giuridica. La posizione giuridica del ricorrente, che può qualificarsi quale interesse legittimo oppositivo, esige, per ragioni di giustizia e di equità sostanziale, tutela adeguata da parte dell’ordinamento, tutela che nel caso di specie può essere somministrata obbligando l’amministrazione, nella sua qualità di concedente del rapporto concessorio, nel cui ambito vengono svolte le attività e le funzioni per l’esercizio dei giochi pubblici, anche per il tramite dell’esercente, a riscontrare l’istanza del 5 novembre 2019. È dunque fondata la domanda del ricorrente affinché, una volta decorso il termine di legge per la conclusione del procedimento, l’amministrazione si pronunzi sull’istanza a suo tempo presentata. 11. Rimane fermo che il contenuto della risposta è rimesso alla valutazione dell’ADM per cui, ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.p.a. non è consentito in questa sede pronunziarsi sulla fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio. 12. In conclusione, il ricorso va accolto e va dichiarato l’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza del ricorrente nel termine di trenta giorni decorrente dalla comunicazione (o dalla notificazione, se anteriore) della presente sentenza. Si ritiene, inoltre, che sussistano i presupposti di legge ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a., per nominare sin d’ora, per il caso di ulteriore inerzia dell’amministrazione, un Commissario ad acta, nella persona del responsabile p.t. della Direzione Giochi – Ufficio Scommesse dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, con facoltà di delega a un funzionario dello stesso Ufficio, affinché si insedi e provveda, su istanza di parte, nell’ulteriore termine di trenta giorni. In considerazione della peculiarità della controversia sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, ordina all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di provvedere sulla istanza presentata dal ricorrente entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, dalla notificazione della presente decisione. Nomina quale Commissario ad acta il responsabile p.t. della Direzione Giochi – Ufficio Scommesse dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, con facoltà di delega ad altro funzionario dell’Ufficio, affinché si insedi e provveda, in via sostitutiva, entro l’ulteriore termine di 30 (trenta) giorni dalla comunicazione dell’inadempimento a cura del ricorrente. Compensa integralmente le spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 aprile 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza secondo quanto disposto dall’art. 84, comma 6, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, con l'intervento dei magistrati: Francesco Riccio, Presidente Filippo Maria Tropiano, Primo Referendario Luca Iera, Referendario, Estensore Francesco Riccio, Presidente Filippo Maria Tropiano, Primo Referendario Luca Iera, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere - Istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo – Sussiste.             L’interpretazione costituzionalmente orientata, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dell’obbligo di provvedere sull’istanza dell’interessato “negli altri casi previsti dalla legge”, sancito dall’art. 31, comma 1, c.p.a., porta ad affermare la sussistenza del dovere di provvedere in relazione alla posizione giuridica del terzo, titolare di un interesse legittimo oppositivo, i cui interessi materiali, oggetto di un rapporto negoziale posto a valle, siano pregiudicati, in via diretta o indiretta, da rapporto di diritto pubblico posto a monte (1).   (1) Ha ricordato la Sezione che da tempo la giurisprudenza ha interpretato in senso sostanziale la previsione dell’obbligo di provvedere posto a carico dall’amministrazione stabilendo che “sussistete l’obbligo giuridico di provvedere in tutte quelle fattispecie particolari” dove “ragioni di giustizia e di equità” impongano l'adozione di un provvedimento e quindi “tutte le volte in cui” in virtù del dovere di correttezza e di buona amministrazione “sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487; id., sez. IV, 27 aprile 2012, n. 2468). Difatti, va evidenziato che, ove si limitasse l’obbligo di provvedere alle sole ipotesi in cui sia il diretto destinatario a lamentarsi della mancata conclusione del procedimento, molte posizioni giuridiche sostanziali verrebbero private di tutela o comunque le istanze ad esse collegate rimarrebbero prive di una adeguata risposta proveniente dai soggetti destinatori delle stesse.   Quest’ultima evenienza si verifica in relazione a tutte quelle posizioni giuridiche di cui sono titolari soggetti, terzi rispetto ad un determinato rapporto di diritto pubblico, i cui interessi materiali sono comunque coinvolti, in via diretta o indiretta, in quel rapporto e che pertanto subiscono pregiudizio, nella propria sfera giuridica, dalla mancata conclusione di un procedimento oppure dalla mancata adozione di un provvedimento inerente al rapporto di diritto pubblico posto a monte collegato al rapporto a valle di cui sono titolari. In queste ipotesi, ove non si dovesse ravvisare a carico dell’amministrazione l’obbligo di provvedere su istanze che impattano sulla posizione giuridica del terzo, gli interessi materiali di questi, sottesi alla predetta posizione, non riceverebbero adeguata protezione dall’ordinamento e ciò si risolverebbe nella violazione dei principi costituzionali di tutela del diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.) nei confronti dell’attività dell’amministrazione (art. 113 Cost.). Secondo un consolidato canone di interpretazione giuridica, tra le interpretazioni possibili di una disposizione occorre privilegiare quella che sia compatibile con le disposizioni costituzionali e ciò a maggior ragioni laddove viene in rilievo non solo la tutela di posizioni giuridiche sostanziali (artt. 24 e 113 Cost.), ma altresì il perseguimento del buon andamento e dell’imparzialità amministrativa dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
Silenzio della P.A.
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/effetti-del-decreto-di-acquisizione-sanante-intervenuto-in-corso-di-giudizio-alla-luce-dei-principi-di-recente-affermati-in-merito-dall-adunanza-plena
Effetti del decreto di acquisizione sanante intervenuto in corso di giudizio alla luce dei principi di recente affermati in merito dall’Adunanza Plenaria
N. 01087/2020REG.PROV.COLL. N. 08924/2012 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8924 del 2012, proposto dal Comune di Ripa Teatina, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giuseppe Gialloreto, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Severino D'Amore in Roma, viale Parioli, n. 76; contro i signori Giustino Isidoro Rotolone e Giuseppina Rotolone, rappresentati e difesi dall'avvocato Ludovico Guarini, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Cinzia Meco in Roma, via Nomentana, n. 91; per la riforma della sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, n. 360 del 23 luglio 2012, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento danni per occupazione sine titulo Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dei signori Giustino Isidoro Rotolone e Giuseppina Rotolone; Viste le memorie e le memorie di replica; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 novembre 2019 il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Fabio Caiaffa, su delega dell’avvocato Giuseppe Gialloreto e l’avvocato Alessandro De Iuliis, su delega dell’avvocato Ludovico Guarino; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L’oggetto del presente giudizio è costituito dalla domanda proposta dai signori Giustino Isidoro Rotolone e Giuseppina Rotolone innanzi al T.A.R. per l’Abruzzo per il risarcimento del danno consequenziale ad occupazione d’urgenza di un’area di loro proprietà da parte del Comune di Ripa Teatina, per la realizzazione di un impianto sportivo e ricreativo polivalente, non seguita da regolare espropriazione. 2. Con l’impugnata sentenza (n. 360 del 23 luglio 2012) il Tribunale ha accolto il ricorso, assegnando al Comune resistente, ex art. 34, comma 4, c.p.a., 90 giorni di tempo per proporre una somma a titolo di risarcimento danni pari al valore dei terreni con riferimento alla data di scadenza della occupazione legittima, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali. Ciò in quanto le parti avrebbero sostanzialmente abdicato alla proprietà, rimasta fino ad allora nella loro formale titolarità, agendo esclusivamente per il risarcimento dei danni subiti a seguito della illegittima trasformazione del fondo. 3. Il Comune di Ripa Teatina ha proposto appello, ritualmente notificato il 10 dicembre 2012, articolando cinque motivi di gravame, con i quali ha censurato il giudizio di prime cure per non avere ritenuto il ricorso tardivo in relazione ai provvedimenti di occupazione e l’azione risarcitoria prescritta, avuto riguardo alla data di adozione degli stessi, nella sua interezza ovvero con riferimento agli interessi. Ha lamentato altresì l’omessa pronuncia sull’eccezione di riduzione del danno ex artt. 1227 c.c. e 30, comma 3, c.p.a., essendosi lo stesso aggravato in ragione dell’intempestiva tutela azionata da controparte. Ha infine riproposto la domanda riconvenzionale, respinta dal giudice di prime cure, avente ad oggetto l’avvenuta acquisizione della proprietà per usucapione. 4. Si sono costituiti in giudizio i signori Giustino Isidoro Rotolone e Giuseppina Rotolone per resistere all’appello, chiedendone la reiezione con conseguente conferma della sentenza impugnata. In particolare, al fine di sottolineare il comportamento asseritamente scorretto del Comune di Ripa Teatina, originariamente dilatorio, infine perfino omissivo, hanno ricostruito la complessa vicenda fattuale sottesa all’odierno contenzioso, intersecante peraltro ulteriori iniziative giudiziarie, chiaramente indicative di una condotta nient’affatto acquiescente da parte degli interessati: la prima occupazione, infatti, per mq. 4850, sarebbe sfociata in un decreto di esproprio dichiarato illegittimo perché emesso fuori dai termini previsti dalla legge e dalla relativa delibera giuntale (n. 113 dell’8 febbraio 1992) dalla Corte d’appello de L’Aquila, adìta in sede di opposizione alla stima; la seconda, pari a mq.5669, invece, sarebbe avvenuta de facto, non essendo mai stato adottato il necessario decreto di esproprio. 5. Con ordinanza n. 193 del 22 gennaio 2013, la sez. IV di questo Consiglio di Stato, nel respingere la domanda di sospensione dell’efficacia della pronuncia del T.A.R. presentata in via incidentale dal Comune appellante, in ragione della richiamata natura permanente dell’illecita occupazione sine titulo, affermava altresì: « In dipendenza di ciò il Comune non può dunque che riparare al danno commesso, eventualmente avviando il particolare procedimento di cui all’art. 42-bis del D.P.R. 8 giugno 2001 n. 327 come introdotto per effetto dell’art. 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 convertito in L. 15 luglio 2011 n. 111, non potendo per certo sottrarsi al proprio obbligo risarcitorio – derivante anche dall’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) – in dipendenza delle proprie difficoltà di bilancio ». 6. Con decreto n. 126 del 7 giugno 2013, pertanto, richiamando espressamente nei presupposti ridetta ordinanza n. 193/2013, il responsabile del relativo servizio del Comune di Ripa Teatina disponeva l’acquisizione al patrimonio dell’Ente ex art. 42 bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327/2001, di entrambi i lotti di cui all’odierna controversia, individuando anche l’importo dell’indennizzo, fissato in euro 28.057,64, sulla base delle tariffe di stima dei valori agricoli medi regionali per gli anni di riferimento. 7. Avverso tale decreto i signori Rotolone proponevano ricorso al medesimo T.A.R. per l’Abruzzo n.r. 382/2013, allo scopo di contestare le modalità di computo degli importi e gli esiti dello stesso. Tale ricorso veniva dichiarato perento con provvedimento presidenziale n. 62 del 22 dicembre 2015. 8. Con successivo ricorso alla Corte d’appello de L’ Aquila ex art. 29 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, in correlazione con l’art. 702 bis, comma 1, c.p.c., le parti riproponevano la lamentata doglianza di illegittimità della determinazione dell’importo loro spettante a titolo di indennizzo e risarcimento per la disposta acquisizione sanante. 9. Con sentenza n. 1803 del 7 novembre 2019, versata in atti da entrambe le parti, la Corte d’appello de L’Aquila, dopo aver premesso un’ampia ricostruzione degli arresti giurisprudenziali in materia di indennità di esproprio ovvero di occupazione sine titulo, ne ha quantificato gli importi nel caso di specie in complessivi € 326.598,00, oltre interessi legali sulla parte non ancora depositata, intimando altresì al Comune di integrare tale deposito originario già acceso in favore dei ricorrenti presso la Ragioneria territoriale dello Stato di Chieti per la somma di € 28.057,64. 10. Le memorie e le memorie di replica intercorse tra le parti in vista dell’odierna udienza, peraltro antecedenti la pubblicazione della ridetta sentenza della Corte d’appello de L’Aquila, possono essere così riassunte: a) il Comune appellante chiede dichiararsi improcedibile il ricorso di primo grado in ragione del consolidarsi degli effetti del decreto di acquisizione sanante adottato in ottemperanza alla decisione cautelare di questo Consiglio di Stato. Ciò in ragione della perenzione del ricorso al T.A.R. per l’Abruzzo proposto avverso il richiamato provvedimento; b) gli interessati, dopo aver chiesto l’espunzione dagli atti di causa in particolare del richiamato decreto di perenzione n. 62/2015, destinato comunque a produrre effetto solo nel procedimento cui è nello specifico riferito, insistono per la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza di prime cure, quanto meno in relazione all’affermato diritto al risarcimento del danno e ai fini di veder conclamata la soccombenza virtuale dell’amministrazione appellante, con conseguente refusione delle spese di giudizio. 11. Alla pubblica udienza del 19 novembre 2019, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 12. Preliminarmente il Collegio rileva che la asserita eccezione di tardività del deposito della documentazione prodotta dal Comune di Ripa Teatina, relativa ad eventi sopravvenuti al giudizio di primo grado, peraltro rispettosa dei termini di quaranta e venti giorni antecedenti l’udienza sanciti dall’art. 73 c.p.a., si palesa inconferente rispetto alla ricostruzione dei fatti di causa. La richiesta espunzione, infatti, del decreto di perenzione, provvedimento agevolmente attingibile dalla banca dati della giustizia amministrativa, appare priva di rilievo, costituendo per contro la sua produzione una modalità di semplificazione ricostruttiva dell’odierna vicenda e non certo la prova dell’avvenuta cristallizzazione degli importi risarcitori ivi statuiti. Ciò per l’evidente ragione che la relativa vicenda è stata riproposta nella dovuta sede dagli interessati e da ultimo definita con la richiamata sentenza della Corte d’appello de L’Aquila, che ne ha già sancito l’illegittimità per la sola parte di interesse, rideterminando correttamente le somme di spettanza della proprietà. 13. Resta pertanto da esaminare l’effetto di tale pronuncia sull’odierno giudizio ovvero, più precisamente, l’effetto del sopravvenuto decreto di acquisizione sanante, il cui contenuto è stato rettificato per la parte relativa alla quantificazione dell’indennizzo dalla più volte richiamata sentenza del giudice civile. 14. Afferma il Comune appellante (senza adesione di controparte che insiste per la reiezione del gravame, nei sensi e limiti sopra precisati), che vada dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso di primo grado in considerazione del provvedimento di acquisizione sanante emesso dal medesimo Comune. 15. L’assunto non è condivisibile. 16. Il Collegio ben conosce la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, dalla quale non è ragione di decampare, alla stregua della quale tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzano nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 settembre 2018, n. 3848; sez. V, 22 maggio 2012, n. 2975; id., 13 ottobre 2010, n. 7472 e 5 maggio 2009, n. 2801). Invero, si è più esattamente osservato che «sulla base del provvedimento di acquisizione sanante emesso, la p.a. ha ormai acquisito il diritto di proprietà dell'area di cui già aveva il possesso; d'altra parte, ogni contestazione avverso questo nuovo provvedimento può essere fatta valere, nel caso di sua impugnazione, in sede di cognizione» (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2012, n. 1438). Tale orientamento trova conferma nei pronunciamenti della Suprema Corte avendo questa osservato che «l'emanazione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante, D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42 bis (qui, pacificamente, non intervenuta), "determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno». (cfr. Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686; 31 maggio 2016, n. 11258; sez. II, 14 gennaio 2013, n. 705; sulla rilevanza ostativa del giudicato: Ad. plen. 9 febbraio 2016, n. 2). 17. Ciò d’altro canto appare in linea con i principi di recente affermati anche dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, laddove, dopo aver ribadito la natura permanente dell’illecito conseguente ad occupazione sine titulo, e per converso escluso qualsivoglia forma di acquisizione della proprietà pubblica per mero decorso del tempo, ovvero per rinuncia abdicativa (o traslativa) dei proprietari che abbiano agito esclusivamente in via risarcitoria, ha individuato nel provvedimento di cui all’art. 42 bis il rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente (cfr. A.P., 20 gennaio 2020, nn.2,3 e 4). L’amministrazione, cioè, «è titolare di una funzione, a carattere doveroso nell’an, consistente nella scelta tra la restituzione del bene previa rimessione in pristino e acquisizione ai sensi dell’articolo 42-bis; non quindi una mera facoltà di scelta (o di non scegliere) tra opzioni possibili, ma doveroso esercizio di un potere che potrà avere come esito o la restituzione al privato o l’acquisizione alla mano pubblica del bene. Alternative entrambe finalizzate a porre fine allo stato di illegalità in cui versa la situazione presupposta dalla norma» (A.P., n. 4/2020, cit. supra). 18. Nel caso di specie, tuttavia, l’improcedibilità della domanda di risarcimento del danno, al pari di quelle eventuali di restituzione, conseguente all’avvenuta acquisizione degli immobili, a maggior ragione nel mutato quadro giurisprudenziale poc’anzi richiamato, non può non fare salva la formazione del giudicato sulla sottesa illiceità del comportamento della P.A. , giacché l’emanazione del provvedimento ex art. 42 bis ha costituito (al pari della restituzione del fondo o di un accordo transattivo) causa di cessazione di quella illiceità, sulla quale si fondava l’originaria istanza risarcitoria (cfr. al riguardo ancora Cass. civ., sez. I, n. 5686/2017, cit. supra; Cons. Stato, sez. IV, 26 aprile 2019, n. 2678; id., 30 agosto 2017, n. 4106). 19. La peculiarità della vicenda, infatti, consegue alla circostanza che in sede di decisione cautelare questo Consiglio di Stato ha già sostanzialmente riqualificato la domanda di parte, individuando nel provvedimento di acquisizione della proprietà l’unico rimedio alla situazione di conclamata e perdurante illiceità, una volta esclusa la possibilità di restituzione per l’irreversibile trasformazione del suolo ormai intervenuta, e conseguentemente canalizzando l’interesse delle parti sui contenuti dell’atto in questione. Ciò non senza aver prima ricordato come «l’illecito costituito dal protrarsi dell’occupazione sine titulo non è prescrittibile in quanto permanente, né sussistono nella specie i presupposti per l’applicazione a favore del Comune medesimo dell’istituto dell’usucapione». Principio ormai consacrato nella giurisprudenza granitica di questo Consiglio di Stato, a riprova dell’infondatezza anche nel merito delle pretese dell’amministrazione appellante (cfr., ancorché con riferimento alla cessazione dell’illecito per rinuncia abdicativa implicita nella richiesta risarcitoria, Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2017, n. 5262; id., 19 ottobre 2015, n. 22096). 20. Il decreto di acquisizione che ha posto fine alla situazione di illiceità pregressa, è sopravvenuto, dunque, non al ricorso, ma al giudizio di primo grado; anzi, come correttamente evidenziato dagli appellati, esso è conseguito proprio all’ottemperanza alla decisione cautelare, che aveva indirizzato in tal senso il proprio effetto conformativo, pur rimettendo all’amministrazione procedente la valutazione in concreto della sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’atto. Acclarata, infatti, la natura permanente dell’illecita occupazione e riconosciuto, almeno prima facie, il diritto al risarcimento del danno subito, l’amministrazione veniva invitata a far cessare tale stato di cose «eventualmente» utilizzando il provvedimento di cui all’art. 42 bis, nel frattempo introdotto dal legislatore nel TUes per rimediare alla lacuna riveniente dalla declaratoria di illegittimità costituzionale del previgente art. 43. L’utilizzo della locuzione avverbiale dubitativa consegue alla demandata necessità che l’amministrazione valutasse in concreto la perseguibilità di opzioni alternative, in primis la restituzione del bene previo ripristino dello status quo ante. Il procedimento declinato dall’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001, infatti, ha natura ablatoria sicuramente sui generis , in quanto si caratterizza per la precisa base legale, ma peculiari e autonomi presupposti, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc). Il suo scopo « non è (e non può essere) quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che giustificano l’acquisizione del bene utilizzato al patrimonio indisponibile in funzione del mantenimento dell’opera pubblica realizzata (o, comunque, delle modificazioni apportate al bene) sine titulo» (cfr. ancora A.P., n. 4/2020). 21. Ciò posto, calando i princìpi rammentati sopra nel caso di specie, appare chiaro che il Comune, nell’aderire a tale proposta, ha necessariamente effettuato la previa valutazione delle circostanze e comparato gli interessi in conflitto secondo i criteri previsti dal comma 4 dell’art. 42 bis: con delibera n. 9 del 19 febbraio 2013, infatti, il Consiglio comunale, nel conferire mandato gestionale al funzionario competente ratione materiae, ha individuato nell’acquisizione sanante l’unica via percorribile per «riparare al danno commesso», una volta acquisite le risultanze istruttorie dagli uffici circa l’onerosità della riduzione in pristino, ma, soprattutto, circa l’attualità dell’interesse all’utilizzo del complesso sportivo denominato “Rocky Marciano”, già realizzato da tempo in loco. Quanto detto non senza aver prima richiamato i contenuti dell’ordinanza cautelare n. 193/2013 finanche con riguardo all’ipotizzato contrasto della tentata elusione del proprio obbligo risarcitorio -rectius, rileva la Sezione, della rivendicata occupazione acquisitiva o usucapione, al di fuori dei limitati casi in cui se ne può ipotizzare la sussistenza- con l’art. 1 del Protocollo addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). 22. Non si rende pertanto necessaria una (ulteriore) riqualificazione della originaria richiesta risarcitoria, allo scopo di evitare «che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc. amm., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali» (cfr. ancora A.P. n. 4/2020). 23. La spontanea adesione al suggerimento già fornito da questo giudice in sede cautelare ha determinato infatti l’irreversibile trasformazione della situazione di fatto e di diritto sottesa all’odierna controversia, tale da rendere del tutto priva di qualsiasi utilità la decisione giurisdizionale di secondo grado, avendo fatto convergere su un diverso provvedimento l’interesse alla stessa (cfr. Cons. Stato sez. V, 17 giugno 2014, n.3094). La circostanza, tuttavia, che suddetto provvedimento tragga origine e causa negli esiti del giudizio di primo grado, ne impongono la collocazione a valle e non a monte dello stesso, sì da impattare sulla procedibilità dell’appello, piuttosto che su quella del giudizio di primo grado, i cui ricordati effetti conformativi necessitano di essere salvaguardati, pur con le precisazioni fornite. In sintesi, è dall’affermata natura illecita e perdurante dell’occupazione in essere che è scaturito il decreto di acquisizione che ne ha interrotto gli effetti, traslando la proprietà al Comune appellante. Ciò ha comportato anche l’avvenuta quantificazione dell’indennizzo dovuto, il cui importo risulta oggi determinato all’esito del giudizio civile appositamente promosso allo scopo. 24. Solo per completezza, ricorda infine la Sezione come una volta individuato nel provvedimento di cui all’art. 42 bis TUes il segmento terminale della procedura espropriativa, le controversie concernenti non la legittimità dell’atto ex se, ma gli importi in esso contenuti, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi dell'art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327/2001 e dell’art. 133, comma 1, lett. g), ultimo periodo, c.p.a. (cfr. ex multis, Cass., SS.UU., 21 febbraio 2019, n. 5201) e risultano devolute alla Corte d’appello, in unico grado, secondo la regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità desumibile dalla interpretazione estensiva dell’art. 29 d.lgs. 150/2011, «il quale non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto introdotto nell’ordinamento solo in epoca successiva» (Cass., SS.UU., 8 novembre 2018, n. 28572). La natura indennitaria (di pregiudizi conseguenti ad un atto lecito) e non risarcitoria (di danni cagionati da un fatto illecito) delle somme che la PA è tenuta a liquidare e a pagare (o, in mancanza di accettazione, a depositare) per pervenire alla acquisizione del bene al proprio patrimonio indisponibile è stata affermata e confermata dalla giurisprudenza nomofilattica non solo in relazione alle somme qualificate dallo stesso legislatore come “indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale” per la perdita della proprietà del bene immobile (così già Cass., SS.UU., 25 luglio 2015, n. 22096), ma anche in relazione all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’immobile, menzionato al comma 3 dell’art. 42 bis che ne prevede il pagamento “a titolo risarcitorio”, giacché si tratta di «una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale previsto dal comma 1 […] il diritto al quale (nella sua integralità, comprensiva delle voci valore venale, pregiudizio non patrimoniale e interesse del cinque per cento annuo per il periodo di occupazione) sorge solo a seguito dell’adozione del provvedimento di espropriazione c.d. sanante», sicché l’uso dell’espressione “a titolo risarcitorio” costituisce «mera imprecisione lessicale, che non altera la natura della corrispondente voce dell’indennizzo, il quale essendo unitario non può che avere natura unitaria» (Cass., SS.UU., 25 luglio 2016, n. 15283). Nel caso di specie, come ricordato, la contestazione del quantum dovuto a titolo di indennizzo nel decreto di acquisizione dei terreni de quibus, che ha posto fine all’illegittima occupazione pregressa, ha esaurito il segmento della procedura di interesse di questo giudice; l’avvenuta perenzione del ricorso proposto avverso tale provvedimento in parte qua non ha pertanto certo prodotto il paventato effetto (da parte appellata) di cristallizzarne gli importi per come ivi determinati, essendo la relativa quantificazione stata completamente rideterminata dal giudice ordinario, competente in via esclusiva ex art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. Tale stato di fatto e di diritto non è in alcun modo tangibile dall’odierna decisione, estranea al ridetto perimetro, ormai consolidatosi. 25. A tanto consegue la declaratoria di improcedibilità dell’appello e la conseguente conferma della sentenza di primo grado, nei circoscritti limiti sopra precisati. Le pretese risarcitorie -e per contro il diniego delle stesse- devono ritenersi infatti superate ed interamente assorbite nel decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 che ha “regolarizzato” la posizione del Comune e determinato lo spostamento delle questioni inerenti al dovuto indennizzo e/o risarcimento del danno, come sopra precisato, in altra sede, neutralizzando le precedenti questioni poste. 26. Le spese del grado di giudizio, regolamentate secondo il criterio della soccombenza virtuale, sono da porre a carico del Comune di Ripa Teatina e sono liquidate nella misura stabilita in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto (R.G. n. 8924/2012), lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse e, per l’effetto, conferma la sentenza del T.A.R. per l’Abruzzo n. 360/2012, nei sensi e limiti di cui in motivazione. Condanna il Comune di Ripa Teatina al rimborso delle spese del grado di giudizio che liquida in euro 3.000,00 (tremila/00) in favore delle parti costituite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Fulvio Rocco, Consigliere Italo Volpe, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Giovanni Orsini, Consigliere Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Fulvio Rocco, Consigliere Italo Volpe, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Giovanni Orsini, Consigliere IL SEGRETARIO
Espropriazione per pubblica utilità –  Acquisizione sanante - Domande di restituzione e di risarcimento del danno  - Presentazione - Conseguenza.     Espropriazione per pubblica utilità –  Acquisizione sanante - Domande di risarcimento del danno  - Effetto traslativo della proprietà - Esclusione. Errore scusabile - Riconoscibilità.                L’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l'improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno; tale provvedimento, infatti, costituisce l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino (1).               La richiesta del solo risarcimento del danno per occupazione sine titulo non può produrre alcun effetto traslativo della proprietà in capo alla p.a. procedente; il mutamento del quadro normativo e giurisprudenziale impone tuttavia di individuare i possibili strumenti per non privare la parte del suo diritto di difesa, “riqualificando” la domanda a suo tempo proposta in maniera coerente con l’assetto preesistente: in tale ottica è dunque possibile rimetterla in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 c.p.a. o invitarla alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, c.p.a., a garanzia del diritto di difesa (2).     (1) Con la sentenza in esame la Sezione affronta il problema degli effetti della sopravvenienza del decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001 sui contenziosi in corso, alla luce dei principi affermati in merito dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 20 gennaio 2020, nn. 2, 3 e 4. Esso costituisce il rimedio formale necessario per far cessare l’illecito permanente dell’occupazione sine titulo, alternativo solo alla restituzione del bene, previa rimessa in pristino, quale scelta da privilegiare previa valutazione della fattibilità e comparazione motivata degli interessi in gioco. La sua adozione fa sì che tutte le aspettative di tutela del privato, risarcitorie e restitutorie, si canalizzino nell’eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento di acquisizione sanante intervenuto nel corso del giudizio che, conseguentemente, deve concludersi con una declaratoria di improcedibilità del ricorso (cfr. Cons. St., sez. IV, 12 settembre 2018, n. 3848; id., sez. V, 22 maggio 2012, n. 2975; id. 13 ottobre 2010, n. 7472 e 5 maggio 2009, n. 2801).   (2) La proposizione in primo grado di una sola istanza risarcitoria non può implicare la rinuncia traslativa alla proprietà del bene oggetto di occupazione sine titulo, trattandosi di istituto che non trova spazio nel procedimento espropriativo. Al fine, tuttavia, di non privare le parti di garanzie di difesa, è necessario che il giudice si adoperi per individuare i possibili rimedi offerti dall’ordinamento processuale per adeguare la domanda, un tempo coerente con il quadro dottrinario e giurisprudenziale, al mutato contesto.   A tale scopo, ove non sia possibile riqualificare la domanda, come suggerito dall’Adunanza Plenaria il giudice potrà rimettere le parti in termini per errore scusabile ex art. 37 c.p.a., ovvero comunque sottoporre la questione processuale sopravvenuta, ove rilevata d’ufficio, al vaglio delle parti ex art. 73 c.p.a.   Ove, tuttavia, il decreto di acquisizione sia sopravvenuto in ottemperanza ad una decisione di primo grado o a una pronuncia cautelare, ridetta riqualificazione d’ufficio o riformulazione della domanda non si rende più necessaria, dovendosi prendere atto dell’avvenuta adozione del provvedimento e della conseguente cessazione dello stato di illiceità che aveva fondato la domanda risarcitoria originaria. Ne consegue che, ferma restando l’estraneità alla giurisdizione del giudice amministrativo di eventuali residue controversie sul quantum di indennizzo e/o risarcimento previsto in tale provvedimento, diviene improcedibile il giudizio di appello, non potendo più considerarsi tale quello di primo grado.
Espropriazione per pubblica utilità
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Emersione lavoro irregolare nel settore dell’agricoltura e criterio cronologico nel caso di reddito del datore di lavoro incapiente a fronte di una molteplicità di domande
N. 00159/2022 REG.PROV.COLL. N. 01937/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 1937 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Daniele Drago, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Ministero dell’Interno (Ufficio Territoriale del Governo di -OMISSIS- – Sportello Unico per l’Immigrazione), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catania, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento: del provvedimento di rigetto dell'istanza di emersione dal lavoro irregolare con identificativo n. P-RG/L/N/2020/100676, emesso in data 01.10.2021 dall’Ufficio Territoriale del Governo di -OMISSIS- - Sportello Unico per l'Immigrazione; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 gennaio 2022 il dott. Pierluigi Buonomo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Visti gli artt. 55 e 60 c.p.a.; Ritenuta la sussistenza dei presupposti per la decisione del ricorso con sentenza in forma semplificata, del che è stato dato atto a verbale; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO E DIRITTO 1.- Con ricorso ritualmente notificato e depositato, il ricorrente, straniero presente sul territorio nazionale, impugna il provvedimento in epigrafe indicato con il quale è stata rigettata la domanda di emersione dal lavoro irregolare presentata, in suo favore, dal datore di lavoro, unitamente ad altre due analoghe richieste, ai sensi dell’art. 103 D.L. 34/2020. Detto rigetto è motivato in ragione della insufficienza della soglia reddituale minima quantificata dalla p.a. in Euro 30.000,00 “per ciascun lavoratore dipendente”. Espone che: - era stato comprovato un volume di affari aziendale di euro 71.479,00 per l’esercizio precedente a quello della domanda di emersione (2019); - nel successivo anno 2020, il volume d’affari della ditta è stato di euro 99.606,00, come da documentazione versata in atti. 2.- Avverso il provvedimento impugnato, pur non rubricandosi espressamente le censure, si deduce in sostanza: 1) il difetto di istruttoria e di motivazione, atteso che l’Ispettorato Territoriale del Lavoro ha ritenuto l’esistenza di un reddito insufficiente in capo al datore di lavoro, senza effettuare la verifica di congruità del fatturato prodotto, ai sensi dell’art. 30 bis, c. 8, d.P.R. n. 394/99 e limitandosi a moltiplicare la soglia minima di fatturato richiesta per il numero di lavoratori rispetto ai quali veniva avanzata istanza di emersione; 2) l’erronea valutazione dei presupposti di fatto, atteso che è stato preso a riferimento il reddito dell’anno precedente alla domanda di emersione (2019) e non quello dell’anno in corso - 2020 (poi prodotto in sede di dichiarazione IVA 2021), sulla base del quale, anche applicando il criterio rigidamente matematico (di Euro 30.000,00 per ciascun straniero da regolarizzare), il ricorrente avrebbe avuto diritto ad ottenere il provvedimento favorevole; 3) la disparità di trattamento rispetto ai due ulteriori lavoratori regolarizzati, sulla base esclusivamente dell’ordine cronologico di presentazione dell’istanza di emersione. 3.- Si costituiva, con memoria di stile, la parte pubblica intimata. All’udienza camerale del 13.01.2022, la causa è stata trattenuta in decisione per la sentenza in forma semplificata, del che è stato dato avviso a verbale. 4.- Il ricorso è fondato e, pertanto, va accolto, sia pur solo nei limiti e nei sensi di seguito specificati. 5.- Preliminarmente il Collegio ricostruisce il quadro normativo applicabile al caso di specie. Innanzitutto l’art. 103, c. 1, D.L. 34/2020, conv. in L. n. 77/2020, recita: “Al fine di garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da -COVID-19 e favorire l'emersione di rapporti di lavoro irregolari, i datori di lavoro italiani o cittadini di uno Stato membro dell'Unione europea, ovvero i datori di lavoro stranieri in possesso del titolo di soggiorno previsto dall'articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, possono presentare istanza, con le modalità di cui ai commi 4, 5, 6 e 7, per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto 6 di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri. A tal fine, i cittadini stranieri devono essere stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell'8 marzo 2020 ovvero devono aver soggiornato in Italia precedentemente alla suddetta data, in forza della dichiarazione di presenza, resa ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68 o di attestazioni costituite da documentazione di data certa proveniente da organismi pubblici; in entrambi i casi, i cittadini stranieri non devono aver lasciato il territorio nazionale dall'8 marzo 2020”. Il comma 3 del medesimo articolo individua poi il campo di applicazione della norma, nel quale rientrano le dichiarazioni presentate dall’odierno ricorrente: “a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse”. Il successivo comma 4 prevede, inoltre, che “Nell'istanza di cui al comma 1 sono indicate la durata del contratto di lavoro e la retribuzione convenuta, non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di lavoro di riferimento stipulato dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. L'art. 103, c. 6, del D.L. n. 34/2020 ha rimesso ad apposito D.M. la fissazione dei “limiti di reddito del datore di lavoro richiesti per l'instaurazione del rapporto di lavoro”. E’ stato quindi adottato il Decreto Ministeriale del 27/05/2020, il cui art. 9 stabilisce, in particolare, per quanto qui interessa: - al comma 1, che “l’ammissione alla procedura di emersione è condizionata all’attestazione del possesso, da parte del datore di lavoro persona fisica, ente o società, di un reddito imponibile o di un fatturato risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi o dal bilancio di esercizio precedente non inferiore a 30.000,00 euro annui …”; - al comma 4, primo periodo, che “In caso di dichiarazione di emersione presentata allo Sportello Unico dal medesimo datore di lavoro per più lavoratori, ai fini della sussistenza del requisito reddituale … la congruità della capacità economica del datore di lavoro in rapporto al numero delle richieste presentate, è valutata dall’Ispettorato territoriale del lavoro, ai sensi del comma 8 dell’art. 30-bis del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, sulla base dei contratti collettivi di lavoro indicati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali e delle tabelle del costo medio orario del lavoro emanate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali adottate ai sensi dell'art. 23, comma 16 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”; - al comma 4, secondo periodo, che “Nel caso in cui la capacità economica del datore di lavoro non risulti congrua in relazione alla totalità delle istanze presentate, le stesse possono essere accolte limitatamente ai lavoratori per i quali, in base all'ordine cronologico di presentazione delle istanze, i requisiti reddituali risultano congrui.”. La circolare prot. n. 1395 del 30/05/2020 del Ministero dell’Interno – Dip. Per le Libertà Civili e l’Immigrazione ha previsto, poi, che “per il lavoro subordinato il reddito imponibile o fatturato, quali risultanti dall’ultima dichiarazione dei redditi o dal bilancio di esercizio precedente, debba essere non inferiore a 30.000,00 € annui”. La predetta circolare ha specificato inoltre che “qualora venga presentata una dichiarazione di emersione da medesimo datore di lavoro per più lavoratori, la valutazione della capacità economica del datore di lavoro è rimessa all’I.T.L., ai sensi dell’art. 30 bis, comma 8, del D.P.R. 394/99 e, in ogni caso, le istanze presentate potranno essere accolte limitatamente ai lavoratori per i quali, in base all’ordine cronologico di presentazione, i requisiti reddituali risultino congrui”. Sotto tale profilo, dunque, non si può fare a meno di richiamare, infine, l’art. 30 bis, comma 8, del DPR 394/1999, secondo il quale “Lo Sportello unico, fermo quanto previsto dall' articolo 30-quinquies, procede alla verifica della regolarità, della completezza e dell'idoneità della documentazione presentata ai sensi del comma 1, nonché acquisisce dalla Direzione provinciale del lavoro, anche in via telematica, la verifica dell'osservanza delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro applicabile alla fattispecie e la congruità del numero delle richieste presentate, per il medesimo periodo, dallo stesso datore di lavoro, in relazione alla sua capacità economica e alle esigenze dell'impresa, anche in relazione agli impegni retributivi ed assicurativi previsti dalla normativa vigente e dai contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria applicabili. La disposizione relativa alla verifica della congruità in rapporto alla capacità economica del datore di lavoro non si applica al datore di lavoro affetto da patologie o handicap che ne limitano l'autosufficienza, il quale intende assumere un lavoratore straniero addetto alla sua assistenza”. 5.1.- Ciò detto, ad avviso del Collegio, dal quadro normativo sopra riportato emerge come correttamente il legislatore abbia inteso perseguire l’interesse alla regolarizzazione degli stranieri privi di permesso di soggiorno, i quali svolgono la propria prestazione d’opera secondo le forme del lavoro subordinato senza un regolare contratto, passando attraverso una verifica della capacità dell’impresa istante di dimostrare la solidità aziendale e, conseguentemente, la veridicità delle dichiarazioni rese e ciò al fine di poter stipulare un regolare contratto di lavoro, nel rispetto delle norme di categoria applicabili. La normativa di riferimento è peraltro chiara nel fissare una soglia minima di 30.000,00 euro di fatturato riferita al bilancio di esercizio dell’anno precedente a quello della presentazione dell’istanza. E’ pertanto inconferente il richiamo di parte ricorrente al bilancio di esercizio in corso, ovvero a quello successivo. Del pari inconferente è la censura relativa al pregiudizio che il ricorrente subirebbe dal fatto che la sua istanza di emersione sarebbe stata presentata per ultima dal datore di lavoro. Invero, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità secondo ragionevolezza, ha posto come limite al prospettato “pericolo” che il reddito del datore di lavoro non consenta la “capienza” di tutte le istanze presentate, proprio quello dell’ordine di presentazione delle stesse. Tale elemento fattuale, oltre a costituire un criterio oggettivo, è comunque dipendente dalle scelte dell’imprenditore che intende regolarizzare lo straniero, rispondendo preliminarmente ad un interesse dello stesso datore di lavoro (che intende evitare sanzioni per il lavoro irregolare) e poi a quello generale ad una corretta alimentazione del gettito delle finanze pubbliche ed al fisiologico dispiegarsi dei rapporti di lavoro subordinato, secondo i principi costituzionali di tutela della dignità del lavoratore e contrasto allo sfruttamento. Il secondo e terzo profilo di ricorso sono quindi infondati. 5.2.- Fondata è invece la prima censura (difetto di istruttoria e di motivazione) atteso che la normativa, se, da un lato, pone una soglia minima per la presentazione anche di una sola istanza nel settore di cui trattasi (30.000,00 euro), dall’altro lato, non prevede che detta soglia minima debba essere automaticamente moltiplicata per il numero dei lavoratori da regolarizzare. Una interpretazione restrittiva nel senso prospettato nel provvedimento impugnato cozzerebbe con il tenore letterale e con la ratio logico-sistematica della norma, svuotando di significato il c. 4, dell’art. 9 d.m. 27/5/2020, che - nel prefigurare una possibile concomitanza di plurime istanze da parte dello stesso datore di lavoro – affida all’Ispettorato territoriale del lavoro (cui la Prefettura, per legge, delega l’istruttoria, ma non il potere di provvedere), il giudizio sulla “congruità della capacità economica del datore di lavoro in rapporto al numero delle richieste presentate”, e quindi la verifica sulla loro accoglibilità. Tale verifica di congruità, se, da un lato, non può esimersi dal transitare attraverso giudizi di contabilità aziendale, non può risolversi in una mera operazione matematica (30.000 euro per straniero), ma deve necessariamente passare attraverso una analisi della capacità economica e delle esigenze dell'impresa, anche in relazione agli impegni retributivi ed assicurativi previsti dalla normativa vigente e dai contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria applicabili. 5.3.- Il provvedimento impugnato è quindi viziato per difetto di istruttoria e di motivazione nei sensi descritti sub 5.2, limitandosi a richiamare una asserita insufficienza del volume di affari prodotto dal datore di lavoro. 6.- In conclusione il ricorso, in quanto fondato, sia pur sotto tale limitato profilo, va accolto. L’effetto conformativo che ne consegue consiste nell’obbligo, dello Sportello Unico per l’immigrazione di -OMISSIS- (avvalendosi dell’ausilio dell’Ispettorato del lavoro), di riesaminare l’istanza di emersione alla luce dei principi espressi in motivazione. 7.- La parziale novità delle questioni trattate e il limitato accoglimento del gravame, giustificano la compensazione delle spese del giudizio, salva la rifusione del contributo unificato. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, e, per l’effetto, annulla, il provvedimento impugnato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti della competente Amministrazione. Spese compensate, salva la rifusione del contributo unificato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catania nella camera di consiglio del giorno 13 gennaio 2022 con l'intervento dei magistrati: Federica Cabrini, Presidente Francesco Bruno, Consigliere Pierluigi Buonomo, Referendario, Estensore Federica Cabrini, Presidente Francesco Bruno, Consigliere Pierluigi Buonomo, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Straniero – Emersione lavoro irregolare – Settore dell’agricoltura – Molteplicità delle domande e reddito del datore di lavoro incapiente - Criterio cronologico.   ​​​​​​​             In tema di procedura per l’emersione del lavoro irregolare nel settore dell’agricoltura, ex art. 103, d.l. n. 34 del 2020, convertito in l. n. 77 del 2020, l’art. 9, d.m. 27 maggio 2020, da un lato, è chiaro nel fissare (in ogni caso) la soglia minima di 30.000,00 euro di fatturato riferendola al bilancio di esercizio dell’anno precedente a quello della presentazione dell’istanza (è pertanto inconferente il richiamo ad un successivo bilancio di esercizio), ma, dall’altro lato, non prevede che detta soglia minima debba essere automaticamente moltiplicata per il numero dei lavoratori da regolarizzare (affidando all’Ispettorato territoriale del lavoro, il giudizio sulla “congruità della capacità economica del datore di lavoro in rapporto al numero delle richieste presentate”); qualora il reddito del datore di lavoro non consenta la “capienza” di tutte le istanze presentate, è infine razionale il criterio fissato dal predetto decreto, secondo cui si segue l’ordine cronologico di presentazione delle istanze stesse (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità secondo ragionevolezza, ha posto come limite al prospettato “pericolo” che il reddito del datore di lavoro non consenta la “capienza” di tutte le istanze presentate, proprio quello dell’ordine di presentazione delle stesse. Tale elemento fattuale, oltre a costituire un criterio oggettivo, è comunque dipendente dalle scelte dell’imprenditore che intende regolarizzare lo straniero, rispondendo preliminarmente ad un interesse dello stesso datore di lavoro (che intende evitare sanzioni per il lavoro irregolare) e poi a quello generale ad una corretta alimentazione del gettito delle finanze pubbliche ed al fisiologico dispiegarsi dei rapporti di lavoro subordinato, secondo i principi costituzionali di tutela della dignità del lavoratore e contrasto allo sfruttamento.
Straniero
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/al-giudice-amministrativo-la-domanda-di-annullamento-dell-atto-con-cui-il-consiglio-dell-ordine-dispone-la-sospensione-dell-esercente-la-professione-s
Al giudice amministrativo la domanda di annullamento dell’atto con cui il Consiglio dell’Ordine dispone la sospensione dell’esercente la professione sanitaria che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione per la patologia Covid-1
N. 08434/2022REG.PROV.COLL. N. 07102/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA ai sensi degli artt. 38 e 60 c.p.a. sul ricorso numero di registro generale 7102 del 2022, proposto dalla -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’Avvocato Stefano De Bosio, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro l’Ordine Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione di Genova, Imperia e Savona, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocato Lucia Zaccagnini e dall’Avvocato Giovanna De Vita, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dello stesso Avvocato Lucia Zaccagnini in Roma, Lungotevere dei Mellini, n. 7, per la riforma della sentenza -OMISSIS- del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, resa tra le parti, che ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine al ricorso per l’annullamento della deliberazione con cui il Consiglio dell’Ordine Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione di Genova, Imperia e Savona ha sospeso l’interessata dall’abilitazione al lavoro, essendo la stessa risultata inadempiente all’obbligo vaccinale per la patologia Covid-19. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ordine Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione di Genova, Imperia e Savona; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2022, il Cons. Massimiliano Noccelli; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 c.p.a.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso -OMISSIS-, proposto avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Liguria e successivamente integrato da motivi aggiunti, l’odierna appellante, -OMISSIS-, ha impugnato il provvedimento di ingiunzione di trattamento sanitario vaccinale anti SARS-CoV-2 e la successiva sospensione dall’esercizio della professione (dalla quale conseguiva inevitabilmente la sospensione dallo stipendio e dal lavoro), provvedimenti di cui ha lamentato l’illegittimità, in quanto la ricorrente ha affermato di avere già consentito a due inoculazioni del farmaco -OMISSIS-, in entrambi i casi deducendo di avere subito gravi effetti avversi (-OMISSIS-), -OMISSIS- (doc. 1 bis), e quindi ha sostenuto, in sintesi, di non essere più soggetta ad alcun obbligo di trattamento sanitario (-OMISSIS- + -OMISSIS-) oppure, in subordine, di non essere soggetta ad ingiunzione vaccinale -OMISSIS-. 1.2. La ricorrente ha dedotto altresì, in subordine, l’incostituzionalità dell’obbligo di trattamento sanitario imposto -OMISSIS-, per irragionevole disparità di trattamento rispetto a tutte le altre categorie di cittadini non soggetti ad obbligo di tale trattamento sanitario, in quanto l’unico criterio non lesivo dell’art. 3 Cost. per imporre ad una sola categoria di cittadini l’obbligo di trattamento sanitario anti-SARS-CoV-2 è il contatto professionale e tipico con soggetti fragili, ma tale contatto sarebbe assolutamente inesistente nel caso -OMISSIS- come la ricorrente, dal momento che la professione esercitata dalla ricorrente (come di tutti -OMISSIS-) non pone a contatto con i pazienti. 1.3. La stessa ricorrente ha domandato altresì la sospensione cautelare dei provvedimenti impugnati, anche con decreto monocratico, attese le dedotte gravissime ed irreparabili conseguenze causate dai medesimi per la consequenziale sospensione dal lavoro e dallo stipendio in data -OMISSIS-, dovuta appunto alla sospensione dall’esercizio della professione disposta dall’Amministrazione resistente in dipendenza di una asserita, ma a suo dire in realtà inesistente, violazione all’obbligo di sottoposizione ad una terza somministrazione di trattamento anti-SARS-CoV-2 nonostante -OMISSIS-. 1.4. Nel primo grado del giudizio si è costituito l’Ordine dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione di Genova, Imperia e Savona – di qui in avanti, per brevità, l’Ordine – per resistere al ricorso proposto dall’odierna appellante. 1.5. Dopo avere respinto in più occasioni e con diversi decreti monocratici la domanda di tutela cautelare provvisoria, all’esito della camera di consiglio -OMISSIS-, fissata per l’esame collegiale della domanda sospensiva, il Tribunale, con la sentenza -OMISSIS- resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha declinato la propria giurisdizione in favore del giudice ordinario. 1.6. Secondo il primo giudice, infatti, l’ordine intimato ha fatto applicazione di una norma di legge – e, in particolare, l’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 – che non ammette l’esercizio di potestà discrezionali, residuando per ciò all’interessata un diritto soggettivo alla corretta applicazione della misura contestata, una situazione giuridica tutelabile avanti al giudice ordinario. 1.7. Si tratterebbe, in pratica, dell’applicazione dei principi che il Tribunale – al pari di altri Tribunali amministrativi regionali – avrebbe utilizzato per declinare la giurisdizione amministrativa in argomento, rilevando che nella specie non vi è esplicazione di alcuna potestà autoritativa, quanto l’accertamento di una situazione di fatto che la legge ritiene debba comportare una reazione dell’ordinamento. 2. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’interessata, lamentandone l’erroneità per avere erroneamente declinato la giurisdizione e, comunque, per avere altrettanto erroneamente ritenuto che -OMISSIS- non fossero l’effetto della vaccinazione, e ne ha chiesto, previa l’immediata sospensione, la declaratoria di nullità sul presupposto della sua abnormità. 2.1. Si è costituito con memoria depositata -OMISSIS- l’Ordine appellato, chiedendo che questo Consiglio, ritenendo la sussistenza della giurisdizione amministrativa, voglia assumere ogni consequenziale provvedimento ai sensi dell’art. 105 c.p.a. e disattendere ogni avversa domanda in quanto inammissibile, irricevibile, improcedibile e comunque infondata o subordinatamente, ove ritenesse di dover procedere all’esame dell’avversa istanza cautelare e del merito della controversia, voglia interamente accogliere le conclusioni formulate in prime cure e quindi rigettare l’istanza cautelare proposta dalla ricorrente, difettandone i presupposti sia in fatto che in diritto, o di dichiarare inammissibile e/o improcedibile e/o irricevibile e comunque respingere il ricorso, tardivo e infondato, e i motivi aggiunti. 2.2. Nella camera di consiglio del 29 settembre 2022, fissata per la trattazione collegiale della domanda cautelare, il Collegio, dopo avere dato avviso alle parti della possibilità di definire la causa in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 c.p.a., e viste le conclusioni delle parti come da verbale, l’ha trattenuta in decisione. 2.3. Il difensore dell’appellante ha insistito, comunque, anche nella domanda cautelare. 3. L’appello deve essere accolto, stante l’erronea declaratoria del difetto di giurisdizione, con rimessione della causa al primo giudice, ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a., davanti al quale potrà essere riproposta la domanda cautelare. 4. Nonostante non manchino pronunce di primo grado che, come quella impugnata, hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario in materia di obblighi vaccinali, anche questo Collegio, conformemente all’orientamento di questa Sezione (v. già Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 e poi, più diffusamente, Cons. St., sez. III, 20 giugno 2022, n. 5014), deve ribadire che l’art. 7 c.p.a. – in coerenza con le precedenti disposizioni di legge – afferma la sussistenza della giurisdizione amministrativa di legittimità quando sono impugnati emessi nell’esercizio del potere pubblico, e dunque autoritativi, non rilevando che si tratti di un potere discrezionale o vincolato (cfr. la sentenza della Corte Costituzionale n. 127 del 1998, per la quale è un ‘postulato privo di qualsiasi fondamento’ il sostenere che un atto vincolato non possa incidere su posizioni di interesse legittimo). 4.1. Oltre a questa decisiva considerazione, va rilevato che – per la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 24 maggio 2008 – sussiste la giurisdizione amministrativa a maggior ragione quando la legge abbia attribuito alla pubblica amministrazione un potere volto a tutelare gli interessi pubblici. 4.2. In tal senso, le disposizioni contenute nell’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021 hanno mirato a tutelare il diritto alla salute, che ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione la Repubblica deve tutelare «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività». 4.3. Infatti, il comma 1 dell’art. 4 ha disposto l’obbligo vaccinale «al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza». 4.4. Dunque il ‘diritto’ dell’interessato a svolgere liberamente un’attività professionale, ovvero un’attività lavorativa intellettuale di rilievo economico, ai sensi degli articoli 4 e 41 della Costituzione, oltre ad essere sottoposto all’esame di Stato ai sensi dell’articolo 43, quinto comma, viene conformato e limitato dalla legge affinché non si svolga, secondo la previsione dell’art. 41, secondo comma, “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute”, oltreché “all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. 4.5. Come avviene in pressoché tutti i settori nei quali gli atti autoritativi incidono su attività riconducibili all’esercizio di ‘diritti’, le posizioni correlative sono di interesse legittimo, che costituisce il diaframma intercorrente tra l’atto autoritativo e la sfera giuridica del suo destinatario (Cons. St., sez. V, 4 novembre 1994, n. 1257). 4.6. Rilevano anche le considerazioni poste a base della sopra citata sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2008, per la quale «anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica, quindi, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo». 4.7. Per quanto attiene all’obbligo di vaccinazione contro il virus Sars-CoV-2 per il personale sanitario, come ha già chiarito la sentenza n. 7045 del 20 ottobre 2021, infatti, tutti gli atti della sequenza procedimentale introdotta e disciplinata dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, «a fronte di un potere vincolato, per l’amministrazione, ai presupposti determinati dalla legge e vincolante per i destinatari», sono egualmente lesivi per la sfera giuridica dei ricorrenti che, si badi, non lamentano soltanto una violazione del loro diritto al lavoro e alla retribuzione (art. 36 Cost.), ma una violazione diretta, e radicale, anche del loro fondamentale diritto ad autodeterminarsi (artt. 2 e 32 Cost.), diritto che, evidentemente, è leso da tutto il procedimento inteso ad accertare l’inadempimento a tale obbligo, dal principio alla fine, in quanto ogni atto di questo procedimento, indipendentemente dalla maggiore e crescente incisività dei suoi effetti via via che il procedimento avanza, invade la sfera giuridica dei destinatari e l’ambito di autonomia decisionale e, per così dire, dell’habeas corpus che essi reclamano. 4.8. La Sezione ha riaffermato, come detto, questi principî nella più recente sentenza n. 5014 del 20 giugno 2022 e ad essi intende dare qui continuità, essendosi qui al cospetto di un potere, esercitato dall’autorità sanitaria (e poi attuato dall’Ordine competente), per garantire, attraverso la vaccinazione obbligatoria, il rispetto del fondamentale interesse pubblico ad evitare la diffusione del virus Sars-CoV-2 o, comunque, il propagarsi della malattia nelle sue forme più gravi e addirittura letali. 5. L’appello dunque va accolto nella parte in cui lamenta l’errore compiuto dal primo giudice nel declinare la propria giurisdizione, conseguendone non già l’esame della controversia, da parte di questo Consiglio di Stato, ma la rimessione della causa al primo giudice, secondo quanto dispone l’art. 105, comma 1, c.p.a. 6. Rimane assorbita, perché rimessa alla necessaria cognizione del giudice di prime cure, ogni questione inerente alle affermate conseguenze dannose della vaccinazione, essendo le affermazioni contenute nella sentenza impugnata in ordine al-OMISSIS- meri obiter dicta, e all’obbligo, qui contestato, di sottoporsi alla terza dose da parte dell’odierna appellante. 7. Ne segue che, in accoglimento dell’appello per le suesposte ragioni, la sentenza impugnata, che ha erroneamente declinato la giurisdizione del giudice amministrativo, vada annullata – e non, come chiede l’appellante, dichiarata nulla in quanto asseritamente abnorme – e debba essere affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in questa materia, con la conseguente rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. 8. Le parti devono, ai sensi del comma 3, riassumere avanti al Tribunale il processo con ricorso notificato nel termine perentorio di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza e avanti al Tribunale potranno proporre, se del caso, le istanze cautelari che ritengano necessarie a tutelare la situazione giuridica soggettiva che assumono essere lesa dal provvedimento qui contestato. 9. Le spese del doppio grado del giudizio, per la novità delle questioni esaminate attinenti all’esercizio di diritti fondamentali dell’individuo a fronte di un potere attribuito all’autorità pubblica nell’interesse della collettività, possono essere interamente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello della -OMISSIS-, ai sensi di cui in motivazione, e per l’effetto dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e rimette la causa al Tribunale amministrativo regionale per la Liguria ai sensi dell’art. 105, comma 1, c.p.a. Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 196 del 2003 e all’art. 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’art. 2-septies del d. lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal d. lgs. n. 101 del 2018, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute della ricorrente -OMISSIS-. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2022, con l’intervento dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere Raffaele Greco, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Raffaello Sestini, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Giurisdizione - giudice amministrativo - Obbligo vaccinazione Covid-19 -Sospensione del sanitario che rifiuta di sottoporsi al vaccino    ​​​​​​​Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di annullamento del provvedimento con cui il Consiglio dell’Ordine dispone, ai sensi dell’art. 4 d.l. n. 44/2021, la sospensione dal lavoro dell’esercente la professione sanitaria che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione per la patologia Covid -19. È infatti irrilevante la circostanza che le norme legislative in questione prevedano poteri vincolati in capo all’Amministrazione, atteso che, anche a fronte di un potere vincolato, la posizione soggettiva del Cittadino è di interesse legittimo ogni volta che – come accade nel caso di specie - alla pubblica amministrazione sia attribuito un potere autoritativo per tutelare gli interessi pubblici.
Giurisdizione
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Cattura per la captivazione dell’orso denominato M57 adottato senza la previa acquisizione del parere Ispra
N. 07366/2021REG.PROV.COLL. N. 04014/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4014 del 2021, proposto dall’ Ente Nazionale Protezione Animali E.N.P.A Onlus, e dall’Organizzazione Internazionale Protezione Animali Oipa Italia Odv, in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Valentina Stefutti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Provincia Autonoma Trento, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Stella Richter, Lucia Bobbio e Marialuisa Cattoni, ed elettivamente domiciliato in Roma, Viale Mazzini n. 11, presso lo studio dell’avv. Stella Richter; nei confronti Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; Ministero dell'Interno, Ministero della Salute, Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Leal Lega Antivivisezionista Lombarda, Salviamo Gli Orsi della Luna Associazione di Promozione Sociale, Ministero della Transizione Ecologica, Istituto Superiore per la Protezione e La Ricerca Ambientale, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, n. 00055/2021, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia autonoma di Trento, ed il ricorso incidentale da questa proposto; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 ottobre 2021 il Cons. Giovanni Tulumello e dato atto, quanto ai difensori e alla loro presenza, di quanto indicato a verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza n. 55/2021, pubblicata il 16 aprile 2021, il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento ha rigettato i ricorsi (nn. 152 e 153 del 2020) proposti, tra gli altri, dall’Ente Nazionale Protezione Animali E.N.P.A. Onlus ed dall’Organizzazione Internazionale Protezione Animali OIPA Italia Odv per l’annullamento del provvedimento, ovvero dell’ordine, comunque impartito dal Presidente della Provincia autonoma di Trento ai sensi e per gli effetti degli articoli 52 del d.P.R n. 670/1972 e 18 della legge regionale n. 1/1993, con cui è stata disposta la cattura per captivazione permanente dell’esemplare di orso denominato M57 presso la struttura denominata Casteller. Con ricorso in appello notificato e depositato il 29 aprile 2021, le suindicate ricorrenti in primo grado hanno impugnato l’indicata sentenza. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e la Provincia autonoma di Trento; quest’ultima ha altresì proposto appello incidentale. Con ordinanza n. 3058/2021 la Sezione ha accolto l’istanza cautelare proposta dalle appellanti ai sensi dell’art. 55, comma 10, cod. proc. amm., e nel contempo ha disposto incombenti istruttori a carico dell’ISPRA e dei Carabinieri forestali del Cites. L’ordine istruttorio è stato adempiuto mediante depositi in data 22 luglio 2021 e 29 luglio 2021. Il ricorso è stato definitivamente trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 14 ottobre 2021. 2. La sentenza gravata ha ritenuto esente dai vizi prospettati con il ricorso di primo grado proposto dalle odierne appellanti il provvedimento di cattura per la captivazione dell’orso denominato M57, meglio indicato al punto precedente. I due motivi dell’appello principale deducono, sotto diversi profili, il difetto di motivazione e di istruttoria da cui sarebbe viziato detto provvedimento, ed attengono alla ritenuta insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti per la cattura e la captivazione. L’appello incidentale della Provincia lamenta invece l’erroneità della sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che l’esercizio del potere in deroga attribuito dall’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 670/1972 suppone il duplice presupposto – nella fattispecie, ritenuto sussistente dal primo giudice – dell’aggressione da parte dell’orso senza essere provocato, e del suo non allontanamento successivo all’aggressione medesima. 3. L’appello incidentale è inammissibile. La stessa appellante incidentale ammette di impugnare con tale mezzo una “statuizione, pur favorevole alle ragioni della Provincia nella parte in cui afferma il legittimo ricorso al potere di ordinanza nel caso de quo da parte del Presidente”. La Provincia contesta la sentenza nella parte in cui subordina l’esercizio del potere di ordinanza ad un “quid pluris”, rispetto all’atto di aggredire senza essere provocato, che tuttavia nella fattispecie in esame è stato ritenuto sussistente. Difetta pertanto il requisito della soccombenza nei confronti della parte appellante incidentale in relazione al capo di sentenza gravato, rispetto al quale la Provincia autonoma di Trento si limita a contestare il percorso motivatorio. Per giurisprudenza pacifica, infatti “l'appello incidentale può essere validamente rivolto avverso un capo di decisione rispetto al quale sia configurabile una soccombenza, mentre non può in alcun modo essere proposto nei confronti di una locuzione della motivazione che non si è, tuttavia, tradotta in una decisione sfavorevole per la parte che la contesta con l'impugnazione incidentale, non essendo configurabile, in tale ultima fattispecie, alcun interesse processualmente rilevante alla sua correzione nel giudizio di secondo grado” (in questo senso, ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 2827/2016). 4. Venendo all’esame dei motivi dell’appello principale, come accennato gli stessi concernono sia i presupposti per la cattura che le condizioni di captivazione (nonché la stessa scelta di disporre la misura della captivazione permanente). Va preliminarmente osservato che questa Sezione ha recentemente operato una ricostruzione dei profili inerenti la disciplina del potere in questione, nella sentenza n. 571/2021, che il Collegio condivide ed alla quale si riporta (anche nell’ottica dell’esigenza di sinteticità ex art. 3, comma 2, cod. proc. amm.). L’applicazione di tali princìpi al caso di specie conduce all’affermazione della fondatezza dei motivi dell’appello principale, per le ragioni di seguito indicate. 5. Il primo motivo dell’appello principale deduce “Error in iudicando. Violazione di legge. Violazione e/o falsa applicazione degli artt.1 e 2 comma 1 legge 11 febbraio 1992 n.157, 1 comma 4, 8, 12 e 16, All. B e D del DPR 8 settembre 1997 n.357, 6 e 9 e All. II della Convenzione di Berna, All. II della Convenzione CITES. Mancata acquisizione del parere ISPRA. Violazione del PACOBACE del 30 luglio 2015. Difetto assoluto di presupposto. Difetto assoluto di istruttoria e di motivazione sotto plurimi profili. Violazione del principio di legalità. Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato sotto plurimi profili”. Lamenta l’appellante che “per le ragioni diffusamente illustrate in premessa, e non colte dal Giudice di prime cure, che si è toto corde appiattito sulle difese dell’Amministrazione, la Provincia Autonoma ha assunto la decisione di addivenire alla captivazione permanente dell’esemplare M57, in radicale difetto di presupposto, e senza in ogni caso aver preventivamente e positivamente dimostrato la non praticabilità di altre alternative, pur espressamente previste dal PACOBACE”. Il riferimento è alle ragioni esposte alle pag. 4 e seguenti dell’appello principale, in merito alle circostanze di fatto che hanno condotto alla cattura dell’animale; in particolare, viene censurato il difetto di istruttoria che vizia il provvedimento impugnato in primo grado con riguardo al presupposto principale, vale a dire all’elemento dell’aggressione che l’orso M57 avrebbe posto in essere nei confronti del sig. Diego Balasso; nonché il conseguente difetto di motivazione sul punto. Dalle risultanze procedimentali non risultava, prima dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado, una diretta escussione del soggetto aggredito: laddove l’unico elemento raccolto, vale a dire le dichiarazioni rese dalla signora Alexandra Punga (che si trovava insieme al predetto Balasso nella circostanza), conteneva una serie di elementi – puntualmente dedotti nell’appello principale - tali da far seriamente dubitare del fatto che l’animale avesse aggredito senza essere provocato: a) sentiti i rumori provenienti dalle acque del lago, il Balasso si sarebbe addentrato in orario notturno nella zona limitrofa, nella direzione da cui provenivano tali rumori, contro gli inviti alla prudenza rivoltigli dalla stessa Punga; b) l’animale, sorpreso, si sarebbe alzato in piedi: comportamento che, come si deduce nell’appello principale, viene “normalmente indicato dalla letteratura scientifica quale atteggiamento messo in atto per capire cosa sta succedendo, mai di attacco”; c) i soggetti successivamente intervenuti, nei minuti immediatamente successivi hanno posto in essere delle condotte normalmente controindicate in presenza degli orsi (correndo contro l’animale e gridando); d) il Balasso ha riportato ferite verosimilmente incompatibili con la volontà di aggredire (considerata l’età e le dimensioni dell’animale). 6. I richiamati deficit istruttori sono stati già segnalati nell’ordinanza cautelare n. 329/2021, resa su appello proposto avverso l’ordinanza cautelare emessa nel giudizio di primo grado, nella quale si era tra l’altro osservato che “il Balasso, diversamente dalla stessa Punga che ha assunto un atteggiamento prudente e privo di elementi di provocazione, potrebbe avere tenuto una condotta non perfettamente sovrapponibile alla ricostruzione fattuale, e alla relativa qualificazione giuridica, poste a fondamento del provvedimento gravato”. La sentenza gravata ha ritenuto di prescindere dal superiore elemento, ritenendolo in più punti “non condivisibile”, ed osservando che “tale rilievo appare propedeutico ad affermare che il Presidente della Provincia avrebbe erroneamente ricondotto il comportamento dell’orso M57 alla fattispecie di cui al punto 18, “orso attacca (con contatto fisico) senza essere provocato”, piuttosto che a quella di cui al punto 15, “orso attacca (con contatto fisico) per difendere i propri cuccioli, la propria preda o perché provocato in altro modo”. Tale ultima deduzione del primo giudice, peraltro non riportata nel provvedimento cautelare in questione (né dal contenuto dello stesso autorizzata), a tacer d’altro si espone, com’è evidente, all’agevole obiezione degli appellanti principali, per cui “Nella specie (….) non si è neppure valutato, in un contesto in cui, per le ragioni poc’anzi evidenziate, questa fosse ictu oculi quella più probabile e plausibile, se si versasse nella ipotesi n.11, espressamente prevista dal PACOBACE, in cui l’orso abbia sferrato un attacco perché colto di sorpresa, circostanza, lo si ripete, assai plausibile, stante che risulta agli atti, anche dalla documentazione fotografica versata in atti dalla Provincia Autonoma nel corso del giudizio di primo grado, che l’incidente si è verificato in un’area boscata, in prossimità di un lago e a tarda notte, vale a dire in situazioni in cui anche gli esemplari confidenti, ormai assuefatti alla presenza dell’uomo, non si aspettano di potersi ritrovare)”. 7. Il Tribunale amministrativo ha inoltre affermato che “il rilievo - mosso dal Consiglio di Stato nell’ordinanza cautelare n. 329 del 2021 - secondo il quale il provvedimento impugnato sarebbe stato adottato «senza aver raccolto le dichiarazioni del soggetto che risulterebbe aggredito ... perché all’epoca impedito», non trova riscontro negli atti di causa”. Il giudice di primo grado ha, in particolare, inferito tale convincimento dalla circostanza che il sig. Balasso avrebbe reso dichiarazioni nell’immediatezza agli operanti intervenuti sul posto, e che tali dichiarazioni sarebbero “state poi formalizzate solo in data 4 settembre 2020”. Orbene, sul punto è sufficiente osservare che la piattaforma istruttoria su cui poggia il provvedimento impugnato in primo grado è, alla stregua del principio tempus regit actum, quella che ha cristallizzato lo stato di fatto al momento della sua adozione (e che ha dunque giustificato l’esercizio del potere). La successiva escussione del principale teste, in disparte la valutazione non acritica dei relativi contenuti (non coincidenti con quelli delle dichiarazioni rese nell’immediatezza del fatto dalla signora Punga), non vale a sorreggere ex post (tanto più se, come osservato, essa conferma i dubbi derivanti dal confronto con le dichiarazioni rese da altro soggetto nell’immediatezza, e dunque assistite per comune regola d’esperienza da un maggiore tasso di genuinità) una fase decisionale carente in punto di attenta ricognizione dei presupposti fattuali legittimanti il ridetto esercizio del potere. 8. Sotto questo punto di vista la sentenza gravata appare viziata, in argomento (punti da 12 a 17 della motivazione), da una preliminare e ripetuta affermazione circa l’esistenza dei limiti al sindacato giurisdizionale dei provvedimenti amministrativi in materia, argomentata anche mediante un richiamo ai – malintesi - contenuti della citata sentenza n. 571/2021 di questa Sezione, che disvela l’errore prospettico della sovrapposizione di due piani disomogenei: quello della sussistenza dei presupposti per l’adozione dei provvedimenti, e quello dell’ampiezza del potere discrezionale dell’amministrazione nell’adozione degli stessi, una volta accertata la sussistenza dei relativi presupposti. I due profili, peraltro, oltre ad essere concettualmente diversi, sono oggetto di censure diverse, sia nel ricorso di primo grado che nell’appello principale. Propedeutico e preliminare ad ogni successiva determinazione è l’accertamento del fatto consistente nell’aggressione ad opera dell’orso senza provocazione. Tale accertamento concerne, appunto, un dato fattuale: con la conseguenza che la successiva qualificazione del fatto accertato, avente natura ed implicazioni (in relazione all’esercizio del potere) giuridiche, suppone una corretta ricostruzione delle emergenze probatorie acquisite al procedimento, la cui coerenza e completezza ben può costituire oggetto di sindacato giurisdizionale quanto meno sotto il profilo, rilevante nel caso di specie, dell’applicazione dei canoni dell’inferenza logica. La conferma letterale di tale sovrapposizione che vizia la sentenza gravata si palesa nel passaggio (punto 14 della motivazione) in cui essa conclude nel senso che “anche a voler (in ipotesi) condividere il rilievo del Consiglio di Stato, resta comunque il fatto che nella Tabella 3.1 del PACOBACE anche per la fattispecie di cui al punto 15 (al pari quella di cui al punto 18) è prevista la possibilità di porre in essere azioni “energiche”, ivi comprese la cattura per captivazione permanente e l’abbattimento dell’esemplare pericoloso. Dunque, tenuto conto dei richiamati limiti al sindacato giurisdizionale di legittimità, il rilievo in esame comunque non potrebbe condurre all’annullamento del provvedimento impugnato”. Al di là dei già segnalati – e dirimenti - limiti della premessa maggiore del riferito sillogismo giudiziario (che si fonda su una deduzione del giudicante che, oltretutto, non considera le ulteriori, possibili fattispecie indicate nell’appello principale), ciò che ne vizia le conclusioni è il rilievo che esso tralascia di considerare che l’accertamento del fatto precede e condiziona, con una infungibile relazione di propedeuticità, la qualificazione giuridica: nel caso di specie, mentre il provvedimento amministrativo contiene una giustificazione fattuale dei poteri esercitati in contrasto con la base istruttoria acquisita al relativo procedimento, il primo giudice ha ritenuto di supplire tale carenza proponendo una giustificazione diversa ma equipollente sul piano degli effetti, per affermare comunque la non annullabilità. È fin troppo agevole rilevare che se il giudice può sempre diversamente qualificare sul piano giuridico il provvedimento rispetto al nomen iuris attribuito allo stesso dall’amministrazione, ciò che appare precluso al sindacato di legittimità è il rilievo della pretesa sufficienza di un compendio istruttorio (e motivatorio), raccolto in vista dell’adozione di un determinato provvedimento, rispetto ad un provvedimento avente diversi presupposti (e, dunque, sorretto da una diversa causa): specie in sede di scrutinio della censura di difetto di istruttoria e di motivazione. Invero laddove il provvedimento amministrativo sia censurato in relazione alla discrasia fra l’istruttoria procedimentale e (non già la qualificazione, ma la stessa) decisione provvedimentale, nel senso che una cattiva esecuzione della prima ha viziato (determinandone l’adozione in assenza di presupposti) la seconda, ciò è condizione necessaria e sufficiente per disporne l’annullamento nella sede giurisdizionale in cui tale contrasto sia dedotto: potendo al più l’amministrazione, in sede di riedizione del potere, una volta assegnato – in virtù dell’effetto conformativo del giudicato – l’esatto significato al compendio istruttorio acquisito agli atti, valutare la sussistenza dei presupposti per l’adozione di eventuali, ulteriori tipologie provvedimentali. In tale vicenda rimane comunque estraneo ai confini del sindacato giurisdizionale il potere del giudice (non già di qualificare diversamente il provvedimento, ma) di superare la censura di difetto di istruttoria ritenendo i presupposti fattuali comunque idonei a supportare un provvedimento amministrativo diverso (e diversamente motivato) da quello in concreto adottato. La motivazione è infatti l’esplicitazione delle ragioni che hanno indotto l’amministrazione, in presenza di un dato quadro fattuale (acquisito all’istruttoria procedimentale), ad adottare una determinata misura: il vizio motivazionale che ripeta la propria matrice genetica dal vizio istruttorio non si presta ad essere sanato in giudizio dai poteri qualificatori del giudice. Si tratterebbe infatti, nel caso di specie, non già di una diversa qualificazione, ma di una diversa motivazione, data dal giudice al provvedimento: operazione inammissibile, come ben chiarito dalla sentenza di questa Sezione n. 1085/2019 (alla quale il Collegio rinvia per le affermazioni, pienamente condivise, della motivazione del provvedimento come “il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo”; come “presidio di legalità sostanziale insostituibile anche ad opera del giudice amministrativo”; e per l’inammissibilità dell’operazione consistente nel fatto che al “difetto di motivazione ha inteso sostituire il proprio apprezzamento, con una tipica integrazione postuma dei motivi, la sentenza impugnata”). 9. Nel caso di specie, i dati istruttori acquisiti prima dell’adozione del provvedimento impugnato in primo grado evidenziavano, sotto tale profilo, le significative carenze indicate nella citata ordinanza n. 329/2021. Rispetto a tali rilievi non appare condivisibile il diverso avviso del primo giudice, laddove afferma che “non può ritenersi provocatoria la condotta del carabiniere, non apparendo all’uopo sufficiente la circostanza che, mentre la ragazza che era in sua compagnia, spaventata da un rumore improvviso, si è fermata immediatamente ed ha iniziato ad indietreggiare, invece egli, udito il medesimo rumore, ha iniziato a tranquillizzare la ragazza ed è andato poco più avanti. Difatti la condotta del carabiniere - lungi dall’essere volta a provocare l’orso, inizialmente neppure avvistato - è giustificata dal fatto egli si trovava su sentiero illuminato e ubicato in prossimità di un campeggio, ossia in un luogo che non avrebbe dovuto essere fonte di pericoli come l’incontro con un orso”; per concludere nel senso che “l’aggressione da parte dell’orso ha causato gravi lesioni al carabiniere ed è avvenuta, non già in un contesto naturalistico, bensì in prossimità del campeggio e, quindi, in un contesto antropizzato. Inoltre, come già evidenziato, dalle dichiarazioni rese dal carabiniere e dalla ragazza, emerge che l’orso ha aggredito senza essere provocato”. Una simile conclusione non tiene conto: a) del fatto che l’episodio è avvenuto poco prima delle ore 23.00, in prossimità di un lago, in zona boschiva e dunque – contrariamente a quanto affermato nella sentenza gravata – certamente in un contesto “naturalistico” (almeno dal punto di vista comportamentale dell’orso, che è quello che rileva ai fini della ricognizione fattuale dei presupposti per l’esercizio del potere); b) della circostanza che – come già chiarito - non appare autorizzata dalle dichiarazioni della signora Punga l’affermazione per cui (anche) da esse emergerebbe che “l’orso ha aggredito senza essere provocato”; c) del fatto che viene attribuito un peso decisivo alle dichiarazioni del signor Balasso le quali (almeno nelle parti riportate fra virgolette in sentenza) non erano sussistenti all’atto dell’adozione del provvedimento impugnato e che comunque, successivamente raccolte, non autorizzano la prospettazione ritenuta nel provvedimento impugnato in primo grado in ragione del contrasto logico con quanto riferito dalla signora Punga. 10. L’accoglimento di tale profilo di censura contenuto nel primo motivo dell’appello principale comporta, in riforma della sentenza gravata, l’annullamento del provvedimento impugnato in primo grado perché carente sul piano istruttorio e motivazionale, e dunque per un vizio invalidante autosufficiente a determinare la caducazione dello stesso. Nondimeno le emergenze istruttorie acquisite al presente giudizio hanno consentito di appurare come anche ulteriori profili di censura, rispetto ai quali la caducazione del provvedimento che dispone la cattura per la captivazione permanente ha una portata assorbente, presentano profili di fondatezza. È il caso della mancanza del parere dell’ISPRA. In argomento la sentenza gravata ha dapprima ritenuto non “condivisibile neppure l’ulteriore rilievo formulato dal Consiglio di Stato con l’ordinanza cautelare n. 329 del 2021, secondo il quale il provvedimento impugnato sarebbe comunque illegittimo in quanto adottato «in assenza della necessaria valutazione dell’ISPRA»”; quindi ha concluso nel senso “che - avendo il Presidente della Provincia agito nell’esercizio del potere in deroga attribuitogli dall’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 670/1972 - non possano essere accolte né la censura incentrata sulla mancata acquisizione del parere preventivo dell’ISPRA, né tantomeno la censura incentrata sul fatto che il Presidente della Provincia non abbia provveduto ad informare immediatamente l’ISPRA e il Ministero dell’Ambiente del provvedimento adottato”. 11. La nota ISPRA in data 16 luglio 2021 prot. 38631, resa nel presente giudizio in adempimento dell’ordinanza collegiale n. 3059/2021, ha chiarito che “la Provincia Autonoma di Trento non ha trasmesso ad ISPRA alcuna richiesta di valutazione tecnica in riferimento all’orso M57, e che pertanto lo scrivente Istituto non ha espresso alcun parere in merito”. Ciò consente di acclarare documentalmente la fondatezza della censura contenuta in argomento nel ricorso di primo grado e nell’appello principale: a tacer d’altro - e dunque in disparte la complessa ricostruzione sui tratti del potere di ordinanza contingibile ed urgente di cui all’art. 52, comma 2, del d.P.R. n. 670/1972 – va considerato che nella fattispecie il provvedimento impugnato in primo grado, adottato verbalmente nell’immediatezza dei fatti (profilo anch’esso oggetto di censure, la cui rilevanza è tuttavia obliterata dall’assorbente rilievo del riscontrato vizio istruttorio) ha disposto non solo la cattura, ma anche la captivazione permanente dell’esemplare M57: il tutto sulla base di una sommaria e carente istruttoria, del tutto priva – non solo nell’immediatezza - del necessario ed infungibile giudizio dell’ISPRA in merito alla misura più adeguata da adottare a seguito della cattura, in relazione alla corretta valutazione delle caratteristiche dell’episodio e dell’animale. Nella citata nota ISPRA 16 luglio 2021 prot. 38631 si legge che l’Istituto ha come piattaforma fattuale unicamente la relazione di servizio del Corpo Forestale provinciale, nonché le informazioni fornite per le vie brevi dalla medesima fonte: su tale base informativa è stato quindi affermato che l’episodio accertato rientrerebbe “nella casistica 18 di cui al Piano d’Azione per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centro-Orientali (PACOBACE)”. In altre parole, l’unica fonte ISPRA è stata la Provincia appellata. Tuttavia la stessa nota dell’ISPRA chiarisce che per tale – ipotetica – fattispecie le azioni suggerite possono essere di tre tipi: “i) cattura con rilascio allo scopo di spostamento e/o radiomarcaggio; j) cattura per captivazione permanente; k) abbattimento”. Orbene, poiché nel caso di specie la qualificazione in termini di “casistica 18” mutuata da fonte provinciale è risultata, come sopra chiarito, viziata dal difetto d’istruttoria che ha condizionato l’iter logico posto a fondamento del provvedimento impugnato in primo grado, nondimeno quand’anche tale qualificazione fosse stata corretta si sarebbe potuta stabilire una misura meno afflittiva per l’animale (come la cattura con rilascio, di cui alla lettera i). Una simile scelta, certamente non ancorata ai presupposti della decisione contingibile ed urgente, ma anzi proiettata in una prospettiva diacronica, implicava dunque la richiesta preventiva del necessario parere dell’ISPRA: proprio allo scopo di consentire una valutazione in merito al regime più adeguato, e maggiormente conforme ai parametri normativi, in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività, avuto riguardo a quanto realmente accaduto, nonché alle condizioni di permanenza dell’animale presso il centro Casteller. Avendo il provvedimento impugnato un contenuto plurimo, la tesi della adozione in deroga può, al più, essere sostenuta, per la fase della cattura: ma non anche per la successiva scelta dell’azione più idonea. La circostanza che la provincia non abbia trasmesso all’ISPRA alcuna richiesta di valutazione tecnica conferma, anche sotto questo profilo, il deficit istruttorio che affligge il provvedimento impugnato in primo grado. 12. La stessa difesa della Provincia, del resto, a pag. 7 della memoria di replica, nel difendere la parte della sentenza gravata che afferma la non necessarietà del parere ISPRA sul presupposto della natura extra ordinem del potere esercitato, sostiene che “l’ordinanza contingibile e urgente è destinata a disciplinare transitoriamente “situazioni non tipizzabili per le quali il legislatore non può configurare ‘a monte’ poteri di intervento tipici”. Orbene, in disparte il possibile rischio di abuso degli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza, e di conseguente frizione con il principio di legalità, tutte le volte in cui sussista una disciplina normativa dei corrispondenti poteri tipici, ciò che appare dirimente è che la stessa parte appellata riconosce che al più la straordinarietà può predicarsi per provvedimenti ad effetto transitorio, laddove la captivazione permanente è una misura – nel caso di specie, disposta in deroga ai necessari adempimenti procedimentali – logicamente incompatibile con un orizzonte temporalmente limitato. In argomento giova ricordare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 127 del 1995, nel sottolineare come il potere straordinario, in quanto potere amministrativo, debba soggiacere ai limiti propri di questo (fra i quali il principio di proporzionalità), ha posto una relazione fra proporzionalità e tipicità, nel senso che l’assenza di tipicità deve essere compensata e bilanciata dal rapporto di proporzionalità esistente fra intensità dell’esigenza emergenziale e contenuto dispositivo della misura provvedimentale. 13. La Provincia appellata, sul presupposto della – asserita - “obiettiva pericolosità di M57 e alla conseguente inutilità dell’adozione di strumenti di dissuasione”, replica in argomento che la pericolosità dell’esemplare M57 si ricaverebbe dal “rapporto del mese di gennaio 2021 sugli orsi problematici in Trentino” redatto dall’ISPRA. Tuttavia, come sopra precisato, i dati in possesso dell’ISPRA in relazione all’episodio in questione (“in seguito all’attacco avvenuto ….”), utilizzato ai fini della valutazione di pericolosità, sono unicamente quelli – viziati sul piano istruttorio – forniti dalla stessa Provincia: sicchè la valutazione stessa non appare pienamente utilizzabile, quanto meno come supporto di una decisione di captivazione permanente assunta sulla base di una ricostruzione carente su più piani (quello dell’accertamento del fatto, quello della sua conseguente valutazione, e quello della consequenziale scelta della misura da adottare anche sulla base di una valutazione dell’Istituto competente). 14. Si pone a questo punto il problema degli effetti, in conseguenza dell’accoglimento dell’appello principale, dell’annullamento del provvedimento impugnato in primo grado, oggetto di dialettica processuale fra le parti. Proprio perché tale provvedimento ha un duplice contenuto, esso ha ormai irreversibilmente prodotto i suoi effetti quanto alla cattura (sicchè rispetto ad essa non è neppure ipotizzabile un effetto ripristinatorio), ma determina il venir meno di ogni titolo per il regime di captivazione nel quale si trova allo stato ristretto l’esemplare M57. La Provincia appellata ha affermato, in memoria di replica, che “l’annullamento del provvedimento di captivazione impugnato non può che avere quale naturale conseguenza la reimmissione in natura dell’esemplare catturato, ipotesi, quest’ultima, non percorribile per le ragioni più volte illustrate a proposito della particolare pericolosità mostrata dallo stesso – si torna a dire, confermata dallo stesso ISPRA al punto 1.3. del Rapporto di gennaio 2021 - che non ne consentirebbe una efficace e utile sorveglianza a mezzo radiocollare”. Tale affermazione è fondata solo nella parte in cui sostiene che dall’accoglimento del ricorso di primo grado, e dalla caducazione del provvedimento con esso impugnato, non possa conseguire sic et simpliciter, in ragione della peculiare natura del provvedimento in questione e degli interessi implicati, un effetto ripristinatorio incondizionato (rimanendo la richiamata affermazione per la restante parte smentita dalle più volte richiamate risultanze processuali). Come già chiarito dalla Sezione nella citata sentenza n. 571/2021 (“la possibilità ex lege riconosciuta al Presidente della Provincia di catturare e tenere in captivazione permanente specie protette non esonera lo stesso dall’assicurare all’esemplare posto in captivazione un habitat il più vicino possibile a quello naturale, per non costringere tale esemplare a vivere in uno stato di abbrutimento che, oltre a sostanziarsi in forme di maltrattamento, finisce per rendere ancora più aggressivo il plantigrado”), non può infatti escludersi che l’esemplare M57, provato dalla prolungata captivazione, abbia accumulato, in tale contesto di lunga permanenza in un luogo non gradevole, un’aggressività aggiuntiva, determinata dalla captivazione disposta in presenza di presupposti carenti, e dalle particolari condizioni della stessa. 15. Sul punto molto le parti hanno dibattuto in merito alle condizioni del centro “Casteller”: che in numerosi documenti ufficiali (richiamati negli scritti difensivi delle stesse parti) è descritto come controindicato rispetto ad un regime di vita degli animali conforme alle disposizioni (anche di rango comunitario) che ne tutelano la condizione, e che solo nella relazione da ultimo depositata in giudizio, in adempimento dell’ordinanza collegiale n. 3058/2021 – resa peraltro all’esito di sopralluogo cui ha partecipato anche personale della Provincia appellata –, sembrerebbe aver ottenuto dei miglioramenti strutturali tali da superare i ridetti limiti. La Provincia appellata ha in proposito reiteratamente affermato che le condizioni del centro rilevano al più sul piano dell’esecuzione del provvedimento, ma non già su quello della sua validità. Tralasciando la seconda parte dell’affermazione, comunque assorbita dall’accoglimento del motivo di gravame inerente il difetto di istruttoria e di motivazione sui presupposti dell’esercizio del potere (e ferma restando comunque la piena ammissibilità sul piano teorico di un vizio di legittimità di un provvedimento di captivazione che destini già in partenza – e non per un accidente esecutivo - l’animale ad un regime tale da “sostanziarsi in forme di maltrattamento”: sentenza n. 571/2021), la prima parte coglie certamente nel segno: è infatti vero che l’esecuzione del provvedimento può avere provocato effetti che, pur a seguito della caducazione dello stesso, impediscano, proprio a tutela degli interessi tutelati dalle disposizioni regolanti l’esercizio del relativo potere, una retroazione incondizionata alla situazione di fatto precedente la sua adozione. 16. La Provincia di Trento, consultato preventivamente l’ISPRA, nell’esecuzione della presente sentenza dovrà pertanto valutare se le condizioni attuali dell’esemplare M57 abbiano inasprito l’aggressività dello stesso al punto da suggerire l’adozione di misure diverse dalla sua liberazione. In particolare, nell’ottica della tutela dell’incolumità pubblica ispirata al principio di proporzionalità, e alla tutela delle condizioni dell’animale come garantita dalle fonti primarie (anche di rango comunitario), l’amministrazione, con il ridetto supporto istruttorio, in sede di esecuzione della presente sentenza dovrà valutare se – avuto riguardo alle accertate condizioni, e ove sussistente al reale livello di pericolosità dell’esemplare - sia praticabile la liberazione con radio collare, ovvero la soluzione analoga a quella in precedenza adottata per l’esemplare DJ3 (di cui dà conto la stessa Provincia appellata a pag. 12 della memoria di replica, dichiarando di non opporsi ad essa). 17. In ragione della complessità e della peculiarità della fattispecie dedotta, sussistono le condizioni di legge per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello principale, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla il provvedimento con esso impugnato, con le prescrizioni esecutive di cui in motivazione. Dichiara inammissibile l’appello incidentale. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2021 con l'intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Animali – Orsi – Orso M56 - Cattura per la captivazione – Parere Ispra – Omissione – Illegittimità - Fattispecie.                 E’ illegittimo il provvedimento di cattura per la captivazione dell’orso denominato M57, adottato senza la previa acquisizione del parere Ispra, che avrebbe consentito una valutazione in merito al regime più adeguato, e maggiormente conforme ai parametri normativi, in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività  (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la mancanza della previa acquisizione del parere Ispra non è giustificata dalla natura extra ordinem del potere esercitato. ​​​​​​​Ed invero, in disparte il possibile rischio di abuso degli strumenti del c.d. diritto amministrativo dell’emergenza, e di conseguente frizione con il principio di legalità, tutte le volte in cui sussista una disciplina normativa dei corrispondenti poteri tipici, ciò che appare dirimente è che la stessa parte appellata riconosce che al più la straordinarietà può predicarsi per provvedimenti ad effetto transitorio, laddove la captivazione permanente è una misura – nel caso di specie, disposta in deroga ai necessari adempimenti procedimentali – logicamente incompatibile con un orizzonte temporalmente limitato. ​​​​​​​In argomento giova ricordare che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 127 del 1995, nel sottolineare come il potere straordinario, in quanto potere amministrativo, debba soggiacere ai limiti propri di questo (fra i quali il principio di proporzionalità), ha posto una relazione fra proporzionalità e tipicità, nel senso che l’assenza di tipicità deve essere compensata e bilanciata dal rapporto di proporzionalità esistente fra intensità dell’esigenza emergenziale e contenuto dispositivo della misura provvedimentale.  ​​​​​​​Una simile scelta, certamente non ancorata ai presupposti della decisione contingibile ed urgente, ma anzi proiettata in una prospettiva diacronica, implicava dunque la richiesta preventiva del necessario parere dell’ISPRA: proprio allo scopo di consentire una valutazione in merito al regime più adeguato, e maggiormente conforme ai parametri normativi, in relazione alle esigenze di tutela sia dell’animale che della collettività, avuto riguardo a quanto realmente accaduto, nonché alle condizioni di permanenza dell’animale presso il centro Casteller. ​​​​​​​Avendo il provvedimento impugnato un contenuto plurimo, la tesi della adozione in deroga può, al più, essere sostenuta, per la fase della cattura: ma non anche per la successiva scelta dell’azione più idonea. ​​​​​​​La circostanza che la provincia non abbia trasmesso all’ISPRA alcuna richiesta di valutazione tecnica conferma, anche sotto questo profilo, il deficit istruttorio che affligge il provvedimento impugnato in primo grado.
Animali
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/utilizzo-degli-algoritmi-nel-procedimento-amministrativo
Utilizzo degli algoritmi nel procedimento amministrativo
N. 08472/2019REG.PROV.COLL. N. 02936/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2936 del 2019, proposto da Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro Pasqualina Caiazza, Giovanna Cioffi, Anna Esposito, Concetta Esposito, Rosanna Mastroianni, Maria Mormone, Daniela Principe, Teresa Trinchillo, Valeria Fummo, Roberta Epistolato, Franca Mastrantuono, Lorella Piccolo, Nilla Potenza, Tiziana Carandente, rappresentati e difesi dagli avvocati Michele Speranza, Michele Ursini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Salvatore Russo in Roma, via Ottaviano, 9; Castaldo Carmela, Fummo Valeria, Cira Ariosto, Fiorenza Paola, Lumia Alessia, Maria Grazia Del Giudice non costituiti in giudizio; Teresa Botta, rappresentato e difeso dagli avvocati Michele Speranza, Michele Ursini, con domicilio eletto presso lo studio Salvatore Russo in Roma, via Ottaviano, 9; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. 09230/2018, resa tra le parti, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Pasqualina Caiazza e di Giovanna Cioffi e di Anna Esposito e di Concetta Esposito e di Rosanna Mastroianni e di Maria Mormone e di Daniela Principe e di Teresa Trinchillo e di Valeria Fummo e di Teresa Botta e di Roberta Epistolato e di Franca Mastrantuono e di Lorella Piccolo e di Nilla Potenza e di Tiziana Carandente; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2019 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Michele Speranza, Michele Ursini e l'avvocato dello Stato Davide Di Giorgio; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l’appello in esame il Ministero, odierna parte appellante, impugnava la sentenza n. 9230 del 2018 con cui il Tar Lazio aveva accolto l’originario gravame. Quest’ultimo era stato proposto dalle odierne parti appellate, nella dedotta qualità di docenti immessi in ruolo nella c.d. fase C del piano straordinario assunzionale di cui alla L. n. 107/2015 (a seguito delle procedure indette ex art. 1, co. 98, lett. c) l. cit.) su posti di potenziamento, di sostegno o su posto comune nella scuola secondaria di primo grado, al fine di impugnare la procedura nazionale di mobilità attuata con ordinanza ministeriale n. 241/2016 in attuazione dell’art. 1, co. 108 della citata legge. All’esito del giudizio di primo grado il Tar accoglieva il ricorso sotto due dei profili dedotti: per un verso per il fatto che, in uno al predetto piano straordinario, non è stato previsto un meccanismo di deroga al vincolo quinquennale di permanenza nel posto già occupato per i docenti di sostegno, conseguendone che i medesimi non hanno potuto prender parte a questo piano straordinario per un posto comune, violandosi per loro il principio di uguaglianza; per un altro verso per il fatto che il delineato piano straordinario non è stato corredato da alcuna attività amministrativa ma è stato demandato ad un algoritmo, tuttora sconosciuto, per effetto del quale sono stati operati i trasferimenti e le assegnazioni in evidente contrasto con il fondamentale principio della strumentalità del ricorso all’informatica nelle procedure amministrative. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - infondatezza manifesta sul difetto procedimentale, nonché sanatoria processuale dell’eventuale vizio di mancata comunicazione di avvio; - infondatezza manifesta sul merito provvedimentale sull’asserita disparità di trattamento tra docenti appartenenti alle varie fasi della mobilità, segnatamente dei docenti appartenenti alla Fase C.. Alcuni degli appellati si costituivano in giudizio chiedendo la declaratoria di inammissibilità ed il rigetto dell’appello. Gli appellati Epistolato Roberta, Mastroianni Rosanna, Botta Teresa e Piccolo Lorella dichiaravano che nei loro confronti è cessata la materia del contendere siccome sono state trasferite secondo il loro interesse e non in base alla sentenza appellata, chiedendo l’estromissione dal giudizio. Con ordinanza n. 2279 del 10 maggio 2019 veniva respinta la domanda cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza appellata. Alla pubblica udienza del 5 dicembre 2019 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. La controversia decisa dalla sentenza impugnata ha ad oggetto l’azione proposta dagli odierni appellati, nella qualità di docenti immessi in ruolo nella c.d. fase C del piano straordinario assunzionale di cui alla L. n. 107/2015 (a seguito delle procedure indette ex art. 1, co. 98, lett. c) l. cit.) su posti di potenziamento, di sostegno o su posto comune nella scuola secondaria di primo grado, avverso gli esiti della procedura nazionale di mobilità attuata con ordinanza ministeriale n. 241/2016 in attuazione dell’art. 1, co. 108 della citata legge. In particolare, la contestazione riguarda l’esito della procedura la quale, svolta sulla base di un algoritmo non conosciuto e che non ha correttamente funzionato, ha disposto i trasferimenti senza tener conto delle preferenze espresse, pur in presenza di posti disponibili nelle province indicate. In sostanza, il meccanismo straordinario di mobilità si è rivelato pregiudizievole per quei docenti, quali le odierne ricorrenti, immessi in ruolo nella fase C, i quali sono stati trasferiti in province più lontane da quella di propria residenza o quella comunque scelta con priorità in sede di partecipazione alla procedura, benché in tali province di elezione fossero disponibili svariati di posti. 2. A fronte dell’accoglimento disposto dal Tar, nei termini riassunti nella narrativa in fatto, l’appello proposto dal Ministero è articolato nei seguenti due motivi: a) il primo teso a confutare che vi sia stato un difetto procedimentale sotto un duplice profilo, sia perché “l’algoritmo è semplicemente il risultato della trasposizione matematica e della sua applicazione informatica delle direttive”, sia perché non doveva essere comunicato l’avvio del procedimento ex art. 7 legge n. 241 del 1990; b) il secondo diretto ad affermare la correttezza del merito provvedimentale non sussistendo disparità di trattamento tra docenti appartenenti alle varie fasi della mobilità e particolarmente con riferimento ai docenti della fase C. 3. Preliminarmente, parte appellata chiede l’estromissione di alcuni degli originari ricorrenti per i quali sarebbe cessata la materia del contendere, in quanto avrebbero ottenuto il trasferimento secondo il loro interesse e non in base alla sentenza appellata. L’eccezione è infondata. L’estromissione riguarda non già la legittimazione, ma la diversa questione di chi debba ritenersi parte del processo, dunque la naturale destinataria degli effetti che scaturiscono dalla decisione in senso stretto, implicando l’accertamento negativo della legittimazione dell’estromesso in ordine alla pretesa sostanziale oggetto del contendere. Nel caso di specie oggetto della pretesa sostanziale del presente giudizio è la legittimità della procedura cui gli stessi interessati hanno partecipato. La declaratoria di estromissione dal giudizio per difetto di legittimazione passiva ha valore non solo processuale ma anche sostanziale, in quanto implica un accertamento negativo della legittimazione dell'estromesso in ordine alla pretesa sostanziale oggetto del contendere. Nel caso di specie invece i soggetti hanno partecipato ed ottenuto il trasferimento in base alla procedura oggetto del contendere. 4. Sempre in via preliminare, non appare fondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi. In linea di diritto, pur dinanzi al generale onere di specificità dei motivi di gravame, costituisce jus receptum il principio per cui l’appello è da ritenersi ammissibile se dallo stesso sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da chi ha proposto l'impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. V 14 maggio 2012 n. 2745). Inoltre, va ribadito che il grado di specificità dei motivi di appello va parametrato e vagliato alla luce del grado di specificità della sentenza contestata. Applicando tali coordinate al caso di specie, se per un verso i vizi risultano scanditi in due ordini di censure, quantomeno in parte sulla scorta delle argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata sui due ordini di motivi accolti, per un altro verso gli stessi risultano piuttosto infondati nel merito. 5. Passando all’esame del merito, per ciò che concerne il primo ordine di motivi di appello, sempre in via preliminare va rilevata la manifesta infondatezza delle contestazioni svolte in merito alla presunta violazione dell’art. 7 legge 241 cit.. Infatti, tale vizio risulta del tutto privo di riferimento nella sentenza impugnata la quale, lungi dall’accogliere il gravame sul profilo della violazione delle garanzie partecipative, ha accolto il ricorso sulla scorta dei due seguenti ordini di censure: non è stato previsto un meccanismo di deroga al vincolo quinquennale di permanenza nel posto già occupato per i docenti di sostegno, conseguendone che i medesimi non hanno potuto prender parte a questo piano straordinario per un posto comune, violandosi per loro il principio di uguaglianza; per un verso per il fatto che il delineato piano straordinario non è stato corredato da alcuna attività amministrativa ma è stato demandato ad un algoritmo, tuttora sconosciuto, per effetto del quale sono stai operati i trasferimenti e le assegnazioni in evidente contrasto con il fondamentale principio della strumentalità del ricorso all’informatica nelle procedure amministrative. 6. La restante parte delle censure, concernente la legittimità del ricorso all’algoritmo e la correttezza del relativo meccanismo così come applicato, è parimenti infondata, seppur sulla scorta di un più apprfondito percorso argomentativo. 7. In termini generali, come correttamente evidenziato dalle parti, questa sezione ha già avuto modo di approfondire il tema in oggetto con la nota sentenza n. 2270 del 2019. A fronte della diversità della fattispecie e del dibattito sollevato, occorre svolgere alcune brevi considerazioni integrative, in specie in relazione a quanto dedotto avverso la sentenza appellata. 7.1 In linea generale va ribadito come anche la pubblica amministrazione debba poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione digitale. In tale contesto, il ricorso ad algoritmi informatici per l’assunzione di decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda sui paventati guadagni in termini di efficienza e neutralità. In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani, messi in luce soprattutto negli ultimi anni da un’imponente letteratura di economia comportamentale e psicologia cognitiva. In tale contesto, le decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati. 7.2 Peraltro, già in tale ottica è emersa altresì una lettura critica del fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò ne consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria trasparenza. 8.1 Sempre in linea generale va richiamato quanto già evidenziato dalla sezione in ordine all’elemento positivo derivante dal nuovo contesto di digitalizzazione; in proposito, non può essere messo in discussione che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti. In tale ottica lo stesso Codice dell’amministrazione digitale rappresenta un approdo decisivo in tale direzione. I diversi interventi di riforma dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni, fino alla legge n. 124 del 2015, sono indirizzati a tal fine; nella medesima direzione sono diretti gli impulsi che provengono dall’ordinamento comunitario. 8.2 Tuttavia, nel caso di specie lo scenario necessita di un approfondimento ulteriore. Non si tratta, infatti, di sperimentare forme diverse di esternazione della volontà dell’amministrazione, come nel caso dell’atto amministrativo informatico, ovvero di individuare nuovi metodi di comunicazione tra amministrazione e privati, come nel caso della partecipazione dei cittadini alle decisioni amministrative attraverso social network o piattaforme digitali, ovvero di ragionare sulle modalità di scambio dei dati tra le pubbliche amministrazioni. Nel caso dell’utilizzo di tali strumenti digitali, come avvenuto nella fattispecie oggetto della presente controversia, ci si trova dinanzi ad una situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con l’espressione di rivoluzione 4.0 la quale, riferita all’amministrazione pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso l’automazione della procedura, alla decisione finale. 9.1 Come già evidenziato nel precedente della sezione richiamato, l’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale. La piena ammissibilità di tali strumenti risponde ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (art. 1 l. 241/90), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all’amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale. 9.2 Anche il caso in esame, relativo ad una procedura di assegnazione di sedi in base a criteri oggettivi, l’utilizzo di una procedura informatica che conduca direttamente alla decisione finale non deve essere stigmatizzata, ma anzi, in linea di massima, incoraggiata: essa comporta infatti numerosi vantaggi quali, ad esempio, la notevole riduzione della tempistica procedimentale per operazioni meramente ripetitive e prive di discrezionalità, l’esclusione di interferenze dovute a negligenza (o peggio dolo) del funzionario (essere umano) e la conseguente maggior garanzia di imparzialità della decisione automatizzata. 10. Peraltro, l’utilizzo di procedure informatizzate non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa. In tale contesto, infatti, il ricorso all’algoritmo va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere. 11. Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse. In disparte la stessa sostenibilità a monte dell’attualità di una tale distinzione, atteso che ogni attività autoritativa comporta una fase quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti dalla legge, se il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, nulla vieta che i medesimi fini predetti, perseguiti con il ricorso all’algoritmo informatico, possano perseguirsi anche in relazione ad attività connotata da ambiti di discrezionalità. Piuttosto, se nel caso dell’attività vincolata ben più rilevante, sia in termini quantitativi che qualitativi, potrà essere il ricorso a strumenti di automazione della raccolta e valutazione dei dati, anche l’esercizio di attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti stessi. 12. In tale contesto, premessa la generale ammissibilità di tali strumenti, qualificati nei termini di cui sopra al punto 10, assumono rilievo fondamentale, anche alla luce della disciplina di origine sovranazionale, due aspetti preminenti, quali elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica: a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri applicati; b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo. 13.1 Sul versante della piena conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza, da intendersi sia per la stessa p.a. titolare del potere per il cui esercizio viene previsto il ricorso allo strumento dell’algoritmo, sia per i soggetti incisi e coinvolti dal potere stesso. In relazione alla stessa p.a., nel precedente richiamato la sezione ha già chiarito come il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) debba essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato. In proposito, va ribadito che, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile. Con le già individuate conseguenze in termini di conoscenza e di sindacabilità (cfr. punto 8.3 della motivazione della sentenza 2270 cit.). In senso contrario non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza. 13.2 In relazione ai soggetti coinvolti si pone anche un problema di gestione dei relativi dati. Ad oggi nelle attività di trattamento dei dati personali possono essere individuate due differenti tipologie di processi decisionali automatizzati: quelli che contemplano un coinvolgimento umano e quelli che, al contrario, affidano al solo algoritmo l'intero procedimento. Il più recente Regolamento europeo in materia (2016/679), concentrandosi su tali modalità di elaborazione dei dati, integra la disciplina già contenuta nella Direttiva 95/46/CE con l'intento di arginare il rischio di trattamenti discriminatori per l'individuo che trovino la propria origine in una cieca fiducia nell'utilizzo degli algoritmi. In particolare, in maniera innovativa rispetto al passato, gli articoli 13 e 14 del Regolamento stabiliscono che nell'informativa rivolta all'interessato venga data notizia dell'eventuale esecuzione di un processo decisionale automatizzato, sia che la raccolta dei dati venga effettuata direttamente presso l’interessato sia che venga compiuta in via indiretta. Una garanzia di particolare rilievo viene riconosciuta allorché il processo sia interamente automatizzato essendo richiesto, almeno in simili ipotesi, che il titolare debba fornire “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato” . In questo senso, in dottrina è stato fatto notare come il legislatore europeo abbia inteso rafforzare il principio di trasparenza che trova centrale importanza all'interno del Regolamento. 13.3 L’interesse conoscitivo della persona è ulteriormente tutelato dal diritto di accesso riconosciuto dall'articolo 15 del Regolamento che contempla, a sua volta, la possibilità di ricevere informazioni relative all'esistenza di eventuali processi decisionali automatizzati. Incidentalmente, è stato evidenziato come l’articolo 15, diversamente dagli articoli 13 e 14, abbia il pregio di prevedere un diritto azionabile dall'interessato e non un obbligo rivolto al titolare del trattamento, e permette inoltre di superare i limiti temporali posti dagli articoli 13 e 14, consentendo al soggetto di acquisire informazioni anche qualora il trattamento abbia avuto inizio, stia trovando esecuzione o abbia addirittura già prodotto una decisione. Ciò, ai fini in esame, conferma ulteriormente la rilevanza della trasparenza per i soggetti coinvolti dall’attività amministrativa informatizzata in termini istruttori e decisori. 14.1 Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo. 14.2 In tale contesto, lo stesso Regolamento predetto affianca alle garanzie conoscitive assicurate attraverso l'informativa e il diritto di accesso, un espresso limite allo svolgimento di processi decisionali interamente automatizzati. L'articolo 22, paragrafo 1, riconosce alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull'individuo. Quindi occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo. 14.3 In tema di imputabilità occorre richiamare, quale elemento rilevante di inquadramento del tema, la Carta della Robotica, approvata nel febbraio del 2017 dal Parlamento Europeo. Tale atto esprime in maniera efficace questi passaggi, laddove afferma che “l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un'influenza esterna; (…) tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l'interazione di un robot con l'ambiente; (…) nell'ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati». 14.4 Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della decisione finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere. 15. A conferma di quanto sin qui rilevato, in termini generali dal diritto sovranazionale emergono tre principi, da tenere in debita considerazione nell’esame e nell’utilizzo degli strumenti informatici. 15.1 In primo luogo, il principio di conoscibilità, per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata. Il principio, in esame è formulato in maniera generale e, perciò, applicabile sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti pubblici, anche se, nel caso in cui la decisione sia presa da una p.a., la norma del Regolamento costituisce diretta applicazione specifica dell’art. 42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good administration”), laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle l’accesso ai suoi archivi e documenti, ed, infine, ha l’obbligo di “dare le ragioni della propria decisione”. Tale diritto alla conoscenza dell’esistenza di decisioni che ci riguardino prese da algoritmi e, correlativamente, come dovere da parte di chi tratta i dati in maniera automatizzata, di porre l’interessato a conoscenza, va accompagnato da meccanismi in grado di decifrarne la logica. In tale ottica, il principio di conoscibilità si completa con il principio di comprensibilità, ovverosia la possibilità, per riprendere l’espressione del Regolamento, di ricevere “informazioni significative sulla logica utilizzata”. 15.2 In secondo luogo, l’altro principio del diritto europeo rilevante in materia (ma di rilievo anche globale in quanto ad esempio utilizzato nella nota decisione Loomis vs. Wisconsin), è definibile come il principio di non esclusività della decisione algoritmica. Nel caso in cui una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato (art. 22 Reg.). In proposito, deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informativo il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano. 15.3 In terzo luogo, dal considerando n. 71 del Regolamento 679/2016 il diritto europeo trae un ulteriore principio fondamentale, di non discriminazione algoritmica, secondo cui è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali, secondo una modalità che tenga conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell'interessato e che impedisca tra l'altro effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della razza o dell'origine etnica, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell'appartenenza sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o dell'orientamento sessuale, ovvero che comportano misure aventi tali effetti. In tale contesto, pur dinanzi ad un algoritmo conoscibile e comprensibile, non costituente l’unica motivazione della decisione, occorre che lo stesso non assuma carattere discriminatorio. In questi casi, come afferma il considerando, occorrerebbe rettificare i dati in “ingresso” per evitare effetti discriminatori nell’output decisionale; operazione questa che richiede evidentemente la necessaria cooperazione di chi istruisce le macchine che producono tali decisioni. 16. Sulla scorta delle argomentazioni sin qui svolte, nel caso di specie l’algoritmo non risulta essere stato utilizzato in termini conformi ai principi predetti, anche in considerazione del fatto che non è dato comprendere per quale ragione le legittime aspettative di soggetti collocati in una determinata posizione in graduatoria siano andate deluse. Non può quindi ritenersi applicabile in modo indiscriminato, come si ritiene nella motivazione della sentenza di primo grado, all’attività amministrativa algoritmica, tutta la legge sul procedimento amministrativo, concepita in un’epoca nella quale l’amministrazione non era investita dalla rivoluzione tecnologica, né sono condivisibili richiami letterari, pur noti ed apprezzabili, a scenari orwelliani ( da considerarsi con cautela perché la materia merita un approccio non emotivo ma capace di delineare un nuovo equilibrio, nel lavoro, fra uomo e macchina differenziato per ogni campo di attività ). Il tema dei pericoli connessi allo strumento non è ovviato dalla rigida e meccanica applicazione di tutte le minute regole procedimentali della legge n. 241 del 1990 ( quali ad es. la comunicazione di avvio del procedimento sulla quale si appunta buona parte dell’atto di appello o il responsabile del procedimento che , con tutta evidenza, non può essere una macchina in assenza di disposizioni espresse ), dovendosi invece ritenere che la fondamentale esigenza di tutela posta dall’utilizzazione dello strumento informatico c.d. algoritmico sia la trasparenza nei termini prima evidenziati riconducibili al principio di motivazione e/o giustificazione della decisione. L’amministrazione, nel presente contenzioso, si è limitata a postulare una coincidenza fra la legalità e le operazioni algoritmiche che deve invece essere sempre provata ed illustrata sul piano tecnico, quantomeno chiarendo le circostanze prima citate, ossia le istruzioni impartite e le modalità di funzionamento delle operazioni informatiche se ed in quanto ricostruibili sul piano effettuale perché dipendenti dalla preventiva, eventualmente contemporanea o successiva azione umana di impostazione e/o controllo dello strumento. In tal senso la sentenza può essere confermata ma con diversa motivazione. Infatti, l’impossibilità di comprendere le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, siano stati assegnati i posti disponibili, costituisce di per sé un vizio tale da inficiare la procedura, in termini analoghi e coerenti rispetto al precedente della sezione più volte citato che, tuttavia, in parte se ne differenziava essendo state provate singole violazioni di legge mentre qui la censura finisce per involgere il metodo in quanto tale per il difetto di trasparenza dello stesso. Ciò ha trovato indiretta conferma dall’avvenuta esecuzione della sentenza appellata, in termini satisfattivi delle posizioni azionate. 17. Infine, destituito di fondamento è il vizio dedotto avverso la riconosciuta disparità di trattamento tra docenti appartenenti alla fascia C. Al riguardo, infatti, l’opzione ermeneutica fatta propria dal Tar Lazione nella sentenza impugnata appare coerente ai principi invocati ed applicati. In proposito, va pertanto ribadito che la mancata previsione della deroga al vincolo di permanenza quinquennale dei docenti di sostegno sulla medesima tipologia di posto, con conseguente loro esclusione dalle procedure di mobilità, si pone in contrasto con la facoltà riconosciuta alla generalità degli altri docenti. Ciò sia in termini di principio, in termini qualificabili di irragionevolezza e disparità di trattamento, sia normativi, a fronte della parallela previsione della prevista deroga al vincolo triennale di permanenza nella sede, di cui all’art. 399 co. 3, d.lgs. n. 297/2004, contemplata per i docenti assunti a tempo indeterminato entro l’anno scolastico 2014/2014 del primo periodo dell’art. 1, co. 108, L. n. 107/2015 proprio ai fini della loro partecipazione al contestato piano straordinario di mobilità. 18.Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va respinto, confermandosi l’esito del giudizio di prime cure. Sussistono giusti motivi, in relazione alla complessità ed alla novità delle questioni affrontate, per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Paolo Carpentieri, Consigliere Oreste Mario Caputo, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Paolo Carpentieri, Consigliere Oreste Mario Caputo, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Procedimento amministrativo – Algoritmo – Ammissibilità – Elementi di garanzia – Individuazione.   Il ricorso all’algoritmo nel procedimento amministrativo, pienamente ammissibile, va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere. Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse (1).   Premessa la generale ammissibilità dell’algoritmo nell’esercizio dell’attività amministrativa, assumono rilievo fondamentale, anche alla luce della disciplina di origine sovranazionale, due aspetti preminenti, quali elementi di minima garanzia per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica: a) la piena conoscibilità a monte del modulo utilizzato e dei criteri applicati; b) l’imputabilità della decisione all’organo titolare del potere, il quale deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo (2).   (1) Ha premesso la Sezione che anche la pubblica amministrazione debba poter sfruttare le rilevanti potenzialità della c.d. rivoluzione digitale. In tale contesto, il ricorso ad algoritmi informatici per l’assunzione di decisioni che riguardano la sfera pubblica e privata si fonda sui paventati guadagni in termini di efficienza e neutralità. In molti campi gli algoritmi promettono di diventare lo strumento attraverso il quale correggere le storture e le imperfezioni che caratterizzano tipicamente i processi cognitivi e le scelte compiute dagli esseri umani, messi in luce soprattutto negli ultimi anni da un’imponente letteratura di economia comportamentale e psicologia cognitiva. In tale contesto, le decisioni prese dall’algoritmo assumono così un’aura di neutralità, frutto di asettici calcoli razionali basati su dati. Peraltro, già in tale ottica è emersa altresì una lettura critica del fenomeno, in quanto l’impiego di tali strumenti comporta in realtà una serie di scelte e di assunzioni tutt’altro che neutre: l’adozione di modelli predittivi e di criteri in base ai quali i dati sono raccolti, selezionati, sistematizzati, ordinati e messi insieme, la loro interpretazione e la conseguente formulazione di giudizi sono tutte operazioni frutto di precise scelte e di valori, consapevoli o inconsapevoli; da ciò ne consegue che tali strumenti sono chiamati ad operano una serie di scelte, le quali dipendono in gran parte dai criteri utilizzati e dai dati di riferimento utilizzati, in merito ai quali è apparso spesso difficile ottenere la necessaria trasparenza. Sempre in linea generale va richiamato quanto già evidenziato dalla sezione in ordine all’elemento positivo derivante dal nuovo contesto di digitalizzazione; in proposito, non può essere messo in discussione che un più elevato livello di digitalizzazione dell’amministrazione pubblica sia fondamentale per migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini e agli utenti. In tale ottica lo stesso Codice dell’amministrazione digitale rappresenta un approdo decisivo in tale direzione. I diversi interventi di riforma dell’amministrazione susseguitisi nel corso degli ultimi decenni, fino alla l. n. 124 del 2015, sono indirizzati a tal fine; nella medesima direzione sono diretti gli impulsi che provengono dall’ordinamento comunitario. Ha aggiunto che la Sezione che non si tratta, infatti, di sperimentare forme diverse di esternazione della volontà dell’amministrazione, come nel caso dell’atto amministrativo informatico, ovvero di individuare nuovi metodi di comunicazione tra amministrazione e privati, come nel caso della partecipazione dei cittadini alle decisioni amministrative attraverso social network o piattaforme digitali, ovvero di ragionare sulle modalità di scambio dei dati tra le pubbliche amministrazioni. Nel caso dell’utilizzo di tali strumenti digitali, come avvenuto nella fattispecie oggetto della presente controversia, ci si trova dinanzi ad una situazione che, in sede dottrinaria, è stata efficacemente qualificata con l’espressione di rivoluzione 4.0 la quale, riferita all’amministrazione pubblica e alla sua attività, descrive la possibilità che il procedimento di formazione della decisione amministrativa sia affidato a un software, nel quale vengono immessi una serie di dati così da giungere, attraverso l’automazione della procedura, alla decisione finale. Come già evidenziato nella sentenza n. 2270 del 2019, l’utilità di tale modalità operativa di gestione dell’interesse pubblico è particolarmente evidente con riferimento a procedure, come quella oggetto del presente contenzioso, seriali o standardizzate, implicanti l’elaborazione di ingenti quantità di istanze e caratterizzate dall’acquisizione di dati certi ed oggettivamente comprovabili e dall’assenza di ogni apprezzamento discrezionale. La piena ammissibilità di tali strumenti risponde ai canoni di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa (art. 1, l. n. 241 del 1990), i quali, secondo il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), impongono all’amministrazione il conseguimento dei propri fini con il minor dispendio di mezzi e risorse e attraverso lo snellimento e l’accelerazione dell’iter procedimentale. Ha ancora chiarito la Sezione che l'utilizzo di procedure informatizzate non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell’attività amministrativa. In tale contesto, infatti, il ricorso all’algoritmo va correttamente inquadrato in termini di modulo organizzativo, di strumento procedimentale ed istruttorio, soggetto alle verifiche tipiche di ogni procedimento amministrativo, il quale resta il modus operandi della scelta autoritativa, da svolgersi sulla scorta delle legislazione attributiva del potere e delle finalità dalla stessa attribuite all’organo pubblico, titolare del potere. Né vi sono ragioni di principio, ovvero concrete, per limitare l’utilizzo all’attività amministrativa vincolata piuttosto che discrezionale, entrambe espressione di attività autoritativa svolta nel perseguimento del pubblico interesse. In disparte la stessa sostenibilità a monte dell’attualità di una tale distinzione, atteso che ogni attività autoritativa comporta una fase quantomeno di accertamento e di verifica della scelta ai fini attribuiti dalla legge, se il ricorso agli strumenti informatici può apparire di più semplice utilizzo in relazione alla c.d. attività vincolata, nulla vieta che i medesimi fini predetti, perseguiti con il ricorso all’algoritmo informatico, possano perseguirsi anche in relazione ad attività connotata da ambiti di discrezionalità. Piuttosto, se nel caso dell’attività vincolata ben più rilevante, sia in termini quantitativi che qualitativi, potrà essere il ricorso a strumenti di automazione della raccolta e valutazione dei dati, anche l’esercizio di attività discrezionale, in specie tecnica, può in astratto beneficiare delle efficienze e, più in generale, dei vantaggi offerti dagli strumenti stessi.   (2) Ha chiarito la Sezione che sul versante della piena conoscibilità, rilievo preminente ha il principio della trasparenza, da intendersi sia per la stessa p.a. titolare del potere per il cui esercizio viene previsto il ricorso allo strumento dell’algoritmo, sia per i soggetti incisi e coinvolti dal potere stesso. In relazione alla stessa p.a., nel precedente richiamato la sezione ha già chiarito come il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) debba essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. Ciò al fine di poter verificare che i criteri, i presupposti e gli esiti del procedimento robotizzato siano conformi alle prescrizioni e alle finalità stabilite dalla legge o dalla stessa amministrazione a monte di tale procedimento e affinché siano chiare – e conseguentemente sindacabili – le modalità e le regole in base alle quali esso è stato impostato. In proposito, va ribadito che, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo (costruzione che certo non richiede solo competenze giuridiche, ma tecniche, informatiche, statistiche, amministrative) non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e comprensibile. Con le già individuate conseguenze in termini di conoscenza e di sindacabilità (cfr. punto 8.3 della motivazione della sentenza 2270 cit.). In senso contrario non può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza. In relazione ai soggetti coinvolti si pone anche un problema di gestione dei relativi dati. Ad oggi nelle attività di trattamento dei dati personali possono essere individuate due differenti tipologie di processi decisionali automatizzati: quelli che contemplano un coinvolgimento umano e quelli che, al contrario, affidano al solo algoritmo l'intero procedimento. Il più recente Regolamento europeo in materia (2016/679), concentrandosi su tali modalità di elaborazione dei dati, integra la disciplina già contenuta nella Direttiva 95/46/CE con l'intento di arginare il rischio di trattamenti discriminatori per l'individuo che trovino la propria origine in una cieca fiducia nell'utilizzo degli algoritmi. In particolare, in maniera innovativa rispetto al passato, gli articoli 13 e 14 del Regolamento stabiliscono che nell'informativa rivolta all'interessato venga data notizia dell'eventuale esecuzione di un processo decisionale automatizzato, sia che la raccolta dei dati venga effettuata direttamente presso l’interessato sia che venga compiuta in via indiretta. Una garanzia di particolare rilievo viene riconosciuta allorché il processo sia interamente automatizzato essendo richiesto, almeno in simili ipotesi, che il titolare debba fornire “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l'importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato” . In questo senso, in dottrina è stato fatto notare come il legislatore europeo abbia inteso rafforzare il principio di trasparenza che trova centrale importanza all'interno del Regolamento. L’interesse conoscitivo della persona è ulteriormente tutelato dal diritto di accesso riconosciuto dall'articolo 15 del Regolamento che contempla, a sua volta, la possibilità di ricevere informazioni relative all'esistenza di eventuali processi decisionali automatizzati. Incidentalmente, è stato evidenziato come l’articolo 15, diversamente dagli articoli 13 e 14, abbia il pregio di prevedere un diritto azionabile dall'interessato e non un obbligo rivolto al titolare del trattamento, e permette inoltre di superare i limiti temporali posti dagli articoli 13 e 14, consentendo al soggetto di acquisire informazioni anche qualora il trattamento abbia avuto inizio, stia trovando esecuzione o abbia addirittura già prodotto una decisione. Ciò, ai fini in esame, conferma ulteriormente la rilevanza della trasparenza per i soggetti coinvolti dall’attività amministrativa informatizzata in termini istruttori e decisori. Sul versante della verifica degli esiti e della relativa imputabilità, deve essere garantita la verifica a valle, in termini di logicità e di correttezza degli esiti. Ciò a garanzia dell’imputabilità della scelta al titolare del potere autoritativo, individuato in base al principio di legalità, nonché della verifica circa la conseguente individuazione del soggetto responsabile, sia nell’interesse della stessa p.a. che dei soggetti coinvolti ed incisi dall’azione amministrativa affidata all’algoritmo. In tale contesto, lo stesso Regolamento predetto affianca alle garanzie conoscitive assicurate attraverso l'informativa e il diritto di accesso, un espresso limite allo svolgimento di processi decisionali interamente automatizzati. L'articolo 22, paragrafo 1, riconosce alla persona il diritto di non essere sottoposta a decisioni automatizzate prive di un coinvolgimento umano e che, allo stesso tempo, producano effetti giuridici o incidano in modo analogo sull'individuo. Quindi occorre sempre l’individuazione di un centro di imputazione e di responsabilità, che sia in grado di verificare la legittimità e logicità della decisione dettata dall’algoritmo. In tema di imputabilità occorre richiamare, quale elemento rilevante di inquadramento del tema, la Carta della Robotica, approvata nel febbraio del 2017 dal Parlamento Europeo. Tale atto esprime in maniera efficace questi passaggi, laddove afferma che “l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un'influenza esterna; (…) tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l'interazione di un robot con l'ambiente; (…) nell'ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati». Quindi, anche al fine di applicare le norme generali e tradizionali in tema di imputabilità e responsabilità, occorre garantire la riferibilità della decisione finale all’autorità ed all’organo competente in base alla legge attributiva del potere. A conferma di quanto sin qui rilevato, in termini generali dal diritto sovranazionale emergono tre principi, da tenere in debita considerazione nell’esame e nell’utilizzo degli strumenti informatici. In primo luogo, il principio di conoscibilità, per cui ognuno ha diritto a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino ed in questo caso a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata. Il principio, in esame è formulato in maniera generale e, perciò, applicabile sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti pubblici, anche se, nel caso in cui la decisione sia presa da una p.a., la norma del Regolamento costituisce diretta applicazione specifica dell’art. 42 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (“Right to a good administration”), laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle l’accesso ai suoi archivi e documenti, ed, infine, ha l’obbligo di “dare le ragioni della propria decisione”. Tale diritto alla conoscenza dell’esistenza di decisioni che ci riguardino prese da algoritmi e, correlativamente, come dovere da parte di chi tratta i dati in maniera automatizzata, di porre l’interessato a conoscenza, va accompagnato da meccanismi in grado di decifrarne la logica. In tale ottica, il principio di conoscibilità si completa con il principio di comprensibilità, ovverosia la possibilità, per riprendere l’espressione del Regolamento, di ricevere “informazioni significative sulla logica utilizzata”. In secondo luogo, l’altro principio del diritto europeo rilevante in materia (ma di rilievo anche globale in quanto ad esempio utilizzato nella nota decisione Loomis vs. Wisconsin), è definibile come il principio di non esclusività della decisione algoritmica. Nel caso in cui una decisione automatizzata “produca effetti giuridici che riguardano o che incidano significativamente su una persona”, questa ha diritto a che tale decisione non sia basata unicamente su tale processo automatizzato (art. 22 Reg.). In proposito, deve comunque esistere nel processo decisionale un contributo umano capace di controllare, validare ovvero smentire la decisione automatica. In ambito matematico ed informativo il modello viene definito come HITL (human in the loop), in cui, per produrre il suo risultato è necessario che la macchina interagisca con l’essere umano. In terzo luogo, dal considerando n. 71 del Regolamento 679/2016 il diritto europeo trae un ulteriore principio fondamentale, di non discriminazione algoritmica, secondo cui è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, mettendo in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, in particolare, che siano rettificati i fattori che comportano inesattezze dei dati e sia minimizzato il rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali, secondo una modalità che tenga conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell'interessato e che impedisca tra l'altro effetti discriminatori nei confronti di persone fisiche sulla base della razza o dell'origine etnica, delle opinioni politiche, della religione o delle convinzioni personali, dell'appartenenza sindacale, dello status genetico, dello stato di salute o dell'orientamento sessuale, ovvero che comportano misure aventi tali effetti. In tale contesto, pur dinanzi ad un algoritmo conoscibile e comprensibile, non costituente l’unica motivazione della decisione, occorre che lo stesso non assuma carattere discriminatorio. In questi casi, come afferma il considerando, occorrerebbe rettificare i dati in “ingresso” per evitare effetti discriminatori nell’output decisionale; operazione questa che richiede evidentemente la necessaria cooperazione di chi istruisce le macchine che producono tali decisioni.
Procedimento amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/effetti-sulla-partecipazione-alla-gara-del-controllo-giudiziario
Effetti sulla partecipazione alla gara del controllo giudiziario
N. 01546/2021 REG.PROV.COLL. N. 00322/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 322 del 2020, proposto da -OMISSIS-., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Oreste Morcavallo ed Elisabetta De Marco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo in Cosenza, corso Luigi Fera n. 23; contro Comune di Cassano allo Ionio, rappresentato e difeso dall'avvocato Vittorio Cavalcanti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Cosenza, via E. Cristofaro n. 57; nei confronti -OMISSIS-. - -OMISSIS- rappresentati e difesi dall'avvocato Francesco Lombardi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento, previa tutela cautelare, del provvedimento n. -OMISSIS-del Rup del Comune di Cassano allo Ionio di aggiudicazione alla seconda impresa classificata con ulteriore domanda di subentro nel contratto nelle more eventualmente stipulato, previa declaratoria di inefficacia dello stesso. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio -OMISSIS- ed -OMISSIS- e del Comune di Cassano allo Ionio; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 luglio 2021 la dott.ssa Francesca Goggiamani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. -OMISSIS--OMISSIS-., premettendo di essere stata aggiudicataria definitiva della gara di “Adeguamento strutturale antisismico della scuola primaria in via -OMISSIS-" del Comune di Cassano allo Ionio giusta determina del -OMISSIS-, ha impugnato, con istanza di tutela cautelare, il provvedimento n. -OMISSIS-del Rup del Comune di Cassano allo Ionio di aggiudicazione alla seconda impresa classificata per ritenuta inammissibilità del progetto presentato perché contenente una variante non consentita (rinforzo strutturale in FRP in luogo di CAM). Premettendo che la revoca impugnata era stata preceduta da precedente revoca del -OMISSIS-per sopravvenuta interdittiva antimafia, prontamente impugnata e sospesa dal Tar Calabria (ord. n. -OMISSIS-), a sostegno del ricorso ha lamentato -) l’incompetenza del Rup ad effettuare valutazioni sulle offerte tecniche, riservate alla Commissione, ed a cambiare aggiudicatario della gara; -) la violazione degli artt. 32 co. 7 e 33 c.c.p. per essere stato adottato l’atto a seguito dell’intervenuta efficacia dell’aggiudicazione in esito alla relativa verifica dei requisiti; -) la violazione dell’art. 21 quinquies e nonies l. proc. e l’eccesso di potere per avere il Rup proceduto ad implicita revoca della prima aggiudicazione invadendo la competenza della Commissione stabilita dalla regola del contrarius actus e senza avere stato instaurato il contraddittorio con l’aggiudicataria e -) la carenza motivazione, la violazione del bando e dell'art. 95 comma 14 c.c.p., contestando in fatto che il suo progetto contenesse variante, sostenendo, piuttosto, essere miglioria consentita e supportando la deduzione con CTP. La controinteressata -OMISSIS-., ha resistito al ricorso chiedendone il rigetto, depositando consulenza di parte a supporto della correttezza della valutazione della stazione appaltante di presentazione da parte dell’originaria aggiudicataria di variante non consentita. Il Comune di Cassano allo Ionio ha eccepito preliminarmente -) l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, stante l’efficacia dell’interdittiva per effetto dell’ordinanza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-, che in riforma della pronuncia cautelare del Tar Calabria aveva rigettato la sospensione dell’interdittiva, con conseguente incapacità a contrarre della ricorrente, -) l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse/legittimazione in quanto la ricorrente era da considerare partecipante escluso per definitività della prima revoca dell’aggiudicazione per il riscontro dell’interdittiva (efficace) e nel merito, chiarendo che nella specie il Rup era anche il dirigente del settore competente, ha chiesto il rigetto del ricorso per infondatezza. La ricorrente ha replicato alle eccezioni preliminari dell’Amministrazione deducendo che nell’ambito del ricorso di impugnazione dell’interdittiva era stato impugnato per invalidità derivata la correlata revoca dell’aggiudicazione e che la sentenza n. -OMISSIS-del Tar Calabria aveva annullato l’interdittiva. 2. La domanda cautelare avanzata nel presente giudizio è stata rigettata con ordinanza n. -OMISSIS-, non appellata, in virtù della sussistenza della ristabilita efficacia dell’interdittiva, e dunque di causa di esclusione, per effetto della sospensione della sentenza di annullamento di tale atto prefettizio e degli atti conseguenti da parte dell’ordinanza n. -OMISSIS-del Consiglio di Stato (resa nel giudizio n. -OMISSIS-non definito alla data della presente sentenza in virtù di concesso rinvio per ammissione al controllo giudiziario). 3. In via istruttoria sono stati acquisiti il capitolato speciale d’appalto e gli elaborati tecnici componenti il progetto esecutivo e parte ricorrente ha depositato Parte ricorrente ha poi depositato il provvedimento di ammissione al controllo giudiziario del -OMISSIS-, così affermando la sussistente capacità a contrattare avversata dalle controparti ed il Comune di Cassano allo Ionio ha controdedotto l’irrilevanza della sopravvenienza. 4. Disposta in via istruttoria la verificazione all’udienza del 7 luglio 2021, trattata la controversia, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. In via preliminare, si pone la necessità del riscontro dell’interesse ad agire della ricorrente, con riferimento alla sua possidenza della capacità a contrattare alla luce della emessa ed impugnata informazione interdittiva. Tale verifica risulta nel caso di specie non piana sia perchè l’-OMISSIS-ne è risultata dotata ad “intermittenza” alla luce dei diversi pronunciamenti sulla legittimità dell’informazione da parte del Tar (sospensione in sede cautelare ed annullamento nel merito dell’interdittiva) e del Consiglio di Stato (sospensione degli effetti dapprima dell’ordinanza cautelare e poi della sentenza di primo grado) ed ancora in attesa della decisione di merito del Giudice di Appello, sia perchè interessata dalla delicata questione della valenza del sopravvenuto provvedimento di ammissione al controllo giudiziario sugli appalti già aggiudicati e sulle procedure di evidenza in corso. Ritiene il Collegio di rinviare la disamina della questione preliminare solo all’eventuale riscontro della fondatezza dei motivi di ricorso. 2. I primi tre motivi di ricorso sono infondati. Va premesso che nella fattispecie in esame il Rup coincide con il responsabile del servizio sicchè, oltre ai compiti previsti dall’art. 31 c.c.p. e dalle Linee Guida Anac n. 3, egli era titolare anche del potere provvedimentale di aggiudicazione e, correlativamente, dei provvedimenti di autotoutela su tale atto. 2.1. Ebbene, partendo dall’aspetto procedimentale il secondo e terzo motivo di ricorso errano nel denunciarne i vizi. “Revocata” l’aggiudicazione definitiva il -OMISSIS-per la riscontrata interdittiva – con potere di autotutela certamente sussistente in capo alla p.a. pur a seguito della conferita efficacia dell’aggiudicazione in esito alla verifica dei requisiti ex art 32 c.p.p. (v. T.A.R. Calabria - Catanzaro, sez. I, -OMISSIS-; T.A.R. Lazio - Roma, sez. I, -OMISSIS-; T.A.R. Lombardia- Milano, sez. IV, -OMISSIS-; T.A.R. Marche, sez. I, -OMISSIS-; T.A.R. Campania - Napoli, sez. IV, -OMISSIS-) - il procedimento era retrocesso alla valutazione della proposta di aggiudicazione con individuazione della -OMISSIS-quale prima classificata e della -OMISSIS- quale seconda classificata, sicchè al Rup/responsabile del servizio tornava il compito di valutare l’operato della Commissione ed il riscontro degli elementi per disporre la corretta aggiudicazione definitiva. Al momento di tale rivalutazione per effetto della sospensione giudiziale della informativa, la prima classificata era sì ex tunc dotata di capacità a contrattare, ed il Rup/responsabile del servizio, tenendone conto, con il provvedimento impugnato in esito a specifica istruttoria (acquisizione della nota della seconda classificata del -OMISSIS- della Regione e di apposito parere della Commissione) ha ritenuto, comunque, inammissibile la sua offerta poiché contenente variante non consentita ed ha così disposto l’aggiudicazione in favore dell’-OMISSIS--OMISSIS- -OMISSIS- 2.2. Dal punto di vista del riparto delle competenze, diversamente da quanto prospettato nel primo motivo di ricorso, non vi è illegittimità. È noto, infatti, che alla luce del disposto dall’art. 31 c.c.p. e dalle Linee Guida Anac n. 3, il Rup, vero “motore” della procedura selettiva (v. Ad. Plen. n. 36/2012), svolge sia compiti nella fase dell’affidamento, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti, tra cui verifica della documentazione amministrativa (e quindi la regolarità dell’invio dell’offerta rispetto delle disposizioni generali e speciali della legge di gara, la regolarità della documentazione, il possesso dei requisiti di partecipazione) con le correlate decisione di soccorso/ammissione/esclusione, sia il controllo dell’attività della Commissione giudicatrice. Nella specie, inoltre, ai compiti procedimentali in capo l’-OMISSIS-. -OMISSIS- si sommavano quelli provvedimentali, sicchè rientrava certamente nella sua competenza ritenere “inaccettabile” l’offerta della -OMISSIS-discostandosi dalla valutazione espressa dalla Commissione. 2.3. -OMISSIS-ultimo motivo di ricorso, con cui la ricorrente contesta la valutazione della propria “proposta migliorativa” in termini di variante non consentita richiede la delineazione della distinzione tra variante (non consentita) e miglioria (consentita). È noto che la facoltà per le imprese di proporre variazioni migliorative, indispensabili sotto l'aspetto tecnico, incontra il limite intrinseco consistente nel divieto di alterare i caratteri essenziali, i cosiddetti requisiti minimi, della prestazione oggetto del contratto, in maniera da non modificare i profili strutturali, qualitativi, prestazionali o funzionali dell'opera o dei servizi, come definiti nel progetto posto a base di gara (cfr. Cons. Stato, sez. V, 16 aprile 2014, n. 1923). Dunque, le soluzioni migliorative avanzabili si differenziano dalle varianti inammissibili perché le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti lasciati aperti a diverse soluzioni dall’appaltante sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva disposizione contenuta nella disciplina di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dall’Amministrazione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 3 maggio 2019, n. 2873; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2018, n. 270; Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2017, n. 2969; Tar Veneto, 481/2018; T.A.R. Puglia - Bari, sez. III, 21 febbraio 2018, n. 249; T.A.R. Calabria - Reggio Calabria, 13 novembre 2017, n. 928; T.A.R. Umbria, sez. I, 6 ottobre 2017, n. 620). “Le proposte migliorative consistono pertanto in soluzioni tecniche che, senza incidere sulla struttura, sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara, investono -OMISSIS- lavorazioni o s-OMISSIS-oli aspetti tecnici dell'opera, lasciati aperti a diverse soluzioni, configurandosi come integrazioni, precisazioni e migliorie che rendono il progetto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”. In punto di fatto dall’istruttoria svolta emerge che: - la documentazione di gara (v. bando-disciplinare) prevedeva: -) all’art. 1 quale oggetto dell’appalto “l'affidamento dei lavori di Adeguamento strutturale antisismico della Scuola Primaria in -OMISSIS-meglio descritti negli elaborati tecnici componenti il progetto esecutivo e nel Capitolato Speciale d’Appalto” -) all’art. 7.2 del bando in relazione all’offerta tecnica che “In sede di offerta sono ammesse proposte migliorative del progetto a base di appalto, con le modalità di seguito indicate… -OMISSIS-offerta tecnica è deputata a permettere la valutazione della fattibilità delle proposte migliorative dell’operatore economico che partecipa alla gara, nonché il riconoscimento dei vantaggi derivanti da queste mediante il raffronto di tali proposte con le scelte del progetto esecutivo a base di gara”. Essa dovrà essere accompagnata da una Relazione tecnico-descrittiva la quale doveva I. evidenziare nel dettaglio le lavorazioni oggetto di miglioramento; II. rappresentare le proposte migliorative relativamente a tecniche costruttive, materiali e lavorazioni da utilizzare per la realizzazione dei lavori oggetto della gara, utilizzando: schemi, grafici, particolari costruttivi, schede tecniche, depliants, certificazioni ecc.; III. dimostrare dettagliatamente mediante raffronto con la progettazione posta a base di gara, che le proposte migliorative sono finalizzate a migliorare l’esecuzione dell’intervento, per dare le opere complete e funzionanti, dando un valore aggiunto allo stesso; IV. procedere al raffronto tra quanto proposto e quanto previsto nel progetto a base di gara, utilizzando schede tecniche, schemi di dettaglio, tabulati di raffronto sintetici, ect., evidenziando dettagliatamente quali siano i vantaggi delle proposte migliorative, anche alla luce della futura manutenzione e gestione delle opere a farsi; -) all’art. 8.2. inerente i “criteri di valutazione e metodo di attribuzione del punteggio dell’offerta tecnica” per il criterio 2 “offerta metodologica” il sub-critrerio 2.2. “Merito Tecnico: Proposte migliorative inerenti le tecniche costruttive, le caratteristiche funzionali, tecnologiche e prestazionali dell’opera di progetto a base di gara attraverso soluzioni tecniche atte a garantire la durabilità, la manutentibilità e la funzionalità nel tempo dell’intervento”; - il progetto esecutivo posto a base di gara (v. doc.1 depositato dalla p.a. resistente il -OMISSIS-) dopo avere descritto i lavori (art. 1.5) in termini di “interventi sulle strutture, volti a ridurre la vulnerabilità sismica, e quindi ad aumentare la sicurezza strutturale esistente, sono da valutarsi nel quadro generale della conservazione e della funzione della costruzione. La scelta della strategia e della tecnica d’intervento, sono dipendenti dai risultati della precedente fase di valutazione. La struttura oggetto di intervento risulta essere una struttura mista formata da corpi strutturali differenti, in muratura e in c.a., giuntati tra loro. Per tutti i corpi strutturali, al fine di ottenere un adeguamento sismico della struttura si ritiene opportuno procedere con l’applicazione del sistema delle cuciture attive (CAM)…” prevede nel capitolo 8 “modo di esecuzione di ogni categoria di lavoro” la puntuale descrizione (punti 8.2.2) e 8.2.3) del Consolidamento con Cerchiaggio Attivo dei Manufatti (sistema CAM); - il sistema Cam viene descritto anche nella relazione tecnica specialistica e nella relazione tecnica sui materiali ed individuato nell’elaborato grafico degli interventi strutturali di adeguamento sismico (v. tutti docc. depositati dalla p.a. resistente il -OMISSIS-) nonché nelle tavole sui particolari costruttivi (corpi in muratura) (v. doc. -OMISSIS- fasc. -OMISSIS-); - la ricorrente ha proposto offerta tecnica prevedendo rinforzo strutturale FRP in luogo di quello Cam ritenuta dalla ctp depositata “miglioria proposta riguardate la scelta del materiale utilizzato per eseguire il rinforzo strutturale”; - la Commissione appositamente interrogata dal Rup ha affermato -) nella nota del -OMISSIS-che tale soluzione tecnica costituiva diversa soluzione tecnica migliorativa e compatibile con finalità e scopo del progetto e non variante strutturale non autorizzata tale da stravolgere finalità e contenuti del progetto; -) nella nota del 16.1.2020 ha confermato la suddetta valutazione di proposta tecnica migliorativa pur condividendo con la nota della Regione Calabria del 2.12.2019 che essendo “soluzione tecnologica differente da quella autorizzata relativamente ad aspetti strutturali dovrà essere oggetto di valutazione tecnica da parte del settore 2 della Regione Calabria mediante l’invio di apposito progetto di variante strutturale”. Premette il Tar che, seppur elemento da vagliare, non effettivamente dirimente sia la circostanza che il settore 2 del Dipartimento 6 della Regione (ex genio civile) richiedesse per soluzioni tecniche differenti da quelle del progetto esecutivo la necessità di nuova autorizzazione sismica. Il parametro, infatti, cui correlare la distinzione miglioria/variante non sta nelle autorizzazioni al progetto, quanto alla documentazione di gara: più volte ha chiarito la giurisprudenza del Giudice di Appello che la necessità di nuovi titoli abilitativi non è di per sé indice di qualificazione dell’intervento in termini di variante inammissibile piuttosto che di proposta migliorativa ammissibile (cfr. Cons. Stato, V, 14 maggio 2018, n. 2853 e Cons. Stato 282/2021). Ancora la sussistenza del progetto esecutivo non comporta per definizione la improponibilità di varianti migliorative, posto che “in ogni caso, a prescindere dalla espressa previsione di varianti progettuali in sede di bando, deve ritenersi insito nella scelta del criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa che, anche quando il progetto posto a base di gara sia definitivo, è consentito alle imprese di proporre quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio” (Cons. Stato, V, -OMISSIS- dicembre 2015, n. 5655). Ciò detto, deve riportarsi quanto concluso dall’organo verificatore, all’esito dell’esame degli atti di gara, della illustrazione dei sistemi di rinforzo CAM ed FRP nel rinforzo delle strutture in calcestruzzo armato ed in muratura e della differenze nelle modalità di applicazione. -OMISSIS-ausiliario del Tribunale ha affermato in sede conclusiva che: - “i sistemi di rinforzo locale costituiscono un’efficace soluzione per il miglioramento sismico delle strutture in calcestruzzo armato sia in termini di resistenza sia in termini di duttilità; - l’utilizzo del sistema di rinforzo FRP in luogo del sistema CAM previsto nel progetto esecutivo costituisce una soluzione tecnica che non incide sulla risposta della struttura né sulla funzione e sulla tipologia del progetto a base di gara; - i due sistemi di rinforzo consentono di raggiungere le stesse prestazioni meccaniche dell’elemento rinforzato per soddisfare i requisiti richiesti in termini di resistenza e duttilità; - l’utilizzo del sistema in FRP in luogo del sistema CAM investe solo -OMISSIS- lavorazioni connesse alla diversa tecnologia dei due sistemi (materiali, modalità di messa in opera); - l’utilizzo degli FRP offre significativi vantaggi dal punto di vista dei tempi di costruzione, della facilità di esecuzione e, soprattutto, della durabilità nel tempo e della ridotta influenza sulla massa originaria. Le lavorazioni necessarie per l’applicazione del sistema di rinforzo in FRP non prevedono interventi che possono, se non correttamente eseguiti, danneggiare le parti strutturali da rinforzare rendendo poco efficace il rinforzo; - la proposta della ricorrente (-OMISSIS- -OMISSIS--OMISSIS-.) è stata avanzata nel rispetto delle indicazioni riportate negli artt. 7.2 ed 8.2 del bando di gara. In particolare, la proposta soddisfa i criteri stabiliti nell’art. 8.2 per l’Offerta metodologica (in particolare punti 2.2. e 2.3); …. Nel caso in esame l’utilizzo del sistema FRP, tecnologicamente diverso dal sistema CAM, non modifica la risposta globale della struttura rinforzata, poiché in grado di fornire requisiti meccanici almeno uguali a quelli del sistema CAM; - si ritiene pertanto che la proposta della ricorrente (-OMISSIS-) di realizzare il rinforzo delle strutture in calcestruzzo armato previsto nel progetto a base di gara, con il sistema FRP in sostituzione del sistema CAM, non modifica il comportamento globale delle strutture rinforzate nei riguardi della vulnerabilità sismica e quindi costituisce una miglioria tecnica consentita in base a quanto previsto dagli artt. 7.2 ed 8.2 del Bando Disciplinare di Gara”. Il Tar fa proprie le conclusioni del verificatore stante la completezza nella raccolta dei dati di base e nella coerenza delle conclusioni raggiunte sicchè illegittima deve dirsi la declaratoria di inammissibilità dell’offerta della prima classificata e di conseguenza l’aggiudicazione in favore della seconda. 3. A tale conclusione di fondatezza del ricorso consegue la necessità per il Collegio di tornare alla questione preliminare e, dunque, di verificare la sussistenza dell’interesse della ricorrente a fronte della subita interdittiva e del sopraggiunto controllo giudiziario. Questo Tar ben conosce la giurisprudenza che si è espressa sinora sulla non retroattività degli effetti derivanti dall’ammissione del controllo giudiziario (v. Consiglio di Stato n. 3268/2018; Tar Basilicata n. 482/2018; Tar Reggio Calabria n. 643/18; Tar Napoli 805 e 5690/2020; Tar Salerno n. 1530/2020 la cui motivazione è sul tema la più approfondita e che ha però trovato riforma da parte del Cons. Stato n. 4619/2021). La regola affermata dalla giurisprudenza della irretroattività dell’efficacia del controllo giudiziario ha, nel suo essere netta, gli indubbi pregi della chiarezza e del porre in primo piano l’interesse pubblico alla speditezza e certezza della contrattazione pubblica. -OMISSIS-aderenza a tale conclusione, in uno alla necessaria persistenza dei requisiti nella procedura di evidenza (v. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 8/2015), determinerebbe nella fattispecie in esame in via tranciante la declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, non avendo la ricorrente mantenuto in via persistente il requisito di moralità nell’intero corso della procedura di evidenza. Ritiene, tuttavia, il Collegio che la questione meriti una ulteriore riflessione, per appurare se la suddetta irretroattività sia, effettivamente, regola assoluta. È bene, anzitutto, precisare che non viene in alcun modo in discussione il principio secondo cui il decreto ex art. 34 bis d.lgs. n. 159/20-OMISSIS- non modifica il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione: esso senza dubbio “non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza” (v. Cons. Stato, n. 6377/2018; Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268 e cfr. Cass. Pen. nn. 39.412 e 27.856 del 2019 che escludono che il controllo abbia la conseguenza di vanificare il provvedimento definitivo dell’informazione e che sia strumento alternativo di impugnazione) e, ove nelle more del giudizio amministrativo, il Tribunale della prevenzione rigettasse l’istanza di controllo per evidente esclusione del requisito della occasionalità, tale elemento costituirebbe ulteriore riscontro della legittimità dell’informativa nel giudizio amministrativo (così Tar Napoli sent. n. 6659/2018). Ciò di cui si dubita è che il sopraggiungere del provvedimento di ammissione al controllo giudiziario possa avere in via assoluta effetti favorevoli solo per gli atti amministrativi ad esso successivi (limitando in questa sede l’analisi, per questione di rilevanza, ai soli atti contrattuali). La questione dubitativa sorge, evidentemente, per effetto della scarsa puntualità delle norme che hanno introdotto e regolato l’istituto. Di tali disposizioni, come si ricorderà, non a caso, da tempo gli interpreti hanno evidenziato la trascuratezza della regolazione dei rapporti tra giudizio amministrativo e procedimento di prevenzione, mancanza che ha portato Giudici penali e Giudici amministrativi ad intervenire per via interpretativa per configurare un coordinamento, divenuto indispensabile in ragione della ormai una larga applicazione dell’istituto. Venendo alla specifica questione delle conseguenze dell’ammissione al controllo giudiziario sulle procedure contrattualistiche pubbliche, essa deve essere verificata tenendo conto della lettera della legge, della ratio dell’istituto del controllo e degli interventi giurisprudenziali. 3.1. In punto di littera legis, laconicamente il comma 7 dell’art. 34 bis cod.antim. prevede che “Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 del presente articolo sospende gli effetti di cui all'articolo 94” cod.antim. il quale, come noto, prevede, a sua volta, il divieto per le appaltanti di stipulare/approvare/autorizzare i contratti con imprese interdette ed obbliga al recesso dal contratto con esse stipulato (salvo la facoltà per la p.a. di non recedere per garantire l’interesse pubblico all’esaustiva esecuzione dell’appalto, con finalità analoga a quella del commissariamento prefettizio ex art. 32 co. 10 d.l. n. 90/14). Il Legislatore, ancora, nel 2019 ha sentito la necessità di intervenire in via additiva per congelare espressamente gli effetti dell’interdittiva in conseguenza dell’ammissione al controllo giudiziario anche nella fase della partecipazione delle gare pubbliche, prevedendo all’art. 80 co. 2 c.c.p., di seguito alla enunciazione dell’essere il provvedimento prefettizio motivo di esclusione, che “Resta fermo altresi' quanto previsto dall'articolo 34-bis, commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 20-OMISSIS-, n. 159”. Tale formulazione, si badi, ha formula più generica della analoga previsione di inoperatività del motivo di esclusione previsto per le imprese sottoposte a confisca e sequestro in cui è chiara la lettera della legge nel riconoscere la sterilizzazione del motivo di esclusione solo alle imprese già sottoposte alla misura giudiziaria (“aziende o societa' sottoposte a sequestro o confisca …. ed affidate ad un custode o amministratore giudiziario o finanziario, limitatamente a quelle riferite al periodo precedente al predetto affidamento”). Ci si deve, allora chiedere se la novella, giustificata dalla relazione illustrativa con la necessità del “coordinamento con le norme del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo n. 159 del 20-OMISSIS-”, con tale formulazione non voglia lasciare una chance favorevole all’impresa che abbia ottenuto la misura della “bonifica” durante la gara pubblica. 3.2. In punto di ratio legis va, poi, rammentato che il controllo giudiziario è istituto di sostegno previsto dall’ordinamento per l’imprenditore che sia marginalmente toccato dai clan e che individualmente (specie in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa) non sia in grado di reagire alla criminalità, sostegno costituito da un percorso imprenditoriale sorvegliato dall’amministratore giudiziale, finalizzato alla sua bonifica. -OMISSIS-istituto va, però, coordinato con gli altri con cui esso si correla e, di conseguenza risulta necessario porre in evidenza i confliggenti interessi in gioco evincibili nell’incontro delle norme sulla contrattualistica con quelle del codice antimafia: - i plurimi interessi pubblici (anche non convergenti) -) alla stipula del contratto con soggetto meritevole di fiducia in quanto non interessato da fenomeni di infiltrazione mafiosa, -) alla stipula del contratto con il migliore offerente, -) alla certezza del soggetto contraente, -) alla stipula nei tempi ristretti di cui all’art. 32 c.c.p.; - l’interesse dell’impresa concorrente a quella interdetta a conservare gli effetti degli atti della stazione appaltante sfavorevoli a quest’ultima ex art. 94 cod.antim./e di quelli conseguenti a sé favorevoli; - l’interesse dell’impresa interdetta ed ammessa al controllo a conservare i provvedimento di evidenza pubblica/ contrattuale a lei favorevoli/ reagire a quelli sfavorevoli comminati prima dell’ammissione al controllo giudiziario, interesse che in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa può coincidere con quello alla sopravvivenza dell’impresa (sottolinea tale aspetto la Corte di Cassazione nella sentenza n. 27856/2019 che afferma che la ratio dell’istituto sia “quella di consentire, a mezzo di specifiche prescrizioni e con l'ausilio di un controllore nominato dal Tribunale, la prosecuzione dell'attività di impresa nelle more della definizione del ricorso amministrativo al fine di evitare, in tale lasso di tempo, la decozione dell'impresa che, privata di commesse pubbliche e/o di autorizzazioni essenziali per la prosecuzione della propria attività, potrebbe subire conseguenze irreparabili a causa della "pendenza" del provvedimento prefettizio”) coincidente con quello pubblico (per come osservato dal Cons. St. n. 4619/2021) alla forza lavoro ivi impiegata. 3.3. In punto, invece, di interventi giurisprudenziali sul tema risulta utile inquadrare i precedenti giurisprudenziali che hanno applicato la regola della irretroattività del 34 bis cod.antim. nelle relative fattispecie per comprendere esattamente la portata delle relative affermazioni: - la sentenza del Consiglio di Stato n. 3268/2018, costantemente richiamata per il principio della irretroattività degli effetti del 34 bis cod.antim., non si occupa, in verità, di fattispecie contrattuale interessata dagli effetti del sopravvenire di tale istituto, ma, piuttosto, afferma la carenza di interesse all’appello proposto dall’impresa seconda classificata in quanto la concorrente appellata nelle more era stata colpita da interdittiva da cui era conseguito atto di esclusione dalla procedura non impugnato con derivata incapacità a contrattare senza che potesse rilevare il sopraggiunto provvedimento ex art. 34 bis cod.antim.; - la sentenza del Tar Basilicata n. 482/2018 ha rigettato l’impugnazione di esclusione di impresa destinataria di interdittiva e poi ammessa al controllo giudiziario sull’assunto che esso opera favorevolmente “sottoposte” al controllo giudiziario prima della scadenza del termine perentorio di presentazione delle offerte, e non anche a quelle, attinte dall’informativa antimafia prima o durante il procedimento di evidenza pubblica in fattispecie, però, antecedente alla ricordata previsione introdotta dal d.l. n. 32/19 dell’art. 80 co. 2 c.c.p. di congelamento del motivo di esclusione per l’intervento del 34 bis cod.antimafia, facendo, dunque, applicazione analogica dell’art. 80 co. -OMISSIS- c.c.p. riguardante le “aziende o societa' sottoposte a sequestro o confisca …. ed affidate ad un custode o amministratore giudiziario o finanziario, limitatamente a quelle riferite al periodo precedente al predetto affidamento”; - la sentenza del Tar Reggio Calabria n. 643/18 ha rigettato il ricorso di impresa in controllo che richiedeva l’annullamento dell’aggiudicazione in favore di altra impresa adottata in esito a scorrimento graduatoria per effetto del riscontro della sua sottoposizione ad interdittiva, invocando gli effetti favorevoli del sopraggiunto controllo ex art. 34 bis cod.antim.. Il Tribunale reggino ha in proposito escluso che l’ammissione al controllo possa “retroagire fino a travolgere gli atti legittimamente adottati dall’amministrazione quale automatica e doverosa conseguenza dell’informativa interdittiva intervenuta a carico dell’originaria aggiudicataria”; - le sentenze del Tar Napoli nn. 805 e 5690/2020 hanno affermato la legittimità delle comminate esclusioni, rispettivamente nei due diversi momenti di valutazione delle offerte e di controllo dei requisiti dell’aggiudicataria, escludendo che si possa riconnettere alla misura dell'ammissione al controllo giudiziario l'obbligo della Amministrazione aggiudicatrice di annullare la precedente esclusione e riammettere alla gara il partecipante, tanto meno di ritirare gli atti che conseguono alla disposta esclusione e, segnatamente, l'aggiudicazione disposta successivamente in favore di un altro operatore economico; - la sentenza del Tar Salerno n. 1530/2020 ha accolto l’impugnazione dalla impresa prescelta come nuova contrarente per effetto di scorrimento di graduatoria avverso la determinazione della appaltante della revoca del suo recesso dal contratto stipulato e comminato per interdizione della originaria contraente. Tale pronuncia, pur completa e pregevole nella motivazione, è stata, tuttavia, riformata dal Consiglio di Stato (n. 4619/2021) alla luce dell’essere la fattispecie relativa alla fase di esecuzione del contratto ormai concluso e non della fase di affidamento, con conseguente difetto di incertezza della p.a. nell’individuazione del contraente e della insussistenza di posizione di legittima aspettativa giudizialmente tutelabile della controinteressata. Il Giudice di appello ha, dunque, ammesso (ove in concreto possibile) l’applicazione degli effetti favorevoli dell’istituto di cui all’art. 34 bis cod. antimafia sugli atti contrattuali della fase successiva alla stipulazione del contratto. La rassegna delle altre sentenze evidenzia che le -OMISSIS- fattispecie condizionano spesso la conclusione di inapplicabilità retroattiva del 34 bis cod.antim. passando per la mancata impugnazione di atti sfavorevoli, per il momento in cui gli atti espulsivi vengono emanati dalla appaltante e per la presenza di situazioni tutelate di controinteresse. Ebbene, ritiene, allora, il Collegio che alla luce del dato normativo e dello scopo del controllo giudiziario la retroattività degli effetti dell’interdttiva possa predicarsi oltre che per la fase successiva all’esecuzione, per come affermato dal Giudice di appello, anche per la fase antecedente la verifica dei requisiti in esito all’aggiudicazione. Ove l’impresa concorrente sia colpita da interdittiva l’esclusione può essere effettivamente congelata dall’intervento del controllo giudiziario (a volte anteceduto dalla sospensione degli effetti dell’interdittiva nelle more della decisione del controllo) se sopraggiunto anteriormente al momento di verifica dei requisiti in capo all’aggiudicatario. In tale fase, infatti, -) non vi sono controinteressati in senso tecnico, -) l’incertezza della stazione appaltante è tollerabile non ricadendo ancora sul futuro contraente ed, anzi, verrebbe meno il problema delle ricadute nella procedura contrattuale dei possibili diversi orientamenti di Giudice di primo e secondo grado sulla legittimità dell’interdittiva, e -) non vi è ricaduta negativa sulla str-OMISSIS-ente tempistica dei contratti pubblici. Ragionando in tal senso, inoltre, si dà all’impresa – diligente nell’impugnare l’interdittiva e nel “presentare le sue carte” al Giudice della prevenzione per verificare che il condizionamento della criminalità sia stato marginale – spessissime volte per esserne stata per lo più vittima - quell’ancora di salvezza di legalità/sopravvivenza che il controllo giudiziario mira a tutelare. La deroga alla necessità della persistente possidenza dei requisiti in capo alla partecipante sarebbe logica ed eccezionale conseguenza dell’istituto del controllo giudiziario deroga espressamente ammessa dal Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 4619/2021 secondo cui “La sospensione degli effetti di cui all’art. 94, che caratterizza la fattispecie, ha natura eccezionale, espressamente derogando al generale principio secondo cui i requisiti di capacità dell’impresa devono permanere per tutta la durata dell’appalto”. D’altro canto, tale incertezza è fisiologica nel sistema delle gare pubbliche in cui 1) l’ammissione legata al riscontro dei requisiti generali è affidata alle autocertificazione con effettiva verifica postuma da parte dell’Amministrazione per rendere efficace l’aggiudicazione definitiva, 2) nei contratti sottosoglia e nei settori speciali la stazione appaltante disamina le offerte tecniche ed economiche prima di effettuare la verifica dei requisiti di cui all'articolo 80 c.c.p., 3) l’art. 92 del cod.antimafia prevede che, trascorsi 30 giorni dalla consultazione della banca dati ove non sia stata rilasciata l’informativa dal Prefetto, ovvero, nei casi di urgenza, immediatamente, le appaltanti possano procedere alla stipula del contratto apponendo la condizione risolutiva per l’ipotesi di esito negativo della verifica prefettizia 4) in via transitoria l’articolo 8, comma 1, lett. a) del d.l. 76/2020 consente l’esecuzione anticipata in via d’urgenza nelle more delle verifiche dei requisti del contratto ai sensi dell’articolo 32, comma 8 c.c.p.. Al di fuori da tale eccezionale individuata ipotesi (controllo sopraggiunto anteriormente alla verifica dei requisiti in capo all’aggiudicataria) sarà nella discrezionalità della p.a. in base alle fattispecie concrete (ad es. insussistenza di altri concorrenti ammessi e del tipo di contratto) determinarsi se attendere la decisione del Giudice della prevenzione ove l’aggiudicataria abbia dato prova dell’impugnazione dell’interdittiva e della presentazione dell’istanza ex art. 34 bis cod.antim. Tale decisione sarà, invero, difficilmente adottabile in presenza di ulteriori concorrenti e certamente da escludere laddove la durata del contratto sia inferiore al tempo massimo del controllo giudiziario (3 anni). La conclusione raggiunta pare coerente, infine, con l’ormai stabilizzato orientamento del Consiglio di Stato favorevole alle imprese “controllate” di concessione di rinvio della decisione sull’impugnazione dell’interdittiva per il periodo di durata del procedimento ex art. 34 bis cod. antimafia al fine di non determinare la fine anticipata del percorso di bonifica (v. in proposito tra le altre, Cons. St. n. 5134/2021 e ord. Tar Catanzaro, n. 358/2019). Applicando quanto detto nel caso di specie si ha -) che l’impresa ha diligentemente impugnato l’interdittiva e la conseguente prima revoca dell’aggiudicazione del Comune di Cassano del -OMISSIS-(v. motivi aggiunti nel ricorso n. -OMISSIS-) ottenendone la sospensione (dal G.a. prima e con il controllo poi) -) nella conseguita rivalutazione delle offerte ha reagito all’altrui aggiudicazione del -OMISSIS-adottata, non per incapacità a contrattare sub iudice, ma per la ritenuta inammissibilità della sua offerta per variante non consentita, la quale risulta illegittima per i motivi precedentemente espressi, -) che da tale illegittimità consegue che, in quanto migliore offerente dotata dei requisiti per effetto del controllo, debba essere destinataria dell’aggiudicazione e sottoposta da parte dell’appaltante a nuova verifica dei requisiti avendo attuale capacità a contrattare per effetto dell’ammissione al controllo giudiziario del -OMISSIS-. Non osta all’affidamento la durata del controllo atteso che il bando ha previsto una durata del contratto di 6 mesi dalla consegna dei lavori. 4: All’accoglimento della domanda di annullamento dell’altrui aggiudicazione, essendo la ricorrente la prima classificata deve conseguire l’accoglimento della domanda “in forma specifica”. Ai sensi dell’art. 124 c.c.p. va, allora, disposta l’aggiudicazione in favore della ricorrente, e la conseguente stipula del contratto (non ancora avvenuta) in suo favore, fatti salvi i controlli dei requisiti da parte dell’appaltante nei suoi confronti. 5. Le spese di lite in ragione della notevole complessità della questione in fatto e diritto vanno compensate, anche in relazione al compenso del verificatore (da liquidare con separato decreto e da porre a carico di tutte le parti nella misura del 33,3% con solidarietà verso il verificatore). Il contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 co. 6 bis.1 TUSG, è, tuttavia, interamente dovuto dalle soccombenti Amministrazione resistente ed -OMISSIS-controinteressate. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, così provvede: 1) In accoglimento del ricorso, - annulla l’atto di aggiudicazione di cui alla determinazione n. -OMISSIS-del Comune di Cassano allo Ionio; - dispone l’aggiudicazione in favore della -OMISSIS-., salvo l’esito dei controlli di cui all’art. 32 c.c.p.; 2) Compensa tra le parti le spese di lite; 3) Pone a carico di Amministrazione e società controinteressata, in solido tra loro, il rimborso del contributo unificato a favore della società ricorrente. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la società ricorrente. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Pennetti, Presidente Francesca Goggiamani, Referendario, Estensore Domenico Gaglioti, Referendario Giancarlo Pennetti, Presidente Francesca Goggiamani, Referendario, Estensore Domenico Gaglioti, Referendario IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Informativa antimafia – Controllo giudiziario – Effetti sulla partecipazione alla gara   Alla luce dello scopo del controllo giudiziario la retroattività degli effetti dell’interdttiva può predicarsi oltre che per la fase successiva all’esecuzione, anche per la fase antecedente la verifica dei requisiti in esito all’aggiudicazione; ove l’impresa concorrente sia colpita da interdittiva l’esclusione può essere effettivamente congelata dall’intervento del controllo giudiziario (a volte anteceduto dalla sospensione degli effetti dell’interdittiva nelle more della decisione del controllo) se sopraggiunto anteriormente al momento di verifica dei requisiti in capo all’aggiudicatario(1).   (1) Ha chiarito il Tar che l’irretroattività dell’efficacia del controllo giudiziario ha, nel suo essere netta, gli indubbi pregi della chiarezza e del porre in primo piano l’interesse pubblico alla speditezza e certezza della contrattazione pubblica. ​​​​​​​Ritiene, tuttavia, il Tar che la questione meriti una ulteriore riflessione, per appurare se la suddetta irretroattività sia, effettivamente, regola assoluta. ​​​​​​​È bene, anzitutto, precisare che non viene in alcun modo in discussione il principio secondo cui il decreto ex art. 34 bis d.lgs. n. 159/2011 non modifica il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione: esso senza dubbio “non costituisce un superamento dell’interdittiva, ma in un certo modo ne conferma la sussistenza” (v. Cons. Stato, n. 6377/2018; Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2018, n. 3268 e cfr. Cass. Pen. nn. 39.412 e 27.856 del 2019 che escludono che il controllo abbia la conseguenza di vanificare il provvedimento definitivo dell’informazione e che sia strumento alternativo di impugnazione) e, ove nelle more del giudizio amministrativo, il Tribunale della prevenzione rigettasse l’istanza di controllo per evidente esclusione del requisito della occasionalità, tale elemento costituirebbe ulteriore riscontro della legittimità dell’informativa nel giudizio amministrativo (così Tar Napoli sent. n. 6659/2018). ​​​​​​​Ciò di cui si dubita è che il sopraggiungere del provvedimento di ammissione al controllo giudiziario possa avere in via assoluta effetti favorevoli solo per gli atti amministrativi ad esso successivi (limitando in questa sede l’analisi, per questione di rilevanza, ai soli atti contrattuali). ​​​​​​​La questione dubitativa sorge, evidentemente, per effetto della scarsa puntualità delle norme che hanno introdotto e regolato l’istituto. ​​​​​​​Di tali disposizioni, come si ricorderà, non a caso, da tempo gli interpreti hanno evidenziato la trascuratezza della regolazione dei rapporti tra giudizio amministrativo e procedimento di prevenzione, mancanza che ha portato Giudici penali e Giudici amministrativi ad intervenire per via interpretativa per configurare un coordinamento, divenuto indispensabile in ragione della ormai una larga applicazione dell’istituto. ​​​​​​​Venendo alla specifica questione delle conseguenze dell’ammissione al controllo giudiziario sulle procedure contrattualistiche pubbliche, essa deve essere verificata tenendo conto della lettera della legge, della ratio dell’istituto del controllo e degli interventi giurisprudenziali. ​​​​​​​In punto di littera legis, laconicamente il comma 7 dell’art. 34 bis cod.antim. prevede che “Il provvedimento che dispone l'amministrazione giudiziaria prevista dall'articolo 34 o il controllo giudiziario ai sensi del comma 6 del presente articolo sospende gli effetti di cui all'articolo 94” cod.antim. il quale, come noto, prevede, a sua volta, il divieto per le appaltanti di stipulare/approvare/autorizzare i contratti con imprese interdette ed obbliga al recesso dal contratto con esse stipulato (salvo la facoltà per la p.a. di non recedere per garantire l’interesse pubblico all’esaustiva esecuzione dell’appalto, con finalità analoga a quella del commissariamento prefettizio ex art. 32 co. 10 d.l. n. 90/14). ​​​​​​​Il Legislatore, ancora, nel 2019 ha sentito la necessità di intervenire in via additiva per congelare espressamente gli effetti dell’interdittiva in conseguenza dell’ammissione al controllo giudiziario anche nella fase della partecipazione delle gare pubbliche, prevedendo all’art. 80 co. 2 c.c.p., di seguito alla enunciazione dell’essere il provvedimento prefettizio motivo di esclusione, che “Resta fermo altresi' quanto previsto dall'articolo 34-bis, commi 6 e 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”. ​​​​​​​Tale formulazione, si badi, ha formula più generica della analoga previsione di inoperatività del motivo di esclusione previsto per le imprese sottoposte a confisca e sequestro in cui è chiara la lettera della legge nel riconoscere la sterilizzazione del motivo di esclusione solo alle imprese già sottoposte alla misura giudiziaria (“aziende o societa' sottoposte a sequestro o confisca …. ed affidate ad un custode o amministratore giudiziario o finanziario, limitatamente a quelle riferite al periodo precedente al predetto affidamento”). ​​​​​​​Ci si deve, allora chiedere se la novella, giustificata dalla relazione illustrativa con la necessità del “coordinamento con le norme del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo n. 159 del 2011”, con tale formulazione non voglia lasciare una chance favorevole all’impresa che abbia ottenuto la misura della “bonifica” durante la gara pubblica. ​​​​​​​In punto di ratio legis va, poi, rammentato che il controllo giudiziario è istituto di sostegno previsto dall’ordinamento per l’imprenditore che sia marginalmente toccato dai clan e che individualmente (specie in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa) non sia in grado di reagire alla criminalità, sostegno costituito da un percorso imprenditoriale sorvegliato dall’amministratore giudiziale, finalizzato alla sua bonifica. ​​​​​​​L’istituto va, però, coordinato con gli altri con cui esso si correla e, di conseguenza risulta necessario porre in evidenza i confliggenti interessi in gioco evincibili nell’incontro delle norme sulla contrattualistica con quelle del codice antimafia: - i plurimi interessi pubblici (anche non convergenti) -) alla stipula del contratto con soggetto meritevole di fiducia in quanto non interessato da fenomeni di infiltrazione mafiosa, -) alla stipula del contratto con il migliore offerente, -) alla certezza del soggetto contraente, -) alla stipula nei tempi ristretti di cui all’art. 32 c.c.p.; - l’interesse dell’impresa concorrente a quella interdetta a conservare gli effetti degli atti della stazione appaltante sfavorevoli a quest’ultima ex art. 94 cod.antim./e di quelli conseguenti a sé favorevoli; - l’interesse dell’impresa interdetta ed ammessa al controllo a conservare i provvedimento di evidenza pubblica/ contrattuale a lei favorevoli/ reagire a quelli sfavorevoli comminati prima dell’ammissione al controllo giudiziario, interesse che in realtà piccole e contaminate e ad economia scarsa può coincidere con quello alla sopravvivenza dell’impresa (sottolinea tale aspetto la Corte di Cassazione nella sentenza n. 27856/2019 che afferma che la ratio dell’istituto sia “quella di consentire, a mezzo di specifiche prescrizioni e con l'ausilio di un controllore nominato dal Tribunale, la prosecuzione dell'attività di impresa nelle more della definizione del ricorso amministrativo al fine di evitare, in tale lasso di tempo, la decozione dell'impresa che, privata di commesse pubbliche e/o di autorizzazioni essenziali per la prosecuzione della propria attività, potrebbe subire conseguenze irreparabili a causa della "pendenza" del provvedimento prefettizio”) coincidente con quello pubblico (per come osservato dal Cons. St. n. 4619/2021) alla forza lavoro ivi impiegata.      
Informativa antimafia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/applicazione-della-regola-dell-offerta-migliorativa-ex-art.-77-r.d.-n.-827-del-1924
Applicazione della regola dell’offerta migliorativa ex art. 77, r.d. n. 827 del 1924
N. 08537/2020REG.PROV.COLL. N. 06768/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6768 del 2020, proposto da Azienda Usl Toscana Nord Ovest, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Serena Spizzamiglio, Silvia Carli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Aircom S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Giovanni Spataro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, viale di Val Fiorita n.90; Regione Toscana, non costituita in giudizio; nei confronti Consorzio Artigiani Romagnolo C.A.R. Soc. Coop., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Mario Bruto Gaggioli Santini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Terza) n. 973/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Aircom S.r.l. e del Consorzio Artigiani Romagnolo C.A.R. Soc. Coop.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 dicembre 2020 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Luca Cei su delega dell'avv. Silvia Carli, Giovanni Spataro e Mario Bruto Gaggioli Santini; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. L’USL Toscana Nord Ovest, con bando pubblicato il 6.11.2019 indiceva una procedura aperta per lavori di efficientamento, ristrutturazione e camminamento del presidio ospedaliero di Livorno, da espletarsi tramite il Sistema Telematico Regionale Acquisti Regione Toscana (START) e da aggiudicarsi secondo il criterio del massimo ribasso. 1.1. L’art. 9 e l’art. 12 del disciplinare di gara stabilivano rispettivamente che in presenza di offerte uguali, si sarebbe proceduto a sorteggio e che non era possibile presentare offerte modificative o integrative dell’offerta già presentata. 1.2. Ad esito della gara, Aircom s.r.l. e il Consorzio Artigiani Romagnolo si classificavano primi a pari merito, avendo offerto l’identico ribasso del 27,37%, come risulta dal verbale della seduta pubblica del 5.2.2020. 1.3. In data 10.2.2020 l’amministrazione pubblicava sulla piattaforma “Start” un avviso, preannunciante il sorteggio tra le due offerte uguali per il giorno 12.2.2020 alle ore 11, ai sensi dell’art. 9 del disciplinare di gara. 1.4. Alla seduta del 12.2.2020 si presentava il solo rappresentante del Consorzio Artigiani Romagnolo e manifestava la volontà di proporre offerta migliorativa ai sensi dell’art. 77 del R.D. n. 827/1924. 2. Il seggio di gara, si ritirava in seduta riservata per valutare la richiesta e, esaminate le indicazioni giurisprudenziali e dell’autorità di vigilanza, ammetteva l’offerta migliorativa con il limite estremo dell’anomalia. Indi, con decreto dirigenziale n. 1174/2020 la gara veniva aggiudicata al Consorzio Artigiani Romagnolo con un ribasso pari allo 0,05% 3. La mattina successiva Aircom chiedeva di conoscere il risultato del sorteggio, e avuto poi accesso al verbale del 12.2.2020, insorgeva avverso il decreto di aggiudicazione definitiva a favore del Consorzio Artigiani Romagnolo, nonché avverso il bando e il disciplinare di gara ove interpretati nel senso di consentire l’esperimento della miglioria dell’offerta ex art. 77 del R.D. n. 827/1924, nonchè nella parte in cui non avevano previsto la convocazione delle sedute di gara mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento. 4. Il TAR Toscana accoglieva il ricorso. 4.1. Richiamato il tenore letterale dell’art. 77, comma 2, del R.D. n. 827/1924, il quale stabilisce che ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, l’aggiudicatario viene individuato mediante sorteggio ha rilevato che “Nel caso di specie, nella seduta del 5.2.2020, dedicata all’apertura e lettura delle offerte, non era presente né la ricorrente né la controinteressata, talché l’amministrazione avrebbe dovuto procedere tramite sorteggio ai sensi della suddetta norma (si veda Cons. Stato, IV, 12.9.2000, n. 4822, secondo cui “nell'ipotesi di due o più offerte uguali, il miglioramento dell'offerta previsto dall'art. 77 r.d. 23 maggio 1924 n. 827 è ammesso solo quando siano presenti tutti gli offerenti –uguali-, posti così in condizione di partecipare all'ulteriore gara aggiuntiva”)”. “Peraltro” – aggiungeva il TAR – “la successiva nota del 10.2.2020, pubblicata sul sistema Start, preannunciava il sorteggio, e non la possibilità di presentare un’offerta migliorativa; il suddetto avviso, coerentemente con il citato art. 77 del R.D. n. 827/1924 e con gli artt. 9 e 12 del disciplinare di gara, escludeva quindi in modo implicito tale possibilità, con la conseguenza che la successiva acquisizione dell’offerta migliorativa della controinteressata ha concretato un’iniziativa del tutto imprevista e imprevedibile (in contrasto coi principi di trasparenza e par condicio)”. 5. Avverso la sentenza ha proposto appello l’Azienda Usl Toscana Nord Ovest. 6. Nel giudizio si è costituita la Aircom s.r.l. e ha chiesto la reiezione del gravame. 7. Si è anche costituito il Consorzio artigiani romagnolo c.a.r. soc. coop, il quale ha invece aderito alle tesi dell’appellante, insistendo per l’accoglimento del gravame. 8. L’appello è stato oggetto di delibazione cautelare all’udienza camerale del 17 settembre 2020, all’esito della quale, è stata disposta la sospensione della provvisoria efficacia della sentenza appellata (ord. 5489/2020). 9. La causa è stata da ultima discussa all’udienza del 15 dicembre 2020, previo scambio di memorie illustrative con le quali le parti hanno ulteriormente argomentato le rispettive tesi. DIRITTO 1. L’amministrazione appellante sostiene di aver fatto corretto governo dei principi di eterointegrazione del bando, consentendo l’offerta migliorativa in luogo del previsto sorteggio in caso di ex aequo, giusto parere dell’Autorità di vigilanza, n. 102 del 27.6.2012, e di aver rispettato la par conditio (avendo dato avviso pubblico della data in cui avrebbe dovuto svolgersi il sorteggio). 1.1. Del resto, aggiunge l’appellante, con le ordinanze n. 3496/2020 e n. 3497/2020 e n. 5489/2020 rese da questa Sezione (in sede di appello cautelare e di inibitoria dei provvisori effetti della sentenza gravata) si è precisato che “la procedura di offerta migliorativa ai sensi dell’art. 77 R.D. n. 827/1924 risponde ai principi costituzionali ed eurounitari di imparzialità, buon andamento e concorrenza che impongono una eterointegrazione del bando e del disciplinare di gara al fine di consentire, in accordo con l’orientamento della prevalente giurisprudenza amministrativa e dell’ANAC, l’aggiudicazione alla offerta migliore, che laddove sia scelto di attivare una gara al massimo ribasso non può che essere la meno onerosa entro la soglia di anomalia” 1.2. All’affermazione del T.A.R. Toscana, secondo la quale “la ricorrente non sembra essere stata messa in condizione di presentare un’offerta migliorativa...”, l’amministrazione appellante replica in sede di appello: “La verità è che Aircom, al contrario della controinteressata, ha molto semplicemente trascurato la applicabilità di una norma di legge o l'ha scoperta troppo tardi”. 2. L’appellata Aircom osserva, da canto suo, che anche ammesso e non concesso che la notizia della seduta fosse stata correttamente comunicata/pubblicata, l’avviso preannunciava, per la seduta in questione, l’esclusiva effettuazione del sorteggio, ossia un’operazione alla quale l’operatore può logicamente e ponderatamente scegliere di non partecipare, trattandosi di formalità ovviamente riservata all’Amministrazione che non richiede alcun intervento dell’operatore interessato. 3. Ritiene il Collegio che se per un verso occorre dare seguito ai principi affermati dalla Sezione in sede cautelare, dall’altro occorre meglio precisare i contorni procedimentali dell’offerta migliorativa, in modo da ricondurla nell’alveo dei generali principi del diritto eurounitario. 3.1. La fattispecie della quale il Collegio è chiamato ad occuparsi è la seguente: a) il bando non prevede alcunché circa l’applicazione dell’art. 77 del R.D. n. 827/1924, e anzi agli artt. 9 e 12 prevede a chiare lettere che in presenza di offerte uguali, si sarebbe dovuto procedere a sorteggio, senza possibilità di presentare offerte modificative o integrative dell’offerta già presentata; b) l’art. 77 R.D. n.827/1924 sopra citato prevede: “Quando nelle aste ad offerte segrete due o più concorrenti, presenti all'asta, facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione fra essi soli, a partiti segreti o ad estinzione di candela vergine, secondo che lo creda più opportuno l'ufficiale incaricato. Colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario. Ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, o i presenti non vogliano migliorare l'offerta, ovvero nel caso in cui le offerte debbano essere contenute entro il limite di cui al secondo comma dell'art. 75 e all'ultimo comma dell'art. 76, la sorte decide chi debba essere l'aggiudicatario”; c) siffatta disposizione normativa, ancora vigente, è ritenuta applicabile dall’Autorità di vigilanza, sulla base del principio di eterointegrazione del bando (parere n. 102 del 27.6.2012); d) la stazione appaltante l’ha applicata ritenendo sufficiente la presenza di uno solo dei concorrenti, e quantunque la seduta fosse stata fissata per il sorteggio giusto quanto espressamente previsto dal bando. 3.2. Trattasi una disposizione – quella contenuta nell’ art.77 R.D. n.827/1924 - ancora formalmente in vigore, ma esterna al Codice degli appalti, la quale, sia pur con riferimento alle “aste” detta una disciplina residuale destinata ad applicarsi nei rari casi in cui via sia un ex aequo del prezzo offerto, nelle gare al massimo ribasso. Siffatta disposizione è caratterizzata da un lessico non più in linea con l’attuale disciplina dei contratti pubblici passivi e comunque la stessa inevitabilmente risente della risalente disciplina generale dei contratti in cui essa contestualmente calata. Disciplina ben lontana dalle garanzie procedurali che contraddistinguono l’odierna procedura di evidenza pubblica. 3.3. E’ vero tuttavia, come osservato dall’appellante con il conforto della giurisprudenza maggioritaria di primo grado, del parere ANAC n. 102 del 27.6.2012, e da ultimo, proprio in relazione alla concreta fattispecie odierna, delle ordinanze cautelari della Sezione (3496/2020, 3497/2020 e 5489/2020), che la disposizione in commento detta una regola residuale utile a colmare una lacuna del codice appalti in ordine ad un’evenienza possibile per quanto rara; regola che ben può considerarsi rispondente ai principi costituzionali ed eurounitari di imparzialità, buon andamento e concorrenza, nella misura in cui, imponendo agli offerenti ex aequo, un esperimento migliorativo prima del sorteggio, coniuga il principio di concorrenza con quello dell’oculato utilizzo delle risorse pubbliche. 4. Ovviamente la regola, imperativa come tutte le regole di evidenza pubblica, dev’essere contestualizzata e calata in un reticolo di principi di derivazione costituzionale ed eurounitaria che nel frattempo hanno trasformato il procedimento di evidenza pubblica, da un mero strumento per il conseguimento di risparmi in un potente e inderogabile presidio di concorrenza fra gli operatori economici. 4.1. Lo spostamento di prospettiva non è di poco conto, poiché esso ha determinato il prevalere di norme a tutela della par condicio competitorum, principio dal quale discendono i corollari della trasparenza, del divieto di discriminazioni, etc., in un ambito – quello delle acquisizioni della PA – che è traguardato come vero e proprio mercato delle commesse pubbliche. 4.2. La regola dell’offerta migliorativa deve dunque essere applicata nei limiti in cui compatibile con i principi sopracitati e, segnatamente, nel rispetto della regola che primariamente governa le procedure aperte in quanto precipitato applicativo del principio di par condicio: l’obbligo di previo invio di una comunicazione, o anche la semplice pubblicazione di un avviso sulla piattaforma telematica (quando il bando contempli tale possibilità) che renda manifesta le modalità e i tempi della gara suppletiva riservata agli ex aequo. A fortiori nei casi, come quello di specie, in cui il bando detta disposizioni apparentemente escludenti la possibilità dell’offerta migliorativa. 5. Nel caso oggetto dell’odierno giudizio, l’amministrazione, dopo aver verificato l’ex aequo, si è per contro limitata a pubblicare un avviso del seguente tenore: “Avviso della stazione appaltante. Atteso che in seguito all’apertura delle offerte economiche, esperita la procedura del calcolo della soglia dell’anomalia (Offerta anomala * Soglia = % 27.43268), con consequenziale esclusione automatica delle offerte risultate anomale, è emerso che due offerte hanno presentato lo stesso e migliore ribasso: - Aircom Srl – Ribasso percentuale 27,37 % - Consorzio Artigiani Romagnolo Soc. Coop. - Ribasso percentuale 27,37 %. Verificato che l’art. 9 – Aggiudicazione – del disciplinare di gara, espressamente prevede che “In presenza di offerte uguali, si procederà mediante sorteggio”, questa SA fissa per l’espletamento di detta formalità, la seduta pubblica del 12.02.2020 ore 11, presso il PO di Livorno, I Piano, Saletta interna del Dipartimento Tecnico” 6. Un avviso, dunque, che dando semplicemente atto della (al tempo ritenuta) necessità del sorteggio, nulla dice circa la possibilità di un rilancio migliorativo, e anzi implicitamente lo esclude. 6.1. Va da sé che in mancanza della concreta prospettazione di una possibile gara suppletiva, uno degli operatori (l’appellato) ha liberamente e comprensibilmente (considerata la sussistenza di costi) optato per non presenziare ad una seduta in cui si sarebbe dovuto semplicemente procedere all’estrazione casuale di una busta fra le due in competizione. Diversamente sarebbe accaduto se l’operatore avesse avuto contezza (non già astratta ed eventuale) della concreta intenzione dell’amministrazione. 7. Del resto il principio di leale cooperazione che impronta il rapporto tra PA e privati non ha efficacia unidirezionale ma si applica pacificamente anche alla condotta della prima, in ispecie quando esso possa essere agevolmente rispettato attraverso un semplice avviso, senza aggravio di costi o allungamento di tempi. 8. L’appello è dunque da respingere, con conseguente conferma della sentenza gravata. 9. Giova precisare, al fine di prevenire ulteriori appendici contenziose in sede di ottemperanza, che l’effetto conformativo della sentenza si traduce nell’obbligo dell’amministrazione di invitare entrambi gli operatori economici ad una gara al ribasso entro il limite dell’anomalia, con riserva di effettuare il sorteggio ove permanga l’ex aequo. 10. Avuto riguardo alla novità della questione, il Collegio ravvisa giusti motivi per compensare tra le parti le spese del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese del grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2020 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere, Estensore Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara – Offerta migliorativa - Art. 77, r.d. n. 827 del 1924 – Applicabilità – Condizioni.                      La regola dell’offerta migliorativa, prevista dall’art. 77, r.d. n. 827 del 1924 ancora vigente anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti, deve essere applicata nel rispetto della regola che primariamente governa le procedure aperte in quanto precipitato applicativo del principio di par condicio: l’obbligo di previo invio di una comunicazione, o anche la semplice pubblicazione di un avviso sulla piattaforma telematica (quando il bando contempli tale possibilità) che renda manifesta le modalità e i tempi della gara suppletiva riservata agli ex aequo, a fortiori nei casi in cui il bando detta disposizioni apparentemente escludenti la possibilità dell’offerta migliorativa (1).       (1) Ha preliminarmente ricordato la Sezione che l’art. 77, r.d. n. 827 del 1924 (secondo cui “Quando nelle aste ad offerte segrete due o più concorrenti, presenti all'asta, facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione fra essi soli, a partiti segreti o ad estinzione di candela vergine, secondo che lo creda più opportuno l'ufficiale incaricato. Colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario. Ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, o i presenti non vogliano migliorare l'offerta, ovvero nel caso in cui le offerte debbano essere contenute entro il limite di cui al secondo comma dell'art. 75 e all'ultimo comma dell'art. 76, la sorte decide chi debba essere l'aggiudicatario”) è disposizione normativa ancora vigente è ritenuta applicabile dall’Autorità di vigilanza, sulla base del principio di eterointegrazione del bando (parere n. 102 del 27 giugno 2012).   Il citato art. 77, sia pur con riferimento alle “aste”, detta una disciplina residuale destinata ad applicarsi nei rari casi in cui via sia un ex aequo del prezzo offerto, nelle gare al massimo ribasso. Siffatta disposizione è caratterizzata da un lessico non più in linea con l’attuale disciplina dei contratti pubblici passivi e comunque la stessa inevitabilmente risente della risalente disciplina generale dei contratti in cui essa contestualmente calata. Disciplina ben lontana dalle garanzie procedurali che contraddistinguono l’odierna procedura di evidenza pubblica; detta una regola residuale utile a colmare una lacuna del codice appalti in ordine ad un’evenienza possibile per quanto rara; regola che ben può considerarsi rispondente ai principi costituzionali ed eurounitari di imparzialità, buon andamento e concorrenza, nella misura in cui, imponendo agli offerenti ex aequo, un esperimento migliorativo prima del sorteggio, coniuga il principio di concorrenza con quello dell’oculato utilizzo delle risorse pubbliche ​​​​​​​
Contratti della Pubblica amministrazione
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/rigetto-della-richiesta-di-sospensione-monocratica-dell-obbligo-di-green-pass-per-gli-insegnanti-e-gli-studenti
Rigetto della richiesta di sospensione monocratica dell’obbligo di green pass per gli insegnanti e gli studenti
N. 04453/2021 REG.PROV.CAU. N. 08390/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 8390 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppina Caterino, Massimiliano Santangelo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Istruzione, Ministero della Salute, Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per l'annullamento e la disapplicazione previa sospensione dell'efficacia, anche in via monocratica dell'articolo 1, comma 6, del decreto legge n. 111 del 6 agosto 2021 che aggiunge l'art. 9–ter al decreto legge n. 52 del 27 aprile 2021 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87; di tutte le disposizioni attuative, degli atti preordinati, connessi e conseguenti, comunque lesivi degli interessi dei ricorrenti; Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 cod. proc. amm.; Considerato che forma oggetto di impugnazione un atto normativo con valore e forza di legge adottato dal governo – segnatamente il decreto legge n. 111 del 6 agosto 2021 – nella parte in cui prevede che, ai fini dell'erogazione in presenza del servizio di istruzione “tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari, devono possedere e sono tenuti a esibire la certificazione verde COVID-19”, disponendo altresì che il mancato rispetto di tale disposizione da parte del personale scolastico e di quello universitario “è considerato assenza ingiustificata e a decorrere dal quinto giorno di assenza il rapporto di lavoro è sospeso e non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”; Considerato che è prevista l’entrata in vigore di tali disposizioni a decorrere dall’1 settembre 2021, e fino al 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, mentre la prima camera di consiglio utile, tenuto conto delle date di notifica e di deposito del ricorso, è quella del 6 ottobre 2021; Considerato, tuttavia, che la natura dell’atto impugnato, ascrivibile al novero delle fonti normative primarie, determina l’inammissibilità del ricorso, non consentendo l’ordinamento – in virtù del principio di separazione dei poteri - l’impugnazione diretta di atti aventi forza di legge, ed essendo il processo amministrativo volto unicamente alla contestazione di atti amministrativi, ivi inclusi quelli generali aventi natura normativa di carattere secondario; Considerata, altresì, l’assenza di impugnazione contestuale di atti applicativi che del gravato decreto legge costituiscano concreta esecuzione, che sola potrebbe determinare l’ammissibilità del ricorso – limitatamente a tali atti – e consentire eventualmente di sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale in ordine al contestato decreto legge che ne costituisce la base normativa, essendo il sindacato sugli atti legislativi riservato alla Consulta sotto il profilo della conformità alla Costituzione ed alle nome interposte; Considerato che avverso eventuali successivi atti con i quali viene data applicazione alle contestate previsioni normative, lesive delle posizioni dei privati, è sempre ammessa la tutela giurisdizionale, anche cautelare; Considerato che la palese inammissibilità del ricorso determina l’assenza dei presupposti di procedibilità dell’istanza volta alla concessione di misure cautelari monocratiche, non essendo il giudice adito munito di alcun potere in relazione all’impugnato decreto legge, nei cui confronti non è ammessa la tutela giurisdizionale ma unicamente il sindacato di legittimità costituzionale da incidentalmente sollevarsi, laddove ne sussistano i presupposti, nell’ambito di un giudizio ritualmente instaurato avverso atti aventi natura amministrativa direttamente lesivi della posizione degli interessati; Considerato che la ricordata assenza dell’impugnazione di atti che diano concreta applicazione delle contrastate previsioni preclude di accedere anche alla richiesta di una eventuale disapplicazione delle stesse per le ipotesi di contrasto con il diritto eurounitario. P.Q.M. Rigetta la proposta istanza di concessione di misure cautelari monocratiche. Fissa per la trattazione collegiale della controversia la camera di consiglio del 6 ottobre 2021. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 23 agosto 2021. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Green pass – Per insegnanti e studenti – Art. 9 ter, d.l. n. 52 del 2021 – Inammissibilità del ricorso.      Deve essere respinta l’istanza di ospensione cautelare monocratica dell'art. 1, comma 6, d.l. n. 111 del 6 agosto 2021, che aggiunge l'art. 9–ter al d.l. n. 52 del 27 aprile 2021 convertito, con modificazioni, dalla l. 17 giugno 2021, n. 87, nella parte in cui prevede che, ai fini dell'erogazione in presenza del servizio di istruzione, tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario, nonché gli studenti universitari, devono possedere il green pass (1).    (1) E’ stato chiarito nel decreto che la natura dell’atto impugnato, ascrivibile al novero delle fonti normative primarie, determina l’inammissibilità del ricorso, non consentendo l’ordinamento – in virtù del principio di separazione dei poteri - l’impugnazione diretta di atti aventi forza di legge, ed essendo il processo amministrativo volto unicamente alla contestazione di atti amministrativi, ivi inclusi quelli generali aventi natura normativa di carattere secondario. ​​​​​​​Ha aggiunto il decreto che nella specie manca la contestuale impugnazione di atti applicativi che del gravato decreto legge costituiscano concreta esecuzione, che sola potrebbe determinare l’ammissibilità del ricorso – limitatamente a tali atti – e consentire eventualmente di sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale in ordine al contestato decreto legge che ne costituisce la base normativa, essendo il sindacato sugli atti legislativi riservato alla Consulta sotto il profilo della conformità alla Costituzione ed alle nome interposte. 
Covid-19
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Opere realizzate senza il necessario titolo edilizio
N. 00467/2022REG.PROV.COLL. N. 00234/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 234 del 2021, proposto da Angela Coscarella, rappresentata e difesa dagli avvocati Domenico Colaci, Antonino Crudo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Vibo Valentia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maristella Paoli', con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Francesco Lilli in Roma, viale di Val Fiorita n. 90; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria (Sezione Seconda) n. 00893/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Vibo Valentia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 novembre 2021 il Cons. Roberta Ravasio e uditi per le parti gli avvocati Colaci Antonio, Crudo Antonio e Lilli Francesco per delega di Paolì Maristella..; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La signora Angela Coscarella, proprietaria in Comune di Vibo Valentia dell’immobile censito all’NCEU al Foglio 2, mapp. 225 sub 7, il 13 marzo 2018 presentava un SCIA avente ad oggetto opere di ordinaria e straordinaria manutenzione nonché un “modesto ampliamento” di un locale sito al piano superiore, il tutto da realizzarsi ai sensi delle norme della L.R. Calabria n. 21/2010 (Piano Casa). 2. Nel luglio 2018 perveniva dall’Ufficio Tecnico la richiesta di alcuni chiarimenti, che veniva prontamente evasa dal professionista incaricato dalla signora Coscarella. 3. In mancanza di ulteriori riscontri da parte del Comune i lavori proseguivano. 4. Il 4 febbraio 2019, tuttavia, i tecnici del Comune effettuavano un sopralluogo, rilevando la realizzazione di opere in difformità rispetto alla SCIA: seguiva, il 20 febbraio 2019, l’ordinanza di sospensione dei lavori. 5. Nel frattempo la signora Coscarella presentava, il 7 febbraio 2019, una SCIA in variante. 6. Il Responsabile dell’Ufficio Tecnico l’8 marzo 2019 dichiarava la SCIA in variante improcedibile, mentre con ordinanza del 20 marzo 2019 disponeva “l’annullamento” della SCIA del 13 marzo 2018 ai sensi dell’art. 21 nonies della L. 241/90. 6.1. Più in dettaglio, il Comune di Vibo Valentia, rilevando che la proprietaria aveva dato corso ad opere integranti sopraelevazione di un fabbricato esistente, con conseguente ampliamento del medesimo, oltre ad una serie di difformità rispetto al progetto presentato in Comune, riteneva che l’intervento edilizio avesse ad oggetto non delle “opere minori”, così come asseverato dal progettista nella dichiarazione allegata alla SCIA, quanto piuttosto un ampliamento, realizzato in zona soggetta a vincolo paesaggistico nonché idrogeologico, trattandosi tra l’altro di area classificata di massima pericolosità idraulica, nella quale l’edificazione è soggetta a gravi limitazioni; per tale ragione ha annullato la SCIA, presentata il 13 marzo 2018 al n. prot.. 12977. 7. Tutti i provvedimenti dianzi indicati venivano impugnati dalla signora Coscarella innanzi al TAR per la Calabria, che respingeva il ricorso con la seguente motivazione: “ Il ricorso è infondato e va respinto, posto che: - la predisposizione dell’ascensore interno mediante bucature nei solai, potendo compromettere la staticità del fabbricato, è sottoposto ad autorizzazione del genio civile (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, 28 novembre 2018, n. 11553), la cui assenza nel caso concreto ha impedito la procedibilità della SCIA; - la struttura sorretta da pilastrini in ferro e rivestita con cartongesso per esterno (che determina la creazione di un nuovo vano) e la predisposizione del bagno non sono coperte dalla SCIA, che indica come interventi da eseguire una struttura in legno per tenda parasole ed un locale tecnico; - l’apertura delle portefinestre (che la parte sostiene essere avvenuta intervenendo su finestre già esistenti) non risulta nella SCIA. Trattandosi pertanto di opere edilizie senza titolo, sussiste l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla loro repressione senza vincoli temporali e senza necessità di comparazione con l’interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 2 maggio 2019, n. 2336). Stante la particolarità della vicenda, le spese di lite possono essere compensate.”. 8. Con il ricorso in epigrafe indicato la signora Coscarella ha impugnato l’indicata sentenza. 8.1. Con un primo motivo essa ha dedotto che l’installazione dell’ascensore, in concreto finalizzato all’abbattimento di barriere architettoniche, non necessitava di titolo edilizio e neppure del parere del Genio Civile, non essendo state intaccate, per realizzarlo, le nervature del solaio e le relative travi portanti. 8.2. Con il secondo motivo d’appello si deduce che la realizzazione, al primo piano, della struttura in pilastrini in ferro e cartongesso, in sostituzione di quella in legno preesistente, non avrebbe creato un nuovo vano, ma avrebbe dato luogo ad un ampliamento consentito, e peraltro previsto nella SCIA originaria, nei limiti di cubatura consentiti dal Piano Casa. Tale locale, inoltre, non era destinato ad ospitare una stanza da bagno, ma solo il locale tecnico per l’ascensore, e l’allocazione in esso di condutture non determinava un mutamento di destinazione residenziale dell’immobile e variazione essenziale. Nell’ambito di tale doglianza l’appellante ha inoltre dedotto che la trasformazione di due finestre in porte-finestre, non segnalate nella SCIA originaria, non costituirebbe variazione di sagoma e prospetto né avrebbe interessato pareti portanti: quindi non si tratterebbe di una ristrutturazione edilizia “pesante”, come si assume nella appellata sentenza. 8.3. Quindi l’appellante ha riproposto le doglianze già formulate in primo grado, deducendo la tardività dell’annullamento della SCIA, di cui all’ordinanza del 20 marzo 201, in ragione della insussistenza di falsità tali da giustificare il ricorso alla revoca ex art. 21 nonies della L. 241/90. Ha inoltre dedotto che il provvedimento impugnato, integrando un atto di autotutela adottato quando ormai si era formato un affidamento sulla legittimità della SCIA, avrebbe dovuto motivare in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, interesse che secondo la signora Coscarella sarebbe assolutamente inesistente, in ragione della portata modesta delle opere realizzate. L’ordinanza del 20 marzo 2019, infine, non avrebbe specificato quali sarebbero le false rappresentazioni che giustificavano il ricorso all’art. 21 nonies. 9. Il Comune di Vibo Valentia si è costituito in giudizio, insistendo per la reiezione dell’appello. 10. La causa è stata infine chiamata alla pubblica udienza del 18 novembre 2021, in occasione della quale è stata trattenuta in decisione. 11. L’appello va respinto, e l’impugnata sentenza merita di essere confermata, sia pure con diversa motivazione,. 12. Va premesso, per quanto riguarda il verbale di accesso del 4 febbraio 2019, che esso ha funzione di mero accertamento di fatti, che non sono contestati dalla appellante nella loro materialità, quanto piuttosto per il modo in cui sono stati interpretati e qualificati dal Comune: esso, pertanto, di per sé non è idoneo ad esplicare efficacia lesiva. Per quanto riguarda, invece, l’ordinanza di sospensione dei lavori n. 2 del 20 febbraio 2019 e l’atto dell’ 8 marzo 2019, con cui il Comune di Vibo Valentia ha dichiarato improcedibile la SCIA in variante, così come il provvedimento del 20 marzo 2019, con cui è stato disposto “l’annullamento” della SCIA presentata il 18 marzo 2018, se ne ravvisa l’interesse alla impugnazione, contenendo tali atti, nella sostanza, un accertamento della illegittimità della SCIA e delle opere realizzate dalla ricorrente. 13. Venendo, dunque, alla disamina dei motivi d’appello, il Collegio rileva che il TAR, evidentemente ritenendo di poter prescindere dall’eccezione sollevata dal Comune, di per sé assorbente, secondo cui il fabbricato di proprietà della ricorrente è situato in zona soggetta a vincolo paesaggistico e a vincolo di natura idrogeologica, ragione per cui le opere non avrebbero potuto in ogni caso essere assentite con SCIA, ha respinto il ricorso sul duplice rilievo che le opere realizzate dalla ricorrente erano in parte non comprese nella SCIA, in parte non erano assentibili con SCIA. 13.1. In particolare, il TAR ha ritenuto essere state realizzate fuori dalla SCIA l’apertura di porte finestre: la signora Coscarella, anche nell’atto d’appello, non nega di aver modificato le finestre preesistenti, mediante rimozione della “veletta” posta sotto il parapetto, né contesta di non averne dato evidenza nella SCIA, ma giustifica il silenzio sull’intervento deducendo che si tratta di opere sostanzialmente invisibili, che non hanno determinato alcuna alterazione della sagoma o nel prospetto del fabbricato, né alcuna delle strutture portanti, concludendo che, in definitiva, non ci si trova di fronte ad una ristrutturazione edilizia “pesante”. 13.1.1. Tale argomento è assolutamente irrilevante, posto che solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi – individuati dall’art. 6 del D.P.R. n. 380/2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5), non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre. Simile intervento, invece. comportando una modifica dei prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cu all’art. 3, comma 1, lett. b), del D.P.R. n. 380/01, e deve essere segnalato con SCIA (art. 22 lett. b) del D.P.R. 380/2001). 13.1.2. Risulta dunque condivisibile l’affermazione del TAR, che ha implicitamente ritenuto la necessità che le opere in questione fossero denunciate nella SCIA. 13.2. Allo stesso modo il TAR ha ritenuto non comprese nella SCIA del 13 marzo 2018 la realizzazione, al primo piano, di una struttura sorretta da pilastrini in ferro e rivestita con cartongesso per esterno (che determina la creazione di un nuovo vano) e la predisposizione del bagno, stante che la predetta SCIA indica come interventi da eseguire una struttura in legno per tenda parasole ed un locale tecnico. 13.2.1. Anche in questo caso la ricorrente non nega la difformità dell’opera realizzata rispetto a quella indicata nella SCIA., ma oppone che si tratterebbe di una variante non essenziale, che avrebbe potuto essere legittimata anche presentando una variante in corso d’opera, anche perché non sarebbe stata impressa una modificazione alla destinazione d’uso urbanisticamente rilevante. 13.2.2.Il Collegio osserva che dagli atti allegati alla SCIA si evidenzia che al piano superiore, ove in precedenza esisteva un locale tecnico, la SCIA ha previsto la demolizione di quest’ultimo e la contestuale realizzazione, dal lato opposto dell’edificio, del vano ascensore, di un vano tecnico non meglio definito – ma comunque non indicato come bagno – nonché una struttura in legno di sostegno di una tenda parasole. Nei fatti è stato accertato che il vano ascensore risulta spostato rispetto alla posizione indicata negli allegati alla SCIA, che il vano tecnico è stato equipaggiato di tutti gli attacchi necessari ad equipaggiarlo come sala da bagno, essendo già stata allocata la cassetta di scarico del WC, , e, infine, che, al posto di quella che avrebbe dovuto essere una struttura lignea di sostegno ad una tenda, è stata realizzata una parete in pilastrini di ferro ricoperti di cartongesso, intonacata, a chiusura del vano scala, a distanza di meno di 10 metri da un fabbricato confinante. 13.2.3. Ciò premesso il Collegio condivide l’assunto del primo giudice, secondo cui le opere in concreto realizzate al primo piano non possono ricondursi a quelle indicate nella SCIA del marzo 2018, determinando uno stato dei luoghi comunque diverso da quello prospettato nello stato di progetto della SCIA. Va al proposito rammentato che “La nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, Sez. II, sent. n. 8835 del 27 dicembre 2019), per cui risulta assolutamente rilevante il fatto che quello che era stato indicato come “locale tecnico” nella SCIA risulti, invece, essere un locale agibile anche come sala da bagno/servizi. Allo stesso modo la realizzazione di una parete a chiusura del vano scala realizza una volumetria rilevante per il rispetto di alcuni parametri urbanistici, e comunque non può in nessun caso essere equiparata ad una struttura lignea di sostegno di una tenda. 13.2.4. Le opere realizzate al primo piano, in definitiva, risultano abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, ed il fatto che siano – secondo la tesi dell’appellante – astrattamente assentibili non cambia al fatto che fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, esse debbono considerarsi, appunto, abusive. 13.3. Sotto altro profilo il TAR ha ritenuto che la bucatura del solaio di divisione tra il primo e secondo piano, realizzata per consentire l’allocazione del vano ascensore, non poteva essere assentita con SCIA, in difetto di autorizzazione del genio civile, trattandosi di opere in grado di compromettere la staticità del fabbricato: secondo il primo giudice, proprio la mancanza della preventiva autorizzazione del genio civile ha, in concreto, determinato l’improcedibilità della SCIA, ragione per cui tutte le opere ivi contemplate sono, in definitiva, abusive. 13. 3.1. L’appellante oppone che la realizzazione di un ascensore interno, finalizzato ad abbattere barriere architettoniche, rientrerebbe tra gli interventi di edilizia libera - come anche specificato nel D.M. 2 marzo 2018, emanato in attuazione del D. L.vo n. 222/2016 – quando non incidano sulla struttura portante: l’appellante ne deduce che solo se incida sulla struttura portante la realizzazione di un vano ascensore richiede la preveniva autorizzazione del genio civile e, quindi il preventivo titolo edilizio. L’appellante richiama, poi, la delibera di Giunta Regionale n. 12 del 2013, secondo cui le aperture nelle solette necessarie a realizzare un vano-ascensore, si presumono non incidere sulla struttura portante se non vengano intaccate le nervature del solaio, e dunque le travi portanti la soletta, ciò che nella specie sarebbe stato attestato dal tecnico che ha presentato la SCIA. 13.3.2. Il Collegio rileva che la D.G.R. n. 12/2013 include tra gli interventi che, in zona sismica, si considerano “opere minori non soggette al deposito/autorizzazione da parte del Servizio Tecnico Regionale”: al punto 7 della lista degli interventi su opere esistenti, la “realizzazione di apertura nei solai e nella copertura, senza modifica della falda o alterazione del comportamento strutturale, di superficie inferiore o uguale a 1.00 mq e senza intaccare le nervature”; al punto 10 della medesima lista, la “installazione di montacarichi e piattaforme elevatrici aventi una portata inferiore o uguale a 1.00 Khi dotati di certificato e/o brevetto ministeriale, interni o esterni all’edificio, che non necessitano di aperture nei solai, le cui strutture non modificano significativamente la distribuzione delle azioni orizzontali; sono esclusi gli impianti da cantiere.” 13.3.3. Il Collegio ritiene che la normativa citata non consente affatto, in zona sismica, di installare ascensori interni, in edifici già esistenti, senza il preventivo parere del Servizio Tecnico Regionale in materia antisismica, quando tale intervento richieda di aprire aperture nei solai: è vero che è possibile realizzare aperture nei solai se di superficie non superiore a 1 mq e se non sono intaccate le nervature, tuttavia non se si tratti di installare, nella apertura del solaio, un vano ascensore. Gli impianti assimilabili a montacarichi o piattaforme elevatrici sono invece esonerati, in zona sismica, dal parere del Servizio Tecnico Regionale solo se non superino una certa portata, non richiedano di “bucare” dei solai e non comportino una modifica nella distribuzione delle azioni orizzontali. 13.3.4.Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera – come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui DM 2 marzo 2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata dal D.lgs. 222/2016, è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg. del D.P.R. n. 380/2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione. 13.3.5.Dal che consegue che è destituito di fondamento anche il motivo d’appello che contesta il capo della sentenza in esame. 14. Oltre ai motivi d’appello sin qui esaminati la signora Coscarella ripropone le censure già proposte in primo grado, senza articolare specifiche censure contro specifici capi della sentenza appellata: le censure proposte in primo grado non possono, pertanto, essere esaminate, onde non incorrere nella violazione del principio di specificità dei motivi d’appello, enunciato all’art. 101, comma 1, c.p.a. 15. Il Comune di Vibo Valentia, dal canto suo, non ha svolto un autonomo appello incidentale, limitandosi a resistere all’appello principale. 16. Essendo, dunque, infondati tutti i motivi d’appello, l’impugnata sentenza, di respingimento del ricorso di primo grado, va confermata. .17. La peculiarità della vicenda giustifica la compensazione delle spese dei due gradi di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e per l’effetto conferma l’appellata sentenza. Compensa tra le parti le spese dei due gradi di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 novembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Roberta Ravasio, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Roberta Ravasio, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Edilizia – Abusi – Opere realizzate senza titolo – Conseguenza.           Solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi – individuati dall’art. 6, d.P.R. n. 380 del 2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5), non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre. Simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, é sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cu all’art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, e deve essere segnalato con Scia (art. 22, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001) (1).  ​​​​​​​ Ha affermato la Sezione che la nozione di volume tecnico corrisponde a un'opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell'altezza e delle distanze ragguagliate all'altezza.” (Cons. Stato, sez. II, sent. n. 8835 del 27 dicembre 2019)  Ha aggiunto che le opere abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, anche se astrattamente assentibili fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria, devono essere considerate, appunto, abusive.  Se è, poi, vero, che gli interventi volti all'eliminazione delle barriere architettoniche, come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe rientrano tra i lavori di edilizia libera – come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui DM 2 marzo 2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla S.c.i.a. recata dal d.lgs. n. 222 del 2016 - è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: ed a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg., d.P.R. n. 380 del 2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della Regione. 
Edilizia
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L’Adunanza plenaria pronuncia sugli effetti della nomina del Commissario ad acta, in relazione alla permanenza del potere di provvedere in capo all’Amministrazione
N. 00008/2021REG.PROV.COLL. N. 00019/2020 REG.RIC.A.P. N. 00020/2020 REG.RIC.A.P. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 19 di A.P. del 2020, proposto da Comune di Termoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Andrea Manzi, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Federico Confalonieri n. 5; contro Mucchietti Immobiliare s.r.l., Mario De Santis, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Giuseppe Ruta, Margherita Zezza, con domicilio eletto presso lo studio Michele Lioi in Roma, viale Bruno Buozzi 32; sul ricorso numero di registro generale 20 di A.P. del 2020, proposto da Mucchietti Immobiliare s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Margherita Zezza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Termoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Lorenzo Derobertis, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma quanto al ricorso n. 19 del 2020: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per Il Molise (sezione Prima) n. 00104/2017, resa tra le parti; quanto al ricorso n. 20 del 2020: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per Il Molise (sezione Prima) n. 00287/2019, resa tra le parti; Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Mucchietti Immobiliare s.r.l. ,di Mario De Santis e di Comune di Termoli; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 febbraio 2021 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati in collegamento da remoto Manzi, Zezza e Derobertis; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.1. Con l’ordinanza 10 novembre 2020 n. 6925, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso a questa Adunanza Plenaria, previa loro riunione, la decisione sugli appelli proposti, rispettivamente, dal Comune di Termoli, avverso la sentenza del Tar Molise 22 marzo 2017 n. 104, e dalla società Mucchietti Immobiliare s.r.l., avverso la sentenza 12 settembre 2019 n. 287; e ciò in quanto ha ritenuto necessaria, ai fini del decidere, la previa definizione di taluni punti di diritto, come di seguito esposti. 1.2. La prima delle due controversie riguarda la legittimità dell’atto con il quale il Comune di Termoli ha escluso il progetto presentato dalla società Mucchietti (promissaria acquirente dell’area) da un piano di recupero di interventi edilizi abusivi. La società, con istanza del 8 novembre 2012, chiedeva di poter realizzare un intervento edilizio su un terreno in contrada Mucchietti del Comune di Termoli, collocato all’interno di un ampio insediamento abusivo, oggetto di un procedimento di recupero ai sensi della l. reg. Molise n. 17/1985. A seguito di ricorso avverso il silenzio serbato dall’amministrazione, il Tar Molise, con sentenza n. 213/2014, accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere, ordinava al Comune di determinarsi sull’istanza; successivamente, perdurando l’inadempimento, il commissario ad acta all’uopo nominato convocava, in data 6 aprile 2015, la conferenza di servizi necessaria per dare esecuzione alla sentenza. Nondimeno, il Consiglio comunale di Termoli, con deliberazione 21 dicembre 2015 n. 70, deliberava l’insussistenza dei presupposti per procedere alla perimetrazione dell’area e, successivamente, con nota 23 febbraio 2016, veniva comunicata l’improcedibilità dell’istanza 8 novembre 2012, stante la “conclamata insussistenza di perimetrazione e della conseguente variante urbanistica”. Ambedue gli atti ora indicati (deliberazione n. 70/2015 e nota 23 febbraio 2016) venivano impugnati dalla società Mucchietti. Il TAR Molise, con sentenza 22 marzo 2017 n. 104 (oggetto del primo dei due appelli riuniti: r.g. n. 7637/2017), in accoglimento della domanda proposta dalla società ricorrente, ha dichiarato la nullità degli atti oggetto di giudizio, poiché, a fronte dell’insediamento del commissario ad acta intervenuto dopo la scadenza del termine prescritto all’amministrazione comunale per provvedere, questa non era da considerare più titolare di alcun potere. Né, a tali fini, è rilevante che il Comune abbia adottato non il provvedimento di riscontro all’istanza presentata dal privato, bensì un atto ad esso prodromico, poiché in sostanza con la deliberazione si è determinato un arresto procedimentale lesivo dell’interesse dei ricorrenti. La sentenza ha, inoltre, precisato che l’accoglimento del ricorso “non vuol dire che sia ravvisabile una pretesa tutelata di parte ricorrente all’adozione di un provvedimento di perimetrazione con un determinato contenuto, ma solo che a questo incombente provveda, se necessario, il commissario ad acta”. Il Comune di Termoli ha impugnato la sentenza predetta, precisando in punto di fatto che il commissario ad acta, dopo il deposito di questa, con deliberazione 21 giugno 2017 n. 1, ha individuato tra le aree suscettibili di interventi edilizi anche quella di cui la società Mucchietti è diventata promissaria acquirente, in quanto la stessa sarebbe ricompresa nel “PAR 5 – contrada Mucchietti – Ponte sei voci”. 1.3. Il Comune di Termoli ha dunque impugnato la deliberazione del Commissario ad acta n. 1/2017. Il TAR Molise, con sentenza n. 469/2017, ha dichiarato inammissibile il ricorso, statuendo che il provvedimento avrebbe potuto solo essere annullato d’ufficio dall’ente, in quanto “il commissario ad acta che si sostituisce all’amministrazione, ove questa non provveda entro il termine ad essa attribuito dal giudice, ha natura giuridica di organo della P.A. ed agisce quale sostituto dell’amministrazione competente, piuttosto che come ausiliario del giudice. I provvedimenti del commissario ad acta sono impugnabili dal ricorrente e dai terzi attraverso l’ordinaria azione di annullamento, e non semplicemente reclamabili dinanzi al giudice del silenzio; tuttavia, costituendo detti provvedimenti diretto esercizio del potere amministrativo, gli stessi non saranno impugnabili da parte della P.A. sostituita, che potrà intervenire sugli stessi in autotutela, ove ricorrano i presupposti”. A seguito di tale sentenza, il consiglio comunale di Termoli, con delibera n. 24/2018, ha annullato d’ufficio la localizzazione dell’intervento costruttivo ed ha riconfermato la propria deliberazione n. 70/2015. 1.4. Quest’ultima delibera (n. 24/2018) è stata impugnata dalla società Mucchietti, ed il Tar Molise, con sentenza 12 settembre 2019 n. 287 (oggetto del secondo degli appelli riuniti: r.g. n. 135/2020), ha dichiarato il ricorso in parte infondato ed in parte inammissibile: - infondato, nella parte in cui è stata dedotta la carenza di potere dell’amministrazione ad annullare in autotutela un atto del commissario ad acta, poiché questo deve essere invece qualificato come atto amministrativo, rimovibile in autotutela; - inammissibile, per difetto di interesse contro l’atto comunale di autotutela, in quanto questo non arrecherebbe uno specifico pregiudizio alla società, il cui suolo non sarebbe ricompreso tra le aree individuate dal commissario. 2.1. Riuniti i due appelli, la Quarta Sezione ha rimesso la decisione sui medesimi a questa Adunanza Plenaria, perché possano essere definiti i seguenti punti di diritto: a) “se la nomina del commissario ad acta (disposta ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a.) oppure il suo insediamento comportino – per l’amministrazione soccombente nel giudizio proposto avverso il suo silenzio - la perdita del potere di provvedere sull’originaria istanza, e dunque se l’amministrazione possa provvedere tardivamente rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad acta eserciti il potere conferitogli (e, nell’ipotesi affermativa, quale sia il regime giuridico dell’atto del commissario ad acta, che non abbia tenuto conto dell’atto tardivo ed emani un atto con questo incoerente)”; b) “per il caso in cui si ritenga che sussista – a partire da una certa data – esclusivamente il potere del commissario ad acta, quale sia il regime giuridico dell’atto emanato tardivamente dall’amministrazione”. La Sezione remittente sottopone inoltre alla valutazione di questa Adunanza Plenaria se, per la soluzione dei quesiti, “occorra affrontare anche le questioni che possono sorgere quando la nomina del commissario ad acta sia disposta non con una sentenza che si sia pronunciata sul silenzio dell’amministrazione, ma con una sentenza di cognizione (anche di annullamento dell’atto impugnato) resa ai sensi dell’art. 34, co. 1, lett. e), o con una sentenza resa nell’esercizio della giurisdizione di merito ai sensi dell’art. 114, co. 4, lett. d), del codice del processo amministrativo”. 2.2. L’ordinanza di rimessione si pone, innanzi tutto, il problema “se, nel regime giuridico attuale, sia possibile individuare una disciplina unitaria, composta da principi e regole comuni, per il commissario ad acta, in relazione alle diverse tipologie di giudizi nei quali esso è nominato (giudizio di ottemperanza, giudizio sul silenzio e giudizio cautelare)”. Quanto agli specifici quesiti sottoposti a questa Adunanza Plenaria, l’ordinanza richiama i diversi orientamenti giurisprudenziali in materia: - innanzi tutto, un risalente orientamento, secondo il quale il potere – dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla pronuncia verrebbe meno già dopo la nomina del commissario ad acta; - altro orientamento ritiene che il cd. esautoramento dell’organo inottemperante si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale ovvero dopo il suo “insediamento”, che attuerebbe il definitivo trasferimento del munus pubblico dall’ente che ne è titolare per legge a quello che ne diviene titolare in ragione della sentenza del giudice amministrativo; - un ulteriore orientamento, in base al quale la competenza commissariale rimane concorrente con quella dell’amministrazione, che continua ad operare nell’ambito delle attribuzioni che la legge le riconosce e che non prevede siano estinte con l’insediamento del commissario. L’ordinanza ricorda, inoltre, che i primi due orientamenti sopra riportati considerano “nulli” gli atti adottati dall’amministrazione, mentre il terzo orientamento ritiene legittimo – ovviamente, in relazione allo specifico profilo inerente al potere di emanarlo – l’atto adottato dall’amministrazione dopo la nomina e/o insediamento del commissario ad acta. Il giudice rimettente, con una pluralità di argomentazioni, propende per la tesi della conservazione del potere in capo all’amministrazione, affermando (pag. 13) che “salva una diversa, chiara ed univoca statuizione del giudice che ha nominato il commissario, l’organo istituzionalmente competente possa e debba provvedere”, potendosi risolvere ogni eventuale divergenza o mancanza di collaborazione tra amministrazione e commissario ad acta “mediante la richiesta di chiarimenti al giudice amministrativo”. In questi sensi, “non si pone alcuna questione di validità dei provvedimenti e degli atti emanati dall’amministrazione, dopo la nomina o l’insediamento del commissario ad acta” (pag. 14). Allo stesso tempo, l’ordinanza pone il problema del “regime giuridico degli atti adottati dal commissario ad acta dopo che il Comune ha provveduto”. 3. Dopo il deposito effettuato dalle parti di memorie e repliche, all’udienza pubblica di trattazione la causa è stata riservata in decisione. DIRITTO 4. L’Adunanza Plenaria ritiene che l’amministrazione, che è risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perda il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto. Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell’amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece. 5.1. Come è noto, l’art. 21 del codice del processo amministrativo (nell’ambito del Capo VI, dedicato agli “ausiliari del giudice”), prevede che “nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta”. Le ipotesi nelle quali il Codice prevede tale nomina sono rappresentate: - dall’art. 34, co.1, lett. e), secondo il quale il giudice “dispone le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza”; - dall’art. 114, co. 4, lett. d), in base al quale il giudice dell’ottemperanza “nomina, ove occorra, un commissario ad acta”; - dall’art. 117, co. 3, secondo il quale, nell’ambito del giudizio sul silenzio dell’amministrazione, “il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente, su istanza della parte interessata”; - dall’art. 59, relativo alla “esecuzione delle misure cautelari”, che consente, laddove i provvedimenti cautelari non siano in tutto o in parte eseguiti, che il giudice, su istanza motivata dell’interessato, eserciti “i poteri inerenti al giudizio di ottemperanza”, e dunque possa disporre anche la nomina di un commissario ad acta. Dall’esame delle disposizioni innanzi riportate, appare innanzi tutto evidente la natura del commissario ad acta quale “ausiliario del giudice”, che procede alla sua nomina laddove debba “sostituirsi all’amministrazione”. La nomina del commissario ad acta, dunque, si fonda su due presupposti normativamente indicati e, precisamente: - che il giudice debba sostituirsi all’amministrazione; - che tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione del giudice medesimo, così come definita dalle norme che la attribuiscono. Tali circostanze, oltre a costituire i presupposti per la nomina del commissario ad acta, definiscono anche il perimetro dei compiti del medesimo, che coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato e nel cui ambito il commissario agisce. Diversamente, dunque, dagli altri ausiliari previsti dal Codice, quali il verificatore ed il consulente tecnico, che assistono il giudice “per il compimento di singoli atti o per tutto il processo” e dunque svolgono compiti strumentali e antecedenti alla pronuncia della sentenza (alla quale sono finalizzati), il commissario ad acta svolge compiti ausiliari del giudice “dopo” la decisione, laddove questi, nell’ambito della propria giurisdizione, “deve sostituirsi all’amministrazione”. E ciò avviene – come si evince dalle disposizioni del Codice innanzi riportate - tutte le volte in cui il comando espresso dalla sentenza passata in giudicato o dotata di provvisoria esecutività (e non sospesa), ovvero il comando espresso dall’ordinanza cautelare, non venga eseguito dall’amministrazione, con pregiudizio per l’effettività e la pienezza della tutela della situazione soggettiva della quale è titolare la parte vincitrice nel giudizio di cognizione; tutela che, per realizzarsi pienamente, ha bisogno della necessaria attività dell’amministrazione. Il commissario ad acta è, quindi, funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, in attuazione degli articoli 24 e 113 Cost., nonché degli articoli 6 e 13 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La disciplina normativa, nel definire espressamente, come si è visto, il commissario ad acta quale ausiliario del giudice, esclude, al tempo stesso, che a questi possa essere riconosciuta la natura di organo (straordinario) dell’amministrazione. E ciò ricorre anche nei casi in cui il commissario, più che dare seguito a specifici aspetti già definiti dalla pronuncia in un’ottica stricto sensu esecutiva, per le finalità del proprio incarico esercita poteri discrezionali, come nel caso in cui, stante la perdurante inerzia dell’amministrazione, egli debba provvedere sulla istanza del cittadino o dell’impresa, senza che la sentenza abbia determinato il contenuto del potere da esercitare. La natura esclusiva di ausiliario del giudice, peraltro, era già stata affermata, anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, sia dalla Corte costituzionale, sia da questa stessa Adunanza Plenaria. La Corte costituzionale, con sentenza 12 maggio 1977 n. 75, ha a suo tempo affermato che: “il giudice amministrativo, sia che sostituisca la propria decisione all'omesso provvedimento della pubblica amministrazione, che vi era tenuta in forza del giudicato formatosi nei suoi confronti, come più spesso suole accadere quando si tratti di atto vincolato; sia che ingiunga alla amministrazione medesima di provvedere essa stessa, entro un termine all'uopo prefissatole e con le modalità specificate in sentenza; sia infine che disponga la nomina di un commissario per l'ipotesi che il termine abbia a decorrere infruttuosamente, esplica sempre attività di carattere giurisdizionale ("decide pronunciando anche in merito", come si esprime l'art. 27, comma primo, del citato testo unico del 1924, riferendosi testualmente al Consiglio di Stato "in sede giurisdizionale"). Né fa differenza, sotto questo aspetto . . . che la nomina del commissario sia operata dal giudice amministrativo direttamente, ovvero attraverso l'interposizione di un organo amministrativo. . . , poiché in tal caso a quest'ultimo viene semplicemente demandata la scelta della persona, e non già conferito il potere di agire in via sostitutiva per mezzo di un "suo" commissario, come si verifica invece quando sia l'organo di controllo, di propria iniziativa, ad inviare un commissario ad acta presso amministrazioni sottoposte alla sua vigilanza. Procedendo, pertanto, direttamente o indirettamente, alla nomina di un commissario, il giudice amministrativo non si surroga all'organo di controllo, ma pone in essere un'attività qualitativamente diversa da quella che quest'ultimo avrebbe istituzionalmente il potere-dovere di esplicare nell'ipotesi di omissione da parte degli enti locali di atti obbligatori per legge, tra i quali rientrano bensì, ma senza esaurirne la specie, quelli da adottare per conformarsi ad un giudicato: potere-dovere che, comunque, preesiste alla pronuncia emessa nel giudizio di ottemperanza ed è da questa indipendente. Ed a sua volta, l'attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall'amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall'organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull'ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”. Anche questa Adunanza Plenaria, con decisone 14 luglio 1978 n. 23, precisato che il giudizio di ottemperanza risponde all’esigenza “del completamento della tutela giurisdizionale nella fase esecutiva della decisione”, afferma che con tale giudizio “il giudice amministrativo si sostituisce all’amministrazione inadempiente ponendo in essere l’attività che questa avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti scaturenti dalla sentenza da eseguire, conformando la realtà alle relative statuizioni”. In definitiva, può affermarsi che il commissario ad acta è, sul piano della qualificazione soggettiva, ausiliario del giudice e ritrae i propri poteri dall’atto di nomina al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale, adeguando la realtà giuridica e fattuale al comando contenuto nella pronuncia. Tale comando costituisce il contenuto ed il limite del potere del commissario ad acta, che ad esso (solo ad esso e nei limiti di quanto prescritto) deve dare attuazione. Sul piano oggettivo dell’attività concretamente posta in essere, esso agisce in virtù di un potere, normativamente previsto, fondato sull’esigenza dell’attuazione delle decisioni giurisdizionali in quanto funzionali a rendere concreta ed effettiva della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive. Ciò comporta che la fonte del potere del commissario ad acta è riconducibile, quanto all’investitura, all’atto di nomina e, quanto al contenuto, alla sentenza (o comunque al provvedimento giurisdizionale della cui esecuzione si tratta). In conclusione, non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via “aggiuntiva”, la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente - affermato da Cons. Stato, Ad. Plen. 9 maggio 2019 n. 7, che riconosce invece al commissario una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”), e ciò in quanto - per un verso, la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita; - per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l’ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale; - per altro verso ancora, il compito del commissario ad acta non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice, anche eventualmente attraverso l’esercizio di poteri amministrativi non esercitati, dei quali il comando contenuto in sentenza (o nell’ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l’approdo funzionale; - da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale. L’Adunanza Plenaria non ignora il risalente dibattito sulla natura soggettiva del commissario ad acta, figura che – come ricorda anche l’ordinanza di rimessione - ha nel tempo oscillato tra le distinte nature di organo straordinario dell’amministrazione, ausiliario del giudice, soggetto con duplice natura (ausiliario del giudice e organo straordinario): un dibattito storicamente comprensibile, che ha accompagnato la progressiva definizione dell’istituto, esso stesso di origine giurisprudenziale (a partire da Cons. Stato, sez. IV, 9 marzo 1928 n. 181), fino alla sua piena affermazione sia sul piano della previsione normativa (ora art. 21 c.p.a.), sia sul piano dell’ambito di intervento, oggi praticamente esteso ad ogni necessità di ottemperanza e/o esecuzione del provvedimento giurisdizionale dotato di forza esecutiva, secondo quanto prescritto dall’art. 112 c.p.a.. Attualmente, ed in modo inequivocabile, la conquistata definizione normativa dell’istituto ne definisce espressamente la natura soggettiva, che è quella (esclusivamente) di ausiliario del giudice. 5.2. Tale natura di ausiliario del giudice non è revocata in dubbio dal fatto che il commissario ad acta, nel dare esecuzione alla decisione del giudice, debba adottare atti amministrativi, anche di natura provvedimentale, e ciò anche effettuando, in luogo dell’amministrazione inadempiente, valutazioni e scelte normalmente rientranti nell’esercizio del potere discrezionale della stessa; né la circostanza che gli atti adottati esplichino effetti imputabili alla sfera giuridica dell’amministrazione comporta, di necessità, l’attribuzione al commissario della natura di organo amministrativo. Se, come si è detto, l’attività del commissario ad acta costituisce attuazione della decisione del giudice, onde rendere effettiva la tutela giurisdizionale costituzionalmente affermata nei confronti della pubblica amministrazione, gli effetti che si imputano all’amministrazione non dipendono da una “sostituzione” nell’esercizio di poteri a questa attribuiti e da essa autonomamente esercitabili, ricorrendone le ragioni di pubblico interesse; né tantomeno ricorre un’ipotesi di trasferimento dei poteri medesimi (dall’amministrazione al commissario). Tali effetti derivano, invece, direttamente dalla pronuncia del giudice, la quale, avendo per oggetto atti amministrativi o l’esercizio in fieri di poteri provvedimentali, non può attuarsi se non attraverso l’adozione di atti o di provvedimenti, il cui momento genetico, tuttavia, non si ritrova nella norma attributiva del potere all’amministrazione, bensì nella sentenza, ed il cui momento funzionale non è (almeno direttamente) rappresentato dalla cura dell’interesse pubblico, bensì dall’effettività della tutela giurisdizionale. Ed è significativo, sotto tale aspetto, che i poteri del commissario siano tradizionalmente ricondotti alla giurisdizione “di merito” del giudice amministrativo, la quale, anche nell’adozione di provvedimenti in luogo dell’amministrazione, resta esercizio di attività giurisdizionale e non amministrativa. In questo senso, trova riscontro quanto affermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 75/1977 innanzi citata), secondo la quale “l'attività del commissario, pur essendo, praticamente, la medesima che avrebbe dovuto essere prestata dall'amministrazione, o in ipotesi da un commissario ad acta inviato dall'organo di controllo, ne differisce tuttavia giuridicamente, perché si fonda sull'ordine contenuto nella decisione del giudice amministrativo, alla quale è legata da uno stretto nesso di strumentalità”. Il fondamento del potere esercitato dal commissario ad acta non è il medesimo del potere di cui è titolare l’amministrazione, poiché il primo si colloca, come si è detto, nella decisione del giudice, il secondo nella norma che lo attribuisce all’amministrazione; il primo ha la sua “giustificazione funzionale” nell’effettività della tutela giurisdizionale, conferendo alla parte vittoriosa in giudizio quella attribuzione che risulta satisfattiva della propria posizione giuridica per la cui tutela essa ha agito; il secondo, nella cura dell’interesse pubblico che costituisce, al contempo, fondamento genetico dell’attribuzione e funzionalizzazione dell’esercizio del potere. Se, dunque - in via di approssimazione e per sintesi - di “sostituzione” del giudice (e, per esso, del commissario a acta) all’amministrazione si intende discorrere, ciò può avvenire solo nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio di un medesimo potere, ma solo con riferimento a ciò che l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per dare attuazione al giudicato e rispetto al quale è invece rimasta inottemperante. E se per dare piena soddisfazione alla parte vittoriosa l’amministrazione avrebbe dovuto esercitare un potere amministrativo ad essa conferito dalla legge e ciò non ha fatto, allora il commissario sostituisce al primo potere l’esercizio di un potere analogo ma non identico, poiché, come si è detto, esso trova fondamento, per espressa previsione normativa, nella decisione del giudice. La natura ed il contenuto degli specifici atti adottati dal commissario ad acta (e che non differiscono da quelli che l’amministrazione avrebbe dovuto adottare) dipendono dal contenuto prescrittivo della decisione del giudice, alla quale prestano attuazione (ottemperanza, esecuzione). Così come vario è il contenuto del giudizio di ottemperanza, altrettanto vario è il contenuto proprio dei poteri del commissario ad acta. Come ha affermato questa Adunanza Plenaria, con sentenza 15 gennaio 2013 n. 2, “l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’“azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost.. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 c.p.a., deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto”. Di conseguenza, il commissario ad acta potrà essere chiamato ad adottare atti dalla natura giuridica e dal contenuto più vari: da quelli volti al pagamento di somme di denaro, cui l’amministrazione è stata condannata, ai provvedimenti amministrativi di natura vincolata, che trovano già nella sentenza che ha concluso il giudizio di cognizione la propria conformazione; fino ai provvedimenti di natura discrezionale, che solo eventualmente possono trovare nella sentenza ragioni e limiti della valutazione e della scelta che il commissario deve effettuare in luogo dell’amministrazione. Ma, in tutti i casi considerati, il potere esercitato dal commissario ad acta, ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare. Anche nel caso in cui – come nel giudizio sul silenzio serbato dall’amministrazione su istanza del privato (ed al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 31 c.p.a.) – la sentenza sancisce esclusivamente l’“obbligo di provvedere” dell’amministrazione sull’istanza, l’esercizio del potere del commissario trova comunque il proprio fondamento nella sentenza perché è sempre nella decisione che si riscontra la giustificazione (genetica e funzionale) del distinto potere esercitato. Proprio per le ragioni sin qui esposte (oltre che per una opportuna e condivisibile esigenza di speditezza ed economicità dei mezzi processuali), il codice del processo amministrativo rimette al giudice dell’ottemperanza (art. 114, co. 6) la decisione sulle questioni “inerenti agli atti del commissario ad acta” e al giudice del silenzio (art. 117, co. 4) la decisione sulle questioni “relative alla esatta adozione del provvedimento richiesto”. In ambedue le ipotesi, proprio perché gli atti adottati non sono espressione di autonomo esercizio di potere amministrativo (propriamente detto), la tutela avverso gli stessi deroga alle ordinarie regole del giudizio di cognizione ed è affidata al giudice del quale il commissario che ha adottato gli atti contestati costituisce l’ausiliario. 5.3. Alla luce di quanto sin qui esposto, può affermarsi: a) il commissario ad acta è solo ed esclusivamente “ausiliario del giudice”; b) il potere esercitato dal commissario non è il medesimo del quale l’amministrazione è titolare, né il commissario si “sostituisce” all’amministrazione nel suo esercizio, né si verifica un “trasferimento” di detto potere (come pure è stato anteriormente affermato: Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 2018 n. 3378); c) il potere del commissario ad acta nella adozione di atti e provvedimenti trova il proprio fondamento genetico nella decisione del giudice (sentenza passata in giudicato; sentenza provvisoriamente esecutiva non sospesa; ordinanza cautelare) e la propria giustificazione sul piano funzionale nella necessità di assicurare pienezza ed effettività alla tutela giurisdizionale già riconosciuta alla situazione soggettiva per la quale si è agito in giudizio; d) gli effetti degli atti posti in essere dal commissario ad acta si imputano alla sfera giuridica dell’amministrazione non già come conseguenza del fatto che il commissario è organo straordinario della medesima (riconducendo quindi in tal modo, implicitamente, l’imputazione degli effetti alla immedesimazione organica), bensì perché tali effetti si producono nella sfera giuridica dell’amministrazione per derivazione dalla decisione del giudice (articoli 2908, 2909 c.c.). 6.1. La natura distinta del potere esercitato dal commissario ad acta rispetto al potere del quale è titolare la pubblica amministrazione soccombente già costituisce, di per sé, chiara indicazione in ordine alla ammissibilità della “concorrenza” della competenza commissariale con quella dell’amministrazione. Difatti, il commissario ad acta svolge compiti ed esercita specifici poteri in virtù del munus conferitogli, nei sensi innanzi esposti, dall’atto di nomina da parte del giudice e dalla decisione da attuare. Nel suo caso, come si è detto, non si verifica alcuna “sostituzione” dell’amministrazione nell’esercizio dei poteri che le sono propri, né questi ultimi si “trasferiscono” al commissario per effetto della nomina della quale l’inerzia dell’amministrazione costituirebbe la ragione. In questo senso, può parzialmente convenirsi, nei limiti di seguito esposti, con l’ordinanza di rimessione laddove la stessa afferma che “in assenza di una (pur consentita dalla legge) chiara ed univoca determinazione del giudice amministrativo sulla perdita di potere dell’organo ordinariamente competente, si potrebbe continuare a considerare perdurante la competenza attribuita in via ordinaria dalla legge, militando in tal senso il principio di legalità sulla articolazione delle competenze, nonché il principio di correttezza dei rapporti di diritto pubblico…”. In primo luogo, è dubbio che il giudice abbia il potere di indicare una data oltre la quale l’amministrazione non possa più provvedere nell’attuazione della decisione, poiché si tratterebbe di un potere di “interdizione” dall’esercizio di poteri amministrativi per il quale difetta il presupposto normativo (la stessa ordinanza, d’altra parte, pur ammettendolo in teoria, considera tale potere una “extrema ratio”). In secondo luogo, ciò che l’ordinanza riassume sotto l’egida dell’attuazione del principio di legalità traduce, per un verso, la difficoltà se non l’impossibilità di conferire per sentenza poteri amministrativi, la cui attribuzione è diversamente prevista dall’ordinamento; per altro verso, costituisce la riaffermazione della persistenza dell’esercizio di un potere del quale l’amministrazione ha la titolarità e del quale conserva l’esercizio nonostante la nomina o l’insediamento del commissario ad acta, titolare di un potere diverso, non sovrapponibile e privo di effetti escludenti. Come si è affermato in parte della giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 10 maggio 2011 n. 2764): “la nomina del Commissario ad acta non determina di per sé l’esaurimento della competenza della p.a. sostituita a provvedere all’ottemperanza al giudicato, in quanto il venir meno dell’inerzia della p.a. stessa, pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del Commissario, secondo i principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, non smentiti dalla legge o dalla pronuncia del giudice dell’ottemperanza ed essendo indifferente per il privato che il giudicato sia eseguito dall’Amministrazione, piuttosto che dal Commissario, perché l’attività di entrambi resta comunque egualmente soggetta al controllo del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2008, nr. 6585; Cons. Stato, sez. IV, 10 aprile 2006, nr. 1947; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 1999, nr. 109)”. Può ulteriormente aggiungersi che la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte del commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione. E la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti dà attuazione alla decisione del giudice. 6.2. D’altra parte, non vi è alcun dato normativo che consenta di affermare con certezza la perdita del potere dell’amministrazione di provvedere per effetto della nomina o dell’insediamento del commissario ad acta. E ciò a fronte della sussistenza non solo di un dovere per la parte soccombente di dare attuazione a quanto a proprio carico derivante dalla sentenza del giudice, ma anche della sussistenza di un “diritto” di adempiere al fine di evitare l’aggravarsi della propria posizione, anche quanto alle conseguenze patrimoniali derivanti dall’inottemperanza. Laddove, infatti, non si ammettesse il potere dell’amministrazione di dare attuazione alla decisione del giudice, la stessa rimarrebbe senza rimedio esposta, oltre che ai costi derivanti dall’intervento dell’ausiliario, anche alla “azione di risarcimento dei danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato. . .”, di cui all’art. 112, co. 3, c.p.a.. 7. Da quanto innanzi esposto consegue: a) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario medesimo. Tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241/1990), ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità; b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto. Qualora persista il dubbio del commissario in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, co. 7 c.p.a.; c) gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela. Qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a.; d) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio. Allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto. Chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente, occorre ricordare come resti ovviamente fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati. 8. Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, l’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto: a) il potere dell’amministrazione e quello del commissario ad acta sono poteri concorrenti, di modo che ciascuno dei due soggetti può dare attuazione a quanto prescritto dalla sentenza passata in giudicato, o provvisoriamente esecutiva e non sospesa, o dall’ordinanza cautelare fintanto che l’altro soggetto non abbia concretamente provveduto; b) gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati di per sé affetti da nullità, in quanto gli stessi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario. c) gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del proprio potere di autotutela, né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili, a seconda dei casi, innanzi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, co. 6, c.p.a. ovvero innanzi al giudice del giudizio sul silenzio, ai sensi dell’art. 117, co. 4, c.p.a. d) gli atti adottati dal commissario ad acta dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, ovvero quelli che l’amministrazione abbia adottato dopo che il commissario ad acta abbia provveduto, sono da considerare inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse, a seconda dei casi, al giudice dell’ottemperanza o al giudice del giudizio sul silenzio. 9. L’Adunanza Plenaria dispone la restituzione del giudizio alla sezione rimettente, per ogni ulteriore decisione nel merito e sulle spese ed onorari del giudizio, ivi compresi quelli inerenti alla presente fase. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti proposti da Comune di Termoli (n. 7637/2017 r.g.) e da Mucchietti Immobiliare s.r.l. (n. 135/2020 r.g.): - enuncia i principi di diritto di cui in motivazione; - restituisce per il resto il giudizio alla sezione rimettente. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 febbraio 2021 con l'intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Franco Frattini, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere
Processo amministrativo - Giudizio di ottemperanza – Commissario ad acta – Nomina – Residuo potere dell’Amministrazione – Differenza con il Commissario nominato nel giudizio sul silenzio.            Gli atti emanati dall’amministrazione, pur in presenza della nomina e dell’insediamento del commissario ad acta, non possono essere considerati affetti da nullità, poiché essi sono adottati da un soggetto nella pienezza dei propri poteri, a nulla rilevando a tal fine la nomina o l’insediamento del commissario medesimo; tali atti potranno essere, ricorrendone le condizioni, dichiarati nulli dal giudice per la diversa ipotesi di violazione o elusione del giudicato (art. 21-septies, l. n. 241 del 1990), ovvero annullati perché ritenuti illegittimi all’esito di domanda di annullamento in un ordinario giudizio di cognizione, ma non possono in ogni caso essere considerati emanati in difetto assoluto di attribuzione e, per questa ragione, ritenuti affetti da nullità; b) il commissario ad acta nominato dal giudice potrà esercitare il proprio potere fintanto che l’amministrazione non abbia eventualmente provveduto; qualora persista il dubbio del commissario in ordine all’esaurimento del proprio potere per intervenuta attuazione della decisione (poiché, ad esempio, questa è reputata dal commissario parziale o incompleta), lo stesso potrà rivolgersi al giudice che lo ha nominato, ai sensi dell’art. 114, comma 7, c.p.a.; c) gli atti emanati dal commissario ad acta, non essendo espressione di potere amministrativo, non sono annullabili dall’amministrazione in esercizio del proprio potere di autotutela; qualora l’amministrazione intenda dolersi di tali atti (ritenendoli illegittimi ovvero non coerenti con il comando contenuto nella decisione del giudice), potrà esclusivamente rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, ai sensi dell’art. 114, comma 6, c.p.a., ovvero al giudice del silenzio, ai sensi dell’art. 117, comma 4, c.p.a.; d) qualora il commissario ad acta adotti atti dopo che l’amministrazione abbia già provveduto a dare attuazione alla decisione, gli stessi sono da considerarsi inefficaci e, ove necessario, la loro rimozione può essere richiesta da chi vi abbia interesse al giudice dell’ottemperanza o del giudizio sul silenzio; allo stesso modo deve concludersi per la speculare ipotesi di atti adottati dall’amministrazione dopo che il commissario abbia provveduto (1).      (1) La questione era stata rimessa dalla sez. IV con ord. 10 novembre 2020, n. 6925.  Ha chiarito l’Alto Consesso che l’amministrazione, che è risultata soccombente in sede giurisdizionale, non perda il proprio potere di provvedere, pur in presenza della nomina e dell’insediamento di un commissario ad acta al quale è conferito il potere di provvedere per il caso di sua inerzia nell’ottemperanza al giudicato (ovvero nell’adempimento di quanto nascente da sentenza provvisoriamente esecutiva ovvero da ordinanza cautelare), e fino a quando lo stesso non abbia provveduto.  Fino a tale momento, si verifica, dunque, una situazione di esercizio concorrente del potere da parte dell’amministrazione, che ne è titolare ex lege, e da parte del commissario, che, per ordine del giudice, deve provvedere in sua vece.  Anche l’Adunanza Plenaria, con decisone 14 luglio 1978, n. 23 - precisato che il giudizio di ottemperanza risponde all’esigenza “del completamento della tutela giurisdizionale nella fase esecutiva della decisione” - afferma che con tale giudizio “il giudice amministrativo si sostituisce all’amministrazione inadempiente ponendo in essere l’attività che questa avrebbe dovuto compiere per realizzare concretamente gli effetti scaturenti dalla sentenza da eseguire, conformando la realtà alle relative statuizioni”.  In definitiva, può affermarsi che il commissario ad acta è, sul piano della qualificazione soggettiva, ausiliario del giudice e ritrae i propri poteri dall’atto di nomina al fine di rendere effettiva la tutela giurisdizionale, adeguando la realtà giuridica e fattuale al comando contenuto nella pronuncia. Tale comando costituisce il contenuto ed il limite del potere del commissario ad acta, che ad esso (solo ad esso e nei limiti di quanto prescritto) deve dare attuazione.  Sul piano oggettivo dell’attività concretamente posta in essere, esso agisce in virtù di un potere, normativamente previsto, fondato sull’esigenza dell’attuazione delle decisioni giurisdizionali in quanto funzionali a rendere concreta ed effettiva della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive.  Ciò comporta che la fonte del potere del commissario ad acta è riconducibile, quanto all’investitura, all’atto di nomina e, quanto al contenuto, alla sentenza (o comunque al provvedimento giurisdizionale della cui esecuzione si tratta).  In conclusione, non può essere riconosciuta al commissario ad acta, nemmeno in via “aggiuntiva”, la natura di organo straordinario dell’amministrazione (dovendosi, in tal senso, precisare quanto – peraltro incidentalmente - affermato da Cons. Stato, Ad. Plen., 9 maggio 2019, n. 7, che riconosce invece al commissario una “duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell’amministrazione”), e ciò in quanto; per un verso, la natura di ausiliario del giudice del commissario ad acta è l’unica normativamente riconosciuta e definita;  per altro verso, gli organi amministrativi, quanto alla loro esistenza, natura e competenza (poteri) sono istituiti dalla legge, mentre, diversamente opinando, ricorrerebbe in questo caso l’ipotesi di un organo amministrativo di fonte giurisdizionale; per altro verso ancora, il compito del commissario ad acta non è quello di esercitare poteri amministrativi funzionalizzati alla cura dell’interesse pubblico, bensì quello di dare attuazione alla pronuncia del giudice, anche eventualmente attraverso l’esercizio di poteri amministrativi non esercitati, dei quali il comando contenuto in sentenza (o nell’ordinanza) costituisce il fondamento genetico e l’approdo funzionale; da ultimo, non è necessario ipotizzare la natura di organo straordinario dell’amministrazione per giustificare l’imputazione alla sua sfera giuridica degli effetti dell’agire del commissario, trovando questi fonte e giustificazione direttamente nel provvedimento giurisdizionale.  L’Adunanza plenaria ha poi richiamato la sentenza della sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764 che, con riferimento alla conservazione del potere in capo all’Amministrazione dopo la nomina del commissario ad acta, ha chiarito che la stessa non determina di per sé l’esaurimento della competenza della p.a. sostituita a provvedere all’ottemperanza al giudicato, in quanto il venir meno dell’inerzia della p.a. stessa, pur dopo la scadenza del termine assegnatole, rende priva di causa la nomina e la funzione del commissario, secondo i principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, non smentiti dalla legge o dalla pronuncia del giudice dell’ottemperanza ed essendo indifferente per il privato che il giudicato sia eseguito dall’Amministrazione, piuttosto che dal Commissario, perché l’attività di entrambi resta comunque egualmente soggetta al controllo del giudice (Cons. Stato, sez. VI, 29 dicembre 2008, n. 6585; id., sez. IV, 10 aprile 2006, n. 1947; id., sez. V, 3 febbraio 1999, n. 109). Può ulteriormente aggiungersi che la duplice possibilità di ottenere l’ottemperanza alla decisione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte del commissario ad acta, rafforza la posizione della parte già vittoriosa in sede di cognizione.  E la concorrenza della competenza del commissario ad acta e dell’amministrazione ha termine allorché uno dei due soggetti dà attuazione alla decisione del giudice.  Infine, chiarito il rapporto intercorrente tra commissario ad acta ed amministrazione soccombente, l’Adunanza plenaria ha ricordato che resta ovviamente fermo il potere della parte vittoriosa di rivolgersi al giudice per ogni doglianza o chiarimento nei confronti degli atti adottati.
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/accertamento-di-inottemperanza-all-obbligo-vaccinale-e-sindacabilit-c3-a0-del-certificato-di-esenzione
Accertamento di inottemperanza all’obbligo vaccinale e sindacabilità del certificato di esenzione
N. 08454/2021REG.PROV.COLL. N. 09948/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm.sul ricorso numero di registro generale 9948 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Nicola Massafra, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Asl Roma 6, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Alessandro Benedetti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Petrella n. 4; Regione Lazio, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Roberta Barone, presso i cui uffici domicilia in Roma, via Marcantonio Colonna n. 27; per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) n. -OMISSIS-, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Asl Roma 6 e della Regione Lazio; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021 il Cons. Ezio Fedullo e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. - L’odierno appellante, medico convenzionato presso l’ASL Roma 6, adiva il T.A.R. Lazio al fine di vedere annullato l’atto prot. n. -OMISSIS-, notificatogli il giorno successivo, recante “accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale”, la successiva determina prot. n. -OMISSIS-, recante rigetto dell’istanza di revoca in autotutela del suddetto atto di accertamento, ed infine il provvedimento della Direzione Generale Prot. -OMISSIS-, con il quale veniva disposta la sospensione del rapporto e dell’attività convenzionale del suddetto con decorrenza immediata e senza retribuzione. 1.2 - Gli atti suindicati venivano adottati dalla ASL Roma 6 sulla scorta del mancato assolvimento da parte del ricorrente, nella suddetta qualità, dell’obbligo vaccinale da Covid 19 ai sensi dell’art. 4 del d.l. n. 44/2021, non essendo stata ritenuta idonea l’attestazione di esonero presentata in data 6 settembre 2021. 1.3 - Il TAR per il Lazio, con la sentenza (in forma semplificata) appellata, dopo aver affermato la sussistenza della giurisdizione amministrativa in ordine alla controversia (evidenziando, quanto all’atto di accertamento dell’ottemperanza da parte del medico convenzionato dell’obbligo vaccinale ex art. 44, comma 1, d.l. n, 44/2021, che esso inerisce ad “uno specifico segmento procedimentale propriamente amministrativo e pubblicistico diretto ad accertare, mediante l’esercizio di un potere discrezionale ed autoritativo, se il sanitario abbia ricevuto o meno la somministrazione del vaccino contro il SARS-CoV-2” e, quanto al conseguenziale atto di sospensione, che “una simile evenienza costituisce effetto automatico che discende direttamente dalla legge a carico del sanitario inottemperante” e che “riservare alla giurisdizione dell’AGO la cognizione sulla sola sospensione dal servizio (tesi della difesa ASL) rischierebbe di consentire ad un altro giudice, appartenente a diverso plesso giurisdizionale, di pronunziarsi nella sostanza sulle stesse questioni di cui all’atto di accertamento dell’inosservanza all’obbligo vaccinale, e ciò in totale spregio al principio fondamentale del ne bis in idem”), ha respinto i plurimi motivi di ricorso formulati dal ricorrente. 1.4 - Il T.A.R., in sintesi, ha rilevato: - l’infondatezza del motivo inteso a lamentare la violazione dell’art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021, attesa l’inidoneità delle due certificazioni prodotte dall’interessato al fine di giustificare l’esenzione dall’obbligo vaccinale, correlata dalla citata disposizione alla sussistenza di un “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”, dal momento che le stesse “nulla dicono circa la patologia sofferta e, soprattutto, circa la documentazione base da cui tale esenzione sarebbe in effetti scaturita”; - la non opponibilità, al riguardo, di esigenze di tutela della sfera di riservatezza dell’interessato, sia perché “il necessario bilanciamento tra riservatezza e trattamento dei dati sensibili da parte della competente amministrazione deputata alla verifica di attendibilità della attestazione di esonero dalla vaccinazione [trattamento da intendere nella specie anche come semplice “consultazione” del dato stesso, ai sensi dell’art. 4, primo par., n. 2), del Regolamento 27 aprile 2016, n. 2016/679/UE, d’ora in avanti “Regolamento UE”] è stato direttamente operato “a monte” dal legislatore di emergenza, a favore ossia della possibilità di trattare tali dati ad opera della competente PA, nel momento in cui il richiamato comma 5 dell’art. 4 del DL n. 44 del 2021 ha previsto l’obbligo, a carico dell’interessato, di versare agli atti del procedimento non solo la “certificazione” del proprio medico curante ma anche tutta la “documentazione comprovante” le ragioni poste alla base di siffatto esonero vaccinale”, sia perché “una simile conclusione si rivela inoltre pienamente coerente con l’ordinamento interno ed eurounitario in materia di tutela della riservatezza”; - l’insussistenza di alcun obbligo a provvedere in ordine all’istanza dell’8 settembre 2021, essendo diretta a sollecitare il potere di autotutela dell’Amministrazione: istanza comunque riscontrata dalla ASL Roma 6 con le due note in data 23 settembre 2021; - l’avvenuto assolvimento da parte della ASL dell’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, mediante il formale invito, rivolto all’interessato, a produrre documentazione circa i propri obblighi (od esoneri) di tipo vaccinale; - l’insussistenza dei profili di incostituzionalità del richiamato art. 4 d.l. n. 44/2021, nella parte in cui si prescrive il predetto obbligo vaccinale a carico dei medici, come evidenziato da Consiglio di Stato, Sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045, e dal TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10 settembre 2021, n. 261. 1.5 - Mediante i motivi di appello – cui si oppongono la Regione Lazio, la quale chiede anche di essere estromessa dal giudizio per mancanza di legittimazione passiva, e la ASL Roma 6 – l’originario ricorrente allega gli errori in fatto ed in diritto asseritamente inficianti la sentenza appellata, della quale chiede la riforma in vista del conclusivo accoglimento del ricorso di primo grado. 2. - Deve preliminarmente disporsi l’estromissione dal giudizio della Regione Lazio, non costituendo oggetto dello stesso atti da essa promananti: ciò in accoglimento della relativa eccezione, formulata già dinanzi al giudice di primo grado e sulla quale questo ha omesso di pronunciarsi. 3. – Nel merito, deve rilevarsi che l’art. 4, comma 1, d.l. n. 44 del 1° aprile 2021, conv. in legge n. 76 del 28 maggio 2021, rubricato “Disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SARS-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario”, ha introdotto specifiche misure finalizzate a garantire che l’esercizio delle funzioni sanitarie da parte dei relativi operatori avvenga in modo da minimizzare il rischio per la salute dei pazienti che entrino con essi in contatto, con particolare riguardo a quelli affetti da patologie tali da renderli particolarmente vulnerabili al rischio infettivo ed alle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla contrazione della malattia respiratoria acuta denominata Covid-19. 3.1 - Il legislatore ha previsto, in particolare, che “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali sono obbligati a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2. La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”. 3.2 - L’operatività di tali misure, inizialmente prevista “fino alla completa attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178” (ovvero del “piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, finalizzato a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale”) “e comunque non oltre il 31 dicembre 2021” (termine ad quem che, ai sensi dei commi 6 e 9, condizionava altresì l’efficacia della sospensione “dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”, conseguente all’accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale e comportante ai sensi del comma 9, laddove non fosse stato possibile adibire il lavoratore “a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio”, la non spettanza della retribuzione e di “altro compenso o emolumento, comunque denominato”), è stata successivamente estesa – includendo nell’obbligo la “somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario” – fino al “termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021” (cfr. art. 4, comma 5, come sostituito dall’art. 1, comma 1, lett. b) d.l. n. 172 del 26 novembre 2021). 3.3 - Deve altresì rilevarsi che la disciplina vigente ratione temporis prevedeva che, per la suindicata categoria di lavoratori, la vaccinazione non fosse obbligatoria “solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale” (art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021), mentre, al fine di garantire la concreta operatività dell’obbligo de quo, era previsto che: - entro cinque giorni dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto, ciascun Ordine professionale territoriale competente trasmettesse l’elenco degli iscritti alla regione o alla provincia autonoma in cui aveva sede (comma 3); - entro dieci giorni dalla data di ricezione degli elenchi di cui al comma 3, le regioni e le province autonome, per il tramite dei servizi informativi vaccinali, verificassero lo stato vaccinale di ciascuno dei soggetti rientranti negli elenchi, segnalando all’azienda sanitaria locale i nominativi dei soggetti che non risultassero vaccinati (comma 4); - l’azienda sanitaria locale, ricevuta la segnalazione di cui sopra, invitasse l’interessato a produrre, entro cinque giorni dalla ricezione dell’invito, la “documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione o l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1” (comma 5, primo periodo); - l’azienda sanitaria locale, in caso di mancata presentazione della documentazione di cui sopra, invitasse “formalmente l’interessato a sottoporsi alla somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2, indicando le modalità e i termini entro i quali adempiere all’obbligo di cui al comma 1” (comma 5, secondo periodo); - l’azienda sanitaria locale, decorsi i termini per l’attestazione dell’adempimento dell’obbligo vaccinale, accertasse l’inosservanza dell'obbligo vaccinale e, previa acquisizione delle ulteriori eventuali informazioni presso le autorità competenti, ne desse immediata comunicazione scritta all’interessato, al datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza (comma 6, primo periodo); - l’adozione dell’atto di accertamento da parte dell’azienda sanitaria locale determinasse l’effetto sospensivo innanzi indicato (comma 6, secondo periodo). 3.4 - Deve precisarsi che l’art. 1, comma 1, lett. b) d.l. n. 172/2021 ha innovato la disciplina suindicata, oltre che per i profili innanzi indicati, con riferimento all’Ente deputato a verificare l’assolvimento dell’obbligo vaccinale, all’adozione dell’atto di accertamento dell’inadempimento (individuato nell’Ordine professionale territorialmente competente), alla espressa qualificazione di tale atto come avente “natura dichiarativa” ed alla previsione secondo cui l’atto di accertamento “determina l’immediata sospensione dall’esercizio delle professioni sanitarie” e non solo, come nel regime previgente, “dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”, laddove l’adibizione “a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” è prevista dal vigente comma 7 nei soli confronti dei soggetti esentati dall’obbligo vaccinale. 4. - L’originario ricorrente lamentava appunto - con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, e reiterando le doglianze con il presente atto di appello - che, nonostante avesse ottemperato alle menzionate disposizioni di legge, quanto in particolare agli adempimenti connessi all’applicazione della clausola di esonero dall’obbligo di vaccinazione, era stato nondimeno destinatario dell’impugnato atto di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo medesimo e della conseguente misura sospensiva del servizio. 4.1 - Dalla documentazione in atti si evince infatti che: - con nota prot. n. -OMISSIS-, la ASL Roma 6, rilevato che il ricorrente non risultava essere stato sottoposto a vaccinazione né si era prenotato allo scopo, lo invitava a trasmettere, entro cinque giorni, “documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione” ovvero “documentazione attestata dal MMG che giustificano l’omissione o il differimento della vaccinazione”, ai sensi dell’art. 44, comma 2, d.l. cit.; - il ricorrente trasmetteva alla ASL certificazione in data 6 settembre 2021, a firma del dott. -OMISSIS-, con la quale: “Si attesta che … risulta essere soggetto Esente alla vaccinazione anti SARS-CoV-2. Risulta, infatti, affetto da patologie che non sono oggetto di sperimentazione da parte di alcuna delle Case Farmaceutiche produttrici di vaccini anti-Covid – Tale attestazione viene rilasciata previa valutazione anamnestica dichiarata dal Paziente rispetto alla quale deve trovare rigorosa applicazione il principio di precauzione anche in virtù dell’approvazione meramente condizionata dei vaccini anti Covid”; - con nota prot. n. -OMISSIS-, la ASL Roma 6 comunicava che la certificazione prodotta “non è conforme alle modalità specificate al comma 2 dell’art. 4 del decreto Legge 1° Aprile 2021, n. 44 (specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale) e, pertanto, non è idonea all’omissione e/o al differimento della vaccinazione obbligatoria”, invitando il ricorrente a sottoporsi alla somministrazione del vaccino, per la quale indicava luogo, data ed orario di presentazione; - il ricorrente trasmetteva alla ASL una seconda certificazione, a firma del medesimo dott. -OMISSIS- e recante la data dell’8 settembre 2021, con la quale: “Si attesta che … risulta essere soggetto Esente alla vaccinazione anti SARS-COV:2 ai sensi e per gli effetti dell’art. 4 co. 2 del D.L. 44/2021. Infatti in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, risulta affetto da patologie che non sono oggetto di sperimentazione da parte di alcuna delle Case Farmaceutiche produttrici di vaccini anti Covid e pertanto la mancata sperimentazione costituisce accertato pericolo per la salute del paziente essendo tale la mancata sperimentazione specifica. La documentazione attestante le condizioni cliniche e la patologia del paziente, non esplicitata per motivi di privacy, è stata esibita dal paziente e l’odierna attestazione viene rilasciata previa valutazione anamnestica dichiarata dal Paziente rispetto alla quale deve trovare rigorosa applicazione il principio di precauzione anche in virtù dell'approvazione meramente condizionata dei vaccini anti Covid”; - con nota prot. n. -OMISSIS-, la ASL Roma, richiamata la precedente nota prot. n. -OMISSIS-e constatata la mancata presentazione del ricorrente ai fini della somministrazione vaccinale, accertava, ai sensi dell’art. 4, comma 6, d.l. n. 44/2021, “l’inosservanza dell’obbligo vaccinale, con conseguente sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”; - con nota prot. n. -OMISSIS-, la ASL Roma, ai sensi dell’art. 4, comma 9, d.l. cit., disponeva la “sospensione del rapporto e dell’attività convenzionale del dott. M.A. – Medico di Medicina Generale, con decorrenza immediata, fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021, senza retribuzione né altro compenso o emolumento”; - con istanza trasmessa in data 14 settembre 2021, il ricorrente chiedeva alla ASL Roma 6 di disporre l’annullamento in autotutela della nota prot. n. -OMISSIS-(recte, -OMISSIS- - con istanza trasmessa in data 15 settembre 2021, il ricorrente chiedeva alla ASL Roma 6 di disporre l’annullamento in autotutela della nota prot. n. -OMISSIS-del 14 settembre 2021; - con le note prot. n. -OMISSIS-, la ASL Roma respingeva le suddette istanze di autotutela. 5. - Ciò premesso, censurando il passaggio della sentenza appellata in cui si attribuiscono “alle ASL compiti di verifica (circa la correttezza dell’operato dei medici certificatori)”, deduce in primo luogo l’appellante che dalle norme citate si evince che la ASL non è assolutamente deputata al controllo circa la correttezza dell’operato dei medici certificatori, né è legittimata a richiedere la documentazione medica attestante le ragioni dell’esenzione, dovendo limitarsi a ricevere l’attestazione del medico di medicina generale e prenderne atto. 5.1 - Il motivo non è meritevole di accoglimento. 5.2 - Deve in primo luogo osservarsi che le deduzioni attoree, alla luce dell’obiettivo finale del gravame (inteso all’annullamento dell’atto impugnato in primo grado più che alla mera contestazione dell’ordito argomentativo della sentenza appellata) e del carattere devolutivo dell’appello (che affida alla cognizione del giudice di secondo grado la res iudicanda nella sua essenza originaria, così come sostanziata, in particolare, dalle ragioni poste dall’Amministrazione a fondamento del provvedimento impugnato), devono essere apprezzate - nella loro pertinenza e fondatezza - in relazione al modus procedendi seguito in concreto dall’Amministrazione. Ebbene, come si evince dalla ricostruzione che precede, questa non ha fatto discendere l’accertamento della inosservanza dell’obbligo vaccinale da alcuna pretesa di “controllo circa la correttezza dell’operato dei medici certificatori”, né dalla mancata trasmissione della “documentazione medica attestante le ragioni dell’esenzione”, quanto piuttosto dalla rilevata “non conformità” della certificazione trasmessa dal ricorrente “alle modalità specificate al comma 2 dell’art. 4 del decreto Legge 1° Aprile 2021, n. 44 (specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale)”: l’Amministrazione, in tal modo, non ha affatto trasceso i limiti posti ai suoi compiti dal legislatore e connessi, secondo le stesse allegazioni attoree, alla ricezione/presa d’atto dell’attestazione del medico di medicina generale, atteso che anche il mero atto di “accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale”, demandato dalla disciplina vigente ratione temporis alla ASL, sottende comunque la verifica del perfezionamento della relativa fattispecie, comprensiva - in negativo - della sussistenza di eventuali condizioni derogatorie rappresentate dall’interessato, così come definite dal comma 2, alle quali non potrebbe non essere ricondotta la corrispondenza della certificazione avente ad oggetto un “accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate” - da un punto di vista formale e contenutistico - al relativo modello legale. 6. - Con ulteriore spunto critico, la parte appellante deduce che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado, nel senso che essa avrebbe prestato acquiescenza alla comunicazione del 7 settembre 2021, costituente un provvedimento di rigetto della (prima) ”istanza di esonero”, essa integra solo “una forma di preavviso di rigetto con cui si comunica l’inidoneità del primo certificato”, cui ha fatto seguito il tempestivo invio di una nuova attestazione rispondente ai requisiti previsti dalla normativa. 6. 1- La deduzione è priva di decisivo rilievo ai fini dell’accoglimento della domanda attorea, dal momento che, anche eventualmente riconoscendo alla richiamata nota della ASL prot. n. -OMISSIS- carattere meramente endo-procedimentale (seguendo la ricostruzione pubblicistica che il giudice di primo grado ha fatto della fattispecie in esame; ma su tale punto si dirà meglio infra), dalla pretesa “acquiescenza” che il ricorrente avrebbe manifestato alla stessa il T.A.R. non ha fatto derivare alcuna significativa conseguenza atta a pregiudicare la posizione processuale e/o sostanziale del ricorrente. 7. - L’appellante prosegue censurando l’affermazione, ugualmente recata dalla sentenza appellata, secondo cui l’Amministrazione avrebbe preso in esame la seconda “istanza” (recte, certificazione), avendola “sostanzialmente rigettata con due coeve note del 23 settembre 2021 della ASL Roma 6”. Deduce in senso contrario l’appellante che il secondo certificato non è mai stato esaminato dalla ASL, nemmeno in occasione delle due istanze di revoca formulate successivamente. 7.1 - Nemmeno tale profilo di doglianza può essere accolto. 7.2 - Svolgendo anche le presenti considerazioni nel segno della lettura procedimentale che il giudice di primo grado ha inteso offrire dell’attività demandata alla P.A. dalle norme in esame, deve osservarsi che la nota prot. n. -OMISSIS-fa discendere dalla rilevata inidoneità della certificazione prodotta al fine di dimostrare la sussistenza delle condizioni di esonero di cui all’art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021 un ben preciso effetto dispositivo, relativo all’invito (ma, con maggiore aderenza alla natura obbligatoria dell’adempimento prescritto al destinatario ed alle conseguenze derivanti dalla sua inosservanza, meglio sarebbe definire “ordine”) a presentarsi al centro vaccinale per la somministrazione del vaccino. 7.3 - Del resto, siffatta ricostruzione della valenza della nota suindicata nell’ambito della complessiva dinamica procedimentale risponde al disegno normativo di: 1) definire in linea generale il perimetro soggettivo dell’obbligo vaccinale, individuandone i destinatari negli “esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali”; 2) consentire agli interessati, pur appartenenti alle suindicate categorie generali, di dimostrare la sussistenza delle condizioni di esonero, ugualmente contemplate in termini puntuali e rigorosi dal legislatore, attraverso la produzione dell’apposita certificazione; 3) attribuire all’Amministrazione (nella specie, la ASL territorialmente competente) il compito di concretizzare l’obbligo vaccinale, affermandone l’imputazione in capo all’operatore sanitario interessato, previo accertamento (mediato dalla verifica di idoneità della certificazione all’uopo prodotta) della insussistenza delle medesime condizioni di esonero, ed indicando le modalità (spaziali e temporali) per porre in essere il “ravvedimento”; 4) far constatare, mediante specifico atto di “accertamento”, la mancata osservanza, nonostante la “sollecitazione” in tal modo rivolta all’interessato, dell’obbligo vaccinale; 5) ricollegare all’atto di accertamento l’effetto sospensivo dal servizio. Ebbene, deriva dalla descritta articolazione procedimentale che alla constatazione dell’obbligo vaccinale è deputato un atto avente una precisa portata dispositiva (ergo, nell’ottica seguita, provvedimentale) e, quindi, immediatamente pregiudizievole (cfr. sub 3 della sequenza), con la conseguente necessità della sua immediata impugnazione, ove si intenda far valere dall’interessato l’erroneità dell’affermazione (in concreto) dell’obbligo vaccinale. La ricaduta di tale ricostruzione, ai fini della presente controversia, è nel senso che sarebbe stato onere del ricorrente contestare immediatamente la nota prot. n. -OMISSIS-, onde interrompere la sequenza procedimentale che è approdata alla sua sospensione dal servizio. 7.4 - Non si intende negare che la “regolarizzazione” della certificazione inidonea avrebbe ben giustificato una istanza di autotutela da parte dell’interessato, intesa a far valere la sussistenza delle condizioni di esonero dall’obbligo vaccinale: istanza anche implicitamente formulabile, mediante la mera trasmissione di un certificato conforme allo schema normativo. Tuttavia, a prescindere dal fatto che le istanze di autotutela formalmente presentate dall’appellante in data 14 e 15 settembre 2021 hanno avuto ad oggetto le successive note prot. n. -OMISSIS- e prot. n. -OMISSIS-del 14 settembre 2021 (finalizzate, rispettivamente, all’accertamento della inosservanza di un obbligo vaccinale ormai cristallizzato – per effetto della nota prot. n. -OMISSIS-– in capo al medesimo ed alla applicazione nei suoi confronti della misura sospensiva), e che l’Amministrazione ha espressamente respinto le suddette istanze con le richiamate note prot. n. -OMISSIS-, non si ritiene fondata la doglianza intesa a lamentare che, anche con queste ultime, non risulta che l’Amministrazione abbia preso in considerazione la (seconda) certificazione dell’8 settembre 2021. Deve infatti osservarsi che questa non si rivela idonea ad inficiare la valutazione di inidoneità formulata dalla ASL con la nota prot. n. -OMISSIS-, con la conseguente non predicabilità in capo alla stessa Amministrazione dell’obbligo di prenderla specificamente in esame ai fini dell’eventuale riesame delle sue precedenti determinazioni. Deve all’uopo ricordarsi che la valutazione di non idoneità della prima certificazione era ancorata dalla ASL alla sua “non conformità modalità specificate al comma 2 dell’art. 4 del decreto Legge 1° Aprile 2021, n. 44 (specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale)”. Deve altresì ribadirsi che la pertinente disposizione (art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021) ricollega l’esonero dall’obbligo vaccinale al solo “caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”. Ebbene, poiché la norma, nella sua formulazione testuale, attribuisce al medico di medicina generale il compito di attestare l’”accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate”, ne deriva che di tali elementi costitutivi della fattispecie di esonero deve darsi espressamente atto nella certificazione all’uopo rilasciata: l’”attestazione” delle “specifiche condizioni cliniche documentate”, quindi, non consiste nella (ed il relativo compito non può quindi ritenersi assolto mediante una) mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo”, essendo necessario, ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, che delle “specifiche condizioni cliniche documentate” sia dato riscontro nella certificazione, unitamente al “pericolo per la salute” dell’interessato che il medico certificatore ritenga di ricavarne. Del resto, ove così non fosse, sarebbe neutralizzato qualsiasi potere di controllo – anche nella forma “minima” e “mediata” della esaustività giustificativa della certificazione, la quale implica e sottende la possibilità di vagliare, quantomeno secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista, che la parte appellante esclude essere esercitabile dalla ASL – spettante all’Amministrazione, restando devoluta al medico certificatore ogni decisione in ordine alla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale: esito interpretativo che, tuttavia, risulta dissonante rispetto alla pregnanza – in termini sostanziali (con il riferimento alle “specifiche condizioni cliniche” ed al “pericolo per la salute”) e probatori (allorché si richiede che le prime siano “documentate” ed il secondo “accertato”) delle condizioni esoneratrici, delineate nei termini esposti dal legislatore. Ebbene, non risulta che la seconda certificazione prodotta dall’appellante risponda alla suddetta previsione, non indicando - nella loro essenza - le “specifiche condizioni cliniche documentate”, ma genericamente dichiarando che l’interessato è affetto da “patologie che non sono oggetto di sperimentazione da parte di alcuna delle Case Farmaceutiche produttrici di vaccini anti Covid e pertanto la mancata sperimentazione costituisce accertato pericolo per la salute del paziente essendo tale la mancata sperimentazione specifica”. 7.5 - A tale riguardo, non si ritiene di condividere quanto sostenuto dall’appellante, a sostegno dell’assunto secondo cui la documentazione comprovante le specifiche condizioni cliniche, da cui sarebbe desumibile il pericolo per la salute del vaccinando, dovrebbe essere prodotta al solo medico certificatore e non alla ASL. In primo luogo, invero, deve ribadirsi che il controllo demandato alla ASL concerne pur sempre la certificazione del medico di medicina generale, la quale però, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della ASL, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero. In secondo luogo, la parte appellante fonda la sua soluzione interpretativa sull’art. 44, comma 5, d.l. n. 44/2021, laddove prevede disgiuntamente che la ASL inviti l’operatore sanitario che non risulti essere stato vaccinato a produrre “la documentazione comprovante l’effettuazione della vaccinazione o l’omissione o il differimento della stessa ai sensi del comma 2, ovvero la presentazione della richiesta di vaccinazione o l’insussistenza dei presupposti per l’obbligo vaccinale di cui al comma 1”, per cui – sostiene l’appellante – “la documentazione che deve essere prodotta è solo quella comprovante la vaccinazione e non certo quella posta a base dell’attestazione prevista dal comma 1”. Deve in senso contrario rilevarsi che, anche ammessa la validità astratta dell’argomento, la sua formulazione non rispecchia il contenuto della disposizione, atteso che la previsione concernente le condizioni dell’esonero - con il connesso onere documentale a carico dell’interessato - è recata dal comma 2 dell’art. 44 (e non, come sostenuto dall’appellante, dal comma 1, che concerne invece, come già detto, i presupposti generali soggettivi dell’obbligo vaccinale). 7.6 - Aggiunge l’appellante che una diversa soluzione interpretativa finirebbe per “aggravare spropositatamente l’iter procedurale di accertamento dell’obbligo vaccinale, richiedendo un primo intervento di accertamento al medico di medicina generale e poi un ulteriore intervento valutativo dell’ASL”. Nemmeno tale considerazione di carattere funzionale si presenta condivisibile. Deve infatti osservarsi che la finalità semplificatrice delle modalità di accertamento della sussistenza delle condizioni di esonero dell’obbligo vaccinale, e la connessa realizzazione di un punto di equilibrio con la primaria responsabilità attribuita alla ASL in ordine alla efficacia del piano vaccinale (il quale sarebbe compromesso in uno dei suoi gangli principali, laddove la tutela anti-pandemica, affidata allo strumento vaccinale, fosse indebolita proprio laddove l’agente infettivo ha dimostrato maggiore virulenza e capacità mortifera, ovvero nei riguardi dei soggetti “fragili” perché affetti da patologie preesistenti e/o concomitanti), è appunto stata realizzata dal legislatore mediante l’attribuzione al medico di medicina generale di un compito di “filtro” delle “istanze” di esonero, ferma la responsabilità della ASL di verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata: con il corollario che non di inutile “duplicazione” si tratta, atteso il contatto “diretto” del medico di medicina generale con il paziente, e quello secondario ed indiretto (ovvero mediato dalla certificazione del medico di medicina generale) della ASL. 7.7 - In conclusione, deve osservarsi che, sebbene la sentenza appellata presti il fianco alle critiche di parte appellante, laddove rileva che il medesimo non ha fornito alla ASL (né prodotto in giudizio) la documentazione medica posta a fondamento della richiesta di esonero dall’obbligo vaccinale, nondimeno il motivo posto dall’Amministrazione a giustificazione della ricusazione della richiesta medesima, connesso come si è detto alla inidoneità della certificazione all’uopo presentata, si sottrae alla portata invalidante delle deduzioni attoree. 8. - Nel prosieguo dell’appello, il suo promotore censura la sentenza appellata laddove ha escluso l’opponibilità di motivi di riservatezza all’esigenza di produzione della documentazione medica attestante la patologia atta a giustificare l’applicazione della clausola di esonero, deducendo che in primo grado aveva evidenziato come la patologia posta a base dell’accertamento del medico attestatore non dovesse essere indicata nel certificato per ragioni di privacy e come tale assunto trovasse fondamento nella circolare del Ministero della Salute che specifica le modalità di redazione dell’attestazione nel caso di esenzione dall’obbligo vaccinale prevista dagli artt. 9 - 9 septies del d.l. n. 52/2021. 8.1 - La parte appellante, premesso che le suddette norme richiamano espressamente il certificato di esenzione “sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della Salute” e che nella predetta circolare (pagina 4) si precisa che “i certificati non possono contenere altri dati sensibili del soggetto interessato (es. motivazione clinica della esenzione)”, deduce che tale criterio non potrebbe non valere per l’analogo certificato medico di esenzione che deve essere redatto dal medico di medicina generale in forza dell’art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021. 8.2 - Essa censura infine la sentenza appellata laddove, per respingere la doglianza, ha da un lato evidenziato che “il suddetto atto generale si applica esclusivamente – per stessa ammissione della difesa di parte ricorrente in occasione della odierna camera di consiglio – per l’accesso ai servizi ed alle attività di cui all’art. 3, comma 1, del DL 23 luglio 2021, n. 105 (il quale riguarda non i medici o le strutture sanitarie ma soltanto luoghi di culto, di ristorazione, di svago e di cultura, etc.)”, dall’altro lato, che “quand’anche si volesse ammettere un simile obbligo (omissione motivazione clinica nella certificazione di esonero vaccinale anche per il personale sanitario), ciò non toglie che la “documentazione comprovante” le condizioni cliniche dell’interessato debba comunque essere fornita agli organi competenti alla verifica ed alla vigilanza circa l’operato dei medesimi medici di medicina generale. Obbligo questo si ripete prescritto dall’art. 4, comma 5, del DL n. 44 del 2021, e non altrimenti derogato – non avendone peraltro la capacità – dalla richiamata circolare del 4 agosto 2021”. Deduce in senso critico l’appellante che la ASL non è investita del compito di vigilanza sull’operato dei medici di medicina generale, dovendo essa solo verificare che l’attestazione concernente le condizioni di esonero sia stata rilasciata. 8.3 - La doglianza non può essere accolta. 8.4 - In primo luogo, è processualmente dubbio che possano avere ingresso nel giudizio, quali profili di possibile illegittimità del provvedimento impugnato in primo grado, deduzioni che, come riconosciuto dal T.A.R., sono state operate dalla parte ricorrente con semplice memoria non notificata alla controparte. 8.5 - In secondo luogo, la parte appellante non formula alcuna specifica censura in relazione al passaggio motivazionale col quale il T.A.R. ha posto in rilievo la diversità tra la fattispecie oggetto di giudizio e quella cui si riferisce la richiamata circolare. 8.6 - Infine, a rimarcare la differenza tra le medesime fattispecie – ed escludere quindi l’invocata applicazione analogica delle indicazioni fornite con la suddetta circolare a quella oggetto del presente giudizio – è sufficiente osservare che le menzionate disposizioni si limitano a prevede che le disposizioni relative al possesso della certificazione verde Covid-19 non si applicano ai soggetti esentati dalla somministrazione del vaccino “sulla base di idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della Salute”, senza quindi prescrivere, a differenza dell’art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021, gli stringenti requisiti che la certificazione da esso prevista deve possedere al fine di assolvere alla sua funzione esoneratrice. 9. - Le ulteriori censure di parte appellante si prefiggono di evidenziare la rispondenza al paradigma normativo della (seconda) certificazione prodotta in data 8 settembre 2021 e che la ASL non l’ha presa in considerazione, omettendo anche di inviare una nuova convocazione ai sensi del comma 5, così come aveva fatto dopo aver ricevuto il primo certificato medico: essa deduce quindi che la ASL avrebbe dovuto inviare un (nuovo) preavviso di rigetto con il quale dovevano essere evidenziati i motivi per cui l’attestazione non sarebbe stata idonea all’esenzione. 9.1 - Nessuno dei profili di censura così sintetizzati è meritevole di accoglimento. 9.2 - Per quanto concerne la validità della seconda certificazione ed all’obbligo dell’Amministrazione di esaminarla, non può che rinviarsi ai rilievi già in precedenza formulati (cfr. parr. 7.4 e ss). 9.3 - Per quanto concerne invece la mancata comunicazione di un nuovo preavviso di rigetto, a prescindere dalla mancata contestazione della sentenza appellata laddove afferma l’estraneità dell’adempimento ex art. 10 bis l. n. 241/1990 al procedimento in esame, attesa l’iniziativa officiosa del suo avvio, deve osservarsi che, anche alla luce della specifica normativa in esame, la nota prot. n. -OMISSIS-, che ad avviso della parte appellante integrerebbe tale adempimento comunicativo, non ha affatto natura meramente informativo/endo-procedimentale, né è finalizzata alla attivazione del contraddittorio procedimentale, ma, come già evidenziato, definisce una specifica quanto autonoma fase del procedimento complessivo. 10. - La successiva sezione dell’atto di appello si prefigge espressamente di “richiamare integralmente i motivi di impugnazione indicati nel ricorso e nei motivi aggiunti di fatto assorbiti dalla dichiarazione di improcedibilità oggi impugnata… previa rimessione in termini ovvero accertamento del mancato decorso dei termini per impugnare, della nota del MISE del 19.05.2010 e della nota prot. -OMISSIS-, nonché nella richiesta di risarcimento dei danni, per i seguenti”. 10.1 - L’appello costituisce evidentemente frutto, in parte qua, di un errore materiale, non recando la sentenza appellata alcuna statuizione di improcedibilità né essendo stati formulati in primo grado motivi aggiunti, tantomeno in relazione agli atti innanzi menzionati. 10.2 - In ogni caso, i primi motivi riproposti costituiscono la mera reiterazione di quelli corrispondenti formulati in primo grado, i quali sono stati espressamente esaminati, sebbene in chiave reiettiva, dal T.A.R., le cui conclusioni sono state condivise dalla Sezione, per le ragioni innanzi illustrate. 10.3 - Meritevole di specifico esame da parte del giudice di appello appare invece il motivo, parimenti riproposto ed in ordine al quale non si rinviene, nella sentenza appellata, alcuna espressa statuizione reiettiva, inteso a far valere l’illegittimità costituzionale delle norme de quibus laddove, in asserita violazione dell’art. 3 Cost., prevedono l’imposizione di un obbligo vaccinale solo per la categoria degli appartenenti alle professioni sanitarie, laddove, per le altre categorie professionali (che sono parimenti a contatto diretto con il pubblico, come a titolo esemplificativo quella del personale scolastico), le pertinenti disposizioni prevedono l’obbligo del cd. Green Pass, che consente la scelta tra il sottoporsi alla vaccinazione ovvero l’effettuazione di un tampone che consenta di verificare l’impossibilità di contagiare il prossimo. 10.4 - Aggiunge la parte appellante che costituisce invero fatto notorio e non contestato che i soggetti vaccinati possano comunque contrarre la malattia (seppure in forma meno forte) così come che i vaccinati possano trasmettere la malattia, per cui, se il fine principale dell’attuale normativa sull’obbligatorietà del vaccino per gli esercenti la professione sanitaria è la tutela della collettività, sarebbe stato più logico imporre per le professioni sanitarie l’obbligo del tampone ogni 48 ore ovvero l’obbligo del cd. Green Pass. 10.5 - I dubbi di illegittimità costituzionale in tal modo prospettati dall’appellante appaiono alla Sezione manifestamente infondati. 10.6 - Deve muoversi dal rilievo che, anche alla stregua delle deduzioni attoree, il tampone ha una prevalente finalità diagnostica, essendo finalizzato ad accertare l’avvenuta infezione da Sars-CoV-2, mentre il vaccino persegue anche una funzione preventiva, in quanto finalizzato a impedire l’infezione e comunque l’evoluzione patologica della stessa, in particolare nelle forme particolarmente gravi con la quale si manifesterebbe in caso di mancata somministrazione. Ebbene, già tale rilievo pone in evidenza che, dal punto di vista del sindacato di ragionevolezza (nella particolare angolazione relativa alla sussistenza tra le fattispecie esaminate di profili differenziatori atti a giustificate il trattamento normativo non uniforme delle stesse), la diversa efficacia del vaccino rispetto al tampone “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza” (cfr. art. 4, comma 1, d.l. n. 44/2021): basti osservare che, mentre il tampone da eseguire con cadenza di 48 ore, come dedotto dalla parte appellante, espone comunque al pericolo di contagio (e conseguente diffusione virale) nel pur breve periodo intermedio che intercorre tra l’uno e l’altro, il vaccino garantisce una copertura anti-virale, nel lasso temporale della sua efficacia, ininterrotta, non potendo addursi in senso contrario, e sempre nell’ottica del suindicato sindacato di ragionevolezza (delle scelte legislative in subiecta materia), una generica permanente esposizione all’infezione del soggetto vaccinato né il connesso persistente pericolo di contagio, in mancanza di dati precisi in ordine alla entità del rischio dedotto, anche in termini di intensità del pericolo della trasmissione virale da parte dei soggetti vaccinati. In siffatto contesto, inteso a rimarcare la distinta efficacia preventiva del tampone e del vaccino, non risulta sfornita di giustificazione la diversità dello strumento utilizzato dal legislatore al fine di garantire il contenimento della trasmissione virale, a seconda della tipologia di personale, attesa la maggiore potenziale fragilità dei soggetti che accedono alle prestazioni sanitarie, la quale giustifica l’adozione a fini preventivi di misure ritenute maggiormente efficaci (anche se maggiormente invasive nei confronti delle libertà dell’operatore interessato). 10.7 - Ai rilievi svolti deve aggiungersi quello inteso ad evidenziare che la previsione dell’obbligo vaccinale risponde anche ad una finalità protettiva nei confronti dello stesso operatore sanitario, la quale non può che essere maggiormente avvertita in un contesto lavorativo caratterizzato, a differenza di quello scolastico, da un maggiore grado di esposizione al rischio infettivo, già in ragione della più intensa variabilità dell’utenza (rispetto a quella scolastica). 11. - Infine, deve essere considerata inammissibile, nella sua formulazione meramente reiterativa del corrispondente motivo di primo grado, la censura intesa a lamentare il contrasto delle norme in questione con il parametro costituzionale di cui all’art. 32 Cost., essendosi il giudice di primo grado espressamente pronunciato sul punto (sebbene mediante il richiamo dei precedenti giurisprudenziali che hanno affrontato funditus la questione prospettata) e non essendo stata attinta la sentenza appellata, in parte qua, da specifiche censure. 12. – L’appello, in conclusione, deve essere complessivamente respinto. 13. – L’esito della controversia giustifica la condanna della parte appellante alla refusione delle spese di giudizio a favore della Asl Roma 6, nella complessiva misura di € 2.000,00, oltre oneri di legge. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), previa estromissione dal giudizio della Regione Lazio, respinge l’appello. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Condanna la parte appellante alla refusione delle spese di giudizio a favore della Asl Roma 6, nella complessiva misura di € 2.000,00, oltre oneri di legge. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati: Massimiliano Noccelli, Presidente FF Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere Massimiliano Noccelli, Presidente FF Giovanni Pescatore, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Ezio Fedullo, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Vaccino – Esenzione – Sindacabilità – Asl che accerta l’inottemperanza all’obbligo vaccinale -Limiti.   ​​​​​​​            Il medico di medicina generale che certifica il pericolo di un proprio paziente, che svolge la professione sanitaria, a somministrare il vaccino anti covid-19 deve indicare la patologia di cui soffre l’interessato, e ciò in quanto il controllo demandato alla ASL – responsabile a verificare l’idoneità della certificazione all’uopo rilasciata - concerne pur sempre la certificazione del medico di medicina generale, la quale però, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della ASL, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero (1).   (1) Ha ricordato la sezione che l’art. 4, comma 2, d.l. n. 44 del 2021  ricollega l’esonero dall’obbligo vaccinale Covid-19 al solo “caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale”. Ebbene, poiché la norma, nella sua formulazione testuale, attribuisce al medico di medicina generale il compito di attestare l’”accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate”, ne deriva che di tali elementi costitutivi della fattispecie di esonero deve darsi espressamente atto nella certificazione all’uopo rilasciata: l’”attestazione” delle “specifiche condizioni cliniche documentate”, quindi, non consiste nella (ed il relativo compito non può quindi ritenersi assolto mediante una) mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo”, essendo necessario, ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, che delle “specifiche condizioni cliniche documentate” sia dato riscontro nella certificazione, unitamente al “pericolo per la salute” dell’interessato che il medico certificatore ritenga di ricavarne. Del resto, ove così non fosse, sarebbe neutralizzato qualsiasi potere di controllo – anche nella forma “minima” e “mediata” della esaustività giustificativa della certificazione, la quale implica e sottende la possibilità di vagliare, quantomeno secondo un parametro “minimo” di “attendibilità”, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista, che la parte appellante esclude essere esercitabile dalla ASL – spettante all’Amministrazione, restando devoluta al medico certificatore ogni decisione in ordine alla (in)sussistenza dell’obbligo vaccinale: esito interpretativo che, tuttavia, risulta dissonante rispetto alla pregnanza – in termini sostanziali (con il riferimento alle “specifiche condizioni cliniche” ed al “pericolo per la salute”) e probatori (allorché si richiede che le prime siano “documentate” ed il secondo “accertato”) delle condizioni esoneratrici, delineate nei termini esposti dal legislatore.  
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/e-legittima-la-sospensione-dal-servizio-del-sanitario-non-sottopostosi-al-vaccino-per-il-covid.19
E’ legittima la sospensione dal servizio del sanitario non sottopostosi al vaccino per il Covid.19
N. 06379/2021 REG.PROV.CAU. N. 10000/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 10000 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Francesco Scifo, Linda Corrias, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ordine dei Tecnici Sanitari di Radiologia Medica e delle Professioni Sanitarie Tecniche, Ordine delle Professioni Infermieristiche di Torino, Azienda Sanitaria Locale Città di Torino, Azienda Ospedaliera e Universitaria Città della Scienza e della Salute, non costituiti in giudizio; per la riforma del decreto cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima) n. 00473/2021, reso tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell’art. 56 cod. proc. amm.; Considerato che l’appello avverso il decreto monocratico cautelare adottato dal Presidente del Tribunale amministrativo regionale, a fronte del testuale disposto normativo di cui all’articolo 56 c.p.a., può essere considerato ammissibile nei soli casi del tutto eccezionali di provvedimento che abbia solo veste formale di decreto ma contenuto sostanzialmente decisorio; Ritenuto che tali casi di provvedimenti monocratici impugnabili aventi solo veste formale di decreto o “decreti meramente apparenti” si configurano esclusivamente nel caso in cui la decisione monocratica in primo grado non abbia affatto carattere provvisorio ed interinale ma definisca o rischi di definire in via irreversibile la materia del contendere dovendo in tali casi intervenire il giudice di appello per restaurare la corretta dialettica fra funzione monocratica e funzione collegiale in primo grado; Considerato che l’appello avverso il decreto monocratico debba ritenersi ammissibile perché coinvolge profili attinenti i diritti fondamentali della persona umana quali il diritto al lavoro e il diritto alla salute; Considerato che i vaccini per i quali è previsto l'obbligo oggi contestato presentato tutte le necessarie autorizzazioni rilasciate dalle preposte Autorità internazionali e nazionali; Considerato che, come già affermato da questo Consiglio e nei limiti della cognizione propria di questa fase cautelare provvisoria, le verifiche scientifiche e i procedimenti amministrativi previsti per il rilascio delle dette autorizzazioni risultano conformi alla normativa e approfonditi comunque al punto da fornire, anche in un'ottica di rispetto del principio di precauzione, sufficienti garanzie - allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, unico possibile metro di valutazione - in ordine alla loro efficacia e sicurezza tali da far escludere l'irrazionalità della scelta legislativa di prevedere l'obbligatorietà della vaccinazione di talune categorie di lavoratori a fronte della grave minaccia alla salute pubblica determinata dalla diffusività globale del virus, situazione che ha indotto l'Organizzazione mondiale della sanità a dichiarare prima lo stato di "emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale" e poi quello di "pandemia" con conseguente dichiarazione dello stato di emergenza sul territorio nazionale da parte del Consiglio dei Ministri; Considerato che, nel bilanciamento tra gli interessi coinvolti dalla presente vicenda - pur tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali - deve ritenersi assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, degli utenti della sanità pubblica e privata specialmente “delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045); Considerato che l’obbligo vaccinale per il personale sanitario “è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia” (Consiglio di Stato, sent. 7045/2021 cit.); Considerato che le questioni di legittimità costituzionale e di pregiudizialità eurounitaria potranno essere esaminate nelle sedi collegiali, non essendo la loro valutazione compatibile con la struttura di questa fase del giudizio; Considerato anche il breve tempo necessario per la celebrazione della camera di consiglio, già fissata dinanzi al TAR al 15 dicembre 2021; P.Q.M. Respinge l’istanza cautelare. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in Roma il giorno 29 novembre 2021. IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Covid-19 – Vaccino – Sanitari – Obbligo – Violazione – Sospensione dal servizio – Legittimità.    ​​​​​​​            Non va sospeso monocraticamente il provvedimento di sospensione dal servizio del sanitario che non si è sottoposto al vaccino obbligatorio  per i sanitari ex art. 4, d.l. 1° aprile 2021, n. 44 e l.  28 maggio 2021, n. 76, per contrasto con il virus Covid-19,  atteso che tale obbligo è giustificato non solo dal principio di solidarietà verso i soggetti più fragili, cardine del sistema costituzionale (art. 2 Cost.), ma immanente e consustanziale alla stessa relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e personale sanitario, relazione che postula, come detto, la sicurezza delle cure, impedendo che, paradossalmente, chi deve curare e assistere divenga egli stesso veicolo di contagio e fonte di malattia (1).   (1) Ha chiarito il decreto che il rilascio delle dette autorizzazioni risultano conformi alla normativa e approfonditi comunque al punto da fornire, anche in un'ottica di rispetto del principio di precauzione, sufficienti garanzie - allo stato delle attuali conoscenze scientifiche, unico possibile metro di valutazione - in ordine alla loro efficacia e sicurezza tali da far escludere l'irrazionalità della scelta legislativa di prevedere l'obbligatorietà della vaccinazione di talune categorie di lavoratori a fronte della grave minaccia alla salute pubblica determinata dalla diffusività globale del virus, situazione che ha indotto l'Organizzazione mondiale della sanità a dichiarare prima lo stato di "emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale" e poi quello di "pandemia" con conseguente dichiarazione dello stato di emergenza sul territorio nazionale da parte del Consiglio dei Ministri. Ha aggiunto il decreto che nel bilanciamento tra gli interessi coinvolti dalla presente vicenda - pur tutti costituzionalmente rilevanti e legati a diritti fondamentali - deve ritenersi assolutamente prevalente la tutela della salute pubblica e, in particolare, degli utenti della sanità pubblica e privata specialmente “delle categorie più fragili e dei soggetti più vulnerabili (per l’esistenza di pregresse morbilità, anche gravi, come i tumori o le cardiopatie, o per l’avanzato stato di età), che sono bisognosi di cura ed assistenza, spesso urgenti, e proprio per questo sono di frequente o di continuo a contatto con il personale sanitario o sociosanitario nei luoghi di cura e assistenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045).
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/decorrenza-del-termine-per-proporre-impugnazione-dalla-pubblicazione-di-cui-all-art.-29-codice-appalti
Decorrenza del termine per proporre impugnazione dalla pubblicazione di cui all’art. 29 codice appalti
N. 02261/2022REG.PROV.COLL. N. 09430/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9430 del 2021, proposto da Markas S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pietro Adami, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso D'Italia 97; contro Consorzio Leonardo Servizi e Lavori “Società Cooperativa Consortile Stabile”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gabriele Tricamo, Angelo Annibali, Andrea Ruffini, Marco Orlando, con domicilio eletto presso lo Studio Aor in Roma, via Sistina 48; Rti Ph Facility S.r.l., non costituito in giudizio; nei confronti Azienda Socio-Sanitaria Territoriale del Garda, Azienda Regionale per L'Innovazione e Gli Acquisti - Aria S.p.A., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima) n. 00851/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Consorzio Leonardo Servizi e Lavori “Società Cooperativa Consortile Stabile”; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120, co. 10, cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 17 marzo 2022 il Cons. Giovanni Tulumello e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con sentenza n. 851/2021, pubblicata il 7ottobre 2021, il T.A.R. della Lombardia, Sezione staccata di Brescia, ha accolto il ricorso proposto dal Consorzio Leonardo Servizi e Lavori “Società Cooperativa e Consorzio Stabile” per l’annullamento del Decreto del Direttore Generale dell'Azienda Socio-Sanitaria Territoriale del Garda n. 175 del 3 marzo 2021 avente ad oggetto: “Adesione al lotto 4 della convenzione Arca_2017_040 per servizio smaltimento rifiuti solidi ed al Lotto 1 della convenzione Arca_2018_080 per il servizio pulizia e sanificazione ambientale” (doc. 1 - decreto ASST Garda)” (e dei provvedimenti presupposti). Con ricorso in appello notificato il 4 novembre 2021, e depositato il successivo 9 novembre, Markas s.r.l. ha impugnato l’indicata sentenza. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Consorzio ricorrente in primo grado. All’udienza camerale fissata per l’esame della domanda cautelare il ricorso è stato rinviato al merito. Il ricorso in appello è stato definitivamente trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 17 marzo 2022. 2. Il Consorzio Leonardo Servizi e Lavori - titolare, quale mandataria del RTI con PH Facility s.r.l., del lotto n. 4 della convenzione CONSIP relativa all’affidamento dei servizi di pulizia, sanificazione e altri servizi in favore degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) - ha contestato con il ricorso di primo grado la legittimità dell’adesione dell’A.S.S.T. del Garda alla convenzione ARCA_2018_080.1 lotto 1, di cui è titolare la società Markas s.r.l Il T.A.R., respinta l’eccezione preliminare di tardività del ricorso di primo grado, lo ha accolto ritenendolo fondato nel merito. La società Markas, con ricorso in appello, contesta sia il capo della sentenza gravata relativo alla ritenuta ricevibilità del ricorso di primo grado, sia la statuizione relativa al merito della pretesa. 3. In particolare, con il primo motivo – rubricato “Grave erroneità in fatto e in diritto da parte del Giudice di primo grado in relazione all’eccezione di tardività del ricorso di primo grado” – l’appellante contesta il rigetto dell’eccezione di tardività del ricorso di primo grado, notificato oltre il termine decadenziale di trenta giorni decorrente dalla pubblicazione sul sito istituzionale dell’Azienda dell’affidamento in favore di Markas. In fatto va anzitutto osservato che il provvedimento impugnato è stato pubblicato sul sito web dell’Azienda il 3 marzo 2021. Il ricorso di primo grado è stato notificato il 18 giugno 2021. Il T.A.R. ha in proposito richiamato anzitutto la motivazione della propria sentenza n. 518/2021, resa in fattispecie connessa, nella quale si era affermata “l’irrilevanza, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, della pubblicazione del provvedimento impugnato sul sito istituzionale dell’Azienda Sanitaria, a cui non è correlato per legge un effetto di pubblicità legale. A ciò si aggiunga che il Consorzio ricorrente, essendo titolare di convenzione nazionale relativa al medesimo servizio oggetto dell’atto di adesione impugnato ed essendo facilmente individuabile dall’Azienda Sanitaria resistente secondo canoni di normale diligenza, avrebbe dovuto diritto a ricevere la notifica individuale dell’atto impugnato, in quanto soggetto controinteressato”. Ha inoltre aggiunto che “nel caso di specie appare dirimente la considerazione che, rispetto al provvedimento impugnato, il Consorzio ricorrente riveste la qualifica di soggetto direttamente controinteressato, dal momento che nella motivazione dell’atto impugnato l’Azienda Sanitaria dichiara di aver valutato la possibilità di aderire alla convenzione Consip di cui è titolare il Consorzio ricorrente ma di averla esclusa per una serie di ragioni diffusamente elencate, pervenendo di conseguenza alla determinazione di aderire alla convenzione regionale. In quanto soggetto direttamente controinteressato all’atto impugnato e individuato nell’atto stesso - o comunque facilmente individuabile in quanto titolare della convenzione Consip espressamente pretermessa dall’Amministrazione committente - il Consorzio ricorrente avrebbe dovuto ricevere la notifica individuale dell’atto impugnato, ai sensi dell’art. 41 comma 2 c.p.a.: il che non è avvenuto. Per l’effetto, è infondata la pretesa delle parti resistenti di far decorrere il termine di impugnazione dalla data di pubblicazione del provvedimento sul sito istituzionale dell’ente anziché da quella di notificazione individuale dell’atto stesso, mai avvenuta”. 4. Ad avviso del Collegio il motivo è fondato. La motivazione della sentenza gravata è affetta dal denunciato vizio, in quanto la sua conseguenza logica – stigmatizzata dall’appellante – sarebbe la conclusione per cui “il termine di cui si discute non decorre mai in base a quanto affermato dalla sentenza di primo grado”. Neppure condivisibile appare l’affermazione dell’onere di comunicazione individuale al ricorrente, posto che tale affermazione non può essere ricavata da alcuna disposizione. In particolare, il richiamo all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. non appare condivisibile, perché la norma si riferisce alla notificazione del ricorso giurisdizionale (sulla esclusione dell’applicabilità delle norme processuali in materia di notifiche alla comunicazione dei provvedimenti amministrativi, Consiglio di Stato, VI sez., sentenza n. 3725/2020). Verrebbe semmai in (astratta) rilevanza l’art. 21-bis della legge n. 241/1990: ma a parte il problema qualificatorio (l’affidamento ad altra impresa come provvedimento limitativo della sfera giuridica: nel senso ritenuto dalla norma) il solo fatto che un soggetto sia citato nella motivazione del provvedimento (peraltro indirettamente, come nel caso di specie) non lo trasforma in destinatario diretto dello stesso. 5. Negli scritti difensivi vengono operati dei richiami alla sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 12/2020, che ha risolto il problema della decorrenza del termine per impugnare in relazione alla pubblicazione del provvedimento sul sito del committente con riguardo al criterio della conoscibilità dei vizi, rimarcando l’onere di consultazione del sito da parte dei partecipanti alla gara. Ciò che connota la fattispecie dedotta nel presente giudizio è la natura del provvedimento impugnato: che non è l’atto terminale di un procedimento di evidenza pubblica che abbia visto la partecipazione di più imprese (e, dunque, anche di quelle che si ritengano illegittimamente escluse o pretermesse), ma un atto di adesione a convenzione. Ciò implica, per un verso, che – applicando il criterio indicato dall’Adunanza Plenaria - la sua lesività e la conoscibilità dei vizi poi denunciati fossero in re ipsa (seguendo la stessa prospettazione del ricorrente in primo grado: che sostiene l’illegittimità dell’adesione in quanto tale a convenzione avente altro ambito). 6. Per altro verso, si potrebbe declinare diversamente l’onere di consultazione del sito: nella logica della Plenaria tale onere trova la sua fonte nella partecipazione dell’impresa terza alla gara, che qui (apparentemente) non sussisterebbe. Le parti dibattono inoltre in merito alla qualificabilità o meno come “aggiudicazione” del provvedimento impugnato. La questione è irrilevante, ai fini del decidere, se riferita alla natura giuridica in quanto tale (sul piano formale). È opinione pacifica nella successiva giurisprudenza la conclusione per cui “in applicazione dei principi stabiliti dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato con la sentenza 2 luglio 2020, n. 12 (…..) ai sensi dell'art. 120, comma 5, cod. proc. amm. il termine per impugnare gli atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici decorre dalla pubblicazione completa di questi sul sito istituzionale dell'amministrazione aggiudicatrice, nelle forme previste dal sopra citato art. 29 d.lgs. n. 50 del 2016” (sez. V, sentenza n. 3466/2021). Il principio travalica evidentemente il concetto di “aggiudicazione”, facendo giustamente riferimento alla nozione di “affidamento” in quanto tale. 7. La questione potrebbe apparire invece rilevante se riferita al tipo di procedimento (e, in particolare, alla partecipazione o meno ad esso del ricorrente) di cui tale provvedimento è atto terminale, in relazione all’intensità dello sforzo diligente (di consultazione del sito) richiesto. In argomento risulta decisiva la circostanza fattuale dedotta dall’appellante, laddove lamenta che “la ricorrente ha avuto anche conoscenza effettiva dell’atto, ben prima del termine del primo aprile 2021, data di scadenza del termine per la proposizione del ricorso. Ed infatti, il 23 marzo 2021 risulta che abbia inviato una diffida all’Ente (doc. 14 di controparte depositato in primo grado), contenente le medesime critiche contenute poi nel ricorso, in cui chiedeva alla ASST Spedali Civili di “annullare in autotutela” l’adesione”. In realtà tale nota non dimostra la conoscenza del provvedimento impugnato: essa infatti lamenta, genericamente, che “Lo scrivente è venuto però a conoscenza che ARIA S.p.a. – Centrale Regionale di Acquisto, pur in vigenza di una convenzione attiva e fruibile ai sensi della legge n. 296/2006, ha inspiegabilmente indicato a ASL, ATS, ASST e IRCCS delle province di Brescia e Mantova (rientranti nel Lotto 4 della convenzione Consip aggiudicata allo scrivente), per l’affidamento del servizio di pulizia e sanificazione, l’esistenza di convenzioni regionali attive e capienti, tuttavia riferite ad ambiti territoriali diversi da quelli in cui gli enti sanitari sono ricompresi. In buona sostanza, ARIA ha indicato alle Aziende ed Istituti sanitari delle suddette province la possibilità di reperire i servizi di pulizia e sanificazione, aderendo a convenzioni regionali che, sebbene attive e capienti, sono tuttavia destinate agli enti sanitari siti in altre province Il secondo motivo di appello critica il merito della sentenza, nella parte in cui ha accolto i primi due motivi del ricorso di primo grado”. È vero che la nota contiene una diffida ad annullare in autotutela i provvedimenti (eventuali) di adesione alla convenzione: ma si tratta di una diffida generica (“diffida gli Enti in indirizzo ad agire in autotutela affinché annullino i provvedimenti di adesione illegittimi e si determinino nel senso di aderire alla Convenzione Consip, l’unica da cui possano legittimamente reperire i servizi di pulizia e sanificazione”). 8. Osserva nondimeno il Collegio che se tale scambio di corrispondenza non dimostra la piena conoscenza del provvedimento in data anteriore alla sua pubblicazione, esso tuttavia evidenzia la consapevolezza della elevata probabilità della sua (imminente) adozione (e, dunque, l’assimilabilità, ai fini che qui interessano, della fattispecie dedotta al procedimento – partecipato - di evidenza pubblica): sicchè rileva in punto di esigibilità della condotta (di verifica della pubblicazione sul sito). Condivisibilmente, pertanto, l’appellante deduce in proposito che “è l’aggiudicatario della convenzione Consip Sanità di una determinata area geografica che ha il (facile) onere di controllare cosa facciano le (poche) Aziende Sanitarie, site nell’area rientrante nel lotto aggiudicato. Cosa che il Consorzio Leonardo ha fatto, tanto che facilmente è venuto a conoscenza dell’affidamento, nei termini per ricorrere. Se poi il computo dei termini non è stato effettuato correttamente, per un solo giorno, ad avviso della scrivente si è prodotta la decadenza”. Non soltanto dunque la pubblicazione sul sito era sufficiente – in fatto e in diritto - a far percepire il contenuto e la lesività del provvedimento: ma, analogamente a quanto accade nei procedimenti di evidenza pubblica che vedono coinvolte più imprese, e che si concludono con l’aggiudicazione, anche nella fattispecie concreta oggetto del giudizio l’impresa esclusa dalla commessa aveva un identico onere di verifica della pubblicazione del relativo provvedimento, dal momento che essa stessa tentava di impedire in via stragiudiziale l’adozione di tale – imminente - provvedimento. 9. Il motivo è pertanto fondato e, in accoglimento dello stesso, la sentenza impugnata deve essere riformata nel senso della irricevibilità del ricorso di primo grado. L’accoglimento del primo motivo di appello, implicando la descritta pronuncia in rito, preclude l’esame delle ulteriori doglianze dell’appellante. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate fra le parti del giudizio in ragione della c.d. soccombenza virtuale, alla luce della sommaria fondatezza, nel merito, del ricorso di primo grado, già delibata nell’ordinanza cautelare di questa Sezione n. 4658/2021, resa in fattispecie connessa. Il Collegio ritiene infatti che resista alle censure contenute nei residui motivi di appello l’affermazione – dirimente - del T.A.R. secondo la quale “la suddivisione della gara in lotti e la individuazione, all’interno di ciascun lotto, di specifici enti beneficiari territorialmente omogenei (come nel caso di specie), orienta e condiziona inevitabilmente le stesse offerte degli operatori, essendo intuitivo che i costi del servizio possono divergere sensibilmente a seconda della ubicazione territoriale dell’ente beneficiario e della sua distanza dalla sede dell’operatore economico (a cui si connettono esigenze di dislocazione e di trasporto del personale necessario), per cui non appare ragionevole che un’offerta economica elaborata da un concorrente in relazione ad un lotto territoriale contiguo alla propria sede possa poi vincolarlo a rendere le medesime prestazioni, allo stesso prezzo, in favore di amministrazioni dislocate nei più disparati contesti territoriali, solo perché ricomprese in ambito regionale. Per la stessa ragione, l’eventuale estensione della convenzione quadro ad enti diversi da quelli specificamente indicati deve essere sottoposta al confronto concorrenziale tra le imprese partecipanti alla gara centralizzata, le quali devono poter formulare la propria offerta nella consapevolezza che potrebbe essere loro richiesto di approntare beni, servizi o lavori ulteriori rispetto a quelli richiesti dalla lex specialis; a tal fine, è necessario che l’eventualità della futura adesione di enti diversi da quelli indicati sia oggetto di una previsione esplicita negli atti di gara, attraverso la formulazione di una clausola espressa di adesione o di estensione”. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata dichiara irricevibile il ricorso di primo grado. Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 marzo 2022 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Giovanni Pescatore, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore Michele Corradino, Presidente Giovanni Pescatore, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Umberto Maiello, Consigliere Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Processo amministrativo – Rito appalti – Adesione a convenzione – Impugnazione – Pubblicazione su sito istituzionale dell’Amministrazione.          Il termine per impugnare un atto di adesione a convenzione decorre dalla sua pubblicazione sul sito istituzionale dell’Amministrazione.     (1) Ha chiarito la Sezione che non può farsi riferimento all’art. 41, comma 2, c.p.a.. perché la norma si riferisce alla notificazione del ricorso giurisdizionale (sulla esclusione dell’applicabilità delle norme processuali in materia di notifiche alla comunicazione dei provvedimenti amministrativi, Cons.Stato, VI sez., n. 3725 del 2020).  Verrebbe semmai in (astratta) rilevanza l’art. 21-bis, l.  n. 241 del 1990: ma a parte il problema qualificatorio (l’affidamento ad altra impresa come provvedimento limitativo della sfera giuridica: nel senso ritenuto dalla norma) il solo fatto che un soggetto sia citato nella motivazione del provvedimento (peraltro indirettamente, come nel caso di specie) non lo trasforma in destinatario diretto dello stesso.   Non soltanto dunque la pubblicazione sul sito era sufficiente – in fatto e in diritto - a far percepire il contenuto e la lesività del provvedimento: ma, analogamente a quanto accade nei procedimenti di evidenza pubblica che vedono coinvolte più imprese, e che si concludono con l’aggiudicazione, anche nella fattispecie concreta oggetto del giudizio l’impresa esclusa dalla commessa aveva un identico onere di verifica della pubblicazione del relativo provvedimento, dal momento che essa stessa tentava di impedire in via stragiudiziale l’adozione di tale – imminente - provvedimento 
Processo amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/alla-corte-costituzionale-la-norma-che-introduce-un-contributo-straordinario-in-favore-del-teatro-eliseo
Alla Corte costituzionale la norma che introduce un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo
N. 08191/2020 REG.PROV.COLL. N. 04213/2019 REG.RIC.            REPUBBLICA ITALIANA Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente ORDINANZA ORDINANZA sul ricorso numero di registro generale 4213 del 2019, proposto dalla s.r.l. Nuovo Sistina, dalla s.r.l. Quirino, dalla s.r.l. Officine Culturali, dalla r.l.i.s. I Magi, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Carlo Malinconico e Marco Orlando, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Carlo Malinconico in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 284; contro il Ministero dell'economia e delle finanze e il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in persona dei rispettivi Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; la s.r.l. Eliseo– Teatro Nazionale dal 1918 Teatro Eliseo e Piccolo Eliseo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Catricalà, Damiano Lipani, Francesca Sbrana e Fabio Baglivo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dei difensori in Roma, via Vittoria Colonna, n. 40; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sede di Roma, n. 3028 del 2019. Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’economia e delle finanze, del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, della s.r.l. Eliseo– Teatro nazionale dal 1918 Teatro Eliseo e Piccolo Eliseo; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 ottobre 2020 il consigliere Silvia Martino; Viste le istanze di passaggio in decisione presentate dalle parti; Vista la sentenza non definitiva n. 8067 del 15 dicembre 2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue 1. Con il ricorso di primo grado, proposto al TAR del Lazio, le s.r.l. Nuovo Sistina, Officine Culturali, I Magi a.r.l.i.s., Solemio, Quirino e Attori & Tecnici società cooperativa - le quali gestiscono nella città di Roma i Teatri Sistina, Ambra Jovinelli, della Cometa, Parioli, Quirino e Vittoria - impugnavano il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze n. 142791 del 3 agosto 2017, con cui è stato istituito nel bilancio dello Stato il capitolo di spesa n. 6630, denominato “Contributo al Teatro Eliseo per le spese ordinarie e straordinarie in occasione del centenario”. Il decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, ha previsto, all’articolo 22, comma 8, che “In favore del teatro di rilevante interesse culturale "Teatro Eliseo", per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità delle sue attività in occasione del centenario della sua fondazione è autorizzata la spesa di 4 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018. Al relativo onere si provvede, quanto a 2 milioni di euro per l’anno 2017, mediante versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una corrispondente quota delle risorse di cui all’articolo 24, comma 1, della legge 12 novembre 2011, n. 183, che restano acquisite all’erario, e, quanto a 2 milioni di euro per l’anno 2017 e a 4 milioni di euro per l’anno 2018, mediante corrispondente riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307”. L’entità del contributo in favore del Teatro Eliseo era stata inizialmente ridotta dall’articolo 4, comma 3, della legge 22 novembre 2017, n. 175, il quale aveva disposto un finanziamento di 4 milioni di euro in favore di “attività culturali nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016”, rintracciando la relativa copertura proprio nella corrispondente riduzione, per l’anno 2018, dell’autorizzazione di spesa prevista dall’articolo 22, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2017. Il contributo in favore del Teatro Eliseo è stato, poi, reintegrato, dalla legge di bilancio 2018 (legge 27 dicembre 2017, n. 205), che ha disposto l’allocazione di 8 milioni di euro per il 2018 sul capitolo 6630, risultante dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 28 dicembre 2017, recante “Ripartizione in capitoli delle Unità di voto parlamentare relative al bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e per il triennio 2018-2020”. 1.1. Le società ricorrenti esponevano che, in data 14 settembre 2017, avevano presentato - al Ministero dell’economia e delle finanze e al Ministero per i beni e le attività culturali - un’istanza-diffida di concessione di Fondi extra FUS analogamente a quanto concesso al teatro Eliseo, alla quale tuttavia le amministrazioni non avevano dato seguito. In pari data, i teatri avevano altresì avanzato istanza di accesso alla documentazione inerente la speciale erogazione a favore del teatro Eliseo e, in particolare, tutti gli presupposti e consecutivi l’adozione dell’articolo 22, comma 8, del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017 e della successiva legge di conversione. A tale nota, il Ministero per i beni e le attività culturali aveva risposto che “questa Amministrazione allo stato non ha ancora posto in essere atti in esecuzione della suddetta disposizione normativa e, pertanto, suscettibili del richiesto accesso”. Con nota del 10 ottobre 2017, il MEF, invece, aveva trasmesso ai ricorrenti la nota del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato n. 179352 del 4 ottobre 2017, nella quale aveva comunicato che, in applicazione del comma 8 dell’articolo 22 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni, dalla legge 24 giugno 2017, n. 96, “con decreto del Ministero dell’economia e delle finanze n. 142791 del 14 settembre 2017 è stato istituito, nello stato di previsione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, il capitolo n. 6630 “Contributo al Teatro Eliseo per le spese ordinarie e straordinarie in occasione del centenario” con uno stanziamento di 4 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018”. 1.2. Ai fini dell’impugnativa di siffatto decreto, innanzi al TAR le società ricorrenti evidenziavano, in primo luogo, che il sostegno finanziario dello Stato in favore delle attività teatrali avviene mediante la ripartizione dell’apposito Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS), istituito dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, le cui modalità di ripartizione sono state stabilite con decreto ministeriale 1° luglio 2014 (“Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo unico per lo spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163”) e sono informate in gran parte a criteri di tipo oggettivo e automatico. In tale contesto, l’attribuzione a un solo teatro, al di fuori degli ordinari canali di finanziamento statale, di un contributo ulteriore di rilevante entità, sarebbe stata, a loro avviso, del tutto ingiustificata e avrebbe determinato un grave effetto distorsivo della concorrenza in danno degli altri teatri che attingono al medesimo bacino di utenti. 1.3. Nello specifico, il ricorso di primo grado veniva affidato ai seguenti motivi: I) Illegittimità costituzionale del comma 8 dell’articolo 22 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 24 giugno 2017 n. 96, per violazione degli articoli 3, 9, 33, 41, 97 e 117 della Costituzione. Istanza di rimessione alla Corte costituzionale. Violazione delle norme d’interposizione costituzionale (legge 30 aprile 1985, n. 163; d.m. 1 luglio 2014; legge 7 agosto 1990, n. 241). Eccesso di potere legislativo. La previsione normativa privilegerebbe un solo teatro, discriminando tutti gli altri che versano nelle stesse condizioni, e in particolare quelli che operano nello stesso settore di spettacolo e che insistono nello stesso ambito geografico, con conseguenti ripercussioni sulla concorrenza e sulla libertà di iniziativa economica; sarebbero violate anche norme costituenti interposizione e attuazione diretta di principi costituzionali, ossia la legge n. 163 del 1985, il decreto ministeriale 1° luglio 2014 e l’articolo 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241; la disposizione censurata sarebbe affetta anche da eccesso di potere legislativo, perché consisterebbe in una legge-provvedimento, adottata al solo fine strumentale di derogare immotivatamente ai criteri generali per la destinazione delle risorse nel settore dello spettacolo dal vivo; II) Violazione dell’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in materia di aiuti di Stato. Ricorso, in via subordinata, d’interpretazione alla Corte di Giustizia. L’erogazione una tantum in favore del Teatro Eliseo configurerebbe un aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno; la disposizione primaria dovrebbe conseguentemente essere disapplicata; in subordine, la valutazione della compatibilità con il Trattato dovrebbe essere rimessa dal giudice amministrativo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea; III) Violazione e falsa applicazione della legge n. 163/1985 e del d.m. 01.07.2014; violazione dei principi d’imparzialità, pubblicità, trasparenza. Eccesso di potere per sviamento, irragionevolezza, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta. Il D.M. attuativo n. 142791 del 3 agosto 2017 sarebbe comunque illegittimo in quanto in aperto contrasto con la normativa generale dettata in materia di attribuzione di contributi di sostegno finanziario agli operatori dello spettacolo dal vivo, che non sono stati abrogati dalla sopravvenuta disposizione, nonché dei principi generali (anche europei) che regolano l’azione amministrativa. La previsione dell’articolo 46, comma 2, del decreto ministeriale del 2014, concernente il finanziamento di “progetti speciali”, confermerebbe che tutte le forme di sostegno statale allo spettacolo dal vivo – inclusi i contributi c.d. extra FUS – dovrebbero attenersi agli obiettivi strategici posti dall’articolo 2 dello stesso decreto; tutte le erogazioni dovrebbero, inoltre, essere attribuite in ossequio non solo alle norme procedurali, ma anche ai criteri di valutazione pure stabiliti dal decreto ministeriale, i quali prevedono, tra l’altro, un meccanismo di ponderazione che privilegia l’assegnazione vincolata e automatica di gran parte del punteggio, limitando il peso della valutazione tecnico-discrezionale dei progetti artistici; la necessità di attenersi a tali obiettivi, procedure e criteri dipenderebbe dall’esigenza di evitare di avvantaggiare un unico soggetto, mettendolo in condizione di praticare un’offerta complessivamente più appetibile per gli utenti, in danno degli altri operatori del settore; IV) Eccesso di potere per sviamento, irragionevolezza, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta. Le fonti di reperimento del contributo straordinario attribuito al teatro Eliseo sarebbero del tutto estranee al sostegno statale all’attività teatrale, provenendo per 2 milioni di euro dal Fondo per il cinema e l’audiovisivo, di cui all’articolo 13 della legge 14 novembre 2016, n. 220 e all’articolo 24, comma 1, della legge 12 novembre 2011, n. 183, e per i rimanenti 6 milioni di euro dalla riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, quest’ultimo istituto per “agevolare il perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, anche mediante interventi volti alla riduzione della pressione fiscale”, ai sensi dell’articolo 10, comma 5, del decreto legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307. 1.4 Con successivi motivi aggiunti l’impugnazione veniva estesa: - al decreto del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo 12 dicembre 2017, recante l’autorizzazione dell’impegno della somma di 4 milioni di euro per l’esercizio 2017 a favore di “Eliseo S.r.l. Teatro Nazionale dal 2018” e relativo positivo riscontro preventivo amministrativo-contabile della Ragioneria generale dello Stato – Ufficio centrale del bilancio presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo in data 22 gennaio 2018; - al decreto dello stesso Ministero 17 gennaio 2018 rep. n. 7, con cui erano state assegnate al competente dirigente di seconda fascia, per l’esercizio finanziario 2018, le risorse finanziarie allocate sul capitolo 6630. 2. Il TAR, nella resistenza del Mef, del Mibact e della società Eliseo s.r.l: - dichiarava il ricorso introduttivo inammissibile; - dichiarava i motivi aggiunti in parte irricevibili ed in parte inammissibili; - compensava tra le parti le spese di giudizio, 3. La sentenza è stata appellata dagli enti teatrali rimasti soccombenti. Con i primi tre mezzi essi hanno censurato la decisione in rito resa dal TAR, riproponendo poi le censure articolate nel merito in primo grado e non esaminate. 4. Si sono costituiti, per resistere, il Ministero dell’economia e delle finanze, unitamente al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. 5. Si è costituito, per resistere, anche il teatro Eliseo, ribadendo la correttezza della declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo e riproponendo le eccezioni di inammissibilità non esaminate dal TAR. 6. Con ordinanza n. 3061 del 13 giugno 2019, la Sezione ha respinto l’istanza cautelare. 7. L’appello è passato in decisione alla pubblica udienza del 22 ottobre 2020. 8. Con sentenza non definitiva n. 8067 del 15 dicembre 2020, sono state riformate le statuizioni in rito emesse dal TAR ed è stato respinto il secondo motivo del ricorso di primo grado devoluto in appello. Pertanto, il ricorso di primo grado è stato ritenuto ricevibile e ammissibile mentre, nel merito, è stato escluso che le disposizioni legislative in esame costituiscano un aiuto di Stato in violazione dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. 9. Il Collegio reputa invece rilevante e non manifestamente infondata la questione, dedotta con il primo motivo del ricorso di primo grado e devoluta in appello, di costituzionalità dell’art. 22, comma 8, del d.l. n. 50 del 2017, come successivamente convertito, in relazione alla violazione degli articoli 3, 9, 33, 41 e 97 della Costituzione, che viene sollevata con la presente ordinanza. 10. La questione è rilevante perché gli atti impugnati trovano la loro base giuridica esclusivamente nella disposizione – provvedimento censurata dai teatri appellanti avendo, rispetto ad essa, un contenuto del tutto vincolato. Pertanto, l’oggetto del contendere è esclusivamente la disposizione – provvedimento che ha previsto un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti ai fini dell’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore del teatro e dello spettacolo dal vivo. Si tratta infatti di risorse ulteriori rispetto a quelle assegnate allo stesso teatro ai sensi del D.M. 1° luglio 2014, recante i nuovi criteri per l’erogazione dei contributi allo spettacolo dal vivo a valere sul Fondo unico per lo spettacolo di cui alla legge n. 163 del 1985. 11. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, si definiscono leggi – provvedimento “le leggi che «contengono disposizioni dirette a destinatari determinati» (sentenze n. 154 del 2013, n. 137 del 2009 e n. 2 del 1997), ovvero «incidono su un numero determinato e limitato di destinatari» (sentenza n. 94 del 2009), che hanno «contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 20 del 2012, n. 270 del 2010, n. 137 del 2009, n. 241 del 2008, n. 267 del 2007 e n. 2 del 1997), «anche in quanto ispirate da particolari esigenze» (sentenze n. 270 del 2010 e n. 429 del 2009), e che comportano l’attrazione alla sfera legislativa «della disciplina di oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa» (sentenze n. 94 del 2009 e n. 241 del 2008)” (così Corte cost., sentenza n. 275 del 2013; cfr. anche, Corte Cost., n. 64 del 1° aprile 2014). In assenza nell’ordinamento attuale di una ‘riserva di amministrazione’ opponibile al legislatore “non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa” (Corte cost., sentenza n. 62 del 1993; nello stesso senso Corte cost., sentenza n. 231 del 2014), per cui le leggi -provvedimento non sono di per sé incompatibili con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013 e, da ultimo, nn. 181 del 2019 e 116 del 2020). In questi casi, tuttavia, il diritto di difesa “verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale” (così ancora la sentenza n. 62 del 1993; nello stesso senso anche la sentenza n. 20 del 2012). Spetterà, pertanto, alla Corte costituzionale valutare le suddette leggi “in relazione al loro specifico contenuto” (sentenze n. 275 del 2013, n. 154 del 2013, n. 270 del 2010), “essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore regionale” (sentenza n. 288 del 2008). 11.1. La dottrina ha distinto due categorie di leggi aventi contenuto concreto; da un lato, le leggi rivolte a dare applicazione concreta ad altre leggi, e tali da conferire all’atto carattere di legge solo formale, in quanto carente dei requisiti tipici della generalità ed innovatività, dall’altro, le leggi, c.d. “innovative” che, con riferimento a singoli soggetti e a specifici rapporti, derogano al diritto comune e sono caratterizzate dal duplice e congiunto aspetto della personalità e della eccezionalità. La prima categoria di leggi - provvedimento concerne la valutazione del principio della separazione dei poteri mentre per la seconda è il principio di eguaglianza a porsi come fondamentale parametro di giudizio. Non occorre spendere molte parole per evidenziare che, nel caso di specie, la norma istitutiva del contributo straordinario in favore del Teatro Eliseo, si colloca in questa seconda categoria. 11.2. Le leggi – provvedimento sono caratterizzate da una varietà di effetti giuridici poiché le stesse possono: a) costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche soggettive a prescindere dall'esercizio di un potere amministrativo; b) imporre un obbligo di esecuzione all’amministrazione predeterminando tutti o alcuni dei profili dell’an, del quando, del quid e del quomodo; c) attribuire il valore di legge ad atti amministrativi presupposti (è il recente caso, ad esempio, della sentenza della Corte Cost. n. 116 del 2020, cit.); d) qualificare giuridicamente in modo nuovo fatti e situazioni già venuti ad esistenza in precedenza; e) istituire o riorganizzare organi o enti, modificandone le competenze. Il caso all’esame del Collegio rientra nella tipologia sub b), in quanto, nell’istituire il contributo straordinario in favore del teatro Eliseo la legge non conferisce alcuna discrezionalità all’amministrazione per quanto riguarda l’an della concessione ma (peraltro in maniera implicita) solo limitatamente alle modalità con cui il soggetto beneficiario è tenuto a documentare le spese, ordinarie o straordinarie al cui sostegno il contributo è finalizzato. In sostanza, la norma censurata reca già in sé la capacità di realizzare interamente l’effetto a cui tende. Rispetto a leggi – provvedimento di questo tipo, l’unica possibilità di tutela per i cittadini è quella di impugnare, come avvenuto nel caso di specie, gli atti applicativi anche se di contenuto vincolato rispetto alla legge – provvedimento, deducendone l’incostituzionalità 12. Relativamente alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, va richiamata la disciplina dell’intervento pubblico nel settore dello spettacolo dal vivo. Esso viene effettuato attraverso stanziamenti a bilancio di fondi pluriennali cui si accede sulla base di procedure comparative. A tal fine, la l. n. 163 del 30 aprile 1985 ha istituito il Fondo unico per lo spettacolo (c.d. FUS), di cui è prevista la ripartizione annuale tra i diversi settori (attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali da svolgersi in Italia o all’estero) secondo la percentuale globalmente prevista dall’art. 2. In via transitoria, l’art. 13 della legge ha poi, stabilito che sino all’entrata in vigore delle leggi di riforma dei diversi ambiti, “i criteri e le procedure per l'assegnazione dei contributi e dei finanziamenti ai destinatari degli stessi rimangono quelli previsti dalle leggi vigenti per ciascuno dei settori medesimi ed a tal fine il Ministro del turismo e dello spettacolo [...] ripartisce annualmente il Fondo [...] tra i settori di attività ed enti previsti dalla vigente legislazione sullo spettacolo”, in ragione delle percentuali ivi previste. Analogamente, il d.l. 18 febbraio 2003, n. 24, ha stabilito che, “In attesa che la legge di definizione dei princìpi fondamentali di cui all'articolo 117 della Costituzione fissi i criteri e gli àmbiti di competenza dello Stato, i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo, previsti dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo sono stabiliti con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare” (art.1 ). Per quanto qui interessa, il D.M. 1° luglio 2014 – vigente ratione temporis – ha dettato “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo Unico per lo spettacolo, di cui alla Legge 30 aprile 1985, n. 163”. Per la concessione dei contributi ai diversi settori dello spettacolo dal vivo, l’art. 3 del citato D.M. prevede la presentazione di un progetto triennale (a partire dal triennio 2015-2017) e di un programma annuale per coloro le cui istanze triennali sono state approvate. Inoltre, in base all’art. 46, comma 2, del medesimo decreto, su esclusiva iniziativa del Ministro, sentite le Commissioni consultive competenti per materia, possono essere sostenuti finanziariamente progetti speciali, a carattere annuale o triennale. Dal punto di vista soggettivo, qualificati a presentare la domanda sono: 1) i Teatri nazionali; 2) i Teatri di rilevante interesse culturale; 3) le Imprese di produzione teatrale; 4) i Centri di produzione teatrale. Il decreto stabilisce anche le condizioni di accesso ai benefici, legate sia al monte ore di produzione teatrale che al totale delle giornate lavorative. L’art. 5 stabilisce il sistema di valutazione delle domande presentate, prevedendo la possibilità dell’attribuzione di un punteggio di 100 punti così suddivisi: a) per la qualità artistica, sino a 30 punti attribuiti dalla Commissione consultiva; b) per la qualità indicizzata, sino a 30 punti attribuiti dal Mibact in maniera automatica secondo l’applicazione di una formula prevista nel medesimo decreto; c) per la dimensione quantitativa, sino a 40 punti attribuiti dall’amministrazione in maniera automatica secondo i parametri e la formula di calcolo pure previsti nel decreto. Dei 100 punti previsti, 70 sono attribuiti su base oggettiva (30 punti per la qualità indicizzata e 40 per la dimensione quantitativa), mentre i rimanenti 30 punti sono attributi discrezionalmente attraverso la valutazione dei progetti artistici. In merito al criterio della qualità artistica, l’Allegato B al decreto del Mibact ha individuato per ciascun settore una scheda contenente i criteri guida per la Commissione consultiva nell’attività di valutazione. Il sistema dell’erogazione dei contributi allo spettacolo dal vivo è quindi incentrato sulla valutazione comparativa dei progetti e persegue le finalità di interesse pubblico, cui si è già accennato, descritte nell’art. 2, ovvero: “a) concorrere allo sviluppo del sistema dello spettacolo dal vivo, favorendo la qualità dell'offerta, anche a carattere multidisciplinare, e la pluralità delle espressioni artistiche, i progetti e i processi di lavoro a carattere innovativo, la qualificazione delle competenze artistiche, l'interazione tra lo spettacolo dal vivo e l'intera filiera culturale, educativa e del turismo; b) promuovere l'accesso, sostenendo progetti di rilevanza nazionale che mirino alla crescita di una offerta e di una domanda qualificate, ampie e differenziate, e prestando attenzione alle fasce di pubblico con minori opportunità; c) favorire il ricambio generazionale, valorizzando il potenziale creativo dei nuovi talenti; d) creare i presupposti per un riequilibrio territoriale dell'offerta e della domanda; e) sostenere la diffusione dello spettacolo italiano all'estero e i processi di internazionalizzazione, in particolare in àmbito europeo, attraverso iniziative di coproduzione artistica, collaborazione e scambio, favorendo la mobilità e la circolazione delle opere, lo sviluppo di reti di offerta artistico culturale di qualificato livello internazionale; f) valorizzare la capacità dei soggetti di reperire autonomamente ed incrementare risorse diverse e ulteriori rispetto al contributo statale, di elaborare strategie di comunicazione innovative e capaci di raggiungere pubblici nuovi e diversificati, nonché di ottenere riconoscimenti dalla critica nazionale e internazionale; g) sostenere la capacità di operare in rete tra soggetti e strutture del sistema artistico e culturale”. Si tratta di obiettivi ripresi e ribaditi anche dal D.M. 27 luglio 2017, attualmente vigente. 12.1. Al teatro Eliseo sono stati corrisposti contributi quale teatro di rilevante interesse culturale (ai sensi dell’art. 11 del D.M.), nonché contributi per progetti speciali (ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M.). Secondo quanto riportato nella “Scheda di lettura” del d.l. n. 50 del 2017, redatta dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, risulta che, in qualità di teatro di rilevante interesse nazionale, con D.D. 538 del 12 giugno 2015 siano stati corrisposti al teatro Eliseo € 481.151 per il 2015, mentre con D.D. 1413 del 7 novembre 2016 siano stati corrisposti € 514.831 per il 2016. Inoltre, con D.M. 497 del 3 novembre 2016 sono stati corrisposti € 250.000 per il progetto speciale “Generazioni”. Va peraltro evidenziato che, come sottolineato dai teatri appellanti, la possibilità di attribuire agli operatori del settore contributi ulteriori rispetto a quelli ordinari (c.d. “extra FUS”) ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M. 1° luglio 2014, non altera gli obiettivi strategici indicati, né definisce una diversa procedura da seguire rispetto a quella ordinaria. 12.2 Il contributo straordinario di cui si verte – che fa seguito all’erogazione degli ingenti importati indicati nel Dossier sopra richiamato - è stato istituito con il citato articolo 22, comma 8, del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017. Il testo originario del decreto adottato autorizzava in favore del Teatro Eliseo la spesa di due milioni di euro per l’anno 2017 “per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità della sua attività in occasione del centenario della sua fondazione”. In sede di conversione, la legge 21 giugno 2017, n. 96, ha modificato il comma 8 del citato articolo 22, innalzando il finanziamento a complessivi otto milioni di euro, ripartiti in quattro milioni di euro per l’anno 2017 e quattro milioni per l’anno 2018. 12.3. L’excursus che precede conferma la natura di legge – provvedimento delle disposizioni in esame. Esse riguardano un solo destinatario, specificamente individuato, ed hanno un contenuto particolare e concreto rappresentato dall’erogazione di un contributo in denaro finalizzato alla copertura delle spese ordinarie e straordinarie necessarie a consentire la prosecuzione dell’attività del teatro Eliseo in occasione del centenario dalla sua fondazione. 12.4. Secondo le amministrazioni resistenti, è la ragione del sostegno ad includere in sé le motivazioni dell’intervento legislativo, il cui carattere di unicità è rappresentato: - in termini temporali dalla ricorrenza del centenario. - in termini sostanziali dall’importanza e dalla storicità della sala per la città e per il sistema nazionale del teatro; - e, strettamente connesso ai primi, dal danno derivante da un rischio di chiusura. Nel fare fronte alla peculiare situazione di criticità di un organismo, la disposizione perseguirebbe un interesse d’ordine generale: l’offerta al pubblico di attività artistiche teatrali a carattere continuativo e di qualità in un contesto di grande precarietà. 12.4.1. Secondo il teatro appellato, la finalità di garantire le continuità dell’attività teatrale, in occasione del centenario dalla sua fondazione, è ulteriormente giustificata dal fatto di possedere la qualifica di Teatro di rilevante interesse culturale, non posseduta dalle controparti. I teatri appellanti, peraltro, non si trovavano, al momento dell’erogazione del contributo, nella situazione di crisi che ha determinato l’intervento statale. Né sarebbe prospettabile la violazione dell’art. 41 della Costituzione, poiché nessuno tra i teatri ricorrenti sarebbe concorrente del Teatro Eliseo, data la qualifica dallo stesso rivestita. 12.5. Ciò posto, come in precedenza ricordato, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, le leggi provvedimento sono ammissibili solo entro i limiti del rispetto del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà. In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare, la legge – provvedimento è soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell’atto legislativo. Dalla giurisprudenza costituzionale si ricava pertanto che il legislatore, qualora emetta leggi a contenuto provvedimentale, deve applicare con particolare rigore il canone della ragionevolezza, affinché la legge non si risolva in una modalità per aggirare i principi di eguaglianza ed imparzialità. In altri termini, la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione, con la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un'attività a contenuto amministrativo, non può giungere al punto di violare l’eguaglianza tra i cittadini. Ne consegue che, qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare con chiarezza i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione. 12.6. Per applicare le richiamate coordinate esegetiche al caso di specie, occorre prendere le mosse dalle finalità enunciate dalla norma che, come detto, è quella di contribuire alle spese affrontate dal Teatro Eliseo al fine di garantire la continuità dell’attività in occasione del suo centenario. Non si fa ivi riferimento, peraltro, ad un progetto o ad un programma specifico. Sicché, a ben vedere, qualunque tipo di spesa potrebbe essere sovvenzionata, purché valutata dal teatro come funzionale alla prosecuzione della propria attività, e non necessariamente per l’effettuazione di iniziative collegate alla celebrazione del proprio centenario (essendo il dettato legislativo al riguardo del tutto generico). 12.7. Ritiene il Collegio che la legge in questione potrebbe risultare anzitutto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza e della parità di trattamento. Si tratta, infatti, di una sovvenzione attribuita ad una specifica impresa al di fuori di quelle che sono le regole generali di assegnazione di fondi statali ai teatri, sicché si potrebbe ravvisare una discriminazione delle altre imprese che, a parità di condizioni, si trovino a dover sostenere oneri economici per continuare la propria attività. Tale rilievo risulta rafforzato dal fatto che i teatri appellanti – al pari del teatro Eliseo – si rivolgono al medesimo bacino di utenti ed operano non solo nello stesso settore di spettacolo (attività teatrali di prosa), ma anche nella stessa area geografica. 12.8. La disposizione potrebbe risultare altresì irragionevole e arbitraria, non rinvenendosi, neanche nei lavori preparatori, l’individuazione dell’interesse pubblico sotteso a tale speciale elargizione o, quantomeno, dei criteri ai quali si è ispirata la scelta legislativa (che non ha nemmeno indicato le specifiche modalità di attuazione). Al riguardo, si deve osservare che in ogni operazione di finanziamento “non è intelligibile solo un interesse del beneficiario, ma anche quello dell’organismo che l’elargisce, il quale, a sua volta, altro non è se non il portatore degli interessi, dei fini e degli obiettivi che si intendono soddisfare con l’erogazione del contributo” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza 27 aprile 2004, n. 2555). Nel caso di specie, le amministrazioni appellate si sono sforzate di individuare tale interesse pubblico nell’esigenza di garantire la continuità dell’attività di un teatro che riveste particolare importanza, dal punto di vista storico – artistico, per la città di Roma. Tuttavia, da un lato le amministrazioni appellate non hanno indicato sulla base di quali atti, documenti o studi, sia stata operata tale valutazione, dall’altro siffatta motivazione non è neppure rinvenibile nei lavori preparatori. E’ peraltro un fatto notorio che anche i teatri ricorrenti possano vantare una lunga tradizione nel panorama teatrale della città di Roma. Per quanto concerne il riconoscimento del Teatro Eliseo quale “teatro di rilevante interesse culturale”, tale qualifica non riflette un particolare giudizio di valore attribuito dall’ordinamento, ma è esclusivamente funzionale alla redistribuzione dei fondi FUS. Non risulta, inoltre, che l’ente beneficiario svolga funzioni o servizi di interesse pubblico. Sicuramente, esiste un interesse pubblico al sostegno delle attività culturali, ma esso è già stato preso in considerazione dalla disciplina specifica ed articolata, che regola l’intervento dello Stato nel settore, le cui finalità si sono in precedenza richiamate. In definitiva, né la ricorrenza del centenario (circostanza peraltro contestata dai teatri ricorrenti), né la situazione di crisi, potrebbero risultare sufficienti a giustificare la speciale elargizione accordata al teatro Eliseo, poiché non sembra emergere lo specifico interesse pubblico sotteso all’intervento del legislatore, o comunque la ragione della differenziazione del teatro beneficiario rispetto alle situazioni degli altri teatri che pure aspirano al sostegno pubblico per realizzare la propria offerta culturale e che si trovano, o potranno trovarsi, nelle medesime o analoghe difficoltà finanziarie. 12.9. Deve altresì convenirsi con gli appellanti che, poiché i teatri sono strumento di cultura e luogo di espressione artistica - come del resto attestato dalle finalità perseguite con il FUS, cui partecipano -, la loro discriminazione costituisce anche violazione degli articoli 9 e 33 della Costituzione, posti a tutela dello sviluppo della cultura e della libertà dell’espressione artistica, valori rispetto ai quali risultano funzionali le disposizioni che regolano l’intervento pubblico in materia, ispirate ai principi della parità di accesso e della valutazione comparativa sulla base di parametri oggettivamente predeterminati. 12.10. Viene altresì in rilievo anche la violazione dell’art. 97 Cost.. La violazione dei principi di buon andamento ed imparzialità costituisce un corollario dell’arbitrarietà e manifesta irragionevolezza della disciplina impugnata, come dimostrato dal fatto che la stessa difetta della previsione di una procedura idonea ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa in cui si concreta. In tal senso, la Corte Costituzionale, nel sanzionare l’illegittimità costituzionale di leggi provvedimento (in particolare, con riferimento a leggi regionali che avevano provveduto in luogo dell’amministrazione), da ultimo ha “valorizzato il ruolo svolto dal procedimento amministrativo nell’amministrazione partecipativa disegnata dalla legge 7 agosto 1990, n. 241”, precisando (cfr. sentenza 5 aprile 2018, n. 69) che: 1) il procedimento amministrativo costituisce il luogo elettivo di composizione degli interessi, in quanto è “nella sede procedimentale […] che può e deve avvenire la valutazione sincronica degli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela, a confronto sia con l’interesse del soggetto privato operatore economico, sia ancora (e non da ultimo) con ulteriori interessi di cui sono titolari singoli cittadini e comunità, e che trovano nei princìpi costituzionali la loro previsione e tutela”; 2) la struttura del procedimento amministrativo “rende possibili l’emersione di tali interessi, la loro adeguata prospettazione, nonché la pubblicità e la trasparenza della loro valutazione, in attuazione dei princìpi di cui all’art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241 […]: efficacia, imparzialità, pubblicità e trasparenza”; 3) viene in tal modo garantita, “in primo luogo, l’imparzialità della scelta, alla stregua dell’art. 97 Cost., ma poi anche il perseguimento, nel modo più adeguato ed efficace, dell’interesse primario, in attuazione del principio del buon andamento dell’amministrazione, di cui allo stesso art. 97 Cost.”. In tale ottica nel caso di specie rilevano, quali norme interposte rispetto all’attuazione degli articoli 3 e 97 Cost: - la previsione generale contenuta nell’art. 12 della legge 7 agosto 1990, n. 241, per il quale “La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”; - le previsioni della l. n. 162 del 1985 e del d.l. n. 24 del 2003, sulla necessità di individuare “i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo”, aventi valore di principi fondamentali della legislazione statale (art. 1, comma 1, d.l. n. 24 del 2003); - le previsioni attuative recate, sia pure a livello secondario, dal D.M. del 1° luglio 2014, vigente ratione temporis. La disposizione censurata dai teatri ricorrenti sembra contrastare pertanto anche con i principi vigenti in materia di distribuzione delle risorse pubbliche, risolvendosi sostanzialmente in un percorso privilegiato per l’erogazione di contributi in danaro, con prevalenza degli interessi di un solo soggetto rispetto a quelli, parimenti meritevoli di tutela, di altri enti esclusi, e a scapito, quindi, dell'interesse generale (cfr. Corte Cost., sentenza n. 139 del 2017). 12.11. Infine, la norma di legge censurata sembra violare anche l’articolo 41 Cost., che garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata. E’ infatti indubbio che – anche alla luce delle norme europee - al pari del teatro beneficiario le società ricorrenti siano imprese che agiscono sul medesimo mercato, in concorrenza tra loro, fornendo lo stesso tipo di servizio, non essendovi alcun elemento idoneo a connotare l’infungibilità o, comunque, peculiarità dell’offerta culturale del teatro Eliseo. Il sostegno economico fornito in modo discriminatorio dallo Stato conferisce all’impresa che ne beneficia la possibilità di coprire i costi e di adottare prezzi più competitivi. Poiché il finanziamento concesso prescinde dalle garanzie di imparzialità e di trasparenza proprie della ripartizione del FUS, esso determina un’alterazione del meccanismo concorrenziale attraverso il quale vengono ordinariamente assegnati i finanziamenti alle imprese teatrali, attribuendo al soggetto beneficiario una ingiustificata posizione di vantaggio. Né la disposizione in esame – come osservato dagli appellanti – ha individuato i valori costituzionali perseguiti o comunque le ragioni che, in un’ottica di bilanciamento, potrebbero giustificare la deroga operata al principio costituzionale della par condicio ed al valore costituzionalmente rilevante della libertà di concorrenza. 13. In definitiva, quanto appena argomentato giustifica la valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dell’art. 22, comma 8, del d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli articoli 3, 9, 33, 41 e 97 della Costituzione. Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, affinché si pronunci sulla questione. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), relativamente all’appello n. 4213 del 2019, di cui in premessa, così provvede: 1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 22, comma 8, del d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli articoli 3, 9, 33, 41 e 97 della Costituzione; 2) dispone la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; 3) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente pronuncia; 4) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere, Estensore Giuseppa Carluccio, Consigliere Michele Conforti, Consigliere Luigi Maruotti, Presidente Daniela Di Carlo, Consigliere Silvia Martino, Consigliere, Estensore Giuseppa Carluccio, Consigliere Michele Conforti, Consigliere IL SEGRETARIO
Contributi e finanziamenti - Cinema e teatro – Teatro Eliseo - Contributo straordinario – Art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 2017 – Violazione artt. 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.            E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 22, comma 8, d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni in l. n. 96 del 21 giugno 2017, in relazione agli artt 3, 9, 33, 41 e 97 Cost. nella parte in cui introduce un contributo straordinario in favore del teatro Eliseo al di fuori della disciplina e del procedimento ordinariamente previsti ai fini dell’intervento pubblico a sostegno dei soggetti operanti nel settore del teatro e dello spettacolo dal vivo (1).    (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina dell’intervento pubblico nel settore dello spettacolo dal vivo prevede stanziamenti a bilancio di fondi pluriennali cui si accede sulla base di procedure comparative. A tal fine, la l. n. 163 del 30 aprile 1985 ha istituito il Fondo unico per lo spettacolo (c.d. FUS), di cui è prevista la ripartizione annuale tra i diversi settori (attività cinematografiche, musicali, di danza, teatrali, circensi e dello spettacolo viaggiante ed iniziative di carattere e rilevanza nazionali da svolgersi in Italia o all’estero) secondo la percentuale globalmente prevista dall’art. 2. In via transitoria, l’art. 13 della legge ha poi, stabilito che sino all’entrata in vigore delle leggi di riforma dei diversi ambiti, “i criteri e le procedure per l'assegnazione dei contributi e dei finanziamenti ai destinatari degli stessi rimangono quelli previsti dalle leggi vigenti per ciascuno dei settori medesimi ed a tal fine il Ministro del turismo e dello spettacolo [...] ripartisce annualmente il Fondo [...] tra i settori di attività ed enti previsti dalla vigente legislazione sullo spettacolo”, in ragione delle percentuali ivi previste. Analogamente, il d.l. 18 febbraio 2003, n. 24, ha stabilito che, “In attesa che la legge di definizione dei princìpi fondamentali di cui all'articolo 117 della Costituzione fissi i criteri e gli àmbiti di competenza dello Stato, i criteri e le modalità di erogazione dei contributi alle attività dello spettacolo, previsti dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, e le aliquote di ripartizione annuale del Fondo unico per lo spettacolo sono stabiliti con decreti del Ministro per i beni e le attività culturali non aventi natura regolamentare” (art.1 ). Per quanto qui interessa, il D.M. 1° luglio 2014 – vigente ratione temporis – ha dettato “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo Unico per lo spettacolo, di cui alla Legge 30 aprile 1985, n. 163”. Per la concessione dei contributi ai diversi settori dello spettacolo dal vivo, l’art. 3 del citato D.M. prevede la presentazione di un progetto triennale (a partire dal triennio 2015-2017) e di un programma annuale per coloro le cui istanze triennali sono state approvate. Inoltre, in base all’art. 46, comma 2, del medesimo decreto, su esclusiva iniziativa del Ministro, sentite le Commissioni consultive competenti per materia, possono essere sostenuti finanziariamente progetti speciali, a carattere annuale o triennale. Il sistema dell’erogazione dei contributi allo spettacolo dal vivo è incentrato sulla valutazione comparativa dei progetti e persegue le finalità di interesse pubblico. Si tratta di obiettivi ripresi e ribaditi anche dal D.M. 27 luglio 2017, attualmente vigente. Al teatro Eliseo sono stati corrisposti contributi quale teatro di rilevante interesse culturale (ai sensi dell’art. 11 del D.M.), nonché contributi per progetti speciali (ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M.). Secondo quanto riportato nella “Scheda di lettura” del d.l. n. 50 del 2017, redatta dal Servizio Studi del Senato della Repubblica, risulta che, in qualità di teatro di rilevante interesse nazionale, con D.D. 538 del 12 giugno 2015 siano stati corrisposti al teatro Eliseo € 481.151 per il 2015, mentre con D.D. 1413 del 7 novembre 2016 siano stati corrisposti € 514.831 per il 2016. Inoltre, con D.M. 497 del 3 novembre 2016 sono stati corrisposti € 250.000 per il progetto speciale “Generazioni”. Va peraltro evidenziato che la possibilità di attribuire agli operatori del settore contributi ulteriori rispetto a quelli ordinari (c.d. “extra FUS”) ai sensi dell’art. 46, comma 2, del D.M. 1° luglio 2014, non altera gli obiettivi strategici indicati, né definisce una diversa procedura da seguire rispetto a quella ordinaria. Il contributo straordinario di cui si verte – che fa seguito all’erogazione degli ingenti importati indicati nel Dossier sopra richiamato - è stato istituito con il citato articolo 22, comma 8, del decreto legge n. 50 del 24 aprile 2017, convertito con modificazioni dalla l. n. 96 del 21 giugno 2017. Il testo originario del decreto adottato autorizzava in favore del Teatro Eliseo la spesa di due milioni di euro per l’anno 2017 “per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità della sua attività in occasione del centenario della sua fondazione”. In sede di conversione, la legge 21 giugno 2017, n. 96, ha modificato il comma 8 del citato articolo 22, innalzando il finanziamento a complessivi otto milioni di euro, ripartiti in quattro milioni di euro per l’anno 2017 e quattro milioni per l’anno 2018. L’excursus che precede conferma la natura di legge – provvedimento delle disposizioni in esame. Esse riguardano un solo destinatario, specificamente individuato, ed hanno un contenuto particolare e concreto rappresentato dall’erogazione di un contributo in denaro finalizzato alla copertura delle spese ordinarie e straordinarie necessarie a consentire la prosecuzione dell’attività del teatro Eliseo in occasione del centenario dalla sua fondazione. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, le leggi provvedimento sono ammissibili solo entro i limiti del rispetto del principio della ragionevolezza e non arbitrarietà.  In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare, la legge – provvedimento è soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell’atto legislativo. Dalla giurisprudenza costituzionale si ricava pertanto che il legislatore, qualora emetta leggi a contenuto provvedimentale, deve applicare con particolare rigore il canone della ragionevolezza, affinché la legge non si risolva in una modalità per aggirare i principi di eguaglianza ed imparzialità.  In altri termini, la mancata previsione costituzionale di una riserva di amministrazione, con la conseguente possibilità per il legislatore di svolgere un'attività a contenuto amministrativo, non può giungere al punto di violare l’eguaglianza tra i cittadini.  Ne consegue che, qualora il legislatore ponga in essere un'attività a contenuto particolare e concreto, devono risultare con chiarezza i criteri ai quali sono ispirate le scelte e le relative modalità di attuazione. Per applicare le richiamate coordinate esegetiche al caso di specie, occorre prendere le mosse dalle finalità enunciate dalla norma che, come detto, è quella di contribuire alle spese affrontate dal Teatro Eliseo al fine di garantire la continuità dell’attività in occasione del suo centenario.  Non si fa ivi riferimento, peraltro, ad un progetto o ad un programma specifico. Sicché, a ben vedere, qualunque tipo di spesa potrebbe essere sovvenzionata, purché valutata dal teatro come funzionale alla prosecuzione della propria attività, e non necessariamente per l’effettuazione di iniziative collegate alla celebrazione del proprio centenario (essendo il dettato legislativo al riguardo del tutto generico). La legge in questione potrebbe risultare anzitutto in contrasto con l’art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza e della parità di trattamento. Si tratta, infatti, di una sovvenzione attribuita ad una specifica impresa al di fuori di quelle che sono le regole generali di assegnazione di fondi statali ai teatri, sicché si potrebbe ravvisare una discriminazione delle altre imprese che, a parità di condizioni, si trovino a dover sostenere oneri economici per continuare la propria attività. Tale rilievo risulta rafforzato dal fatto che i teatri appellanti – al pari del teatro Eliseo – si rivolgono al medesimo bacino di utenti ed operano non solo nello stesso settore di spettacolo (attività teatrali di prosa), ma anche nella stessa area geografica. ​​​​​​​La disposizione potrebbe risultare altresì irragionevole e arbitraria, non rinvenendosi, neanche nei lavori preparatori, l’individuazione dell’interesse pubblico sotteso a tale speciale elargizione o, quantomeno, dei criteri ai quali si è ispirata la scelta legislativa (che non ha nemmeno indicato le specifiche modalità di attuazione).  
Contributi e finanziamenti
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/concessione-servizi-e-richiesta-di-adeguata-qualificazione-professionale-del-personale
Concessione servizi e richiesta di adeguata qualificazione professionale del personale
N. 02984/2020REG.PROV.COLL. N. 00651/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 651 del 2020, proposto da I.F.M. Industrial Food Mense S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Lorenzo Lentini, con domicilio eletto presso lo studio A Placidi Srl in Roma, via Barnaba Tortolini 30; contro Universita' degli Studi Torino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Sodexo Italia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Maurizio Boifava, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima) n. 01280/2019, resa tra le parti, concernente Decreto della Direzione Bilancio e Contratti della Università degli Studi di Torino n. 3067 del 23.07.2019, con il quale si è disposta la aggiudicazione della concessione del servizio di gestione del Bar interno al campus Luigi Einaudi in favore della Società Sodexo Italia S.p.a.. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Sodexo Italia S.p.A. e di Universita' degli Studi Torino; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2020 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5 del Dl. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l’appello in esame l’odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 1280 del 2019 con cui il Tar Piemonte aveva respinto l’originario gravame; quest’ultimo era stato proposto, dalla medesima impresa, al fine di ottenere l’annullamento degli atti di aggiudicazione della procedura aperta avente ad oggetto l’affidamento, in regime di concessione, del servizio pubblico di gestione del bar interno al campus Luigi Einaudi, per la durata di quattro anni e per un valore pari ad euro 2.400.000. In particolare alla procedura di gara, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, partecipavano cinque imprese. All’esito del confronto concorrenziale, venivano attribuiti 95,56 punti alla odierna appellata Sodexo Italia s.p.a. (dei quali 68, 659 per l’offerta tecnica e 26,896 per l’offerta economica), prima classificata, e 94,03 alla odierna appellante, e concessionaria uscente, FM.I. s.p.a. (dei quali 64,028 per l’offerta tecnica e 30 per l’offerta economica), seconda classificata. All’esito del successivo sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta prima classificata, nel corso del quale venivano richieste all’operatore giustificazioni sui prezzi proposti, ricevute le relative note di integrazione (prot. n. 195114 del 29 maggio 2019 e prot. n. 237209 del 21 giugno 2019), la Commissione giudicatrice e il R.U.P., nelle sedute riservate del 4 giugno e 27 giugno 2019, valutavano positivamente la congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità dell’offerta stessa. Quindi, con decreto della Direzione Bilancio e Contratti della Università degli Studi di Torino n. 3067 del 23.07.2019, veniva conseguentemente disposta la contestata aggiudicazione della concessione del servizio. I cinque motivi di ricorso dedotti avverso gli atti di gara venivano respinti dal Tar Piemonte con la sentenza oggetto di gravame. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, contestando la genericità, le carenze e le argomentazioni della sentenza impugnata, parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - error in iudicando, violazione degli artt. 95 e 97 d.lgs. 50 del 2016, violazione del c.s.a., e diversi profili di eccesso di potere per carente ed erroneo esame di un punto decisivo della controversia in tema di illegittimo ricorso, ai contratti di apprendistato da parte della impresa aggiudicataria, pur di far quadrare i conti dei costi del personale; - analoghi vizi circa le ricadute invalidanti dei contratti di apprendistato sul profilo di congruità del costo della manodopera, dichiarato in sede di gara, ai sensi degli artt. 95 comma 10 e 97 comma 3 lett. d) cit., in quanto tale tipologia “peculiare” di personale è stata decisiva per giustificare il costo sottostimato della manodopera di Sodexo, in sede di verifica della anomalia, in quanto il corretto inquadramento di sei unità di personale apprendista in una qualifica ordinaria rende il costo della manodopera insufficiente per oltre € 44.000,00; - error in iudicando, violazione degli artt. 83 e 171 d.lgs. 50 cit. error in procedendo e diversi profili di eccesso di potere in tema di attribuzione del punteggio per il criterio 2.A “numero degli addetti impiegati nella gestione del servizio”, in quanto, a fronte di un monte ore offerto da I.F.M. complessivo di 83.979 ore superiore al monte ore di Sodexo di 54.000 ore, la commissione ha dato rilievo unicamente al numero di unità del personale; - analoghi vizi in relazione alla valutazione dell’elemento 2.D “numero di personale impiegato con padronanza della lingua inglese”, per mancanza dei necessari elementi di valutazione, non solo il numero ma anche il nominativo delle unità di personale e le certificazioni di conoscenza della lingua inglese almeno di livello B1 secondo le specifiche del Disciplinare di Gara; - analoghi vizi nella parte in cui l’offerta Sodexo ha proposto un monte orario complessivo di 54.000 ore che, per i quattro anni di appalto, copre appena 40 settimane (annue), dando luogo pertanto ad una offerta tecnica non idonea a garantire la regolare esecuzione del servizio di ristorazione e bar del Campus Universitario; - analoghi vizi per arbitraria attribuzione di 2 punti a Sodexo per la formazione del personale, in quanto la proposta dell’aggiudicataria (impiego orario di 1542 ore, per la formazione, per un valore medio annuo di 385,5 ore per ciascun operatore per un totale di 6.168 ore nei 4 anni) è del tutto generica ed indimostrata, non avendo dato conto della fattibilità del progetto formativo e dei relativi costi; - analoghi vizi in relazione alla illogicità del punteggio attribuito a Sodexo per il miglioramento dell’allestimento esistente; - analoghi vizi in ordine all’anomalia della offerta economica di Sodexo, in specie in ordine ai contratti di apprendistato - che involgendo una specifica tecnica di appalto (art. 10 CSA) è causa automatica di esclusione non rilevando solo in termini di anomalia – all’insufficienza del costo della manodopera, dichiarata ai sensi dell’art. 95 comma 10 cit. sul piano economico e causa di esclusione, senza possibili ricorsi a meccanismi di compensazione, ed alla mancata dimostrazione dell’anomalia dell’inferiore rimborso delle spese di amministrazione, offerte in 20.000 euro in luogo dei 28.000 previsti dal bando. Le parti appellate si costituivano in giudizio e, replicando punto per punto, chiedevano il rigetto dell’appello. Cancellata dal ruolo la domanda cautelare a fronte della rinuncia di parte appellante, all’udienza del 7 maggio 2020 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. L’appello è fondato. La presente controversia ha ad oggetto l’impugnativa, da parte dell’impresa seconda classificata, degli esiti della procedura di affidamento di cui alla narrativa in fatto, avente ad oggetto l’affidamento, in regime di concessione, del servizio pubblico di gestione del bar interno al campus Luigi Einaudi, per la durata di quattro anni e per un valore pari ad euro 2.400.000. 2. Con il primo, il secondo e parte dell’ottavo ordine di rilievi, l’impresa appellante, seconda classificata, contesta la legittimità del ricorso, da parte dell’offerta aggiudicataria, a personale con contratto di apprendistato, sia in sé, sia in relazione alla congruità dell’offerta. 2.1 Le censure sono fondate. 2.2 La legge di gara (cfr. in specie art. 10 del capitolato speciale) richiedeva che “il personale impiegato per lo svolgimento del servizio dovrà essere provvisto di adeguata qualificazione professionale e regolarmente inquadrato nei livelli professionali previsti dal C.C.N.L. di riferimento”. Nel caso dell’offerta aggiudicataria è pacifico che siano state previste 6 unità su 19 con il contratto di apprendistato. 2.3 Tale ultima tipologia, come noto, costituisce contratto a causa mista (cfr. ad es. Cassazione civile , sez. lav., 3 febbraio 2020, n. 2365); in particolare, il contratto di apprendistato si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge l'elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, la seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., vede la trasformazione del rapporto in tipico rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, in caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa al licenziamento "ante tempus" nel rapporto di lavoro a tempo determinato. Il contratto di apprendistato professionalizzante è finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali ed il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto è a causa mista, di formazione e lavoro che assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato. Inoltre, la stessa modalità di svolgimento del rapporti di apprendistato si differenzia da quella ordinaria sotto diversi profili concreti, come a titolo esemplificativo attraverso l’onere della compresenza di un tutore nell’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò trova conferma dall’analisi del vigente ccnl in materia che, in relazione ad uno specifico livello (VI super) esclude il ricorso all’apprendistato. 2.4 A fronte di tali peculiarità del contratto di apprendistato non può pertanto ritenersi garantita la necessaria ed adeguata qualificazione professionale, richiesta dalla lex specialis. Le peculiarità dell’apprendistato trovano conferma nel particolare regime di favore economico, evidenziato da risparmi rilevanti per l’impresa, sia in termini di retribuzione sia soprattutto in sede contributiva (dove il risparmio ammonta ordinariamente al 20 per cento della retribuzione). Un tale regime di favore si ricollega direttamente alla funzione formativa del contratto, sopra ricordata. 2.5 Ciò comporta altresì la fondatezza dei rilievi mossi avverso la verifica della congruità dell’offerta, nei termini di cui al secondo motivo di appello; infatti, applicando le retribuzioni dovute al personale dotato di adeguata qualificazione professionale l’offerta economica appare insufficiente nei termini dedotti. 2.6 Parimenti fondati sono i rilievi dedotti in relazione alla violazione degli oneri di riassunzione, inconciliabili rispetto alla natura ed agli effetti dei rapporti di apprendistato in quanto, oltre che privi della richiesta professionalità, privi della necessaria stabilità. 3. Con il terzo ordine di motivi si contesta l’attribuzione del punteggio per il criterio 2.A “numero degli addetti impiegati nella gestione del servizio”, in quanto, a fronte di un monte ore offerto da I.F.M. complessivo di 83.979 ore superiore al monte ore di Sodexo di 54.000 ore, la commissione ha dato rilievo unicamente al numero di unità del personale. 3.1 La censura non ha pregio. Infatti, il criterio in oggetto fa riferimento unicamente al “numero degli addetti impiegati nella gestione del servizio” e non al monte ore, rilevante ad altri fini, su cui infra. Conseguentemente, in relazione al punteggio ed al criterio in questione, appare corretta la valutazione riferita al solo numero degli addetti. 4. Analoga conclusione negativa concerne il quarto motivo, con cui parte appellante contesta la valutazione dell’elemento 2.D “numero di personale impiegato con padronanza della lingua inglese”, per mancanza dei necessari elementi nell’offerta aggiudicataria. 4.1 Premesso che la sentenza appellata, oltre ad apparire accompagnata da una motivazione generica in relazione alle singole censure (seppur formalmente coerente al concetto di sentenza semplificata di cui all’art. 120 comma 10 cod proc amm), ha erroneamente applicato autonomamente la prova di resistenza ad ogni singolo motivo, senza considerare che il divario di 1,53 punti ben potrebbe essere superato attraverso il riferimento a più di una censura eventualmente fondata, con conseguente verifica a valle, nel caso della censura in esame la stessa non appare fondata nel merito. 4.2 In proposito, il criterio invocato prevede l’attribuzione di massimo 2 punti in relazione al “numero di personale impiegato con padronanza della lingua inglese (almeno livello B1). Nel caso di specie, l’offerta della Sodexo contiene l’espressa indicazione dell’impiego di 22 unità di personale con padronanza della lingua inglese ed in possesso di certificazione conforme al livello richiesto. Ciò appare adeguato al disciplinare di gara, in termini di impiego rilevante ai fini di valutazione dell’offerta, senza ausilio di ulteriori chiarimenti. 5. Con il quinto motivo parte appellante contesta l’offerta Sodexo nella parte in cui ha proposto un monte orario complessivo di 54.000 ore che, per i quattro anni di appalto, copre appena 40 settimane (annue), dando luogo pertanto ad una offerta tecnica – oltre che all’evidenza sul versante economico - non idonea a garantire la regolare esecuzione del servizio di ristorazione e bar del Campus Universitario. 5.1 Il motivo è fondato. 5.2 Infatti, l’offerta aggiudicataria copre solo 40 settimane, un periodo quindi inferiore al periodo di apertura del campus. In proposito, se per un verso la lex specialis richiedeva un’offerta relativa ad un intero quadriennio, senza alcun riferimento a presunti periodi di chiusura del servizio pur a strutture aperte, per un altro verso è provato come l’apertura del campus in oggetto, e conseguentemente delle relative strutture, sia garantita dall’università per un periodo pari all’intero anno, come da calendario allegato al gravame (cfr. doc n. 13). 5.3 Di conseguenza, l’offerta aggiudicataria non risulta in grado di coprire l’oggetto di affidamento. Irrilevante è la difesa circa la insufficienza del (peraltro ben superiore a quella aggiudicataria, sia in termini di settimane che di monte orario offerto) periodo coperto da parte appellante, in mancanza di un motivo dedotto in via incidentale. 6. Con il sesto motivo parte appellante contesta l’arbitraria attribuzione di 2 punti a Sodexo per la formazione del personale, in quanto la proposta dell’aggiudicataria (impiego orario di 1542 ore, per la formazione, per un valore medio annuo di 385,5 ore per ciascun operatore per un totale di 6.168 ore nei 4 anni) è del tutto generica ed indimostrata, non avendo dato conto della fattibilità del progetto formativo e dei relativi costi. 6.1 Il motivo è fondato. 6.2 L’offerta aggiudicataria risulta carente in termini di esplicazione della relativa proposta in parte qua. In particolare, non risulta specificato se l’impegno orario indicato sia stato offerto all’interno del monte orario complessivo di 54000 ore, ovvero se sia da considerare un monte orario aggiuntivo: nel primo caso, di conteggio all’interno delle 54.000 ore, vi sarebbe una ulteriore riduzione delle ore effettivamente destinate al bar di altre 6168 ore, con ulteriore inammissibile riduzione delle settimane di servizio garantito da 40 settimane a 35,5; nel secondo caso, il necessario autonomo conteggio avrebbe dovuto costituire oggetto di autonoma e distinta voce di costo, neppure giustificata in sede di verifica di congruità. 6.3 Peraltro, la sproporzione delle ore di formazione, con conseguente sottrazione a quelle destinate al servizio oggetto di gara, appare coerente – in termini di elusione rispetto all’oggetto ed alle regole di gara – a quanto evidenziato sopra in relazione ai contratti di apprendistato. 6.4 Anche in relazione alla presente censura, irrilevanti appaiono le contestazioni di parte appellata circa la presunta insufficienza dell’offerta di parte appellante, sia in mancanza della dimostrazione delle relative deduzioni, sia in mancanza di un motivo dedotto in via incidentale. 6.5 Del pari irrilevanti sono gli invocati chiarimenti forniti dalla stazione appaltante, sulla scorta del consolidato principio a mente del quale deve escludersi che l'amministrazione, a mezzo di chiarimenti auto-interpretativi, possa modificare o integrare la disciplina di gara; i chiarimenti sono invero ammissibili nella sola misura in cui contribuiscano, con un'operazione di interpretazione del testo, a renderne chiaro e comprensibile il significato e/o la ratio, ma non quando, proprio mediante l'attività interpretativa, si giunga ad attribuire ad una disposizione del bando un significato ed una portata diversa e maggiore di quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il rigoroso principio formale della lex specialis , posto a garanzia dei principi di cui all' art. 97 Cost. (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. III, 27 dicembre 2019, n. 8873). Nel caso di specie tramite chiarimento si pretenderebbe di interpretare riduttivamente lo stesso oggetto di gara, al fine di renderlo coerente alla limitativa offerta aggiudicataria, in termini inammissibili rispetto agli individuati parametri di ammissibilità dei chiarimenti. 7. Con il settimo motivo parte appellante lamenta l’illogicità del punteggio attribuito a Sodexo per il miglioramento dell’allestimento esistente. 7.1 La censura appare genericamente formulata, nonché inammissibile in quanto concernente valutazioni di merito. 8. Con l’ottavo motivo, parte appellante contesta l’anomalia della offerta economica di Sodexo, in specie in ordine ai contratti di apprendistato, all’insufficienza del costo della manodopera ed alla mancata dimostrazione dell’insufficienza del previsto rimborso delle spese di amministrazione, offerte in 20.000 euro in luogo dei 28.000 previsti dal bando. 8.1 Anche tale motivo è fondato in parte qua, in relazione ai primi due profili, per i quali valgono le considerazioni sopra svolte in ordine ai motivi uno, due, cinque e sei. 8.2 In relazione alle spese di amministrazioni le stesse, come offerte dall’aggiudicataria, risultano invece coerenti all’allegato 2 del capitolato speciale d’appalto, che indica le spese di amministrazioni annue in euro 20.000. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è fondato in merito ai motivi indicati e va conseguentemente accolto; per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado. 10. L’accoglimento del gravame in merito all’annullamento dell’aggiudicazione impone l’esame dell’ulteriore domanda, proposta in relazione al diritto all’aggiudicazione. 10.1 La domanda è fondata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 122 cod proc amm. Non emergono in alcun modo circostanze ostative ai sensi della richiamata norma; in proposito assumono dirimente rilievo le criticità rilevate nell’offerta dell’aggiudicataria, che hanno comportato l’annullamento della relativa aggiudicazione, la tipologia del servizio da svolgere, che consente un subentro in corso d’opera, e la circostanza che l’appellante fosse già precedente concessionaria del servizio stesso; tali circostanze costituiscono elementi rilevanti ai sensi dell’invocata norma al fine di disporre il richiesto subentro. 10.2 Va di conseguenza sin d’ora dichiarata l’inefficacia del contratto d’appalto stipulato con la società odierna appellata, spettando all’amministrazione la verifica dei presupposti per il definitivo subentro nello stesso della parte odierna appellante. 11. Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado. Dichiara l’inefficacia del contratto stipulato fra le parti appellate e rimette alla stazione appaltante per la verifica del subentro, nei termini di cui in motivazione. Condanna le parti appellate in solido al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio in favore di parte appellante, liquidate in complessivi euro 6.000,00 (seimila\00), oltre accessori dovuti per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2020 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Davide Ponte, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Concessione - Concessione servizi - Personale – Richiesta di una adeguata qualificazione professionale – Apprendistato - Esclusione.             Laddove la legge di gara richieda che il personale impiegato per lo svolgimento della concessione di un servizio debba essere provvisto di adeguata qualificazione professionale e regolarmente inquadrato nei livelli professionali previsti dal C.C.N.L. di riferimento, non è ammissibile il ricorso allo strumento dell’apprendistato, quale contratto a causa mista finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali. In tale ambito, infatti, il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto a causa mista, di formazione e lavoro, assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato; ai fini di gara ciò rileva anche ai fini della verifica di sostenibilità dell’offerta, in quanto le retribuzioni sono quelle dovute al personale dotato di adeguata qualificazione, ed ai fini degli oneri di riassunzione (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che costituisce contratto a causa mista (Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 2020, n. 2365); in particolare, il contratto di apprendistato si configura come rapporto di lavoro a tempo indeterminato a struttura bifasica, nel quale la prima fase è contraddistinta da una causa mista (al normale scambio tra prestazione di lavoro e retribuzione si aggiunge l'elemento specializzante costituito dallo scambio tra attività lavorativa e formazione professionale), mentre, la seconda, soltanto residuale, perché condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., vede la trasformazione del rapporto in tipico rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che, in caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, è inapplicabile la disciplina relativa al licenziamento ante tempus nel rapporto di lavoro a tempo determinato. Il contratto di apprendistato professionalizzante è finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali ed il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto è a causa mista, di formazione e lavoro che assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato. Inoltre, la stessa modalità di svolgimento del rapporto di apprendistato si differenzia da quella ordinaria sotto diversi profili concreti, come a titolo esemplificativo attraverso l’onere della compresenza di un tutore nell’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò trova conferma dall’analisi del vigente ccnl in materia che, in relazione ad uno specifico livello (VI super) esclude il ricorso all’apprendistato. A fronte di tali peculiarità del contratto di apprendistato non può pertanto ritenersi garantita la necessaria ed adeguata qualificazione professionale, richiesta dalla lex specialis. Le peculiarità dell’apprendistato trovano conferma nel particolare regime di favore economico, evidenziato da risparmi rilevanti per l’impresa, sia in termini di retribuzione sia soprattutto in sede contributiva (dove il risparmio ammonta ordinariamente al 20 per cento della retribuzione). Un tale regime di favore si ricollega direttamente alla funzione formativa del contratto, sopra ricordata. Ciò comporta altresì la fondatezza dei rilievi mossi avverso la verifica della congruità dell’offerta, nei termini di cui al secondo motivo di appello; infatti, applicando le retribuzioni dovute al personale dotato di adeguata qualificazione professionale l’offerta economica appare insufficiente nei termini dedotti.
Contratti della Pubblica amministrazione
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Orario di apertura degli esercizi commerciali dal 18 maggio 2020 nella Regione Lazio
N. 03829/2020 REG.PROV.CAU. N. 03463/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Ter) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 3463 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da Risparmio Casa Invest S.r.l., Rica Gest S.r.l. - Societa' Unipersonale, Risparmio Casa Veientana S.r.l., Morgan House S.r.l.S., Risparmio Casa Centocelle S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Giorgio Roderi, Erica Santantonio, Dario Sferrazza Papa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Giorgio Alessandro Roderi in Milano, via Legnano, 16; contro Comune di Roma Capitale, Regione Lazio non costituiti in giudizio; nei confronti Venchi S.p.A. non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, Per quanto riguarda il ricorso introduttivo: * dell’Ordinanza del Sindaco di Roma 7 maggio 2020 n. 91 recante ‘Emergenza Covid fase 2 Misure urgenti e necessarie al fine di prevenire la diffusione del virus COVID-19. Orari di apertura al pubblico delle attività commerciali, artigianali e produttive’; * e, per quanto occorrer possa, dell’Ordinanza del Presidente della Regione Lazio 30 aprile 2020 n. Z00037 recante ‘Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019 – Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica’ e di ogni altro atto presupposto, preordinato, consequenziale e connesso, ancorché non noto, con riserva di motivi aggiunti. Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati da RISPARMIO CASA INVEST S.R.L. il 15\5\2020 : dell’Ordinanza del Sindaco di Roma 15 maggio 2020 n. 92 recante ‘Emergenza Covid fase 2 Misure urgenti e necessarie al fine di contenere e gestire la diffusione del COVID-19. Orari di apertura al pubblico delle attività commerciali, artigianali e produttive’ e di ogni altro atto presupposto, preordinato, consequenziale e connesso, ancorché non noto, con riserva di motivi aggiunti. Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi dell'art. 56 C.p.a. nonché l’istanza di abbreviazione dei termini ex art.53 C.p.a.; Considerato che il quadro delle impugnative promosse col ricorso introduttivo del giudizio è stato modificato per effetto dell’ordinanza sindacale recante data odierna e odiernamente avversata con ricorso accessorio depositato alle h.15.38; Considerato che le società ricorrenti ritengono che detta nuova ordinanza (che entra in vigore a partire dal 18 maggio 2020), pur se elimina l’obbligo di chiusura domenicale degli esercizi commerciali, conferma la modulazione della fasce orarie di apertura nonchè il divieto di apertura, per gli esercizi commerciali delle società ricorrenti, prima delle ore 11 del mattino: e da tanto il loro persistente interesse alla sospensione interinale dei relativi effetti; Considerato che la delicatezza della questione controversa, involgendo più interessi di stampo costituzionale, ne rende fortemente opportuno il vaglio collegiale pur anche sollecitato dalle ricorrenti con apposita istanza di abbreviazione dei termini: istanza, quest’ultima, cui è possibile aderire, senza sospendere i provvedimenti avversati, stante il ristrettissimo arco di tempo che precede la camera di consiglio (sotto la data del 26.5.2020) deputata alla trattazione collegiale; Ritenuto, da ultimo, opportuno segnalare che la riduzione sino alla metà dei termini previsti dall’art.55 C.p.a. (e quindi, nel caso di specie, di dieci giorni liberi dal perfezionamento dell’ultima notificazione del ricorso accessorio) decorre dall’avvenuta notificazione del presente decreto che, pertanto, dovrà essere notificato alle Parti Pubbliche intimate entro la data odierna al fine di rispettare il citato intervallo temporale e consentire la trattazione dell’istanza cautelare nella camera di consiglio del 26 maggio 2020; P.Q.M. - respinge, per le ragioni declinate in parte motiva, l’istanza monocratica di cui all’art.56 C.p.a.; - accoglie, sempre per le ragioni descritte in parte motiva, l’istanza ex art.53 C.p.a. e per l’effetto: - riduce fino alla metà i termini previsti dall’art.55 c.5 del C.p.a; - fissa per la trattazione collegiale la camera di consiglio del 26.5.2020; - subordina la citata trattazione collegiale al rispetto degli adempimenti indicati in parte motiva. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 15 maggio 2020. IL SEGRETARIO
 Covid-19 – Lazio - Orario di apertura degli esercizi commerciali dal 18 maggio 2020 – Ordinanza sindacale – Non va sospesa.           Non devono essere sospese l’ordinanza del Sindaco di Roma 7 maggio 2020, n. 91 - recante “emergenza Covid fase 2 misure urgenti e necessarie al fine di prevenire la diffusione del virus orari di apertura al pubblico delle attività commerciali artigianali e produttive’ (Covid 19)” - nonché la successiva ordinanza dello stesso Sindaco 15 maggio 2020, n. 92, che individua l’orario di apertura al pubblico delle attività commerciali a decorrere dal 18 maggio 2020; ciò in quanto la delicatezza della questione controversa, involgendo più interessi di stampo costituzionale, ne rende fortemente opportuno il vaglio collegiale (1).   (1) Le società ricorrenti hanno dedotto che detta nuova ordinanza (che entra in vigore a partire dal 18 maggio 2020), pur se elimina l’obbligo di chiusura domenicale degli esercizi commerciali, conferma la modulazione della fasce orarie di apertura nonchè il divieto di apertura, per gli esercizi commerciali delle società ricorrenti, prima delle ore 11 del mattino: e da tanto il loro persistente interesse alla sospensione interinale dei relativi effetti
Covid-19
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Gestione della farmacia comunale mediante società in house e normativa sostanziale e processuale applicabile
Numero 00687/2022 e data 30/03/2022 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato Sezione Prima Adunanza di Sezione del 26 gennaio 2022 NUMERO AFFARE 01592/2019 OGGETTO: Ministero della salute. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da Francesca Pascale e Maurizio Bolognini, in qualità di soci e legali rappresentanti della "Farmacia Bolognini Snc di Bolognini Maurizio & C.", con sede in Castel Bolognese, avverso la deliberazione della Giunta dell'Unione della Romagna Faentina n. 189 del 18 ottobre 2018, avente ad oggetto “Revisione biennale della pianta organica delle farmacie situate nei comuni dell'Unione della Romagna Faentina (Brisighella - Casola Valsenio - Castel Bolognese - Faenza - Riolo Terme - Solarolo) ai sensi dell'art. 4 della L.R. n. 2 del 03/03/2016 – Approvazione”, nella parte in cui istituisce la nuova sede farmaceutica straordinaria n. 3 di Castel Bolognese;ricorso per motivi aggiunti avverso la deliberazione del Consiglio comunale n. 20 dell'8 aprile 2019 avente ad oggetto “Farmacia comunale di Castel Bolognese decisioni della gestione attraverso Sfera s.r.l. (società pubblica in house)”, contro il comune di Castel Bolognese e l'Unione della Romagna Faentina, e nei confronti della Regione Emilia Romagna, dell’AUSL della Romagna, della società Sfera s.r.l.; LA SEZIONE Vista la nota prot. n. DGDMF 0062582-P del 6 novembre 2019 di trasmissione della relazione (pervenuta in data 12 novembre 2019) con la quale il Ministero della salute ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto; visto il parere interlocutorio 25 novembre 2020, n. 1937; vista la nota del Ministero della salute 27 maggio 2021, n. 38698; visto il parere interlocutorio 16 agosto 2021 n. 1404; vista la nota del Ministero della salute 11 novembre 2021, n. 80700; esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Neri; Premesso. 1. I ricorrenti, titolari di una delle due farmacie situate lungo la via Emilia nel comune di Castel Bolognese, con ricorso introduttivo chiedono l’annullamento della deliberazione della Giunta dell'Unione della Romagna Faentina n. 189 del 18 ottobre 2018 nella parte in cui istituisce la nuova sede farmaceutica straordinaria n. 3 di Castel Bolognese. In particolare, con un unico motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione dell’articolo 11, comma 1, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (c.d. decreto crescitalia-liberalizzazioni) ed eccesso di potere per illogicità e sviamento, contestando la collocazione della terza nuova sede farmaceutica “straordinaria”. L'Unione della Romagna Faentina, l'Ausl della Romagna e il comune di Castel Bolognese hanno presentato controdeduzioni. 2. Con ricorso per motivi aggiunti, parte ricorrente ha sottoposto a gravame la deliberazione del Consiglio comunale n. 20 dell'8 aprile 2019 con cui il Comune, dopo avere esercitato il diritto di prelazione sulla nuova sede con deliberazione della Giunta comunale n. 189 del 2018, ha disposto l’affidamento diretto del servizio di farmacia comunale alla società operante in house providing Sfera s.r.l. Parte ricorrente deduce quattro censure: a. violazione dell’articolo 9 l. 475/98 (come modificato dall’articolo 10 della l. 362/91) perché, stante la prevalenza delle norme di settore in materia di gestione del servizio farmaceutico rispetto alle norme che in generale disciplinano i servizi pubblici locali, non sarebbe possibile l’affidamento della gestione della farmacia col ricorso al modulo dell’in house, ma solo secondo i moduli di gestione previsti dal citato articolo 9 (in economia, mediante azienda municipalizzata o consortile, e mediante società partecipata con i dipendenti farmacisti); b. violazione dell’articolo 9 l. 475/98 sotto altro aspetto, perché l’affidamento in house sarebbe avvenuto in favore di una società che non è partecipata dal comune di Castel Bolognese, ma dal consorzio (al quale partecipa il comune) e da altri comuni, senza dunque alcuna partecipazione diretta nella compagine sociale di Sfera s.r.l.; c. violazione dell’articolo 2598 n. 3 c.c. ed eccesso di potere per disparità di trattamento; esercizio di posizione dominante da parte di Sfera anche in violazione dell’art. 101- 102 TFUE. Ciò in quanto la società Sfera, che non ha partecipato ad alcuna procedura di evidenza pubblica, avrebbe avuto un accesso privilegiato al mercato in violazione dei principi generali sulla concorrenza e sulla parità di trattamento ed avrebbe consolidato una posizione dominante nel mercato di riferimento; d. violazione dell’articolo 97 Cost, eccesso di potere per illogicità e violazione dei criteri di economicità, poiché la somma che la società Sfera si è impegnata a pagare al Comune per i primi cinque anni (€ 6000 annui) sarebbe irrisoria con grave nocumento per l’interesse pubblico. Il Comune di Castel Bolognese (con memoria del 25 luglio 2019), la società Sfera s.r.l. (con memoria del 18 luglio 2019), l'Unione della Romagna Faentina (con memoria del 3 aprile 2019) e l’AUSL della Romagna (con memoria dell’8 aprile 2019) hanno presentato controdeduzioni al ricorso introduttivo e al ricorso per motivi aggiunti. 3. Il Ministero con la relazione trasmessa al Consiglio di Stato il 6 novembre 2019, esaminati il ricorso principale ed il ricorso per motivi aggiunti, rilevata l’inammissibilità del solo ricorso per motivi aggiunti ai sensi dell'articolo 120, comma 1, del d.lgs. n. 104 del 2010, ha concluso per l’infondatezza di entrambi. Inoltre, il Ministero, unitamente alla relazione, il 6 novembre 2019 ha trasmesso la documentazione aggiuntiva prodotta da parte ricorrente il 3 ottobre 2019 e, in particolare, una “perizia urbanistica relativa alla revisione della pianta organica del comune di Castel Bolognese di cui alla deliberazione della Giunta dell’Unione della Romagna Faentina . 189 del 18 ottobre 2018” che dimostrerebbe l’irrazionale collocazione della nuova farmacia. 4. Con parere 25 novembre 2020, n. 1937, la Sezione ha invitato il Ministero a: “1. predisporre relazione integrativa sulla perizia di parte prodotta dai ricorrenti; 2. nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 47 d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, trasmettere – previa formazione di un indice analitico dettagliato – tutti i documenti inerenti al ricorso (ricorso principale, ricorso per motivi aggiunti, controdeduzioni, memorie, atti allegati, ecc.), creando per ciascun documento un singolo e specifico file, esclusivamente in formato pdf, e intitolando ogni file con il richiamo al singolo atto ivi contenuto”. 5. Il Ministero ha adempiuto l’istruttoria con nota 27 maggio 2021, prot. n. 38698, nella quale è analiticamente esaminata la perizia integrativa di parte ricorrente. 6. La Sezione, considerato che la relazione integrativa e la documentazione allegata non risultavano trasmesse ai ricorrenti e alle altre parti interessate, ha ritenuto opportuno che, prima dell’adozione del parere finale, fosse garantito il contraddittorio con le parti interessate. Pertanto, con parere del 16 agosto 2021 n. 1404, la Sezione ha invitato il Ministero “a trasmettere la relazione integrativa e la relativa documentazione ai ricorrenti e alle altre parti interessate, assegnando loro un termine per produrre memorie, scaduto il quale il Ministero stesso provvederà a trasmettere le memorie eventualmente depositate, con le osservazioni ministeriali sulle stesse, presso la Segreteria della Sezione”. 7. In seguito, il Ministero, con relazione 11 novembre 2021 prot. n. 80700, ha riferito che - con nota prot. n. 63909 dell'8 settembre 2021 - ha trasmesso la documentazione alle parti e che in seguito il comune di Castel Bolognese e l'Unione della Romagna Faentina hanno depositato memorie di identico contenuto, nelle quali è ribadito quanto in precedenza esposto nelle controdeduzioni al ricorso. Ha riferito inoltre che l’Ausl della Romagna, con memoria integrativa, ha formulato osservazioni in ordine alla perizia urbanistica relativa alla revisione della pianta organica del comune di Castel Bolognese prodotta dai ricorrenti ed ha ribadito quanto già esposto nelle precedenti controdeduzioni. Considerato. 8. La Sezione ritiene di dover esaminare, in primo luogo, il ricorso introduttivo per l’annullamento della deliberazione della Giunta dell'Unione della Romagna Faentina n. 189 del 18 ottobre 2018 avente ad oggetto “Revisione biennale della pianta organica delle farmacie situate nei comuni dell'Unione della Romagna Faentina (Brisighella - Casola Valsenio - Castel Bolognese - Faenza - Riolo Terme - Solarolo) ai sensi dell'art. 4 della L.R. n. 2 del 03/03/2016 – Approvazione” nella parte in cui istituisce la sede farmaceutica straordinaria n. 3 di Castel Bolognese. Parte ricorrente, con un unico motivo di ricorso, deduce violazione dell’articolo 11, comma 1, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 ed eccesso di potere per illogicità e sviamento, contestando la collocazione della terza nuova sede farmaceutica “straordinaria” nello stesso asse viario dove si trovano le altre due esistenti, ovvero nella via Emilia, ritenendo che l’ente locale avrebbe dovuto individuare una sede diversa sia per “decentrare” la farmacia, garantendo l’accessibilità al servizio farmaceutico ai cittadini più svantaggiati residenti in aree scarsamente abitate, in conformità con lo scopo della legge, sia per evitare che la nuova sede potesse far loro concorrenza. In sintesi, l’Ente, con l’atto impugnato, avrebbe rispettato solo in parte la ratio della norma che sarebbe quella di stabilire un’equa distribuzione degli esercizi in tutto il territorio comunale. 8.1. La Sezione ritiene opportuno ricostruire brevemente il quadro giuridico in relazione alla questione sottoposta alla decisione della Sezione. Il d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, in legge 24 marzo 2012, n. 27 - Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività (Crescitalia) (Liberalizzazioni) – con l’articolo 11 - Potenziamento del servizio di distribuzione farmaceutica, accesso alla titolarità delle farmacie, modifica alla disciplina della somministrazione dei farmaci e altre disposizioni in materia sanitaria - al fine di favorire l'accesso alla titolarità delle farmacie da parte di un più ampio numero di aspiranti aventi i requisiti di legge, nonché di favorire le procedure per l'apertura di nuove sedi farmaceutiche, garantendo al contempo una più capillare presenza sul territorio del servizio farmaceutico, ha apportato modificazioni alla l. 2 aprile 1968, n. 475 - Norme concernenti il servizio farmaceutico -. Quest’ultima legge dispone oggi all’articolo 1, tra l’altro, che “il numero delle autorizzazioni è stabilito in modo che vi sia una farmacia ogni 3.300 abitanti” e che “ogni nuovo esercizio di farmacia deve essere situato ad una distanza dagli altri non inferiore a 200 metri e comunque in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona”. Il successivo articolo 2 prevede poi che “al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate”. 8.2. In materia di organizzazione dei servizi farmaceutici, la Corte costituzionale, con sentenza n. 255/2013, ha chiarito quali siano le competenze relative al servizio farmaceutico, precisando che "la legislazione statale distribuisce le competenze distinguendo tre tipi di attività. In primo luogo, vi è la determinazione del numero delle farmacie (cosiddetta disciplina del contingentamento delle sedi farmaceutiche), per la quale il legislatore statale, pur non precisando il soggetto competente alla determinazione, detta una specifica proporzione (una farmacia ogni 3.300 abitanti). In secondo luogo, vi sono la individuazione delle nuove sedi farmaceutiche e la loro localizzazione, attività che la normativa statale demanda ai Comuni (l'art. 2 della legge 2 aprile 1968, n. 475, recante "Norme concernenti il servizio farmaceutico", così come modificato dall'art. 11, comma 1, lettera c), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 - Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività - , convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, stabilisce che "il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie ..."). In terzo luogo, vi è l'assegnazione dei servizi farmaceutici attraverso procedure concorsuali, a cui segue il rilascio delle autorizzazioni ad aprire le farmacie e a esercitare detti servizi; per queste attività, il legislatore statale determina i requisiti di base per la partecipazione ai concorsi ai fini del rilascio delle autorizzazioni all'esercizio dei servizi farmaceutici, attribuendo alle Regioni e alle Province autonome la competenza ad adottare i bandi di concorso (art. 4 della legge 8 novembre 1991, n. 362 - Norme di riordino del settore farmaceutico; art. 11, comma 3, del d.l. n. 1 del 2012)". 8.3. Ricorda la Sezione che la revisione della pianta organica va qualificata come atto generale di pianificazione, funzionale al miglior assetto delle farmacie sul territorio comunale, al fine di garantire l'accessibilità dei cittadini al servizio farmaceutico. Secondo consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, 16 gennaio 2018, n. 223), le scelte relative alla localizzazione di una farmacia, laddove siano rispettati il criterio demografico e quello della distanza minima, sono caratterizzate da un elevato tasso di discrezionalità e, quindi, sono sindacabili solo nei ben noti limiti entro i quali è consentito il sindacato sull'eccesso di potere. Pertanto, fermo il rispetto del nuovo parametro relativo alla popolazione, la localizzazione da parte dell'Amministrazione deve obbedire unicamente ai vincoli in tema di distanze minime stabiliti dalla legge e trarre ispirazione dall'obiettivo primario della maggiore fruibilità del servizio farmaceutico e della sua capillare articolazione sul territorio, purché la scelta in concreto adottata sia immune da illogicità o da palese irragionevolezza. In particolare, è stato chiarito (Consiglio di Stato, Sez. III, 12 febbraio 2015, n. 749; id., 10 aprile 2014, n. 1727) che non è manifestamente irrazionale l'ubicazione di una nuova farmacia in area già servita da preesistenti esercizi, laddove ciò risulti giustificato dall'entità della popolazione interessata; difatti, se è vero che l'aumento del numero delle farmacie risponde anche allo scopo di estendere il servizio farmaceutico alle zone meno servite, è anche vero che tale indicazione non è tassativa né esclusiva, stante il prioritario criterio della "equa distribuzione sul territorio", di cui all'articolo 2, comma 1, della legge n. 475/1968. Inoltre, è stato precisato (Consiglio di Stato, Sez. III, 20 marzo 2017, n. 1250) che la zonizzazione del territorio assolve alla funzione di vincolare l'esercente a mantenere il suo esercizio all'interno del perimetro assegnato e non anche a dislocare le farmacie secondo la regola della corrispondenza esatta di una ogni 3.300 residenti nella zona di riferimento; la scelta del legislatore statale di attribuire ai comuni il compito di individuare le zone in cui collocare le farmacie risponde, quindi, all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, corrispondente agli effettivi bisogni della collettività, tenendo conto di fattori diversi dal numero dei residenti, come l'individuazione delle maggiori necessità di fruizione del servizio che si avvertono nelle diverse zone del territorio, le correlate valutazioni di situazioni ambientali, topografiche e di viabilità, le distanze tra le diverse farmacie. In definitiva, secondo la giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 2 maggio 2016, n. 1659), rientra nella discrezionalità dell'amministrazione comunale consentire una relativa concentrazione di esercizi farmaceutici in alcune zone più frequentate e determinare la localizzazione delle nuove sedi in un determinato ambito territoriale, fermo restando il rispetto del generale parametro demografico e del parametro della distanza minima, così come è legittimo che il Comune determini l'ampiezza della circoscrizione di ciascuna sede valutando una pluralità di esigenze, ivi compresi i flussi quotidiani di spostamento per motivi di lavoro, di affari, etc., anche di chi non è residente. Da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 15 marzo 2021, n. 2240 riassume efficacemente i termini della questione: “giova anzitutto premettere che questa Sezione ha più volte evidenziato che nel nuovo assetto ordinamentale il legislatore ha privilegiato l'esigenza di garantire l'accessibilità degli utenti al servizio distributivo dei farmaci senza però che ciò debba tradursi in una regola cogente secondo la quale occorra procedere all'allocazione delle nuove sedi di farmacia in zone disabitate o del tutto sprovviste (di farmacie), né può significare che deve essere evitata la sovrapposizione geografica e demografica con le zone di pertinenza delle farmacie già esistenti, essendo, invece, fisiologica e del tutto rispondente alla ratio della riforma l'eventualità che le nuove zone istituite dai Comuni o dalle Regioni incidano sul bacino d'utenza di una o più sedi preesistenti; la riforma, in altri termini, vuole realizzare l'obiettivo di assicurare un'equa distribuzione sul territorio e, solo in via aggiuntiva, introduce il criterio che occorre tener altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate (cfr. da ultimo Cons. St., sez. III, 14 dicembre 2020 n. 7998). All'interno della suddetta cornice regolatoria lo scopo della perimetrazione della zona di una sede farmaceutica è quello di delimitare la libertà di scelta del farmacista, nel senso che questi è, in linea di massima e salvo eccezioni, libero di scegliere l'ubicazione del proprio esercizio, purché rimanga all'interno di quel perimetro; a fronte di tale libertà di scelta, i titolari delle zone contigue non hanno tutela, salva la distanza minima obbligatoria di duecento metri, essendo illegittimo il comportamento di un Comune che, anziché provvedere alla delimitazione dell'area di pertinenza della nuova sede farmaceutica, entro la quale il farmacista titolare della sede può decidere ove collocare il proprio esercizio farmaceutico (previo rispetto della distanza di m. 200 da quello più vicino), provvede esso stesso ad individuare nel dettaglio l'area nella quale avrebbe dovuto collocarsi la sede, così invadendo l'ambito di discrezionalità spettante al farmacista assegnatario”. 9. Venendo alle censure mosse con ricorso introduttivo, i ricorrenti contestano in sintesi la collocazione da parte del Comune della nuova sede farmaceutica “straordinaria” nella via Emilia, ovvero nello stesso asse viario dove si trovano le altre due farmacie, e rilevano che l’Ente avrebbe dovuto individuare una zona diversa che al tempo stesso consentisse di “decentrare” il servizio farmaceutico e di evitare che si faccia concorrenza alle farmacie già istituite. A tale scopo parte ricorrente ha prodotto una perizia che descrive la modifica che ha subito la pianta organica del comune di Castel Bolognese a seguito dell’istituzione della terza sede farmaceutica, osservando che la decisione di istituire una nuova farmacia non sarebbe giustificata in base al parametro numerico; analizza poi l’evoluzione urbanistica del comune e, infine, la mobilità nel territorio comunale rilevando come questa sia caratterizzata da una certa rigidità dovuta alla mancanza di itinerari alternativi alla via Emilia, lungo la quale si concentra la maggior parte del traffico. Il Ministero, con relazione del 27 maggio 2021, conclude che, anche alla luce dei rilievi mossi da parte ricorrente con la perizia, la localizzazione della terza sede farmaceutica rappresenta un bilanciamento dei diversi bisogni della collettività e non è pertanto irrazionale o illogica. Osserva la Sezione che, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale delineato nei precedenti paragrafi, le doglianze di parte ricorrente risultano prive di pregio. Come visto, infatti, l’ordinamento assegna all’ente il potere di istituire o meno la farmacia comunale, decisione che rientra dunque nella discrezionalità che l’ente locale deve esercitare, evidentemente, in relazione agli interessi pubblici da perseguire e alla promozione dello sviluppo della comunità amministrata: tale facoltà risulta esercitata, nel caso in esame, coerentemente con le finalità evidenziate. L'esigenza di garantire l'accessibilità agli utenti del servizio farmaceutico non deve tradursi in una regola cogente secondo la quale occorre procedere all'allocazione delle nuove sedi di farmacia in zone disabitate o del tutto sprovviste di farmacie. Inoltre, la coincidenza con il bacino di utenza delle altre due farmacie non contrasta con la ratio della riforma, laddove è rispettata la distanza minima obbligatoria di duecento metri. In conclusione, la scelta in concreto adottata dall’Ente è coerente con le finalità indicate dall’ordinamento, è immune da illogicità o da palese irragionevolezza e, pertanto, non è sindacabile. 10. Passando adesso all’esame del ricorso per motivi aggiunti - che attiene unicamente al modello gestionale della società in house scelto dal Comune - la Sezione esamina in via preliminare l’eccezione l’inammissibilità proposta dal Comune, dall’Unione della Romagna Faentina e dalla controinteressata Sfera s.r.l. ai sensi dell'articolo 120, comma 1, d.lgs. n. 104/2010, secondo cui “gli atti delle procedure di affidamento, …, relativi a pubblici lavori, servizi o forniture, nonché i provvedimenti dell'Autorità nazionale anticorruzione ad essi riferiti, sono impugnabili unicamente mediante ricorso al tribunale amministrativo regionale competente". Sostengono gli interessati che l’articolo 120 c.p.a. si applica alla concessione del servizio pubblico e, in maniera altrettanto pacifica, anche agli affidamenti in house. I ricorrenti per motivi aggiunti ritengono invece che il codice degli appalti pubblici e delle concessioni resterebbe del tutto estraneo alla fattispecie in questione e che, dunque, non troverebbe applicazione l’articolo 120 c.p.a. 10.1. Rileva la Sezione che l’assistenza farmaceutica, ai sensi dell’art. 28, comma 1, della legge n. 833 del 1978 (di istituzione del servizio sanitario nazionale), è erogata dalle aziende sanitarie locali attraverso le farmacie, di cui sono titolari enti pubblici (comuni e aziende ospedaliere) o soggetti privati. Sgombrando il campo da ipotesi alternative, per la Sezione il servizio farmaceutico va qualificato in termini di servizio pubblico di rilevanza economica. Infatti, come rilevato dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. III, 11 febbraio 2019, n. 992) l'esercizio di una farmacia costituisce pubblico servizio, così come riconosciuto dall'art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 e, in particolare, va collocato tra i servizi di rilevanza economica (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 15 febbraio 2007, n. 637). Per Corte Costituzionale 10 ottobre 2006, n. 87, "la complessa regolamentazione pubblicistica dell'attività economica di rivendita dei farmaci è infatti preordinata al fine di assicurare e controllare l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l'indubbia natura commerciale dell'attività del farmacista". 10.2. Ulteriore questione attiene alle modalità gestionali delle farmacie comunali. Il d.l. 25 settembre 2009, n. 135, come convertito in l. n. 166/2009, ha escluso le farmacie comunali dall'ambito applicativo dell'art. 23-bis d.l. n. 112/2008, convertito in l. n. 133/2008 - esclusione confermata dall'art. 1, c. 3, lett. d), del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 e poi dall'art. 4, co. 34, del d.l. n. 138/2011 (successivamente inciso dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 199/2012) e s.m.i. - stabilendo che le modalità gestionali delle farmacie comunali siano quelle di cui all'art. 9 della legge n. 475/1968, così come modificato dall'art. 10 della l. n. 362/1991 recante "Norme concernenti il servizio farmaceutico". Le farmacie pubbliche, dunque, non risultano attratte nella sfera di applicazione delle norme concernenti i servizi pubblici locali. Il citato articolo 9 l. 475/68 dispone che “la titolarità delle farmacie che si rendono vacanti e di quelle di nuova istituzione a seguito della revisione della pianta organica può essere assunta per la metà dal comune. Le farmacie di cui sono titolari i comuni possono essere gestite, ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142, nelle seguenti forme: a) in economia; b) a mezzo di azienda speciale; c) a mezzo di consorzi tra comuni per la gestione delle farmacie di cui sono unici titolari; d) a mezzo di società di capitali costituite tra il comune e i farmacisti che, al momento della costituzione della società, prestino servizio presso farmacie di cui il comune abbia la titolarità. All'atto della costituzione della società cessa di diritto il rapporto di lavoro dipendente tra il comune e gli anzidetti farmacisti”. 10.3. La giurisprudenza di questo Consiglio ha esaminato più volte la questione concernente l’ammissibilità di forme di gestione delle farmacie comunali non previste dall’articolo 9 della l. 475 del 1968, poiché, ad esempio, fra le forme di gestione individuate dalla predetta norma speciale non è stato previsto l’affidamento in concessione a terzi. Sul punto osserva la sentenza, sez. III, 13 novembre 2014, n. 5587, che lo stesso legislatore ha previsto forme di gestione del servizio farmaceutico comunale ulteriori rispetto a quelle indicate nell'art. 9 della legge 475 del 1968 che, dunque, non sono tassative. Ed invero, “non si dubita … che la gestione di una farmacia comunale possa essere esercitata da un comune mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), benché tale modalità non sia stata prevista dal legislatore del 1968 (e del 1991), in coerenza con l’evolversi degli strumenti che l’ordinamento ha assegnato agli enti pubblici per svolgere le funzioni loro assegnate; e non si dubita che la gestione possa essere esercitata, come si è accennato, anche da società miste pubblico/private (…), con il superamento del limite dettato dall’art. 9 della l. n. 475 del 1968, secondo cui la gestione poteva essere affidata a società solo se costituite tra il comune e i farmacisti. (…) L’affidamento della gestione è peraltro consentito in house a patto che il Comune eserciti sulla società un “controllo analogo” a quello che eserciterebbe su proprie strutture organizzative, nel concetto di controllo analogo essendo peraltro ricompresa la destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione aggiudicatrice”. È stato altresì chiarito con la stessa pronuncia che “si deve ritenere che un comune, nel caso in cui non intenda utilizzare per la gestione di una farmacia comunale i sistemi di gestione diretta disciplinati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968, possa utilizzare modalità diverse di gestione anche non dirette; purché l’esercizio della farmacia avvenga nel rispetto delle regole e dei vincoli imposti all’esercente a tutela dell’interesse pubblico. In tale contesto, pur non potendosi estendere alle farmacie comunali tutte le regole dettate per i servizi pubblici di rilevanza economica, non può oramai più ritenersi escluso l’affidamento in concessione a terzi della gestione delle farmacie comunali attraverso procedure di evidenza pubblica. Del resto l’affidamento in concessione a terzi attraverso gare ad evidenza pubblica costituisce la modalità ordinaria per la scelta di un soggetto diverso dalla stessa amministrazione che intenda svolgere un servizio pubblico”. Peraltro, si ritiene oggi unanimemente che l’assenza di una norma positiva che autorizzi la dissociazione tra titolarità e gestione non crei un ostacolo insormontabile all’adozione del modello concessorio. Con riguardo al profilo afferente alla tutela della salute, l’obiettivo del mantenimento in capo al Comune delle proprie prerogative di Ente che persegue fini pubblicistici può essere garantito – in caso di affidamento a terzi – dalle specifiche regole di gara e, più precisamente, dagli obblighi di servizio pubblico da imporre al concessionario, idonei a permettere un controllo costante sull’attività del gestore e di garantire standard adeguati di tutela dei cittadini. In questo senso, l’impostazione risulta perfettamente in linea con il principio comunitario di proporzionalità, per cui le restrizioni al regime di piena concorrenza sono effettivamente ammesse nei limiti in cui risulti strettamente necessario con l’obiettivo da perseguire (nella specie, la salvaguardia della salute pubblica e del benessere dei cittadini) (così T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 1 marzo 2016, n. 309). 11. Sulla base delle norme e della giurisprudenza richiamate, la Sezione osserva che la gestione di una farmacia comunale – da qualificarsi, si ripete, servizio pubblico di rilevanza economica –, può essere esercitata dall’ente, oltre che con le forme dirette previste dal citato articolo 9 l. n. 475 del 1968, sempre in via diretta, anche mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), ovvero può essere affidata in concessione a soggetti estranei al comune previo espletamento di procedure di evidenza pubblica in modo da garantire la concorrenza. 12. Occorre ora chiedersi se la scelta di affidare in house la gestione della farmacia possa essere attratta, come sostenuto dalle amministrazioni resistenti, nella disciplina del Codice degli appalti (d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e conseguentemente nel regime processuale previsto dagli artt. 119 e 120 c.p.a. L’adunanza plenaria, con sentenza 27 luglio 2016, n. 22, ha affermato che con l’espressione lessicale utilizzata dagli articoli 119 e 120 c.p.a., “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”, si intendono anche i provvedimenti che riguardano le procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi e che, pertanto, “gli artt.119 e 120 del c.p.a. sono applicabili alle procedure di affidamento di servizi in concessione”. Sempre la giurisprudenza di questo Consiglio ha altresì chiarito che le impugnazioni di affidamenti  diretti di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house sono soggette al “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 del codice del processo amministrativo. A tale conclusione deve giungersi in ragione dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore: «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e «atti delle procedure di affidamento». Esse si incentrano, infatti, sul concetto di «procedure», concetto questo che, nella sua latitudine, è idoneo a racchiudere tutta l’attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo (“Sulla base di tale ricostruzione - ripetutamente affermata ai fini del riparto di giurisdizione in materia di contratti pubblici tra giudice amministrativo e giudice ordinario (ex multis: Cass., Sez. Un., ord. 10 aprile 2017, n. 9149, 18 novembre 2016, n. 23468; sent. 3 novembre 2016, n. 22233) – anche l’affidamento diretto di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house deve ritenersi riconducibile al concetto di «procedure» utilizzato dai più volte citati artt. 119, comma 1, lett. a), e 120, comma 1, del codice del processo amministrativo. Infatti, quand’anche estrinsecatosi uno actu, l’affidamento in questione è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in tesi con modalità estremamente semplificate”, Consiglio di Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2533; con specifico riferimento all’affidamento in house di una farmacia, Consiglio di Stato, sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564 nonché Consiglio di Stato, sez III, 2 novembre 2020 n. 6760, sul ricorso avverso l’aggiudicazione della gara per l’affidamento della gestione, mediante concessione trentennale, della farmacia comunale di nuova istituzione). 13. Per le ragioni sino a qui esposte, dunque, la Sezione ritiene che il ricorso per motivi aggiunti sia inammissibile, potendosi impugnare gli atti relativi all’affidamento in house della gestione del servizio farmaceutico unicamente con ricorso innanzi al tribunale amministrativo regionale. 14. Conclusivamente il Consiglio esprime parere nel senso che il ricorso principale vada respinto e il ricorso per motivi aggiunti sia dichiarato inammissibile. P.Q.M. Esprime il parere che il ricorso introduttivo vada respinto e il ricorso per motivi aggiunti sia dichiarato inammissibile. IL SEGRETARIO Maria Cristina Manuppelli
a– Gestione – Criterio.  Farmacia – Farmacia comunale – Normativa sostanziale e processuale applicabile – Individuazione.     La revisione della pianta organica va qualificata come atto generale di pianificazione, funzionale al miglior assetto delle farmacie sul territorio comunale, al fine di garantire l'accessibilità dei cittadini al servizio farmaceutico (1).              La gestione di una farmacia comunale – da qualificarsi servizio pubblico di rilevanza economica – può essere esercitata dall’ente, oltre che con le forme dirette previste dall’ art. 9, l. n. 475 del 1968, sempre in via diretta, anche mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), ovvero può essere affidata in concessione a soggetti estranei al comune previo espletamento di procedure di evidenza pubblica in modo da garantire la concorrenza (2).             La scelta di affidare in house la gestione della farmacia comunale può essere attratta nella disciplina del Codice degli appalti (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) e conseguentemente nel regime processuale previsto dagli artt. 119 e 120 c.p.a. (2).    (1) Secondo consolidata giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 16 gennaio 2018, n. 223), le scelte relative alla localizzazione di una farmacia, laddove siano rispettati il criterio demografico e quello della distanza minima, sono caratterizzate da un elevato tasso di discrezionalità e, quindi, sono sindacabili solo nei ben noti limiti entro i quali è consentito il sindacato sull'eccesso di potere.  Pertanto, fermo il rispetto del nuovo parametro relativo alla popolazione, la localizzazione da parte dell'Amministrazione deve obbedire unicamente ai vincoli in tema di distanze minime stabiliti dalla legge e trarre ispirazione dall'obiettivo primario della maggiore fruibilità del servizio farmaceutico e della sua capillare articolazione sul territorio, purché la scelta in concreto adottata sia immune da illogicità o da palese irragionevolezza.  In particolare, è stato chiarito (Cons. Stato, sez. III, 12 febbraio 2015, n. 749; id., 10 aprile 2014, n. 1727) che non è manifestamente irrazionale l'ubicazione di una nuova farmacia in area già servita da preesistenti esercizi, laddove ciò risulti giustificato dall'entità della popolazione interessata; difatti, se è vero che l'aumento del numero delle farmacie risponde anche allo scopo di estendere il servizio farmaceutico alle zone meno servite, è anche vero che tale indicazione non è tassativa né esclusiva, stante il prioritario criterio della "equa distribuzione sul territorio", di cui all'art. 2, comma 1, l. n. 475 del 1968.  Inoltre, è stato precisato (Cons. Stato, sez. III, 20 marzo 2017, n. 1250) che la zonizzazione del territorio assolve alla funzione di vincolare l'esercente a mantenere il suo esercizio all'interno del perimetro assegnato e non anche a dislocare le farmacie secondo la regola della corrispondenza esatta di una ogni 3.300 residenti nella zona di riferimento; la scelta del legislatore statale di attribuire ai comuni il compito di individuare le zone in cui collocare le farmacie risponde, quindi, all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, corrispondente agli effettivi bisogni della collettività, tenendo conto di fattori diversi dal numero dei residenti, come l'individuazione delle maggiori necessità di fruizione del servizio che si avvertono nelle diverse zone del territorio, le correlate valutazioni di situazioni ambientali, topografiche e di viabilità, le distanze tra le diverse farmacie.  In definitiva, secondo la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 2 maggio 2016, n. 1659),  rientra nella discrezionalità dell'amministrazione comunale consentire una relativa concentrazione di esercizi farmaceutici in alcune zone più frequentate e determinare la localizzazione delle nuove sedi in un determinato ambito territoriale, fermo restando il rispetto del generale parametro demografico e del parametro della distanza minima, così come è legittimo che il Comune determini l'ampiezza della circoscrizione di ciascuna sede valutando una pluralità di esigenze, ivi compresi i flussi quotidiani di spostamento per motivi di lavoro, di affari, etc., anche di chi non è residente.    Ha ancora chiarito il parere che l’ordinamento assegna all’ente il potere di istituire o meno la farmacia comunale, decisione che rientra dunque nella discrezionalità che l’ente locale deve esercitare, evidentemente, in relazione agli interessi pubblici da perseguire e alla promozione dello sviluppo della comunità amministrata: tale facoltà risulta esercitata, nel caso in esame, coerentemente con le finalità evidenziate.  L'esigenza di garantire l'accessibilità agli utenti del servizio farmaceutico non deve tradursi in una regola cogente secondo la quale occorre procedere all'allocazione delle nuove sedi di farmacia in zone disabitate o del tutto sprovviste di farmacie. Inoltre, la coincidenza con il bacino di utenza delle altre due farmacie non contrasta con la ratio della riforma, laddove è rispettata la distanza minima obbligatoria di duecento metri.  In conclusione, la scelta in concreto adottata dall’Ente è coerente con le finalità indicate dall’ordinamento, è immune da illogicità o da palese irragionevolezza e, pertanto, non è sindacabile.    (2) La giurisprudenza di questo Consiglio ha esaminato più volte la questione concernente l’ammissibilità di forme di gestione delle farmacie comunali non previste dall’art. 9, l. n. 475 del 1968, poiché, ad esempio, fra le forme di gestione individuate dalla predetta norma speciale non è stato previsto l’affidamento in concessione a terzi.  Sul punto osserva la sentenza, sez. III, 13 novembre 2014, n. 5587, che lo stesso legislatore ha previsto forme di gestione del servizio farmaceutico comunale ulteriori rispetto a quelle indicate nell'art. 9, l. n. 475 del 1968 che, dunque, non sono tassative.  Ed invero, “non si dubita … che la gestione di una farmacia comunale possa essere esercitata da un comune mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), benché tale modalità non sia stata prevista dal legislatore del 1968 (e del 1991), in coerenza con l’evolversi degli strumenti che l’ordinamento ha assegnato agli enti pubblici per svolgere le funzioni loro assegnate; e non si dubita che la gestione possa essere esercitata, come si è accennato, anche da società miste pubblico/private (…), con il superamento del limite dettato dall’art. 9 della l. n. 475 del 1968, secondo cui la gestione poteva essere affidata a società solo se costituite tra il comune e i farmacisti. (…) L’affidamento della gestione è peraltro consentito in house a patto che il Comune eserciti sulla società un “controllo analogo” a quello che eserciterebbe su proprie strutture organizzative, nel concetto di controllo analogo essendo peraltro ricompresa la destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione aggiudicatrice”.  È stato altresì chiarito con la stessa pronuncia che “si deve ritenere che un comune, nel caso in cui non intenda utilizzare per la gestione di una farmacia comunale i sistemi di gestione diretta disciplinati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968, possa utilizzare modalità diverse di gestione anche non dirette; purché l’esercizio della farmacia avvenga nel rispetto delle regole e dei vincoli imposti all’esercente a tutela dell’interesse pubblico. In tale contesto, pur non potendosi estendere alle farmacie comunali tutte le regole dettate per i servizi pubblici di rilevanza economica, non può oramai più ritenersi escluso l’affidamento in concessione a terzi della gestione delle farmacie comunali attraverso procedure di evidenza pubblica.  Del resto l’affidamento in concessione a terzi attraverso gare ad evidenza pubblica costituisce la modalità ordinaria per la scelta di un soggetto diverso dalla stessa amministrazione che intenda svolgere un servizio pubblico”.  Peraltro, si ritiene oggi unanimemente che l’assenza di una norma positiva che autorizzi la dissociazione tra titolarità e gestione non crei un ostacolo insormontabile all’adozione del modello concessorio. Con riguardo al profilo afferente alla tutela della salute, l’obiettivo del mantenimento in capo al Comune delle proprie prerogative di Ente che persegue fini pubblicistici può essere garantito – in caso di affidamento a terzi – dalle specifiche regole di gara e, più precisamente, dagli obblighi di servizio pubblico da imporre al concessionario, idonei a permettere un controllo costante sull’attività del gestore e di garantire standard adeguati di tutela dei cittadini. In questo senso, l’impostazione risulta perfettamente in linea con il principio comunitario di proporzionalità, per cui le restrizioni al regime di piena concorrenza sono effettivamente ammesse nei limiti in cui risulti strettamente necessario con l’obiettivo da perseguire (nella specie, la salvaguardia della salute pubblica e del benessere dei cittadini) (Tar Brescia, sez. II, 1 marzo 2016, n. 309).   (3) L’adunanza plenaria, con sentenza 27 luglio 2016, n. 22,  ha affermato che con l’espressione lessicale utilizzata dagli articoli 119 e 120 c.p.a., “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture”, si intendono anche i provvedimenti che riguardano le procedure aventi ad oggetto le concessioni di servizi e che, pertanto, “gli artt.119 e 120 del c.p.a. sono applicabili alle procedure di affidamento di servizi in concessione”.  Sempre la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha altresì chiarito che le impugnazioni di affidamenti  diretti di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house sono soggette al “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a.. A tale conclusione deve giungersi in ragione dell’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore: «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e «atti delle procedure di affidamento». Esse si incentrano, infatti, sul concetto di «procedure», concetto questo che, nella sua latitudine, è idoneo a racchiudere tutta l’attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo (“Sulla base di tale ricostruzione - ripetutamente affermata ai fini del riparto di giurisdizione in materia di contratti pubblici tra giudice amministrativo e giudice ordinario (ex multis: Cass., Sez. Un., ord. 10 aprile 2017, n. 9149, 18 novembre 2016, n. 23468; sent. 3 novembre 2016, n. 22233) – anche l’affidamento diretto di contratti di lavori, servizi e forniture ad un ente in house deve ritenersi riconducibile al concetto di «procedure» utilizzato dai più volte citati artt. 119, comma 1, lett. a), e 120, comma 1, del codice del processo amministrativo. Infatti, quand’anche estrinsecatosi uno actu, l’affidamento in questione è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché in tesi con modalità estremamente semplificate”, Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2533; con specifico riferimento all’affidamento in house di una farmacia, id., sez. III, 3 marzo 2020, n. 1564 nonché id. 2 novembre 2020 n. 6760, sul ricorso avverso l’aggiudicazione della gara per l’affidamento della gestione, mediante concessione trentennale, della farmacia comunale di nuova istituzione). 
Farmacia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/foglio-di-via-obbligatorio-per-picchettaggio
Foglio di via obbligatorio per picchettaggio
N. 03108/2022REG.PROV.COLL. N. 03594/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3594 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’Avvocato Marina Prosperi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio eletto presso il suo studio in Bologna, via Cesare Battisti, n. 33; contro Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, e Questura di Modena, in persona del Questore pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; per la riforma della sentenza -OMISSIS- del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, sez. I, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso proposto dall’odierno appellante contro il provvedimento -OMISSIS-, emesso dal Questore di Modena -OMISSIS-, recante foglio di via obbligatorio, ai sensi degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011, con diffida dal fare ritorno nel Comune di Modena per -OMISSIS- dalla notifica del provvedimento medesimo. visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Interno e della Questura di Modena; visti tutti gli atti della causa; relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 aprile 2022 il Consigliere Massimiliano Noccelli; viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. L’odierno appellante, -OMISSIS-, ha impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), il provvedimento -OMISSIS-, emesso dal Questore di Modena -OMISSIS-, recante foglio di via obbligatorio nei suoi confronti, ai sensi degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011, con diffida dal fare ritorno nel Comune di Modena per -OMISSIS- dalla notifica del provvedimento medesimo. 1.1. La motivazione del provvedimento di fonda sul fatto che, nei mesi -OMISSIS-, il sindacato -OMISSIS-, a cui l’appellante aderoisce, avrebbe indetto numerose manifestazioni non autorizzate davanti lo stabilimento -OMISSIS-, nel corso delle quali i partecipanti avrebbero attuato un blocco di merci, ostacolando gli automezzi in entrata e in uscita dal suddetto stabilimento, con l’effetto di provocare il congestionamento del traffico. 1.2. Inoltre, nel corso delle suddette manifestazioni, si sarebbe creato un clima di tensione con le forze di polizia, che in alcuni casi sarebbe sfociato in vera e propria violenza nei confronti delle stesse e in una delle quali -OMISSIS- avrebbe assunto un ruolo attivo nel picchetto che bloccava il traffico veicolare in entrata e in uscita dallo stabilimento e, in particolar modo, avrebbe esortato i manifestanti presenti a «non mollare» - così si legge nel provvedimento questorile – dall’azione di protesta, invitandoli a mantenere costante l’azione di blocco fisico, sì da apparire uno degli organizzatori della manifestazione 1.3. Per tali fatti l’interessato è stato denunciato all’autorità giudiziaria ai sensi degli artt. 110 e 610 c.p. (violenza privata in concorso) e ai sensi dell’art. 18 del R.D. n. 773 del 1931 – T.U.L.P.S. (omesso avviso di riunioni pubbliche). 1.5. Ancora, il successivo -OMISSIS-, -OMISSIS- manifestanti aderenti allo stesso sindacato hanno costituito un presidio di protesta davanti ai cancelli di -OMISSIS-, di fatto impedendo il libero accesso dei mezzi pesanti in entrata e in uscita dallo stabilimento e le forze dell’ordine avrebbero allestito un servizio di allontanamento, al quale i manifestanti si sono opposti con metodi violenti e tra questi, come si legge ancora nel provvedimento del Questore, sarebbe figurato ancora l’odierno appellante, poi deferito all’autorità giudiziaria sempre ai sensi del già citato art. 18 del R.D. n. 773 del 1931. 1.6. Il Questore di Modena ha poi elencato una serie di denunce a carico dell’appellante, perlopiù per resistenza a pubblico ufficiale e violenza privata. 1.7. L’autorità amministrativa ha tratto da tutto ciò la conclusione che -OMISSIS- sia una persona dedita alla commissione di reati che mettono in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica e ha emesso quindi nei suoi confronti il foglio di via obbligatorio, contestato nel presente giudizio, per la durata di -OMISSIS-. 2. Avanti al Tribunale, infatti, il ricorrente, nel chiedere l’annullamento del foglio di via, ha dedotto la violazione degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011, degli artt. 2, 5 e 6 della CEDU nonché l’eccesso di poter per travisamento dei fatti ed illogicità della motivazione. 2.1. Il Ministero dell’Interno si è costituito nel primo grado del giudizio per chiedere la reiezione del ricorso. 2.2. Il Tribunale, con l’ordinanza -OMISSIS-, ha chiesto alla Questura di Modena di trasmettere gli atti sui quali si fondava il provvedimento impugnato e, all’esito di tale incombente istruttorio, adempiuto da parte dell’amministrazione resistente con il deposito, il successivo -OMISSIS-, di una relazione della Questura e di dieci allegati, con la sentenza -OMISSIS-, resa in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a., ha respinto il ricorso. 2.3. Ad avviso del primo giudice, in sintesi, l’esercizio dei diritti sindacali non costituisce certo ragione, normalmente, per ritenere una persona socialmente pericolosa, ma quello in esame sarebbe un «caso limite», nel quale l’affermazione che il ricorrente sia persona socialmente pericolosa non sarebbe «temeraria», da parte dell’autorità amministrativa, dato che un soggetto, che ha mostrato di ritenere necessarie sempre le maniere forti in occasione di qualche contrasto sindacale, ragionevolmente non si asterrà da condotte similare per evitare ulteriori denunce. 3. Avverso tale sentenza ha proposto appello l’interessato, articolando due motivi di cui ora meglio si dirà, e ne ha chiesto la riforma, con il conseguente accoglimento del ricorso proposto in prime cure. 3.1. Con un primo motivo (-OMISSIS-), anzitutto, l’odierno appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata per la intrinseca illogicità della motivazione, per la violazione di legge e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011, in merito alla sussistenza dei presupposti per un giudizio di pericolosità sociale: in particolare, violazione dell’art. 1, comma 1, lett. c) del d. lgs. n. 159 del 2011 per mancanza di dedizione alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. 3.1.2. Afferma l’appellante, tra l’altro, che leggendo attentamente la documentazione prodotta dalla pubblica amministrazione, a seguito di richiesta da parte del Tribunale, si evince che tutti i fatti si riferiscono a episodi di vertenze sindacali e in quei pochi casi, ove viene descritta qualche condotta del ricorrente, si intuisce che a -OMISSIS- viene contestato di aver posto in essere un blocco stradale. 3.1.3. Si tratterebbe, pertanto, di condotte irrilevanti sotto il profilo oggi in esame e pertanto, anche alla luce della documentazione prodotta dalla pubblica amministrazione, si potrebbe ritenere senza alcun dubbio che l’appellante non rientri un nessuna delle categorie di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 159 del 2011. 3.1.4. Nel corso del giudizio di primo grado, infatti, non sarebbero state dimostrate in maniera specifica e sufficiente le precise modalità aggressive con cui il ricorrente avrebbe minacciato la sicurezza e la tranquillità pubblica – né la sentenza impugnata ha motivato adeguatamente sul punto – in quanto in tali atti e documenti, oltre alla mera partecipazione dell’appellante ai singoli episodi, non vengono forniti quegli elementi attuali e concreti su cui dovrebbe basarsi il giudizio di pericolosità sociale, difettando così di specificità ed individualità e non rispondendo così alla «esigenza di interpretazione tassativizzante della normativa in materia», affermata da questo Consiglio di Stato nella sentenza -OMISSIS-. 3.2. Con un secondo motivo (-OMISSIS-), poi, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata per l’intrinseca illogicità della motivazione nonché per la violazione di legge e falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d. lgs. n. 159 del 2011 e, in particolare, per la mancanza dei presupposti per l’irrogazione del provvedimento del foglio di via obbligatorio. 3.2.1. L’appellante ha dedotto che, per quanto riguarda i fatti da cui scaturirebbe il provvedimento di foglio di via, inerenti alla vertenza sindacale -OMISSIS-, non si comprende quali siamo, secondo il Tribunale, gli elementi di fatto attuali e concreti, da cui deriverebbe il giudizio di pericolosità sociale. 3.2.2. La Questura di Modena, nella relazione depositata con i documenti richiesti dal Collegio di prime cure, ha affermato di non poter allegare alcuna documentazione in merito ai fatti accaduti fuori i cancelli -OMISSIS-, perché coperta da segreto istruttorio e, pertanto, occorre basarsi solo su quanto affermato nel provvedimento stesso. 3.2.3. Da tale provvedimento – come più volte ribadito – si evince soltanto che l’appellante “appariva tra gli organizzatori della manifestazione” e sarebbe stato riconosciuto tra i manifestanti che avrebbero attuato il blocco dei mezzi. 3.2.4. Al contrario di quanto si sostiene nella sentenza impugnata, dunque, nel provvedimento del Questore di Modena non vi è alcuna descrizione di condotte, lesive della tranquillità e sicurezza pubblica, che l’appellante avrebbe posto in essere in concreto, venendo solo riportata la situazione generale del picchetto formato da molteplici persone. 3.4. Si è costituito il Ministero dell’Interno per chiedere la reiezione dell’appello. 3.5. Con l’ordinanza -OMISSIS- la Sezione, richiamando il precedente di Cons. St., -OMISSIS-, ha accolto l’istanza di sospensione proposta dall’appellante -OMISSIS- in corso di causa. 3.6. Con la successiva ordinanza -OMISSIS- il Collegio, ritenuto necessario, ai fini del decidere, che la Questura di Modena fornisse entro trenta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza chiarimenti in ordine alla attuale sussistenza di esigenze di segreto istruttorio sulla documentazione non prodotta in primo grado, ha disposto che la Questura di Modena, nell’ipotesi in cui le esigenze di segreto istruttorio fossero venute meno, avrebbe dovuto depositare entro il suddetto termine tale documentazione. 3.7. Il Ministero dell’Interno non ha ottemperato all’ordine istruttorio impartito dal Collegio. 3.8. Infine nell’udienza pubblica del 12 aprile 2022 il Collegio, sulle conclusioni delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 4. L’appello deve essere accolto in entrambe le censure sopra riportate, che risultano entrambe fondate alla stregua delle motivazioni che seguono. 5. Si devono richiamare e applicare alla presente vertenza tutti i principî già affermati dalla Sezione, per un caso pressoché analogo, nella sentenza -OMISSIS-, già sopra menzionata. 5.1. Occorre qui ribadire, ai fini che qui rilevano, che per l’adozione del foglio di via obbligatorio sono richiesti elementi di fatto, attuali e concreti, in base ai quali può essere formulato un giudizio prognostico sulla probabilità che il soggetto commetta reati che offendono o mettono in pericolo la tranquillità e sicurezza pubblica, perché, diversamente, si finirebbe per fondare la misura sulla responsabilità collettiva per fatti addebitabili ad anonimi esponenti di un gruppo o, come nel caso di specie, di un movimento sindacale. 5.2. In particolare, come questo Consiglio di Stato ha già evidenziato nella propria costante giurisprudenza, assumono rilievo centrale, sul piano istruttorio e motivazionale, il profilo soggettivo, relativo alla “dedizione” del soggetto alla commissione di reati, e quello oggettivo, inerente alla attitudine offensiva dei medesimi reati nei confronti dei beni nominativamente individuati dal legislatore e cioè, per quanto di interesse, quelli della sicurezza e della tranquillità pubblica. 5.3. Il foglio di via obbligatorio, previsto dall’art. 2 del d. lgs. n. 159 del 2011, è infatti diretto a prevenire reati socialmente pericolosi, non già a reprimerli, e pertanto, benché non occorra la prova della avvenuta commissione di reati, è richiesta dalla giurisprudenza amministrativa una motivata indicazione dei comportamenti e degli episodi, desunti dalla vita e dal contesto socio ambientale dell’interessato, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose (-OMISSIS-). 5.4. La misura preventiva in questione si presenta, sul piano della sua tipizzazione normativa, fortemente caratterizzata in termini penalistici, nel senso che entrambi i predetti profili, soggettivo e oggettivo, devono essere ricostruiti, da un lato, attingendo al vissuto criminale del soggetto interessato (nei suoi risvolti pregressi ed in quelli prognostici) e, dall’altro lato, analizzando il potenziale offensivo insito nelle condotte criminose alle quali il medesimo risulti essere dedito, con una precisa direzionalità lesiva, quanto ai beni esposti a pregiudizio (Cons. St., -OMISSIS-). 5.5. Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, dopo la recente sentenza -OMISSIS- della Corte costituzionale che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, e seppure con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 159 del 2011, ha sottolineato l’esigenza generale di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali garanzie di tassatività sostanziale, inerente alla precisione, alla determinatezza e alla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale, che costituisce oggetto di prova, ed altrettanto essenziali garanzie di tassatività processuale, attinente invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio. 5.6. Ciò impone una interpretazione rigorosa e tassativizzante delle misure di prevenzione emesse dal Questore. 6. E proprio al rigore di tale doverosa interpretazione e alla connessa violazione dell’art. 1, comma 1, lett. c), del d. lgs. n. 159 del 2011 non si sottrae il provvedimento questorile in questa sede impugnato ed emesso nei confronti di -OMISSIS- che, come ben rileva l’appellante, non rientra in nessuna delle categorie di soggetti previsti dall’art 1, comma 1, del d. lgs. n. 159 del 2011, richiamato dall’art. 2, nemmeno tenendo conto degli elementi e delle considerazioni contenuti nella relazione e negli allegati depositati dall’amministrazione in primo grado. 6.1. Il provvedimento si fonda sull’erroneo presupposto che l’appellante sia dedito alla commissione di reati, quali la resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.) e la contravvenzione di cui all’art. 18 del T.U.L.P.S., per il solo fatto di avere preso parte attivamente alle manifestazioni sindacali davanti allo stabilimento di -OMISSIS-, senza tuttavia specificare quali concrete condotte violente egli abbia posto in essere, dato che la Questura di Modena, opponendo la riservatezza degli atti istruttori, non ha depositato nemmeno in questo grado di appello la documentazione su cui si baserebbe l’apodittica valutazione di pericolosità sociale. 6.2. Orbene, in difetto, nel caso di specie, di ulteriori specificazioni da parte della Questura e fermo ogni accertamento dei fatti, nella competente sede penale, che non si vuole certo qui anticipare o sostituire, il picchettaggio non può ritenersi attività in sé vietata o pericolosa, rientrando nel legittimo esercizio del diritto di sciopero (art. 40 Cost.), purché non avvenga con modalità violente o minacciose tali da condizionare la libertà dei lavoratori non scioperanti o da mettere a repentaglio, appunto, la pubblica sicurezza. 7. Il picchettaggio, come la Sezione ha già chiarito nella sentenza -OMISSIS- già sopra richiamata, è definibile come un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e più specificamente, con riferimento all’elemento teleologico della condotta ed ai soggetti cui si rivolge l’azione dei picchetti, si è detto che «sotto la nozione di picchettaggio si ricomprendono tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti a non accedere nei luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa». 7.1. Il vocabolo trae origine dal linguaggio militare, laddove si collega alle funzioni di vigilanza e di controllo svolte da gruppi di soldati preposti al controllo degli accessi alle caserme e agli accampamenti. 7.2. Dal francese piquet, riferito alla picca, e cioè all’arma di normale dotazione dei militi addetti a tali incarichi, esso ha fatto ingresso nel gergo sindacale anglosassone (picket, picketing), per definire i gruppi di operai stazionanti all’ingresso degli stabilimenti presso i quali è in corso uno sciopero, che in Gran Bretagna costituiscono praticamente una costante di ogni conflitto industriale. 7.3. Di qui la traduzione italiana «picchettaggio» oppure il desueto «picchettamento». 7.4. L’attività dei picchetti può assumere rilevanza sotto diversi profili giuridici, dal momento che, nella pratica, essa tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso. 7.5. Il picchettaggio viene notoriamente praticato per contrastare il fenomeno del crumiraggio e, cioè, il comportamento tenuto dai lavoratori dipendenti dall’azienda ovvero esterni, i quali ultimi concludono in occasione dello sciopero un contratto di lavoro – cosiddetti crumiri – stipulato dall’imprenditore al fine di attenuare od eliminare il pregiudizio economico derivante dallo sciopero e, quindi, vanificare gli intenti perseguiti dagli scioperanti. 7.6. I lavoratori dipendenti dell’azienda o esterni infatti, dissociandosi dall’azione di lotta, ben possono mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative ed eventualmente subentrare nelle posizioni ricoperte all’interno dell’organizzazione aziendale dai lavoratori assenti per sciopero. 7.7. Non è questa la sede per esaminare, in astratto, la complessa natura del picchettaggio, quale forma del diritto di sciopero (art. 40 Cost.), e l’altrettanto complesso problema che investe i limiti della sua liceità penale, con particolare riferimento al blocco delle merci e/o della circolazione stradale, né, come detto, è questa la sede, in concreto, per valutare se i fatti compiuti dall’odierno appellante -OMISSIS-siano penalmente sanzionabili. 8. La stessa descrizione dei fatti contestati nel foglio di via all’odierno appellante, ai fini che qui rilevano, difetta però di specificità e di individualità, in contrasto con la sopra menzionata esigenza di interpretazione tassativizzante della normativa in materia, in quanto dalla lettura del foglio di via non si comprende se l’odierno appellante abbia usato in senso proprio violenza nei confronti delle forze dell’ordine, al di là del vago riferimento ad una “energica” contrapposizione tra manifestanti e dette forze non infrequente in questo tipo di conflitti sindacali e, sicuramente, nella c.d. vertenza -OMISSIS-, né se in seno al picchetto, comunque, la presunta violenza sia attribuibile specificamente alla sua condotta. 8.1. La semplice presenza in un picchetto di molte persone finalizzato ad ostacolare gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici e individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale a carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione e, in particolare, il foglio di via obbligatorio in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e, in ultima analisi, in una misura antidemocratica. 8.2. Elementi di maggiore tassatività, sia sostanziale che processuale, non si colgono poi per il caso di specie nemmeno nel riferimento, che si legge nel foglio di via, a precedenti denunce dell’appellante per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e violazione dell’art. 18 del T.U.L.P.S., secondo la mera e generica elencazione di tali denunce che si legge nel foglio stesso. 8.3. D’altro canto le esigenze di segreto istruttorio, opposte dall’amministrazione nella relazione depositata nel primo grado del giudizio, non consentono di approfondire ulteriori profili fattuali che indichino una reale, concreta, individualizzata carica di pericolosità sociale, nell’odierno appellante, che travalichi la normale, e non di rado, concitata dialettica tra le parti in occasione di manifestazioni sindacali particolarmente accese. 9. Il provvedimento questorile, insomma, non indica realmente, specificamente e sufficientemente le precise modalità aggressive per la sicurezza e la tranquillità pubblica con le quali l’appellante avrebbe esercitato il diritto di sciopero e/o manifestato il proprio pensiero, tale non potendo ritenersi la mera partecipazione al picchettaggio -OMISSIS-e la sua presenza ad alcune fasi concitate del conflitto sindacale, con la conseguenza violazione, nel caso di specie, dell’art. 1, comma 1, lett. c), del d. lgs. n. 159 del 2011. 9.1. Non va pertanto esente da censura la sentenza impugnata laddove, identificando nella vicenda in esame un presunto “caso limite”, ha genericamente mosso all’appellante l’addebito di usare le “maniere forti” e di essere, sulla base di questo indimostrato giudizio di valore, un soggetto socialmente pericoloso ai fini che qui rilevano. 10. Ne segue che la sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che l’odierno appellante rientri in una delle categorie di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 159 del 2011, debba essere riformata, con il conseguente annullamento del foglio di via qui contestato. 11. Le spese del doppio grado del giudizio, attesa la novità e la complessità del caso, implicante un delicato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, possono essere interamente compensate tra le parti. 11.1. Il Ministero dell’Interno, soccombente, deve essere condannato a rimborsare il contributo unificato corrisposto dall’interessato per la proposizione del ricorso in primo e in secondo grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull’appello, proposto da -OMISSIS-, lo accoglie e per l’effetto, in integrale riforma della sentenza impugnata, annulla il provvedimento -OMISSIS-, emesso dal Questore di Modena -OMISSIS-. Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio. Condanna il Ministero dell’Interno a rimborsare nei confronti di -OMISSIS- il contributo unificato richiesto per la proposizione del ricorso in primo e in secondo grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d. lgs. n. 196 del 2003 (e degli artt. 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità di -OMISSIS- e di -OMISSIS- Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 aprile 2022, con l’intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere Michele Corradino, Presidente Giulio Veltri, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere, Estensore Ezio Fedullo, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Sicurezza pubblica - Foglio di via obbligatorio – Lavoratore che ha fatto picchettaggio dinanzi alla azienda – Mancata individuazione atti di violenza – illegittimità.            E’ illegittimo il foglio di via obbligatorio adottato nei confronti di un lavoratore per avere preso parte attivamente alle manifestazioni sindacali attraverso il picchettaggio davanti ad uno stabilimento, senza tuttavia specificare quali concrete condotte violente egli abbia posto in essere (1).                 (1) Ha ricordato la Sezione che per l’adozione del foglio di via obbligatorio sono richiesti elementi di fatto, attuali e concreti, in base ai quali può essere formulato un giudizio prognostico sulla probabilità che il soggetto commetta reati che offendono o mettono in pericolo la tranquillità e sicurezza pubblica, perché, diversamente, si finirebbe per fondare la misura sulla responsabilità collettiva per fatti addebitabili ad anonimi esponenti di un gruppo o, come nel caso di specie, di un movimento sindacale.  Assumono rilievo centrale, sul piano istruttorio e motivazionale, il profilo soggettivo, relativo alla “dedizione” del soggetto alla commissione di reati, e quello oggettivo, inerente alla attitudine offensiva dei medesimi reati nei confronti dei beni nominativamente individuati dal legislatore e cioè, per quanto di interesse, quelli della sicurezza e della tranquillità pubblica.  Il foglio di via obbligatorio, previsto dall’art. 2, d.lgs. n. 159 del 2011, è infatti diretto a prevenire reati socialmente pericolosi, non già a reprimerli, e pertanto, benché non occorra la prova della avvenuta commissione di reati, è richiesta dalla giurisprudenza amministrativa una motivata indicazione dei comportamenti e degli episodi, desunti dalla vita e dal contesto socio ambientale dell’interessato, da cui oggettivamente emerga una apprezzabile probabilità di condotte penalmente rilevanti e socialmente pericolose.  La misura preventiva in questione si presenta, sul piano della sua tipizzazione normativa, fortemente caratterizzata in termini penalistici, nel senso che entrambi i predetti profili, soggettivo e oggettivo, devono essere ricostruiti, da un lato, attingendo al vissuto criminale del soggetto interessato (nei suoi risvolti pregressi ed in quelli prognostici) e, dall’altro lato, analizzando il potenziale offensivo insito nelle condotte criminose alle quali il medesimo risulti essere dedito, con una precisa direzionalità lesiva, quanto ai beni esposti a pregiudizio.  Queste considerazioni valgono, a maggior ragione, dopo la recente sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019 della Corte costituzionale che, in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, e seppure con riferimento alle ipotesi di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011, ha sottolineato l’esigenza generale di rispettare, anche per il diritto della prevenzione, essenziali garanzie di tassatività sostanziale, inerente alla precisione, alla determinatezza e alla prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale, che costituisce oggetto di prova, ed altrettanto essenziali garanzie di tassatività processuale, attinente invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio.  Ciò impone una interpretazione rigorosa e tassativizzante delle misure di prevenzione emesse dal Questore.    Ha chiarito la Sezione che il picchettaggio è definibile come un complesso di comportamenti materiali di diversa natura, aventi come carattere comune la tendenza a rafforzare la partecipazione, la riuscita, l’efficacia di uno sciopero e più specificamente, con riferimento all’elemento teleologico della condotta ed ai soggetti cui si rivolge l’azione dei picchetti, si è detto che «sotto la nozione di picchettaggio si ricomprendono tutte quelle attività e quei metodi posti in essere dagli scioperanti per indurre i lavoratori dissenzienti a non accedere nei luoghi di lavoro per fornire la prestazione lavorativa».  Il vocabolo trae origine dal linguaggio militare, laddove si collega alle funzioni di vigilanza e di controllo svolte da gruppi di soldati preposti al controllo degli accessi alle caserme e agli accampamenti.  Dal francese piquet, riferito alla picca, e cioè all’arma di normale dotazione dei militi addetti a tali incarichi, esso ha fatto ingresso nel gergo sindacale anglosassone (picket, picketing), per definire i gruppi di operai stazionanti all’ingresso degli stabilimenti presso i quali è in corso uno sciopero, che in Gran Bretagna costituiscono praticamente una costante di ogni conflitto industriale.  Di qui la traduzione italiana «picchettaggio» oppure il desueto «picchettamento».  L’attività dei picchetti può assumere rilevanza sotto diversi profili giuridici, dal momento che, nella pratica, essa tende ad assumere connotati tanto più energici quanto maggiore è l’asprezza del conflitto sindacale in corso.  Il picchettaggio viene notoriamente praticato per contrastare il fenomeno del crumiraggio e, cioè, il comportamento tenuto dai lavoratori dipendenti dall’azienda ovvero esterni, i quali ultimi concludono in occasione dello sciopero un contratto di lavoro – cosiddetti crumiri – stipulato dall’imprenditore al fine di attenuare od eliminare il pregiudizio economico derivante dallo sciopero e, quindi, vanificare gli intenti perseguiti dagli scioperanti.  I lavoratori dipendenti dell’azienda o esterni infatti, dissociandosi dall’azione di lotta, ben possono mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative ed eventualmente subentrare nelle posizioni ricoperte all’interno dell’organizzazione aziendale dai lavoratori assenti per sciopero.    Ha altresì chiarito la Sezione che la semplice presenza in un picchetto di molte persone finalizzato ad ostacolare gli automezzi in entrata o in uscita dallo stabilimento industriale, non connotata da elementi fattuali che consentano di rintracciare specifici e individuali condotte di violenza o minaccia da parte di un determinato soggetto, non può integrare da sola sintomo di pericolosità sociale a carico di questo, se non si vuole trasformare il diritto della prevenzione e, in particolare, il foglio di via obbligatorio in un surrettizio, indebito, strumento di repressione della libertà sindacale e del diritto di sciopero e, in ultima analisi, in una misura antidemocratica.  Elementi di maggiore tassatività, sia sostanziale che processuale, non si colgono poi per il caso di specie nemmeno nel riferimento, che si legge nel foglio di via, a precedenti denunce dell’appellante per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e violazione dell’art. 18 del T.U.L.P.S., secondo la mera e generica elencazione di tali denunce che si legge nel foglio stesso.  D’altro canto le esigenze di segreto istruttorio, opposte dall’amministrazione nella relazione depositata nel primo grado del giudizio, non consentono di approfondire ulteriori profili fattuali che indichino una reale, concreta, individualizzata carica di pericolosità sociale, nell’odierno appellante, che travalichi la normale, e non di rado, concitata dialettica tra le parti in occasione di manifestazioni sindacali particolarmente accese. 
Sicurezza pubblica
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/attivita-sindacale-dei-militari-e-regole-di-disciplina
Attività sindacale dei militari e regole di disciplina
N. 03165/2020REG.PROV.COLL. N. 02741/2011 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2741 del 2011, proposto dal Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, contro il signor -OMISSIS-, non costituito in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la sanzione disciplinare della “-OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 5 maggio 2020, il Cons. Antonella Manzione e dato per presente, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, l’Avvocato dello Stato in difesa dell’Amministrazione appellante; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con il presente atto di appello il Ministero della difesa ha impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione I bis, n. -OMISSIS-, che ha accolto il ricorso proposto dal maresciallo ordinario -OMISSIS- avverso il provvedimento con il quale era stata confermata la sanzione disciplinare della consegna per -OMISSIS-inflittagli il -OMISSIS-dal Comandante della Compagnia Carabinieri di -OMISSIS-Nello specifico al militare era stata contestata la violazione dell’art. 12, comma 2, del Regolamento di disciplina militare (R.D.M.), approvato con d.P.R. n. 18 luglio 1986, n. 545, per avere inviato, unitamente ad altri commilitoni, una lettera di critica attinente al servizio ed alla disciplina direttamente al Comandante Generale dell’Arma, senza osservare la via gerarchica. L’avvio del procedimento disciplinare era stato comunicato con nota dell’11 febbraio 2000, contenente la contestazione del relativo addebito; il ricorso gerarchico al Comando Provinciale era stato presentato in data 9 marzo 2000 e respinto in data 23 marzo 2000. La sentenza di primo grado ha ritenuto la sanzione irrogata illegittima in quanto non aveva tenuto nel debito conto la riconducibilità della condotta all’esercizio di un’attività “parasindacale”, quale quella dell’Associazione culturale di appartenenza, svolta pertanto come privato cittadino. 2. Con l’atto di appello sono state contestate le affermazioni del giudice di primo grado, sostenendo che l’interessato aveva agito come militare in servizio attivo ed effettivo, giusta le previsioni in tal senso rivenienti dall’art. 5 della l. 11 luglio 1978, n. 382, essendosi rivolto al “Sig. Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri” facendo precedere il proprio nominativo dall’indicazione del grado di maresciallo rivestito nella struttura, pur se come “Segretario nazionale” dell’associazione U.N.A.C. L’appartenenza a tale associazione sarebbe incompatibile ex se con lo status di militare dell’Arma dei Carabinieri, tanto che con provvedimento dell’11 aprile 2001, la cui legittimità è stata confermata dal T.A.R. per il Lazio (sentenza n. 3528 del 18 febbraio 2002), il Ministero della Difesa negava l’assenso alla sua costituzione. La comunicazione avrebbe violato altresì le regole sui rapporti con la stampa statuite in apposita circolare avente ad oggetto le competenze in merito a vari livelli dei Comandi, l’individuazione delle Autorità alle quali richiedere preventivamente le autorizzazioni a rilasciare interviste e, in generale, le prescrizioni da seguire. Del tutto inconferente si paleserebbe infine il riferimento all’inutilità dell’avvalimento del canale gerarchico, non essendo affatto notorio che le relazioni inoltrate per quel tramite siano sempre destinate ad archiviazione con la formula di rito del “fin de non recevoir”. 3. Il signor -OMISSIS- non si è costituito in giudizio. 4. All’udienza pubblica del 5 maggio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione con le modalità di cui all’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18. DIRITTO 5. Preliminarmente il Collegio ritiene opportuno, per la sensibilità dei temi astrattamente lambiti dall’odierna controversia, perimetrarne gli esatti confini, eliminando suggestioni di principio riferibili all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, del tutto estranei alla stessa. Le restrizioni, infatti, imposte ai diritti del cittadino-militare, derivano dai princìpi organizzativi che ineriscono alla struttura del corpo, qualificando in modo necessario il rapporto di impiego in questo comparto dell’amministrazione, quali gerarchia, obbedienza, prontezza, coerenza interna e compattezza. Al riconoscimento generale, dunque, di tali diritti fa seguito l’imposizione, con formula altrettanto generale, di limitazioni nell’esercizio di alcuni di essi, insieme all’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali, al fine di garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate. Nel caso di specie, tuttavia, non è in discussione il contenuto dell’esternazione del militare nei confronti della struttura, né men che meno la sua riconducibilità a ruoli di rappresentanza sindacale o, più genericamente, “parasindacale”, quale che sia da intendere l’esatta accezione da attribuire alla relativa dizione, evocata anche dal giudice di prime cure come sinonimo di tutela di interessi “privati” dei propri iscritti. La contestazione di addebito, infatti, ha ad oggetto l’inoltro ex se della comunicazione - pubblicata anche sulla stampa - inerente materie di servizio al vertice dell’Arma di appartenenza, bypassando la necessaria filiera gerarchica, in palese dispregio delle regole al contrario imposte dall’art. 12 del R.D.M. In sintesi, l’utilizzo della “etichetta” associativa si palesa neutro rispetto alla condotta addebitata, sia che la si invochi quale fattore di aggravio dell’illecito commesso, sia che, al contrario, si pretenda di ergerla a scudo per scriminare comportamenti diversamente perseguibili sul piano disciplinare. La circostanza, cioè, che la comunicazione per saltum al Comandante Generale dell’Arma sia avvenuta utilizzando la sigla dell’Associazione culturale di appartenenza indica presumibilmente il terreno nel quale è maturata l’esternazione critica, ma non muta i contorni oggettivi dell’addebito, centrato interamente sul metodo e non sul merito della vicenda. Del resto, rileva ancora la Sezione, laddove per il tramite dell’utilizzo del paravento associativo il militare avesse la possibilità di pretermettere le regole della gerarchia, ne risulterebbe facile, ben al di là del - peraltro non evocato -diritto di critica, lo strumentale aggiramento, a discapito delle specificità ordinamentali di riferimento. 6. Chiarito quanto sopra, è evidente come il richiamo da parte della difesa erariale alla natura sostanzialmente sindacale dell’associazione U.N.A.C. si palesa del tutto inconferente, a prescindere finanche dall’avvenuta conferma in sede di appello della richiamata sentenza di prime cure (T.A.R. per il Lazio n. -OMISSIS-) da parte di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 28 luglio 2005, n. 4012). Il riconoscimento dei diritti associativi direttamente rivenienti dall’art. 39 della Costituzione, costituisce infatti il punto di approdo di una condivisibile rivendicazione di categoria degli appartenenti alle Forze armate, pur con i calibrati equilibrismi imposti dalla loro richiamata peculiarità ordinamentale, che rende comunque anacronistico il riferimento alla ricercata essenza dell’attività svolta concretamente dall’Associazione. Giova ricordare in punto di fatto come l’U.N.A.C., nata effettivamente nel 1998 come Associazione a scopo culturale e assistenziale, seguendo gli sviluppi della giurisprudenza, in primo luogo della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di diritti sindacali dei militari, nell’anno 2013 si è trasformata in Sindacato autonomo Carabinieri e Militari, con regolare statuto, notificato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Difesa, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comitato delle pari opportunità ed al Ministro dell’interno, procedendo altresì alla formazione dell’organico dirigenziale, con conseguente invio in via gerarchica delle prime deleghe sindacali. Con la sentenza 13 giugno 2018, n. 120 della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), si è poi riconosciuto, traendo spunto da una vicenda che comunque vedeva coinvolta ridetta Associazione, il diritto di affiliazione ad associazioni sindacali da parte dei militari. Quanto detto in ragione del ritenuto contrasto della norma con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09) e in relazione all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30 (per una ricostruzione della vicenda, v. da ultimo Cons. Stato, sez. I consultiva, n. 2571 del 25 settembre 2019). Ciò senza negare la possibilità che la legge adotti restrizioni per determinate categorie di dipendenti pubblici, inclusi gli appartenenti alle Forze armate: con il risultato che la previsione di condizioni e limiti alla libertà di associazione sindacale tra militari, facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nell’ordinamento nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, che sarebbe d’impedimento al riconoscimento dello stesso diritto di associazione sindacale. Da qui la ribadita legittimità del comma 1 dell’art. 1475 COM, il quale subordina la costituzione di associazioni e circoli tra militari al preventivo assenso del Ministro della Difesa, disposizione valida, a fortiori, per le associazioni sindacali, in quanto species di quel genus, peraltro di particolare rilevanza (sul punto cfr. il parere rilasciato dalla sez. II consultiva di questo Consiglio di Stato sul quesito avanzato dal Ministero della Difesa proprio in ordine all’applicazione dell’articolo 1475, comma 1, del Codice dell’ordinamento militare, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 13 giugno 2018, relativamente al rilascio del preventivo assenso del Ministro della difesa per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale, n. 2756 del 23 novembre 2018). 7. La necessità di attualizzare il contesto ordinamentale in materia di diritto associativo dei militari, non fa che rafforzare la ritenuta neutralità del ruolo di segretario dell’U.N.A.C. rivestito dal militare sanzionato nel caso di specie. Non a caso, nel ricostruire in fatto la vicenda, il T.A.R. afferma chiaramente che l’appartenenza all’Associazione culturale “anche secondo la resistente, non era, e non è, incompatibile col giuramento di fedeltà […] prestato”. Trattasi dunque non del punto di approdo di una scelta ermeneutica volta a legittimare la condotta associativa, ma di una riferita circostanza di fatto, incontestata tra le parti, posta “a contorno” dell’episodio accaduto, quale suo evidente contesto genetico. Ciò che rileva, cioè, è l’inoltro della lettera, non il fatto che la sua stesura sia avvenuta sotto l’egida dell’U.N.A.C.; argomentazione questa introdotta casomai dal militare in sede di difesa nel ricorso gerarchico, quasi a voler distinguere la propria condotta “ideativa” da quella “materiale” di invio agli organi di stampa, asseritamente avvenuto a cura di sedicenti uffici di comunicazione interni alla struttura associativa. E inopportunamente ripresa dalla difesa erariale nell’atto di appello, riproponendo inesistenti profili di illiceità dell’appartenenza associativa ex se, quand’anche ipotizzabili nel contesto storico sociale dell’epoca, tutt’affatto valutati dall’Amministrazione procedente, che non ne ha in alcun modo fatto oggetto di addebito. 8. Va reciprocamente escluso anche, rileva ancora il Collegio, che la sigla associativa scrimini di per sé la condotta, dequotando le rimostranze mosse utilizzando la stessa, quale che ne sia stato il veicolo di trasmissione, prescindendo peraltro dai toni, seppur generici, del tutto irriguardosi, come riconosciuto dallo stesso giudice di prime cure, in una sorta di argomentazione a contrario di ciò che legittimamente si sarebbe potuto addebitare al militare e non si è invece stigmatizzato, dando rilievo ad aspetti ritenuti poi irrilevanti disciplinarmente (“essa [contestazione di addebito] avrebbe (pure) potuto porre l’accento sul contenuto della missiva "incriminata" (in cui il Comandante Generale dell’Arma viene accusato, la citazione è pressoché testuale, di non essere "super partes"; ma di avere a cuore solo la sorte di chi gli è vicino”). Essa, cioè, non attrae alla sfera del “privato cittadino” il comportamento dei suoi iscritti, ammantando di “culturale” un rilievo mosso all’organizzazione del servizio da parte di chi quel determinato servizio è chiamato ad eseguire. A tale riguardo l’art. 5 della l. 11 luglio 1978, n. 382, applicabile ratione temporis al caso di specie, dopo avere ricordato (comma 3) che le regole di disciplina militare si applicano ai dipendenti “dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo”, individua le “condizioni” in presenza delle quali il militare è da considerarsi tale. Esse sussistono quando gli interessati “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”. Ove così non fosse, ovvero ove si riconoscesse la possibilità di dismettere temporaneamente l’uniforme, nel contempo ammantandosi della veste del privato cittadino per il solo tramite di un sodalizio, per quanto idealisticamente apprezzabili ne siano le finalità, per pretermettere le regole intrinseche dell’ordinamento di appartenenza, non è chi non veda la facilità di aggiramento delle stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza. Nel caso di specie, dunque, non soltanto il ricorrente, dipendente al momento della stesura della lettera all’Amministrazione della difesa, si è qualificato con il grado militare, ma egli si è rivolto al Comandante Generale dell’Arma, per dolersi di modalità gestionali inerenti il servizio, come tali in alcun modo qualificabili “culturali”, ovvero “assistenziali”. Ciò a prescindere finanche dalla voluta risonanza mediatica che si è inteso far avere alla rimostranza, nel momento in cui la relazione ha assunto la veste di un comunicato stampa, chiunque sia stato incaricato dell’inoltro agli organi competenti. La violazione della circolare sui rapporti con la stampa, infatti, pure evocata dall’Amministrazione appellante, serve a maggiormente contestualizzare la condotta addebitata al militare, ma non è stata oggetto di specifico addebito, al pari della ricordata appartenenza associativa. Essa dunque, pur aggravando complessivamente il disvalore dell’illecito per come oggettivamente percepibile, se anche ha assunto un qualche rilievo nel procedimento disciplinare, ciò è da intendersi limitatamente alla conferma per tabulas che non si è seguita la via gerarchica nell’inoltro. Infine, l’asserita inutilità di qualsivoglia reclamo incanalato correttamente per quel tramite, in quanto destinato a finire comunque nel nulla (l’evocato fin de non recevoir, aulicamente richiamato in sentenza), oltre che inconferente, appare alla Sezione immotivatamente critico di una prassi neppure documentata, e contraddittoriamente finanche giustificata (stante che “giustamente” l’Amministrazione avrebbe opposto la diplomatica formula soprassessoria in non meglio precisati “casi analoghi”). 9. Le conclusioni descritte si pongono del resto in armonia con quanto già affermato da questo Consiglio di Stato in relazione ad un altro dei militari coinvolti nella medesima vicenda, seppure in un contesto ordinamentale ancora non evoluto nel senso garantista poc’anzi delineato. Con parere n. -OMISSIS-, infatti, reso all’esito di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica promosso, quale scelta alternativa a quella giurisdizionale, da altro dipendente firmatario della medesima missiva, la sezione III consultiva aveva analogamente riconosciuto di dover considerare il ricorrente “militare in servizio attivo”, in quanto “anteponeva al proprio nome il grado rivestito e l’Amministrazione di appartenenza oltre ad argomentare su questioni attinenti il servizio”. 10. Per tutto quanto sopra, pertanto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto e, per l’effetto, debba essere riformata la sentenza del T.A.R. per il Lazio, sez. I bis, n. 2014 del 12 febbraio 2010 e respinto il ricorso di primo grado n.r.g. -OMISSIS--OMISSIS-, confermando la legittimità del provvedimento di irrogazione in via definitiva della sanzione della “consegna” di -OMISSIS-inflitta al militare. La peculiarità della controversia e l’evoluzione della cornice ordinamentale di riferimento, giustificano la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla la sentenza del T.A.R. per il Lazio, sez. I bis, n. -OMISSIS- con conseguente reiezione del ricorso di primo grado n.r.g. -OMISSIS--OMISSIS-e conferma della legittimità del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare -OMISSIS-. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente in primo grado. Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 maggio 2020 tenutasi in modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Raffaele Greco, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Giancarlo Luttazi, Consigliere Italo Volpe, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore Raffaele Greco, Presidente Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere Giancarlo Luttazi, Consigliere Italo Volpe, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia - Procedimenti disciplinari - Nota di critica all’operato del Comandante generale dell’Arma - Omesso rispetto della prescritta via gerarchica dell’inoltro – Regole di disciplina – Applicabilità – Inoltro in veste di rappresentante di un’associazione parasindacale – Irrilevanza ex se.       Le regole di disciplina militare si applicano agli appartenenti alle Forze armate dal momento della loro incorporazione e fino a quello della cessazione dal servizio attivo, a condizione che gli interessati svolgano attività di servizio, si trovino in luoghi militari o comunque destinati al servizio, indossino l’uniforme ovvero si qualifichino, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgano ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali; pertanto, una condotta commessa in presenza delle predette condizioni (nella specie, divulgazione di una nota di critica all’operato del Comandante generale dell’Arma senza il rispetto della prescritta via gerarchica dell’inoltro) non è sottratta alle regole di disciplina per il solo fatto di essere posta in essere nella veste di privato cittadino ovvero di rappresentante di un’associazione parasindacale, diversamente consentendosi un facile aggiramento delle regole stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza  (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che il riconoscimento dei diritti associativi direttamente rivenienti dall’art. 39 Cost. costituisce il punto di approdo di una condivisibile rivendicazione di categoria degli appartenenti alle Forze armate, pur con i calibrati equilibrismi imposti dalla loro richiamata peculiarità ordinamentale, che rende comunque anacronistico il riferimento alla ricercata essenza dell’attività svolta concretamente dall’Associazione. Giova ricordare in punto di fatto come l’U.N.A.C., nata effettivamente nel 1998 come Associazione a scopo culturale e assistenziale, seguendo gli sviluppi della giurisprudenza, in primo luogo della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di diritti sindacali dei militari, nell’anno 2013 si è trasformata in Sindacato autonomo Carabinieri e Militari, con regolare statuto, notificato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministro della Difesa, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comitato delle pari opportunità ed al Ministro dell’interno, procedendo altresì alla formazione dell’organico dirigenziale, con conseguente invio in via gerarchica delle prime deleghe sindacali. Con la sentenza 13 giugno 2018, n. 120 della Corte costituzionale, di declaratoria dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), si è poi riconosciuto, traendo spunto da una vicenda che comunque vedeva coinvolta ridetta Associazione, il diritto di affiliazione ad associazioni sindacali da parte dei militari. Quanto detto in ragione del ritenuto contrasto della norma con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09) e in relazione all’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30 (per una ricostruzione della vicenda, v. da ultimo Cons. Stato, sez. I consultiva, n. 2571 del 25 settembre 2019). Ciò senza negare la possibilità che la legge adotti restrizioni per determinate categorie di dipendenti pubblici, inclusi gli appartenenti alle Forze armate: con il risultato che la previsione di condizioni e limiti alla libertà di associazione sindacale tra militari, facoltativa per i parametri internazionali, è invece doverosa nell’ordinamento nazionale, al punto da escludere la possibilità di un vuoto normativo, che sarebbe d’impedimento al riconoscimento dello stesso diritto di associazione sindacale. Da qui la ribadita legittimità del comma 1 dell’art. 1475 COM, il quale subordina la costituzione di associazioni e circoli tra militari al preventivo assenso del Ministro della Difesa, disposizione valida, a fortiori, per le associazioni sindacali, in quanto species di quel genus, peraltro di particolare rilevanza (sul punto cfr. il parere rilasciato dalla sez. II consultiva di questo Consiglio di Stato sul quesito avanzato dal Ministero della Difesa proprio in ordine all’applicazione dell’articolo 1475, comma 1, del Codice dell’ordinamento militare, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 13 giugno 2018, relativamente al rilascio del preventivo assenso del Ministro della difesa per la costituzione di associazioni professionali tra militari a carattere sindacale, n. 2756 del 23 novembre 2018). La necessità di attualizzare il contesto ordinamentale in materia di diritto associativo dei militari, non fa che rafforzare la ritenuta neutralità del ruolo di segretario dell’U.N.A.C. rivestito dal militare sanzionato nel caso di specie. Non a caso, nel ricostruire in fatto la vicenda, il T.A.R. afferma chiaramente che l’appartenenza all’Associazione culturale “anche secondo la resistente, non era, e non è, incompatibile col giuramento di fedeltà […] prestato”. Trattasi dunque non del punto di approdo di una scelta ermeneutica volta a legittimare la condotta associativa, ma di una riferita circostanza di fatto, incontestata tra le parti, posta “a contorno” dell’episodio accaduto, quale suo evidente contesto genetico. Ciò che rileva, cioè, è l’inoltro della lettera, non il fatto che la sua stesura sia avvenuta sotto l’egida dell’U.N.A.C.; argomentazione questa introdotta casomai dal militare in sede di difesa nel ricorso gerarchico, quasi a voler distinguere la propria condotta “ideativa” da quella “materiale” di invio agli organi di stampa, asseritamente avvenuto a cura di sedicenti uffici di comunicazione interni alla struttura associativa. E inopportunamente ripresa dalla difesa erariale nell’atto di appello, riproponendo inesistenti profili di illiceità dell’appartenenza associativa ex se, quand’anche ipotizzabili nel contesto storico sociale dell’epoca, tutt’affatto valutati dall’Amministrazione procedente, che non ne ha in alcun modo fatto oggetto di addebito. Va escluso anche che la sigla associativa scrimini di per sé la condotta, dequotando le rimostranze mosse utilizzando la stessa, quale che ne sia stato il veicolo di trasmissione, prescindendo peraltro dai toni, seppur generici, del tutto irriguardosi, come riconosciuto dallo stesso giudice di prime cure, in una sorta di argomentazione a contrario di ciò che legittimamente si sarebbe potuto addebitare al militare e non si è invece stigmatizzato, dando rilievo ad aspetti ritenuti poi irrilevanti disciplinarmente (“essa [contestazione di addebito] avrebbe (pure) potuto porre l’accento sul contenuto della missiva "incriminata" (in cui il Comandante Generale dell’Arma viene accusato, la citazione è pressoché testuale, di non essere "super partes"; ma di avere a cuore solo la sorte di chi gli è vicino”). Essa, cioè, non attrae alla sfera del “privato cittadino” il comportamento dei suoi iscritti, ammantando di “culturale” un rilievo mosso all’organizzazione del servizio da parte di chi quel determinato servizio è chiamato ad eseguire. A tale riguardo l’art. 5, l. 11 luglio 1978, n. 382, applicabile ratione temporis al caso di specie, dopo avere ricordato (comma 3) che le regole di disciplina militare si applicano ai dipendenti “dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo”, individua le “condizioni” in presenza delle quali il militare è da considerarsi tale. Esse sussistono quando gli interessati “a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l’uniforme; d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”. Ove così non fosse, ovvero ove si riconoscesse la possibilità di dismettere temporaneamente l’uniforme, nel contempo ammantandosi della veste del privato cittadino per il solo tramite di un sodalizio, per quanto idealisticamente apprezzabili ne siano le finalità, per pretermettere le regole intrinseche dell’ordinamento di appartenenza, non è chi non veda la facilità di aggiramento delle stesse, con grave nocumento della funzionalità del sistema che anche dalla loro compattezza trae il proprio prestigio e la propria autorevolezza. Nel caso di specie, dunque, non soltanto il ricorrente, dipendente al momento della stesura della lettera all’Amministrazione della difesa, si è qualificato con il grado militare, ma egli si è rivolto al Comandante Generale dell’Arma, per dolersi di modalità gestionali inerenti il servizio, come tali in alcun modo qualificabili “culturali”, ovvero “assistenziali”. Ciò a prescindere finanche dalla voluta risonanza mediatica che si è inteso far avere alla rimostranza, nel momento in cui la relazione ha assunto la veste di un comunicato stampa, chiunque sia stato incaricato dell’inoltro agli organi competenti. La violazione della circolare sui rapporti con la stampa, infatti, pure evocata dall’Amministrazione appellante, serve a maggiormente contestualizzare la condotta addebitata al militare, ma non è stata oggetto di specifico addebito, al pari della ricordata appartenenza associativa. Essa dunque, pur aggravando complessivamente il disvalore dell’illecito per come oggettivamente percepibile, se anche ha assunto un qualche rilievo nel procedimento disciplinare, ciò è da intendersi limitatamente alla conferma per tabulas che non si è seguita la via gerarchica nell’inoltro. Infine, l’asserita inutilità di qualsivoglia reclamo incanalato correttamente per quel tramite, in quanto destinato a finire comunque nel nulla (l’evocato fin de non recevoir, aulicamente richiamato in sentenza), oltre che inconferente, appare alla Sezione immotivatamente critico di una prassi neppure documentata, e contraddittoriamente finanche giustificata (stante che “giustamente” l’Amministrazione avrebbe opposto la diplomatica formula soprassessoria in non meglio precisati “casi analoghi”).
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/misure-di-contenimento-del-contagio-nell-utilizzo-delle-piscine
Misure di contenimento del contagio nell’utilizzo delle piscine
N. 04418/2020 REG.PROV.CAU. N. 06044/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) Il Presidente ha pronunciato il presente DECRETO DECRETO sul ricorso numero di registro generale 6044 del 2020, proposto da Teatro Franco Parenti Società Cooperativa Impresa Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Segato, Sara Valaguzza e Massimo Clara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Andrea Segato in Roma, via Panama n. 68; contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, non costituita in giudizio; per la riforma dell'ordinanza cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 4696/2020, resa tra le parti, concernente le misure restrittive per la riapertura delle attività “piscine”, “turistiche” e “cinema e spettacoli dal vivo” per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Vista l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dal ricorrente, ai sensi degli artt. 56, 62, co. 2 e 98, co. 2, cod. proc. amm.; Rilevato che, alla data odierna, il residuo termine di efficacia del provvedimento di proroga dell’atto impugnato è di sei giorni, e ciò induce a ritenere la prevalenza dell’interesse primario e generale alla tutela della salute pubblica - anche alla luce dei focolai Covid che negli ultimi giorni stanno emergendo in molteplici aree del Paese - rispetto all’interesse economico alla riapertura anticipata della piscina; Ritenuto anche che è in questa sede irrilevante ogni eventuale speculazione, ad oggi, sulla eventuale proroga dello stato d’emergenza - che peraltro non necessariamente comprenderebbe la proroga della chiusura di attività come quelle dell’appellante; P.Q.M. respinge l’istanza cautelare. Fissa per la discussione collegiale la camera di consiglio del 27 agosto 2020. Il presente decreto sarà eseguito dall'Amministrazione ed è depositato presso la Segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma il giorno 25 luglio 2020. IL SEGRETARIO
Covid-19 – Misure di contenimento del contagio – Utilizzo delle piscine – D.P.C.M. - Non va sospeso.           Non può essere accolta l’istanza di sospensione monocratica delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria Covid-19 adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri con riferimento all’uso delle piscine, stante la prevalenza dell’interesse primario e generale alla tutela della salute pubblica - anche alla luce dei focolai Covid che negli ultimi giorni stanno emergendo in molteplici aree del Paese - rispetto all’interesse economico, fatto valere dall’appellante, alla riapertura anticipata della piscina
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/revoca-delle-misure-di-accoglienza-per-i-richiedenti-asilo-che-ha-ottenuto-il-rilascio-del-permesso-di-soggiorno-per-motivi-umanitari
Revoca delle misure di accoglienza per i richiedenti asilo che ha ottenuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari
N. 04948/2020REG.PROV.COLL. N. 09220/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9220 del 2019, sul ricorso numero di registro generale 9220 del 2019, proposto dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Cosenza, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, contro il signor -OMISSIS-, non costituito in giudizio, per la riforma della sentenza, resa in forma semplificata, del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 1° agosto 2019, non notificata, con la quale è stato accolto il ricorso proposto per annullamento del provvedimento di cessazione delle misure di accoglienza di primo livello. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza del giorno 30 luglio 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex artt. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020 e 4, d.l. n. 28 del 2020, il Cons. Giulia Ferrari; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. In data 12 aprile 2019, la Prefettura della Provincia di Cosenza ha emesso il provvedimento prot. -OMISSIS-, con il quale è stata disposta la cessazione della misure di accoglienza, erogate presso il C.A.S. “-OMISSIS-”, sito ad -OMISSIS- (CS), nei confronti del signor -OMISSIS-, cittadino -OMISSIS-. In particolare, il Prefetto, preso atto che la Questura di Cosenza aveva rilasciato al signor -OMISSIS- il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha ritenuto che non sussistessero più i presupposti per la prosecuzione della erogazione delle misure di accoglienza di primo livello, avuto in particolare riguardo alla circolare del Ministero dell’Interno n. 3994 del 5 maggio 2016 (confermata dalla circolare n. 22146 del 27 dicembre 2018), riguardante le modalità e i tempi di permanenza dei cittadini stranieri presso i Centri di accoglienza secondo la normativa di cui al d.lgs. n. 142 del 2015. 2. Con ricorso proposto innanzi al Tar Calabria, sede di Catanzaro, il signor -OMISSIS- ha impugnato tale decreto, contestandone l’illegittimità sotto diversi profili. In particolare, il ricorrente ha dedotto l’erronea applicazione della normativa applicabile e il difetto di motivazione, in quanto non vi sarebbe alcuna disposizione che autorizzasse, imponendo anche ingiustificate ragioni di assoluta urgenza, la revoca delle misure di prima accoglienza in tempi così immediati, senza aver prima attivato la successiva accoglienza Sprar, e senza aver tenuto conto dello stato di indigenza in cui versava il signor -OMISSIS-. Con sentenza, resa in forma semplificata, -OMISSIS- del 1° agosto 2019, la sez. I del Tar Catanzaro ha accolto il ricorso sul presupposto che il provvedimento prefettizio fosse contrario all’art. 1, commi 8 e 9, d.l. n. 113 del 2018, convertito in l. n. 132 del 2018. 4. La citata sentenza -OMISSIS- del 1° agosto 2019 è stata impugnata dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura – Ufficio Territoriale del Governo di Cosenza con appello notificato il 7 novembre 2019 e depositato il successivo 12 novembre. In particolare, parte appellante ha dedotto che la normativa richiamata dal primo giudice e posta a fondamento dell’impugnata sentenza sarebbe inconferente al caso di specie. Al contrario, l’avversato provvedimento non inciderebbe sul permesso di soggiorno rilasciato prima dell’entrata in vigore della novella legislativa di cui al d.l. n. 113 del 2018, ma esclusivamente sulle specifiche misure di prima accoglienza, di cui al d.lgs. n. 142 del 2015. I richiedenti asilo potrebbero beneficiare delle misure in esame solo per il tempo strettamente necessario per l’espletamento dell’esame della domanda di protezione internazionale sicché, nel caso di specie, una volta che il signor -OMISSIS- ha ottenuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’Autorità amministrativa non avrebbe potuto che disporre la cessazione delle misure di accoglienza di primo livello. 5. Il signor -OMISSIS- non si è costituito in giudizio. 6. Con ordinanza cautelare -OMISSIS- del 13 dicembre 2019 è stata accolta la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza, resa in forma semplificata, del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 1° agosto 2019. 7. All’udienza del 30 luglio 2020 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. L’appello è fondato, alla luce dei principi espressi dalla Sezione da ultimo con la sentenza 15 luglio 2020, -OMISSIS-. Afferma parte appellante che il giudice di primo grado erroneamente ha posto a supporto del proprio argomentare – e dunque dell’illegittimità del provvedimento della Prefettura di Cosenza – l’art. 1, commi 8 e 9, d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (c.d. decreto sicurezza). Aggiunge che una volta completata la procedura di riconoscimento di una qualsivoglia forma di protezione internazionale, l’Amministrazione è tenuta a disporre la cessazione delle misure di accoglienza, non a titolo sanzionatorio, ma in relazione alla conclusione del procedimento al quale le misure di prima accoglienza sono funzionali. Peraltro, lo straniero, pur avendone facoltà, non ha avanzato domanda di inserimento nel sistema di seconda accoglienza (SPRAR), nelle more della definizione dell’istanza di protezione. Osserva il Ministero che sarebbe contraria alla ratio dell’istituto di prima accoglienza che gli stranieri titolari di una forma di protezione, come l’odierno appellato, permanessero sine die all’interno delle strutture di prima accoglienza, le cui risorse economiche e strumentali verrebbero impiegate a discapito di quanti, invece, devono essere accolti dopo aver varcato la frontiera, con conseguente paralisi del sistema di accoglienza per saturazione delle strutture ad esso afferenti. 2. Le censure sono condivisibili. Innanzitutto, va rilevato che il provvedimento prefettizio impugnato, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non incide sul “permesso di soggiorno per motivi umanitari” rilasciato al ricorrente dal Questore di Cosenza, a conclusione del procedimento da parte della competente Commissione Territoriale che ha riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria, ma fa cessare solo le misure di prima accoglienza di cui beneficiano i richiedenti asilo, quale effetto ex lege una volta espletate e definite le procedure di esame della domanda di protezione. Come già chiarito dalla Sezione, il provvedimento è conforme alla normativa in materia. Il Collegio ritiene opportuno un breve riepilogo della disciplina normativa. Le condizioni dell'accoglienza per i richiedenti protezione internazionale sono disciplinate dalla direttiva 2013/33/UE, la cosiddetta “direttiva accoglienza” che sostituisce la precedente direttiva 2003/9/UE. La direttiva del 2003 era stata recepita nell'ordinamento interno dal d.lgs. n. 140 del 2005, poi abrogato dal d.lgs. n. 142 del 2015 che ne ha sostituito il contenuto, aggiornandolo con le disposizioni della nuova direttiva accoglienza del 2013. Il c.d. decreto accoglienza (d.lgs. n. 142 del 2015) è stato modificato ed integrato più volte, dapprima, ad opera del d.l. n. 13 del 2017, che ha previsto alcuni interventi urgenti in materia di immigrazione e, successivamente, con la l. n. 47 del 2017 sui minori stranieri non accompagnati e con il correttivo d.lgs. n. 220 del 2017. Da ultimo, il d.l. n. 113 del 2018 (c.d. decreto immigrazione e accoglienza) ha introdotto ulteriori modifiche, che riformano in parte l'impianto complessivo del sistema. I destinatari del sistema di accoglienza disciplinato dal d.lgs. n. 142 del 2015 sono gli stranieri non comunitari e gli apolidi, richiedenti protezione internazionale (ossia il riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria) nel territorio nazionale, nonché i familiari inclusi nella domanda di protezione. Le misure di accoglienza si applicano dal momento di manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale (non già dal momento della presentazione della domanda, come era previsto dall'art. 5, d.lgs. n. 140 del 2005). Le misure di accoglienza dei richiedenti asilo sono assicurate per tutto il periodo in cui si svolge il procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale competente, fino al momento della decisione (art. 5, comma 6, d.lgs. n. 140 del 2005 e art. 14, comma 4, d.lgs. n. 142 del 2015). Se la Commissione territoriale rigetta la domanda, la durata dell'accoglienza è commisurata a quella del ricorso giurisdizionale. Le misure di accoglienza, pertanto, continuano ad essere assicurate fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione. Il d.lgs. n. 142 del 2015 ha fissato il principio della leale collaborazione tra i livelli di governo interessati, secondo apposite forme di coordinamento nazionale e regionale (art. 8) basate sul Tavolo di coordinamento nazionale, insediato presso il Ministero dell'interno, con compiti di indirizzo, pianificazione e programmazione in materia di accoglienza, compresi quelli di individuare i criteri di ripartizione regionale dei posti da destinare alle finalità di accoglienza (art. 16). Il Tavolo predispone annualmente, salva la necessità di un termine più breve, un Piano nazionale per l'accoglienza che, sulla base delle previsioni di arrivo per il periodo considerato, individua il fabbisogno dei posti da destinare alle finalità di accoglienza. Le linee di indirizzo e la programmazione sono poi attuati a livello territoriale attraverso Tavoli di coordinamento regionale. Le misure di accoglienza dei richiedenti asilo si articolano in diverse fasi, che sono state ridefinite con il d.l. n. 113 del 2018. La primissima fase, antecedente alla accoglienza vera e propria, consiste nel soccorso e prima assistenza, nonché nelle attività volte all'identificazione dei migranti, soprattutto nei luoghi di sbarco (art. 8, comma 2). In base agli impegni assunti dallo Stato italiano nell'ambito dell'Agenda europea sulla migrazione, adottata nel 2015, tali funzioni sono svolte nelle aree c.d. hotspot (punti di crisi) allestite nei luoghi dello sbarco. Il sistema di accoglienza si articola, poi, in una fase di prima accoglienza assicurata nelle strutture di cui agli artt. 9 e 11 per i richiedenti protezione Internazionale e una fase di seconda accoglienza disposta nelle strutture di cui all'art. 14. Per le esigenze di prima accoglienza e per l'espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica, lo straniero è accolto nei centri governativi di prima accoglienza istituiti con decreto del Ministro dell'Interno, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, secondo la programmazione e i criteri individuati dal Tavolo di coordinamento nazionale e dai Tavoli di coordinamento regionale ai sensi dell'art. 16 (art. 9, comma 1). Il richiedente è accolto per il tempo necessario all'espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all'avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonché all'accertamento delle condizioni di salute. Ai sensi dell’art. 14, comma 1, come modificato dal d.l. n. 113 del 2018 “il richiedente che ha formalizzato la domanda e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso alle misure di accoglienza, con i familiari.” Le funzioni di accoglienza sono assicurate dai centri governativi di nuova istituzione, previsti dal d.lgs. n. 142 del 2015, sulla base della programmazione dei tavoli di coordinamento nazionale e interregionali (art. 9) e, in prima applicazione, dai centri di accoglienza già esistenti, come i Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) e i Centri di accoglienza (CDA). Nel caso di esaurimento dei posti all'interno delle strutture di prima accoglienza, a causa di arrivi consistenti e ravvicinati di richiedenti cui l'ordinario sistema di accoglienza non sia in grado di far fronte, i richiedenti possono essere ospitati in strutture temporanee di emergenza (art. 11, d.lgs. n. 142 del 2015). Tali strutture (denominate centri di accoglienza straordinaria - CAS) sono individuate dalle Prefetture - uffici territoriali del Governo, previo parere dell'ente locale nel cui territorio è situata la struttura (secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici) e la permanenza in tali strutture è stabilita per un tempo limitato, in attesa del trasferimento nelle strutture di prima accoglienza. Nell'impianto originario, il d.lgs. n. 142 del 2015 prevedeva per i richiedenti asilo privi di mezzi, una volta esaurita la prima fase di accoglienza, la possibilità di accedere ai servizi di accoglienza integrata nell'ambito dello SPRAR (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati), cioè quei servizi predisposti su base volontaria dalla rete degli enti locali mediante progetti finanziati prevalentemente a carico del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell'asilo. Il d.l. n. 113 del 2018 (avendo l'art. 12, comma 2, lett. c) abrogato il comma 5 dell’art. 9, d.lgs. n. 142 del 2015), al fine di operare una razionalizzazione dei servizi di c.d. seconda accoglienza, ha stabilito che possono accedere allo SPRAR solo i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e i minori non accompagnati. Invece, i richiedenti asilo non possono più accedere ai servizi dello SPRAR, ma potranno essere accolti solo nei CAS o nei centri governativi di prima accoglienza. Una disposizione transitoria consente che i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria già presenti nel Sistema di protezione alla data di entrata in vigore del decreto-legge (5 ottobre 2018) possono rimanere in accoglienza nel Sistema fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso, già finanziato. I minori non accompagnati richiedenti asilo, al compimento della maggiore età, potranno rimanere nel Sistema fino alla definizione della domanda di protezione internazionale. 3. Alla luce di tale escursus normativo, deve concludersi che il migrante che, come l’appellato, manifesta l'intenzione di chiedere la protezione internazionale viene accompagnato nei centri governativi di prima accoglienza (anche preesistenti Centri di assistenza richiedenti asilo (CARA) e Centri di accoglienza (CDA) riconvertiti) che hanno la funzione di consentire l'identificazione dello straniero (ove non sia stato possibile completare le operazioni nei centri di primo soccorso dislocati nei luoghi di sbarco), la verbalizzazione e l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportino speciali misure di assistenza. Le misure di accoglienza sono assicurate per la durata del procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di cui all'art. 4, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione (art. 14, comma 4). Infine, deve aggiungersi che nella prima fase dell'accoglienza, l’ufficio di polizia che riceve la domanda di protezione internazionale ha l'obbligo di informazione a favore del richiedente circa le condizioni di accoglienza e le fasi della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, attraverso la consegna di un opuscolo informativo, redatto possibilmente nella lingua del richiedente (art. 3, d.lgs. n. 142 del 2015). 4. Nel caso in esame, il provvedimento del Prefetto impugnato prende atto del riconoscimento della protezione umanitaria da parte della competente Commissione territoriale per la protezione Internazionale di Crotone (che ha negato lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria) e dell’avvenuto rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte della Questura di Cosenza, che fa venire meno ex lege i presupposti per l’erogazione delle misure di accoglienza. Si tratta di una cessazione di effetti, ex art. 14, comma 4, d.lgs. n. 142 del 2015, per il raggiungimento dello scopo voluto dal Legislatore, ovvero assicurare l’accoglienza per il tempo necessario all’esame della domanda di protezione internazionale, e non, invece, di revoca ai sensi dell’art. 23, per le ipotesi tipizzate di violazioni gravi, abbandono del centro, mancata presentazione all’audizione davanti all’organo di esame della domanda, etc.. Essendo stati rispettati modalità e tempi di permanenza presso i Centri di accoglienza secondo la normativa di cui al d.lgs. n. 142 del 2015 e relative circolari interpretative, il provvedimento del Prefetto è legittimo e non hanno fondamento le doglianze mosse dal ricorrente in primo grado. Il provvedimento non necessitava neppure di comunicazione di avvio del procedimento, essendo reso edotto il richiedente asilo delle modalità e dei termini di efficacia dell’accoglienza attraverso la consegna di un opuscolo informativo, redatto in lingua comprensibile (art. 3, d.lgs. n. 142 del 2015). Inoltre, come afferma il Ministero, non è stata presentata dal ricorrente l’istanza per l’accesso ai servizi SPRAR, né dimostrato il possesso dei relativi requisiti. 5. In conclusione, l’appello va accolto. Le spese di entrambi i gradi di giudizio si compensano tra le parti in considerazione della novità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, annulla la sentenza del Tar Calabria, sede di Catanzaro, sez. I, -OMISSIS- del 1° agosto 2019 e dichiara legittimo il provvedimento impugnato in primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell’appellato e dei fatti allo stesso riconducibili. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 30 luglio 2020, svoltasi da remoto in videoconferenza ex artt. 84, comma 6, d.l. n. 18 del 2020 e 4, d.l. n. 28 del 2020, con l’intervento dei magistrati: Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere Franco Frattini, Presidente Massimiliano Noccelli, Consigliere Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere, Estensore Umberto Maiello, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Straniero – Accoglienza – Accoglienza per i richiedenti asilo – Rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari – Conseguenza – Revoca misure di accoglienza.           I richiedenti asilo possono beneficiare delle misure di accoglienza solo per il tempo strettamente necessario per l’espletamento dell’esame della domanda di protezione internazionale sicché, una volta che lo straniero ha ottenuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’Autorità amministrativa deve disporre la cessazione delle misure di accoglienza di primo livello (1).    (1) La Sezione ha ricordato che il d.l. n. 113 del 2018 (avendo l'art. 12, comma 2, lett. c) abrogato il comma 5 dell’art. 9, d.lgs. n. 142 del 2015), al fine di operare una razionalizzazione dei servizi di c.d. seconda accoglienza, ha stabilito che possono accedere allo SPRAR solo i titolari di protezione internazionale (status di rifugiato o protezione sussidiaria) e i minori non accompagnati.  Invece, i richiedenti asilo non possono più accedere ai servizi dello SPRAR, ma potranno essere accolti solo nei CAS o nei centri governativi di prima accoglienza.  Una disposizione transitoria consente che i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria già presenti nel Sistema di protezione alla data di entrata in vigore del decreto-legge (5 ottobre 2018) possono rimanere in accoglienza nel Sistema fino alla scadenza del progetto di accoglienza in corso, già finanziato.  I minori non accompagnati richiedenti asilo, al compimento della maggiore età, potranno rimanere nel Sistema fino alla definizione della domanda di protezione internazionale.  Ha quindi concluso la Sezione che il migrante che manifesta l'intenzione di chiedere la protezione internazionale viene accompagnato nei centri governativi di prima accoglienza (anche preesistenti Centri di assistenza richiedenti asilo (CARA) e Centri di accoglienza (CDA) riconvertiti) che hanno la funzione di consentire l'identificazione dello straniero (ove non sia stato possibile completare le operazioni nei centri di primo soccorso dislocati nei luoghi di sbarco), la verbalizzazione e l'avvio della procedura di esame della domanda di asilo, l'accertamento delle condizioni di salute e la sussistenza di eventuali situazioni di vulnerabilità che comportino speciali misure di assistenza.  Le misure di accoglienza sono assicurate per la durata del procedimento di esame della domanda da parte della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di cui all'art. 4, d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l'impugnazione della decisione (art. 14, comma 4).  Infine, deve aggiungersi che nella prima fase dell'accoglienza, l’ufficio di polizia che riceve la domanda di protezione internazionale ha l'obbligo di informazione a favore del richiedente circa le condizioni di accoglienza e le fasi della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, attraverso la consegna di un opuscolo informativo, redatto possibilmente nella lingua del richiedente (art. 3, d.lgs. n. 142 del 2015). ​​​​​​​
Straniero
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/superficie-utile-lorda-e-tutela-dei-beni-paesaggistici
Superficie utile lorda e tutela dei beni paesaggistici
N. 03352/2021REG.PROV.COLL. N. 06258/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6258 del 2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Alfredo Messina, Annabella Messina e Laura Messina, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Cava de' Tirreni, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonino Cascone e Giuliana Senatore, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l’annullamento e/o la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno (Sezione Seconda) n.-OMISSIS-/2019, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Cava de' Tirreni; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Francesco De Luca nell'udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2021, svoltasi attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”, sensi dell’art. 4, comma 1 del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell'art. 25 Decreto Legge n. 137 del 2020, conv. dalla L. n. 176 del 2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Il Sig.-OMISSIS-, proprietario della porzione di 1/4 del fabbricato adibito ad abitazione composta da piano terra di mq. 125 e tetto di copertura sito in Cava de’ Tirreni alla via Cesinola, n. 51, ha presentato istanza di sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/01 per alcune difformità realizzate rispetto ai titoli edilizi in precedenza rilasciati dal Comune, acquisita al protocollo comunale al n. 18584 del 31 marzo 2017 (all. 11 ricorso in primo grado n.r.g. 38/2018). Il Comune di Cava de’ Tirreni ha rigettato l’istanza con provvedimento n. 65635 del 24 novembre 2017 (all. 1 ricorso in primo grado n.r.g. 38/2018), rilevando l’insussistenza dei presupposti per la sanatoria, tenuto conto che: - le opere oggetto di accertamento di conformità avevano comportato sia un aumento di superficie utile lorda, mediante l’ampliamento del terrazzo anteriore (mt 1,60 x mt 4,00) e posteriore (mt 1,05 x 4,05), di profondità maggiore di 0,80 mt; sia un aumento di volume, mediante l’innalzamento della quota del solaio di copertura del garage di 50 cm, portandolo alla quota del pavimento del p.t.; sicché l’istanza non risultava assentibile, atteso il contrasto delle opere realizzate con l’art. 4 NTA al PRG, con il Piano di Recupero che, al punto 1-D, per la Ristrutturazione Edilizia non consentiva un incremento della superficie utile lorda, nonché con l’art. 9 L. n. 122/89 (art. 6 L.R. n. 19/01), legittimante soltanto l’esecuzione di parcheggi interrati e non di opere sopra il suolo; - le opere in esame ricadevano in zona soggetta a vincolo paesaggistico ai sensi del DM 16/06/1967 e del D. Lgs. n. 42/2004, ragion per cui non sussistevano i presupposti per l’accertamento di compatibilità paesaggistica, ammissibile ex art. 167, comma 4, D. Lgs. n. 42/2004 soltanto per lavori non comportanti la creazione di superfici utili o volumi, mentre nella specie risultavano realizzati aumenti di superficie utile lorda e di volume; né avrebbe potuto applicarsi il sopravvenuto DPR 31/2017 e comunque, anche in caso di aumento entro il limite del 10%, l’autorizzazione paesaggistica semplificata avrebbe richiesto la conformità alle norme edilizie/urbanistiche; - risultava integrato un cambio di destinazione d’uso da garage a deposito, con conseguente ulteriore aumento di superficie utile lorda in contrasto con l’art. 4 NTA al PRA e con le NTA del Piano di Recupero. 2. La Sig.ra -OMISSIS-, proprietaria della porzione di 1/4 del fabbricato adibito ad abitazione composta da piano terra di mq. 125 e tetto di copertura sito in Cava de’ Tirreni alla via Cesinola, n. 50, ha presentato istanza di sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/01 per alcune difformità realizzate rispetto ai titoli edilizi in precedenza rilasciati dal Comune, acquisita al protocollo comunale al n. 18590 del 31 marzo 2017 (all. 12 ricorso in primo grado n.r.g. 43/2018). Il Comune di Cava de’ Tirreni ha rigettato l’istanza con provvedimento n. 65633 del 24 novembre 2017 (all. 1 ricorso in primo grado n.r.g. 43/2018), rilevando l’insussistenza dei presupposti per la sanatoria, tenuto conto che: - le opere oggetto di accertamento di conformità avevano comportato sia un aumento di superficie utile lorda, mediante l’ampliamento del terrazzo anteriore (mt 1,90 x mt 3,50) e posteriore (mt 1,05 x 9,80), di profondità maggiore di 0,80 mt; sia un aumento di volume, mediante l’innalzamento della quota del solaio di copertura del garage di 50 cm, portandolo alla quota del pavimento del p.t.; sicché l’istanza non risultava assentibile, atteso il contrasto delle opere realizzate con l’art. 4 NTA al PRG, con il Piano di Recupero che, al punto 1-D, per la Ristrutturazione Edilizia non consentiva un incremento della superficie utile lorda, nonché con l’art. 9 L. n. 122/89 (art. 6 L.R. n. 19/01), legittimante soltanto l’esecuzione di parcheggi interrati e non di opere sopra il suolo; - le opere in esame ricadevano in zona soggetta a vincolo paesaggistico ai sensi del DM 16/06/1967 e del D. Lgs. n. 42/2004, ragion per cui non sussistevano i presupposti per l’accertamento di compatibilità paesaggistica, ammissibile ex art. 167, comma 4, D. Lgs. n. 42/2004 soltanto per lavori non comportanti la creazione di superfici utili o volumi, mentre nella specie risultavano realizzati aumenti di superficie utile lorda e di volume; né avrebbe potuto applicarsi il sopravvenuto DPR 31/2017 e comunque, anche in caso di aumento entro il limite del 10%, l’autorizzazione paesaggistica semplificata avrebbe richiesto la conformità alle norme edilizie/urbanistiche; - risultava integrato un cambio di destinazione d’uso da garage a deposito, con conseguente ulteriore aumento di superficie utile lorda in contrasto con l’art. 4 NTA al PRA e con le NTA del Piano di Recupero; né avrebbe potuto richiamarsi la C.I.L. prot. 18516 del 27.3.2015, in quanto si faceva questione di procedura edilizia a contenuto dichiarativo di parte, la cui conformità urbanistica è attestata dal dichiarante e dal tecnico che ne sottoscrive gli elaborati. 3. Il Sig.-OMISSIS- ha, quindi, proposto ricorso dinnanzi al Tar Campania, Salerno, rubricato al n.r.g. 38/2018 avverso: il provvedimento prot. n° 65635 del 24.11.2017 del Dirigente del Settore 2 - “Governo del Territorio e Patrimonio”, con cui era stata respinta l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. n° 380/2001; b) la nota del Comune prot. n° 35545 del 27.6.2017 di preavviso di diniego dell’istanza di sanatoria ex art. 10 bis della legge n° 241/1990; c) la nota prot. n° 69840 del 13.12.2017 del Dirigente del II Settore, con cui si comunicava la riapertura dei termini per la demolizione e l’irrogazione della sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001; nonché ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e consequenziale, ivi compresa, per quanto occorrente, l’ordinanza dirigenziale R.G. n. 57 del 30.1.2017. 4. La Sig.ra -OMISSIS-, parimenti, ha proposto ricorso dinnanzi al Tar Campania, Salerno, rubricato al n.r.g. 43/2018, impugnando: il provvedimento prot. n° 65633 del 24.11.2017 del Dirigente del Settore 2 “Governo del Territorio e Patrimonio”, con cui era stata respinta l’istanza di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. n° 380/2001; b) la nota del Comune prot. n. 35704 del 27.6.2017 di preavviso di diniego dell’istanza di sanatoria ex art. 10 bis della legge n. 241/1990; c) la nota prot. n° 69842 del 13.12.2017 dello stesso Dirigente del II Settore con cui si confermava la riapertura dei termini per la demolizione e l’irrigazione della sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, del D.P.R. n. 380/2001; d) ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e consequenziale, ivi comprese la nota prot. n. 24769 del 27.4.2015, la nota prot. n. 18081 del 29.3.2006 e, per quanto occorrente, l’ordinanza dirigenziale Reg. Gen. n. 58 del 30.1.2017. 5. A fondamento del ricorso il Sig.-OMISSIS- e la Sig.ra -OMISSIS- hanno dedotto plurimi motivi di censura, incentrati sulla: 1) “Violazione dell’art. 36 del D.P.R. n° 380/01 - Violazione e falsa applicazione dell’art. 1 punto 1D delle N.T.A. del P.d.R. delle Frazioni Sud-Ovest - Eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, carenza di istruttoria e di motivazione - Apoditticità ed irrazionalità manifesta”; 2) “Violazione dell’art. 36 del D.P.R. n° 380/2001 - Violazione degli artt. 6 e 34 del D.P.R. n° 380/01 - Violazione dell’art. 4 delle N.T.A. del P.R.G. - Eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, carenza di istruttoria e di motivazione - Contraddittorietà, apoditticità ed irrazionalità manifesta”; 3) “Violazione dell’art. 36 del D.P.R. n° 380/01 - Violazione dell’art. 23 ter del D.P.R. n° 380/01 e degli artt. 6 e ss. del D.P.R. n° 1142/1949 e relative categorie catastali - Eccesso di potere per erroneità dei presupposti difetto di istruttoria e di motivazione - Genericità - Apoditticità ed irrazionalità manifesta”; 4) “Violazione dell’art. 167 del D.Lgs. n° 42/04 - Violazione dell’art. 2 comma 1 del D.P.R. 13.2.2017, n° 31 e relativo All. n° 1 - Eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, carenza di istruttoria ed erronea motivazione - Apoditticità ed irrazionalità manifesta”. 6. Il Tar, riuniti i giudizi n.r.g. 38 e 43 del 2018, ha rigettato i ricorsi, tenuto conto che: a) nella specie risultava integrato un aumento della volumetria esterna dei garage e della superficie utile lorda riguardante le superfici pertinenziali, atteso che “ciò che rileva, ai fini del regime sanzionatorio, per di più in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, è solo la volumetria esterna; infine, anche le superfici pertinenziali esterne pavimentate, poste a quota appartamento, più in alto del giardino, costituiscono, per l’art. 4 delle NTA del PRG, nuove Superfici Utili Lorde”; - “gli Uffici non avrebbero mai potuto rilasciare un titolo in sanatoria parziale (limitatamente, cioè, al cambio di destinazione d’uso, conseguente alla diversa distribuzione interna del garage), in presenza di un immobile interessato da altri, più consistenti, abusi (maggiore volume e ingombro esterno), insanabili in zona sottoposta a vincolo paesaggistico”; - “gli interventi abusivi posti in essere, comunque li si voglia qualificare e valutare dal punto di vista edilizio – urbanistico, resteranno pur sempre, ineluttabilmente, delle “variazioni essenziali”, insuscettibili di sanatoria e da sanzionare, pertanto, con la demolizione”. 7. I Sig.ri -OMISSIS- e-OMISSIS- hanno proposto appello avverso la sentenza di primo grado, contestando che la stessa risultava incentrata sui soli dati tecnici forniti dall’Amministrazione comunale, senza avere esaminato le rilevazioni e i dati recati nelle perizie giurate depositate in giudizio dalle parti ricorrenti e, per l’effetto, denunciandone l’erroneità con quattro motivi di impugnazione, alla stregua delle doglianze già articolate in prime cure. Le parti appellanti hanno chiesto, in via istruttoria, la nomina di un CTU volta ad effettuare le corrette misurazioni degli ambienti e delle superfici esterne contestate ed a constatare l’assoluta ininfluenza delle contestazioni mosse dal Comune sotto i profili edilizi, urbanistici e paesaggistici ai fini del rilascio della chiesta sanatoria edilizia e paesaggistica. 8. Il Comune appellato si è costituito in giudizio, al fine di resistere all’impugnazione. Con memoria difensiva il Comune ha eccepito l’inammissibilità dell’appello per assoluta genericità, facendosi questione di mera riproposizione dei motivi di ricorso svolti in primo grado, nonché l’inammissibilità delle censure articolate dagli appellanti in ordine all’ammissibilità dei ricorsi in prime cure, tenuto conto che “Va da sé che il rigetto dell’eccezione di inammissibilità scrutinata dal Giudice di prime cure comporta carenza d’interesse al motivo in esame” (pag. 8 memoria difensiva 19.8.2019). In ogni caso, il Comune, con puntuali argomentazioni controdeduttive, ha contestato la fondatezza dei motivi di impugnazione, rilevando, altresì, che: - tutte le doglianze riguardanti la qualificazione degli abusi e la correlata disciplina sanzionatoria andavano formulate tempestivamente nei confronti delle pregresse ordinanze di demolizione, non potendo trovare ingresso in occasione dell’impugnativa del diniego di sanatoria; - le opere per cui è contestazioni avrebbero comportato aumenti di superficie utile lorda (SUL), mediante la avvenuta realizzazione dell’ampliamento del terrazzo anteriore (mt 1,90 x mt 3,50) che posteriore (mt 1,05 x mt 9,80), di profondità maggiore di 0,80 mt; sia aumento di volume, mediante l’innalzamento della quota del solaio di copertura del garage di 50 cm portandolo alla quota del pavimento del p.t.; - non sussisterebbe alcuna motivazione postuma in ordine all’aumento della volumetria esterna dei garage, in quanto i provvedimenti impugnati si riferivano espressamente ad una difformità riguardante la maggiore altezza del garage. 9. La Sezione, con ordinanza n. 4136 del 30.8.2019, ha accolto l’istanza cautelare formulata dagli appellanti, fissando l’udienza pubblica di discussione per il giorno 23 aprile 2020. 10. La parte appellante ha depositato, in vista dell’udienza di merito, una nuova perizia giurata e apposita memoria difensiva, con cui ha insistito nei motivi di impugnazione. 11. Con ordinanza n. 2698 del 24.4.2020 la Sezione ha ritenuto necessario disporre una verificazione, al fine di accertare se, in relazione ai garage di proprietà delle parti appellanti, le opere realizzate dai Sig.ri-OMISSIS- e -OMISSIS- avessero comportato, rispetto alle misurazioni di progetto, un aumento della volumetria e/o di superficie utile lorda e/o un mutamento di destinazione d’uso (da garage a deposito). In particolare, ai sensi dell'art. 66 cod. proc. amm. il Collegio ha disposto che: 1) alla verificazione provvedesse il Direttore del Dipartimento di Ingegneria Civile dell’Università degli Studi di Salerno, con facoltà di delega ad un Professore di ruolo nell’ambito del medesimo Dipartimento in possesso di specifiche competenze per il tipo di attività da svolgere; 2) il verificatore dovesse rispondere al seguente quesito: dica il verificatore, previo esame della documentazione acquisita agli atti di causa, dello stato dei luoghi e di ogni altro elemento rilevante, ivi inclusa la documentazione sussistente agli atti del Comune e delle pubbliche amministrazioni interessate, se la consistenza delle opere realizzate dagli appellanti e riferite ai garage per cui è causa, alla stregua della normativa di riferimento, abbia determinato -rispetto ai progetti assentiti attraverso i titoli susseguitisi- un aumento di volume e/o un aumento di superfice utile lorda e/o un mutamento della destinazione d’uso. Ai fini dell’espletamento dell’incarico istruttorio, al verificatore è stato chiesto di redigere una relazione, corredata, altresì, da opportuni elaborati grafici e da riproduzioni fotografiche, provvedendo: a) alla misurazione dell’eventuale aumento di superficie utile lorda e/o di volume dei garage; b) alla misurazione dell’eventuale innalzamento della quota di calpestio del terrazzo di copertura dei garage e alla conseguente possibilità di qualificare i garage come manufatti interrati; c) alla misurazione della superficie utile lorda dei manufatti adibiti a garage, con specificazione della superficie utilizzata e comunque utilizzabile come parcheggio e di quella, invece, preclusa ad un tale utilizzo in ragione dei tramezzi e delle modifiche realizzate dagli appellanti in difformità rispetto a quanto assentito dai titoli susseguitisi; d) allo svolgimento delle ulteriori attività ritenute utili a rispondere al quesito supra formulato. 11. Con ordinanze nn. 5628 del 28.8.2020 e 6671 del 30.10.2020 è stata concessa una proroga del termine di espletamento delle operazioni di verificazione, in accoglimento di istanze all’uopo presentate dal verificatore. 12. Con deposito dell’1.12.2020 il verificatore ha depositato la relazione istruttoria unitamente ai relativi allegati. 13. In data 30.12.2020 il Comune appellato ha depositato delle osservazioni alla relazione di verificazione predisposte dal proprio consulente tecnico di parte e dal competente dirigente comunale. 14. In vista dell’udienza pubblica la parte appellante ha depositato memoria conclusionale, insistendo nelle proprie conclusioni, anche alla stregua delle risultanze della verificazione. 15. Il Comune ha depositato memoria di replica in data 20.1.2021, controdeducendo rispetto a quanto allegato dall’appellante. 16. L’appellante ha, infine, depositato in data 3.2.2021 note di udienza, pure eccependo l’inammissibilità del deposito documentale del Comune appellato in data 30.12.2020. 17. Il verificatore ha presentato richiesta di liquidazione del compenso, quantificato in € 13.634,40. 18. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2021. DIRITTO 1. L’atto di appello consta di quattro motivi di impugnazione - suscettibili di esame congiunto, in quanto aventi ad oggetto censure connesse-, con cui si contesta l’erroneità della sentenza di prime cure, nella parte in cui: - ha reputato inammissibili le censure svolte contro i dinieghi di sanatoria, perché afferenti a questioni già oggetto di ordinanze di demolizione non impugnate; - ha ritenuto integrato un aumento del volume e della superficie utile concernente i garage; - ha ravvisato un cambio della destinazione d’uso dei garage; - ha ravvisato un aumento della superficie utile, in relazione all’ampliamento di aree qualificate come balconi. 1.1 In particolare, con il primo motivo di appello è censurata l’erroneità della sentenza di primo grado, per avere ritenuto le censure svolte con il primo motivo di ricorso (riguardanti l’esatta individuazione delle opere da sanare e la loro corretta qualificazione giuridica), da un lato, inammissibili, in quanto non dirette contro le ordinanze di demolizione, rimaste inoppugnate, dall’altro, infondate, essendosi in presenza di difformità non sanabili alla stregua di quanto previsto dalla normativa urbanistica di riferimento. A giudizio dell’appellante, l’interesse al ricorso sarebbe divenuto attuale e concreto solo a seguito dei dinieghi delle istanze di sanatoria, nonché nella specie si farebbe questione di difformità parziali, addirittura riduttive delle volumetrie dei garage, come peraltro già ritenuto definitivamente in sede penale dalla sentenza del GUP di Nocera Inferiore prodotta in primo grado. In particolare, le unità immobiliari per cui è controversia ricadrebbero nella zona A1 di PRG, per i quali il PDR ammetterebbe interventi di ristrutturazione edilizia, idonei, ai sensi dell’art. 1 NTA del PDR e dell’art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380/01 anche a determinare una modifica delle cubature e delle superfici preesistenti (preclusa soltanto in caso di demolizione e fedele ricostruzione); con la conseguenza che siffatte variazioni parziali avrebbero dovuto essere sottoposte al più mite trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 34 DPR n. 380/01; in ogni caso, nella specie non ricorrerebbe alcun aumento di cubatura, tenuto conto che la cubatura complessiva dei garage realizzati sarebbe inferiore a quella originariamente assentita. 1.2 Con il secondo motivo di appello gli appellanti hanno contestato l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha ravvisato un aumento della cubatura e di superficie utile lorda. In particolare: - con riferimento ai garage, risulterebbe che gli stessi non hanno subito un aumento della superficie o di cubatura, avendo altezza inferiore di 10 cm rispetto a quanto previsto in progetto (2,90 mt contro 3,00 mt di progetto), così come la porzione dei garage sottostanti le abitazioni avrebbero una volumetria notevolmente più ridotta rispetto a quelle assentite per avere altezza di 3,07 mt in luogo di 3,40 mt come in progetto; il posizionamento del piano di calpestio ad una quota maggiore rispetto alle previsioni di progetto si era, inoltre, reso necessario per non scalzare la testa delle fondazioni in c.a. delle strutture portanti degli edifici, evenienza non considerata in sede di progettazione dell’intervento di realizzazione dei garage; il che aveva determinato un dislivello tra calpestio interno dell’abitazione ed intradosso del garage di 59 cm, una maggiore altezza del solaio di copertura dei garage rispetto alla sistemazione precedente e a quella assentita interessante soltanto elementi tecnici e parte degli elementi strutturali e comunque contenuta in un solo centimetro (pertanto, entro il limite del 2% di cui all’art. 34, comma 2 ter, DPR n. 380/01), una riduzione di altezza interna dei garage di 10 cm rispetto alle misure di progetto (2,90 mt anziché 3,00 mt), una riduzione della superficie e della cubatura dei garage per complessivi 56 mc; con conseguente infondatezza delle contestazioni sollevate dall’Amministrazione comunale in punto di aumento di volumetria. Risulterebbe, comunque, inammissibile la motivazione postuma fondata su un incremento della cubatura dei garage per l’elevazione della relativa copertura, in quanto non posta a base dei provvedimenti amministrativi impugnati in primo grado; - con riferimento alle maggiori superfici esterne, esse non avrebbero configurato balconi o terrazzini, in quanto: a) sul lato SE sarebbe stata sistemata per ciascun appartamento una piccola parte esterna adiacente alla terrazza ed alla scala di comunicazione con il garage e con il sottostante giardino in aderenza al fabbricato, per evitare il riversarsi di fango sulla scala e sulla zona di transito pedonale di accesso all’abitazione, non qualificabile come balcone, in quanto deputata a camminamento e avente natura pertinenziale; in ogni caso, trattavasi di aree già pavimentate all’epoca dell’acquisto dell’immobile e poi condonate dal Comune e, comunque, rientranti nella nozione di edilizia libera ex art. 6, comma 1, lett. e) ter DPR n. 380/01; b) sul lato ovest gli spazi pavimentati costituirebbero ballatoi di accesso all’abitazione dal giardino raccordati con il sottostante giardino mediante tre gradini necessari per superare il dislivello di ca. 50 cm. tra il calpestio dell’appartamento e quello del giardino e, comunque, rientranti nell’edilizia libera di cui all’art. 6, comma 1, lett. e) ter DPR n. 380/01; in ogni caso, anche una qualificazione delle opere come balconi non avrebbe impedito la sanatoria paesaggistica ex art. 167 D. Lgs. n. 42/04, alla stregua di quanto previsto dalla circolare del Segretariato Generale del Ministero per i beni e le attività culturali del 26.6.2009. Inoltre, per superfici utili di cui all’art. 167 del D.Lgs. 42/04 dovrebbero intendersi solo quelle strettamente interne agli appartamenti con particolare esclusione delle superfici esterne. 1.3 Con il terzo motivo di appello i ricorrenti hanno contestato l’erroneità della sentenza di primo grado, per avere ritenuto integrata una fattispecie di cambio di destinazione d’uso di porzione dei garage, per effetto della realizzazione di tramezzature nelle parti posteriori degli stessi. A giudizio degli appellanti, invece, la presenza di dette tramezzature non impedirebbe l’utilizzo di tale porzione dei garage come posteggio di biciclette e di motorini, oltre che di deposito di materiale edile residuato dalla costruzione dei fabbricati e di qualche altro bene mobile in attesa di utilizzazione (elementi inidonei a determinare un cambio di destinazione d’uso); in ogni caso, non si sarebbe in presenza di una variazione urbanisticamente rilevante, in quanto garage e depositi sarebbero da ritenere, comunque, pertinenze dell’abitazione e, quindi, qualificabili nell’ambito della medesima categoria residenziale; infine, l’area in contestazione sarebbe di minore consistenza ex art. 23 ter, comma 2, DPR n. 380/01 rispetto all’estensione dei garage in contestazione. 1.4 Con l’ultimo motivo di appello i ricorrenti hanno contestato l’erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto insussistenti i presupposti per il rilascio del nulla osta paesaggistico. Nella specie, invece, alcun aumento di cubatura o di superficie utile avrebbe potuto riscontrarsi e comunque, quanto alle superficie esterne, si sarebbe stati in presenza di area di complessivi mq 16,94, inferiore al 25% dell’area di sedime, come tale non rientranti nel divieto di rilascio di sanatoria paesaggistica di cui agli artt. 146 e 167 del D.Lgs. n. 42/04; anche alla stregua di quanto previsto dal DPR n. 31/17. 2. Preliminarmente, occorre pronunciare sull’eccezione di inammissibilità dell’appello opposta dall’Amministrazione comunale, motivata sulla base della genericità dei motivi di impugnazione, tradottisi nella mera riproposizione delle censure articolate in primo grado e disattese dal Tar. L’eccezione è infondata. Come precisato da questo Consiglio, “Ai sensi dell’art. 101 comma 1 c.p.a. l’atto di appello deve contenere, per quanto qui interessa, a pena di inammissibilità “le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”, ovvero, secondo la giurisprudenza, deve contenere motivi di impugnazione specifici nel contenuto e indicati in apposita parte del ricorso a loro dedicata – in tal senso, per tutte, C.d.S. sez. IV 6 ottobre 2017 n.4659 e sez. VI 4 gennaio 2016 n.8- fermo che non è sufficiente una riproposizione generica dei motivi dedotti in I grado, ma è richiesta una critica alle conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata – così, sempre per tutte, C.d.S. sez. V 30 luglio 2018 n. 4655” (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 dicembre 2019, n. 8609). In particolare, gli appellanti, dopo avere richiamato i fatti di causa (ricostruendo il contenuto motivazionale del provvedimento impugnato in primo grado, i motivi di ricorso all’uopo svolti e le rationes decidendi sottese alla pronuncia di primo grado), hanno esposto i motivi in diritto in forza dei quali la sentenza emessa dal primo giudice avrebbe dovuto essere riformata. Dall’esame dell’atto di appello si evince, infatti, che la sentenza di primo grado è stata censurata, altresì: - per aver ritenuto inammissibili difformità parziali rispetto ai tioli edilizi assentiti, nonostante le unità immobiliari per cui è controversia ricadessero nella zona A1 di PRG, per la quale il PDR ammetteva interventi di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 1, comma 3, NTA del PDR, configurabili anche in presenza di una limitata variazione di cubatura e di superficie utile lorda (primo motivo di appello); - per aver ritenuto integrato nella specie un aumento della cubatura e della superficie utile lorda, benché i garage fossero caratterizzati da una minore cubatura e le superficie esterne, in quanto meri ballatoi e comunque non qualificabili come balconi, non dessero luogo a superficie utile lorda ex art. 4 NTA al PRG (secondo motivo di appello); - per aver ritenuto integrato un cambio di destinazione d’uso dei garage, nonostante gli stessi fossero destinati a posteggio di autovetture e, per una parte minoritaria, a parcheggio di motocicli, biciclette o deposito di derrate alimentari e altre cose mobili in via temporanea (terzo motivo di appello); - per aver ritenuto insussistenti i presupposti per la sanatoria paesaggistica, sebbene si facesse questione di opere non caratterizzate da aumento di superficie utile o di cubatura (quarto motivo di appello). L’appello risulta, pertanto, ammissibile, in quanto è articolato in specifiche censure in contrapposizione all’iter logico giuridico seguito dal primo giudice per pervenire alla definizione della controversia. 3. Sempre in via pregiudiziale, deve esaminarsi la censura, articolata nel primo motivo di appello, concernente l’asserita dichiarazione di inammissibilità dei motivi di ricorso proposti in prime cure, proposti avverso dinieghi di sanatoria traenti il proprio fondamento su ordinanze di demolizione non impugnate dagli odierni appellanti. A giudizio dell’appellante, non sussisteva un interesse a contestare in via immediata e diretta le ordinanze di demolizioni, in quanto fondate su difformità rispetto ai titoli edilizi soltanto parziali, oltre che spesso riduttive, le quali, tuttavia, in quanto ricadenti in zona soggetta a vincolo paesaggistico, non avrebbero impedito l’irrogazione della sanzione demolitoria; sicché un eventuale ricorso avverso i provvedimenti di demolizione sarebbe stato respinto, anche dimostrando la sola parziarietà delle difformità contestate dal Comune. La distinzione tra difformità totale e parziale avrebbe assunto, invece, rilevanza ai fini della sanatoria, ragion per cui avrebbe dovuto ritenersi ammissibile la contestazione dell’erroneità dei rilievi tecnici svolti dall’Ufficio comunale operata nell’ambito del ricorso diretto contro i dinieghi di sanatoria; peraltro, i ricorsi avverso il provvedimento di demolizione sarebbero stati inammissibili se proposti successivamente alla presentazione delle istanze di sanatoria ex art. 36 DPR n. 380/01. Come reso palese dalla sentenza gravata, il Tar ha dato atto che il Comune aveva opposto specifica eccezione “preliminare, d’inammissibilità dei ricorsi, sollevata dalla difesa dell’Amministrazione, fondata sul rilievo della mancata tempestiva impugnativa, da parte dei ricorrenti, delle presupposte (rispetto al diniego di sanatoria, oggetto di gravame), ordinanze di demolizione, emesse dal Comune di Cava de’ Tirreni per le opere, quindi oggetto d’istanza d’accertamento di conformità”. Tale eccezione, tuttavia, è stata ritenuta dal Tar “infondata, valendo in proposito il principio opposto, espresso compiutamente nella massima che segue: “La mancata impugnativa dell’ordine di demolizione non fa venir meno l’interesse all’impugnativa del diniego adottato sulla domanda di sanatoria ex art. 13 l. 28 febbraio 1985 n. 47, presentata nel termine assegnato per la demolizione, ferma restando la perdurante efficacia dell’ordinanza una volta che l’impugnativa suddetta venga respinta” (T. A. R. Lazio – Latina, 23/05/2001, n. 525)”. Emerge, dunque, che il Tar ha rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso, provvedendo all’esame, nel merito, delle doglianze articolate dalle parti ricorrenti; il che è confermato anche dal dispositivo della sentenza gravata, non recante alcuna statuizione di inammissibilità, bensì incentrato sull’infondatezza delle relative doglianze, all’uopo respinte. Ne deriva: - da un lato, l’inammissibilità delle censure sollevate dagli odierni appellanti contro una statuizione a loro favorevole recata nella sentenza gravata, con conseguente difetto di interesse alla sua contestazione; in particolare, avendo il Tar rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in parte qua non sussiste alcuna posizione di soccombenza dei ricorrenti idonea a giustificare e sostenere l’intrapresa azione impugnatoria; come, peraltro, rilevato dallo stesso Comune, secondo cui “il rigetto dell’eccezione di inammissibilità scrutinata dal Giudice di prime cure comporta carenza d’interesse al motivo in esame” (pag. 8 memoria difensiva); - dall’altro, in assenza di appello incidentale proposto dall’Amministrazione comunale, la stessa parte pubblica appellata non può eccepire nel presente grado di giudizio l’inammissibilità del ricorso di prime cure, per mancata impugnazione delle presupposte ordinanze di demolizione e, quindi, per irretrattabilità delle qualificazioni giuridiche e del regime sanzionatorio ivi previsto, facendosi questione di una questione su cui ha espressamente statuito il Tar in senso sfavorevole all’Amministrazione resistente e sulla quale, in assenza di impugnazione incidentale, si è formato il giudicato interno, ostativo al suo riesame nell’odierna sede processuale. 4. Sempre in via pregiudiziale, deve accogliersi l’eccezione di inutilizzabilità delle controdeduzioni alla CTU depositate dal Comune in data 30.12.2020. Non si è, infatti, in presenza di un documento attestante fatti rilevanti ai fini del giudizio, bensì di una consulenza tecnica di parte, recante osservazioni critiche alla relazione di verificazione. Si tratta, dunque, anziché di un documento probatorio, di un atto recante deduzioni tecniche che avrebbero dovuto essere rassegnate dal difensore della parte processuale nell’ambito di apposita memoria conclusionale da depositarsi nei termini di legge. Essendosi il Comune limitato a depositare una memoria di replica, avente la sola funzione di controdedurre (anziché alla relazione di verificazione) alle altrui argomentazioni, le osservazioni svolte dal consulente tecnico dell’Amministrazione riportate in una relazione di parte, in quanto non rassegnate nell’atto processuale tipicamente destinato all’illustrazione degli argomenti a propria difesa, non possono essere utilizzate ai fini della decisione. In ogni caso, tali osservazioni devono essere disattese alla luce delle approfondite argomentazioni tecniche svolte dal verificatore, incentrate su puntuali rilevazioni e sulla corretta applicazione del quadro regolatorio tecnico di riferimento, alla stregua di quanto si osserverà amplius nella disamina dei singoli motivi di impugnazione. 5. Procedendo all’esame dei motivi di impugnazione, deve, in primo luogo, rilevarsi che le uniche ragioni di diniego esaminabili nel presente giudizio sono quelle recate nei provvedimenti impugnati in prime cure, non potendo estendersi il thema decidendum mediante meri scritti difensivi. Nel processo amministrativo l'integrazione in sede giudiziale della motivazione dell'atto amministrativo è ammissibile soltanto se effettuata mediante gli atti del procedimento - nella misura in cui i documenti dell'istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni della determinazione assunta - oppure attraverso l'emanazione di un autonomo provvedimento di convalida (art. 21-nonies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990). È invece inammissibile un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi. La motivazione costituisce, infatti, il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5984). In particolare, “la motivazione del provvedimento amministrativo rappresenta il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti (si veda Cons. St., Sez. III, 7.4.2014, n. 1629), non potendo perciò il suo difetto o la sua inadeguatezza essere in alcun modo assimilati alla mera violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma. La motivazione del provvedimento costituisce infatti “l’essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata” (Consiglio di Stato, III, 30 aprile 2014, n. 2247), e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio” (Consiglio di Stato, sez. V, 10 settembre 2018, n. 5291). Alla stregua di tali considerazioni occorre soffermarsi sulle sole ragioni di diniego opposte dall’Amministrazione in sede procedimentale, come censurate in giudizio, non potendo trovare ingresso – come fondatamente rilevato dagli appellanti – argomentazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle alla base delle determinazioni comunali per cui è controversia. 6. Ciò premesso, prima di valutare la legittimità degli atti amministrativi de quibus, occorre ricostruire le risultanze della verificazione disposta dalla Sezione ed espletata nel presente grado di giudizio. In particolare, dall’analisi della documentazione di progetto è emerso che: - il garage assentito con permesso di costruire n. 918/2006 e permesso di costruire in variante n. 1263/2007, rilasciati in favore della Sig.ra -OMISSIS-, era stato autorizzato per un volume totale di 707,5 m3 ed una superficie utile lorda totale di 244,73 m2 (di cui 192,89 quanto alla superficie utile lorda del garage e 51,84 quanto alla superficie utile lorda della terrazza di copertura); - il garage assentito con permesso di costruire n. 921/2006 e permesso di costruire in variante n. 1265/2007, rilasciati in favore della Sig.-OMISSIS-, era stato autorizzato per un volume totale di 597,59 m3 ed una superficie utile lorda totale di 211,40 m2 (di cui 163,55 quanto alla superficie utile lorda del garage e 47,84 quanto alla superficie utile lorda della terrazza di copertura); -per entrambi i manufatti era previsto un dislivello tra la quota dell’estradosso del terrazzo di copertura della parte di garage esterna rispetto alla sagoma del fabbricato residenziale e la quota del pavimento del piano terra del fabbricato residenziale stesso pari a -50 cm. Gli interventi eseguiti dagli odierni appellanti hanno, invece, condotto alla realizzazione di due manufatti aventi un volume e una superficie utile lorda nel complesso inferiori rispetto a quelli autorizzati. In particolare: - la quota del piano di calpestio del garage è stata realizzata più in alto di 36 cm rispetto a quanto autorizzato; - per entrambi i manufatti è emerso un dislivello tra la quota dell’estradosso del solaio di copertura delle porzioni dei garage esterne rispetto alla sagoma dei fabbricati residenziali e il piano di calpestio del piano terra del fabbricato residenziale, pari a -5,5 cm di media (-3 cm in corrispondenza del filo esterno del fabbricato residenziale e -8 cm in corrispondenza della gronda della terrazza); - non si sono ravvisate variazioni sostanziali dell’ingombro dei garage, rispetto a quanto autorizzato; - il garage della Sig.ra -OMISSIS- è caratterizzato da una superficie utile lorda totale pari a 244,51 m2 (di cui 192,67 quanto alla superficie utile lorda del garage e 51,84 quanto alla superficie utile lorda della terrazza di copertura), pressoché identica a quella autorizzata (244,73 m2), e un volume di 659,75 m3, inferiore di circa 47,3 m3 rispetto a quello autorizzato; - il garage del Sig.-OMISSIS- è caratterizzato da una superficie utile lorda pari a 210,11 m2 (di cui 162,54 quanto alla superficie utile lorda del garage e 47,57 quanto alla superficie utile lorda della terrazza di copertura), inferiore di circa 1 m2 rispetto a quella autorizzata, e un volume di 560,67 m3, circa 36,92 m3 in meno rispetto a quanto autorizzato; - anche computando il maggiore volume realizzato relativo alla parte di garage realizzata sul soprasuolo delle aree pertinenziali esterne, si valorizzerebbe un aumento di volume di 24,57 m3 nel caso dell’immobile di proprietà -OMISSIS- e a 22,55 m3 per l’immobile di proprietà-OMISSIS-, inferiori rispetto alla riduzione di volume conseguita con la realizzazione del garage con un piano di calpestio più alto rispetto a quanto indicato nei titoli abilitativo; - le tramezzature interne realizzate nell’ambito dei garage sulla base di apposite comunicazioni di inizio lavori hanno permesso la realizzazione di un’ambiente principale che, nel caso dell’immobile di proprietà -OMISSIS-, ha dimensioni 9,21 × 4,75 ÷ 4,41 metri e superficie utile netta pari a 41,85 m2 , e che, nel caso dell’immobile di proprietà-OMISSIS-, ha dimensioni 9,51 × 3,84 ÷ 3,35 metri e superficie utile netta pari a 33,83 m2 - dimensioni tali da consentire il ricovero di due auto per ciascun ambiente – nonché di altri ambienti, tutti privi di finestre, ai quali si accede attraverso vani porta di larghezza comprese tra i 0,80 e i 0,90 metri e altezza pari a 2,10 metri, aventi metratura variabile e risultati adibiti a ricovero di motocicli e materiali di varia natura; in relazione a tali ulteriori ambienti, il verificatore ha dato atto che “anche altri ambienti nei garage, oltre a quello direttamente accessibile dall’esterno, sono risultati essere utilizzati come autorimesse per il ricovero di motocicli”. Sula base di tali rilievi, il verificatore ha, dunque, ritenuto he: - “confrontando i titoli abilitativi e il rilievo metrico dello stato di fatto condotto dallo scrivente, computando la Sul e il volume secondo quanto prescritto dall’art. 4 delle Nta del Prg, non si sono riscontrati aumenti di Sul o di volume. In dettaglio, la Sul rilevata è risultata essere pressoché uguale a quella autorizzata mentre si è ravvisata una lieve diminuzione del volume realizzato rispetto a quello assentito (-47,3 m3 per l’immobile di proprietà -OMISSIS-, -36,92 m3 per l’immobile di proprietà-OMISSIS-)”; - “la realizzazione di parte del volume del garage sul soprasuolo delle aree pertinenziali esterne sia stato determinato da mere esigenze cantieristiche quali la necessità di collegare il solaio di copertura del garage con quello del pian terreno del fabbricato residenziale. Si fa presente che il volume contestato realizzato sul soprasuolo costituirebbe una quota molto contenuta rispetto all’intero volume autorizzato (+3,4% per l’immobile di proprietà -OMISSIS- e +3,7% per l’immobile di proprietà-OMISSIS-), appena superiore al limite della tolleranza costruttiva del 2% di cui all’art. 34bis del Dpr 380/2001 e totalmente ininfluente dal punto di vista del generale assetto planovolumetrico del fabbricato”; - “attesa l’esiguità della presunta violazione, e in considerazione della impossibilità della remissione in pristino senza arrecare pregiudizio alla parte eseguita in conformità – essa, considerando le tolleranze costruttive, ammonterebbe al 98% degli immobili – si ritiene che il Comune di Cava de’ Tirreni, in luogo del diniego dell’istanza, avrebbe potuto pacificamente applicare la sanzione prevista dal comma 2 dell’art. 34 del Dpr 380/2001, quantificata pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 392/1978, della parte dell’opera realizzata in difformità dal PdiC”; - “Per ciò che riguarda, invece, alla impossibilità di ricorrere all’accertamento di compatibilità paesaggistica di cui all’art. 167, comma 4, del DLgs 42/2004, a causa del presunto aumento di volume e di Sul, si ribadisce come, secondo quanto stabilito dall’art. 4 delle Nta del Prg, non si è riscontrato aumento di volume e di Sul tra quanto assentito e quanto realizzato. Si fa osservare, invece, come il DLgs 42/2004 non citi tra i motivi ostativi dell’accertamento di compatibilità paesaggistica, le variazioni di sagoma dei manufatti”; - “all’esame dello stato dei luoghi, della disciplina urbanistica e degli orientamenti giurisprudenziali, non si ritenga che le opere di cui alle Cil 18516/2015 e 20145/2015 abbiano determinato un mutamento di destinazione d’uso da garage a deposito. Ad ogni buon conto, si fa presente che, trattandosi di semplici tramezzature interne, per altro non aventi funzione strutturale, potrebbero comunque essere facilmente eliminate quelle che determinano una presunta inutilizzabilità degli ambienti come autorimessa”. 7. Alla stregua degli accertamenti svolti dal verificatore - che il Collegio intende porre a fondamento della decisione, caratterizzandosi per l’approfondita disamina svolta dall’ausiliare (sopralluoghi, analisi della documentazione amministrativa e puntuali misurazioni dei volumi e delle superfici lordi), in corretta applicazione della normativa tecnica di riferimento - emerge la fondatezza dei motivi di appello concernenti i due garage per cui è causa. In particolare, è stato accertato che la superficie utile lorda e il volume dei due garage hanno subito una riduzione rispetto alle misure di progetto; il che mina in radice il fondamento dei dinieghi di sanatoria opposti dal Comune, incentrati su un preteso incremento di volume e superficie utile lorda. Né potrebbe argomentarsi diversamente in ragione dell’innalzamento della quota dell’estradosso del terrazzo di copertura della parte di garage esterna rispetto alla sagoma del fabbricato residenziale. Tale violazione, difatti: - non ha interferito sulla superficie utile lorda dei garage; - non ha comportato un innalzamento della quota dell’estradosso del terrazzo di copertura de quo tale da eguagliare o superare la quota del pavimento del piano terra del fabbricato residenziale stesso, essendosi mantenuto, comunque, un dislivello come previsto dai titoli edilizi, seppure diminuito a -5,5 cm di media (-3 cm in corrispondenza del filo esterno del fabbricato residenziale e -8 cm in corrispondenza della gronda della terrazza); con la conseguente erroneità del rilievo fondante i dinieghi impugnati in prime cure, incentrati sull’innalzamento della quota del solaio di copertura del garage “di 50 cm portandolo alla quota del pavimento del p.t.”, sulla cui base è pure argomentata la ritenuta violazione dell’art. 9 L. n. 122/89 e dell’art. 6 L.R. n. 19/01; il Comune, infatti, ha contestato (con gli atti di diniego censurati in prime cure) infondatamente “un aumento di volume, mediante l’innalzamento della quota del solaio di copertura del garage di 50 cm portandolo alla quota del pavimento del p.t. e, pertanto, l’istanza non risulta assentibile ai sensi dell’art. 36 del D.PR 380/01, in quanto le opere sopra non risultano conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della realizzazione e al momento della presentazione della domanda (doppia conformità), essendo in contrasto […]con la L. 122/89, in quanto l’art. 9 (e l’art. 6 della L.R. 19/01) non suscettibili di interpretazione estensiva, consentono solo l’esecuzione di parcheggi interrati e non di opere sopra il suolo” (cfr. anche pagg. 8-20 memoria di replica, con cui il Comune infondatamente insiste nel ritenere che gli abusi avessero portato la quota del solaio di copertura del garage alla quota del pavimento del piano terra), quando, invece, come emerso dalla verificazione, la quota del solaio di copertura del garage non ha eguagliato la quota del pavimento del piano terra, con conseguente difetto dei presupposti fattuali alla base delle decisioni amministrative censurate in prime cure; - non ha comunque comportato un incremento del volume dei garage, diversamente da quanto sostenuto dal Comune anche in sede di replica (cfr. pagg. 16/17, che richiamano anche le deduzioni svolte dal proprio consulente tecnico di parte), tenuto conto che il maggiore volume derivante dall’innalzamento della quota dell’estradosso del terrazzo di copertura de quo è risultato, in ogni caso, inferiore rispetto alla riduzione di volume conseguita con la realizzazione di un piano di calpestio più alto rispetto a quanto indicato nei titoli abilitativi. Pertanto, dovendosi esaminare unitariamente i manufatti de quibus, al fine di verificare se gli stessi, rispetto alle misure di progetto, abbiano nel complesso prodotto un incremento del volume o della superficie utile lorda rispetto a quanto assentito, deve giungersi alla conclusione che le opere in contestazione, seppure difformi rispetto a titoli edilizi – il che ovviamente costituisce il presupposto per la presentazione delle istanze di sanatoria per cui è causa, avente la loro giustificazione causale proprio in ragione della difformità rispetto alle misure di progetto– non abbiano comunque prodotto un incremento di volume o di superficie lorda, né abbiano eguagliato o superato la quota del pavimento del piano terra dei fabbricati residenziali stessi (come erroneamente ritenuto dal Comune); ragion per cui le determinazioni amministrative impugnate in prime cure, in quanto incentrate su presupposti fattuali erronei, devono essere in parte qua comunque annullate. 8. Le risultanze della verificazione hanno dimostrato, inoltre, che alcuna modifica della destinazione d’uso dei garage de quibus risulta fondatamente contestabile. Posto che il cambio di destinazione d’uso rilevante in materia edilizia si traduce in ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, nella specie, la realizzazione delle tramezzature interne, pur determinando la realizzazione di diversi ambienti, non ha inciso sulla perdurante destinazione dei relativi spazi a parcheggio; il che è confermato dall’istruttoria svolta in appello, avendo il verificatore riscontrato l’impiego dei vari ambienti quale parcheggio di autovetture e motocicli. 9. Alla stregua delle osservazioni svolte, avuto riguardo all’edificazione dei garage, le ragioni di diniego di sanatoria opposte con i provvedimenti impugnati in prime cure non resistono ai rilievi critici sollevati dalle parti appellanti. Difatti, posto che le difformità rilevate non hanno comportato l’aumento delle superfici utili o dei volumi rispetto a quanto assentito dai titoli edilizi, né hanno determinato l’edificazione di manufatti con quota del solatio di copertura posta a quota del pavimento del piano terra, non soltanto non si ravvisano le violazioni alla normativa urbanistica ed edilizia richiamate nei provvedimenti di diniego di sanatoria (presupponenti l’incremento di superfici utili lorde e/o di volume, il cambio di destinazione d’uso dei locali o la realizzazione di garage con quota del solaio di copertura del garage alla quota del pavimento del piano terra), ma non risultano integrati neanche i presupposti ostativi all’avvio del procedimento di sanatoria delineato dagli artt. 146 e 167 del D.Lgs. n. 42/04, al fine di verificare la compatibilità con i valori paesaggistici delle difformità rilevate nel caso concreto. Sotto tale profilo, si osserva, infatti, che sono suscettibili di accertamento postumo di compatibilità paesaggistica gli interventi realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l’impiego di materiali diversi da quelli prescritti dall’autorizzazione paesaggistica; i lavori configurabili come interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi della disciplina edilizia (art. 167, comma 4). L’accertamento di compatibilità, peraltro, è subordinato al positivo riscontro della Soprintendenza e al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. Nella specie, non si era registrato alcun aumento di cubatura o di superficie utile, ragion per cui non si ravvisavano motivi ostativi all’attivazione del procedimento di sanatoria delineato dagli artt. 146 e 167 del D.Lgs. n. 42/04, al fine di verificare la compatibilità con i valori paesaggistici delle difformità rilevate nel caso concreto. 10. Risultano meritevoli di accoglimento anche le censure relative alle superfici esterne in contestazione. Al riguardo, premesso che la verificazione non ha riscontrato un aumento della superficie della terrazza di copertura dei garage, in primo luogo, deve rilevarsi che l’ampliamento delle aree esterne, sebbene deputate esclusivamente al camminamento, rileva, comunque, ai fini della determinazione della superficie utile lorda ex art. 4 NTA PRG. Ai sensi di tale previsione, in particolare, la superficie utile lorda “è la somma delle superfici di tutti i piani fuori ed entro terra misurati al lordo di tutti gli elementi verticali (…) Negli edifici con destinazione residenziale, dal computo della S.U. sono esclusi: i porticati pubblici e privati (…) le logge rientranti, i balconi, se hanno sporgenza non superiore a ml 0,80 (in caso di sporgenza superiore andrà considerata l’intera superficie) …”. Sebbene il Comune nei dinieghi di sanatoria, nel richiamare il preavviso di rigetto, abbia definito le aree esterne per cui è causa quali terrazzi, discorrendo di “ampliamento del terrazzo anteriore (…) che posteriore (…), essendo di profondità maggiore di 0,80 mt” – qualificazione contestata in appello – è altrettanto vero che la stessa Amministrazione, nel prendere in esame le osservazioni comunicate dagli istanti in riscontro al preavviso di rigetto, ha precisato che le “superfici pertinenziali esterne pavimentate poste a quota appartamento, più in alto del giardino, costituiscono, per l’art. 4 delle NTA del PRG, nuove Superfici Utili Lorda”. Pertanto, risultano irrilevanti le censure svolte dagli appellanti circa la funzione e la qualificazione di tali aree esterne, tenuto conto che, come ritenuto dal Comune, alla stregua della previsione dettata dall’art. 4 NTA cit., le superfici di tutti i piani fuori terra concorrono a delineare la superficie utile lorda, eccetto gli elementi edilizi espressamente enucleati nella stessa disposizione definitoria. Pertanto, la circostanza per cui l’area in esame non rientri tra gli elementi edilizi compresi nell’eccezione al computo della superficie utile lorda non comporta la sua irrilevanza a tali fini qualificatori, bensì determina il suo assoggettamento alla regola generale (per mancata sussunzione sotto la regola eccezionale). Ne deriva che, pure se le aree per cui è controversia non fossero qualificabili come balconi, le stesse, in quanto espressive di piani fuori terra (essendo destinati, per stessa ammissione degli appellanti, al camminamento), non rientrando in alcuna previsione derogatoria, dovrebbero essere qualificate come superfici utili lorde, integrando gli estremi del piano fuori terra utilmente computabile, per previsione generale nella specie non derogata, nella superficie utile lorda. Tale qualificazione, tuttavia, come dedotto dagli appellanti nel primo e nel secondo motivo di appello, da un lato, non implica la violazione del punto 1-D del Piano di Recupero per la Ristrutturazione edilizia (in combinato disposto con l’art. 4 NTA PRG cit.), dall’altro, non è, di per sé, ostativa all’avvio del procedimento di autorizzazione postuma paesaggistica. 10.1 Sotto il profilo urbanistico, si osserva che la ristrutturazione edilizia è suscettibile di tradursi - pure alla stregua di quanto previsto dall’art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380/01- anche in una modifica delle cubature e delle superfici preesistenti, preclusa soltanto in caso di demolizione e fedele ricostruzione del manufatto. Sicché, la mera circostanza di un incremento della superficie utile lorda non potrebbe ritenersi in contrasto con il punto 1-D del Piano di Recupero per la Ristrutturazione edilizia (in combinato disposto con l’art. 4 NTA PRG cit.), che vieta tali incrementi per i soli interventi di demolizione e fedele ricostruzione, che non risultano essere stati realizzati nella specie. Le argomentazioni svolte a sostegno del primo motivo di appello risultano, in particolare, coerenti con il dettato del punto 1-D al Piano di Recupero, che ammette anche interventi di ristrutturazione edilizia rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, con la precisazione che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione del fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente e senza incremento della superficie utile lorda (come definita dall’articolo 4 delle N.T.A. del P.R.G.). Dalla disciplina urbanistica posta a fondamento dei provvedimenti di diniego emerge, in particolare, che la necessità di evitare un incremento della superficie utile lorda e della volumetria è prevista soltanto per una specie di interventi di ristrutturazione edilizia, caratterizzati dalla demolizione e fedele ricostruzione del manufatto che, dovendo essere identico a quello originario, non può, infatti, presentare variazioni neanche in punto di volumetria e di superficie utile lorda. Gli ulteriori interventi, comunque riconducibili alla categoria della ristrutturazione edilizia, sono, invece, caratterizzati, secondo quanto previsto dallo stesso Piano di Recupero comunale, dalla trasformazione di un organismo edilizio già esistente, mediante un insieme sistematico di opere da valutarsi unitariamente, tendenti a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente: siffatti interventi, comportando una variazione del manufatto, possono anche determinare una modifica delle volumetrie e delle superfici utili lorde. Peraltro, tale qualificazione di ristrutturazione edilizia risulta coerente a quanto previsto, anche, dalla disciplina di cui all’art. 3, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 380/01 nella formulazione ratione temporis riferibile alla specie, secondo cui sono da qualificare come ristrutturazione edilizia “gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l’eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”. Emerge, dunque, che l’identità di volume è richiesta per gli interventi di ristrutturazione edilizia di carattere ricostruttivo, in cui si assiste alla demolizione e ricostruzione dell’immobile, ma non anche per gli interventi di ristrutturazione edilizia conservativi, che presuppongono la permanenza dell’originario organismo edilizio, interessato da un insieme sistematico di opere idonee, anche, all'inserimento di nuovi volumi o modifiche della sagoma. Peraltro, l’art. 10 DPR n. 380/01 (nella formulazione vigente al tempo dei fatti di causa) ha espressamente previsto la necessità del rilascio del permesso di costruire anche per “gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni”; ammettendo, per l’effetto, la configurazione di interventi di ristrutturazione edilizia idonei a modificare la volumetrica complessiva degli edifici o i prospetti. Anche questo Consiglio, in subiecta materia, ha precisato che “la ristrutturazione edilizia si caratterizza per la diversità dell’organismo edilizio prodotto dall’intervento di trasformazione rispetto al precedente (Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2016 n. 4267 e 27 aprile 2016 n. 1619; sez. V, 12 novembre 2015 n. 5184) e che essa si distingue dalla nuova costruzione perché mentre quest’ultima presuppone una trasformazione del territorio, la ristrutturazione è invece caratterizzata dalla preesistenza di un manufatto, in quanto tale trasformazione vi è in precedenza già stata (Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015 n. 1763; 12 maggio 2014 n. 2397; 6 dicembre 2013 n. 5822; 30 marzo 2013, n. 2972). E si è altresì precisato come siano rinvenibili, nell’ambito del citato art. 3, co. 1, lett. d) - almeno fino alla novella del 2013 - due distinte ipotesi di ristrutturazione edilizia: a) quella contemplata dalla prima parte della norma (c.d. intervento conservativo o risanamento conservativo o restauro conservativo), che può comportare anche l'inserimento di nuovi volumi o modifiche della sagoma, nel qual caso abbisogna del permesso di costruire (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 aprile 2014, n. 2194; sez. IV, 23 aprile 2014, n. 2060); b) quella (c.d. intervento ricostruttivo) attuata mediante demolizione e ricostruzione, nel rispetto del volume e della sagoma dell'edificio preesistente (Cons. Stato, sez. V, 5 dicembre 2014 n. 5988). Anche alla luce di quanto innanzi esposto, giova precisare che è con riferimento alla ipotesi di ristrutturazione “ricostruttiva” che è richiesta – almeno fino alla novella del 2013 - (oltre alla preesistenza certa del fabbricato identificabile nella sue componenti strutturali, c.d. demoricostruzione, su cui v. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106), identità di volumetria e di sagoma (Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015 n. 1763; 9 maggio 2014 n. 2384; 6 luglio 2012 n. 3970), affermandosi altresì che, in difetto, si configura una nuova costruzione, con la conseguente applicabilità anche delle norme sulle distanze (Cons. Stato, sez. IV, 23 aprile 2014, n. 2060; sez. IV, 30 maggio 2013 n. 2972; 12 febbraio 2013 n. 844; in termini Cass. civ., sez. un., 19 ottobre 2011, n. 21578)”, aggiungendo che a seguito della novella del 2013 “vi sono ora tre distinte ipotesi di intervento rientranti nella definizione di “ristrutturazione edilizia”, che possono portare “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”: - la prima, non comportante demolizione del preesistente fabbricato e comprendente (dunque, in via non esaustiva) “il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti”; - la seconda, caratterizzata da demolizione e ricostruzione, per la quale è richiesta “la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica” (ed in questo caso, rispetto al testo previgente, non è più richiesta l’identità di sagoma); - la terza, rappresentata dagli interventi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza” (Consiglio di Stato, sez. IV, 2 febbraio 2017, n. 443). Anche recentemente si è affermato che “le tamponature esterne a realizzare in concreto i volumi di un edificio, rendendoli individuabili e calcolabili (Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2008, n. 3286), con la conseguenza che la realizzazione di tali tamponature produce senz’altro effetti in termini di aumento di volume; “gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l’originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l’inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell’ambito della ristrutturazione edilizia” (Cons. Stato, sez. V, 5 settembre 2014, n. 4523)” (Consiglio di Stato, sez. II, 13 maggio 2019, n. 3058). Pertanto: - posto che gli interventi di ristrutturazione edilizia di natura conservativa, non presupponenti la ricostruzione dell’organismo edilizio preesistente, possono comportare anche una modifica della cubatura, con l’inserimento di nuovi volumi e, quindi, con l’ampliamento della superficie dell’organismo edilizio; - considerato che nella specie le unità immobiliari per cui è controversia ricadono in una zona per cui è ammessa la ristrutturazione edilizia e che gli interventi eseguiti dagli appellanti, non avendo determinato la demolizione con ricostruzione dei manufatti di proprietà, devono qualificarsi di natura conservativa; il Comune non avrebbe potuto rigettare le istanze di sanatoria, soltanto perché si faceva questione di un complesso di opere comportanti un aumento di volume e superficie utile lorda, risultando tali caratteristiche compatibili con un intervento di ristrutturazione edilizia (conservativa) ammesso dal combinato disposto degli artt. 4 NTA al PRG e al punto 1-D al Piano di Recupero comunale. 10.2 In relazione ai profili paesaggistici, non possono trovare accoglimento le censure incentrate sul DPR n. 31/17, perché argomentate sulla base di un atto sopravvenuto rispetto alla realizzazione delle opere in contestazione, né le censure riguardanti la descrizione dell’area recata in un atto di compravendita, rilevando i soli titoli pubblicistici ai fini della valutazione della liceità dell’intervento in concreto eseguito. Né potrebbe diversamente argomentarsi sulla base dell’art. 17, c. 2, del D.P.R. n. 31/17, afferente alla riduzione in pristino di interventi ricompresi nell’ambito di applicazione dell’art. 2 dello stesso Decreto, tenuto conto che nella specie l’impugnazione è diretta contro dinieghi di sanatoria, non facendosi questione di demolizione delle opere de quibus (oggetto di pregressi atti amministrativi non tempestivamente censurati). Devono ritenersi, invece, fondate le contestazioni riguardanti la nozione di superficie utile da prendere in esame al fine di perimetrare la portata applicativa dell’art. 167 D. Lgs. n. 42/04, nella parte in cui preclude il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma in caso di incremento delle superfici utili legittimamente edificate. Come di recente chiarito dalla Sezione (Consiglio di Stato, Sez. VI, 6 aprile 2020, n. 2250), in materia di tutela paesaggistica, il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, contenuto nell'art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004, per cui l'autorità preposta alla gestione del vincolo accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati, non può che interpretarsi nel senso di un rinvio al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche non già specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalla normativa urbanistico-edilizia. Con specifico riferimento alla nozione di “superfici utili”, questo Consiglio ha precisato che “le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23 luglio 1960, n. 1820; artt. 5 e 6 d.m. 2 agosto 1969; art. 3 d.m. 10 maggio 1977; art. 1 d.m. 26 aprile 1991; art. 6 d.m. 5 agosto 1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 dicembre 2014, n. 5932; cfr. anche Consiglio di Stato, sez. VI, 13 maggio 2016, n. 1945). La necessità di distinguere le nozioni di superficie utile e di superficie accessoria trova attuale conferma nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d. P.R. 6 giugno 2001, n. 380, pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, comunque invocabile quale parametro esegetico nell’interpretazione della pertinente disciplina edilizia. Come rilevato da questo Consiglio, tale intervento è stato reso necessario al fine di “omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici comunali, rispondente o meno a specifiche indicazioni regolamentari o urbanistiche locali” (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 241). Il riferimento a tali definizioni uniformi risulta, quindi, utile al fine di individuare il paradigma cui ricondurre, almeno astrattamente, l’intervento realizzato, alla stregua di quanto emergente dalla documentazione in atti. Per quanto più di interesse, alla stregua di quanto emergente dal Regolamento edilizio-tipo: - la superficie utile è rappresentata dalla sola superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre; - la superficie accessoria è, invece, rappresentata dalla superficie di pavimento degli spazi di un edificio aventi caratteri di servizio rispetto alla destinazione d’uso della costruzione medesima, misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre, comprendente, a titolo esemplificativo, anche i ballatoi, le logge, i balconi e le terrazze. Per l’effetto, posto che l’art. 167 D. Lgs. n. 42 del 2004 ha riguardo, quale causa generale ostativa alla sanatoria alle sole superfici utili, considerato che tali superfici escludono quelle accessorie, deve ritenersi che nel caso di specie l’ampliamento di superfici accessorie esterne (qualificabili come balconi o ballatoi o terrazze), sebbene sussumibili sotto la nozione di superfici utili lorde ai sensi di quanto previsto dalla normativa urbanistica comunale citata, non integrava gli estremi della superficie utile ai sensi dell’art. 167 D. Lgs. n. 42 del 2004, non potendo, dunque, ritenersi di per sé come ostativo all’avvio del procedimento di autorizzazione postuma paesaggistica, comunque necessario facendosi questione di opere comportanti un mutamento dello stato dei luoghi esterni, in relazione alle quali occorre, dunque, verificare la sua compatibilità con i valori paesaggistici espressi dall’area in cui l’intervento edilizio è stato realizzato. 10.3 Le considerazioni svolte conducono, dunque, all’accoglimento dell’appello anche in relazione agli spazi pavimentati esterni, tenuto conto che un loro incremento non potrebbe ritenersi precluso dal punto 1-D al Piano di Recupero, non facendosi questione di demolizione con successiva fedele ricostruzione, né potrebbe ritenersi, di per sé, ostativo all’avvio del procedimento di autorizzazione paesaggistica ex art. 167 D. Lgs. n. 42/04, non essendosi in presenza di un intervento comportante un incremento della superficie utile legittimamente edificata. 11. L’appello deve, dunque, essere accolto con conseguente accoglimento, in riforma della sentenza gravata, dei ricorsi di primo grado e annullamento dei dinieghi di sanatoria assunti dall’Amministrazione comunale. Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, devono essere regolate in applicazione del criterio di soccombenza - tenuto conto dell’esito complessivo della lite - a carico dell’Amministrazione comunale, cui deve imputarsi la posizione di soccombenza (in ragione dell’annullamento degli atti dalla stessa assunti), e a favore degli appellanti, con distrazione in favore dei difensori antistatari che ne hanno fatto espressa richiesta. 12. L’Amministrazione comunale è tenuta, altresì, al pagamento delle spese di verificazione (il cui regime è correlato al riparto delle spese processuali - in termini, Consiglio di Stato, sez. VI, 11 dicembre 2015, n. 5632). Al riguardo, si osserva che il verificatore ha presentato una richiesta di liquidazione del compenso, “calcolato ai sensi del DM n. 417 del 3 settembre 1997”, tenuto conto del compenso “a vacazione per impostazione e svolgimento delle attività di consulenza, sopralluoghi ed elaborazione della relazione conclusiva, pari a 240 ore lavorative, pari a 30 giorni”, con conseguente quantificazione di un importo di € 13.643,40, corrispondente al prodotto di € 56,81 per 240 ore. L’istanza di liquidazione del compenso del verificatore può essere accolta soltanto in parte, avendo il verificatore assunto come parametro di valutazione un atto normativo (DM n. 417 del 1997) applicabile per la liquidazione dei compensi a vacazione per le prestazioni professionali degli ingegneri e degli architetti, ai sensi dell’art. 4 della legge 2 marzo 1949, n. 143. Nel caso di specie, tuttavia, la prestazione professionale è stata svolta dal verificatore in qualità di ausiliario del giudice ex art. 19 c.p.a., ragion per cui deve aversi riguardo alle previsioni e ai criteri di cui agli artt. 50, 51 e 52 D.P.R. 30/05/2002 n. 115 (recante il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) e al D.M. 30 maggio 2002 (di adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell'autorità giudiziaria in materia civile e penale), costituenti parametro assumibile nel presente caso a fondamento della liquidazione giudiziale. Pertanto, tenuto conto di tale distinto parametro di calcolo, considerato il tempo impiegato dal verificatore nello svolgimento dell’incarico (come riportato nella richiesta di liquidazione), coerente con l’oggetto dell’attività richiesta da questo Consiglio, nonché rilevata l’oggettiva complessità degli accertamenti puntualmente ed approfonditamente svolti dal verificatore, con conseguente integrazione della fattispecie di cui all’art. 52 DPR n. 115 del 2002, il Collegio ravvisa i presupposti per la liquidazione in favore del verificatore dell’importo complessivo di € 6.000,00. 13. Non sussistono, invece, i presupposti per ravvisare una responsabilità processuale aggravata dell’Amministrazione comunale, pure censurata dagli appellanti. Il comportamento processuale dell’appellata, per quanto erroneo, non rivela la consapevolezza della spettanza della tutela richiesta dalla controparte in prime cure, né evidenzia un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormale, a fronte di una situazione di fatto connotata dall’elevata complessità, che ha richiesto pure di disporre una verificazione in sede giudiziale; il che osta all’accoglimento della domanda proposta dagli appellanti, incentrata sulla condotta processuale dell’Amministrazione. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie ai sensi di cui in motivazione i ricorsi di primo grado. Condanna il Comune di Cava de’ Tirreni al pagamento in favore degli appellanti, Sig.ri -OMISSIS- e-OMISSIS- -OMISSIS-, delle spese processuali del doppio grado di giudizio, che liquida nell’importo complessivo di € 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge, ove dovuti, da distrarsi in favore dei difensori dichiaratisi antistatari avvocati Annabella Messina, Laura Messina e Alfredo Messina che ne hanno fatto richiesta. Condanna il Comune di Cava de’ Tirreni al pagamento del compenso professionale spettante al verificatore, prof. ing. Roberto Gerundo, pari ad € 6.000,00 (seimila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le parti appellanti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 febbraio 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Francesco De Luca, Consigliere, Estensore Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere Dario Simeoli, Consigliere Francesco De Luca, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Paesaggio – Autorizzazione paesaggistica – Postuma – Incremento delle superfici utili legittimamente edificate - Art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 - Presupposti.       ​​​​​​​          La nozione di superficie utile da prendere in esame al fine di perimetrare la portata applicativa dell’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004, nella parte in cui preclude il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma in caso di incremento delle superfici utili legittimamente edificate, fa riferimento al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche non già specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalla normativa urbanistico-edilizia (1).    (1) Come di recente chiarito dalla Sezione (6 aprile 2020, n. 2250), in materia di tutela paesaggistica, il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, contenuto nell'art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, per cui l'autorità preposta alla gestione del vincolo accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi indicati, non può che interpretarsi nel senso di un rinvio al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche non già specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalla normativa urbanistico-edilizia.  Con specifico riferimento alla nozione di “superfici utili”, la Sezione (13 maggio 2016, n. 1945; id. 1 dicembre 2014, n. 5932) ha precisato che le nozioni tecniche in questione non sono specificate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, ma solo dalle normative sulle costruzioni (in via esemplificativa e non esaustiva, circolare del Ministero dei lavori pubblici 23 luglio 1960, n. 1820; artt. 5 e 6, d.m. 2 agosto 1969; art. 3, d.m. 10 maggio 1977; art. 1, d.m. 26 aprile 1991; art. 6, d.m. 5 agosto 1994), dove la superficie utile (SU) coincide -in estrema sintesi- con l’area abitabile (superficie di pavimento degli alloggi misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci, vani di porte e finestre, di eventuali scale interne, di logge e balconi) mentre per superficie accessoria (SA) si intendono le parti dell’edificio destinate ad accessori e servizi (cantine, locali tecnologici, vano ascensore e scale, terrazze, balconi, logge e quant’altro).  La necessità di distinguere le nozioni di superficie utile e di superficie accessoria trova attuale conferma nel Regolamento edilizio-tipo approvato in sede di Intesa Stato-Regioni, in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, pubblicato sulla G.U. n. 268 del 16 novembre 2016, comunque invocabile quale parametro esegetico nell’interpretazione della pertinente disciplina edilizia.  Come rilevato dalla Sezione (10 gennaio 2020, n. 241), tale intervento è stato reso necessario al fine di omogeneizzarne gli ambiti definitori, ponendo ordine nel variegato linguaggio utilizzato nella prassi degli uffici comunali, rispondente o meno a specifiche indicazioni regolamentari o urbanistiche locali.  Il riferimento a tali definizioni uniformi risulta, quindi, utile al fine di individuare il paradigma cui ricondurre, almeno astrattamente, l’intervento realizzato, alla stregua di quanto emergente dalla documentazione in atti.  Per quanto più di interesse, alla stregua di quanto emergente dal Regolamento edilizio-tipo: la superficie utile è rappresentata dalla sola superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre; la superficie accessoria è, invece, rappresentata dalla superficie di pavimento degli spazi di un edificio aventi caratteri di servizio rispetto alla destinazione d’uso della costruzione medesima, misurata al netto di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre, comprendente, a titolo esemplificativo, anche i ballatoi, le logge, i balconi e le terrazze.  Per l’effetto, posto che l’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004 ha riguardo, quale causa generale ostativa alla sanatoria alle sole superfici utili, considerato che tali superfici escludono quelle accessorie, deve ritenersi che nel caso di specie l’ampliamento di superfici accessorie esterne (qualificabili come balconi o ballatoi o terrazze), sebbene sussumibili sotto la nozione di superfici utili lorde ai sensi di quanto previsto dalla normativa urbanistica comunale citata, non integrava gli estremi della superficie utile ai sensi dell’art. 167, d.lgs. n. 42 del 2004, non potendo, dunque, ritenersi di per sé come ostativo all’avvio del procedimento di autorizzazione postuma paesaggistica, comunque necessario facendosi questione di opere comportanti un mutamento dello stato dei luoghi esterni, in relazione alle quali occorre, dunque, verificare la sua compatibilità con i valori paesaggistici espressi dall’area in cui l’intervento edilizio è stato realizzato.  
Paesaggio
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/rispetto-delle-distanze-tra-edifici
Rispetto delle distanze tra edifici
N. 01867/2021REG.PROV.COLL. N. 04550/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4550 del 2019, proposto da Maria Caser, rappresentata e difesa dall'avvocato Daniele Granara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso Vittorio Emanuele II 154/3de; contro Comune di Bolzano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gudrun Agostini, Alessandra Merini e Bianca Maria Giudiceandrea, domiciliato presso la segreteria del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13; per la riforma della sentenza del Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino – Alto Adige, sezione di Bolzano, 20 marzo 2019 n. 73, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Bolzano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 gennaio 2021 il Cons. Diego Sabatino e uditi per le parti gli avvocati Daniele Granara e Gudrun Agostini in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, Decreto Legge 28 del 30 aprile 2020 e dell'art.25, comma 2, del Decreto Legge 137 del 28 ottobre 2020; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ricorso iscritto al n. 4550 del 2019, Maria Caser la propone appello avverso la sentenza del Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino – Alto Adige, sezione di Bolzano, 20 marzo 2019 n. 73, con la quale è stato respinto il ricorso dalla stessa proposto contro il Comune di Bolzano per l'annullamento - del provvedimento a firma del Direttore dell’Ufficio Gestione del Territorio del Comune di Bolzano, prot. n. 62169/2018, in data 10.8.2018, successivamente conosciuto, avente a oggetto “richiesta di concessione edilizia prat. Nr. 2017-136-0. Ristrutturazione p.ed. 510 – p.m. 2 C.C. Gries”, con il quale è stata respinta l’istanza presentata dalla ricorrente; - di ogni atto preparatorio, presupposto, inerente conseguente e/o comunque connesso, anche non cognito, nessuno escluso, in particolare - dello sconosciuto parere negativo espresso dalla Commissione Edilizia nella seduta del 13.06.2017; - dello sconosciuto parere negativo espresso dalla Commissione Edilizia nella seduta del 8.08.2018. Il giudice di primo grado ha così riassunto i fatti di causa: “1. La ricorrente impugna il provvedimento epigrafato, con cui il Comune resistente ha negato la concessione edilizia per opere da realizzare nel piano sottotetto dell’edificio sito in via Tre Santi 11, p.m. 2 della p.ed. 510 C.C. Gries. 2. Il progetto, secondo quanto si legge nella documentazione prodotta dal Comune, prevede la sollevazione della falda sul lato nord, con la formazione di un solaio di copertura piana a terrazza, collegata da una scala interna scoperta, entrambe da ricoprire con una tettoia in plexiglas. Anche sul lato sud è prevista la modifica della falda con la creazione di un balcone e la sostituzione dell’esistente abbaino di dimensioni contenute con un fronte finestrato su tutta la lunghezza della falda verso via Tre Santi. Si tratta dunque di un intervento modificativo della sagoma. 3. Il Comune ha ritenuto che l’intervento non potesse essere approvato perché non rispettoso della distanza di dieci metri rispetto agli edifici realizzati sulle pp.ed. 885 e 71/3, né di quella di cinque metri rispetto al confine con le medesime particelle. Ha precisato sul punto che una deroga dalle prescrizioni distanziali di cui al D.M. n. 1444/1968 sarebbe ammessa, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della L.P. n. 13/1997, per il solo caso della ricostruzione fedele (non ravvisabile nel caso di specie). Non poteva inoltre trovare applicazione l’art. 52 del D.P.G.P. n. 5/1998 che ammette gli abbaini in deroga alle distanze previste dal piano urbanistico comunale, purché realizzati entro il limite necessario alla corretta aeroilluminazione dei locali, limite determinato dalla richiamata disposizione in un decimo della superficie del vano. Il progettato innalzamento del solaio di copertura su tutta la superficie del vano, infatti, non sarebbe qualificabile, secondo il Comune, come “abbaino”. 4. Il ricorso, notificato al Comune di Bolzano il 30.10.2018, è sostenuto da cinque motivi di gravame, con i quali la ricorrente lamenta la contraddittorietà con una precedente concessione edilizia rilasciata per i medesimi lavori, la cui sussistenza avrebbe imposto all’Amministrazione, in caso di diniego, una motivazione rafforzata, invece assente; la violazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/1968, il quale non troverebbe applicazione nel caso in cui, come nel presente, si tratti di opere di ristrutturazione e non vi sia alcuna parete finestrata frontistante né siano previste modifiche al colmo dell’edificio; la violazione dell’art. 52 del D.P.G.P. n. 5/1998, la cui applicazione sarebbe stata illegittimamente negata dal Comune, trattandosi del recupero di un sottotetto esistente già utilizzato come abitazione, per il quale la norma richiamata consentirebbe la realizzazione di abbaini necessari all’areazione dei vani recuperati nel rispetto delle distanze di cui all’art. 873 del codice civile, con esclusione, dunque, del D.M. n. 1444/1968; l’omessa comunicazione dei motivi ostativi e, infine, la violazione del legittimo affidamento determinato dal fatto che l’intervento proposto era già stato autorizzato in passato, con le concessioni edilizie del 2003 e del 2011. 5. Sulla scorta dei rilevati profili d’illegittimità del gravato diniego la ricorrente chiede dunque il suo annullamento previa concessione di una misura cautelare, ravvisando nell’impedimento alla realizzazione dei progettati interventi, necessari al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e tecnologiche del sottotetto, un grave e irreparabile pericolo nelle more del giudizio. 6. Si è costituito il Comune di Bolzano che ha replicato alle censure avversarie ed ha concluso per il rigetto del gravame. 7. Con ordinanza n. 129/2018 il Collegio, ritenuto che le esigenze cautelari rappresentate dalla ricorrente fossero adeguatamente tutelabili con la sollecita fissazione del giudizio di merito, ha indicato per la discussione l’udienza pubblica del 6.3.2019, in vista della quale la ricorrente ha prodotto, nei termini di rito, una memoria conclusiva nella quale ha ribadito le argomentazioni già articolate con l’atto introduttivo del giudizio. 8. Trattenuta all’udienza del 6.3.2019 la causa giunge ora in decisione.” Il ricorso veniva deciso con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva infondate le censure proposte, sottolineando la correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, in merito al mancato rispetto delle distanze minime tra fabbricati. Contestando le statuizioni del primo giudice, la parte appellante evidenzia l’errata ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di prime cure, riproponendo come motivi di appello le proprie originarie censure, come meglio descritte in parte motiva. Nel giudizio di appello, si è costituito il Comune di Bolzano, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso. All’udienza del 27 giugno 2019, l’istanza cautelare veniva respinta con ordinanza 1 luglio 2019 n. 3363. Alla pubblica udienza del 21 gennaio 2021, il ricorso è stato discusso e assunto in decisione. DIRITTO 1. - L’appello non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati. 2. - Con il primo motivo di diritto, rubricato “1) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i.; Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i.; Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.; Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto di presupposti, istruttoria e di motivazione. Contraddittorietà dei provvedimenti gravati con la concessione n. 175/2003 del 26.02.2003 e successivo prot. n. 26525/20111, rif. N. 698/2011 del 22.06.2011. Contraddittorietà estrinseca”, viene riproposto lo stesso motivo proposto in prime cure in relazione alla mancata considerazione della carenza di motivazione del diniego impugnato, siccome contraddittorio con il precedente titolo edilizio (concessione n. 175/2003 del 26.02.2003 e successivo prot. n. 26525/20111, rif. N. 698/2011 del 22.06.2011) rilasciato alla odierna appellante, e concernente analogo intervento, peraltro di portata maggiore rispetto a quello odiernamente denegato. Trattandosi del medesimo intervento, già assentito, il primo giudice avrebbe errato nel non riscontrare una evidente contraddittorietà tra i provvedimenti, riverberantesi sull’illegittimità di quello gravato. 3. - La censura non può essere condivisa. Correttamente, il Tribunale ha evidenziato la natura vincolata del permesso di costruire, il che incide sull’ampiezza della motivazione per il suo rilascio. Infatti, secondo la giurisprudenza pacifica (da ultimo, Cons. Stato, II, 13 giugno 2019, n. 3972), la definizione delle istanze di concessione edilizia comporta un accertamento di carattere vincolato, caratterizzato dalla verifica della conformità della richiesta con la normativa urbanistico edilizia, non essendo necessaria altra motivazione oltre quella relativa alla rispondenza dell'istanza a dette prescrizioni. Detta affermazione generale non viene incisa, nel senso della contraddittorietà, dalla presenza di una previa valutazione positiva, quand’anche relativa alla stessa fattispecie (ma che la situazione sia la stessa è circostanza del tutto contestata dal Comune, che evidenzia il sovrapporsi di un diverso quadro normativo). L’eventuale contraddittorietà interna, come vanta la difesa appellante, è una singolare applicazione del principio del divieto di disparità di trattamento, dove la disparità non riguarda due soggetti diversi, ma due progetti successivi e, anche in questo ambito, l’esistenza di un accertamento vincolato esclude la fondatezza del vizio presunto (da ultimo, evidenzia la non predicabilità del vizio di eccesso di potere per contraddittorietà o per disparità di trattamento in rapporto ad atti vincolati, Cons. Stato, II, 16 novembre 2020, n.7104; id., II, 1 luglio 2020, n. 4184; id., VI, 2 novembre 2018, n. 6219). 4. - Con il secondo, terzo e quarto motivo di diritto, rispettivamente recanti “2) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/68. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento”; “3) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/68 sotto ulteriore e diverso profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento”; e “4) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del D.M. n. 1444/68 sotto ulteriore e diverso profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento”, si censurano le statuizioni della sentenza con cui è stato respinto l’originario secondo motivo di ricorso. In particolare, viene lamentata la mancata considerazione che l’invocato art. 9 del D.M. 1444 del 1968, disciplina fondante il rigetto, era inapplicabile alla fattispecie, in quanto riguardante esclusivamente le nuove costruzioni, quale non è quella in esame. Per cui, sarebbe erronea l’affermazione del primo giudice per cui l’intervento in progetto sarebbe assimilabile alla “nuova costruzione”, poiché comporterebbe “una significativa modifica della sagoma in corrispondenza della copertura dell’edificio”. Ci si duole inoltre dell’erronea applicazione della stessa disposizione, non essendovi pareti finestrate contrapposte. Infine si sottolinea l’inapplicabilità della normativa derogatoria comunale, in specie in relazione al calcolo radiale delle distanze tra fabbricati. 1.1. - La censura, nei suoi diversi profili, va respinta. In merito all’applicabilità dell’evocato art. 9 D.M. 1444 del 1968 e all’individuazione della nozione di ‘nuova costruzione’, occorre sottolineare come il mero rinvio all’art. 3, lett. e), del d.P.R. 380 del 2001 non appaia dirimente. La giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, IV, 8 gennaio 2018, n.72; id., IV, 2 marzo 2018, n.1309) che civile (Cass. civ., II, 15 dicembre 2020, n.28612; id., II, 28 ottobre 2019, n.27476; id., II, 10 febbraio 2020, n.3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, IV, 22 gennaio 2013, n. 354). Nel caso in esame, anche a volersi unicamente fondare sulla relazione tecnica di parte (che ritiene che nel progetto “vengano riprese, con modifiche sia interne che esterne, le voci già oggetto della concessione ormai scaduta. La maggior parte delle opere previste interessano la copertura con una variazione minima di volume in diminuzione, determinata dalla compensazione tra volumi in aumento e volumi in detrazione. Le opere prevedono modifiche statiche solo nell’orditura del tetto, mentre tutte le strutture portanti dell’edificio non vengono modificate dagli interventi in progetto”), vengono comunque in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In particolare, come notato dal TRGA, rileva il sollevamento della falda sul lato nord, dove è prevista la realizzazione di una terrazza, e quello della falda sul lato sud, dove ci sarà l’innalzamento della copertura su una parte del prospetto in sostituzione del precedente abbaino, che era decisamente più ridotto. In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare quindi evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia. Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che, a giudizio della parte appellante, renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico. Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civile, II, 15 dicembre 2020, n.28612). Conclusivamente sul punto, la censura, che si attaglia sulla dimostrazione della natura di ristrutturazione edilizia dell’opera, appare superata dall’esigenza dell’autonoma sussunzione nel concetto di nuova costruzione ai fini dell’applicazione della disciplina delle distanze legali. In merito alla censura sull’erronea applicazione della stessa disposizione, non essendovi pareti finestrate contrapposte, va condiviso l’approccio del Tribunale, che ha evidenziato come la disposizione regolamentare sia integrata, a livello locale, dall’art. 1, lett. h) delle Norme di attuazione al piano urbanistico comunale di Bolzano rielaborate, come vigenti al momento del provvedimento, che recita: “h) Distanza tra edifici: è la distanza minima radiale misurata in proiezione orizzontale tra le pareti più sporgenti degli edifici siti sullo stesso lotto o su lotti finitimi e/o dalla superficie coperta. Tale distanza nei fabbricati ad eccezione di fabbricati accessori preesistenti non può essere inferiore a 10 metri, salvo nel caso di fabbricati con pareti prive di vedute, come da codice civile.” È palese che la disposizione comunale introduca strumenti più restrittivi di calcolo dell’osservanza delle distanze, utilizzando il criterio della distanza radiale, ossia non solo per gli interventi fronteggianti, ma valevole in ogni caso in cui la nuova costruzione vada ad intaccare lo spazio circostante gli edifici preesistenti, come considerato dalla disposizione comunale. Il che impone di considerare corretta la valutazione svolta dal primo giudice. Infine, per quanto riguarda l’applicazione del calcolo radiale, questo è espressamente citato dalla normativa comunale applicabile; mentre in relazione alla possibilità che quest’ultima introduca limiti più rigorosi, va ricordato l’insegnamento di Corte cost., 16 giugno 2005, n.232 per cui “in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.” Conclusivamente, il motivo di ricorso deve essere integralmente respinto in tutte le sue sfaccettature. 5. - Con la quinta censura, recante “5) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del Decreto del Presidente della Giunta provinciale 23 febbraio 1998, n. 5. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento”, si censura la sentenza per aver disatteso il terzo motivo di ricorso, con il quale si era contestata la legittimità del gravato diniego, per l’erroneo supposto contrasto con l’art. 52 del Decreto del Presidente della Giunta provinciale 23 febbraio 1998, n. 5, il quale ammette una deroga alle distanze per gli abbaini realizzati per il recupero dei sottotetti esistenti, già utilizzati come abitazione o comunque abitabili. La doglianza è poi ampliata nel sesto motivo, rubricato “6) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del Decreto del Presidente della Giunta provinciale 23 febbraio 1998, n. 5 sotto ulteriore e diverso profilo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento”, in relazione al dimensionamento del fronte finestrato. 5.1. - La censura, nella sua duplice prospettazione, non può essere condivisa. La norma evocata, ossia l’art. 52 del Decreto del Presidente della Giunta provinciale 23 febbraio 1998, n. 5 “Regolamento di esecuzione alla legge urbanistica provinciale”, prevede: “In caso di recupero di sottotetti legalmente esistenti, già utilizzati o utilizzabili come abitazioni in base alle vigenti disposizioni igienico-sanitarie, possono essere realizzati abbaini in eccedenza alla cubatura esistente allo scopo di consentire l'areazione di vani abitativi recuperati nella misura minima richiesta dal comma 3 dell'articolo 2 del regolamento di esecuzione concernente gli standards in materia di igiene e sanità, approvato con decreto del Presidente della giunta provinciale 23 maggio 1977, n. 22. La superficie di calpestio così acquisita non può superare questa misura minima. “Questi abbaini possono essere realizzati solo in caso di vani abitativi esistenti o progettati qualora l'apertura di finestre nei muri perimetrali non risulti possibile. “Ciò vale senza pregiudizio delle esigenze di tutela ambientale e monumentale. In deroga alle norme sulle distanze previste dai piani urbanistici comunali gli abbaini possono essere realizzati osservando le distanze di cui agli articoli 873 e seguenti del codice civile.” Come si legge, la nozione di abbaino, quale strumento per consentire l’areazione dei vani abitativi quando non sia possibile la realizzazione di finestre, evidenzia la natura del detto elemento architettonico, come un’apertura con finestra, sporgente rispetto allo spiovente della copertura, destinato all’aereazione (ma anche all’illuminazione) del sottotetto e talvolta anche per accedere al tetto stesso. Nel caso in esame, rispetto ad un concetto che implica una apertura limitata in senso dimensionale in modo tale da ospitare una finestra, si è assistito ad un progetto che, se descrive l’intervento come una “modifica dell’abbaino esistente con ampliamento verso via Tre Santi a copertura della sottostante camera da letto”, dall’altro determina un “innalzamento del solaio di copertura su tutta la superficie del vano”, venendo così meno alla natura puntuale dell’apertura e giustificando la valutazione del provvedimento impugnato che ritiene erronea la qualificazione come abbaino, con una valutazione del tutto condivisibile. L’assunto è poi confortato, in senso dimensionale, dal richiamo all’art. 2, comma 3, del Decreto del Presidente della Giunta provinciale 23 maggio 1977, n. 22 “Regolamento di esecuzione concernente gli "standards" in materia di igiene e sanità” che prevede che “Le stanze da letto, il soggiorno e la cucina debbono essere provvisti di finestra apribile, la cui superficie non dovrà essere inferiore a 1/10 della superficie del pavimento e non inferiore a 1/12 per i fabbricati al di sopra di 1.000 m sul livello del mare.” Il detto limite viene invece superato, determinando quindi la non assentibilità dei presunti (ma non tali) abbaini in deroga alle prescritte distanze. Conclusivamente, l’opera progettata non può essere inquadrata né concettualmente né dimensionalmente nella nozione di abbaino valevole nella disciplina del recupero dei sottotetti; per tali ragioni, il motivo di appello va respinto. 6. - Con il settimo motivo, recante “7) Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione degli artt. 10 bis della Legge 7 agosto 1990 n. 241. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, presupposti e motivazione. Travisamento. Omessa comunicazione dei motivi ostativi”, si lamenta il rigetto della doglianza sul mancato invio dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di concessione edilizia, con conseguente violazione dei principi del contraddittorio e della partecipazione procedimentale. La detta omessa comunicazione dei motivi ostativi, lungi dal costituire un mero vizio di carattere formale, avrebbe invece inciso in modo sostanziale sul contenuto del provvedimento finale, peraltro in senso sfavorevole alla parte appellante. 6.1. - La censura non può essere condivisa. È dato pacifico in giurisprudenza che l'omessa comunicazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 dell'istanza che ha avviato un procedimento ad istanza di parte, non è idonea a determinare di per sé l'annullabilità del provvedimento finale, avuto riguardo a quanto disposto dall'art. 21-octies, comma 2, prima parte, della stessa l. n. 241 del 1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non sarebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (ex multis, Cons. Stato, II, 12 febbraio 2020, n.1081). Nel caso in esame, il TRGA ha fatto corretta applicazione del principio, evidenziando la natura vincolata del provvedimento emanato (circostanza peraltro già aliunde evidenziata) e l’esistenza, qui confermata, di un contrasto tra il progetto presentato e la normativa edilizia. 7. - Con l’ottavo motivo, rubricato “8) Erroneità della sentenza per Violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 10 e ss. del DPR n. 380/2001 e s.m.i. in relazione alla violazione degli artt. 66 e ss. della Legge provinciale 11 agosto 1997, n. 13 e s.m.i. in relazione alla violazione e falsa applicazione del principio dell’affidamento ingeneratosi nella ricorrente in ragione della concessione n. 175/2003 del 26.02.2003 e successivo prot. n. 26525/20111, rif. N. 698/2011 del 22.06.2011. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 della Legge 7 agosto 1990, n. 241 e s.m.i. Violazione dei principi di imparzialità, buon andamento, pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. Mancata rilevazione dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. Violazione del principio dell’affidamento”, si censura la mancata considerazione del legittimo affidamento, ingenerato nella ricorrente, dal Comune che aveva già rilasciato due titoli edilizi relativamente al medesimo immobile, per un intervento analogo, poi non realizzato. 7.1. - La censura non può essere condivisa. Occorre in primo luogo notare che il rilascio della precedente concessione edilizia non aveva determinato alcuna utilità in capo alla parte appellante, atteso che la concessione edilizia del 2003 - 2011 è poi decaduta per mancato inizio dei lavori. Non è quindi predicabile alcuna incisione dell’amministrazione su situazioni già determinatesi, il che implica il posizionamento della fattispecie al di fuori dell’ordinario perimetro della tutela dell’affidamento incolpevole, che si determina ogni qualvolta il privato possa confidare sul già intervenuto rilascio di un provvedimento ampliativo della sua sfera giuridica (anche perché l’eventuale lesione riguarda non già un interesse legittimo pretensivo, bensì una situazione di diritto soggettivo rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio, pregiudicato dalle scelte compiute confidando sulla legittimità del provvedimento amministrativo poi caducato, così Cass. civ., sez. un., 8 marzo 2019, n.6885). Pertanto, la parte poteva solo confidare nell’accoglimento della sua istanza e quindi del rilascio di un provvedimento favorevole, condizionato ovviamente al rispetto della strumentazione urbanistica vigente, circostanza questa non verificatasi. Deve quindi escludersi la sussistenza di alcun affidamento incolpevole tutelabile, con conseguente rigetto della censura. 8. - Infine, con un ulteriore motivo recante “II. In via subordinata. 9) Erroneità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art.92 c.p.c.”, si lamenta l’illegittima condanna dell’originaria ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio a favore del Comune. 8.1. - La censura non può essere condivisa. Occorre in primo luogo ricordare che, per giurisprudenza pacifica, il giudice di primo grado ha ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla, con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi (da ultimo, Cons. Stato, IV, 30 dicembre 2020, n.8517; id., IV, 23 ottobre 2020, n.6407; id., IV, 21 settembre 2020, n.5545). Il che comporta che nel processo amministrativo la valutazione di merito sulla compensazione delle spese giudiziali non è sindacabile in appello neppure per difetto di motivazione, essendo fondata su considerazioni di opportunità ampiamente discrezionali, non sindacabili in sede di gravame se non nel caso di evidente irrazionalità (Cons. Stato, II, 27 ottobre 2020, n.6557; id., III, 7 settembre 2020, n.5374). Nel caso in esame, la detta evidente irrazionalità non appare, atteso che il TRGA ha effettivamente condannato la parte soccombente e il quantum di spese non appare esorbitante rispetto ai minimi tabellari previsti. 9. - L’appello va quindi respinto. Tutti gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede: 1. Respinge l’appello n. 4550 del 2019; 2. Condanna Maria Caser a rifondere al Comune di Bolzano le spese del presente grado di giudizio, che liquida in €. 3.000,00 (euro tremila) oltre I.V.A., C.N.A.P. e rimborso spese generali, se dovuti. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 gennaio 2021 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere, Estensore Bernhard Lageder, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere Giancarlo Montedoro, Presidente Diego Sabatino, Consigliere, Estensore Bernhard Lageder, Consigliere Silvestro Maria Russo, Consigliere Stefano Toschei, Consigliere IL SEGRETARIO
Edilizia – Distanze – Rispetto – Necessità - Violazione – Natura di ristrutturazione o nuova costruzione – Irrilevanza ex se.         Qualora sia evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia e dunque l’inapplicabilità dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968, che riguarda esclusivamente le nuove costruzioni (1).    (1) Ha ricordato la Sezione che la giurisprudenza, sia amministrativa (da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 8 gennaio 2018, n. 72; id. 2 marzo 2018, n. 1309) che civile (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612; id. 28 ottobre 2019, n. 27476; id. 10 febbraio 2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera (Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2013, n. 354). Nel caso all’esame della Sezione, vengono in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia. Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico. ​​​​​​​Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612). 
Edilizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sanzione-disciplinare-irrogata-al-carabiniere-dalla-stessa-persona-fisica-oggetto-del-comportamento-del-militare-per-cui-e-stata-irrogata-la-sanzione
Sanzione disciplinare irrogata al Carabiniere dalla stessa persona fisica oggetto del comportamento del militare, per cui è stata irrogata la sanzione
N. 01654/2020REG.PROV.COLL. N. 00695/2011 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 695 del 2011, proposto dal Ministero della difesa in persona del Ministro pro tempore, Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, Regione Carabinieri Lombardia - Gruppo di -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Danila Valli, con domicilio eletto presso lo studio Alfredo Placidi in Roma, via Cosseria n. 2; per la riforma della sentenza breve del T.A.R. LOMBARDIA - MILANO: SEZIONE III n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’impugnativa della SANZIONE DISCIPLINARE DELLA CONSEGNA Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2020 il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti l’Avvocato dello Stato Generoso Di Leo e l’avv. Salvatore Dell’Alpi su delega dell’avv. Danila Valli; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con il presente atto di appello il Ministero della difesa e il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri hanno impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sede di Milano, che ha accolto il ricorso proposto dall’appuntato scelto -OMISSIS- (successivamente cessato dal servizio dal 26 luglio 2010) avverso il provvedimento del 28 aprile 2010 di reiezione del ricorso gerarchico, con cui era stato impugnato il provvedimento del 16 febbraio 2010 del Comandante del -OMISSIS--OMISSIS- di irrogazione della sanzione disciplinare della consegna di due giorni. Il provvedimento disciplinare era stato inflitto per la violazione dell’art. 36 comma 3 lettera a) del Regolamento di disciplina militare, approvato con D.P.R. n. 18 luglio 1986, n. 545 per avere espresso nei confronti del Comandante del -OMISSIS--OMISSIS- nella missiva inviata al Ministero della Difesa direzione generale per il personale militare il 18 novembre 2009 “-OMISSIS-. L’avvio del procedimento disciplinare era stato comunicato con nota del 24 novembre 2009 con cui erano stati contestati gli addebiti; il militare aveva presentato una memoria difensiva il 5 febbraio 2010. La sentenza di primo grado ha accolto il ricorso, in quanto l’impugnato provvedimento era stato disposto proprio dal Comandante che era stato destinatario delle offese oggetto del provvedimento disciplinare, in violazione di un principio di imparzialità comunque immanente nell’ordinamento anche militare per la irrogazione di sanzioni disciplinari con conseguente obbligo di astensione. Con l’atto di appello sono state contestate le affermazioni del giudice di primo grado, sostenendo che non sussiste alcuna previsione normativa che preveda l’obbligo di astensione del comandante di reparto, competente, invece, ad adottare le sanzioni disciplinari di corpo, ai sensi del Regolamento di disciplina militare, come specificato, altresì, dalla Circolare del 26 gennaio 2006 del Comando generale dei Carabinieri (depositata nel presente giudizio tra gli allegati all’atto di appello), per cui era identificato nel comandante del nucleo, nel caso di specie, quindi nel comandante del nucleo informativo di -OMISSIS- a cui apparteneva il militare. Inoltre, è stato dedotto che il provvedimento impugnato in primo grado era il provvedimento di reiezione del ricorso gerarchico adottato da soggetto differente dal Comandante del nucleo informativo di -OMISSIS- per cui sussisteva la affermata incompatibilità. Nell’atto di appello sono stati poi contestati gli ulteriori motivi di ricorso di primo grado, peraltro non riproposti nel presente giudizio dalla parte appellata, ai sensi dell’art. 101 comma 2 c.p.a.. Si è costituito in giudizio il signor -OMISSIS-, che ha contestato la fondatezza dell’appello avversario. Con ordinanza n. -OMISSIS-è stata respinta la domanda cautelare di sospensione della sentenza appellata. In vista dell’udienza pubblica la difesa appellata ha presentato memoria insistendo nelle proprie argomentazioni. All’udienza pubblica del 25 febbraio 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione. L’appello è infondato. Ai sensi dell’art. 13 della legge 11 luglio 1978, n. 382 “Norme di principio sulla disciplina militare” “la violazione dei doveri della disciplina militare comporta sanzioni disciplinari di stato e sanzioni disciplinari di corpo. Le sanzioni disciplinari di stato sono regolate per legge. Le sanzioni disciplinari di corpo sono regolate dal regolamento di disciplina militare, entro i limiti e nei modi fissati nei successivi articoli 14 e 15”. In base all’art. 14 “le sanzioni disciplinari di corpo consistono nel richiamo, nel rimprovero, nella consegna e nella consegna di rigore. Il richiamo è verbale. Il rimprovero è scritto. La consegna consiste nella privazione della libera uscita fino al massimo di sette giorni consecutivi. La consegna di rigore comporta il vincolo di rimanere, fino al massimo di quindici giorni, in apposito spazio dell'ambiente militare - in caserma o a bordo di navi - o nel proprio alloggio, secondo le modalità stabilite dal regolamento di disciplina. La consegna e la consegna di rigore possono essere inflitte rispettivamente dal comandante di reparto e dal comandante del corpo o dell'ente presso il quale il militare che subisce la punizione presta servizio, salvo i casi di necessità ed urgenza ed a titolo precauzionale”. Ai sensi dell’art. 15, “nessuna sanzione disciplinare di corpo può essere inflitta senza contestazione degli addebiti e senza che siano state sentite e vagliate le giustificazioni addotte dal militare interessato”. Inoltre, in base all’art. 57 del citato Regolamento di disciplina militare approvato col d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545, “costituisce infrazione disciplinare punibile con una delle sanzioni disciplinari di corpo, salva l'applicabilità di una sanzione disciplinare prevista dalla legge di Stato, ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina indicati dalla legge, dai regolamenti militari, o conseguenti all'emanazione di un ordine. 2. Nel rilevare l'infrazione il superiore deve attenersi alla procedura di cui al successivo art. 58”. Ai sensi dell’art. 58, “ogni superiore che rilevi l'infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare. 2. Il rapporto deve indicare con chiarezza e concisione ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l'infrazione. Il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione. 3. Se il superiore che ha rilevato l'infrazione ed il militare che l'ha commessa appartengono allo stesso corpo, il rapporto è inviato: a) direttamente al comandante di reparto, se comune ad entrambi i militari; b) per via gerarchica al comandante del corpo, se trattasi di militare di altro reparto…. Negli altri casi il superiore, tramite il proprio comando di corpo o ente, invia il rapporto al comando di corpo da cui il trasgressore dipende; qualora egli si trovi fuori dalla propria sede il rapporto deve essere presentato, per l'inoltro, al locale comando presidio”. Dunque, tale disciplina indica la competenza all’adozione dei provvedimenti sanzionatori, che, per la consegna, è attribuita al comandante del reparto presso il quale il militare che subisce la punizione presta servizio, senza ulteriori specificazioni. Inoltre, in base alla circolare del Comando generale dell’Arma dei carabinieri del 26 gennaio 2006 che individua le Autorità competenti all’irrogazione della sanzione, per il personale appartenente ad un Nucleo è indicato il Comandante del Nucleo. Quindi, nel caso di specie, il Comandante del Nucleo informativo di -OMISSIS- era individuato come competente all’adozione della sanzione. Peraltro, ritiene il Collegio che anche tali previsioni dell’ordinamento militare non possano fare venire meno l’applicazione dei principi generali dell’ordinamento ed in particolare dei procedimenti sanzionatori e disciplinari, le cui norme generali devono dunque ritenersi prevalenti su quelle specifiche della disciplina militare. Ciò del resto trova conferma nelle stesse disposizioni sopra indicate che richiamano anche per l’ordinamento militare i principi generali dei procedimenti sanzionatori ( cfr. art. l5 comma 1 della legge n. 382 del 1978 , per cui “nessuna sanzione disciplinare di corpo può essere inflitta senza contestazione degli addebiti e senza che siano state sentite e vagliate le giustificazioni addotte dal militare interessato”; rispetto del principio di legalità in base all’art. 13 di detta legge, pur temperato per le sanzioni cd. di corpo dal rinvio al Regolamento di disciplina militare). Ne deriva che, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, la competenza attribuita al comandante del reparto non può ritenersi a tal punto tassativa da dovere essere effettivamente conservata anche nei casi in cui sia egli stesso la persona offesa dei comportamenti del militari astrattamente rientranti nella fattispecie sanzionatoria, pena la violazione del principio generale dell’imparzialità direttamente derivante dall’art. 97 della Costituzione. Nel caso di specie, la sanzione della consegna è stata irrogata per la violazione dei doveri previsti dall’art. 36 della Regolamento di disciplina militare, in particolare ai sensi della lettera a), per cui il militare deve “-OMISSIS-”. In particolare, per avere espresso “giudizi ed apprezzamenti non confacenti alla dignità e al decoro, lesivi della personalità” proprio nei confronti del comandante che ha inflitto la sanzione. Ritiene, dunque, il Collegio che debba farsi applicazione dell’orientamento giurisprudenziale già espresso da questo Consiglio per cui va ravvisata la violazione dell’art. 97, primo comma, della Costituzione, quando l’Autorità che abbia irrogato la sanzione disciplinare coincida con il soggetto che sia stato leso dal comportamento del dipendente ed abbia contestato gli addebiti. In tal caso, non si può ritenere rispettato il principio di terzietà e di obiettività dell’azione amministrativa; l’espressa attribuzione della competenza al superiore non impedisce che la sanzione venga irrogata da altro soggetto appartenente al medesimo ufficio dall’autorità superiore (Consiglio di Stato Sezione, III, 26 settembre 2019, n. 6460; VI, 2 agosto 2006, n. 4722). Tali principi devono essere ribaditi anche con riferimento alle sanzioni disciplinari cd. di corpo, per cui vi è una sostanziale libertà di forme del procedimento, che è comunque configurato come un procedimento di natura disciplinare in cui devono essere previamente contestati gli addebiti. Il principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo (Consiglio di Stato, VI, 24 luglio 2019, n. 5239). L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Consiglio di Stato, Sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113). Tali orientamenti non possono non trovare applicazione anche rispetto all’ordinamento militare ed in particolare nei procedimenti sanzionatori, considerato anche che la consolidata giurisprudenza ritiene che l’individuazione della sanzione applicabile in ragione dell’illecito disciplinare nonché la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati costituisca, nell’ambito delle indicazioni fornite dal legislatore, espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione, censurabile da parte del giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità, solo per difetto di motivazione ovvero per eccesso di potere per illogicità o irragionevolezza, escludendo ogni sostituzione e/o sovrapposizione di criteri valutativi diversi (Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7335; id., 9 marzo 2018, n. 1507; id., 22 marzo 2017, n. 1302). Costituisce principio generale per l’esercizio di un potere amministrativo, in particolare discrezionale, l’imparzialità del soggetto che adotta il provvedimento finale. Deve, infatti, essere richiamato l’art. 6 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, inserito dall'art. 1, comma 41, della legge 6 novembre 2012, n. 190, non immediatamente applicabile alla presente fattispecie, ma utile quale ausilio interpretativo dell’ambito di estensione del principio di imparzialità, per cui “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. Inoltre, nel caso di specie, le concrete circostanze di fatto denotavano non una offesa dovuta ad un impulso momentaneo, ma una situazione complessa della quale il militare aveva interessato il Ministero della difesa- direzione generale per il personale militare con esposti propri relativi ai rapporti tra lui e il comandante e nel corso della quale sarebbero state espressi i “giudizi ed apprezzamenti non confacenti alla dignità e al decoro”, lesivi della personalità del detto comandante. Prescindendo dall’esame dei presupposti della sanzione, non oggetto del presente giudizio, non essendo stati riproposti in appello gli ulteriori motivi di ricorso di primo grado, è evidente la situazione di incompatibilità del comandante all’adozione di un provvedimento disciplinare basato sulla espressione di giudizi e apprezzamenti a suo carico in una vicenda che inoltre ormai coinvolgeva anche l’apparato amministrativo della Difesa. Il motivo di appello è, dunque, infondato. Altresì, infondato, è il motivo relativo alla avvenuta decisione del ricorso gerarchico che –secondo la ricostruzione della difesa appellante- avrebbe in qualche modo assorbito il vizio relativo alla violazione del principio di imparzialità da parte del comandante del Nucleo informativo. Tale ricostruzione non può essere condivisa, in quanto se è vero che la giurisprudenza considera la l’organo che decide il ricorso gerarchico in generale titolare della stessa competenza dell'organo gerarchicamente subordinato che ha adottato l'atto impugnato con la possibilità di rivalutare anche interamente la fattispecie concreta (Cons. Stato Sez. VI, 19 aprile 2011, n. 2413; Sez. III, 26 settembre 2019, n. 6455), nel caso di specie con il ricorso gerarchico era stato dedotto espressamente tale vizio del provvedimento sanzionatorio e la reiezione del ricorso sotto profilo non sfugge ad un sindacato di legittimità in questa sede, essendo stato proposto tale motivo anche avverso il provvedimento che ha respinto il ricorso gerarchico. Sotto tale profilo deve rilevarsi che il ricorso gerarchico previsto nell’ordinamento militare, come riconosciuto anche dalla sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 1997, risponde ai medesimi principi del D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 e che l’art. 5 del detto D.P.R. prevede espressamente che l’organo decidente possa annullare l’atto per incompetenza rimettendo all'organo competente, o, anche in caso di accoglimento per altri motivi di legittimità o per motivi di merito, possa occorrere il rinvio dell'affare all'organo che lo ha emanato, con ciò dimostrando che il provvedimento di secondo grado non può assorbire integralmente i vizi dedotti con il ricorso stesso. Con la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale si determina, infatti, l’effetto devolutivo di ogni questione inizialmente dedotta in via gerarchica (Cons. Stato Sez. III, 16 aprile 2014, n. 1920). E’, infatti, pacifica la natura “giustiziale”, assolta dai ricorsi indirizzati alle autorità amministrative, trattandosi di procedimenti di secondo grado che hanno per oggetto un provvedimento già emesso, sul quale gli interessati possono attivare una nuova valutazione della stessa autorità emanante o dell'organo sovraordinato ad essa, senza che la relativa pronuncia possa intendersi sostitutiva del rimedio giurisdizionale o limitativa dello stesso. Pertanto i poteri da esercitare in sede di decisione di ricorso gerarchico vanno ricondotti all’esame delle questioni proposte dal ricorrente, in esito al quale - ove le misure adottate non risultino per lo stesso satisfattive - deve restare possibile il vaglio giurisdizionale in rapporto al provvedimento originario. (Cons. Stato Sez. VI, 16 luglio 2012, n. 4150). L’appello è dunque infondato e deve essere respinto. Non devono essere esaminate le ulteriori questioni poste nell’atto di appello, che riguardano profili di contestazione avverso gli ulteriori motivi di ricorso di primo grado assorbiti dalla sentenza di primo grado, ma non riproposti nel presente giudizio dalla parte appellata, che non avrebbe comunque interesse a tali motivi per la reiezione dei motivi di appello. Le spese seguono il regime della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali del grado in favore dell’appellato, nella misura di euro duemila (€ 2000//00) oltre oneri accessori, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la parte appellata. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 febbraio 2020 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina, Presidente Francesco Frigida, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Francesco Guarracino, Consigliere Fabio Taormina, Presidente Francesco Frigida, Consigliere Antonella Manzione, Consigliere Cecilia Altavista, Consigliere, Estensore Francesco Guarracino, Consigliere IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Militari, forze armate e di polizia – Procedimenti disciplinari - Carabinieri – Sanzione - Irrogata dalla stessa persona fisica oggetto del comportamento del militare, per cui è stata irrogata la sanzione – Legittimità.   Con riferimento alla impugnazione di una sanzione disciplinare a carico di un militare dell'Arma dei carabinieri, irrogata dalla stessa persona fisica oggetto del comportamento del militare, per cui è stata irrogata la sanzione,  il principio di terzietà e di obiettività dell’azione amministrativa superi la previsione legislativa della competenza al comandante di reparto, in quanto il principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., ha portata generale e di questo l’obbligo di astensione rappresenta un corollario che non tollera alcun tipo di compressione ed ha quindi carattere immediatamente e direttamente precettivo (1).   (1) Ha chiarito la Sezione che Il principio di imparzialità, sancito dall’art. 97 Cost., di cui l’obbligo di astensione, tipizzato dall’art. 51 c.p.c., rappresenta un corollario, assume portata generale, sicché le ipotesi di astensione obbligatoria non sono tassative, e come tali da interpretarsi restrittivamente, ma piuttosto esemplificative di circostanze che mutuano l’attitudine a generare il dovere di astensione direttamente dal superiore principio di imparzialità, che ha carattere immediatamente e direttamente precettivo (Cons. Stato, sez. VI, 24 luglio 2019, n. 5239). L’obbligo di astensione rinviene la sua ragione giustificativa nel pieno rispetto del principio costituzionale del buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 della Costituzione, posto a tutela del prestigio della pubblica amministrazione e che non tollera alcun tipo di compressione (Cons. Stato, sez. II, 21 ottobre 2019 n. 7113). Tali orientamenti non possono non trovare applicazione anche rispetto all’ordinamento militare ed in particolare nei procedimenti sanzionatori, considerato anche che la consolidata giurisprudenza ritiene che l’individuazione della sanzione applicabile in ragione dell’illecito disciplinare nonché la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati costituisca, nell’ambito delle indicazioni fornite dal legislatore, espressione di un potere discrezionale dell’Amministrazione, censurabile da parte del giudice amministrativo in sede di giudizio di legittimità, solo per difetto di motivazione ovvero per eccesso di potere per illogicità o irragionevolezza, escludendo ogni sostituzione e/o sovrapposizione di criteri valutativi diversi (Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7335; id., 9 marzo 2018, n. 1507; id., 22 marzo 2017, n. 1302). Costituisce principio generale per l’esercizio di un potere amministrativo, in particolare discrezionale, l’imparzialità del soggetto che adotta il provvedimento finale. Deve, infatti, essere richiamato l’art. 6 bis della legge 7 agosto 1990 n. 241, inserito dall'art. 1, comma 41, della legge 6 novembre 2012, n. 190, non immediatamente applicabile alla presente fattispecie, ma utile quale ausilio interpretativo dell’ambito di estensione del principio di imparzialità, per cui “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. Inoltre, nel caso di specie, le concrete circostanze di fatto denotavano non una offesa dovuta ad un impulso momentaneo, ma una situazione complessa della quale il militare aveva interessato il Ministero della difesa- direzione generale per il personale militare con esposti propri relativi ai rapporti tra lui e il comandante e nel corso della quale sarebbero state espressi i “giudizi ed apprezzamenti non confacenti alla dignità e al decoro”, lesivi della personalità del detto comandante. Prescindendo dall’esame dei presupposti della sanzione, non oggetto del presente giudizio, non essendo stati riproposti in appello gli ulteriori motivi di ricorso di primo grado, è evidente la situazione di incompatibilità del comandante all’adozione di un provvedimento disciplinare basato sulla espressione di giudizi e apprezzamenti a suo carico in una vicenda che inoltre ormai coinvolgeva anche l’apparato amministrativo della Difesa
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/risarcimento-danni-da-annullamento-reiterato-del-diniego-di-autorizzazione-unica-alla-realizzazione-di-un-impianto-energetico-da-fonti-rinnovabili
Risarcimento danni da annullamento (reiterato) del diniego di autorizzazione unica alla realizzazione di un impianto energetico da fonti rinnovabili
N. 02848/2021REG.PROV.COLL. N. 09225/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9225 del 2020, proposto dalla Edima Energie s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Giancarlo Di Lucanardo e Carlo Maria Pettinelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; nei confronti del Comune di Cortino, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Abruzzo (Sezione Prima) n. 363 del 19 ottobre 2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio della Regione Abruzzo; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2021, svoltasi da remoto in video conferenza ai sensi dell’art. 25 d.l. 137 del 2020, il consigliere Michele Conforti, nessuno presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso ritualmente incardinato innanzi al T.a.r. per l’Abruzzo, la società Edima Energie s.r.l., (in prosieguo Edima), ha domandato l’annullamento del provvedimento di diniego al rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione di un impianto di produzione di energia rinnovabile e il risarcimento del danno patrimoniale. 1.1. L’interessata ha premesso di aver presentato domanda per il rilascio dell’autorizzazione ai sensi dell’art. 12 del D.Lgs n. 387/2003, già in data 17 giugno 2010, e di aver ricevuto un primo diniego da parte della Regione, consistente nella nota del 4 febbraio 2011, con la quale si dichiarava che non si sarebbe dato avvio al procedimento amministrativo, in ragione del limite posto dalla misura “MD3” del Piano Regionale per la tutela della qualità dell’aria, con il quale, evidentemente, l’impianto andava a confliggere. 2. La nota è stata impugnata innanzi al T.a.r. per l’Abruzzo. 2.1. Con ordinanza n. 161 del 2011, il Tribunale amministrativo sospendeva l’atto gravato e ordinava alla Regione di intraprendere il procedimento. 3. Nelle more dello svolgimento del procedimento, con la sentenza irrevocabile n. 217 del 5 aprile 2012, il T.a.r. ha annullato la nota impugnata dall’interessata. 4. All’esito del procedimento intrapreso in ottemperanza dell’ordine impartito dal T.a.r. con l’ordinanza cautelare, la Regione ha emanato la determinazione regionale n. 1374 del 12 aprile 2012, con la quale, a conclusione del previsto iter procedimentale, ha respinto l’istanza della società. 5. Anche quest’atto è stato impugnato dalla società Edima innanzi al competente Tribunale amministrativo regionale, deducendosi varie censure di illegittimità del provvedimento, rimarcandosi che a causa dell’avvenuta risoluzione dei contratti di affitto la realizzazione della centrale era divenuta impossibile (pag. 4 del ricorso di primo grado) e proponendosi infine domanda di risarcimento del danno, in via principale, per quello patrimoniale inferto dalla mancata realizzazione dell’impianto (quantificato in euro 80.666,12, a titolo di danno emergente, e in euro 40.788.000,00, a titolo di lucro cessante); in via subordinata, a titolo di perdita di chance. 5.1. Nel giudizio è intervenuto ad adiuvandum il Comune di Cortino, il quale ha altresì proposto domanda di risarcimento del danno per il mancato guadagno derivante dagli oneri che l’impresa si era impegnata a pagare, mediante una convenzione intercorsa con l’ente, ove fosse stata autorizzata la realizzazione dell’impianto, nonché per le ricadute positive che la sua realizzazione avrebbe avuto sull’economia locale. 6. Con la sentenza n. 363 del 19 ottobre 2020, il T.a.r. ha accolto la domanda di annullamento formulata dalla ricorrente, mentre ha respinto la domanda risarcitoria. 6.1. Il primo Giudice ha annullato il provvedimento gravato rilevando che la motivazione del diniego, ossia l’asserita incompatibilità dell’opera con il Piano regionale per la qualità dell’aria, era già stata scrutinata dalla sentenza n. 217 del 2012, pronunciata dal medesimo T.a.r., che ne aveva sancito l’illegittimità, evidenziando la necessità di valutare in concreto l’inserimento dell’impianto nel contesto paesaggistico e ambientale. 6.2. Conseguentemente, nel successivo procedimento l’amministrazione regionale avrebbe dovuto tenere conto di questa statuizione e non avrebbe dovuto reiterare un diniego basato sulla medesima ragione giustificatrice (capo non impugnato). 6.3. Il Tribunale amministrativo ha dichiarato assorbiti i cinque motivi di ricorso proposti dalla società (capo non impugnato). 6.4. Con riferimento alla domanda di risarcimento del danno proposta dall’interessata, il Tribunale amministrativo ha statuito che la domanda non può trovare accoglimento, non essendosi raggiunta la prova della spettanza del bene della vita. Si è evidenziato, a tale riguardo, che: a) l’illegittimità del provvedimento non comporta necessariamente illiceità della condotta dell’amministrazione e che, comunque, è sempre necessario provare che l’emanazione del provvedimento illegittimo abbia precluso il conseguimento del bene della vita auspicato; b) a tale proposito, si evidenzia che il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione di un impianto di produzione di energia elettrica costituisce un procedimento amministrativo ampiamente discrezionale; c) sussiste, dunque, la possibilità di una legittima diversa determinazione nella riedizione del potere amministrativo, rispetto al riconoscimento del bene. 6.5. Si è pertanto statuito che “I danni lamentati si connotano, infatti, come pregiudizi meramente eventuali ed ipotetici, non essendo sufficiente, ai fini risarcitori, la mera astratta probabilità di conseguimento di un risultato utile. Ne consegue che le domande risarcitorie si appalesano del tutto carenti essendosi limitati la ricorrente e l’interveniente a far discendere la prova della spettanza del bene della vita preteso dalle argomentazioni contenute nella sentenza di questo Tribunale n. 217/2012”. 6.6. Il T.a.r., infine, ha compensato le spese del giudizio. 7. La società ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado. 7.1. Con un unico articolato motivo di appello, la società ha impugnato la sentenza di primo grado, relativamente al capo che ha respinto la domanda di risarcimento del danno. L’appellante mette in risalto come, nella motivazione della sentenza, il T.a.r. avrebbe evidenziato che tutti gli enti partecipanti alla conferenza di servizi, convocata per decidere sull’istanza, avessero espresso un giudizio favorevole. Rimarca, poi, come per quelli non intervenuti in sede di conferenza di servizi, dovesse valere la regola per la quale il loro assenso doveva darsi per acquisito. 7.2. In sintesi, l’appellante ritiene che sussistessero tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, poiché, quanto a quello ritenuto mancante, ben avrebbe potuto il T.a.r. formulare il giudizio prognostico di spettanza del bene della vita, considerato che il procedimento amministrativo aveva visto l’espressione di pareri favorevoli da parte degli enti intervenuti nella conferenza di servizi (o la mancata espressione di un motivato dissenso in quella sede), la Regione non aveva espresso una nuova valutazione negativa alla realizzazione dell’impianto, ma si era limitata a reiterare il precedente intendimento negativo, la finalità della normativa è quella di favorire l’iniziativa intrapresa e, infine, anche il potere discrezionale spettante all’amministrazione va, via via, riducendosi ogniqualvolta viene riesercitato. 7.3. In via subordinata, per l’ipotesi in cui “non dovessero ritenersi sussistenti i presupposti per l’accoglimento della domanda di risarcimento per equivalente”, l’appellante ha poi domandato il risarcimento da perdita di chance, “determinato in proporzione alla probabilità dei relativi ricavi, utilizzando come unico criterio impiegabile quello equitativo, ovvero con un giudizio che dovrà tenere conto del criterio prognostico sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili e del vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato…”. 8. In data 15, dicembre 2020, si è costituita in giudizio la Regione Abruzzo, resistendo all’appello, mentre non si è costituito il Comune. 9. Con memoria del 8 febbraio 2021, la Regione ha articolato compiute difese sulle deduzioni avversarie, argomentando per il rigetto della domanda risarcitoria. 10. Anche l’appellante ha ulteriormente argomentato le sue deduzioni, con memoria del 9 febbraio 2021. 11. Ambedue le parti hanno replicato agli scritti di controparte, con apposite memorie, depositate in data 12 febbraio 2021. 12. La società ha infine depositato note d’udienza in data 19 febbraio 2021, ai sensi del D.L. n. 28 del 2020 e del D.L. n. 137 del 2020. 13. All’udienza del 25 febbraio 2021, la causa è stata trattenuta in decisione. 14. In limine litis, il Collegio ritiene che possa prescindersi dall’esaminare l’istanza con la quale la Regione ha domandato la concessione di un termine a difesa, considerata l’infondatezza dell’appello. 15. La sentenza gravata merita infatti di essere confermata, per aver correttamente applicato i principi più volte affermati da questo Consiglio sulla risarcibilità del danno da lesione dell’interesse legittimo (vedi infra, al § 16.5.). 16. In particolare, va ribadito che non può dirsi raggiunta la prova della spettanza del bene della vita, auspicato dall’impresa appellante. 16.1. Invero, il motivo di diniego opposto dall’amministrazione procedente all’odierna appellante è stato ritenuto illegittimo dal T.a.r., per due volte, in quanto la Regione non avrebbe valutato in concreto la compatibilità del progetto presentato ai luoghi in cui avrebbe dovuto essere ubicato l’impianto, tenendo conto dello stato di quei luoghi e della loro attuale destinazione. Si assume, cioè, da parte del T.a.r., sia nella sentenza del 2012 che in quella del 2020, che la risposta negativa opposta dall’amministrazione regionale fosse errata perché formulata sulla scorta di un’asserita antitesi fra la normativa di riferimento e la pianificazione settoriale del territorio, da un lato, e il progetto, dall’altro, che però non sussisterebbe in astratto, così come invece ritenuto dalla Regione, ma avrebbe dovuto essere riscontrata in concreto. 16.2. Precisamente, nella sentenza n. 217 del 2012, si afferma che: “Ovviamente ciò non postula che gli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili possano sempre essere ubicati in zona agricola, dovendosi nella appropriata sede istruttoria verificare (tra le altre questioni) la compatibilità della localizzazione dell’impianto con le peculiari esigenze legate alla vocazione del territorio; ciò non di meno risulta inibito alla Regione procedere ad automatici meccanismi preclusivi invocando una destinazione urbanistica comunque non incompatibile con la realizzazione di opere che –una volta debitamente autorizzate - comunque si caratterizzano per essere di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti (art. 12 comma 1 d. leg.vo 387/03).”. 16.3. La sentenza n. 363 del 19 ottobre 2020, riafferma tale principio, statuendo che: “L’autorizzazione, infatti, può essere negata solo al ricorrere dei presupposti prescritti dalla disciplina speciale di cui al comma 10 dell’art. 12 D.Lgs n. 387/2003, ovvero previa determinazione nel territorio regionale di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell'ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti (in tali termini, T.A.R. Molise, Sez. I, 23/06/2016, n. 281). Ebbene, nella fattispecie che ci occupa, tale valenza ostativa all’installazione dell’impianto non può discendere dall’esito dell’istruttoria compiuta in sede di conferenza di servizio che prende a supporto del diniego le medesime argomentazioni già oggetto di puntuale accertamento incontrovertibile di questo organo giudicante.”. 16.4. In definitiva, quindi, avuto riguardo allo svolgimento dei procedimenti che hanno interessato questa vicenda, non può in alcun modo affermarsi che vi sia stata una reale verifica di compatibilità della localizzazione dell’impianto. La ratio decidendi delle due sentenze suindicate è infatti incentrata proprio sull’assenza di una simile ponderazione, che, dunque, al momento, risulta inespressa, non risultando quindi fondatamente affermabile che il bene della vita sarebbe stato riconosciuto come spettante. 16.5. Manca dunque quello che, per costante giurisprudenza, costituisce un presupposto fondamentale per potersi riconoscere l’invocata tutela risarcitoria (tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. II, 13 gennaio 2021, n. 421; Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 90; Sez. IV, 1 dicembre 2020, n. 7622). 17. Va evidenziato che il Collegio non ritiene neppure fondato l’assunto di parte appellante, secondo cui le altre autorità amministrative, intervenute nelle due conferenze di servizi, avrebbe espresso pareri favorevoli alla realizzazione dell’opera. 17.1. In particolare, una simile affermazione non trova riscontro nel verbale della conferenza del 22 marzo 2012, non dandosi atto, in questo verbale, delle posizioni espresse in detta sede dagli altri partecipanti. 17.2. L’affermazione non trova conforto neppure nel verbale della conferenza precedente, svoltasi il 19 settembre 2011, poiché, in quella sede, alcune amministrazioni si espressero in modo meramente interlocutorio o domandando approfondimenti (cfr. la posizione del rappresentante dell’Agricoltura del SIPA di Teramo, il quale ha fatto verbalizzare che “Il rappresentante dell’Agricoltura del SIPA di Teramo comunica che l’amministrazione ha ricevuto la documentazione soltanto il 15 settembre, pertanto non può esprimersi in merito, in ogni caso evidenzia che il progetto deve essere dotato di relazione tecnico-agronomica”; quella della Provincia, che ha concluso affermando che “Solo dopo tale studio la Provincia potrà esprimersi definitivamente sull’ubicazione dell’impianto”; quella dell’Arta, che ha posto una serie di richieste alla società). 17.3. Invero, non può tacersi che l’impresa, in primo grado, ha affermato che “tutte le integrazioni e chiarimenti richiesti nella precedente seduta sono stati forniti”, ma di tale affermazione – contestata dal Ministero con la memoria di primo grado del 12 agosto 2020 (cfr., in particolare, pag. 9 e pag. 15) - non v’è prova in atti. 17.4. In ogni caso, tale integrazione non supplirebbe comunque alla valutazione in concreto rimessa alla Regione Abruzzo e non ancora effettuata. 17.5. Per le medesime motivazioni, neppure può procedersi al risarcimento dei danni asseritamente scaturenti dai costi sostenuti per la presentazione della domanda di autorizzazione unica. 17.6. Relativamente a questa voce di danno, può specificarsi, ulteriormente, rispetto alla deduzione di cui al paragrafo precedente, che i costi sostenuti per la presentazione di una domanda, un’istanza o una richiesta all’amministrazione costituiscono un costo rientrante nel c.d. “rischio di impresa”, che non può essere traslato sull’amministrazione. 17.6.1. Deve ritenersi, infatti, che tale costo non sarebbe stato rimborsabile anche in caso di conseguimento del bene della vita e che esso, dunque, costituisce, al contempo, un investimento e anche un rischio dell’impresa, funzionale alla previsione di guadagno in astratto quantificata (Cons. Stato, sez. VI, 17 febbraio 2017, n. 731; sez. V, 12 aprile 2016, n. 1904; sez. V, 28 luglio 2015, n. 3716; sez. VI, 27 aprile 2010, n. 2384, in materia di appalti pubblici, ma con principi chiaramente congruenti nel caso di specie). 18. Le considerazioni suesposte inducono a rigettare la domanda di risarcimento del danno, proposta in via principale dall’appellante. 19. Può procedersi all’esame della domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, formulata dall’appellante, in via subordinata. 19.1. La domanda è infondata. 19.2. In base all’evoluzione giurisprudenziale, può affermarsi che il danno da perdita di chance si configura allorché si verifica “la perdita della sola possibilità di conseguire un risultato vantaggioso (ovvero di evitarne uno sfavorevole)”. Come è stato acutamente osservato, si tratta di una figura che assume una fisionomia cangiante a seconda che venga declinata nell’ambito della responsabilità extracontrattuale o in quella contrattuale, nonchè con riferimento al danno patrimoniale o non patrimoniale. Essa registra, inoltre, significative differenze sul versante applicativo, come ad esempio quelle derivanti dall’adesione all’una o all’altre delle due concezioni - quella ontologica e quella eziologica -, che ne influenza chiaramente i profili relativi all’accertamento, alla liquidazione e ai poteri del giudice. 19.3. Ritiene il Collegio che si debba aderire a quella giurisprudenza, largamente maggioritaria, che àncora il risarcimento della chance all’esistenza di una possibilità connotata da un serio e concreto margine circa il conseguimento del bene della vita (o dell’utilità finale), seppure con le puntualizzazioni che si vanno ad esporre. 19.3.1. A dispetto di ogni disputa nominalistica circa una simile opzione, va evidenziato che il sistema della responsabilità civile non indulge nel risarcimento di mere aspettative di fatto, aspirazioni di lucro oppure implausibili o infondati desiderata dei consociati - è impossibile citare le innumerevoli sentenze che hanno posto le coordinate ermeneutiche della responsabilità civile. Per quel che qui interessa, in relazione alle linee essenziali del sistema, ci si limita a richiamare, Cass. civ., sez. un., n. 174 del 26 gennaio 1971; nn. 500 e 501 del 22 luglio 1999; n. 26975 dell’11 novembre 2008, (quest’ultima, specialmente, per i “limiti” all’espansione della risarcibilità del danno, sia pure in ambito non patrimoniale, ma con chiare indicazioni di sistema) - ma riconosce il diritto alla reintegrazione della propria sfera giuridica, mediante il riconoscimento di una somma di denaro quale equivalente patrimoniale di un determinato bene, che si sarebbe dovuto conseguire o che non si sarebbe dovuto perdere a causa dell’illecito subito, soltanto laddove questo bene (o la sua “proiezione” come interesse giuridicamente rilevante, variamente articolata quale diritto soggettivo, interesse legittimo, aspettativa di diritto, possesso, etc.) effettivamente sussista nella sfera giuridica o sussista la certezza della sua spettanza (comprovata con i noti criteri in materia di causalità materiale e giuridica). 19.3.2. In ragione di questa premessa, il concetto di “possibilità” che permette il risarcimento della chance non può essere individuato in qualsiasi ipotetica eventualità di conseguimento del risultato, ma, come più volte statuito, nella “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di conseguire il bene della vita sperato (Cons. Stato, Sez. V, 15 novembre 2019, n. 7845; di recente, con riferimento alla chance non patrimoniale, Cass. civ., Sez. III, 11 novembre 2019 n. 28993). La richiamata “probabilità” deve correlarsi a dati reali, senza i quali risulta impossibile valutare quanto fosse verosimile (id est, giuridicamente fondata), seppure in via meramente ipotetica, l’occasione di conseguire un determinato bene (Cons. Stato, Sez. V, 28 gennaio 2019, n. 697). 19.3.3. In base a quanto osservato, dunque, la chance non comprende, a parere del Collegio, quel bene giuridico che ha consistenza di mera possibilità di conseguimento del risultato, ma quel bene giuridico (rispetto al quale può tanto configurarsi un diritto soggettivo, quanto un interesse legittimo, quanto, ipoteticamente, altra situazione giuridica di vantaggio) che ha consistenza di “probabilità seria e concreta” di conseguire un risultato favorevole. 19.4. A tale proposito, va evidenziato che non si deve confondere, con riferimento alla fattispecie de qua, la questione relativa alla consistenza (ove l’illecito fosse mancato) dell’eventualità del conseguimento del risultato finale, con i profili e gli aspetti problematici del nesso di causalità. 19.4.1. Il primo aspetto, infatti, è estraneo rispetto al giudizio sull’accertamento dell’elemento costitutivo della fattispecie consistente nel nesso di causalità, ma riguarda, invece, la verifica dell’effettiva sussistenza di una situazione giuridica soggettiva che si assume violata e a cui dare tutela. La valutazione relativa al “grado di consistenza” della chance rileva, dunque, sotto il profilo dell’accertamento dell’ingiustizia del danno e non del nesso di causalità, e deve essere compiuta dal giudice secondo le evidenze del caso concreto, per verificare che il fatto lesivo è effettivamente illecito, perché ha inciso, in maniera ingiustificata, su una situazione giuridicamente meritevole di tutela e non rispetto ad una mera aspirazione, ad un interesse di fatto o a circostanze che non assurgono al rango di “bene della vita”. 19.4.2. I profili di causalità, rispetto alla fattispecie di danno di cui si discorre, andranno accertati, invece, come segue: - la causalità materiale dovrà intercorrere in termini di certezza, seppure accertata secondo la regola del “più probabile che non”, tra la condotta illecita e asseritamente lesiva (nel caso in esame, in ipotesi, l’emanazione di un provvedimento illegittimo) e la lesione, per l’appunto, della situazione di vantaggio (nel caso di specie, la compromissione definitiva dell’asserita probabile occasione di conseguire l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto); - la causalità giuridica dovrà intercorrere fra questa lesione (la compromissione definitiva dell’asserita probabile occasione di conseguire l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto) e il tipo di pregiudizio patrimoniale che si assume essersi prodotto (ossia, il non avere potuto gestire con profitto l’impianto e non avere, conseguentemente, fruito dei vantaggi patrimoniali da ciò discendenti). 19.4.3. Dunque, senza che assuma rilievo, rispetto a questo specifico presupposto costitutivo della fattispecie, il grado di possibilità, probabilità o certezza del conseguimento del risultato finale. 19.5. Ebbene, muovendosi lungo queste coordinate ermeneutiche, il Collegio rileva l’insussistenza della chance per come sopra individuata. 19.5.1. Le evidenze del procedimento, come prima enucleate e messe in risalto, comprovano che non vi è alcuna ragionevole evidenza della sussistenza del bene giuridico che si assume violato, ossia alcun elemento o prova che convinca questo Collegio che la società avrebbe conseguito o avrebbe ragionevolmente potuto conseguire l’autorizzazione, ove non si fosse verificata l’illegittimità dichiarata dalla sentenza del T.a.r.. L’ampia discrezionalità di cui ancora gode l’amministrazione regionale, competente alla decisione finale, e l’assenza di atti istruttori e determinazioni endo procedimentali positive da parte delle altre autorità amministrative intervenute nel procedimento - che questo Collegio, come rilevato ai §§ 17 e ss., non ha ravvisato - inducono a ritenere che, rispetto al conseguimento dell’autorizzazione, la società non vantasse nulla più di una “mera aspettativa di fatto o generiche ed astratte aspirazioni di lucro”, non suffragate da alcun elemento concreto, idoneo a configurarle come qualcosa di più consistente ai fini di un eventuale risarcimento del danno. 19.5.2. Inoltre, da un punto di vista causale, non è stata l’illegittimità del provvedimento a far scaturire l’impossibilità di conseguire il bene della vita agognato (cioè l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dello stabilimento), bensì, come dedotto dalla medesima appellante, nel ricorso di primo grado, la circostanza che “i proprietari dei terreni hanno deciso di risolvere i contratti d’affitto con patto di futura vendita rendendo impossibile la realizzazione della centrale” (cfr. pag. 4 del ricorso introduttivo). 19.6. In definitiva, dunque, non sussistendo alcuna chance, per come definita, anche la domanda proposta in via subordinata va respinta. 20. Nondimeno, è opportuno puntualizzare che, qualora la società lo richieda, ritenendolo comunque vantaggioso, la Regione dovrà riattivare il procedimento, a partire dalla data di svolgimento della conferenza di servizi del 19 settembre 2011, esaminando tutte le criticità ivi riscontrate e acquisendo le soluzioni offerte dalla ditta, in tempi certi e stringenti, pari al massimo a 60 giorni. Ove ciò avvenga, il procedimento dovrà essere condotto nel rispetto dei principi stabiliti da questo Consiglio, in materia di sopravvenienze (cfr., specialmente, Cons. Stato, Ad. plen. 9 giugno 2016, n. 11), ovvero dovranno considerare irrilevanti le sopravvenienze successive alla formazione del giudicato cassatorio (formatosi decorsi 60 gg dalla notifica dell’appello da parte della ditta Edima), mentre saranno rilevanti le sopravvenienze precedenti a questa data. 21. In conclusione, dunque, l’appello va respinto. 22. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello n.r.g. 9225 del 2020, lo respinge e, per l’effetto, conferma la sentenza di primo grado. Condanna l’appellante alla rifusione, in favore della Regione Abruzzo, delle spese del giudizio che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre agli accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 25 febbraio 2021, svoltasi da remoto in video conferenza ai sensi dell’art. 25 D.L. 137 del 2020, con l’intervento dei magistrati: Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Michele Conforti, Consigliere, Estensore Vito Poli, Presidente Luca Lamberti, Consigliere Alessandro Verrico, Consigliere Silvia Martino, Consigliere Michele Conforti, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Risarcimento danni – Presupposti – Annullamento per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria – Esclusione.            Non spetta il risarcimento dei danni da annullamento (reiterato) del diniego di autorizzazione unica alla realizzazione di un impianto energetico da fonti rinnovabili ex art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003, per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria, in quanto non emerge la prova della concreta spettanza del bene della vita; in ogni caso, va esclusa la risarcibilità del danno emergente consistente nelle spese di progettazione rientrante nella alea propria dell’attività di impresa (1).  ​​​​​​​ (1) La Sezione ha, altresì, precisato che in relazione ai presupposti per la configurabilità del danno da perdita di chance, la valutazione relativa al “grado di consistenza” della chance rileva sotto il profilo dell’accertamento dell’ingiustizia del danno e non del nesso di causalità, e deve essere compiuta dal giudice secondo le evidenze del caso concreto, per verificare che il fatto lesivo è effettivamente illecito, perché ha inciso, in maniera ingiustificata, su una situazione giuridicamente meritevole di tutela e non rispetto ad una mera aspirazione, ad un interesse di fatto o a circostanze che non assurgono al rango di “bene della vita”.  I profili di causalità, rispetto alla fattispecie di danno di cui si discorre, andranno accertati, invece, come segue: la causalità materiale dovrà intercorrere in termini di certezza, seppure accertata secondo la regola del “più probabile che non”, tra la condotta illecita e asseritamente lesiva e la lesione, per l’appunto, della situazione di vantaggio; la causalità giuridica dovrà intercorrere fra questa lesione (la compromissione definitiva dell’asserita probabile occasione di conseguire l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto) e il tipo di pregiudizio patrimoniale che si assume essersi prodotto (ossia, il non avere potuto gestire con profitto l’impianto e non avere, conseguentemente, fruito dei vantaggi patrimoniali da ciò discendenti).
Risarcimento danni
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Illegittima la ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto nella regione Calabria
N. 00841/2020 REG.PROV.COLL. N. 00457/2020 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 c.p.a.sul ricorso numero di registro generale 457 del 2020, proposto da Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Catanzaro, domiciliata presso gli uffici di questa, in Catanzaro, alla via G. da Fiore, n. 34; contro Regione Calabria, in persona del Presidente in carica, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Di Porto, Massimiliano Manna, Oreste Morcavallo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ristorante di Pesce a Rende S.r.l. Semplificata, non costituita in giudizio; e con l'intervento di ad adiuvandum:Comune di Reggio di Calabria, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avvocato Emidio Morabito, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; ad opponendum:Comune di Amendolara, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Giancarlo Pompilio e Claudia Parise, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Comune di Tropea, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Spataro e Renato Rolli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; CODACONS - Coordinamento delle Associazioni e dei Comitati di Tutela dell'Ambiente e dei Diritti degli Utenti e dei Consumatori, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gino Giuliano, Carlo Rienzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;Pasticceria Siciliana di Nicocia J.&C. S.n.c. in persona del legale rappresentante pro tempore, La Cambusa S.a.s. di Montalto Dino & C. in persona del legale rappresentante pro tempore, Francesco Covello, Carmelo Pirri, rappresentati e difesi dagli avvocati Fabrizio Criscuolo, Mauro Fortunato Magnelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento dell’ordinanza del Presidente della Regione Calabria del 29 aprile 2020, n. 37, recante «Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019. Ordinanza ai sensi dell’art. 32, comma 3, della legge 23 dicembre 1978, n. 833 in materia di igiene e sanità pubblica: Disposizioni relative alle attività di ristorazione e somministrazione di alimenti e bevande, attività sportive e amatoriali individuali e agli spostamenti delle persone fisiche nel territorio regionale», in relazione al suo punto 6, nel quale è stato disposto che, a partire dalla data di adozione dell’ordinanza medesima, sul territorio della Regione Calabria, è «consentita la ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto». Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Calabria; Visti gli atti di intervento; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2020 il dott. Francesco Tallaro e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod con l. 24 aprile 2020, n. 27; Rilevato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO I – L’iter processuale 1. – Oggetto dell’odierno giudizio è l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria del 29 aprile 2020, n. 37. Con tale provvedimento, adottato ai sensi dell’art. 32, comma 3 l. 23 dicembre 1978, n. 833, sono state dettate misure per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. In particolare, si controverte della legittimità del punto n. 6, con il quale è stato disposto che, sin dalla data di adozione dell’ordinanza, è consentita, nel territorio della Regione Calabria, la ripresa dell’attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo, purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario. 2. – Ad impugnare l’ordinanza, chiedendone l’annullamento a questo Tribunale Amministrativo Regionale, è stata la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con ricorso notificato a mezzo PEC e depositato il 4 maggio 2020. Ha resistito la Regione Calabria, la quale si è costituita nella medesima data. 3. – Unitamente al ricorso è stata proposta domanda cautelare di sospensione degli effetti dell’ordinanza, nella parte impugnata, accompagnata dalla richiesta di decreto cautelare monocratico ai sensi dell’art. 56 c.p.a. In data 5 maggio 2020 il Presidente di questo Tribunale Amministrativo Regionale ha sentito informalmente e separatamente le difese delle amministrazioni. Esse, nell’interesse generale della giustizia, avuto riguardo oltretutto alla delicatezza dei temi trattati in ricorso, che toccano i rapporti fra Stato e Regioni dal punto di vista dei rispettivi poteri di intervento nell’attuale drammatica fase epidemica in atto, hanno concordato sulla necessità di addivenire in tempi molto brevi a una decisione collegiale, eventualmente anche quale sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. Pertanto, l’Avvocatura dello Stato ha rinunciato all’istanza di tutela cautelare monocratica ai sensi dell’art. 56 c.p.a.; entrambe le parti hanno rinunciato ai termini a difesa di cui all’art. 55, comma 5 c.p.a. 4. – È stata dunque fissata la camera di consiglio del 9 maggio 2020. 5. – Al giudizio hanno inteso intervenire anche altre amministrazioni. In particolare, in data 6 maggio 2020 si è costituito, ad adiuvandum, il Comune di Reggio Calabria; al contrario, si sono costituiti ad opponendum nella medesima data del 6 maggio 2020 il Comune di Amendolara e nella successiva data del 7 maggio 2020 il Comune di Tropea. In data 7 maggio 2020 si è costituito ad opponendum anche CODACONS - Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori. In data 8 maggio 2020 si sono costituiti, in pretesa applicazione dell’art. 28, comma 1 c.p.a., alcuni operatori del settore della ristorazione, meglio individuati nell’epigrafe della sentenza. In vista della decisione la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la Regione Calabria hanno depositato memorie ad ulteriore supporto delle argomentazioni difensive utilizzate. 6. – Il ricorso è stato trattato collegialmente in data 9 maggio 2020 ai sensi dell’art. 84, comma 5 d.l. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con mod con l. 24 aprile 2020, n. 27, e, ricorrendone i presupposti, è stato deciso nel merito ai sensi dell’art. 60 c.p.a. II – Le posizioni delle parti 7. – La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha dedotto l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, nella parte di interesse, sotto tre diverse prospettive. 7.1. – In primo luogo, essa violerebbe gli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1 d.l. 25 marzo 2020, n. 19, e sarebbe stata emanata in carenza di potere per incompetenza assoluta. Infatti, l’art. 2, comma 1 dell’atto normativo citato attribuisce la competenza ad adottare le misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19 e le ulteriori misure di gestione dell’emergenza al Presidente del Consiglio dei ministri, che provvede con propri decreti previo adempimento degli oneri di consultazione specificati. Per quel che rileva, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha provveduto con d.P.C.M. del 26 aprile 2020 che, con efficacia dal 4 maggio 2020 al 17 maggio 2020, dispone la sospensione delle attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) e, in via di eccezione, consente la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto, nonché la ristorazione con asporto, fermo restando l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, il divieto di consumare i prodotti all’interno dei locali e il divieto di sostare nelle immediate vicinanze degli stessi. Come visto, l’ordinanza regionale, in contrasto con quanto disposto dal d.P.C.M., ha autorizzato anche la ristorazione con servizio al tavolo. Ma tale intervento integrativo non sarebbe consentito dalla normativa applicabile, in quanto l’art. 3, comma 1 d.l. n. 19 del 2020 prevede che le Regioni possano adottare misure di efficacia locale «nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale», ma tale potere è subordinato a tre condizioni, e cioè che si tratti di interventi destinati a operare nelle more dell’adozione di un nuovo d.P.C.M.; che si tratti di interventi giustificati da «situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario» proprie della Regione interessata; che si tratti di misure «ulteriormente restrittive» delle attività sociali e produttive esercitabili nella regione. Né l’ordinanza impugnata potrebbe trovare fondamento nell’art. 32, comma 3 l. n. 833 del 1978, e perché derogato dalla disciplina dettata dal d.l. n. 19 del 2020, e perché l’emergenza sanitaria ha carattere nazionale, e dunque impone l’intervento da parte del Governo centrale. 7.2. – Con il secondo motivo di ricorso si deduce che l’ordinanza sarebbe priva di un’adeguata motivazione, non sarebbe stata supportata da una valida istruttoria, sarebbe illogica e irrazionale. In particolare, non emergerebbero condizioni peculiari che giustifichino, nel solo territorio della Regione Calabria, l’abbandono del principio di precauzione; non sarebbe stato adottato un valido metodo scientifico nella valutazione del rischio epidemiologico; si porrebbe a rischio la coerente gestione della crisi epidemiologica da parte del Governo. 7.3. – Infine, l’ordinanza sarebbe viziata da eccesso di potere, evidenziato dalla violazione del principio di leale collaborazione. Invero, l’ordinanza sarebbe stata emessa in assenza di qualunque interlocuzione con il Governo. 8. – La Regione Calabria ha posto una questione pregiudiziale di giurisdizione e si è difesa nel merito. 8.1. – Pregiudizialmente ha dedotto che il ricorso è volto ad assumere che l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria invada una sfera di attribuzioni propria del Governo centrale, sottraendogli così la possibilità di esercizio di una propria prerogativa. La controversia assumerebbe, così, un tono costituzionale che attribuirebbe la giurisdizione alla Corte costituzionale, quale giudice dei conflitti di attribuzione ai sensi dell’art. 134 Cost. 8.2. – Nel merito, l’ordinanza impugnata troverebbe un sicuro fondamento nell’art. 32, comma 3 l. n. 833 del 1978 e sarebbe pienamente informata ai principi di adeguatezza e proporzionalità espressamente richiamati dall’art. 1, comma 2 d.l. n. 19 del 2020, i quali richiedono di modulare i provvedimenti volti al contrasto dell’epidemia al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio. Al contrario, a tali principi non si conformerebbe il d.P.C.M. del 26 aprile 2020, che sottopone a una disciplina unitaria tutto il territorio nazionale, senza tener conto delle differenze fattuali. Peraltro lo strumento normativo utilizzato dal Governo (un d.P.C.M.) sarebbe palesemente inadeguato perché la Costituzione non prevede la delegabilità dei poteri di decretazione d’urgenza di cui all’art. 77 Cost. 8.3. – Per altro verso, la regolamentazione dettata dal Presidente della Regione Calabria non sarebbe in contrasto con il contenuto del d.P.C.M. del 26 aprile 2020, essendo invece da interpretare quale disposizione di dettaglio della medesima, in funzione delle specificità della situazione epidemiologica presente nel territorio regionale ed in presenza di alcune “misure minime” da adottare a tutela della salute pubblica e del rischio di contagio. Il ricorso, dunque, non dovrebbe essere esaminato per difetto di interesse. 8.4. – Infine, l’ordinanza sarebbe supportata da un impianto motivazionale sufficiente, nel quale si dà atto che l’analisi dei dati prodotta dal Dipartimento Tutela della Salute e Politiche Sanitarie della Regione Calabria ha fatto rilevare, alla data del 27 aprile 2020, un valore del Rapporto di replicazione (Rt) con daily time lag a 5 giorni, pari a 0,63; in generale, valori inferiori ad 1 indicano che la diffusione dell’infezione procede verso la regressione. 9. – Gli interventori hanno arricchito il giudizio con le loro deduzioni. 9.1. – Il Comune di Reggio Calabria, invero, ha inteso condividere in tutto i contenuti del ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 9.2. – Il Comune di Amendolara ha aderito all’eccezione di difetto di giurisdizione di questo giudice amministrativo in favore della Corte costituzionale e ha affermato l’infondatezza dei motivi di ricorso. Ha aggiunto che il d.l. n.19 del 2020, al quale non sarebbe aderente l’ordinanza del Presidente della Regione, sarebbe in contrasto con gli artt. 77, 13, 14, 15, 16, 17 e 41, 117, co. 3 e 120, co. 2, Cost. Partendo dal presupposto che l’ordinamento costituzionale italiano non prevede lo “stato di emergenza”, la normativa in questione sarebbe in contrasto con gli artt. 77, 13, 14, 15, 16, 17 e 41 Cost. in quanto demanderebbe al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di limitare le libertà garantite dalla Costituzione. Peraltro, si tratterebbe di normativa non essenziale per affrontare l’attuale stato di emergenza, in quanto nell’ordinamento sono contemplate diverse ipotesi in cui è consentita l’emanazione di ordinanze contingibili e urgenti per affrontare situazioni urgenti. Sotto altro profilo, il d.l. n.19 del 2020 priverebbe le Regioni della potestà normativa concorrente in materia di salute, prevista dall’art. 117 Cost. e rappresenterebbe esercizio di potere sostitutivo da parte dello Stato non previsto dall’art. 120 Cost. 9.3. – Il Comune di Tropea ha aderito anch’esso all’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione. Ha poi eccepito l’illegittimità costituzionale del d.l. n. 19 del 2020, che rappresenterebbe un indebito esercizio di potere sostitutivo da parte dello Stato in violazione degli artt. 117, comma 5 e 120 Cost., e una violazione dei principi di sussidiarietà e leale cooperazione. Nel merito, l’ordinanza sarebbe giustificata dall’art. 32, comma 3 l. n. 833 del 1978 e sarebbe coerente con i principi di adeguatezza e proporzionalità, violati invece dalla decisione del Governo di predisporre una disciplina unitaria per tutto il territorio nazionale. L’ordinanza avrebbe alla base l’analisi dei dati epidemiologici regionali e, a ben guardare, nemmeno si porrebbe in contrasto con il d.P.C.M. del 26 aprile 2020, di cui è mera specificazione. 9.4. – CODACONS ha argomentato nel senso che la lite, qualificabile in termini di conflitto di attribuzioni, sarebbe devoluta ai sensi dell’art. 134 Cost. alla giurisdizione della Corte costituzionale, cui ha chiesto di trasmettere gli atti. 9.5. – Gli operatori della ristorazione, infine, si sono qualificati in termini di controinteressati e, costituitisi ai sensi dell’art. 28, comma 1, hanno domandato il differimento dell’udienza camerale con assegnazione di termini per poter esercitare correttamente i proprio diritto di difesa. Nel merito, hanno aderito alle tesi difensive della Regione Calabria. 9.6. – Va infine notato che la Regione Calabria, nella memoria depositata in data 9 maggio 2020, ha lamentato di non aver potuto prendere posizione sui numerosi interventi che si sono succeduti e ha invitato il Tribunale a valutare se, rispetto a tale vulnus al diritto di difesa, si rendesse necessario o anche solo opportuno, un differimento della Camera di consiglio. III – Le questioni pregiudiziali e preliminari III.1. – La questione di giurisdizione 10. – È opinione del Tribunale di essere dotato di giurisdizione sul ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Tale conclusione si basa su tre, concatenate osservazioni. 10.1. – È innegabile che il provvedimento emanato dal Presidente della Regione Calabria abbia natura di ordinanza contingibile e urgente in materia di igiene e sanità, nel quadro della disciplina dettata dall’art. 32 l. n. 833 del 1978. Si tratta, dunque, di esercizio di potere amministrativo, sul quale il sindacato giurisdizionale è naturalmente attribuito al giudice della funzione pubblica, cioè il giudice amministrativo. 10.2. – Il fatto che le ragioni di illegittimità dedotte da parte ricorrente siano inerenti anche ai confini delle attribuzioni assegnate ai diversi poteri dello Stato non è sufficiente ad attribuire alla controversia un tono costituzionale. In proposito, si richiama la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale il tono costituzionale del conflitto sussiste quando il ricorrente non lamenti una lesione qualsiasi, ma una lesione delle proprie attribuzioni costituzionali (ex plurimis, Corte cost. 14 febbraio 2020; Id. 14 febbraio 2018, n. 28; Id. 15 maggio 2015, n. 87; Id. 28 marzo 2013, n. 52). È stato, in particolare, chiarito (da Corte cost. 29 ottobre 2019, n. 224) che non basta che nella materia in questione vengano in gioco competenze e attribuzioni previste dalla Costituzione, perché la controversia assuma un tono costituzionale. La natura costituzionale delle competenze, infatti, così come il potere discrezionale che ne connota i relativi atti di esercizio, non esclude la sindacabilità nelle ordinarie sedi giurisdizionali degli stessi atti, quando essi trovano un limite «nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo» (Corte cost. 5 aprile 2012, n. 81 del 2012). Ebbene, il ricorso con il quale è stato innescato il sindacato giurisdizionale da parte di questo Tribunale Amministrativo Regionale fa valere la dedotta violazione, da parte del Presidente della Regione Calabria, dei limiti che dalla legge, e in particolare dal d.l. 25 marzo 2020, n. 19, derivano all’esercizio delle competenze in materia di igiene e sanità spettanti al Presidente della Regione Calabria. In questa prospettiva, l’atto è giustiziabile d’innanzi al giudice della funzione pubblica, giacché questo giudice non è chiamato a regolare il conflitto sulle attribuzioni costituzionali tra gli Enti coinvolti nella controversia, ma solo a valutare la legittimità, secondo i parametri legislativi indicati nei motivi di ricorso, dell’atto impugnato. 10.3. – In ogni caso, se pure si opinasse che nel caso di specie fosse attivabile, da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il conflitto di attribuzione d’innanzi alla Corte costituzionale, ciò non esclude che sia legittimamente esperibile anche la via del ricorso d’innanzi al giudice amministrativo. Secondo il costante insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 19 luglio 2013, n. 17656; in precedenza, Id. 20 maggio 1978, n. 2492; Id. 28 maggio 1977, n. 2184; Id. 13 dicembre 1973, n. 3379; Id. 10 novembre 1973, n. 2966), infatti, vi è diversità di struttura e finalità fra il giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regione ed il sindacato giurisdizionale davanti al giudice amministrativo: il primo è finalizzato a restaurare l'assetto complessivo dei rispettivi ambiti di competenza degli Enti in conflitto; il secondo, viceversa, si svolge sul piano oggettivo di verifica di legalità dell'azione amministrativa, con l'esclusivo scopo della puntuale repressione dell'atto illegittimo. Ciò comporta la possibilità della loro simultanea proposizione, sicché deve escludersi che in tali ipotesi sussista difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Anche il Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2011, n. 6834), dal canto suo, ha affermato che il soggetto legittimato ad impugnare l'atto autoritativo dinanzi al giudice amministrativo può valutare se sussistono i presupposti per sollevare un conflitto di attribuzione, ovvero se avvalersi del rimedio di carattere generale della giurisdizione generale di legittimità. Tale conclusione risulta corroborata dalla considerazione per cui, mentre la Corte costituzionale può decidere le censure attinenti al riparto delle attribuzioni, il giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 113 Cost., può decidere su ogni profilo di illegittimità dell'atto, anche su dedotti aspetti di eccesso di potere, sicché, anche per esigenze di concentrazione, l’Ente in conflitto ben può scegliere se, anziché proporre due giudizi e devolvere alla Corte costituzionale l'esame dei profili sul difetto di attribuzione, sia il caso di proporre un solo ricorso al giudice amministrativo, deducendo tutti i possibili motivi di illegittimità dell'atto. III.2 – Le condizioni dell’azione 11. – Benché la Regione Calabria non abbia contestato la legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri a ricorrere nel caso di specie al giudice amministrativo, la verifica delle sussistenza di tale condizione dell’azione deve essere operata d’ufficio. 11.1. – Il Tribunale ritiene, dunque, di dover esplicitare che sussiste la legittimazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri a impugnare un’ordinanza ex art. 32, comma 3 l. n. 833 del 1978 del Presidente di una Regione in virtù delle funzioni ad essa attribuite con riferimento al rapporto tra il Governo e le Autonomie di cui la Repubblica si compone. 11.2. – Limitando l’esame ai rapporti tra Stato, Regioni e Province autonome, e senza alcuna pretesa di esaustività, si rileva che spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito di promuovere e coordinare “l'azione del Governo per quanto attiene ai rapporti con le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano” (art. 5, comma 3, lett. b) l. 23 agosto 1988, n. 400), nonché di promuovere lo sviluppo della collaborazione tra Stato, Regioni e Autonomie locali (art. 4 d.lgs. 30 luglio 1999, n. 303). Per svolgere tali funzioni, il Presidente si avvale della Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 2, comma 2, lett. d) d.lgs. n. 303 del 1999), presso la quale è istituito un Dipartimento per gli Affari regionali (art. 4, comma 2 d.lgs. n. 303 del 1999). Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, che dal Presidente del Consiglio è presieduta e che deve essere consultata sui criteri generali relativi all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e di coordinamento inerenti ai rapporti tra lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti infraregionali (art. 12 l. n. 400 del 1988). Spetta, infine, al Presidente del Consiglio dei Ministri “promuove le iniziative necessarie per l'ordinato svolgimento dei rapporti tra Stato, regioni e autonomie locali ed assicura l'esercizio coerente e coordinato dei poteri e dei rimedi previsti per i casi di inerzia e di inadempienza” (art. 4, comma 1 d.lgs. n. 303 del 1999). 11.3. – In sintesi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri costituisce il fulcro del necessario coordinamento dell’attività amministrativa posta in essere dallo Stato e dalle Autonomie di cui la Repubblica si compone. In altri termini, in capo ad essa si sintetizzano i vari interessi alla cura dei quali le amministrazioni pubbliche, statali, regionali e locali, sono preposte. Alla Presidenza del Consiglio dei Ministri è attribuito il compito di assicurare l’esercizio coerente e coordinato dei poteri amministrativi; cosicché è logica conseguenza ritenere che ad essa sia assegnato dall’ordinamento anche il potere di agire giudizialmente, in alternativa all’esercizio delle funzioni di controllo e sostitutive previsti dalla Costituzione, laddove l’esercizio dei poteri amministrativi avvenga in maniera disarmonica o addirittura antitetica. 12. – Sussiste anche l’altra condizione dell’azione, invero messa in dubbio dalla difesa della Regione Calabria, e cioè l’interesse ad agire. In effetti, allo stato risultano in vigore sia l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria oggetto di impugnativa, sia il d.P.C.M. del 26 aprile 2020. Benché sia stato negato in giudizio che il provvedimento regionale sia in contrasto con il d.P.C.M., di cui costituirebbe invece mera specificazione, osserva il Tribunale che il provvedimento impugnato ammette una nuova e diversa eccezione alla sospensione delle attività dei servizi di ristorazione. Dunque, l’ordinanza impugnata ha un contenuto parzialmente difforme dal d.P.C.M., rispetto al quale si pone in posizione di antinomia. Sicché, essendo effettivo ed attuale il contrasto tra i due provvedimenti, sussiste l’interesse all’odierna decisione. III.3. – Sui controinteressati, gli interventori e la loro posizione processuale 13. – La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha, in via prudenziale, notificato il ricorso a un potenziale controinteressato, identificato in un imprenditore titolare di un esercizio di ristorazione, il quale non si è costituito in giudizio. 13.1. – Tuttavia, è evidente che il provvedimento impugnato ha natura generale, sicché non sono individuabili controinteressati. Infatti, la figura del controinteressato in senso formale, peculiare del processo amministrativo, ricorre soltanto nel caso in cui l'atto sul quale è richiesto il controllo giurisdizionale di legittimità si riferisca direttamente ed immediatamente a soggetti, singolarmente individuabili, i quali per effetto di detto atto abbiano già acquistato una posizione giuridica di vantaggio; per definizione, tale figura non è ravvisabile nei riguardi dell'atto generale, atteso che esso non riguarda specifici destinatari, che sia a priori che a posteriori non sono individuabili (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6153). Poiché, dunque, nel caso di specie il terzo destinatario della notifica è sostanzialmente estraneo alla presente controversia, la sua mancata costituzione non impedisce la definizione del giudizio. 13.2. – Le medesime considerazioni valgono con riferimento all’intervento degli operatori del settore della ristorazione. A fronte di un atto amministrativo generale, essi non rivestono ruolo di controinteressati, e il loro intervento, da riqualificare in termini di intervento adesivo ai sensi dell’art. 28, comma 2 c.p.a., non comporta alcuna specifica necessità di salvaguardia dei diritti della difesa, giacché, come infra sarà ricordato, essi debbono accettare lo stato e il grado in cui si trova il giudizio. 14. – Occorre dunque occuparsi degli interventi adesivi spiegati, onde verificarne l’ammissibilità. 14.1. – L’art. 28, comma 2 c.p.a. stabilisce che chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall'esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova. In via generale, si deve osservare che tale norma recepisce una consolidata tradizione pretoria, per cui l'intervento in giudizio va riconosciuto ammissibile anche in presenza di un interesse di mero fatto, dipendente o riflesso rispetto a quello delle parti. Gli intervenienti, tuttavia, sono tenuti a chiarire nell'atto di intervento e a dimostrare quale sia l'interesse che intendono tutelare (cfr. CGA 3 gennaio 2017, n. 1). 14.2. – Quanto all’intervento ad adiuvandum, è ammesso dalla giurisprudenza più recente anche da parte del cointeressato, purché non sia decaduto dall'esercizio delle relative azioni e vi abbia interesse, senza tuttavia potere ampliare il thema decidendum; l'intervento del cointeressato è, quindi, ammesso nei limiti della domanda già proposta, in conformità allo strumento azionato, il quale comporta per l'interveniente di accettare, ex art. 28 comma 2, c.p.a . lo stato e il grado in cui il giudizio si trova (Cons. Stato, Sez. V, 30 ottobre 2017, n. 4973; cfr. anche TAR Campania – Napoli, Sez. III, 14 gennaio 2019 , n. 201). 14.3. – Alla stregua di tali criteri, si deve ritenere ammissibile l’intervento degli Enti locali e degli operatori del settore della ristorazione. Quanto al Comune di Reggio Calabria, intervenuto ad adiuvandum, esso ha espressamente dedotto che l’ordinanza di cui si discorre incide in maniera grave sul diritto alla salute dei cittadini di cui è Ente esponenziale e che l’auspicato accoglimento del ricorso comporterà un indiretto ma rilevante vantaggio nei confronti del Comune di Reggio Calabria. Tanto più che il Sindaco del Comune ha adottato in data 30 aprile 2020 l’ordinanza contingibile e urgente n. 44 con cui ha disposto l’applicazione, sul territorio comunale, esclusivamente delle misure adottate dal Governo. Anche il Comune di Tropea, intervenuto ad opponendum, ha illustrato gli interessi che hanno animato la sua iniziativa processuale, sebbene questi si pongano in una prospettiva ribaltata rispetto al Comune di Reggio Calabria. Infatti, il territorio su cui è costituito l’Ente ha forte vocazione turistica, sicché la chiusura forzata degli operatori della ristorazione per attenuare i contagi da COVID-19 ha avuto effetti devastanti sull’intero comparto economico, essendo state azzerate le presenze turistiche per i mesi di aprile e maggio. La conservazione del provvedimento impugnato rappresenta, in questo contesto, un vantaggio per la comunità di cui il Comune di Tropea è ente esponenziale, consentendo di riavviare le attività imprenditoriali. Le medesime considerazioni valgono per il Comune di Amendolara. L’interesse fattuale degli operatori della ristorazione alla conservazione dell’ordinanza regionale impugnata è, dal canto suo, evidentemente individuabile nella possibilità di riprendere le attività imprenditoriali. 14.4. – Al contrario, è inammissibile l’intervento del CODACONS - Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori. In effetti, esso ha depositato in giudizio il proprio Statuto, da cui si evince che persegue il fine di «tutelare con ogni mezzo legittimo, ivi compreso il ricorso allo strumento giudiziario, i diritti e gli interessi dei consumatori ed utenti […] tale tutela si realizza nei confronti dei soggetti pubblici e privati, produttori e/o erogatori di beni e servizi, anche al fine di contribuire ad eliminare le distorsioni del mercato determinate dalla commissione di abusi e di altre fattispecie di reati contro la P.A.». Ma non ha specificato quale interesse, sussistente in modo omogeneo in capo agli associati, l’intervento è inteso a tutelare. 15. – Va infine esaminata la sollecitazione della difesa della Regione Calabria affinché il Tribunale differisca l’udienza camerale allo scopo di consentirle di prendere posizione sugli atti di intervento. Ebbene, poiché gli interventi spiegati, siano essi ad adiuvandum o ad opponendum, non hanno condotto a un ampliamento dell’oggetto del giudizio, in nessuno dei suoi aspetti, in quanto un simile ampliamento è vietato dall’ordinamento processuale, non sussiste alcuna lesione del diritto di difesa dell’amministrazione regionale, che ha avuto modo di argomentare su ciascuno dei motivi di ricorso proposti dalla Presidenza del Consigli dei Ministri. IV – Esame dei motivi di ricorso 16. – Si può finalmente passare all’esame dei motivi di ricorso. Nondimeno, il forte interesse che nell’opinione pubblica ha suscitato l’odierno giudizio giustifica alcune sintetiche considerazioni di carattere generale. Non è compito del giudice amministrativo sostituirsi alle amministrazioni e, dunque, stabilire quale contenuto debbano avere, all’esito del bilanciamento tra i molteplici interessi pubblici o privati in gioco, i provvedimenti amministrativi. Tale principio, valido in via generale, è da affermare ancora con più forza quando, come nel caso di specie, il provvedimento amministrativo oggetto di sindacato sia stato adottato dal vertice politico-amministrativo, dotato di legittimazione democratica in quanto eletto a suffragio universale, di una delle Autonomie da cui la Repubblica è formata; e ad impugnarlo sia l’organo di vertice del potere esecutivo, anch’esso dotato di legittimazione democratica in quanto sostenuto dalla fiducia delle Camere. In questa prospettiva, l’operato dell’Autorità giurisdizionale, in questo caso del giudice amministrativo quale giudice naturale della funzione pubblica, è meramente tecnica, e finalizzata a verificare la conformità del provvedimento oggetto di attenzione al modello legale. 17. – Si è già accennato al § 7.1. al contenuto del d.l. n. 19 del 2020. L’art. 1 prevede, per quel che in questa sede rileva, che, allo scopo di contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus COVID-19, su specifiche parti del territorio nazionale ovvero, occorrendo, sulla totalità di esso, possono essere adottate una o più misure che, secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso, possono prevedere, tra l’altro, la limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti. Il successivo art. 2, comma 1, attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di emanare, con d.P.C.M., tali misure. L’art. 3, comma 1 consente alle Regioni di adottare misure di efficacia locale «nell’ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale». Ma ciò è possibile solo a condizione che si tratti di interventi destinati a operare nelle more dell’adozione di un nuovo d.P.C.M.; che si tratti di interventi giustificati da «situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario» proprie della Regione interessata; che si tratti di misure «ulteriormente restrittive» delle attività sociali e produttive esercitabili nella Regione. Il comma 3 dell’art 3, infine, precisa che «le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente». 18. – Il Tribunale ritiene che non ci siano gli estremi per sospendere il giudizio e sollevare d’innanzi alla Corte costituzionale questione di legittimità del decreto legge il cui contenuto è stato illustrato. 18.1. – Innanzitutto, va ricordato che l’odierna controversia riguarda esclusivamente la possibilità di svolgere, dal 4 maggio 2020 al 17 maggio 2020, l’attività di ristorazione con servizio al tavolo. In proposito, si osserva che l’art. 41 Cost., nel riconoscere libertà di iniziativa economica, prevede che essa non possa svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Come noto, non è prevista una riserva di legge in ordine alle prescrizioni da imporre all’imprenditore allo scopo di assicurare che l’iniziativa economica non sia di pregiudizio per la salute pubblica, sicché tali prescrizioni possono essere imposte anche con un atto di natura amministrativa. Non si coglie dunque un contrasto, in particolare nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tra la citata norma costituzionale e una disposizione legislativa che demandi al Presidente del Consiglio dei Ministri di disporre, con provvedimento amministrativo, limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti, allo scopo di affrontare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus COVID-19. Tanto più che, come rivela l’esame dell’art. 1 del d.l. n. 19 del 2020, il contenuto del provvedimento risulta predeterminato («limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande (...)»), mentre alla discrezionalità dell’Autorità amministrativa è demandato di individuare l’ampiezza della limitazione in ragione dell’esame epidemiologico. 18.2. – Non vi può essere dubbio che lo Stato rinvenga la competenza legislativa all’adozione del decreto de quo innanzitutto nell’art. 117, comma 2, lett. q) Cost., che gli attribuisce competenza esclusiva in materia di «profilassi internazionale». Ma la competenza legislativa si rinviene anche nel terzo comma del medesimo art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato competenza concorrente in materia di «tutela della salute» e «protezione civile». 18.3. – A tale ultimo proposito, occorrono alcune ulteriori osservazioni, che traggono le mosse dal duplice rilievo critico secondo cui l’impianto normativo delineato dal d.l. n. 19 del 2020 comporterebbe un’inammissibile delega al Presidente del Consiglio dei Ministri del potere di restringere le libertà costituzionali dei cittadini e comporterebbe un’alterazione alla ripartizione dei compiti amministrativi delineata dall’art. 118 Cost. Limitando, per evidenti ragioni, il campo dell’analisi alla sola possibilità di limitare o sospendere le attività di somministrazione al pubblico di cibi e bevande, il Tribunale ritiene di dover innanzitutto ribadire quanto già anticipato al § 18.1., e cioè che è la legge a predeterminare il contenuto della restrizione alla libertà di iniziativa economica, demandando ad un atto amministrativo la commisurazione dell’estensione di tale limitazione. Ciò posto, il fatto che la legge abbia attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di individuare in concreto le misure necessarie ad affrontare un’emergenza sanitaria trova giustificazione nell’art. 118, comma 1 Cost.: il principio di sussidiarietà impone che, trattandosi di emergenza a carattere internazionale, l’individuazione delle misure precauzionali sia operata al livello amministrativo unitario. 18.4. – Ma, una volta accertato che l’individuazione nel Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Autorità che deve individuare le specifiche misure necessarie per affrontare l’emergenza è conforme al principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., deve altresì essere affermato che ciò giustifica l’attrazione in capo allo Stato della competenza legislativa, pur in materie concorrenti quali la «tutela della salute» e la «protezione civile». È noto, infatti, che la Corte costituzionale ha ritenuto (sin dalla sentenza dell’1 ottobre 2003, n. 303, con cui ha per la prima volta teorizzato la c.d. chiamata in sussidiarietà) che l’avocazione della funzione amministrativa si deve accompagnare all’attrazione della competenza legislativa necessaria alla sua disciplina, onde rispettare il principio di legalità dell’azione amministrativa, purché all’intervento legislativo per esigenze unitarie si accompagnino forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni nel momento dell’esercizio della funzione amministrativa (cfr., sul punto, Corte cost. 22 luglio 2010, n. 278). Nel caso di specie, conformemente al principio enucleato dalla Corte costituzionale, l’art. 2 d.l. n. 19 del 2020 prevede espressamente che il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti i decreti sentiti – anche – i Presidenti delle Regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale. 18.5. – Quanto illustrato ai §§ che precedono esclude che si possa affermare che nel caso di specie siano stati attribuiti all’amministrazione centrale dello Stato poteri sostituitivi non previsti dalla Costituzione. L’art. 120, comma 2 Cost., invero, prevede che «il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». In tali casi deve essere seguita la procedura prevista dall’art. 8 l. 5 giugno 2003, n. 131. Ma, come supra specificato, nel caso di specie non vi è stato un intervento sostitutivo dello Stato, bensì avocazione delle funzioni amministrative in ragione del principio di sussidiarietà, accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa. 18.6. – Va conclusivamente affermato che le questioni di legittimità costituzionale del d.l. n. 19 del 2020 sollevate appaiono manifestamente infondate, onde non occorre rimetterle alla Corte costituzionale. 19. – Il d.P.C.M. 26 aprile 2020, dal canto suo, non è un atto a carattere normativo, bensì un atto amministrativo generale. Esso non può essere oggetto di disapplicazione da parte del giudice amministrativo, essendo piuttosto onere del soggetto interessato promuovere tempestivamente l’azione di annullamento. 20. – Giunti a questo punto, emerge chiaramente l’illegittimità dell’ordinanza del Presidente della Regione Calabria denunciata con il primo motivo di ricorso. Spetta infatti al Presidente del Consiglio dei Ministri individuare le misure necessarie a contrastare la diffusione del virus COVID-19, mentre alle Regioni è dato intervenire solo nei limiti delineati dall’art. 3, comma 1 d.l. n. 19 del 2020, che però nel caso di specie è indiscusso che non risultino integrati. Né l’ordinanza di cui si discute potrebbe trovare un fondamento nell’art. 32 l. n. 833 del 1978. Infatti, come correttamente messo in evidenza dall’Avvocatura dello Stato, i limiti al potere di ordinanza del Presidente della Regione delineati dall’art. 3, comma 1 d.l. n. 19 del 2020 valgono, ai sensi del successivo terzo comma, per tutti gli «atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente». 21. – È fondato, nei limiti di seguito specificati, anche il secondo motivo di ricorso. Invero, l’ordinanza regionale motiva la nuova deroga alla sospensione dell’attività di ristorazione, mediante l’autorizzazione al servizio al tavolo, con il mero riferimento del rilevato valore di replicazione del virus COVID-19, che sarebbe stato misurato in un livello tale da indicare una regressione dell’epidemia. È però ormai fatto notorio che il rischio epidemiologico non dipende soltanto dal valore attuale di replicazione del virus in un territorio circoscritto quale quello della Regione Calabria, ma anche da altri elementi, quali l’efficienza e capacità di risposta del sistema sanitario regionale, nonché l’incidenza che sulla diffusione del virus producono le misure di contenimento via via adottate o revocate (si pensi, in proposito, alla diminuzione delle limitazioni alla circolazione extraregionale). Non a caso, le restrizioni dovute alla necessità di contenere l’epidemia sono state adottate, e vengono in questa seconda fase rimosse, gradualmente, in modo che si possa misurare, di volta in volta, la curvatura assunta dall’epidemia in conseguenza delle variazioni nella misura delle interazioni sociali. Un tale modus operandi appare senza dubbio coerente con il principio di precauzione, che deve guidare l’operato dei poteri pubblici in un contesto di emergenza sanitaria quale quello in atto, dovuta alla circolazione di un virus, sul cui comportamento non esistono certezze nella stessa comunità scientifica. Si badi, che detto principio, per cui ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655), deve necessariamente presidiare un ambito così delicato per la salute di ogni cittadino come è quello della prevenzione (Corte cost. 18 gennaio 2018, n. 5). È chiaro che, in un simile contesto, ogni iniziativa volta a modificare le misure di contrasto all’epidemia non possono che essere frutto di un’istruttoria articolata, che nel caso di specie non sussiste. 22. – Va infine rilevata la fondatezza anche dell’ultimo motivo di ricorso. Sul punto, occorre ricordare come la violazione del principio di leale collaborazione costituisca elemento sintomatico del vizio dell’eccesso di potere (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 14 dicembre 2001, n. 9). Nel caso di specie, non risulta che l’emanazione dell’ordinanza oggetto di impugnativa sia stata preceduta da qualsivoglia forma di intesa, consultazione o anche solo informazione nei confronti del Governo. Anzi, il contrasto nei contenuti tra l’ordinanza regionale e il d.P.C.M. 26 aprile 2020 denota un evidente difetto di coordinamento tra i due diversi livelli amministrativi, e dunque la violazione da parte della Regione Calabria del dovere di leale collaborazione tra i vari soggetti che compongono la Repubblica, principio fondamentale nell’assetto di competenze del titolo V della Costituzione. 23. – In conclusione, per tutte le ragioni esposte l’ordinanza, nella parte oggetto di impugnativa, deve essere annullata. La novità, la complessità, la delicatezza della tematiche trattate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese e competenze di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto: a) dichiara inammissibile l’intervento di CODACONS - Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell'ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori; b) accoglie il ricorso e, per gli effetti, annulla l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria del 29 aprile 2020, n. 37, nella parte in cui, al suo punto 6, dispone che, a partire dalla data di adozione dell’ordinanza medesima, sul territorio della Regione Calabria, è «consentita la ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto»; c) compensa tra le parti le spese e le competenze di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2020 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Francesca Goggiamani, Referendario Giancarlo Pennetti, Presidente Francesco Tallaro, Primo Referendario, Estensore Francesca Goggiamani, Referendario IL SEGRETARIO
Covid-19 – Calabria – Ordinanza del Presidente della Regione Calabria n. 37 del 2020 - Ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto – Illegittimità.             É illegittima l’ordinanza del Presidente della Regione Calabria 29 aprile 2020, n. 37, nella parte in cui dispone che, a partire dalla data di adozione dell’ordinanza medesima, sul territorio della Regione Calabria, è “consentita la ripresa delle attività di Bar, Pasticcerie, Ristoranti, Pizzerie, Agriturismo con somministrazione esclusiva attraverso il servizio con tavoli all’aperto”, spettando al Presidente del Consiglio dei Ministri individuare le misure necessarie a contrastare la diffusione del virus COVID-19, mentre alle Regioni è dato intervenire solo nei limiti delineati dall’art. 3, comma 1, d.l. n. 19 del 2020, che però nel caso di specie è indiscusso che non risultino integrati (1).   (1) Il Tar Catanzaro ha accolto il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per l’annullamento dell’ordinanza del Presidente della Regione Calabria 29 aprile 2020, n. 37 - adottata ai sensi dell’art. 32, comma 3 l. 23 dicembre 1978, n. 833 per dettare misure per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 – nella parte in cui ha disposto che, sin dalla data di adozione dell’ordinanza, è consentita, nel territorio della Regione Calabria, la ripresa dell’attività di ristorazione, non solo con consegna a domicilio e con asporto, ma anche mediante servizio al tavolo, purché all’aperto e nel rispetto di determinate precauzioni di carattere igienico sanitario. L’ordinanza violerebbe gli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, d.l. 25 marzo 2020, n. 19 e sarebbe stata emanata in carenza di potere per incompetenza assoluta. Infatti, l’art. 2, comma 1, dell’atto normativo citato attribuisce la competenza ad adottare le misure urgenti per evitare la diffusione del Covid-19 e le ulteriori misure di gestione dell’emergenza al Presidente del Consiglio dei ministri, che provvede con propri decreti previo adempimento degli oneri di consultazione specificati. Per quel che rileva, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha provveduto con d.P.C.M. 26 aprile 2020 che, con efficacia dal 4 maggio 2020 al 17 maggio 2020, dispone la sospensione delle attività dei servizi di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) e, in via di eccezione, consente la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie sia per l’attività di confezionamento che di trasporto, nonché la ristorazione con asporto, fermo restando l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro, il divieto di consumare i prodotti all’interno dei locali e il divieto di sostare nelle immediate vicinanze degli stessi. Come visto, l’ordinanza regionale, in contrasto con quanto disposto dal d.P.C.M., ha autorizzato anche la ristorazione con servizio al tavolo.   Il Tar ha escluso che le prescrizioni del d.l. n. 19 del 2020 violino la Costituzione. Ha osservato che l’art. 41 Cost., nel riconoscere libertà di iniziativa economica, prevede che essa non possa svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Come noto, non è prevista una riserva di legge in ordine alle prescrizioni da imporre all’imprenditore allo scopo di assicurare che l’iniziativa economica non sia di pregiudizio per la salute pubblica, sicché tali prescrizioni possono essere imposte anche con un atto di natura amministrativa. Non si coglie dunque un contrasto, in particolare nell’attuale situazione di emergenza sanitaria, tra la citata norma costituzionale e una disposizione legislativa che demandi al Presidente del Consiglio dei Ministri di disporre, con provvedimento amministrativo, limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande, compresi bar e ristoranti, allo scopo di affrontare l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del virus Covid-19. Tanto più che, come rivela l’esame dell’art. 1, d.l. n. 19 del 2020, il contenuto del provvedimento risulta predeterminato («limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti, nonché di consumo sul posto di alimenti e bevande (...)»), mentre alla discrezionalità dell’Autorità amministrativa è demandato di individuare l’ampiezza della limitazione in ragione dell’esame epidemiologico. Non vi può essere dubbio che lo Stato rinvenga la competenza legislativa all’adozione del decreto de quo innanzitutto nell’art. 117, comma 2, lett. q, Cost., che gli attribuisce competenza esclusiva in materia di «profilassi internazionale». Ma la competenza legislativa si rinviene anche nel terzo comma del medesimo art. 117 Cost., che attribuisce allo Stato competenza concorrente in materia di «tutela della salute» e «protezione civile». A tale ultimo proposito, occorrono alcune ulteriori osservazioni, che traggono le mosse dal duplice rilievo critico secondo cui l’impianto normativo delineato dal d.l. n. 19 del 2020 comporterebbe un’inammissibile delega al Presidente del Consiglio dei Ministri del potere di restringere le libertà costituzionali dei cittadini e comporterebbe un’alterazione alla ripartizione dei compiti amministrativi delineata dall’art. 118 Cost. Limitando, per evidenti ragioni, il campo dell’analisi alla sola possibilità di limitare o sospendere le attività di somministrazione al pubblico di cibi e bevande, il Tribunale ritiene che è la legge a predeterminare il contenuto della restrizione alla libertà di iniziativa economica, demandando ad un atto amministrativo la commisurazione dell’estensione di tale limitazione. Ciò posto, il fatto che la legge abbia attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di individuare in concreto le misure necessarie ad affrontare un’emergenza sanitaria trova giustificazione nell’art. 118, comma 1, Cost.: il principio di sussidiarietà impone che, trattandosi di emergenza a carattere internazionale, l’individuazione delle misure precauzionali sia operata al livello amministrativo unitario. Ma, una volta accertato che l’individuazione nel Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Autorità che deve individuare le specifiche misure necessarie per affrontare l’emergenza è conforme al principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., deve altresì essere affermato che ciò giustifica l’attrazione in capo allo Stato della competenza legislativa, pur in materie concorrenti quali la «tutela della salute» e la «protezione civile». È noto, infatti, che la Corte costituzionale ha ritenuto (sin dalla sentenza dell’1 ottobre 2003, n. 303, con cui ha per la prima volta teorizzato la c.d. chiamata in sussidiarietà) che l’avocazione della funzione amministrativa si deve accompagnare all’attrazione della competenza legislativa necessaria alla sua disciplina, onde rispettare il principio di legalità dell’azione amministrativa, purché all’intervento legislativo per esigenze unitarie si accompagnino forme di leale collaborazione tra Stato e Regioni nel momento dell’esercizio della funzione amministrativa (cfr., sul punto, Corte cost. 22 luglio 2010, n. 278). Nel caso di specie, conformemente al principio enucleato dalla Corte costituzionale, l’art. 2 d.l. n. 19 del 2020 prevede espressamente che il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti i decreti sentiti – anche – i Presidenti delle Regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel caso in cui riguardino l'intero territorio nazionale. É quindi da escludere che nel caso di specie siano stati attribuiti all’amministrazione centrale dello Stato poteri sostituitivi non previsti dalla Costituzione. L’art. 120, comma 2 Cost., invero, prevede che «il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». In tali casi deve essere seguita la procedura prevista dall’art. 8, l. 5 giugno 2003, n. 131. Ma nel caso di specie non vi è stato un intervento sostitutivo dello Stato, bensì avocazione delle funzioni amministrative in ragione del principio di sussidiarietà, accompagnata dalla chiamata in sussidiarietà della funzione legislativa.
Covid-19
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/il-periodo-di-ferma-temporanea-del-militare-non-c3-a8-computabile-nella-ricostruzione-di-carriera
Il periodo di ferma temporanea del militare non è computabile nella ricostruzione di carriera
N. 00667/2020 REG.PROV.COLL. N. 01169/2017 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1169 del 2017, proposto da Davide Lazzaro, rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Gramegna, Barbara Busi, domiciliato presso la Tar Piemonte Segreteria in Torino, via Confienza 10; contro Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio; nei confronti Gabriele Fabian, non costituito in giudizio; per l'annullamento del decreto a firma del Direttore Generale per il Personale Militare n. M_D GMIL REG2017 0461790 del 17.8.2017, successivamente conosciuto, avente ad oggetto la rideterminazione dei gradi e delle anzianità assolute nel grado degli ufficiali dei Carabinieri appartenenti al ruolo speciale a seguito dell'entrata in vigore del d. lgs. n. 95/2017 nonché per l'annullamento, previa sospensione di ogni altro atto preparatorio, presupposto, inerente, conseguente e/o comunque connesso, cognito e non, nessuno escluso od eccettuato. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 ottobre 2020 la dott.ssa Paola Malanetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Il ricorrente è ufficiale dell’arma dei carabinieri in servizio permanente effettivo del ruolo speciale ad esaurimento, incorporato nell’arma nel 2003 quale allievo ufficiale a seguito di superamento di apposito corso formativo; in data 24.3.2004 è stato nominato sottotenente in ferma prefissata. Successivamente veniva immesso in servizio permanente effettivo nel ruolo di appartenenza; all’atto di immissione in servizio permanente l’anzianità di grado veniva azzerata. Con il d.lgs. n. 95/2017 è poi stato dato corso ad un complessivo riordino delle carriere degli ufficiali dei vari ruoli (speciale, normale, tecnico, forestale); in tale contesto le carriere degli ufficiali del ruolo speciale e ordinario sono state riallineate. Con decreto ministeriale del 17.8.2017 sono state effettuate le ricostruzioni di carriera, inclusi grado e anzianità assoluta, e la carriera del ricorrente veniva determinata a partire dalla nomina dello stesso in servizio permanente effettivo, in pratica escludendo i periodi di ferma temporanea. Lamenta parte ricorrente che siffatta soluzione violerebbe: 1-2) l’art. 2212 duodecies del d.lgs. n. 66/2010 e sarebbe afflitta da eccesso di potere per difetto di presupposto, travisamento, perplessità e disparità di trattamento; violazione dei principi di imparzialità e buon andamento; il mancato riconoscimento di quattro anni di servizio determinerebbe un vulnus alla carriera del ricorrente ed una disparità di trattamento tra soggetti i quali avrebbero di fatto svolto le medesime mansioni. In subordine lamenta: 3) l’illegittimità costituzionale derivata per violazione dell’art. 117 Cost., dell’art. 2212 duodecies; ove non fosse condivisa l’interpretazione prospettata in ricorso lamenta la parte che sussisterebbe una violazione degli artt. 3, 97 e 36 Cost. per disparità di trattamento tra situazioni identiche, ed ancora l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea di ogni forma di discriminazione tra il lavoro a termine e quello a tempo indeterminato. L’amministrazione resistente, ritualmente intimata, non si è costituita. All’udienza del 20.12.2017 parte ricorrente non insisteva per la decisione sull’istanza cautelare. All’udienza del 28.10.2020 la causa veniva discussa e decisa nel merito. DIRITTO Il ricorrente ha svolto dapprima un servizio in ferma temporanea, per essere poi immesso nel ruolo speciale ad esaurimento quale graduato in servizio permanente. La pur laconica esposizione del ricorso consente di comprendere che il ricorrente ha avuto accesso dapprima alla ferma prefissata e quindi, come risulta dallo stato di servizio, a domanda al ruolo speciale degli ufficiali in servizio permanente effettivo. Il ricorrente non prospetta alcun elemento circa la procedura che gli ha consentito di transitare in servizio permanente effettivo. Il cuore delle doglianze di parte ricorrente si appunta, sostanzialmente, avverso il solo mancato riconoscimento ad ogni fine del periodo trascorso in ferma prefissata, reclamando una retrodatazione della propria anzianità di servizio. Il ricorrente nulla riferisce o lamenta con riferimento alla procedura che ha indotto la sua immissione in ruolo, la cui disciplina potrebbe tuttavia rilevare, anche con effetti preclusivi, in relazione alla sua posizione. Ridotta tuttavia la domanda nei termini di cui al ricorso, ossia la sostanziale pretesa di retrodatazione della propria carriera ai fini di includervi il periodo di ferma prefissata, ritiene il collegio che la pretesa sia infondata. Parte ricorrente lamenta innanzitutto una violazione dell’art. 2212-duodecies del d.lgs. n. 66/2010, senza articolare la censura, sì da far comprendere in che termini una norma che disciplina esclusivamente il riallineamento dei periodi di anzianità in servizio permanente dovrebbe implicare l’obbligatorio computo anche dei periodi di ferma temporanea; in effetti il decreto del 17.8.2017, che ha individuato la sua posizione in ruolo nel servizio permanente, riallineando la sua carriera a quella di altri militari in servizio permanente, è dichiaratamente applicativo della disciplina dettata dall’art. 2212-duodecies del d.lgs. n. 66/2010. Quella che il ricorrente invoca non è dunque una interpretazione di una disposizione che non considera gli anni di ferma prefissata, ma, al più, una sua ortopedia integrativa in nome di superiori valori costituzionali o eurounitari. D’altro canto il reclutamento attraverso previa ferma prefissata, che ha anche funzioni di addestramento, formazione e valutazione delle qualità degli interessati, trova nel codice una propria separata ed apposita disciplina. Escluso quindi che la retrodatazione invocata in ricorso possa fondarsi sulle vigenti disposizioni, con il secondo motivo di ricorso si sostiene che una non piena equiparazione tra periodi di ferma temporanea e successiva ferma permanente violerebbe principi di rango costituzionale e più in specifico eurounitario, in particolare alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di lavoro a tempo determinato. Ritiene il collegio innanzitutto che la diversa disciplina di percorsi temporanei di accesso alla carriera militare escluda in radice profili di apprezzabile disparità di trattamento rispetto ai soggetti poi immessi in servizio permanente, proprio perché, nel caso di specie, il diverso trattamento consegue ai diversi percorsi ed alle diverse finalità del servizio; premesso che, come detto, il ricorrente non ha neppure dettagliato il proprio percorso di accesso, la presunta disparità viene fondata esclusivamente sulla comparazione delle mansioni, tralasciando che quello militare non è un comune rapporto di lavoro dipendente ma un vero e proprio status, la cui acquisizione presuppone plurime verifiche di idoneità non solo professionale, ed una apposita formazione, con implicazioni che vanno al di là della semplice mansione svolta, tant’è che, ad esempio, una determinata collocazione in ruolo, come evidenziato dallo stesso ricorrente, non incide solo sul trattamento economico ma anche sull’inserimento nella scala gerarchica nell’ambito delle forze armate. Quanto all’invocata applicazione della giurisprudenza eurounitaria in materia di contratti a termine, con lamentati possibili profili di violazione dell’art. 117 della Costituzione o più correttamente esiti di possibile disapplicazione, si osserva: la giurisprudenza eurounitaria si è sviluppata in tema di contratti di lavoro a termine, caratterizzati da scelte abusive del datore di lavoro (anche pubblico) per casi di reiterazione senza valida giustificazione di una serie di rapporti a tempo determinato tutti identici e con il sostanziale unico effetto di inserire stabilmente da subito in organico soggetti privi delle garanzie proprie dell’impiego a tempo indeterminato; essa non postula tuttavia affatto che qualsivoglia rapporto a tempo determinato immediatamente seguito da un rapporto a tempo indeterminato sia come tale abusivo. Il rapporto a tempo determinato, nel quadro di disciplina generale, può essere giustificato da “ragioni obiettive” che secondo la stessa Corte di Giustizia possono essere intese “nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in questo particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. 70 Tali circostanze possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro.” (Corte di Giustizia 4.7.2006 in causa C-212/04). Ora non vi è dubbio che il rapporto tra militari e Stato si caratterizza per assoluta peculiarità, anche nell’ambito dell’impiego pubblico. Non a caso il d.lgs. n. 66/2010, al libro IV titolo I, disciplina lo stato di militare e, all’art. 626, contestualmente la “gerarchia e subordinazione”; l’art. 627 co. 9 esplicita che: “Le carriere del personale militare sono disciplinate esclusivamente dal codice”, instaurando così un rapporto di chiara specialità del rapporto di “gerarchia e subordinazione” militare rispetto all’ordinario impiego pubblico; ancora l’art. 625 del d.lgs. n. 66/2010 rubricato: “Specificità e rapporti con l'ordinamento generale del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e altri ordinamenti speciali” esordisce facendo salvi i principi e gli indirizzi “di cui all'articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, nonché le disposizioni contenute nel presente codice” ; il citato art. 19 recita: “Art. 19 Specificità delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco 1. Ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale, è riconosciuta la specificità del ruolo delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché dello stato giuridico del personale ad essi appartenente, in dipendenza della peculiarità dei compiti, degli obblighi e delle limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, per le funzioni di tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna, nonché per i peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti….” In definitiva lo status di militare beneficia di un intero corpus normativo dichiaratamente speciale rispetto alla ordinaria disciplina del pubblico impiego, per altro spesso finalizzato, per la peculiarità dei compiti, a riconoscere agli interessati benefici specifici rispetto agli ordinari dipendenti pubblici. In siffatto contesto di specialità pare al collegio semplicistica l’invocazione tout court della identità di mansioni al fine di una retrodatazione del servizio permanente; in giurisprudenza si è infatti già affermato che: “La provvisorietà dell’impiego nel contesto militare è giustificata dal ricorso annuale o comunque periodico di personale a tempo determinato in ragione della necessità di mantenere un costante contatto delle Forze Armate con la realtà sociale del Paese. Tale scopo, prima ancora che garantire le consistenze organiche, è quello che caratterizza la diversità strutturale e funzionale dell’impiego a tempo determinato dei militari dagli altri dipendenti pubblici” (Tar Lazio sez. I bis n. 657/2016). La ferma prefissata, d’altro canto, si colloca come forma di reclutamento che presuppone formazione e plurime valutazioni degli aspiranti al servizio permanente. In definitiva pare al collegio che non sussistano i presupposti per l’invocata retrodatazione, stante l’obiettiva peculiarità che caratterizza la ferma prefissata nell’ambito dell’organizzazione militare. Il ricorso deve essere respinto. Le oscillazioni giurisprudenziali in materia giustificano la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, respinge il ricorso; compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 28 ottobre 2020 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Salamone, Presidente Savio Picone, Consigliere Paola Malanetto, Consigliere, Estensore Vincenzo Salamone, Presidente Savio Picone, Consigliere Paola Malanetto, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Militari, forze armate e di polizia - Militari – Ferma temporanea – Anzianità di servizio – Non è computabile.       È legittimo il mancato riconoscimento, nella ricostruzione di carriera di un militare, del periodo trascorso in ferma temporanea e, quindi, il riconoscimento del solo servizio permanente effettivo (1).  (1) Ha chiarito la Sezione che la conclusione cui è pervenuta in ordine alla non computabilità della ferma temporanea non genera disparità di trattamento rispetto ai soggetti poi immessi in servizio permanente, atteso che il diverso trattamento consegue ai differenti percorsi ed alle diverse finalità del servizio. Quello militare non è un comune rapporto di lavoro dipendente ma un vero e proprio status, la cui acquisizione presuppone plurime verifiche di idoneità non solo professionale, ed una apposita formazione, con implicazioni che vanno al di là della semplice mansione svolta, tant’è che, ad esempio, una determinata collocazione in ruolo non incide solo sul trattamento economico ma anche sull’inserimento nella scala gerarchica nell’ambito delle forze armate. Quanto all’invocata applicazione della giurisprudenza eurounitaria in materia di contratti a termine, con lamentati possibili profili di violazione dell’art. 117 Cost. o più correttamente esiti di possibile disapplicazione, ha chiarito la Sezione che la giurisprudenza eurounitaria si è sviluppata in tema di contratti di lavoro a termine, caratterizzati da scelte abusive del datore di lavoro (anche pubblico) per casi di reiterazione senza valida giustificazione di una serie di rapporti a tempo determinato tutti identici e con il sostanziale unico effetto di inserire stabilmente da subito in organico soggetti privi delle garanzie proprie dell’impiego a tempo indeterminato; essa non postula tuttavia affatto che qualsivoglia rapporto a tempo determinato immediatamente seguito da un rapporto a tempo indeterminato sia come tale abusivo. Ora non vi è dubbio che il rapporto tra militari e Stato si caratterizza per assoluta peculiarità, anche nell’ambito dell’impiego pubblico. Non a caso il d.lgs. n. 66 del 2010, al libro IV titolo I, disciplina lo stato di militare; lo status di militare beneficia di un intero corpus normativo dichiaratamente speciale rispetto alla ordinaria disciplina del pubblico impiego, per altro spesso finalizzato, per la peculiarità dei compiti, a riconoscere agli interessati benefici specifici rispetto agli ordinari dipendenti pubblici. ​​​​​​​In siffatto contesto di specialità la ferma prefissata, d’altro canto, si colloca come forma di reclutamento che presuppone formazione e plurime valutazioni degli aspiranti al servizio permanente. 
Militari, forze armate e di polizia
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sulla-legittimazione-ad-agire-dei-privati-cittadini-in-materia-di-gestione-del-servizio-idrico-integrato
Sulla legittimazione ad agire dei privati cittadini in materia di gestione del Servizio Idrico Integrato
N. 03338/2022 REG.PROV.COLL. N. 01654/2022 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.;sul ricorso numero di registro generale 1654 del 2022, proposto da Francesco Maria Farruggia, Rosario Di Fede, Gianluigi Mascellino, Federico Taormina, rappresentati e difesi dall’avv. Mauro Piazza, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, e con domicilio eletto presso lo studio del predetto difensore in Palermo, via Alessi n. 25; contro - il Comune di Trabia, in persona del Commissario Straordinario e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Giambrone, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, e con domicilio eletto presso lo studio del predetto difensore in Palermo, via Principe di Paternò n.56;- la Commissione Straordinaria del Comune di Trabia, non costituita in giudizio; nei confronti di AMAP S.p.A., non costituita in giudizio; per l'annullamento previa sospensione dell’efficacia - della Deliberazione del Commissario Straordinario del Comune di Trabia, n. 39 del 18/08/2022, avente ad oggetto: “PROVVEDIMENTI RELATIVI ALL'AFFIDAMENTO DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO IN FAVORE DEL GESTORE UNICO DELL'ATO PALERMO (AMAP S.P.A.) COME DA DELIBERAZIONE ATI N.5 DEL 14 LUGLIO 2020 - ACQUISTO DELLE AZIONI DELL'AMAP S.P.A.”; - di ogni atto conseguente, connesso e presupposto; NONCHE’ per il riconoscimento della salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato ai sensi dell’art. 147, nei confronti del Comune di Trabia. Visti il ricorso e i relativi allegati; Vista l’istanza cautelare presentata in via incidentale dalla parte ricorrente; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Trabia, con le relative deduzioni difensive; Visti gli articoli 55 e 60 cod. proc. amm.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2022, il consigliere dott.ssa Maria Cappellano, e uditi i difensori delle parti costituite, presenti come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO A. – Con il ricorso in esame gli odierni istanti, quali cittadini residenti del Comune di Trabia, impugnano la deliberazione del commissario straordinario n.39 del 18 agosto 2022, di acquisto delle azioni dell’AMAP S.p.a., con relativa adesione alla gestione unica del Servizio Idrico Integrato (SII) affidata alla predetta società. Espongono, in punto di fatto, che: - l’Assemblea Territoriale Idrica (ATI) – a seguito di apposita istruttoria per la verifica del possesso, in capo ai Comuni richiedenti, dei requisiti necessari per il riconoscimento della salvaguardia della gestione del servizio ex art.147 del d. lgs. n.152/2006 – ha deciso, con la deliberazione n.5 del 25 giugno 2020, di non riconoscere tali requisiti in capo al Comune di Trabia, il quale, pertanto, deve confluire nella gestione unica d’Ambito affidata ad AMAP S.p.a. con deliberazione n.10/2018; - il Commissario straordinario del Comune di Trabia ha adottato la contestata deliberazione del 18 agosto 2022, che i ricorrenti – cittadini residenti, in rappresentanza dei cittadini del Comune di Trabia – hanno interesse ad impugnare nella parte in cui non è stata riconosciuta la salvaguardia della gestione del servizio. Deducono avverso il provvedimento gravato le censure di: 1) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 141 E SS. DEL D.LGS. 267/2000 (T.U.E.L.) - ECCESSO DI POTERE DEL COMMISSARIO STRAORDINARIO DEL COMUNE DI TRABIA - DEVIAZIONE DEL POTERE PER VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI CORRETTEZZA, BUONA FEDE E DILIGENZA DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA; 2) VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’DALL’ART.147 COMMA 2 BIS LETTERA B) DEL DECRETO LEGISLATIVO 3 APRILE 2006, N.152 E SS.MOD. ED INTEGRAZIONI NONCHÉ DELL’ART.94 DEL D.LGS.VO 152/2006 - ECCESSO DI POTERE SOTTO IL PROFILO DELLO SVIAMENTO DELLA CAUSA TIPICA – MANIFESTA ILLOGICITÀ – DIFETTO DI ISTRUTTORIA – DISPARITÀ DI TRATTAMENTO - DEVIAZIONE DEL POTERE PER VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI CORRETTEZZA, BUONA FEDE E DILIGENZA DELL’AZIONE AMMINISTRATIVA; 3) VIOLAZIONE FALSA APPLICAZIONE DEL D.L. 179 DEL 2012 – ART.34, COMMA 20 – DELL’ART. 23 – BIS DEL D.L. N.112 DEL 2008 E SS. MOD. E INTEGRAZIONI E IN SEGUITO ALL’ART.4 DEL D.L. N.138 DEL 2011 E SS. MOD. ED INTEGRAZIONI – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ ARTICOLO 2 DELLA C.D. DIRETTIVA CONCESSIONI 2014/23/UE (SIGNIFICATIVAMENTE RUBRICATO “PRINCIPIO DI LIBERA AMMINISTRAZIONE DELLE AUTORITÀ PUBBLICHE”). Hanno chiesto l’annullamento di tale deliberazione, e altresì “il riconoscimento della salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato ai sensi dell’art. 147, nei confronti del Comune di Trabia”; con vittoria di spese. B. – Si è costituito in giudizio il Comune di Trabia, il quale ha reso noto di avere approvato, con deliberazione n.51 del 29 dicembre 2020, la dichiarazione di dissesto finanziario; ha quindi eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione attiva e, nel merito, ne ha chiesto il rigetto, in quanto infondato; con vittoria di spese. C. – Alla camera di consiglio del giorno 22 novembre 2022, presenti i difensori delle parti costituite, come da verbale, il Presidente del Collegio ha indicato, ai sensi dell’art.73, co.3, cod. proc. amm., i possibili profili di inammissibilità per difetto di legittimazione attiva e per mancata impugnazione della presupposta deliberazione dell’ATI, con contestuale avviso in ordine alla possibilità di immediata definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata. D. – Ritiene preliminarmente il Collegio che il giudizio può essere definito con sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm. e adottata in esito alla camera di consiglio per la trattazione delle istanze cautelari, sussistendone tutti i presupposti; possibilità, questa, espressamente indicata dal Presidente del Collegio. E. – Sempre in via preliminare deve essere esaminata l’eccezione, sollevata dalla difesa del Comune di Trabia, di difetto di legittimazione attiva, venendo in rilievo una questione che attiene direttamente ad una delle condizioni dell’azione. L’eccezione è fondata e il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Deve premettersi che: - la legittimazione e l’interesse al ricorso integrano condizioni dell’azione necessarie per consentire al giudice adito di pronunciare sul merito della controversia; e siffatte condizioni devono esistere al momento della proposizione della domanda processuale, e persistere fino alla decisione (Consiglio di Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; Sez. V, 27 gennaio 2016, n.265); - per giurisprudenza consolidata, “…il sistema di tutela giurisdizionale amministrativa ha il carattere di giurisdizione soggettiva e non di difesa dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, alla stregua di un'azione popolare, e non ammette, pertanto, un ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Cons. Stato sez. IV 6 dicembre 2013 n. 5830; sotto tale profilo cfr. anche Ad. Plen. n. 4/2011). La legittimazione processuale si rinviene solo in capo ai soggetti che presentino una posizione differenziata, in virtù della titolarità, a monte, di una posizione giuridica soggettiva sostanziale precipua. Il presupposto e nel contempo l'effetto, è che nel processo amministrativo, fatta eccezione per ipotesi specifiche in cui è ammessa l'azione popolare (ad esempio il giudizio elettorale), non è consentito adire il relativo giudice unicamente al fine di conseguire la legalità e la legittimità dell'azione amministrativa, ove ciò non si traduca anche in uno specifico beneficio in favore di chi la propone, il quale, a sua volta, deve trovarsi in una situazione differenziata rispetto al resto della collettività e non sia un quisque de populo…” (Consiglio di Stato, Sez. I, Adunanza di Sezione del 4 dicembre 2019, parere n. 03182/2019); - la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere infatti direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento, e postula l’esistenza di un interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto (v. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6309); - la legittimazione ad agire non è configurabile ove appaia finalizzata a tutelare interessi di mero fatto (v. Consiglio di Stato, Sez. V, 2 aprile 2014, n.1572, in un caso di impugnazione, da parte di cittadini residenti e utenti di servizi pubblici, di provvedimenti di riorganizzazione degli enti gestori; nello stesso senso, T.A.R. Campania, Sez. I, 29 maggio 2017, n. 2834). Applicando i su esposti principi al caso di specie osserva il Collegio che: - i ricorrenti impugnano una deliberazione con la quale il Comune ha deliberato di prendere atto dell’obbligo dell’affidamento del Servizio Idrico Integrato (SII) all’AMAP s.p.a., per il tramite dell’ATI Palermo e, conseguentemente, di autorizzare il legale rappresentante all’acquisto delle azioni dell’AMAP al fine di diventare socio della società; - rispetto a tale atto, i predetti agiscono nella spiegata qualità di cittadini residenti “in rappresentanza dei cittadini tutti del Comune”, e quali intestatari di contratti di servizio idrico, tutte qualità che non costituiscono titolo di accesso alla legittimazione a ricorrere avverso la deliberazione impugnata, in quanto non connotano, in termini di specifica qualificazione e differenziazione, la posizione giuridica dei ricorrenti rispetto a quella di altri cittadini residenti nel medesimo Comune. Va ulteriormente osservato che gli odierni istanti rispetto a tale provvedimento: - non dimostrano, se non con vaghe e generiche asserzioni legate ad un ipotetico aumento delle tariffe, quali specifiche e dirette conseguenze si verificherebbero nei confronti dei predetti e, quindi, dei cittadini residenti, dei quali i ricorrenti assumono impropriamente una funzione di rappresentanti, e che piuttosto vantano un interesse di mero fatto alla migliore gestione del servizio pubblico, la cui cura è demandata esclusivamente ai soggetti pubblici che degli stessi sono enti esponenziali; - lamentano, altresì, l’impossibilità di salvaguardare l’autogestione idrica nell’attesa che si esprima il competente organo consiliare, evidenziando un profilo di stretta pertinenza dell’ente locale, come del resto disvelato dalla domanda volta ad ottenere “il riconoscimento della salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato ai sensi dell’art. 147, nei confronti del Comune di Trabia”. In tal modo, pertanto, i ricorrenti tentano una sorta di azione popolare, non prevista dall’ordinamento se non in casi eccezionali, facendo valere con la presente azione un interesse di cui essi non sono titolari. Sotto tale profilo, sebbene la giurisprudenza abbia riconosciuto ipotesi di legitimatio ad causam a soggetti collettivi che rappresentano interessi “diffusi” di “categorie” ben individuate (professionisti, imprenditori, consumatori, ecc.) – casi nei quali la personalità dell’interesse coincide con quello riferibile ad una determinata collettività di soggetti, che l’ente esponenziale rappresenta e si propone di tutelare – tale speciale legittimazione, collegata ad una finalità di tutela collettiva, deve trovare uno specifico fondamento normativo (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303), e deve presentare ulteriori criteri di collegamento con l’interesse di volta in volta azionato in giudizio. Nel caso di specie all’evidenza non ricorre alcuna di tali ipotesi, in quanto ciascuno dei ricorrenti agisce in sostanza per il perseguimento di un interesse individuale, senza alcuna dimensione di tutela di interessi collettivi a cui l’ordinamento riconosce la speciale legittimazione ad agire appena accennata. Per tali ragioni il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di legittimazione ad agire. A tale (per vero troncante) profilo di inammissibilità deve aggiungersi l’ulteriore profilo, indicato in udienza dal Presidente del Collegio, della mancata contestazione della presupposta deliberazione n.5/2020 dell’ATI, che i ricorrenti in sostanza censurano senza che risulti essere stata ritualmente e tempestivamente impugnata e senza evocare in giudizio l’ATI; e tanto, pur avendo i predetti espressamente chiesto – come già sopra rilevato sul piano della carenza di legittimazione ad agire – “il riconoscimento della salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato ai sensi dell’art. 147, nei confronti del Comune di Trabia”, costituente l’oggetto specifico della deliberazione dell’ATI. La gravata deliberazione n. 39/2022, si pone, pertanto, in una fase “a valle” della decisione dell’ATI, di respingere la richiesta del Comune di Trabia avente ad oggetto la salvaguardia della gestione del servizio idrico ai sensi dell’art.147, co. 2 bis, del d. lgs. n.152/2006; e detta deliberazione si pone, rispetto al diniego adottato dall’ATI, quale provvedimento conseguenziale dell’ente locale, obbligato a confluire nella gestione unica del SII una volta esclusa la salvaguardia della gestione del servizio ai sensi del su citato art. 147. Va anche aggiunto, per completezza, che nelle premesse del provvedimento impugnato è stata indicata la deliberazione dell’ATI n.10/2020 – avente ad oggetto “Riconoscimento della salvaguardia della gestione del Servizio Idrico Integrato ai Comuni dell’ATI Palermo ai sensi dell’art. 147 comma 2 bis del DLGS 152/2006 e ss.mm.ii.. Sentenza TAR Sicilia Sez. Palermo RG n.1395/2020” – quale deliberazione con cui l’ATI non ha riconosciuto al Comune di Trabia il possesso dei requisiti per la salvaguardia della gestione ai sensi dell’art. 147 del d. lgs. n.152/2006 (cfr. punti 17 e 18 delle premesse della deliberazione impugnata); deliberazione n.10/2020 dell’ATI, alla quale i ricorrenti non fanno alcun cenno sebbene espressamente citata, con conseguente ulteriore profilo di inammissibilità. Conclusivamente, il ricorso in esame deve essere dichiarato inammissibile. F. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore del Comune di Trabia; nulla deve, invece, statuirsi con riguardo alle parti non costituite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara inammissibile. Condanna i ricorrenti, in solido fra di loro, al pagamento delle spese di giudizio in favore del Comune di Trabia, che liquida in € 1.500,00 (euro millecinquecento/00), oltre oneri accessori come per legge; nulla spese con riguardo alle parti non costituite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Salvatore Veneziano, Presidente Maria Cappellano, Consigliere, Estensore Luca Girardi, Referendario Salvatore Veneziano, Presidente Maria Cappellano, Consigliere, Estensore Luca Girardi, Referendario IL SEGRETARIO
Giustizia amministrativa – Legittimazione al ricorso – Servizio Idrico Integrato – Azione popolare - Inammissibilità È inammissibile per carenza di legittimazione ad agire il ricorso proposto da cittadini residenti, in qualità di intestatari di contratti di servizio idrico, in rappresentanza dell’intera collettività, qualora agiscano al fine di ottenere la tutela giurisdizionale di un interesse privo di specifica qualificazione e differenziazione. Infatti, in mancanza di specifiche e dirette conseguenze nella propria sfera giuridica, la salvaguardia della gestione del servizio idrico integrato rappresenta un interesse di mero fatto alla migliore gestione del servizio pubblico, la cui cura è demandata esclusivamente ai soggetti pubblici che dei cittadini sono enti esponenziali. Conformi: T.a.r. per la Lombardia, sez. I, 2 febbraio 2022, n. 235; T.a.r. per la Toscana, sez. III, 6 settembre 2021, n. 1159; T.a.r. per il Lazio, Latina, sez. I, 2 aprile 2019, n. 230. Difformi: non risultano precedenti difformi.
Giustizia amministrativa
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/rilevanza-ai-fini-espulsivi-della-mancata-ostensione-di-un-pregresso-illecito
Rilevanza ai fini espulsivi della mancata ostensione di un pregresso illecito
N. 00483/2019 REG.PROV.COLL. N. 00317/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 317 del 2019, proposto da Consorzio Stabile Argo Società Consortile a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Luigi Maria D'Angiolella, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Claudio Neri in Campobasso, via Mazzini n. 107; contro Anas S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata in Campobasso, via Garibaldi, 124; nei confronti Research Consorzio Stabile s.c. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carola Barbieri, Barbara Del Duca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l'annullamento a) della nota ANAS.CDGDAA.REGISTROUFFICIALE.P.0526967 del 18.09.2019, notificata a mezzo pec, con cui la Stazione Appaltante ha comunicato che è stata disposta, per la gara avente ad oggetto “Accordo quadro triennale per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria di viadotti, suddiviso in n. 3 lotti”, ed in particolare per il Lotto 2 Coordinamento Adriatica/Area Compartimentale Molise-Viadotti Molise (CIG: 7708569061), l’aggiudicazione definitiva in favore della ditta ReseArch Consorzio Stabile; b) del provvedimento di ammissione della ditta aggiudicataria alla procedura di gara; c) per quanto occorra, del verbale di gara rep. 11081 del 16.07.2019 - Proposta di aggiudicazione, richiamato nel provvedimento sub a); d) per quanto occorra, dei verbali con cui il Seggio di gara ha condotto le verifiche sulla documentazione amministrativa prodotta dai concorrenti interessati alla procedura concorsuale, mai notificati, di contenuto sconosciuto; e) per quanto occorra, del verbale di gara n. 1 Commissione di gara - 1^ seduta riservata di gara - REP. 10908 del 06.06.2019, del verbale di gara n. 2 - 2^ seduta pubblica di gara - REP. 10906 del 06.06.2019, del verbale di gara n. 3 seduta pubblica - REP. 11081 del 16.07.2019, del verbale 1^ seduta riservata - Commissione di gara, REP. 11082 del 16.07.2019, del verbale 2^ seduta riservata - Commissione di gara, REP. 11397 del 06.08.2019; f) per quanto occorra, del bando di gara; g) per quanto occorra, del disciplinare di gara; h) per quanto occorra, del capitolato speciale d’appalto; i) di ogni altro atto preordinato, connesso e conseguenziale comunque incidente negativamente sugli interessi del ricorrente; nonché per l’accertamento del diritto del Consorzio ricorrente ad ottenere l’aggiudicazione della commessa, oltre che per la declaratoria di inefficacia del contratto di appalto, ove eventualmente stipulato, e in via subordinata per il risarcimento per equivalente dei danni derivanti dall’esecuzione degli atti impugnati; Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Anas S.p.A. e di Research Consorzio Stabile s.c. a r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 dicembre 2019 il dott. Silvio Giancaspro e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il Consorzio Stabile Argo Società Consortile a r.l. ha agito dinanzi a questo TAR per l’annullamento del provvedimento con cui Anas s.p.a. ha aggiudicato l’“Accordo quadro triennale per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria di viadotti, suddiviso in n. 3 lotti” in favore di Research Consorzio Stabile, con particolare riferimento al Lotto n. 2 - Coordinamento Adriatica/Area Compartimentale Molise - Viadotti Molise (CIG: 7708569061), nonché del provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario alla procedura concorsuale e di tutti i presupposti atti e verbali di gara. Inoltre, il Consorzio Argo ha chiesto l’accertamento del suo diritto ad ottenere l’aggiudicazione della commessa e la declaratoria di inefficacia del contratto di appalto, nonché, in via subordinata, il risarcimento per equivalente dei danni derivanti dall’esecuzione degli atti impugnati. 2. In particolare, parte ricorrente ha esposto le seguente circostanze: - con bando pubblicato in data 11.01.2019, Anas S.p.A. ha indetto procedura aperta per l’affidamento dell’appalto avente ad oggetto la conclusione di un “accordo quadro triennale per l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria di viadotti, suddiviso in n. 3 Lotti”, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; - il Consorzio Argo ha partecipato al Lotto n. 2 – Coordinamento Adriatica/Area Compartimentale Molise – Viadotti Molise II; - all’esito delle operazioni di gara, l’appalto è stato aggiudicato al Consorzio Stabile Research, che aveva designato, come impresa esecutrice, la consorziata Infrastrutture s.r.l.; - il Consorzio Argo si è classificato al secondo posto della graduatoria con una differenza di 2,987 punti rispetto all’aggiudicatario, ed ha quindi esercitato il diritto di accesso agli atti di gara. 3. Ciò premesso parte ricorrente, anche avvalendosi di due relazioni tecniche entrambe allegate in atti, ha formulato le seguenti censure: - violazione dell’art. 80, co. 5 lett. c) ed f) bis, del d.lgs. 50/2016, dal momento che l’aggiudicatario ha omesso di dichiarare la “risoluzione contrattuale in danno” disposta dal Comune di Minori con deliberazione n. 35 del 21.05.2012 in relazione ai lavori di “adeguamento funzionale dell’approdo – stazione marittima” (motivo sub I); - violazione del criterio di valutazione di cui al punto B.4.1 del disciplinare di gara (che attribuisce fino a punti 5 alle “proposte migliorative per calcestruzzi”), atteso che la miglioria proposta dall’aggiudicatario (“protezione delle barre di armatura”) non riguarda i calcestruzzi ed è stata riferita ad una voce dell’elenco prezzi non pertinente (motivo sub II); - violazione del criterio di valutazione di cui al punto B.4.2 del disciplinare di gara (che attribuisce fino a punti 3 alle “proposte migliorative per impermeabilizzazioni”), dal momento che l’aggiudicatario ha previsto il miglioramento di “una malta cementizia … che non riguarda affatto l’impermeabilizzazione” ed è stata riferita ad una voce dell’elenco prezzi non pertinente (motivo sub III); - l’aggiudicatario ha proposto l’utilizzo dell’asfalto drenante che presenta “una serie di svantaggi” e non trova riscontro nella voce dell’elenco prezzi indicata nell’offerta, sicché appare illegittimo il punteggio attribuito dalla Commissione giudicatrice (punti 1,8 su 2) in riferimento al criterio di cui al punto B.4.3 del disciplinare di gara, che attribuisce fino a punti 2 alle “proposte migliorative per pavimentazioni” (motivo sub IV); - l’aggiudicatario “ha allegato uno studio preliminare della cantierizzazione dell’area oggetto di intervento e non ha prodotto specifici elaborati di interventi di manutenzione straordinaria su ponti o viadotti” come richiesto dal criterio di valutazione sub punto B.2 del disciplinare di gara, sicché non si giustifica il giudizio della Commissione giudicatrice che ha attribuito punti 6.5 su 10 (motivo sub V); - anche la “miglioria proposta da Research in riferimento al sub-elemento di valutazione B.3.3 non può in alcun modo essere presa in considerazione né tantomeno è meritevole del benché minimo punteggio”, risultando in contrasto con le prescrizioni del disciplinare di gara, da cui si evince che: “1) il sistema doveva essere realizzato con la strumentazione di elenco prezzi, mentre le singole attrezzature evidenziate nella Tavola 3: Accelerometro – Inclinometro – Sensore di deformazione – Sensore potenziale galvanico – non sono presenti nell’Elenco Prezzi a base gara; 2) il posizionamento della strumentazione deve costituire oggetto di successive valutazioni da parte della stazione appaltante (da esplicitarsi in occasione dei singoli contratti applicativi) ma il concorrente ha già condizionato la propria offerta a due sole campate e, quindi, annullato di fatto la propria miglioria per palese inutilità” (motivo sub VI); - il Consorzio Research ha designato quale impresa esecutrice la società Infrastrutture s.r.l., che però non è in possesso di certificazione SOA in corso di validità, né dell’iscrizione nella White list (motivo sub VII). 4. Si sono costituti in giudizio Anas s.p.a. ed il controinteressato, che hanno eccepito l’irricevibilità del ricorso per violazione del termine di decadenza di cui all’art. 120, co. 2 bis, c.p.a., ed hanno chiesto comunque il rigetto del ricorso, replicando analiticamente a ciascuna censura. 5. Nella udienza pubblica del 18.12.2019 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. In via preliminare deve essere rilevata la ricevibilità della domanda di annullamento, dal momento che il ricorso è stato notificato il 17.10.2019 nel rispetto del termine dimidiato di 30 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione (nota pec del 18.09.2019), Né può trovare applicazione nella specie l’art. 120, co. 2 bis, c.p.a., atteso che il ricorso è stato presentato allorquando la detta norma era stata già abrogata dall’art. 1, co. 22, del d.l. 18.04.2019 n. 32, con conseguente inapplicabilità del c.d. rito super accelerato ai sensi della norma transitoria di cui all'art. 1, co. 23, dello stesso decreto (in tal senso Consiglio di Stato, Sez. V, 09/09/2019 n. 6112). 7. Il ricorso è infondato. 7.1. Con il primo motivo parte ricorrente ha lamentato che l’aggiudicatario, avendo omesso di dichiarare la risoluzione contrattuale disposta dal Comune di Minori con delibera n. 35 del 21.05.2012, avrebbe falsamente attestato il possesso del requisito generale di partecipazione previsto dall’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, con conseguente violazione della lett. f) bis del medesimo comma, che sanziona con l’esclusione gli operatori che abbiano prodotto «nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere». A sostegno della censura il Consorzio Argo ha segnalato che la medesima questione ha già costituito oggetto di delibazione, in relazione ad altra procedura concorsuale, da parte del TAR Napoli che, con sentenza n. 2885/2019, ha ritenuto l’illegittimità dell’ammissione del Consorzio Research alla gara per violazione dell’art. 80, co. 5 lett. c), d.lgs. n. 50/2016, in ragione della omessa dichiarazione della risoluzione contrattuale disposta dal Comune di Minori, precisando altresì che la contestazione giudiziale dell’inadempimento (dinanzi al Tribunale di Salerno) non elide l’obbligo dichiarativo. 7.2. Al riguardo, occorre innanzi tutto osservare che parte ricorrente ha formulato la censura in esame con esclusivo riferimento alle disposizioni di cui all’art. 80, co. 5, lett. c) ed f) bis, del d.lgs. n. 50/2016, omettendo di considerare che la prescrizione sanzionatoria individuata dal combinato disposto di tali norme è ulteriormente precisata dal comma 10 dello stesso articolo 80 che, nel testo vigente ratione temporis, limita espressamente, sotto il profilo temporale, il perimetro degli illeciti professionali rilevanti ai fini della partecipazione e quindi, in ultima analisi, vale a conformare l’oggetto dell’obbligo dichiarativo. La predetta questione non ha assunto specifica rilevanza neanche nel percorso motivazionale articolato nella pronuncia del TAR Campania, e comunque non è stata delibata nel corpo motivazionale della sentenza. Invece, nel concreto caso di specie, la questione della collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati. 7.3. Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10, del d.gs. 50/2016 hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, nonché al comma 10 dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera f), del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale (11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (fissato al 22.02.2019). Le predette disposizioni stabiliscono che: - “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: … omissis … c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità; c-bis) l'operatore economico abbia tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure abbia fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione, ovvero abbia omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione; c-ter) l'operatore economico abbia dimostrato significative o persistenti carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili; su tali circostanze la stazione appaltante motiva anche con riferimento al tempo trascorso dalla violazione e alla gravità della stessa; … omissis …” (art. 80, co. 5); - “Se la sentenza di condanna definitiva non fissa la durata della pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, ovvero non sia intervenuta riabilitazione, tale durata è pari a cinque anni, salvo che la pena principale sia di durata inferiore, e in tale caso è pari alla durata della pena principale e a tre anni, decorrenti dalla data del suo accertamento definitivo, nei casi di cui ai commi 4 e 5 ove non sia intervenuta sentenza di condanna” (art. 80, co. 10). 7.4. Dalla piana esegesi del combinato disposto di tali norme si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo. In mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio. In tal senso è dirimente l’art. 57, co. 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione. Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma di cui all’”art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017” deve essere interpreto nel senso che “il termine decorre da quando è stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di risoluzione”(Cons. Stato, Sez. V, 6.5.2019 n. 2895). 7.5. Per inciso, si osserva che la norma oggi vigente, e cioè il comma 10 bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), del D.L. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, co. 7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento amministrativo recante la relativa contestazione. 7.6. Nel concreto caso di specie il provvedimento di risoluzione cui fa riferimento parte ricorrente è stato adottato dal Comune di Minori in data 21.05.2012, sicché al momento della pubblicazione del bando il termine triennale di rilevanza del fatto, nei termini stabiliti dalla normativa vigente ratione temporis, era già ampiamente decorso, la qual cosa esclude che l’aggiudicatario avesse l’obbligo di farvi menzione ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale: “la mancata ostensione di un pregresso illecito è rilevante – a fini espulsivi – non già in sé, bensì in funzione dell’apprezzamento della stazione appaltante, il quale va a sua volta eseguito in considerazione anzitutto della consistenza del fatto omesso … Il non aver comunicato una pregressa risoluzione anteriore al triennio, in sé priva d’attitudine espulsiva, non determina infatti una condotta falsa o inveritiera…” (Cons. Stato, Sez. V, 13.12.2019 n. 8480). 7.7. Parimenti infondate sono le ulteriori censure che si appuntano sulle valutazioni tecniche formulate dalla Commissione giudicatrice ai fini dell’attribuzione del punteggio all’offerta presentata dal consorzio aggiudicatario, dal momento che si tratta di contestazioni volte a sovrapporre l’apprezzamento soggettivo del Consorzio Argo al giudizio della commissione, che come tali impingono nel tratto libero del merito insindacabile dell’azione amministrativa. 7.8. Né emergono macroscopici profili di irragionevolezza dei giudizi espressi dalla Commissione giudicatrice e/o errori di fatto, che possano giustificane l’annullamento in sede giurisdizionale. 7.8.1. Per quanto riguarda il criterio sub B.4.1, la Commissione ha espressamente apprezzato il fatto che l’aggiudicatario avesse proposto “come miglioria la protezione delle barre di armatura con paste a base di zinco metallico puro al posto del tradizionale utilizzo degli anodi sacrificali”, che “permette sia la protezione attiva galvanica dei ferri di armatura sia la protezione passiva”, ciò che vale a riferire la valutazione ad una specifica tecnica costruttiva del calcestruzzo (i ferri di armatura), oltre che a correlare la miglioria alla lavorazione di cui al codice B.09.532 dell’elenco prezzi (“Opere d’arte – Lavori di ripristino di opere d’arte – Protezione attiva ferri d’armatura”), ed in definitiva giustifica l’attribuzione del relativo punteggio. 7.8.2. Lo stesso dicasi con riferimento al criterio sub B.4.2, dal momento che la Commissione ha apprezzato la proposta di “impermeabilizzazione del calcestruzzo” mediante “una malta cementizia certificata per essere impermeabile”. Il predetto giudizio risulta pertinente rispetto al criterio di riferimento e si appunta su una lavorazione che è stata coerentemente riferita dall’aggiudicatario al codice B.09.2015.a dell’elenco prezzi, che riguarda, tra l’altro, le malte preconfezionate. 7.8.3 Le contestazioni mosse avverso la proposta dell’asfalto drenante (criterio di valutazione sub B.4.3) riguardano presunti svantaggi del relativo materiale e non valgono a mettere in discussione il giudizio di particolare favore espresso dalla Commissione giudicatrice con (specifico) riferimento al fatto che “una pavimentazione aperta e porosa … è di primaria importanza per un ponte che attraversa un bacino destinato ad un utilizzo potabile”. Anche in questo caso non appare improprio il riferimento operato dall’aggiudicatario alla lavorazione di cui al codice D.021.024.a dell’elenco prezzi relativa alla pavimentazione stradale con bitume. 7.8.4. Quanto poi al fatto che, nel proporre il miglioramento di cui al criterio sub punto B.2 del disciplinare di gara, l’aggiudicatario non ha prodotto “elaborati di cantiere relativi agli interventi eseguiti”, ma schemi di cantierizzazione, si osserva che se pure è vero che in parte qua l’offerta dell’aggiudicatario non risponde in modo puntuale al criterio di valutazione, è parimenti vero che, in questo caso, la Commissione giudicatrice non ha attribuito il punteggio massimo (10) ma punti 6,5, sicché deve ritenersi che la carenza in questione sia stata opportunamente ponderata ai fini della valutazione complessiva della proposta migliorativa. 7.8.5. Né miglior sorte hanno le doglianze che riguardano il punteggio attribuito dalla Commissione giudicatrice in applicazione del criterio sub B.3.3. In particolare, si osserva che: - la possibilità di proporre miglioramenti che non trovano riscontro nell’elenco prezzi posto a base di gara era espressamente ammessa dal disciplinare di gara (pag. 41), con la precisazione che in questo caso il relativo costo resta a carico del concorrente; - la specifica tecnica dell’offerta migliorativa che prevede l’installazione della strumentazione su “due campate a scelta del Committente” costituisce una soluzione “aperta” (nel senso che rimette ad un momento successivo l’individuazione degli elementi strutturali su cui operare il monitoraggio) che non contrasta con alcuna previsione della disciplina di gara, ed è coerente con la prescrizione della lex specialis che rimette il posizionamento alle “modalità descritte nei singoli contratti applicativi”. 7.8.6. Anche la censura relativa alla mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla impresa esecutrice non può essere accolta, avendo la stazione appaltante adeguatamente documentato il possesso dell’attestazione SOA, oltre che la presentazione della dichiarazione prevista dalla lex specialis in caso di mancata iscrizione alla White list. 7.9. Dalla conferma delle risultanze della procedura concorsuale deriva l’infondatezza della ulteriori pretese aventi ad oggetto la condanna al risarcimento del danno ed il subentro nel contratto, pure articolate da parte ricorrente. 8. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore di Anas s.p.a. e di Research Consorzio Stabile s.c. a r.l. nella misura di € 2.000,00 per ciascuna parte, oltre IVA e c.p.a. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Campobasso nella camera di consiglio del giorno 18 dicembre 2019 con l'intervento dei magistrati: Silvio Ignazio Silvestri, Presidente Rita Luce, Primo Referendario Silvio Giancaspro, Referendario, Estensore Silvio Ignazio Silvestri, Presidente Rita Luce, Primo Referendario Silvio Giancaspro, Referendario, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Pregresso illecito professionale anteriore al triennio – Omessa dichiarazione – Art.80, commi 5 e 10, d.lgs. n.50 del 2016 – Obbligo dichiarativo – Non sussiste                     Dalla piana esegesi dell’art.80, commi 5 e 10, d.lgs. n.50 del 2016, nel testo vigente ratione temporis (gennaio-febbraio 2019), si evince che la risoluzione per inadempimento del contratto (e comunque la commissione di gravi illeciti professionali) assumono rilevanza ai fini della ammissione (e costituiscono quindi oggetto dell’obbligo dichiarativo) per un periodo di tempo non superiore a tre anni dalla data dell’accertamento definitivo; in mancanza di ulteriori indicazioni normative, la data dell’accertamento definitivo deve intendersi quella in cui è stato adottato il provvedimento amministrativo che ha accertato la violazione degli obblighi contrattuali ed ha quindi contestato la risoluzione in danno, e ciò a prescindere dalla eventuale impugnazione dello stesso provvedimento e dalla pendenza del relativo giudizio (1).   (1) Ha aggiunto il Tar che in tal senso è dirimente l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, dotata di efficacia diretta e verticale nell’ordinamento interno, nella parte in cui stabilisce che, nell’ipotesi in esame, il periodo di esclusione non deve superare i tre anni dalla “data del fatto”, ciò che evidentemente non consente di attribuire rilevanza ai fini della decorrenza del termine ad accadimenti successivi all’accertamento dell’inadempimento da parte dell’amministrazione. Il Tar ha chiarito che nel concreto caso di specie, la questione della collocazione temporale dell’illecito professionale assume una rilevanza centrale ed assorbente, nei termini appresso indicati. Le disposizioni di cui all’art. 80, commi 5 e 10,  d.gs. n. 50 del 2016 hanno subito ripetute modifiche nel corso del tempo e pertanto sussiste l’esigenza di individuare le norme applicabili alla fattispecie oggetto del giudizio. Nel caso di specie devono trovare applicazione, ratione temporis, le norme di cui al comma 5 dell’art. 80 d.lgs. 60/2016, nel testo introdotto dall'articolo 5, comma 1, del d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, nonché al comma 10 dello stesso articolo, nel testo modificato dall'articolo 49, comma 1, lettera f), del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, entrambe vigenti nel periodo compreso tra la data di pubblicazione del bando della procedura concorsuale (11.01.2019) ed il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (fissato al 22.02.2019). Sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito che “il riferimento alla definitività dell'accertamento” contenuto nella norma di cui all’art. 80, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella versione risultante all'esito delle modifiche apportate con il d.lgs. n. 56 del 2017” deve essere interpretato nel senso che “il termine decorre da quando è stato adottato l'atto definitivo, cioè di conclusione del procedimento di risoluzione”(Cons. St., sez. V, 6 maggio 2019, n. 2895) Il Tar ha osservato per inciso che la norma oggi vigente, e cioè il comma 10 bis, aggiunto dall'articolo 1, comma 20, lettera o), numero 5), d.l.. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla l.14 giugno 2019, n. 55, contiene prescrizioni sostanzialmente diverse, dal momento che prende espressamente in considerazione soltanto il caso in cui sia stato adottato un “provvedimento di esclusione” e stabilisce che, in caso di contestazione in giudizio del provvedimento amministrativo, il termine triennale decorre dalla data del passaggio in giudicato della relativa sentenza, ciò che vale indubbiamente ad aggravare la posizione del dichiarante che abbia inteso insorgere in giudizio, in termini che non appaiono compatibili con la prescrizione di chiusura di cui l’art. 57, comma 7, della direttiva 2014/24/UE, che, come si è detto, non consente di attribuire rilevanza all’illecito dopo tre anni dalla data del fatto, a prescindere dalla eventuale contestazione giudiziale del provvedimento amministrativo.
Contratti della Pubblica amministrazione
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Ricorso per revocazione avverso il decreto decisorio del ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana
Numero 00484/2022 e data 03/10/2022 Spedizione REPUBBLICA ITALIANA CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA Adunanza delle Sezioni riunite del 20 settembre 2022 NUMERO AFFARE 00215/2021 OGGETTO: Presidenza della Regione Siciliana - Ufficio legislativo e legale. Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana proposto dal signor Lucio Laudani, rappresentato e difeso dall’avv. Rosario Venuto, contro il Comune di Lipari, per la revocazione del D.P. n. 17 del 22 gennaio 2020. LA SEZIONE Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 12210/82.20.8 in data 19 maggio 2021, con la quale la Presidenza della Regione Siciliana - Ufficio legislativo e legale ha chiesto il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa sull’affare consultivo in oggetto, nonché la nota prot. n. 12178/82.20.8 del 13 giugno 2022, con la quale il predetto Ufficio ha trasmesso l’integrale fascicolo cartaceo n. 146.08.8 del ricorso originario proposto dal ricorrente, in adempimento al parere interlocutorio n. 281/2022, reso nell’adunanza delle sezioni riunite del 24 magio 2022 Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Vincenzo Martines. Premesso e considerato 1. Il signor Lucio Laudani, rappresentato e difeso dall’avv. Rosario Venuto, con ricorso per revocazione trasmesso all’Ufficio legislativo e legale con raccomandata del 30 aprile 2020, previamente notificato al Comune di Lipari con raccomandata del 17 marzo 2020 ed inviato con p.e.c. del 15 maggio 2020 al Dipartimento regionale dell’urbanistica, ha chiesto la revocazione del D.P. n. 17 del 22 gennaio 2020, con il quale è stato respinto il ricorso straordinario iscritto al n. 146.08.8 dell’Ufficio legislativo e legale e n. 1077/2014 R.G. di questo Consiglio, proposto dal medesimo istante, per l’annullamento del provvedimento n. 31769 del 25 settembre 2007 del Comune di Lipari, di rigetto dell’istanza di condono edilizio in sanatoria. 2. Il ricorrente espone che, in data 1 marzo 1995, aveva chiesto al Comune di Lipari, ai sensi della legge n. 724/1994, la concessione edilizia in sanatoria per opere inerenti l’ampliamento della propria abitazione a Lipari, in località Vulcanello, realizzata su area identificata al catasto sez. Vulcano al foglio di mappa 1, particella 407, e che tale istanza, con provvedimento n. 31769 del 25 settembre 2007 del Comune di Lipari, veniva rigettata «in quanto le opere oggetto della domanda di sanatoria ricadono nella fascia di inedificabilità regolata dall’art. 15 lett. a) della l.r. n. 78/76». Proponeva avverso tale diniego ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana, definito con il D.P. n. 17 del 22 gennaio 2020, che ha rigettato la medesima istanza, in conformità al parere di questo Consiglio n. 132/2019, reso nell’adunanza delle sezioni riunite del 18 giugno 2019. Il suddetto parere fonda la decisione sulla relazione di verificazione tecnica del funzionario del Dipartimento regionale dell’urbanistica «dal cui esame emerge “inequivocabilmente che l’immobile oggetto di contestazione ricade totalmente all’interno dei mt. 150 dalla battigia e quindi all’interno del vincolo di inedificabilità assoluta di cui all’art. 15 della LR. 78/76”». 3. Il ricorso è affidato ai seguenti rubricati motivi. 3.1. «Errore di fatto ai sensi degli artt. 395, n. 4, del c.p.c. e 15 del d.p.r. n. 1199/1971 anche in combinato disposto con l’art. 391 bis del c.p.c. Violazione del parere interlocutorio del 08.04.2016 - nullità della relazione tecnica acquisita ed utilizzata ai fini della decisione - difetto di partecipazione del ricorrente violazione del diritto di difesa - nullità della Verificazione tecnica/inutilizzabilità errore in procedendo ex. art. 395 c.p.c. n. 4». Il Collegio aveva disposto, con parere interlocutorio n. 840/2016, reso nell’adunanza delle sezioni riunite del 24 maggio 2016, la verificazione tecnica invocata in ricorso dal ricorrente, disciplinandone la modalità esecutiva, con l’obbligo di comunicare l’avvio delle procedure di verificazione e il successivo inoltro della stessa. Il decreto decisorio gravato sarebbe affetto, secondo il ricorrente, da un evidente e manifesto errore revocatorio. Nel parere n. 132/2019 il Consiglio afferma che il ricorso deve essere respinto in ragione della inequivocabile violazione dell’art. 15 della legge regionale n. 78/1976, giungendo a tale determinazione in dipendenza esclusiva dall’esame della verificazione tecnica, depositata il 7 gennaio 2019, seppur eseguita nell’anno 2016. Dall’esame della relazione di verifica si rileva, palesemente, la violazione del diritto di difesa e di contraddittorio che è stata determinata dal verificatore, il quale non si è attenuto alle disposizioni a lui impartite con l’incarico, come disciplinato nel suddetto parere interlocutorio. Il ricorrente, non essendo stato avvisato dell’inizio delle operazioni, non ha potuto designare un proprio consulente, né esercitare il diritto difesa con il deposito di documenti o memorie nel successivo termine fissato. La verifica tecnica, già viziata per l’omesso avviso di avvio delle operazioni, è stata altresì eseguita senza l’esecuzione del rilievo topografico. Il vizio revocatorio è ancor più sussistente leggendo i contenuti della nota a firma del verificatore prot. n. 21295 dell’8 novembre 2016, nella quale si dà atto che l’accertamento di quanto demandato viene eseguito su cartografie, non essendo dotato di strumentazione specifica (topografo). Tale vizio procedurale «è stato trascinato nel parere definitivo» del Collegio, fatto proprio integralmente dal Presidente della Regione. 3.2. «Errore di fatto ai sensi degli artt. 395, n. 4, del c.p.c. e 15 del d.p.r. n. 1199/1971 sub specie di omessa pronuncia anche in combinato disposto con l’art. 391 bis c.p.c. Violazione di legge - vizio procedimentale - omessa autonoma valutazione del Presidente della Regione Siciliana». Secondo il ricorrente la decisione del ricorso straordinario da parte del Presidente della Regione Siciliana ha natura autonoma, anche se ancorato al parere dell’Organo consultivo. Nel caso in esame, in considerazione della compulsata attività della verificazione tecnica, il Presidente - a cui è affidato il diritto di potersi discostare dal parere del C.G.A. - avrebbe dovuto effettuare una autonoma valutazione degli atti e non «un copia ed incolla di quello che altri hanno scritto». Quanto sopra ha comportato, peraltro, il conseguente errore revocatorio di omessa valutazione della prima censura del ricorso straordinario, determinante ai fini dell’accoglimento dello stesso. La decisione si fonda sull’erroneo presupposto della violazione dell’art. 15 della legge regionale n. 78/1976 sulla scorta di una verificazione tecnica affetta da nullità assoluta, non trovandosi l’immobile del ricorrente all’interno della fascia di rispetto dalla battigia. 3.3. «Violazione di legge - omesso esame degli atti endoprocedimentali - nullità della verificazione tecnica - violazione del diritto di difesa e contraddittorio». Il parere interlocutorio, che ha disciplinato l’esercizio del diritto di difesa nell’espletamento dell’ammessa verificazione tecnica, non è stato verificato o esaminato. Sebbene il verificatore abbia inficiato tutto il procedimento, non avendo rispettato le modalità prescritte nel richiamato parere interlocutorio n. 840/2016, anche il Collegio ha determinato iure proprio un vizio procedurale che investe il diritto di difesa del ricorrente, meritevole di tutela e garanzia. 3.4. Per la fase rescissoria, il ricorrente insiste nei motivi del ricorso straordinario e, in particolare, sull’illegittimità dell’impugnato rigetto della domanda di condono, essendo certo che il fabbricato, anzi la pertinenza del fabbricato, non viola l’art. 15 della legge regionale n. 78/1976. Ribadisce, altresì, che la relazione tecnica giurata del 20 luglio 2005, a firma del geom. Renzo Giunta, redatta sulla base di un rilievo topografico, comprova l’esatta posizione del fabbricato oltre i 150 metri dalla battigia. 4. Il Comune di Lipari, con p.e.c. del 23 novembre 2020, ha trasmesso la documentazione utile per la trattazione del gravame e il rapporto previsto dall’art. 9 del d.P.R. n. 1199/1971. Con nota n. 13353 del 2 ottobre 2020, il Dipartimento regionale dell’urbanistica ha richiesto di essere estromesso. 5. Con nota n. 80 del 5 gennaio 2021, l’Ufficio legislativo e legale ha comunicato al ricorrente il completamento dell’acquisizione documentale istruttoria, con relativa facoltà di accesso, esercitata. 6. Il Collegio, in via preliminare, con parere interlocutorio n. 261, reso in esito all’adunanza delle Sezioni Riunite del 24 maggio 2022, ha disposto l’acquisizione del fascicolo cartaceo relativo al ricorso originario, restituito a seguito dell’emissione del parere da parte del Consiglio, onde potere disporre di tutta la documentazione necessaria per la decisione nel successivo ricorso ex art. 15 del d.P.R. n. 1199/1971. 7. L’Ufficio legislativo e legale, con nota prot. 12178/82.20.8 del 13 giugno 2022, ha trasmesso quanto richiesto. 8. Il ricorso, ricevibile poiché proposto il 17 marzo 2020, ancor prima della notifica del D.P. impugnato, avvenuta il 14 maggio 2020, come si evince dalla nota n. 6451 del 6 maggio 2020 del Dipartimento incaricato della notificazione e allegata p.e.c. di trasmissione al procuratore del ricorrente, è, tuttavia, inammissibile. 9. Il Collegio ritiene opportuno delineare, nei limiti che interessano, le coordinate giuridiche e giurisprudenziali relative al gravame revocatorio. L’art. 15 del d.P.R. n. 1199/1971 prevede che «[i] decreti del Presidente della Repubblica che decidono i ricorsi straordinari possono essere impugnati per revocazione nei casi previsti dall’art. 395 del codice di procedura civile.». Al riguardo, giova, innanzitutto, ricordare che la revocazione ordinaria disciplinata dall’art. 395 c.p.c. è un mezzo di gravame di carattere eccezionale. Il carattere di impugnazione eccezionale della revocazione, prevista per i soli motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., comporta l’inammissibilità di ogni censura non compresa in detta esaustiva elencazione ed esclude di conseguenza la deduzione di motivi di nullità afferenti alle pregresse fasi processuali (ex plurimis, Cassazione civile, sez. un., 25 luglio 2007, n. 16402). A ciò si aggiunga che «per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi.” (ex aliis Cass. Civ.Sez. Lav., sent. n. 1957 del 19 marzo 1983; Corte Conti reg., Sicilia, sez. giurisd., 14 maggio 1997, n. 112; Cons. Stato Sez. III, 24 maggio 2013, n. 2840).» (Cons. Stato, ad. plen, 20 dicembre 2017, n. 12). I motivi di revocazione sono, in conclusione, stabiliti in via tassativa e in numerus clausus dal codice di rito, e afferiscono tutti all’intrinseca giustizia del provvedimento impugnato; la revocazione è un rimedio “a critica vincolata”, con essa la decisione impugnata si assume errata, per ragioni che sono predeterminate dalla legge, e se ne sollecita la riforma. Col ricorso per revocazione in esame viene, in particolare, invocato l’errore di fatto previsto al n. 4 dall’art. 395 c.p.c.: «se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa. Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare». L’errore previsto dall’art. 395 c.p.c. come motivo di revocazione consiste in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo, incontestabilmente escluso dagli atti e documenti di causa, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo, che dagli atti e documenti medesimi risulti positivamente accertato. Al riguardo, giova evidenziare che l’errore cd. revocatorio non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche e, conseguentemente, restano al di fuori dell’elencazione tassativa tutti gli errori costituenti motivo di diritto. Sicché il suddetto errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche, in quanto integrerebbe gli estremi dell’error iuris, (ex plurimis, Cassazione civile, sez. lav., 10 giugno 2009, n. 13367). A ciò si aggiunga che l’errore di fatto, idoneo a costituire il vizio revocatorio previsto dall’art. 395, n. 4, deve consistere in un travisamento di fatti costitutivo di “quell’abbaglio dei sensi” che cade su un punto decisivo ma non espressamente controverso della causa (ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2020, n. 2408). Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa «si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (C.d.S., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385)” (Cons. Stato, Ad. plen., n.1/2013).» (Cons. Stato, sez. I, adunanza di sezione del 26 gennaio 2022, n. 531/2022). La ratio di tale condivisibile orientamento riposa nella necessità di evitare che l’impugnazione revocatoria si trasformi in una forma di gravame, teoricamente reiterabile più volte, idoneo a condizionare sine die la definitività di una pronuncia giustiziale, e scongiurare così che la revocazione divenga un nuovo grado di giudizio sugli stessi fatti espressamente già oggetto di decisione. Come condivisibilmente affermato in giurisprudenza, «il rimedio della revocazione ha peraltro natura straordinaria e non può convertirsi in un ulteriore grado di giudizio: l’errore di fatto, nella specie, è idoneo a fondare la domanda di revocazione se deriva da una errata percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio che abbia indotto il giudice a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto e se attiene ad una questione non controversa sulla quale la decisione non abbia espressamente motivato, oltre ad essere decisivo ai fini della pronuncia (cfr. Cons. St., Ad. Pl., n. 1 del 2013).» (Cons. Stato, sez. I, adunanza di sezione del 12 gennaio 2022, n. 693/2022). Alla luce dei superiori principi deve accertarsi, innanzitutto, se ricorra nel caso in esame uno dei motivi per i quali la revocazione è ammessa e, poi, se il motivo idoneo eventualmente accertato abbia costituito un punto controverso e, comunque, abbia formato oggetto di decisione nella sentenza impugnata, o meglio sia il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice. 10. Il Collegio rileva che, alla luce delle superiori coordinate ermeneutiche, tutti i motivi di ricorso esulano dalle ipotesi di revocazione previste dall’articolo 395 c.p.c. 10.1. Col primo e terzo motivo, che possono trattarsi congiuntamente, il ricorrente lamenta la nullità della verificazione tecnica perché non effettuata dal funzionario del Dipartimento regionale dell’urbanistica secondo le modalità indicate nel parere interlocutorio n. 840 del 24 maggio 2016 e, in particolare, per l’omesso avviso di avvio delle operazioni, nonché denuncia la violazione del diritto di difesa e contraddittorio. Con le superiori censure il ricorrente rileva, in buona sostanza, la violazione del principio del contradditorio, che esula, palesemente, dall’errore di fatto. L’omessa comunicazione dell’inizio delle operazioni di verifica, così come il mancato utilizzo del topografo, non hanno nulla a che vedere con l’errore di fatto revocatorio, il quale si configura come «un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa» (Cons. Stato, sez. IV, 22 aprile 2022, n. 3062). La violazione del principio del contraddittorio, ancora, potrebbe semmai integrare gli estremi dell’error iuris e non una errata valutazione o interpretazione delle risultanze processuali, sicché non ricorre l’errore revocatorio. Al riguardo, giova, in ogni caso, ricordare che «l’eventuale difetto del contraddittorio durante le operazioni di verificazione, sebbene previsto nell’ordinanza di ammissione del mezzo di prova, in quanto si traduce nella inosservanza di un ordine istruttorio, che non trova corrispondenza in una norma prescrittiva di forme processuali, non sembra, pertanto, potere configurare una fattispecie di nullità, non richiedendo, di conseguenza, di per sé, la rinnovazione della verificazione all’uopo espletata» (Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2020, n.4458; Cgars, sez. giurisd., 16 ottobre 2020, n. 936). Deve ancora aggiungersi che il ricorso ha ad oggetto un fatto, l’accertamento della distanza del fabbricato dalla battigia, che è stato un punto controverso sul quale il Collegio si è pronunciato. Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che «[p]er errore su un punto controverso, come tale non rilevante ai fini del ricorso per revocazione, si intende quello formatosi su un punto che nella sentenza impugnata è stato deciso in base all’apprezzamento delle risultanze processuali, alla loro valutazione e alla loro interpretazione da parte del Giudice» (Cons. Stato, IV, 3 marzo 2022, n. 1517). Ed ancora «l’errore di fatto, che consente di rimettere in discussione la decisione del giudice con il rimedio straordinario della revocazione, è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende invece ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio,» (Cons. Stato, sez. I, adunanza di sezione del 9 febbraio 2022, n. 304/2022). Nel caso che ne occupa la verificazione effettuata dal funzionario del Dipartimento regionale dell’urbanistica è stata oggetto di apprezzamento con un giudizio di fatto sull’efficacia probatoria e sulla sua decisività da parte del Collegio, il quale non ne ha ritenuto compromessa l’attendibilità per il mancato rispetto delle modalità previste dal parere interlocutorio n. 840/2016, né tantomeno per la sua mancata comunicazione, di cui si dà dato atto nel parere Cgars, sez. riun., 18 giugno 2019, n. 132, ove si legge «[v]isionata tale relazione, non trasmessa a suo tempo per mero disguido, risulta evidente che l’immobile in questione è stato costruito entro i 150 metri dalla battigia e pertanto il presente ricorso va respinto.». Sul punto, giova sottolineare che la verificazione è mezzo di prova consente al giudice di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che ad una Amministrazione “terza ”, anche alla stessa Amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, senza che ciò implichi violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, in quanto l’onere istruttorio viene diretto all’Amministrazione in quanto autorità pubblica che, in tale specifica qualità, deve collaborare con il giudice al fine di accertare la verità dei fatti (vds. Cons. Stato, sez. III, 4 maggio 2016, n.1757). Allo stesso il decidente modo non ha ritenuto inficiato l’accertamento compiuto sulla distanza dalla battigia per il mancato utilizzo del topografo, in quanto, secondo la «relazione sull’esecuzione della ortofoto», oggetto della verifica in questione, l’errore massimo è di 2 m. e l’errore quadratico medio è uguale o inferiore a 1 m. Considerata la distanza dalla battigia accertata tra un minimo di 128 m. e un massimo di 143,1 m. è del tutto ininfluente l’utilizzo di una diversa apparecchiatura o metodologia per la misurazione e, di conseguenza, il Collegio ha concluso «risulta evidente che l’immobile in questione è stato costruito entro i 150 metri dalla battigia e pertanto il presente ricorso va respinto.». Sotto tale profilo emerge, ulteriormente, l’inammissibilità in quanto l’errore di fatto revocatorio si ritiene «debba cadere su atti o documenti processuali, con esclusione dei casi in cui la dedotta erronea percezione degli atti di causa ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice.» (Cons. Stato, IV, 24 gennaio 2022, n. 431). In altri termini è inammissibile, il ricorso per revocazione tutte le volte che tenda ad una nuova valutazione dei medesimi fatti già oggetto di apprezzamento e di valutazione del materiale probatorio, ai fini della formazione del convincimento, perché opinando in tal modo si verrebbe ad introdurre un ulteriore grado di giudizio non previsto dall’ordinamento. 10.2. Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso col quale il ricorrente lamenta la mancata autonoma valutazione del Presidente della Regione, a cui spetta la decisione sul ricorso straordinario. Si tratta all’evidenza di una censura inammissibile perché non riconducibile a nessuno dei motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., a cui espressamente rinvia l’art. 15 del d.P.R. n. 1199/1971 (vds. Cassazione civile, sez. un., 25 luglio 2007, n. 16402). Al riguardo giova ricordare che, seppur il parere reso dal Cgars è obbligatorio, ma non vincolante (secondo l’art. 9, comma 5, del d.lgs. n. 373/2003 «Qualora il Presidente della Regione non intenda decidere il ricorso in maniera conforme al parere del Consiglio di giustizia amministrativa, con motivata richiesta deve sottoporre l’affare alla deliberazione della Giunta regionale.»), in presenza di un accertamento oggettivo, quale la verificazione del funzionario del Dipartimento regionale dell’urbanistica già valutato dal Collegio, una decisione difforme del Presidente della Regione non avrebbe potuto trovare argomenti tali da supportare un’adeguata motivazione sulle ragioni del dissenso - obbligo di motivazione, giova sottolineare, necessariamente molto più intenso nel caso in cui si intenda disattendere il parere di una sezione del Consiglio di Stato (quale il Cgars), che è, secondo la nostra Carta Fondamentale, organo di rilievo costituzionale e il massimo «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100 Cost.) - venendosi così a determinare perfino un atto illegittimo (vds. Cgars, adunanza di sezione del 25 febbraio 2020, n. 61). 11. Il Collegio, in conclusione, ritiene che il ricorso per revocazione non riesca a superare la fase rescindente e che, quindi, debba essere dichiarato inammissibile. P.Q.M. Il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana esprime il parere che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile. IL SEGRETARIO Giuseppe Chiofalo
Ricorsi amministrativi - Ricorso straordinario al presidente della regione siciliana – Revocazione ​​​​​​​ La censura di mancata autonoma valutazione del caso da parte del Presidente della Regione Sicilia, a cui spetta la decisione sul ricorso straordinario, rispetto al parere reso dal C.g.a., non è riconducibile a nessuno dei motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., ai fini della proponibilità della revocazione, a cui espressamente rinvia l’art. 15 del d.P.R. n. 1199/1971. Il carattere di impugnazione eccezionale della revocazione, prevista per i soli motivi tassativamente indicati nell’art. 395 c.p.c., comporta l’inammissibilità di ogni censura non compresa in detta esaustiva elencazione ed esclude di conseguenza la deduzione di motivi di nullità afferenti alle pregresse fasi processuali. Attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi. L’omessa comunicazione dell’inizio delle operazioni di verificazione non integra l’errore di fatto revocatorio, il quale si configura come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa. La violazione del principio del contraddittorio potrebbe semmai integrare gli estremi dell’error iuris e non una errata valutazione o interpretazione delle risultanze processuali, sicché non ricorre l’errore revocatorio. La verificazione è mezzo di prova che consente al giudice di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che a un’Amministrazione “terza”, anche alla stessa Amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, senza che ciò implichi violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, in quanto l’onere istruttorio viene diretto all’Amministrazione in quanto autorità pubblica che, in tale specifica qualità, deve collaborare con il giudice al fine di accertare la verità dei fatti.
Ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/applicabilit-c3-a0-della-l.-689-del-1981-ai-procedimenti-sanzionatori-delle-autorit-c3-a0-amministrative-indipendenti
Applicabilità della l. 689 del 1981 ai procedimenti sanzionatori delle Autorità amministrative indipendenti
N. 10359/2022REG.PROV.COLL. N. 06338/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6338 del 2021, proposto da Forship S.p.A. Unipersonale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Antonella Turci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità di Regolazione dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Seconda) n. 00343/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 settembre 2022 il Cons. Francesco De Luca e udito per la parte ricorrente l’avvocato Antonella Turci; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con delibera n. 101 del 2019 l’Autorità di Regolazione dei Trasporti (per brevità, anche Autorità o ART) ha accertato la violazione, nei confronti dell’odierna appellante, degli articoli 16, paragrafo 1, 17, paragrafo 1, e 18, paragrafo 1, del Regolamento (UE) n. 1177/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativo ai diritti dei passeggeri che viaggiano via mare e per vie navigabili interne e che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004. Per l’effetto, l’Autorità ha irrogato alla società: - ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del d.lgs. 129/2015, una sanzione amministrativa pecuniaria di 2.300,00; - ai sensi dell’articolo 14, comma 1, del d.lgs. 129/2015, una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 103.415,00: nonché - ai sensi dell’art. 12, comma 1, del d.lgs. 129/2015, una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 6.500,00. In particolare, secondo quanto emergente dal provvedimento in parola, la società Forship s.p.a., vettore marittimo per il trasporto di passeggeri, in relazione alla tratta Golfo degli Aranci-Piombino dell’11 agosto 2018, con partenza programmata alle ore 7:30 ed arrivo alle ore 15:30, sarebbe stata responsabile di plurime violazioni della disciplina unionale a tutela dei diritti dei passeggeri che viaggiano via mare e per vie navigabili interne, avendo omesso: (i) di fornire informazioni sul ritardo maturato in partenza, sulla situazione e sull’orario di arrivo previsto; (ii) di fornire la prescritta assistenza in caso di ritardata partenza; (iii) di osservare l’obbligo di trasporto alternativo o di rimborso del prezzo del biglietto in caso di partenza ritardata. 2. L’operatore economico ha impugnato la delibera n. 101/2019 e gli atti connessi, deducendone l’illegittimità per violazioni formali, procedimentali e sostanziali. 3. Il Tar adito ha rigettato il ricorso, ravvisando l’infondatezza delle censure attoree. 4. La società Forship s.p.a. ha appellato la sentenza di prime cure, evidenziandone l’erroneità con l’articolazione di sei motivi di impugnazione e la formulazione, in subordine, di una richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. 4.1 In particolare, con il primo motivo di appello è stata dedotta l’erroneità della sentenza gravata, per non avere rilevato l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio in ragione della mancata indicazione del termine di impugnazione e dell’autorità dinnanzi alla quale ricorrere. 4.2 Con il secondo motivo è stato censurato il capo decisorio con cui il Tar ha escluso la violazione dell’art. 14 L. n. 689/81, nonostante, secondo la prospettazione attorea, tale disposizione, applicabile nella specie, fosse stata violata dall’Autorità, in ragione della tardiva contestazione delle infrazioni in ipotesi commesse. 4.3 Con il terzo e il quarto motivo di appello è stata denunciata l’erroneità della decisione di prime cure, per non avere ravvisato la violazione del principio del contraddittorio (orale e cartolare) applicato alla fase decisoria. 4.4 Con il quinto motivo di appello la sentenza di prime cure è stata censurata nella parte in cui ha ravvisato l’esistenza delle infrazioni contestate all’operatore economico. Secondo la prospettazione attorea, la normativa in esame tenderebbe a proteggere il passeggero che, in caso di ritardo della nave, si trovi in banchina e privo di servizi e tutele, quando, invece, il passeggero già imbarcato, seppure a nave ferma, si troverebbe in un luogo perfettamente idoneo ad ospitarlo che gli garantirebbe la possibilità di muoversi, usare servizi ed essere costantemente informato dal personale di bordo o trovare la pronta e necessaria assistenza. Per l’effetto, soltanto il passeggero che rimane in banchina dovrebbe essere considerato meritevole di tutela e, dunque, in partenza ai fini della normativa alla base del provvedimento sanzionatorio. L’armatore, pertanto, non dovrebbe informare il passeggero del ritardo della nave anche dopo l’inizio delle operazioni di imbarco, tenuto conto che “solo il passeggero in partenza dal porto debba essere informato circa l’orario di inizio dell’imbarco e non già anche dopo che dette operazioni sono iniziate”. Per i ritardi successivi a tale momento, il rimedio sarebbe rappresentato solo dall’art. 19 Reg. UE. Peraltro, il termine di partenza nella specie avrebbe dovuto essere individuato nelle ore 08:50, corrispondente al diverso orario comunicato il giorno prima ai passeggeri e, in assenza di disposizioni specifiche sul punto, un’informativa fornita attraverso altoparlanti avrebbe dovuto ritenersi comunque idonea a raggiungere tutti i passeggeri. Il passeggero a bordo avrebbe, comunque, a disposizione il personale di bordo, venendo continuamente seguito e non abbandonato. Alla luce di tali rilievi, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, avrebbe dovuto negarsi la violazione degli artt. 17, 18 e 19 Reg. n. 1177/20 alla base del provvedimento impugnato in primo grado, non risultando integrati i presupposti per la configurazione delle relative infrazioni. 4.5. Con il sesto motivo di appello la sentenza di prime cure è stata censurata nella parte in cui ha ravvisato la corretta quantificazione delle sanzioni pecuniarie irrogate dall’Autorità. Nella specie, invero, non sussisterebbe alcun ritardo, tenuto conto che la partenza risultava riprogrammata per le ore 08:50 con adeguata informazione fornita a tutti i passeggeri nei giorni precedenti alla partenza; in ogni caso, il ritardo, ove in ipotesi esistente (tenuto conto dell’orario iniziale e del distacco della nave dalla banchina), sarebbe risultato di soli 12 minuti dopo lo scadere dei 90 minuti. L’autorità non avrebbe indicato i parametri o i criteri oggettivi sulla cui base affermare se la violazione fosse tenue, grave o media e, comunque, avrebbe violato i parametri di legge e il principio di proporzionalità. 4.6 Infine, la parte appellante ha sollevato talune questioni pregiudiziali unionali aventi ad oggetto: - la compatibilità della disciplina procedimentale interna con i principi unionali della separazione tra soggetto inquirente e giudicante e della tutela del contraddittorio; - la corretta interpretazione degli artt. 16, 17 e 18 del Reg. UE 1177/2010. 5. L’Autorità si è costituita in giudizio, resistendo al ricorso. 6. Le parti hanno depositato memoria conclusionale, insistendo nelle rispettive conclusioni. 7. La parte privata ha depositato, altresì, memoria di replica. 8. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 29 settembre 2022. 9. Con il primo motivo di appello, come osservato, è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha ritenuto che la mancata indicazione del termine di impugnazione e dell’autorità dinnanzi alla quale ricorrere non fosse idonea a determinare l’illegittimità degli atti impugnati, sia perché si faceva questione di informazioni non imposte sul piano formale, sia perché la loro assenza avrebbe dato luogo, al più, ad una causa di mera irregolarità. 9.1 Secondo la prospettazione attorea: - l’indicazione del termine di impugnazione e dell’organo dinnanzi al quale ricorrere sarebbe prescritta dall’art. 3 L. n. 241/90 e dall’art. 9 delibera ART n. 86/2015 (regolante il procedimento sanzionatorio per le violazioni del reg. UE n. 1177 del 2020), dovendo essere, dunque, presente in tutte le delibere dell’Autorità; - l’assenza di tali informazioni nella comunicazione di avvio del procedimento e nell’atto conclusivo avrebbe leso i diritti di difesa della parte cui le delibere erano dirette. 9.2 Il motivo di appello è infondato. 9.3 Sebbene la parte appellante rilevi correttamente che l’art. 9 delibera ART n. 86/2015 (recante il “regolamento sul procedimento sanzionatorio per le violazioni delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1177/2010 del parlamento europeo e del consiglio relativo ai diritti dei passeggeri che viaggiano via mare e per vie navigabili interne”) imponga, nell’ambito del provvedimento sanzionatorio, l’espressa “indicazione del termine per ricorrere all'autorità giurisdizionale cui è possibile proporre ricorso” – costituente, peraltro, un adempimento formale previsto in via generalizzata dall’art. 3 L. n. 241/90 –, deve ritenersi che una tale omissione non determini l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, traducendosi in una mera irregolarità valutabile, al più, per la concessione della rimessione in termini per errore scusabile in caso di impugnazione tardiva (ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 21 ottobre 2019, n. 7103). Nel caso di specie, non risulta che la parte privata abbia subito un vulnus ai propri diritti di difesa, essendo stata in condizione di approntare tempestivamente il ricorso giurisdizionale ai fini della tutela della propria posizione giuridica, agendo dinnanzi al Tar competente e svolgendo plurime e approfondite censure contro l’operato amministrativo in contestazione. L’appellante contesta, dunque, una difformità dell’atto dal proprio paradigma legale (per la mancata specificazione del termine di impugnazione e del Tar territoriale da adire in giudizio) inidonea a ledere l’interesse sostanziale sotteso alla disposizione formale disattesa, con conseguente emersione di una irregolarità insuscettibile di tradursi in un vizio di legittimità del provvedimento per cui è causa. 10. Con il secondo motivo di appello è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha escluso la violazione dell’art. 14 L. n. 689/81, ritenendo che tale previsione, nella parte in cui impone la tempestiva contestazione dell’addebito al supposto trasgressore, da un lato, non fosse applicabile nella specie, dall’altro, non fosse stata comunque violata dall’Autorità, per l’essere state tempestivamente contestate alla ricorrente le infrazioni in ipotesi commesse. 10.1 Secondo quanto dedotto in appello, l’art. 12 della L. n. 689/81 non potrebbe essere inteso nel senso di esonerare le autorità indipendenti dal rispetto del termine di cui all’art. 14 della medesima legge, operando le disposizioni di cui al Capo I L. n. 689/81 per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro “in quanto applicabili e salvo che non sia diversamente stabilito”, con conseguente applicabilità anche ai procedimenti di competenza delle autorità indipendenti. Nella specie, tale termine sarebbe stato violato, in quanto l’Autorità, come ammesso nella delibera n. 101/19, avrebbe concluso l’attività preistruttoria al più tardi il 4.12.2018, “mentre la delibera di apertura del procedimento è stata avviata solo l’11.4.2019” (pag. 19 ricorso in appello), con conseguente nullità di tutti gli atti all’uopo assunti. Né potrebbe argomentarsi diversamente sulla base della distinzione operata dall’Autorità – per mere ragioni organizzative interne – tra il procedimento di preistruttoria e il procedimento sanzionatorio, in quanto il procedimento dovrebbe, comunque, ritenersi avviato con l’atto di iniziativa, da riscontrare nella specie nel reclamo del passeggero del 22.10.2018 o, comunque, nel primo atto dell’Autorità successivo al reclamo. Ciò, tenuto conto pure dell’obbligo, sancito dall’art. 7 L. n. 241/90, di comunicare l’avvio del procedimento, non potendosi ritenere che il procedimento venga iniziato dopo la fase istruttoria. Di conseguenza, dovendo aversi riguardo alla data del reclamo o della conclusione della preistruttoria (asseritamente avvenuta il 4.12.2018), tenuto conto che la violazione è stata notificata all’operatore economico in data 11.4.2019, risulterebbe violato il disposto dell’art. 14 L. n. 689/81: l’Autorità, infatti, si sarebbe limitata a chiedere informazioni prima di contestare la violazione, avendo in sostanza già assunto un indirizzo nella scelta di esercitare il potere, per poi comminare la sanzione. 10.2 Il motivo di appello è infondato. L’appellante, pure argomentando correttamente in ordine all’applicabilità anche al procedimento sanzionatorio per cui è causa dell’obbligo di tempestiva contestazione dell’infrazione, ravvisa infondatamente la violazione (in concreto) di tale precetto, avendo, invero, l’Autorità provveduto alla tempestiva contestazione degli addebiti formulati nei confronti dell’operatore economico. 10.3 Sotto il primo profilo, afferente alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, rileva l’art. 14 L. n. 689/81, in forza del quale "gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati residenti nel territorio della Repubblica entro il termine di novanta giorni e a quelli residenti all'estero entro il termine di trecentosessanta giorni dall'accertamento". Al riguardo, il Collegio intende dare continuità all’indirizzo, già espresso dalla Sezione (09 maggio 2022, n. 3570), secondo cui le norme di principio contenute nel Capo I, L. 24 novembre 1981, n. 689, sono dotate di applicazione generale dal momento che, in base all'art. 12 della medesima legge, le stesse devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni per le quali è comminata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro. L'intento del legislatore è stato quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati, sia che conseguano ad illeciti qualificati 'ab origine' come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie. La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l'indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all'emissione dell'ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell'interessato), attiene ai principi del contraddittorio ed è garantita dalla L. n. 689 del 1981. Il termine per la contestazione delle violazioni amministrative ha natura perentoria, avendo la precisa funzione di consentire un tempestivo esercizio del diritto di difesa. L'ampia portata precettiva è esclusa soltanto alla presenza di una diversa regolamentazione di fonte normativa pari ordinata, che per il suo carattere di specialità si configuri idonea a derogare la norma generale e di principio. 10.4 Rivolgendo l’attenzione al procedimento sanzionatorio di competenza dell’Autorità per le violazioni del regolamento UE n. 1177 del 2010, il legislatore nazionale: - da un lato, ai sensi dell’art. 4, comma 1, d. lgs. n. 129 del 2015, ha previsto espressamente “[p]er l'accertamento e l'irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie da parte dell'Organismo” l’applicazione, “in quanto compatibili con quanto previsto dal presente articolo”, delle “disposizioni contenute nel capo I, sezioni I e II, della legge 24 novembre 1981, n. 689”, dimostrando, per l’effetto, la portata generale delle previsioni di cui alla L. n. 689/81, espressione di principi generali operanti in materia sanzionatoria, in specie (per quanto di interesse nella presente sede) in relazione ai procedimenti destinati a concludersi con l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria; - dall’altro, ai sensi dell’art. 4, comma 2, d. lgs. n. 129 del 2015, ha comunque imposto l’avvio del procedimento sanzionatorio “mediante contestazione immediata o la notificazione degli estremi della violazione”, valorizzando, per l’effetto, il tema della tempestiva conoscenza, da parte dell’incolpato, degli addebiti mossi nei suoi confronti. La stessa Autorità, nell’adottare il «Regolamento» per l'accertamento e l'irrogazione delle sanzioni de quibus (delibera del 15 ottobre 2015, n. 86), non soltanto si è astenuta dal dettare una disciplina incompatibile con l’obbligo di immediata contestazione, ma ha pure richiamato le disposizioni di cui al Capo I, L. 24 novembre 1981, n. 689, ivi compreso l’art. 14 in tema di immediata contestazione dell’infrazione. In particolare, alla stregua della complessiva disciplina dettata dalla delibera n. 86/2015, emerge che: - il Responsabile dell’Ufficio competente, una volta ricevuto un reclamo e compiuti gli accertamenti funzionali all’eventuale avvio del procedimento sanzionatorio, ove non ritenga di disporre l’archiviazione immediata del reclamo o, comunque, di formulare al Consiglio proposta di archiviazione, è tenuto a proporre “al Consiglio l'avvio di un procedimento sanzionatorio, predisponendo lo schema di atto di contestazione di cui all’articolo 5, comma 1” (art. 4, comma 5); - il Consiglio, sulla base degli elementi raccolti dall’Ufficio e valutati gli elementi comunque in suo possesso o portati a sua conoscenza da chiunque vi abbia interesse, quando ravvisa i presupposti per un intervento sanzionatorio, delibera l’avvio del procedimento (art. 5, comma 1); - l’atto di contestazione, che avvia il procedimento sanzionatorio, è notificato all'impresa con le modalità di cui all'articolo 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 5, comma 3); - per quanto non espressamente previsto nel regolamento si opera un rinvio “ai principi della legge 8 agosto 1990 n. 241, ove applicabili, alla legge 14 novembre 1995, n. 481, alle disposizioni del Capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto compatibili, nonché al Regolamento sanzionatorio” (art. 17). Per l’effetto, l’Autorità ha previsto espressamente un obbligo di contestazione dell’infrazione, ha rinviato all’art. 14 L. n. 689/81 in ordine alle modalità di notificazione dell’atto di contestazione, nonché, per quanto non diversamente previsto, ha ritenuto applicabili (in quanto compatibili) le disposizioni di cui al Capo I, sezione II, L. n. 689/81, comprendenti l’obbligo di tempestiva contestazione ex art. 14. Di conseguenza, deve ritenersi applicabile in materia il termine di “novanta giorni” stabilito dall’art. 14 L. n. 689/81, non ravvisandosi ragioni di incompatibilità con la disciplina regolamentare approvata dall’ART, parimenti fondata sulla tempestiva contestazione delle infrazioni. 10.5 Tale interpretazione è preferibile anche perché orientata dalla rilevanza costituzionale del principio di tempestività della contestazione, posto a tutela del diritto di difesa. In particolare, la soluzione proposta ‒ oltre che rispondente al canone ermeneutico di tipo sistematico ‒ si impone anche alla luce dell'obbligo di interpretazione conforme, quale logico corollario della natura sostanzialmente 'penale' delle sanzioni afflittive e della conseguente applicabilità ad esse dei principi fondamentali del diritto punitivo. Il principio di immediatezza della contestazione costituisce infatti un corollario del "giusto procedimento" sanzionatorio. Come osservato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 151 del 2021, sia pure con riguardo al termine di conclusione del procedimento sanzionatorio), in materia di sanzioni amministrative, il principio di legalità non solo "impone la predeterminazione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere, della configurazione della norma di condotta la cui inosservanza è soggetta a sanzione, della tipologia e della misura della sanzione stessa e della struttura di eventuali cause esimenti (sentenza n. 5 del 2021), ma deve necessariamente modellare anche la formazione procedimentale del provvedimento afflittivo con specifico riguardo alla scansione cronologica dell'esercizio del potere". 10.6 Al riguardo, giova precisare che i canoni di civiltà giuridica del diritto punitivo trovano sì applicazione nei procedimenti sanzionatori di carattere punitivo-afflittivo, ma non necessariamente con le stesse medesime modalità con le quali sono tutelati nei processi penali, dovendo la loro realizzazione adattarsi alle caratteristiche tecniche dell'azione amministrativa ed essere bilanciata con altri interessi di pari rango. Per questi motivi, il decorso dei novanta giorni è collegato dall'art. 14 della L. n. 689 del 1981, non già alla data di commissione della violazione, bensì al tempo di accertamento dell'infrazione. In particolare, come precisato dalla Sezione, “l'arco di tempo entro il quale l'Autorità deve provvedere alla notifica della contestazione, ai sensi dell'art. 14 della legge n. 689 cit., è collegato non già alla data di commissione della violazione, ma al tempo di accertamento dell'infrazione, da intendersi in una prospettiva teleologicamente orientata e quindi non già alla notizia del fatto sanzionabile nella sua materialità, ma all'acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita, implicante il riscontro dell'esistenza e della consistenza della infrazione e dei suoi effetti. Di conseguenza, il termine di novanta giorni previsto dal comma 2 dell'art. 14, L. n. 689 del 1981 cit. inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta - o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie - l'attività amministrativa intesa a verificare l'esistenza dell'infrazione, comprensiva delle indagini intese a riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell'infrazione stessa” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 giugno 2020, n. 3729). Ne discende la non computabilità del periodo ragionevolmente occorso, in relazione alla complessità delle singole fattispecie, ai fini dell'acquisizione e della delibazione degli elementi necessari per una matura e legittima formulazione della contestazione. 10.7 L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie conduce al rigetto del motivo di impugnazione. Nella specie, per quanto di maggiore interesse ai fini dell’odierno giudizio, dalla documentazione in atti emerge che: - a seguito dalla ricezione, in data 22.10.2018, del reclamo da parte di un passeggero (doc. 1 produzione Autorità di primo grado), l’Autorità, con nota del 14.12.2018 (doc. 2 produzione Autorità di primo grado), ha prontamente avanzato una richiesta di chiarimenti e di documenti al vettore marittimo per acquisire gli elementi conoscitivi necessari allo svolgimento dei propri compiti istituzionali, riguardanti il corretto adempimento delle disposizioni unionali in ipotesi violate; - l’operatore economico ha inviato una nota di riscontro in data 24.12.2018 (doc. 3 produzione Autorità di primo grado), con allegata documentazione relativa ad una visita ispettiva dell’autorità marittima; - con nota del 16.1.2019 (doc. 4 produzione Autorità di primo grado), l’Autorità ha rappresentato la non esaustività del riscontro fornito dall’operatore economico, chiedendo puntualmente un’integrazione delle informazioni rese in relazione a sei punti all’uopo elencati e rammentando l’esigenza di inviare a supporto delle deduzioni apposita documentazione giustificativa; - con nota del 5.2.2019 (doc. 5 produzione Autorità di primo grado), la società di trasporto marittimo ha provveduto “a fornire i dettagli richiesti” corredati da tre allegati; - con nota del 18.2.2019 (doc. 6 produzione Autorità di primo grado), l’Autorità, sulla base delle risultanze al tempo emerse, ha ravvisato l’apparente sussistenza dei presupposti per il riconoscimento delle compensazioni economiche di cui all’art. 19, par. 1, lett. b), regolamento UE n. 1177/2010 in ragione del ritardo all’arrivo in concreto registratosi; per l’effetto, l’operatore economico è stato invitato a provvedere al relativo versamento in favore del reclamante e dei suoi cinque accompagnatori; - con delibera dell’11.4.2019 (doc. 9 produzione attorea), notificata in pari data (come ammesso dall’appellante a pag. 22 del ricorso in appello), l’Autorità ha comunicato all’odierno appellante l’avvio del procedimento sanzionatorio. 10.8 Dalla documentazione in atti emerge che l’Autorità era in condizione di poter valutare la sussistenza dell’infrazione e, dunque, procedere alla relativa contestazione soltanto a partire dal 5.2.2019, giorno in cui l’operatore economico, ad integrazione di un primo riscontro soltanto parziale, ha fornito gli elementi informativi e documentali funzionali alla verifica della sussistenza di elementi idonei per avviare il procedimento sanzionatorio a carico dell’operatore economico. Con il primo riscontro, infatti, l’odierna ricorrente aveva omesso di fornire la documentazione e gli elementi informativi richiesti dall’Autorità per le verifiche di competenza, in tale modo non permettendo a questa di acquisire la piena conoscenza della condotta illecita, implicante (come osservato) il riscontro dell'esistenza e della consistenza della infrazione e dei suoi effetti. 10.9 In particolare, con la nota del 14.12.2018 l’Autorità aveva chiesto, ragionevolmente in considerazione delle infrazioni denunciate, di chiarire: - gli orari programmati di partenza e arrivo e gli orari effettivi di partenza e arrivo con idonee prove documentali (SOF); - se e con quale tempistica e modalità i passeggeri della nave erano stati informati ai sensi di quanto previsto dall’art. 16 regolamento n. 1177/2010 cit. allegando prova documentale della eventuale informativa ai passeggeri; - la causa del ritardo alla partenza, nonché il giorno e l’ora in cui si era verificata; - quando l’informazione sulla causa del ritardo era disponibile all’impresa; - l’orario di inizio dell’imbarco dei passeggeri e l’orario di inizio e fine del check in; - se e con quali modalità, a fronte del ritardo alla partenza di oltre 90 minuti rispetto all’orario programmato, erano stati offerti pasti e bevande gratuiti ai passeggeri in attesa della partenza, fornendo al riguardo adeguata documentazione di riscontro e, in caso negativo, l’indicazione delle ragioni per le quali non si era provveduto in tale senso, dando evidenza delle valutazioni effettuate; - se, a fronte del ritardo alla partenza superiore a 90 minuti, era stata offerta immediatamente ai passeggeri la scelta tra il trasporto alternativo verso la destinazione finale a condizioni simili e il rimborso del prezzo del biglietto, producendo documentazione di riscontro e indicando in caso contrario la relativa motivazione; - per quale motivo non era stata fornita in denaro la compensazione economica in caso di ritardo all’arrivo del 25% del prezzo del biglietto; - quale autorità marittima aveva proceduto ad effettuare i controlli ispettivi che avrebbero generato il ritardo e quando tali condotte erano state effettuate; - il numero esatto di passeggeri presenti a bordo della nave oggetto del reclamo. L’odierna ricorrente, riscontrando tale richiesta, si era limitata (con nota del 24.12.2018 cit.) ad indicare: - le ragioni del ritardo della traversata effettuata in data 11 agosto nella tratta Golfo Aranci/Piombino; - le modalità di comunicazione ai passeggeri della partenza ritardata; - le ragioni ostative al riconoscimento della compensazione economica ai passeggeri in caso di ritardo. L’operatore economico, a fronte dei molteplici documenti richiesti dall’Autorità, aveva inoltre allegato soltanto la comunicazione mail del 3.8.2018 dell’autorità marittima sulla necessità di procedere ad apposita attività ispettiva. L’Autorità, correttamente, con nota del 16.1.2019 cit., ha ravvisato l’incompletezza degli elementi informativi e documentali forniti, occorrendo ancora conoscere: - gli orari programmati di partenza e arrivo e gli orari effettivi di partenza e arrivo con idonee prove documentali (SOF); - se e con quale tempistica e modalità i passeggeri della nave erano stati informati ai sensi di quanto previsto dall’art. 16 regolamento n. 1177/2010 cit., occorrendo pure acquisire prova documentale della eventuale informativa ai passeggeri; - l’orario di inizio dell’imbarco dei passeggeri e l’orario di inizio e fine del check in; - se e con quali modalità, a fronte del ritardo alla partenza di oltre 90 minuti rispetto all’orario programmato, erano stati offerti pasti e bevande gratuiti ai passeggeri in attesa della partenza; - se, a fronte del ritardo alla partenza superiore a 90 minuti, era stata offerta immediatamente ai passeggeri la scelta tra il trasporto alternativo verso la destinazione finale a condizioni simili e il rimborso del prezzo del biglietto; - il numero esatto di passeggeri presenti a bordo della nave oggetto del reclamo. Soltanto con la nota del 5.2.2019 sono state fornite dall’operatore economico specifiche informazioni in ordine: - agli orari di partenza ed arrivo programmati; - al messaggio inviato al denunciante, all’uopo trasmesso all’Autorità; - agli orari effettivi di partenza e arrivo della traversata; - alle ragioni sottese alla decisione di non offrire, a fronte del ritardo in partenza, pasti o bevande gratuiti o la scelta di trasporto alternativo; - al libro giornale della motonave con la trasmissione del relativo stralcio. 10.10 Ne deriva che soltanto con il completamento, in data 5.2.2019, delle informazioni e dei documenti richiesti, l’Autorità è stata posta in condizione di acquisire piena conoscenza della condotta illecita, provvedendo alla contestazione della presunta infrazione. Considerata tale data - costituente il dies a quo del termine di novanta giorni ex art. 14 L. n. 689/81, perché corrispondente al momento in cui l’organo procedente ha acquisito la disponibilità degli elementi necessari per una matura e legittima formulazione della contestazione – la contestazione operata dall’Autorità l’11.4.2019 non poteva ritenersi tardiva. 11. Con il terzo e il quarto motivo di appello è impugnato il capo decisorio con cui il Tar ha ravvisato la coerenza tra il procedimento sanzionatorio in concreto osservato dall’Autorità e il parametro normativo di riferimento costituito dall’art. 4 L. n. 129 del 2015. 11.1 A giudizio della ricorrente, la disciplina dettata dall’Autorità, regolante il procedimento sanzionatorio per violazione del Reg. UE n. 1177/2010, non assicurerebbe una separazione tra la funzione inquirente e quella giudicante, tenuto conto che la relazione conclusiva non verrebbe comunicata alla parte oggetto del procedimento, privata per l’effetto del diritto di replica rispetto alle conclusioni dell’Ufficio Sanzioni; la stessa parte incolpata non sarebbe neppure posta in condizione di essere ascoltata dall’organo giudicante, venendo concessa l’audizione soltanto dinnanzi all’Ufficio Vigilanza e Sanzioni, organo inquirente. Nella specie una tale separazione di funzioni non vi sarebbe stata, in quanto l’audizione era stata ammessa soltanto dinnanzi all’organo dirigenziale e il Presidente dell’Autorità aveva firmato sia l’atto di apertura che di chiusura del procedimento. Ne deriva che il procedimento subito dall’appellante e il regolamento emanato dall’Autorità violerebbero i principi del contraddittorio, oltre che l’art. 41 Carta dei diritti fondamentali della UE e l’art. 4 D. Lgs. n. 129/15 e la delibera n. 57/15 regolamento ART (relativo allo svolgimento dei procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità, incentrata sulla doverosa comunicazione - a cura dell’Ufficio - della relazione finale anche alla parte e sulla possibilità per questa di essere sentita e di depositare memorie difensive davanti al Consiglio). Peraltro, l’art. 9 delibera n. 86/15, nella parte in cui non prevede la comunicazione della relazione di chiusura della fase istruttoria al soggetto nei cui confronti è stato aperto il procedimento con facoltà dello stesso di depositare memorie e/o richiedere l’audizione davanti al Consiglio, contrasterebbe pure con il principio per cui, quando disciplina gli aspetti procedurali relativi a materie regolate dalla UE, il legislatore nazionale non può adottare regole che differenzino in modo deteriore il trattamento delle situazioni giuridiche unionali rispetto al trattamento di quelle analoghe interne. 11.2 I motivi di appello sono fondati ai sensi di quanto di seguito precisato. 11.3 Sebbene la Sezione, in relazione ai procedimenti di competenza di altre Autorità amministrative indipendenti, abbia ritenuto sufficiente garantire ex post (in giudizio) un effettivo sindacato sui provvedimenti sanzionatori - non imponendosi ex ante (in sede amministrativa) forme di contraddittorio (orale e cartolare) analoghe a quelle giurisdizionali (n. 2081/21) - nella specie è lo stesso legislatore ad imporre, ai sensi dell’art. 4 L. n. 129 del 2015, l’attivazione del contraddittorio orale e cartolare e la distinzione tra funzioni ispettive e decisorie. In tali ipotesi, è necessario garantire alla parte appellante la possibilità di interloquire direttamente con il Consiglio, esercitando il proprio diritto di difesa anche durante la fase decisoria. Tale soluzione, del resto, oltre a derivare dalla peculiare disciplina primaria vigente in materia, è imposta: - dalla stessa disciplina regolamentare dettata dall’Autorità in relazione ai procedimenti sanzionatori per violazioni del Reg. UE n. 1177/10 (delibera n. 86/2015 cit.), in specie dall’art. 17, comma 1, ai sensi del quale “Per quanto non espressamente previsto nel presente regolamento si fa rinvio ai principi della legge 8 agosto 1990 n. 241, ove applicabili, alla legge 14 novembre 1995, n. 481, alle disposizioni del Capo I, sezioni I e II della legge 24 novembre 1981, n. 689, in quanto compatibili, nonché al Regolamento sanzionatorio”, dove per regolamento sanzionatorio si intende “il Regolamento per lo svolgimento dei procedimenti sanzionatori adottato dall'Autorità con delibera n. 15/2014 del 27 febbraio 2014” (art. 1, lett. aa), delibera n. 86/15). Tale ultimo regolamento, oggetto di relatio, prevede la comunicazione alle parti delle risultanze dell’istruttoria e la possibilità per le stesse di domandare l’audizione dinnanzi al Collegio (artt. 10 e 11 delibera n. 15/2014); pertanto, tali fasi, in quanto non espressamente previste dalla delibera n. 86/15, in virtù del rinvio al regolamento sanzionatorio operato dall’art. 17 delibera n. 86/15, devono ritenersi proprie anche del procedimento per cui è causa; - dal principio di equivalenza della tutela procedimentale, imposto dallo stesso diritto unionale, occorrendo che, ogniqualvolta il legislatore europeo demandi all’autonomia procedurale degli Stati membri la definizione delle modalità di tutela delle situazioni giuridiche riconosciute dalla disciplina sovranazionale, le scelte interne avvengano nel rispetto dei principii di effettività ed equivalenza, non potendo (sotto tale ultimo profilo) riconoscersi alle situazioni unionali una protezione minore rispetto a quella riservata alle situazioni interne. Nella specie, infatti, una diversa interpretazione – incentrata sull’applicazione del contraddittorio orale e cartolare previsto dal “Regolamenti sanzionatorio” ai procedimenti diversi da quelli concernenti il reg. UE n. 1177/10 - condurrebbe ad una protezione delle situazioni unionali (diritti dei passeggeri attribuiti dal reg UE n. 1170/10) minore rispetto a quella garantita per le situazioni giuridiche interne (diritti riconosciuti dalle disposizioni nazionali, attributive delle ulteriori potestà sanzionatorie dell’Autorità), per le quali la delibera n. 15/2014 cit. e ss. mm. ii. prevede, invece, la necessità di comunicare alle parti le risultanze dell’istruttoria e la possibilità per le stesse di domandare l’audizione dinnanzi al Collegio; ciò, in violazione del principio di equivalenza imposto dal diritto sovranazionale. Deve, dunque, ritenersi che l’Autorità, omettendo di comunicare le risultanze dell’istruttoria e impedendo lo svolgimento del contraddittorio cartolare e orale dinnanzi al Consiglio (organo decisorio), abbia leso le garanzie procedimentali previste in favore dell’operatore economico, in tale modo incorrendo in una violazione procedimentale inficiante la legittimità del provvedimento sanzionatorio. 11.4 Al riguardo, giova pure precisare che, sebbene l’appellante abbia dedotto l’illegittimità (anche) della delibera n. 86/15 cit. e nella specie si faccia questione più propriamente dell’illegittimità del (solo) provvedimento sanzionatorio – dovendo la delibera n. 86/15, correttamente intesa (alla luce della disciplina primaria, del principio di equivalenza della tutela procedimentale e della clausola di rinvio alla delibera n. 15/2014), ritenersi idonea ad imporre il contraddittorio cartolare e orale nella specie omesso – il motivo di appello è incentrato, comunque, sull’adozione di un atto sanzionatorio in assenza delle prescritte garanzie difensive. Difatti, la ricorrente ha chiaramente denunciato di essersi vista “applicare tre sanzioni senza aver mai potuto essere ascoltata dall’organo giudicante (il “Consiglio”) che ha deciso in merito all’applicazione di dette sanzioni” (pag. 26 ricorso in appello), nonché che “La relazione di chiusura istruttoria è atto di primaria importanza e la sua mancata comunicazione all’interessato impedisce a quest’ultimo una compiuta difesa con evidente lesione del diritto al contraddittorio e del giusto procedimento con conseguente illegittimità dell’atto emanato per evidente eccesso di potere, difetto di istruttoria e carenza di motivazione” (pag. 31 ricorso in appello). Emerge, pertanto, apposita censura, incentrata sulla lesione del diritto al contraddittorio e del giusto procedimento, motivata dalla mancata comunicazione della relazione di chiusura di istruttoria e dall’omesso svolgimento del contraddittorio dinnanzi al collegio, riferita all’ “atto emanato” e, dunque, al provvedimento sanzionatorio assunto in violazione di tali regole procedimentali; il che configura una censura, per le ragioni svolte, suscettibile di favorevole apprezzamento. 11.5 Acclarata la violazione procedimentale, non potrebbe evitarsi l’annullamento della delibera sanzionatoria impugnata in prime cure neppure facendo leva sulla previsione di cui all’art. 21 octies, comma 2, L. n. 241/90, non essendo palese che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non sarebbe stato diverso da quello in concreto adottato, ove fosse stato assicurato il contraddittorio durante la fase decisoria. Invero, pretermettendo tale essenziale garanzia, il Collegio ha assunto le proprie determinazioni sulla base della relazione dell’Ufficio procedente, senza acquisire elementi istruttori direttamente dalla parte privata, che, invero, ben avrebbero potuto condizionare in senso a sé favorevole l’esito del procedimento. In particolare, nella specie si fa questione della violazione: - degli artt. 16 e 17 reg. UE n. 1177/10, riguardanti i “passeggeri in partenza dai terminali portuali”, cui deve essere garantito (per quanto di maggiore interesse ai fini del giudizio in esame): a) in caso di ritardo alla partenza di un servizio passeggeri, un’informativa della situazione, dell'orario di partenza e dell'orario di arrivo previsti, da rendere quanto prima e comunque non oltre trenta minuti dopo l'orario di partenza previsto (art. 16); b) ove sia ragionevolmente previsto che la partenza di un servizio passeggeri subisca un ritardo superiore a novanta minuti rispetto all'orario previsto di partenza, l’offerta gratuita di spuntini, pasti o bevande in congrua relazione alla durata dell'attesa, purché siano disponibili o possano essere ragionevolmente forniti (art. 17); - dell’art. 18 reg. UE n. 1177/10, riguardante il “passeggero”, cui deve essere garantito (per quanto di maggiore interesse ai fini del giudizio in esame), ove sia ragionevolmente previsto che un servizio passeggeri subisca un ritardo alla partenza dal terminale portuale superiore a novanta minuti, l’immediata offerta tra: a) il trasporto alternativo verso la destinazione finale a condizioni simili, come indicato nel contratto di trasporto, non appena possibile e senza alcun supplemento; b) il rimborso del prezzo del biglietto e, ove opportuno, il ritorno gratuito al primo punto di partenza, come indicato nel contratto di trasporto, non appena possibile. Tali previsioni sembrano volte a tutelare la libertà contrattuale e l’integrità psico-fisica del passeggero, da informare delle ragioni del ritardo e degli orari stimati di partenza e arrivo, anche al fine di porlo in condizione – in caso di orario stimato di partenza ritardato di oltre 90 minuti - di scegliere se rinunciare al viaggio (chiedendo il rimborso del biglietto) o optare per un trasporto alternativo e, comunque, nelle more, di usufruire della necessaria assistenza primaria (spuntino e bibita). Se tali diritti sono certamente riconoscibili ai passeggeri che attendono l’imbarco in banchina o, comunque, presso il terminal, è dubbio (come correttamente dedotto dall’appellante, anche con la formulazione di appositi quesiti pregiudiziali interpretativi da sottoporre alla Corte di giustizia) se gli stessi siano riconoscibili a chi sia stato già imbarcato, tenuto conto che: - la possibilità di scelta tra trasporto alternativo e rimborso del biglietto in tali ultime ipotesi implicherebbe una generalizzata possibilità di sbarcare dalla nave; il che potrebbe generare gravi conseguenze aggravando pure la posizione degli altri passeggeri imbarcati che intendano usufruire del trasporto marittimo (si pensi al passeggero che abbia imbarcato l’automobile e intenda sbarcare per ottenere il rimborso del biglietto – in tali ipotesi lo sbarco del passeggero richiederebbe anche lo sbarco del veicolo, a sua volta foriero di complesse operazioni di riposizionamento di tutto il parco macchine, suscettibile di determinare ulteriori e gravi ritardi per la partenza della nave); - il passeggero a bordo ha comunque la possibilità di usufruire dei servizi di bordo (informativi e assistenziali), essendo in una posizione non del tutto assimilabile a quella del passeggero in attesa per l’imbarco; - in caso di ritardo all’arrivo, anche di varie ore, ai passeggeri, ai sensi dell’art. 19 dello stesso reg. UE, non è garantita neppure l’assistenza primaria (spuntino e bibita), ma solo una compensazione economica in ragione del ritardo maturato e della durata della tratta; ad ulteriore dimostrazione di come sia dubbia la possibilità di riconoscere l’assistenza di cui agli artt. 16, 17 e 18 cit. in favore di chi sia già in condizione di usufruire dei servizi di bordo. A fronte di tali dubbi interpretativi, sarebbe stato certamente utile il prescritto contraddittorio (cartolare e orale) dinnanzi all’Autorità, per consentire all’operatore economico di fornire, direttamente dinnanzi al Collegio, un apporto partecipativo idoneo a condizionare in senso a sé favorevole l’esito del procedimento sanzionatorio. 11.6. Il contraddittorio in fase decisoria, peraltro, assume particolare rilievo nel caso di specie, in cui si fa questione di un procedimento avente natura afflittiva, suscettibile di concludersi con l’irrogazione di una sanzione penale in senso lato, in relazione al quale risulta essenziale il rispetto delle garanzie procedimentali previste in favore della parte sottoposta ad accertamento (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 luglio 2018, n. 4211 e 12 febbraio 2020, n. 1047). Avuto riguardo al caso di specie, la sanzione irrogata dall’Autorità appellata e impugnata in prime cure, in ragione dei criteri di identificazione elaborati dalla giurisprudenza convenzionale e sopra esposti - e, in particolare, della natura della norma, posta a tutela di beni giuridici primari (tutela della sfera negoziale e dell’integrità psico-fisica dei passeggeri, bisognosi di particolare assistenza), del grado di severità della stessa e della sua funzione punitiva e deterrente -, deve ritenersi connotata da una natura afflittiva e “sostanzialmente” penale. Al riguardo, sebbene le garanzie imposte dall’art. 6 CEDU debbano ritenersi rispettate nel presente giudizio di “piena giurisdizione” - dovendosi, dunque, dare continuità al consolidato indirizzo giurisprudenziale accolto da questo Consiglio e supra richiamato -, qualora la normativa di settore preveda già in sede sostanziale garanzie procedimentali rafforzate in favore della parte sottoposta ad accertamento, regolando lo svolgimento di attività in contraddittorio, suscettibili di influire sulla compiuta ricostruzione del contesto in cui si inserisce la condotta denunciata e rilevanti ai fini delle conseguenti determinazioni all’uopo da assumere, l’inosservanza delle relative disposizioni non può essere ritenuta irrilevante, essendo, comunque, idonea a tradursi in un vulnus alle garanzie del giusto procedimento, per come declinate dalla normativa di riferimento, tali da acquistare particolare significato proprio con riferimento ai procedimenti sanzionatori di competenza delle c.d. Autorità amministrative indipendenti (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1596). 12. L’accoglimento del terzo e del quarto motivo di appello, determinando la riforma della sentenza appellata e l’integrale annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato in prime cure, è idonea a realizzare pienamente l’interesse sostanziale sotteso al ricorso, con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di censura, riguardanti l’esistenza dell’infrazione per cui è causa e il suo trattamento sanzionatorio. Nella specie si fa, infatti, questione di provvedimento sanzionatorio, a fronte del quale l’interesse (oppositivo) sostanziale, ascrivibile in capo alla parte ricorrente, coincide con la rimozione degli effetti sacrificativi prodotti dall’atto impugnato. La presente pronuncia caducatoria, difatti, pure ove emessa per vizi procedurali, risulta interamente satisfattiva dell’interesse attoreo, in quanto, da un lato, impedisce di invocare contro la parte ricorrente (anche per fini diversi da quelli prettamente amministrativi) un accertamento in ordine all’esistenza dell’infrazione contestata, dall’altro, elide ogni sacrificio patrimoniale, rimuovendo il titolo amministrativo sulla cui base poter procedere in executivis contro la parte privata e legittimando, in caso di avvenuto pagamento, la sua ripetizione stante la natura indebita (in ragione della sopravvenuta caducazione del titolo legittimante) della prestazione patrimoniale nelle more eseguita. Inoltre, non vantando la società ricorrente un interesse pretensivo e, dunque, non aspirando la stessa al conseguimento di un bene della vita oggetto di intermediazione amministrativa suscettibile di ulteriori valutazioni in sede di riedizione del potere, la ricorrente non potrebbe avere neppure l’interesse ad ottenere un pronunciamento sulle censure sostanziali, che imponga all’Autorità di provvedere al riesame del rapporto amministrativo al fine di assumere un atto satisfattivo per l’istante. 13. Alla luce dei rilievi svolti, l’appello deve essere accolto ai sensi e nei limiti sopra indicati; per l’effetto, in parziale riforma della sentenza gravata, deve essere accolto nei predetti limiti il ricorso di primo grado, con conseguente annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato dinnanzi al Tar e condanna dell’Autorità alla restituzione - ove non già avvenuta - in favore della ricorrente delle somme da questa corrisposte in mera ottemperanza del provvedimento sanzionatorio (doc. 11 fascicolo di primo grado). Come osservato, emergendo una prestazione indebita in ragione della sopravvenuta caducazione del titolo provvedimentale che la legittimava, deve accogliersi anche la domanda di condanna alla “restituzione degli importi pagati da Forship in forza della predetta delibera n. 101/2019, oltre interessi”, già formulata in primo grado e riproposta in appello, con la precisazione che, dovendosi presumere la buona fede dell’accipiens, pure in ragione della complessità del quadro regolatorio di riferimento alla stregua di quanto sopra rilevato, gli interessi devono decorrere dalla data della domanda. 14. La particolarità delle questioni esaminate giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata e in accoglimento parziale del ricorso di primo grado, annulla il provvedimento sanzionatorio impugnato e condanna l’Autorità alla restituzione - ove non già avvenuta - in favore della ricorrente delle somme da questa corrisposte in mera ottemperanza del provvedimento sanzionatorio. Compensa interamente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 settembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe, Presidente Stefano Toschei, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Francesco De Luca, Consigliere, Estensore Marco Poppi, Consigliere Carmine Volpe, Presidente Stefano Toschei, Consigliere Davide Ponte, Consigliere Francesco De Luca, Consigliere, Estensore Marco Poppi, Consigliere IL SEGRETARIO
Atto amministrativo – Impugnazione – Termine – Autorità giurisdizionale – Omessa indicazione – Illegittimità – Non sussiste – Errore scusabile. La mancata esplicitazione del termine di impugnazione nonché dell’organo giurisdizionale dinnanzi al quale ricorrere, nei termini legalmente scanditi nell’art. 9 della delibera ART n. 86 del 2015 (regolante il procedimento sanzionatorio per le violazioni del reg. UE n. 1177 del 2020), non determina l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, stante la sua sostanziale inidoneità lesiva; integra, per contro, una mera irregolarità, valutabile ai fini della concessione della rimessione in termini per errore scusabile in caso di impugnazione tardiva. (1) Sanzione amministrativa pecuniaria – Legge n. 689 del 1981 – Normativa di principio. Le norme di principio contenute nel Capo I, della l. n. 689 del 1981 sono dotate di applicazione generale, dal momento che, in base all’art. 12 della medesima legge, le stesse devono essere osservate con riguardo a tutte le violazioni per le quali è comminata la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro. (2) Sanzione amministrativa – Contestazione – Obbligo – Termine – Novanta giorni – Decorrenza – Dall’accertamento dell’infrazione. In carenza di una diversa regolamentazione di fonte normativa primaria, anche nei procedimenti sanzionatori di competenza dell’Autorità dei Trasporti opera la disposizione di cui all’art. 14 della l. n. 689 del 1981 (norma per altro richiamata nella delibera della medesima Autorità 15 ottobre 2015, n. 86, recante disposizioni in materia sanzionatoria), sull’obbligo d’immediata contestazione dell’infrazione, entro il termine di novanta giorni. (3) Il dies a quo del termine di novanta giorni coincide temporalmente non con la data di commissione della violazione, bensì con il tempo di accertamento dell’infrazione, da intendersi in una prospettiva teleologicamente orientata all’acquisizione della piena conoscenza della condotta illecita, mediante il riscontro effettivo della sua consistenza e dei suoi effetti. Ne discende che il detto termine inizia a decorrere solo dal momento in cui si è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in relazione alla complessità della fattispecie, l’attività amministrativa di verifica della sussistenza di tutti gli elementi soggettivi e oggettivi dell’infrazione stessa. Sanzione amministrativa – Contraddittorio – Obbligatorietà – Illegittimità. Nei procedimenti sanzionatori dell’Autorità dei trasporti vige il principio del contraddittorio prescritto dall’art. 4 della l. n. 129 del 2015, che rende necessaria l’interlocuzione con l’interessato anche durante la fase decisoria, in esplicazione del diritto di difesa. E’ pertanto illegittima la sanzione irrogata senza la previa comunicazione della relazione di chiusura di istruttoria e senza il preventivo svolgimento del contraddittorio dinnanzi al collegio. Ciò a maggior ragione se, alla luce dei criteri di identificazione elaborati dalla giurisprudenza (norma posta a tutela di beni giuridici primari, grado di severità della sanzione, funzione punitiva e deterrente), la sanzione irrogabile abbia natura precipuamente afflittiva e sostanzialmente penale. (4) Giustizia amministrativa – Azione di annullamento – Obbligo del giudice di esaminare tutti i motivi – Limiti – Integrale annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato – Assorbimento dei restanti motivi. L’accoglimento di uno o più motivi in grado d’appello, tale da determinare la riforma della sentenza appellata e l’integrale annullamento del provvedimento sanzionatorio impugnato, è idoneo a realizzare pienamente l’interesse sostanziale sotteso al gravame, con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di censura, riguardanti l’esistenza dell’infrazione per cui è causa ed il suo trattamento sanzionatorio. (5) (1) Trattarsi di giurisprudenza consolidata sin da Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1. (2) Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2022, n. 3570. (3) In termini, cfr. Corte cost., n. 151 del 2021, sia pure con riguardo al termine di conclusione del procedimento sanzionatorio. (4) Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2018, n. 4211; idem, 12 febbraio 2020, n. 1047. (5) Contra, tuttavia, Cons. Stato, Ad. plen., 14 febbraio 2001, n. 1; idem, Ad. plen. 27 aprile 2015, n. 5, §§ 9.3.2., 9.3.3., 9.3.4.2.
Atto amministrativo
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/sull-ammissibilit-c3-a0-del-ricorso-ad-algoritmi-informatici-nel-procedimento-amministrativo
Sull’ammissibilità del ricorso ad algoritmi informatici nel procedimento amministrativo
N. 07003/2022 REG.PROV.COLL. N. 05119/2021 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Terza) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5119 del 2021, proposto da Aniello Lamanna, rappresentato e difeso dall'avvocato Vincenza Gentilcore, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Agea - Agenzia per Le Erogazioni in Agricoltura, Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Diaz 11; Regione Campania, non costituito in giudizio; per l'annullamento previa sospensione a – della nota prot. n. 2021.982730 del 3.08.2021, notificata a mezzo pec in data 20.09.2021, con la quale Agea, a seguito della applicazione di un nuovo algoritmo di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni, ha rielaborato la domanda di pagamento del ricorrente relativa all'anno 2019 per la Misura 13.1.1 “Indennità compensativa zone montane” del PSR Campania 2014 – 2020, accertando una indebita percezione di un importo pari ad € 4.734,97, che è stato iscritto nel Registro Debitori AGEA ed oggetto di recupero ai sensi del Regolamento UE n. 809/2013; b - della nota prot. n. 2021.980431 del 3.08.2021, notificata a mezzo pec in data 20.09.2021, con la quale Agea ha rielaborato anche per l'anno 2018 la domanda di pagamento dell'indennità compensativa del ricorrente, accertando la indebita percezione di un importo pari ad € 95,67, che è stato iscritto nel Registro Debitori Agea ed oggetto di recupero ai sensi del Regolamento UE n. 809/2013; c – di qualsiasi ulteriore atto dispositivo, regolamentare e/o circolare adottato da AGEA, di estremi e contenuto non conosciuti, idoneo ad incidere sulla modalità di calcolo dell'importo percepito dal ricorrente per gli anni 2018 – 2019; d – di tutti gli atti istruttori, di estremi e contenuto non conosciuti, che hanno condotto al ricalcolo dell'importo già versato al ricorrente a titolo di indennità compensativa per gli anni 2018 – 2019; e – di tutti gli atti presupposti, collegati, connessi e conseguenziali. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Agea - Agenzia per Le Erogazioni in Agricoltura e di Ministero delle Politiche Agricole Alimentari Forestali; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 ottobre 2022 la dott.ssa Anna Pappalardo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ricorso notificato all’AGEA - Agenzia per le erogazioni in agricoltura (d’ora innanzi Agea) e al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali via PEC il 19 novembre 2021, successivamente depositato il 30 novembre 2021, Lamanna Aniello impugnava della nota prot. n. 2021.982730 e della nota prot. n. 2021.980431, entrambe adottate da Agea il 3 agosto 2021, ed ogni ulteriore atto che aveva condotto al ricalcolo dell’importo già versato al ricorrente a titolo di indennità compensativa per gli anni 2018 – 2019 . Il ricorrente deduceva di essere titolare dell’omonima Azienda Agricola, con sede in Pisciotta (SA) in Via Mazzini, esercente attività di coltivazione, apicoltura ed allevamento, e di essere proprietario di una vasta area agricola in zona classificata montana, nei Comuni di Pisciotta e di Cannalonga, in Provincia di Salerno. Rappresentava di essere risultato beneficiario, per gli anni 2018 e 2019, dell’indennità compensativa per le aziende agricole localizzate in territori montani di cui alla Misura 13.1.1 “Pagamento compensativo per le zone 3 montane”, varata nell’ambito del PSR Campania 2014 – 2020 al fine di compensare almeno parzialmente i costi aggiuntivi ed il mancato guadagno dovuti alla particolare ubicazione dei fondi agricoli. In particolare si trattava di indennità per compensare gli svantaggi derivanti dalla localizzazione delle aziende agricole (in attività) in territori classificati montani, a seguito dell’applicazione della Direttiva 75/268/CEE (art. 3 par. 3), con previsione di un pagamento annuale per ettaro di superficie agricola condotto nell'area eleggibile al sostegno, per compensare (in tutto o in parte) i costi aggiuntivi ed il mancato guadagno dovuti ai vincoli cui è soggetta la produzione agricola nella zona interessata. Esponeva, in particolare, che tale indennità veniva calcolata sulla base di due parametri, ovvero l’altitudine e la pendenza del terreno, così come stabilito dall’art. 6 dei bandi attuativi della predetta misura (cfr. doc. nn. 2 e 3 allegati al ricorso). In proposito L’art. 6 dei bandi attuativi della predetta Misura, per gli anni 2018 e 2019 (Doc. nn. 2 e 3), rubricato “Entità del premio”, ha specificamente disciplinato la procedura di calcolo, con indicazione della formula matematica, ovvero dell’algoritmo adoperato per il computo della misura. Proprio in base a tale metodo di calcolo, in relazione alla posizione del Lamanna, Agea aveva determinato un’indennità di importo pari, per l’anno 2018, ad € 23.729,84 e, per l’anno 2019, ad € 19.709,67, entrambe corrisposte rispettivamente il 24 giugno 2019 e il 30 giugno 2020. Tuttavia, mediante i provvedimenti impugnati in questa sede e facendo applicazione di un nuovo algoritmo di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni, Agea ( richiamando solo genericamente indicazioni della Commissione Europea) aveva proceduto a rielaborare le domande del ricorrente, riscontrando importi versati in eccesso e quindi da recuperare pari a € 95,67 per l’anno 2018 (nota prot. n. 2021.980431 del 3.08.2021) ed € 4.734,97 per l’anno 2019 (nota prot. n. 2021.982730 del 3.08.2021), con conseguente iscrizione dei predetti importi nel Registro Debitori Agea ed oggetto di recupero ai sensi del Regolamento UE n. 809/2013. La difesa del Lamanna, quindi, censurava i provvedimenti impugnati deducendone l’illegittimità perché viziati da: - carenza di motivazione ex art. 3 l. n. 241/1990, dal momento che l’Amministrazione si è limitata ad esternare il risultato della procedura di ricalcolo senza menzionare quale fosse il nuovo algoritmo utilizzato, con il relativo funzionamento, né la fonte normativa che ne imporrebbe l’applicazione anche alle domande già definite e finanziate. Tanto più se si considera la sproporzione tra le due annualità nel rapporto tra le somme erogate e quelle considerate indebitamente percepite, e quindi l’irragionevolezza degli esiti dell’applicazione del nuovo sconosciuto algoritmo (per l’anno 2018 è stato accertato un debito di € 95,67 sull’importo percepito di € 23.729,84, mentre per l’anno 2019, è stato accertato un maggior debito pari a € 4.734,97 su un minor importo percepito pari a € 19.709,67); - violazione delle norme sul procedimento (art. 7 l. 241/90), con ricadute sui provvedimenti finali, atteso che il ricorrente in sede di contraddittorio procedimentale avrebbe potuto fornire elementi utili per evitare il ricalcolo o quantomeno evitare le suddette anomalie tra gli importi ricevuti nel 2018 e quelli del 2019; - violazione della lex specialis, in quanto la manovra di ricalcolo della indennità compensativa avrebbe comportato una modifica ex post delle regole contenute nell’art. 6 del bando attuativo, con conseguente violazione anche del principio di predeterminazione dei criteri di valutazione per i provvedimenti attributivi di vantaggi economici ex art. 12 comma 1 L. n. 241/1990; - violazione dell’art. 21 quinquies l. 241/90, risolvendosi i provvedimenti impugnati in revoche implicite delle precedenti determinazioni e non rispettando questi ultimi i requisiti all’uopo richiesti dalla legge, ovvero la manifestazione delle ragioni di inopportunità dell’atto da ritirare e la previsione dell’indennizzo per il destinatario; - illegittime modalità di recupero del credito vantato, in quanto Agea, con le note impugnate, ha anche disposto che la stessa “provvederà in via prioritaria al recupero delle somme attraverso compensazione automatica, ai sensi dell’art. 28 R.Ce n. 908/2014, sino alla data dell’effettivo soddisfacimento del credito vantato, operando detto recupero sul primo pagamento a qualsiasi titolo effettuato da Agea. In caso di mancato recupero si procederà ad avviare le procedure coattive per la riscossione del credito”, così impattando sull’esercizio dell’attività di impresa del ricorrente, e ciò in violazione del principio per cui in caso di recupero nei confronti del percettore in buona fede, la ripetizione deve avvenire senza incidere significativamente sulle sue esigenze di vita. Il 7 dicembre 2021 si costituiva in giudizio AGEA mediante memoria di stile. Non si costituiva in giudizio la regione Campania. Con ordinanza del 15 dicembre 2021, il Collegio, ritenendo la domanda cautelare supportata da adeguato fumus boni juris e periculum in mora, la accoglieva . Infine, con memoria del 1 settembre 2022 il ricorrente insisteva nella domanda di annullamento ribadendo le censure contenute nel ricorso introduttivo. Alla pubblica udienza del 11 ottobre 2022 il ricorso è stato trattenuto in decisione. DIRITTO Il ricorso è fondato e pertanto va accolto. Va premesso che , come esposto in parte narrativa, il presente giudizio ha ad oggetto la domanda di annullamento di due provvedimenti adottati da AGEA mediante l’utilizzo di algoritmi, nel senso che alla formula matematica è stato demandato il computo di ricalcolo della misura spettante, pervenendosi agli atti di secondo grado attraverso l’applicazione di un diverso algoritmo rispetto a quello impostato per la concessione della misura, con una formula che è tuttavia rimasta ignota. La ammissibilità ed i limiti del ricorso alla cd. decisione algoritmica costituisce una tematica che già da alcuni anni viene affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, in ragione del sempre più frequente ricorso allo strumento algoritmico all’interno dei procedimenti amministrativi, soprattutto se caratterizzati da procedure seriali o standardizzate dove occorre gestire un numero notevole di istanze , per la cui elaborazione l’impiego dello strumento algoritmico consente una maggiore velocità, efficienza ed in astratto di maggiore imparzialità. Applicato alla scelta amministrativa, invero, l’algoritmo porta sempre ad un risultato imparziale, senza che alcun elemento soggettivo possa intervenire a alterare o mutare il risultato. Un pregio è dunque costituito dall’invariabilità dell’esito: i “termini” dell’algoritmo, combinati nel modo assunto dallo stesso, portano sempre e invariabilmente allo stesso risultato. In questo senso la decisione “imposta” dall’algoritmo appare essere una decisione spogliata da ogni margine di soggettività. L’algoritmo, sin dalla nozione desunta dai papiri di Ahmes del XVII secolo a.c., consiste in una sequenza finita e ordinata di operazioni elementari e chiare di calcolo che permettono di risolvere, in maniera determinata, un problema. Si tratta di una procedura di calcolo ben definita che consente, attraverso un insieme di operazioni effettuate in un determinato ordine, partendo da un insieme di dati (input), di ottenere un risultato atteso (output): lo stesso, applicato ad una decisione amministrativa, in via informatica è in grado di valutare e graduare una moltitudine di domande (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 2270/2019). La prospettiva, dunque, non è solo quella della semplificazione, ma anche quella della buona amministrazione; alle tecnologie si guarda non solo in vista del miglioramento del processo decisionale, ma anche della qualità della decisione. E’ emersa tuttavia una opposta esigenza che controbilancia le spinte semplificatorie ed acceleratorie, ovvero quella di assicurare un controllo umano del procedimento, in funzione di garanzia ( cd. human in the loop) , in modo che il funzionario possa in qualsiasi momento intervenire per compiere interlocuzioni con il privato , per verificare a monte l’esattezza dei dati da elaborare , mantenendo il costante controllo del procedimento . Come ha avuto modo di precisare il Consiglio di Stato nelle pronunce dedicate alla questione (cfr. CdS sez. VI, n. 2270 /2019 e le sentt. 8472, 8473, 8474 del 2019), il ricorso alla funzione algoritmica all’interno del procedimento amministrativo non è vietato di per sé, neppure in relazione ai procedimenti caratterizzati da discrezionalità ,anche tecnica, a condizione che si rispettino determinati requisiti, derivanti sia dai principi di diritto interno che dalle norme del diritto europeo (cfr. Cons. Stato, sez.VI, sentt. 881/2020 e 1206/2021). Il ricorso all’algoritmo, in funzione integrativa e servente della decisione umana, ovvero anche in funzione parzialmente decisionale nei procedimenti a basso tasso di discrezionalità, non può mai comportare un abbassamento del livello delle tutele garantite dalla legge sul procedimento amministrativo, ed in particolare di quelle sulla individuazione del responsabile del procedimento, sull’obbligo di motivazione, sulle garanzie partecipative, e sulla cd. non esclusività della decisione algoritmica. Tra le indicate garanzie assume primaria importanza il rispetto del principio di trasparenza, che, com’è noto, trova un immediato corollario nell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi ex art. 3 l. 241/90 e che non può essere soppresso né ridotto sol per la presenza di un algoritmo all’interno dell’iter procedimentale. Invero, il fatto che il provvedimento venga emanato sulla scorta di una complessa operazione di calcolo produce l’opposto effetto di rafforzare, per certi versi, l’obbligo motivazionale in capo all’Amministrazione, la quale dovrà rendere la propria decisione finale non solo conoscibile, ma anche comprensibile. Occorre spostare l’attenzione a monte , sulla costruzione dell’algoritmo; su come i parametri dell’algoritmo vengono scelti (operazione di per sé soggettiva), e come si combinano tra loro; e ancor prima su come i termini assunti quale parametro siano stati realizzati. La questione dell’individuazione dei termini da assumersi per la costruzione dell’algoritmo indica il momento in cui si opera la scelta caratterizzata da discrezionalità, sì che a queste fasi preliminari alla nascita dell’algoritmo devono essere anticipate le garanzie che devono accompagnare ogni scelta dell’amministrazione. Fondamentale è a tal fine la garanzia di trasparenza, volte ad assicurare la conoscibilità della costruzione dell’algoritmo, anche, eventualmente, in funzione del sindacato sull’atto adottato sulla base dello stesso: “la decisione amministrativa automatizzata impone al giudice di valutare in primo luogo la correttezza del processo informatico in tutte le sue componenti: dalla sua costruzione, all’inserimento dei dati, alla loro validità, alla loro gestione” (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 2270/2019). In caso di decisione fondata su algoritmo, si richiede pertanto che sia assicurata una “declinazione rafforzata del principio di trasparenza”, intesa come “piena conoscibilità della regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico” (Cons. St., sez. VI, n. 2270/2019). Più in particolare, si è osservato come il principio di conoscibilità comporta che ognuno ha diritto, sia a conoscere l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino , sia a ricevere informazioni significative sulla logica utilizzata, così come previsto dagli artt. 13 e 14 del GDPR (Regolamento 2016/679) che risultano formulati in maniera generale e, perciò, applicabili sia a decisioni prese da soggetti privati che da soggetti pubblici (cfr. Cons. St. s. 8472/2019). Inoltre, trattandosi di una decisione presa da una Pubblica Amministrazione, viene in rilievo anche l’art. 41 della Carta di Nizza, ed il diritto ad una “good administration”, laddove afferma che quando la Pubblica Amministrazione intende adottare una decisione che può avere effetti avversi su di una persona, essa ha l’obbligo di sentirla prima di agire, di consentirle l’accesso ai suoi archivi e documenti, nonché di “motivare le proprie decisioni”. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti. E tuttavia, la “caratterizzazione multidisciplinare” dell’algoritmo comporta che la sua comprensione non richieda solo competenze giuridiche, ma anche tecniche, informatiche, statistiche, amministrative, sicché non esime dalla necessità che la “formula tecnica”, che di fatto rappresenta l’algoritmo, sia corredata da spiegazioni che la traducano nella “regola giuridica” ad essa sottesa e che la rendano leggibile e, quindi non solo “conoscibile”, ma anche “comprensibile” (cfr. Cons. St. s. 2270/2019). Dalle coordinate ermeneutiche poste dalle prime pronunce del Consiglio di Stato ,emerge come il rispetto del principio di trasparenza imponga un indefettibile obbligo motivazione a carico della pubblica amministrazione, che si declina nella conoscibilità e nella comprensibilità del meccanismo algoritmico utilizzato. E ciò al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dall’altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo. Altro principio affermato in sede europea è quello di non esclusività della decisione algoritmica (art. 22 GDPR), il quale attribuisce al destinatario degli effetti giuridici di una decisione automatizzata il diritto a che tale decisione non sia basata unicamente sul processo automatizzato, affidando al funzionario responsabile il compito di controllare, e quindi validare o, al contrario, smentire la decisione automatica. Ne deriva che, come sopra rilevato, la decisione adottata con ricorso all’algoritmo vede sempre la necessità che sia l’amministrazione a compiere un ruolo ex ante di selezione e verifica, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell’algoritmo . Ma soprattutto, in tali casi si deve contemplare la possibilità che sia il giudice a “dover svolgere, per la prima volta sul piano ‘umano’, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica”, con la conseguenza che la decisione robotizzata “impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti”. (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 2270/2019). Colgono dunque nel segno le censure mosse dalla parte ricorrente, la quale denuncia proprio il vizio di violazione delle garanzie partecipative e il difetto di motivazione delle note di AGEA prot. n. 2021.982730 e prot. n. 2021.980431 emesse il 3 agosto 2021. Queste ultime, infatti, hanno giustificato il ricalcolo degli importi dovuti al Lamanna con un generico e indeterminato riferimento alla “normativa vigente”, alle “indicazioni della Commissione Europea” e all’utilizzo di “una differente modalità di calcolo degli importi delle riduzioni e delle sanzioni”, che avrebbero condotto alla “applicazione del nuovo algoritmo”. In tal senso la carenza motivazionale è duplice, tenendo conto della peculiare natura del provvedimento in oggetto, che costituisce atto di secondo grado, andando ad incidere su una precedente decisione favorevole al privato. La divisata carenza investe, infatti, da un lato, la fonte normativa richiamata per la legittimazione dell’esercizio di un potere con effetto retroattivo, ovvero il ricalcolo delle somme precedentemente già calcolate ed erogate: entrambi i provvedimenti non specificano quali siano le norme interne ovvero le indicazioni della Commissione Europea che avrebbero imposto una differente modalità di calcolo, in particolare per le domande già accolte e finanziate. Inoltre, gli atti impugnati non contengono alcun tipo riferimento all’algoritmo utilizzato, che viene semplicemente menzionato come il “nuovo algoritmo”, in questo modo venendo meno tanto all’obbligo di indicare quale sia stato il meccanismo informatico di decisione impiegato (c.d. conoscibilità), quanto all’obbligo di spiegare il suo funzionamento in termini comprensibili per l’utente non dotato di competenze tecniche (c.d. comprensibilità). Tutto ciò con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico – giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale. Gli indicati vizi conducono all’annullamento dei provvedimenti impugnati per carenza dell’elemento motivazionale. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla gli atti in epigrafe e condanna l’ AGEA alla rifusione delle spese di lite in favore della parte ricorrente , liquidate in complessivi Euro 2000,00 (duemila/00) , dichiarandole integralmente compensate nei confronti della Regione Campania. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 11 ottobre 2022 con l'intervento dei magistrati: Anna Pappalardo, Presidente, Estensore Gabriella Caprini, Consigliere Rosalba Giansante, Consigliere Anna Pappalardo, Presidente, Estensore Gabriella Caprini, Consigliere Rosalba Giansante, Consigliere IL SEGRETARIO
Atto amministrativo – Procedimento automatizzato – Motivazione Il ricorso all’algoritmo all’interno del procedimento amministrativo non può mai comportare un abbassamento del livello delle tutele procedimentali e in particolare dell’obbligo di motivazione del provvedimento ex art. 3 l. 241 del 1990, il quale, al contrario, in questi casi appare rafforzato (1). Amministrazione dello Stato - Atto amministrativo – Procedimento automatizzato - Discrezionalità ​​​​​​Il principio di trasparenza impone che nelle decisioni amministrative algoritmiche il processo automatizzato sia reso non solo conoscibile nei suoi aspetti tecnici, ma anche comprensibile, mediante una spiegazione che lo traduca nella “regola giuridica” ad esso sottesa, così rendendolo intellegibile ai suoi destinatari. Ciò al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dall’altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo (2).    · Conformi: Cons. Stato, Sez. VI, 04/02/2020, n. 881; Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2019, n. 8472; Cons. Stato, Sez. VI, 13/12/2019, n. 8473; Cons. Stato, Sez. VI, 08/04/2019, n. 2270; T.a.r. per il Lazio, Sez. III-bis, 19/04/2019, n. 5139   · Difformi: non risultano precedenti difformi.
Amministrazione dello Stato
https://www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/presupposti-per-aggiudicare-la-gara-con-il-criterio-del-minor-prezzo
Presupposti per aggiudicare la gara con il criterio del minor prezzo
N. 07182/2020REG.PROV.COLL. N. 08652/2019 REG.RIC. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 8652 del 2019, proposto da A.M. Autometano s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Lorenzo Pulito, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Azienda per la mobilità nell’area di Taranto - AMAT s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pier Luigi Portaluri, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; nei confronti Menga Petroli di Menga Antonio Rocco & C. s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Larocca, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza breve del Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce (Sezione seconda), n. 971/2019, resa tra le parti. Visto il ricorso in appello; Visto il ricorso incidentale di Amat s.p.a.; Visto il ricorso incidentale di Menga Petroli di Menga Antonio Rocco & C. s.n.c.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del 24 settembre 2020 il Cons. Anna Bottiglieri e uditi per le parti l’avvocato Pecorilla per delega dell’avvocato Portaluri; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO A.M. Autometano s.r.l., partecipante alla procedura negoziata indetta il 12 settembre 2018, ai sensi dell’art. 125, lett. c-2), del d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50, Codice dei contratti pubblici, dall’Azienda per la mobilità nell’area di Taranto - AMAT s.p.a. per l’affidamento del servizio di fornitura triennale di metano per autotrazione, riservata alle stazioni con distanza entro un raggio di 20 km dal capolinea-porto mercantile dell’AMAT, impugnava l’aggiudicazione della gara disposta in favore di Menga Petroli di Menga Antonio Rocco & C. s.n.c. e tutti gli atti presupposti, ivi compresa la lex specialis, con ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, che, nella resistenza di AMAT e di Autometano, lo respingeva con sentenza breve della Sezione staccata di Lecce (Sezione seconda), n. 971/2019, condannando la ricorrente alle spese del giudizio. Il primo giudice, in particolare: - riteneva infondate le due prime censure, con cui Autometano aveva dedotto l’invalidità dell’aggiudicazione, sia per mancanza di disponibilità, da parte dell’aggiudicataria, della stazione di servizio indicata in sede di gara (sita in Montemesola, via Delle Industrie) sia per le false dichiarazioni rese al riguardo in sede di domanda di partecipazione, ex art. 80, comma 5, lett. f-bis), del d. lgs. n. 50 del 2016. Rilevava al riguardo che la controinteressata, come specificamente appurato da AMAT: è proprietaria della stazione di servizio; è intestataria diretta e titolare della fornitura di gas metano da parte della Edison s.p.a. che rifornisce l’impianto; riceve direttamente da Edison le relative fatture; ha concesso in comodato la stazione di servizio alla società Quaranta Salvatore & C. s.a.s; emette fattura in favore della comodataria per il gas metano che quest’ultima vende ai propri clienti al prezzo da lei fissato. Riteneva, come già la stazione appaltante, che detti elementi soddisfacessero le condizioni delineate nel parere reso dell’Agenzia delle dogane sulla richiesta della stazione appaltante relativa alla possibilità del titolare-non gestore di un impianto di distribuzione di carburanti di esercitare a mezzo dello stesso impianto attività di vendita diretta ed effettuare la relativa fatturazione. Concludeva pertanto che la controinteressata avesse la piena disponibilità dell’impianto come da dichiarazione resa in gara; - riteneva infondato il terzo motivo, con cui Autometano aveva sostenuto l’illegittimità dell’intera procedura perché basata sul criterio del minor prezzo, in assenza dei presupposti di cui all’art. 95, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 e in difetto di motivazione in ordine a tale scelta. Respinta l’eccezione di tardività della censura spiegata dalla controinteressata, riteneva legittimo il ricorso al contestato criterio, atteso che il disciplinare di gara aveva regimentato compiutamente l’oggetto del rapporto, che presentava pertanto caratteristiche standardizzate, con esclusione di qualsiasi possibilità di variante migliorativa da parte degli offerenti, e rilevava che la relativa motivazione doveva intendersi in re ipsa. Autometano ha appellato la predetta sentenza, deducendo: 1) Sulla capacità della Menga Petroli di determinare l’offerta di gara; sulla violazione e falsa applicazione degli artt. art. 80 e 83 del d.lgs. n. 50 del 2016; 2) Sulla mendacità delle dichiarazioni resa dalla Menga petroli in seno alla gara; sulla fondatezza del secondo motivo di ricorso; 3) Sull’invalidità della gara per violazione dell’art. 95 del d.lgs. n. 50 del 2016 applicabile ratione temporis. Ha domandato la riforma della sentenza impugnata e l’annullamento degli atti gravati con il ricorso di primo grado, l’accertamento e la declaratoria dell’inefficacia del contratto di appalto eventualmente sottoscritto nelle more e del diritto dell’appellante a subentrare nello stesso, la condanna dell’Amministrazione a disporre il subentro. Costituitasi in giudizio, AMAT ha proposto ricorso incidentale avverso la parte della stessa sentenza che ha respinto l’eccezione di tardività del terzo motivo del ricorso di primo grado; ha rilevato come questa avesse mancato di riferire che la questione era stata sollevata anche dalla stazione appaltante e ha sostenuto la fondatezza dell’eccezione, contestando le contrarie argomentazioni del primo giudice. Ha inoltre riproposto, ai sensi dell’art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza gravata, concludendo in ogni caso per la reiezione del gravame, di cui ha sostenuto l’infondatezza nel merito. Successivamente, ha rappresentato l’avvenuta stipula in data 19 luglio 2019, ovvero prima della proposizione dell’atto di appello, del contratto per l’affidamento del servizio a Menga Petroli e il suo regolare svolgimento in corso. Anche Menga Petroli ha proposto ricorso incidentale avverso la parte della sentenza che ha respinto l’eccezione di tardività del terzo motivo del ricorso di primo grado e riproposto ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza gravata, concludendo per la reiezione dell’appello perché infondato. Alla camera di consiglio del 21 novembre 2019 la trattazione della domanda cautelare avanzata nell’atto di appello è stata rinviata al merito su accordo delle parti. Nel prosieguo, AMAT e Menga Petroli hanno depositato memorie difensive. La causa è stata indi trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 24 settembre 2020. DIRITTO 1. Si controverte in ordine alla legittimità della procedura negoziata indetta da AMAT con delibera n. 88 del 12 settembre 2018 per l’affidamento, con il criterio del minor prezzo, del servizio di fornitura triennale di metano per autotrazione, riservata alle stazioni con distanza entro un raggio di 20 km dal suo capolinea-porto mercantile, conclusasi con l’aggiudicazione a Menga Petroli. 2. Con il primo motivo dell’appello principale Autometano deduce l’erroneità della sentenza gravata per non essersi avveduta, come dedotto nel suo ricorso di primo grado, dell’incapacità di Menga Petroli di formulare una valida offerta nella procedura in esame, per aver essa indicato in sede di gara una stazione di servizio (sita in Montemesola, via Delle Industrie) concessa in comodato a terzi, da cui la carenza in capo alla controinteressata di disponibilità giuridica e di licenza doganale per l’erogazione di carburante al dettaglio. 2.1. Il motivo è infondato e va respinto. 2.2. Le dedotte questioni hanno formato oggetto di approfondimento e sono state risolte a favore di Automertano con una compiuta istruttoria effettuata dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura negoziata indetta il 22 settembre 2017 per l’affidamento della stessa fornitura, alla quale avevano parimenti partecipato sia Autometano che Menga Petroli, risultando quest’ultima la miglior offerente, e che AMAT, con la già citata delibera n. 88/2018, rilevata la non corretta formulazione della legge di gara, ha ritenuto di non aggiudicare, ritenendo opportuno bandire una nuova procedura, che è oggetto dell’odierna controversia. Infatti, anche in quella precedente sede Autometano aveva sollevato nei confronti di Menga Petroli le obiezioni qui dibattute (carenza della disponibilità giuridica della stazione di servizio; carenza della licenza doganale per l’erogazione di carburante al dettaglio). AMAT aveva allora proposto un quesito all’Agenzia delle dogane, chiedendo se fosse possibile la partecipazione alla gara in parola di un titolare “non gestore” dell’impianto, qual è Menga Petroli, che è pacificamente proprietaria della stazione di servizio concessa in comodato. Sul punto, l’Agenzia delle dogane si è espressa in senso positivo. In particolare, con atto del 6 aprile 2018, ha evidenziato la similarità del caso con quello affrontato nella circolare n. 205 del 12 agosto 1998 del Ministero dell’economia e delle finanze “di una società petrolifera che stipula con i gestori degli impianti stradali di distribuzione di carburanti un contratto di somministrazione in base al quale il gestore dell’impianto di distribuzione si impegna ad eseguire in favore della società petrolifera cessioni periodiche o continuative, consistenti nel rifornimento di carburante alle società aderenti al sistema delle tessere magnetiche, che, a loro volta hanno stipulato un contratto di somministrazione con la stessa società petrolifera. L’attività di somministrazione quindi si scinde in due operazioni distinte: - somministrazioni continuative del distributore comodatario alle società petrolifere; - somministrazioni dalla società petrolifera direttamente alla società avente diritto alla fornitura di carburante. Nel rapporto tra gestore e società petrolifera il primo emette nei confronti di quest’ultima regolare fattura per le somministrazioni effettuate a favore della società beneficiaria delle forniture di carburante. La società petrolifera, a sua volta, emette fattura nei confronti della società che fruisce della somministrazione”. Detto parere, come già rilevato in fatto, è stato fatto proprio dalla stazione appaltante e considerato dal primo giudice, che anche sulla sua base ha ritenuto la legittimità della partecipazione alla gara di Menga Petroli, considerando che la medesima: è proprietaria della stazione di servizio; è intestataria diretta e titolare della fornitura di gas metano da parte della Edison s.p.a. che rifornisce l’impianto; riceve direttamente da Edison le relative fatture; ha concesso in comodato la stazione di servizio alla società Quaranta Salvatore & C. s.a.s; emette fattura in favore della comodataria per il gas metano che quest’ultima vende ai propri clienti al prezzo da lei fissato. Tale conclusione può essere qui confermata, non potendo, di contro, accogliersi le contrarie argomentazioni del motivo in esame, con cui Autometano: - espone nuovamente che Menga Petroli non ha la materiale e giuridica disponibilità dell’impianto per l’erogazione al dettaglio del metano, senza contestare specificamente gli elementi cui il primo giudice ha riconnesso specificamente la stessa disponibilità, e pur ammettendo che la stazione di servizio in parola “eroga carburante acquistato dalla Menga Petroli”; - evidenzia, come già in primo grado, che le visure camerali attribuiscono la titolarità della stazione di servizio in parola non alla controinteressata bensì alla comodataria, e che la prima non possiede la relativa licenza doganale, elementi che, nello specifico contesto sopra descritto, risultano irrilevanti a fronte del parere dell’Agenzia delle dogane e della ivi richiamata circolare ministeriale, che hanno delineato un sistema di rapporti la cui presenza legittima la partecipazione alle gare pubbliche del titolare “non gestore” dell’impianto di distribuzione di carburanti, di cui il primo giudice ha ravvisato nella fattispecie i tratti salienti; - lamenta che il ridetto contratto di comodato, non dichiarato in sede di gara, è stato versato solo in giudizio, e non riporta prova della sua registrazione, sicchè sarebbe dubbia la sua giuridica esistenza e opponibilità a terzi, censure che si profilano inammissibili ai sensi dell’art. 104 Cod. proc. amm. perché proposte per la prima volta in appello. Nulla muta considerando che l’appellante afferma di aver “denunciato” tali circostanze in primo grado nel corso della camera di consiglio del 29 maggio 2019. Infatti, pur tralasciando la circostanza che nulla risulta dal verbale della predetta camera di consiglio, detta “denunzia” non solo non refluisce evidentemente in un motivo di ricorso, perché non ritualmente proposto ai sensi degli artt. 40 e ss. Cod. proc. amm., ma attesta anzi che la società, pur avendo sicuramente appreso nel corso del giudizio di primo grado dell’esistenza del contratto, non ha ritenuto di integrare l’apparato difensivo predisposto con l’atto introduttivo del giudizio a mezzo dei motivi aggiunti di cui all’art. 43 Cod. proc. amm., rimedio cui si applica la disciplina prevista per il ricorso e che è volto proprio a consentire nel caso di sopravvenienze la possibilità di introdurre nuove ragioni e nuove domande nell’ambito dell’azione già pendente. Può solo aggiungersi che dal verbale della stessa camera di consiglio non emerge neanche l’opposizione di Autometano alla possibilità, espressamente manifestata dal collegio giudicante di primo grado, della decisione della causa ex art. 60 Cod. proc. amm.; - formula rilievi afferenti al parere dell’Agenzia delle dogane, che sono parimenti inammissibili per le stesse ragioni appena sopra rassegnate, rilevandosi che detto parere, che Autometano non ha contestato in primo grado, né quanto al suo contenuto, né quanto alla sua applicabilità al caso di specie, era stato citato nella delibera n. 88/2018 di indizione della procedura in esame (avendo a tale data AMAT già anticipato le vie istruttorie percorse in occasione della precedente analoga gara il cui esito ha posto nel nulla con la stessa delibera), ed era stato comunque depositato nel giudizio di primo grado il 27 maggio 2019. Sul punto, può solo aggiungersi l’erroneità della tesi esposta dall’appellante secondo cui detto parere “non assurge a provvedimento amministrativo meritevole di impugnativa”: il parere non vincolante, categoria cui va ascritto l’avviso in parola, avendo carattere di manifestazione di giudizio, non presenta infatti aspetti di autonoma lesività e non è, dunque, autonomamente impugnabile, ma “assume connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi ad una fattispecie concreta, sia fatto proprio dalla stazione appaltante, la quale, sulla base di esso, abbia assunto la relativa determinazione provvedimentale. Ne consegue che l’impugnazione del parere facoltativo è consentita unitamente al provvedimento conclusivo della Stazione appaltante che ne abbia fatto applicazione” (Cons. Stato, VI, 11 marzo 2019, n. 1622; V, 17 settembre 2018, n. 5424; VI, 3 maggio 2010, n. 2503). Del resto, la stessa appellante, nell’infruttuoso tentativo di smontare in questa sede la rilevanza del parere, ne attesta la significatività nell’ambito della odierna controversia; - lamenta che nella specie Autometano avrebbe fatto surrettiziamente ricorso al subappalto, vieppiù a fronte dell’espresso divieto contenuto nella lex specialis, ovvero al modulo del raggruppamento temporaneo di imprese, ovvero ancora all’avvalimento, figure che risultano del tutto estranee alla fattispecie qui in rilievo, come ben delineata dal primo giudice con il ricorso a elementi che l’appellante non si cura di confutare. 3. Con il secondo motivo Autometano sostiene che Menga Petroli, avendo speso in gara la qualità di “titolare” del distributore di cui sopra, che non possiede, ha reso una falsa dichiarazione e andava pertanto esclusa dalla procedura ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), del d.lgs. n. 50 del 2016, o ai sensi della lett. c) dello stesso comma, senza alcuna possibilità di un diverso apprezzamento della stazione appaltante alla luce del già citato rapporto di comodato, sia perché gli istituti del falso innocuo e del falso inutile sono inapplicabili alla materia delle gare pubbliche, sia perché detto contratto è emerso solo in sede giudiziaria, non essendo stato allegato o dichiarato agli atti della procedura, sia ancora in quanto tale dichiarazione incide direttamente sul contenuto della prestazione, sotto il profilo della reale possibilità di garantire il prezzo indicato in offerta, testimoniandone l’inaffidabilità e la non serietà, nonché sul corretto andamento della procedura. Il mezzo è completamente infondato e va respinto. Non è imputabile ad Autometano alcuna dichiarazione falsa o fuorviante, avendo la società dichiarato in gara la titolarità dell’impianto, qualità che indubbiamente le pertiene, come accertato prima dalla stazione appaltante e poi dal primo giudice, e che in realtà non contesta neanche l’appellante, il quale si limita a evidenziare che Autometano non gestisce l’esercizio, che è fatto che non incide sulla titolarità dello stesso, che non è stato oggetto di dichiarazione e che era ben noto, e da tempo, alla stazione appaltante. Infatti, come emerge da quanto rilevato nell’ambito dell’esame del primo motivo, AMAT, in ragione delle vicende della precedente procedura negoziata non esitata, era ben consapevole dello status di Autometano di titolare-non gestore dell’impianto di cui si discute ancor prima della partecipazione della società alla gara per cui è causa, tant’è che la richiesta di parere avanzata all’Agenzia delle dogane e il corrispondente avviso dell’Amministrazione consultata, datato 6 aprile 2018, sono entrambi intervenuti nell’ambito della procedura negoziata non portata a compimento, e precedono quindi l’indizione della procedura di cui si discute, disposta con delibera del 12 settembre 2018; vieppiù, proprio in considerazione del tenore di tale avviso, la stazione appaltante ha invitato Autometano a partecipare alla gara per cui è causa. In ogni caso, va escluso, alla luce del parere dell’Agenzia delle entrate e di quanto accertato dal primo giudice, che la specifica condizione di Autometano determini l’impossibilità di garantire il prezzo indicato in offerta. 4. Il terzo mezzo si dirige avverso la parte della sentenza che ha ritenuto la legittimità della lex specialis e segnatamente del prescelto criterio di aggiudicazione, che è quello del minor prezzo. 4.1. L’art. 95, comma 4, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione applicabile alla fattispecie ratione temporis (che è quella precedente alle modifiche apportate con il d.-l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, che comunque qui non rilevano), possono essere aggiudicati con il criterio del minor prezzo i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato. Per la giurisprudenza, il legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, si giustifica in relazione all’affidamento di forniture o di servizi che siano, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (Cons. Stato, V, 20 gennaio 2020, n. 444; III, 13 marzo 2018, n. 1609; 2 maggio 2017, n. 2014). A loro volta, le linee guida Anac n. 2, approvate nel 2016 e aggiornate nel 2018, chiariscono che: i “servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato” sono quei servizi o forniture che, anche con riferimento alla prassi produttiva sviluppatasi nel mercato di riferimento, non sono modificabili su richiesta della stazione appaltante oppure che rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali; “i servizi e le forniture caratterizzati da elevata ripetitività soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la continuità della prestazione”; i benefici del confronto concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo in tali casi “sono nulli o ridotti”; tale ipotesi si rinviene anche laddove la stazione appaltante vanti “una lunga esperienza nell’acquisto di servizi o forniture a causa della ripetitività degli stessi”. Infine, sempre per le linee guida Anac n. 2, l’adeguata motivazione del ricorso al criterio richiesta dall’art. 95, comma 5, del Codice dei contratti pubblici è finalizzata a evidenziare il ricorrere degli elementi alla base della scelta dello stesso e altresì a dimostrare “che attraverso il ricorso al minor prezzo non sia stato avvantaggiato un particolare fornitore, poiché ad esempio si sono considerate come standardizzate le caratteristiche del prodotto offerto dal singolo fornitore e non dall’insieme delle imprese presenti sul mercato”. 4.2. Chiarito quanto sopra, il primo giudice ha ritenuto che l’affidamento di cui trattasi, riservato come visto alle stazioni con distanza entro un raggio di 20 km dal capolinea dell’AMAT, rientrasse nella previsione in quanto la legge di gara ha interamente preconizzato le caratteristiche del rapporto contrattuale quanto ai requisiti del prodotto, alla quantità complessiva, al modo e al periodo di rifornimento e alla velocità di erogazione (tale da consentire un rifornimento di 100 kg di metano entro 20 minuti), escludendo pertanto la possibilità di qualsiasi variante migliorativa da parte degli offerenti. 4.3. Con un primo ordine di censure, l’appellante nega la sussistenza di tali condizioni. Rileva che i parametri della velocità del rifornimento e della distanza tra la stazione di servizio dal capolinea AMAT, afferendo al fattore tempo, che in linea generale negli appalti di servizi e forniture è per costante giurisprudenza elemento di valutazione qualitativa dell’offerta, e che nello specifico incide sulla capacità di garantire il servizio di autotrasporto urbano quanto alle necessarie soste per il rifornimento, avrebbe dovuto rappresentare un elemento di valutazione qualitativa dell’offerta, anche in ragione della variabile rappresentata dal traffico e apprezzabile in via statistica, mentre la lex specialis lo ha considerato o “valorizzandone la sola incidenza sui costi della fornitura (calcolo della distanza della Stazione di rifornimento, in rapporto ai consumi necessari per raggiungerla)”, o individuandolo come requisito di partecipazione. La censura non può essere favorevolmente apprezzata. In primo luogo, non vi è dubbio che l’affidamento in parola risponde ai requisiti delineati nelle menzionate linee guida n. 2, avendo a oggetto una fornitura caratterizzata da elevata ripetitività, e volta a soddisfare esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività della stazione appaltante. Inoltre, se è vero che, come rilevato dall’appellante, nel capitolato d’appalto, che si limita a prevedere che il rifornimento di carburante debba essere garantito dalle h 8.00 alle h 20.00, non è indicato che a esso si provvede fuori dalle ore di servizio, non è neanche vero che da tale omissione possa dedursi automaticamente, come fa la ricorrente, che il rifornimento avvenga nelle ore di maggior utilizzo del servizio di autotrasporto e degli autobus di AMAT, atteso che, come osservato dalla stazione appaltante, è di comune esperienza che, a causa della presenza dei trasportati, gli autobus di linea non effettuano il rifornimento durante il servizio di trasporto. Sicchè, una volta accertato che il fattore “tempo di rifornimento”, considerato sotto entrambi gli aspetti evidenziati dall’appellante, non incide direttamente sulla capacità di garantire il servizio pubblico di trasporto, e che le censure in esame non scalfiscono la valutazione del primo giudice che l’oggetto dell’affidamento si collochi in un mercato caratterizzato da ripetitività, standardizzazione e predeterminazione, deve concludersi che la stazione appaltante ha correttamente escluso che detto fattore potesse incidere sulla qualità dell’offerta, e, altrettanto correttamente, indirizzando la gara alle stazioni collocate entro un raggio di 20 km dal capolinea dell’AMAT e dotate di impianti tali da consentire una velocità di erogazione stimata congrua, lo ha considerato nei limiti indicati dall’appellante, che afferiscono al profilo della organizzazione generale del servizio di trasporto, che gli è proprio: infatti, dati i predetti presupposti di standardizzazione del mercato considerato, il ricorso al metodo del minor prezzo presenta per la stazione appaltante qui resistente l’indubbio vantaggio di ottenere il prodotto, costituente un fattore indispensabile allo svolgimento del servizio e di indubbia onerosità, al miglior prezzo possibile, ciò che si riflette immediatamente sulla economicità ed efficienza dello stesso. 4.4. Con un secondo ordine di censure l’appellante lamenta ancora che il ricorso al criterio del minor prezzo non è stato corredato da motivazione. Anche tale censura non è meritevole di accoglimento. Il primo giudice ha ritenuto che la motivazione di cui all’art. 95, comma 5, del Codice dei contratti pubblici fosse rinvenibile in re ipsa. La conclusione può essere confermata, con la precisazione che, come rilevato in precedenza, la delibera con cui è stata indetta la procedura de qua ha anche disposto di non aggiudicare la precedente procedura per la non corretta formulazione della legge di gara, affetta da un errore materiale e ritenuta carente in quanto “la gara è stata aperta a tutti i distributori stradali, aventi una distanza dal Deposito Amat di massimo 20 Km, utilizzando, per l’aggiudicazione della stessa, lo sconto secco da applicare su un Kg di metano. Ora, tale formulazione della gara non ha tenuto adeguatamente conto dei costi effettivi di rifornimento a carico dell’azienda, che non possono coincidere con meri costi di approvvigionamento del carburante, ma devono tenere conto anche dei consumi dello stesso necessari per il raggiungimento del punto di distribuzione stradale, nonché di tempi necessari per tali operazioni, tanto maggiori tanto maggiore esso è distante, in quanto distolgono personale Amat per maggior tempo … Il calcolo dei costi effettivi non può, quindi, non tenere conto dei consumi necessari per il raggiungimento del punto, cosicché ogni operazione avrà un costo consistente nel prezzo di 120 kg di metano a cui dovrà sommarsi il prezzo della quantità necessaria per la percorrenza dalla strada … verso il distributore, andata e ritorno … A questi costi dovrebbero inoltre aggiungersi i maggiori oneri quali costo del personale impegnato nell’attività di rifornimento, i cui oneri retributivi maggiori, per i periodi necessari per il trasferimento da e verso il distributore, sarebbero da ricomprendersi tra i costi del servizio. Ciò in quanto il personale per quei periodi aggiuntivi sarebbe distolto da altre attività”. La motivazione del ricorso al criterio del minor prezzo emerge dunque sia dalla natura della fornitura che dal complessivo disposto della delibera, che evidenzia gli oneri diretti e indiretti sopportati dall’Azienda per il rifornimento in parola, e che si profila del tutto ragionevole, facendo escludere che essa possa essere finalizzata a favorire un determinato concorrente (pericolo che, per la verità, la parte appellante non ha neanche ipotizzato). 5. Alle rassegnate conclusioni, assorbita ogni altra eccezione svolta dalle parti resistenti e non accolta, consegue la reiezione dell’appello principale e, per l’effetto, la declaratoria di improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, degli appelli incidentali. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello di cui in epigrafe, respinge l’appello principale e dichiara improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse gli appelli incidentali. Condanna la ricorrente principale alla refusione in favore di entrambe le parti resistenti delle spese di giudizio del grado, che liquida nell’importo pari a € 7.000,00 (euro settemila/00) per ciascuna di esse. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 24 settembre 2020 con l’intervento dei magistrati: Fabio Franconiero, Presidente FF Raffaele Prosperi, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere Angela Rotondano, Consigliere Anna Bottiglieri, Consigliere, Estensore Fabio Franconiero, Presidente FF Raffaele Prosperi, Consigliere Valerio Perotti, Consigliere Angela Rotondano, Consigliere Anna Bottiglieri, Consigliere, Estensore IL SEGRETARIO
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Criterio del minor prezzo – Scelta di tale criterio per selezionale l’offerta - Art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 – Condizione.     Il legittimo ricorso al criterio del minor prezzo, ai sensi dell’art. 95, comma 4, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, in deroga alla generale preferenza accordata al criterio di aggiudicazione costituito dall’offerta economicamente più vantaggiosa, si giustifica in relazione all’affidamento di forniture o di servizi che siano, per loro natura, strettamente vincolati a precisi e inderogabili standard tecnici o contrattuali ovvero caratterizzati da elevata ripetitività e per i quali non vi sia quindi alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate (1).    (1) Cons. Stato, V, 20 gennaio 2020, n. 444; id., sez. III, 13 marzo 2018, n. 1609; id. 2 maggio 2017, n. 2014.  A loro volta, le linee guida Anac n. 2, approvate nel 2016 e aggiornate nel 2018, chiariscono che: i “servizi e forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato” sono quei servizi o forniture che, anche con riferimento alla prassi produttiva sviluppatasi nel mercato di riferimento, non sono modificabili su richiesta della stazione appaltante oppure che rispondono a determinate norme nazionali, europee o internazionali; “i servizi e le forniture caratterizzati da elevata ripetitività soddisfano esigenze generiche e ricorrenti, connesse alla normale operatività delle stazioni appaltanti, richiedendo approvvigionamenti frequenti al fine di assicurare la continuità della prestazione”; i benefici del confronto concorrenziale basato sul miglior rapporto qualità e prezzo in tali casi “sono nulli o ridotti”; tale ipotesi si rinviene anche laddove la stazione appaltante vanti “una lunga esperienza nell’acquisto di servizi o forniture a causa della ripetitività degli stessi”. ​​​​​​​Infine, sempre per le linee guida Anac n. 2, l’adeguata motivazione del ricorso al criterio richiesta dall’art. 95, comma 5, del Codice dei contratti pubblici è finalizzata a evidenziare il ricorrere degli elementi alla base della scelta dello stesso e altresì a dimostrare “che attraverso il ricorso al minor prezzo non sia stato avvantaggiato un particolare fornitore, poiché ad esempio si sono considerate come standardizzate le caratteristiche del prodotto offerto dal singolo fornitore e non dall’insieme delle imprese presenti sul mercato”. 
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