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At vero interitus exercituum, ut proxime trium, saepe multorum clades imperatorum, ut nuper summi et singularis viri, invidiae praeterea multitudinis atque ob eas bene meritorum saepe civium expulsiones, calamitates, fugae, rursusque secundae res, honores, imperia, victoriae, quamquam fortuita sunt, tamen sine hominum opibus et studiis neutram in partem effici possunt. Hoc igitur cognito dicendum est, quonam modo hominum studia ad utilitates nostras allicere atque excitare possimus.Quae si longior fuerit oratio cum magnitudine utilitatis comparetur; ita fortasse etiam brevior videbitur. | Ma tutti questi accidenti sono - come ho detto - piuttosto rari. Ma stragi di eserciti - come recentemente di tre - frequenti uccisioni di generali, come poco fa di quel sommo ed eccezionale uomo, inoltre l'odiosità della folla e a causa di ciò le frequenti espulsioni di cittadini meritevoli, le disgrazie, le fughe e, d'altra parte, gli avvenimenti favorevoli, le cariche civili, i comandi militari, le vittorie, benché siano fortuite, tuttavia non possono accadere né in un, caso né nell'altro senza i mezzi e le intenzioni degli uomini. Assodato questo si deve dire in qual modo possiamo risvegliare e attrarre gli interessi degli uomini verso il nostro utile. Se il discorso sarà troppo lungo, lo si confronti con la grandezza dell'utile; così, forse, parrà anche troppo breve. |
Fannius: "Istuc quidem, Laeli, ita necesse est. Sed quoniam amicitiae mentionem fecisti et sumus otiosi, pergratum mihi feceris, spero item Scaevolae, si quem ad modum soles de ceteris rebus, cum ex te quaeruntur, sic de amicitia disputaris quid sentias, qualem existimes, quae praecepta des."Scaevola: "Mihi vero erit gratum; atque id ipsum cum tecum agere conarer, Fannius antevertit. Quam ob rem utrique nostrum gratum admodum feceris." | Fannio: "Non può essere altrimenti, Lelio. Ma, siccome hai menzionato l'amicizia e noi abbiamo del tempo libero, mi farai un grandissimo piacere - e anche a Scevola, spero - se vorrai parlarci dell'amicizia come sei solito discutere gli altri problemi che ti vengono proposti, dicendoci cosa ne pensi, quale essenza le attribuisci, che regole le assegni."Scevola: "Sì, sarà per me un piacere. Anzi, stavo proprio per chiedertelo quando Fannio mi ha preceduto. Le tue parole, quindi, a entrambi saranno molto gradite." |
Habetis igitur explicatum omnem ut arbitror religionum locum.Quintus:Nos vero frater, et copiose quidem; sed perge cetera.Marcus:Pergam equidem, et quoniam libitum est vobis me ad haec inpellere, hodierno sermone conficiam, spero, hoc praesertim die; video enim Platonem idem fecisse, omnemque orationem eius de legibus peroratam esse uno aestivo die. Sic igitur faciam, et dicam de magistratibus. Id enim est profecto quod constituta religione rem publieam contineat maxime.Atticus:Tu vero dic et istam rationem quam coepisti tene. | Eccovi, dunque, esposto del tutto, come credo, l'argomento del culto.Quinto:Certo, fratello, ed anche con ricchezza di dettagli; ma continua con tutti gli altri.Marco:Continuerò senz'altro, e dal momento che vi ha fatto piacere incoraggiarmi, concluderò col presente discorso, spero, soprattutto in una giornata come questa; vedo infatti che anche Platone ha fatto la stessa cosa, e in una sola giornata d'estate fu portato a termine tutto il suo discorso sulle leggi. Farò dunque cosi e parlerò dei magistrati; questo infatti è indubbiamente il punto che, una volta sistemata la questione del culto, è il più essenziale per mantenere in piedi lo Stato.Attico:Parla pure, e prosegui con il metodo con il quale hai iniziato. |
At memoria minuitur. Credo, nisi eam exerceas, aut etiam si sis natura tardior. Themistocles omnium civium perceperat nomina; num igitur censetis eum, cum aetate processisset, qui Aristides esset, Lysimachum salutare solitum? Equidem non modo eos novi, qui sunt, sed eorum patres etiam et avos, nec sepulcra legens vereor, quod aiunt, ne memoriam perdam; his enim ipsis legendis in memoriam redeo mortuorum. Nec vero quemquam senem audivi oblitum, quo loco thesaurum obruisset; omnia, quae curant, meminerunt; vadimonia constituta, quis sibi, cui ipsi debeant. | Ma la memoria diminuisce. È vero, se non la eserciti o se per natura sei un po' tardo. Temistocle sapeva a memoria il nome di tutti i suoi concittadini; credete forse che, arrivato a una certa età, si sia messo a salutare Aristide chiamandolo Lisimaco? Da parte mia, non solo conosco le persone vive ai giorni nostri, ma anche i loro padri e i loro avi, e quando leggo le iscrizioni sepolcrali non ho paura, come si dice, di perdere la memoria: anzi, nel leggerle, rinnovo il ricordo dei morti. In realtà non ho mai sentito dire che uno da vecchio si sia dimenticato del luogo in cui aveva nascosto il tesoro; i vecchi ricordano quanto hanno a cuore, le malleverie prestate, i debitori, i creditori. |
Tertius vero ille finis deterrimus, ut, quanti quisque se ipse faciat, tanti fiat ab amicis. Saepe enim in quibusdam aut animus abiectior est aut spes amplificandae fortunae fractior. Non est igitur amici talem esse in eum qualis ille in se est, sed potius eniti et efficere ut amici iacentem animum excitet inducatque in spem cogitationemque meliorem. [...] Quin etiam necesse erit cupere et optare, ut quam saepissime peccet amicus, quo plures det sibi tamquam ansas ad reprehendendum; rursum autem recte factis commodisque amicorum necesse erit angi, dolere, invidere. | Invero lo stesso terzo limite è molto il peggiore, cioè che sia stimato dagli amici tanto quanto ciascuno stimi se stesso. Infatti spesso in qualcuno l'animo è troppo scoraggiato o è troppo debole la speranza di migliorare la propria sorte. Dunque non è proprio dell'amico essere verso quello come verso se stesso ma piuttosto sforzarsi e darsi da fare per risollevare l'animo abbattuto dell'amico e indurlo a speranze e pensieri migliori. [...] Sarà, inoltre, necessario desiderare e bramare che l'amico commetta errori molto spesso, per darci più occasioni per rimproverarlo; al contrario sarà inevitabile angosciarsi, addolorarsi e provare invidia per le azioni oneste e i successi degli amici. |
"Est igitur" inquit Africanus "res pubblica res populi, poplus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam imbecilitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio; non est enim singulare nec solivagum genus hoc, sed ita generatum ut ne in omnium quidem rerum affluen<tia>...{lacuna} | Lo stato è dunque - disse l'Africano - una cosa del popolo, e il popolo non ogni aggregato di gente riunito in qualche modo, ma un insieme di persone associato per consenso della legge e per una comunità di vantaggi. La prima causa del suo aggregarsi è non tanto la debolezza, quanto una certa qual disposizione naturale degli uomini all'associazione ; non è infatti incline alla solitudine né all'isolarsi questo genere, ma generato in maniera tale che neppure l'affluenza........ |
[10] Nam quod Catilinae familiaritas obiecta Caelio est, longe ab ista suspicione abhorrere debet. Hoc enim adulescente scitis consulatum mecum petisse Catilinam. Ad quem si accessit aut si a me discessit umquam (quamquam multi boni adulescentes illi homini nequam atque improbo studuerunt), tum existimetur Caelius Catilinae nimium familiaris fuisse. At enim postea scimus et vidimus esse hunc in illius amicis. Quis negat? Sed ego illud tempus aetatis, quod ipsum sua sponte infirmum aliorum libidine infestum est, id hoc loco defendo.Fuit adsiduus mecum praetore me; non noverat Catilinam; Africam tum praetor ille obtinebat. Secutus est tum annus, causam de pecuniis repetundis Catilina dixit. Mecum erat hic; illi ne advocatus quidem venit umquam. Deinceps fuit annus, quo ego consulatum petivi; petebat Catilina mecum. Numquam ad illum accessit, a me numquam recessit. | [10] Infatti, poichè è stata rinfacciata a Caelio la familiarità con Catilina, di gran lunga si deve rifuggire da questa congettura. Infatti voi sapete che Catilina ha aspirato con me al consolato, quando costui era un adolescente. e se mai egli gli si fosse allora talvolta avvicinato allontanandosi da me, lo si giudichi pure (sebbene molti giovani di buona famiglia si siano esaltati per quel folle delinquente) per questo solo troppo amico di Catilina. Ma più tardi (si ribatte) lo sapemmo e lo vedemmo addirittura fra i suoi amici. E chi lo nega? Quel che io nego è che lo fosse in quella età che, debole per sé, è più facile preda alle seduzioni altrui. Quand'io fui pretore, egli fu costantemente con me; né conosceva Catilina, allora pretore in Africa. Seguì un anno e Catilina ebbe a subire il processo per concussione. Celio era con me: ma non intervenne mai a sostenere l'accusato. Infine venne l'anno in cui io chiesi il consolato: Catilina lo chiedeva con me; e neppure allora Celio si avvicinò mai a lui, mai si staccò da me. |
Occuritur autem nobis, et quidem a doctis et eruditis quaerentibus, satisne constanter facere videamur, qui, cum percipi nihil posse dicamus, tamen et aliis de rebus disserere soleamus et hoc ipso tempore praecepta officii persequamur. Quibus vellem satis cognita esset nostra sententia. Non enim sumus ii, quorum vagetur animus errore nec habeat umquam quid sequatur. Quae enim esset ista mens vel quae vita potius, non modo disputandi, sed etiam vivendi ratione sublata? Nos autem, ut ceteri alia certa, alia incerta esse dicunt, sic ab his dissentientes alia probabilia, contra alia dicimus. | Mi si obietta invero, e la richiesta è da parte di uomini dotti e eruditi, se mi sembra di agire con sufficiente coerenza, in quanto io, pur affermando che niente può esser conosciuto con certezza, tuttavia sono solito discutere intorno ad altre tesi, e proprio nello stesso momento miro a trattare i precetti del dovere. Vorrei che costoro conoscessero bene il mio pensiero. Io non sono tale che il mio animo se ne vada vagando nell'incertezza e non abbia mai una norma da seguire. Quale sarebbe codesto intelletto o piuttosto quale la nostra vita, se si eliminasse ogni regola non solo di discussione, ma anche di vita? Io, per parte mia, come alcuni sostengono esservi alcune cose certe ed altre incerte, esprimendo un'opinione diversa da questi, dico che alcune cose sono probabili, altre improbabili. |
Servi mehercule mei si me isto pacto metuerent, ut te metuunt omnes cives tui, domum meam relinquendam putarem; tu tibi urbem non arbitraris? et, si me meis civibus iniuria suspectum tam graviter atque offensum viderem, carere me aspectu civium quam infestis omnium oculis conspici mallem; tu cum conscientia scelerum tuorum agnoscas odium omnium iustum et iam diu tibi debitum, dubitas, quorum mentes sensusque volneras, eorum aspectum praesentiamque vitare? Si te parentes timerent atque odissent tui neque eos ulla ratione placare posses, ut opinor, ab eorum oculis aliquo concederes.Nunc te patria, quae communis est parens omnium nostrum, odit ac metuit et iam diu nihil te iudicat nisi de parricidio suo cogitare; huius tu neque auctoritatem verebere nec iudicium sequere nec vim pertimesces? | Se, ai miei servi, incutessi tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l'odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza? |
Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque <est> et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus <sit> hic mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda.Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. | Esiste dunque, dal momento dunque che nulla vi è di meglio della ragione ed essa si trova sia nell'uomo sia nella divinità, come primo legame tra l'uomo e dio. E tra quelli fra i quali è comune la ragione, lo è pure la retta ragione; costituendo essa la legge, noi uomini ci dobbiamo ritenere accomunati agli dèi anche dalla legge. Tra coloro i quali vi è comunione di legge, vi è pure comunione di diritto; e quelli che hanno fra di loro questi vincoli comuni, sono da ritenersi partecipi dello stesso Stato; se essi obbediscono ai medesimi poteri ed alle medesime autorità, ancor più essi obbediscono a questa disposizione celeste ed alla mente divina ed a dio onnipotente; sicché senza dubbio questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomini. Se negli Stati le classi si distinguono secondo un determinato criterio di cui si parlerà a suo luogo, in base ai rapporti di parentela, nell'ambito naturale ciò risulta tanto più straordinario e meraviglioso, in quanto gli uomini sono tenuti insieme dalla parentela e dalla stirpe degli dèi. |
Commentabar declamitans—sic enim nunc loquuntur—saepe cum M. Pisone et cum Q. Pompeio aut cum aliquo cotidie, idque faciebam multum etiam Latine sed Graece saepius, vel quod Graeca oratio plura ornamenta suppeditans consuetudinem similiter Latine dicendi adferebat, vel quod a Graecis summis doctoribus, nisi Graece dicerem, neque corrigi possem neque doceri. | Mi addestravo "tenendo declama zioni" - ora dicono così , spesso con Marco Pisone e con Quinto Pompeo, comunque tutti i giorni con qualcuno, e lo facevo parecchio anche in latino, ma di più in greco, vuoi perché la lingua greca, mettendo a disposizione una maggiore ricchezza di ornamenti, produceva l'abitudine di parlare con altrettanta eleganza in latino; vuoi perché, se non mi fossi espresso in greco, dai migliori maestri greci non avrei potuto né esser corretto né ricevere alcun insegnamento. |
Saepe audivi ex maioribus natu, qui se porro pueros a senibus audisse dicebant, mirari solitum C. Fabricium, quod, cum apud regem Pyrrhum legatus esset, audisset a Thessalo Cinea esse quendam Athenis, qui se sapientem profiteretur, eumque dicere omnia, quae faceremus, ad voluptatem esse referenda. Quod ex eo audientis M'. Curium et Ti. Coruncanium optare solitos, ut id Samnitibus ipsique Pyrrho persuaderetur, quo facilius vinci possent, cum se voluptatibus dedissent.Vixerat M'. Curius cum P. Decio, qui quinquennio ante eum consulem se pro re publica quarto consulatu devoverat; norat eundem Fabricius, norat Coruncanius; qui cum ex sua vita, tum ex eius, quem dico, Deci, facto iudicabant esse profecto aliquid natura pulchrum atque praeclarum, quod sua sponte peteretur, quodque spreta et contempta voluptate optimus quisque sequeretur. | Spesso ho sentito dire dai più anziani, i quali lo avrebbero appreso nella loro infanzia dai loro vecchi, che Caio Fabrizio non finiva di meravigliarsi del discorso che, all'epoca della sua ambasceria presso il re Pirro, aveva sentito dal tessalo Cinea: ad Atene viveva un tale che si professava saggio e nonostante ciò sosteneva che tutte le nostre azioni devono tendere al piacere. Alle parole di Fabrizio, Manlio Curio e Tiberio Coruncanio si auguravano che i Sanniti e lo stesso Pirro si persuadessero di tale teoria perché sarebbe stato più facile vincerli se si fossero dati ai piaceri. Manlio Curio era stato compagno di Publio Decio, l'uomo che, quando era console per la quarta volta, cinque anni prima del consolato di Curio, si era sacrificato per la patria. Lo aveva conosciuto anche Fabrizio, lo aveva conosciuto Coruncanio. Entrambi, a giudicare sia dalla loro vita sia dal gesto del Decio di cui parlo, credevano fermamente nell'esistenza di qualcosa di bello e nobile per natura, tale da essere ricercato per il suo valore intrinseco ed essere seguito da tutti i migliori nel disprezzo e nella condanna del piacere. |
Marcus:Quae quidem ad rem pertineat una: quippe quom antiqui omne quod secundum naturam esset, quo iuvaremur in vita, bonum esse decreverint, hic nisi quod honestum esset <non> putarit bonum.Atticus:Parvam vero controversiam dicis, at non eam quae dirimat omnia!Marcus:Probe quidem sentires, si re ac non verbis dissiderent.Atticus:Ergo adsentiris Antiocho familiari meo (magistro enim non audeo dicere), quocum vixi et qui me ex nostris paene convellit hortulis, deduxitque in Academiam perpauculis passibus.Marcus:Vir iste fuit ille <quidem> acutus et prudens, et in suo genere perfectus mihique, ut scis, familiaris, cui tamen ego adsentiar in omnibus necne, mox videro.Hoc dico, controversiam totam istam posse sedari.Atticus:Qui istuc tandem vides? | Marco:Per quanto riguarda l'argomento centrale, una sola la divergenza, perché mentre quelli dell'antica Accademia stabilirono che fosse un bene tutto ciò che è secondo natura e da cui ricaviamo giovamento nella nostra vita, questi invece non considerò un bene se non ciò che è onesto.Attico:Ma tu mi esponi un dibattito di importanza minima, e non certo tale da risolvere tutte le questioni.Marco:Avresti ragione, se la loro divergenza fosse sui fatti, e non sulle parole.Attico:Allora tu sei d'accordo con il mio amico Antioco - che non oso chiamare tuo maestro- col quale ho trascorso un po' di tempo, che stava quasi per sradicarmi dai nostri giardini e mi avrebbe portato in pochissimi passi nell'Accademia.Marco:Quello è stato certamente un uomo saggio, lucido e, nel suo genere, perfetto, ed anche, come ben sai, mio amico; però vedremo in seguito se io vado d'accordo con lui in tutto oppure no; ma io sono convinto che si possa appianare tutto questo contrasto di idee. |
Qui tibi dies ille, M. Antoni, fuit! Quamquam mihi inimicus subito extitisti, tamen me tui miseret, quod tibi invideris.[...] | Che giorno fu per te, Marc'Antonio! Nonostante ti manifestassi nemico a me, tuttavia avevo compassione di te, perché eri invidiato.[...] |
Ne noster quidem Gratidianus officio viri boni functus est tum, cum praetor esset, collegiumque praetorium tribuni plebi adhibuissent, ut res nummaria de communi sententia constitueretur; iactabatur enim temporibus illis nummus sic, ut nemo posset scire, quid haberet. Conscripserunt communiter edictum cum poena atque iudicio constitueruntque, ut omnes simul in rostra post meridiem escenderent. Et ceteri quidem alius alio: Marius ab subselliis in rostra recta idque, quod communiter compositum fuerat, solus edixit.Et ea res, si quaeris, ei magno honori fuit; omnibus vicis statuae, ad eas tus, cerei. Quid multa? Nemo umquam multitudini fuit carior. | Neppure il nostro parente Gratidiano adempì al dovere di un uomo onesto, allorché egli era pretore e i tribuni della plebe avevano convocato il collegio dei pretori per regolare di comune accordo la situazione monetaria; in quel periodo, difatti, il valore del nummo oscillava in modo tale che nessuno era in grado di sapere quanto possedesse. Stesero di comune accordo un editto, in cui era indicata la pena e la relativa procedura giudiziaria, e decisero di presentarsi tutti insieme sui Rostri il pomeriggio. Tutti gli altri andarono chi da una parte, chi da un'altra; Mario si recò direttamente dagli scanni dei tribuni ai Rostri e da solo pubblicò quell'editto che era stato redatto in comune. E questa cosa, se vuoi saperlo, gli tornò di grande onore; gli furono innalzate statue in tutti i rioni, e dinanzi ad esse incenso e fiaccole di cera. A che serve dilungarsi? Nessuno fu mai più caro alla folla. |
Atque utinam res publica stetisset quo coeperat statu nec in homines non tam commutandarum quam evertendarum rerum cupidos incidisset! Primum enim, ut stante re publica facere solebamus, in agendo plus quam in scribendo operae poneremus, deinde ipsis scriptis non ea, quae nunc, sed actiones nostras mandaremus, ut saepe fecimus. Cum autem res publica, in qua omnis mea cura, cogitatio, opera poni solebat, nulla esset omnino, illae scilicet litterae conticuerunt forenses et senatoriae. | E magari lo stato avesse resistito in quello stato di cose in cui era sorto e non si fosse imbattuto in uomini avidi non tanto di cambiare quanto di sconvolgere la repubblica. In primo luogo mi sarei dedicato più all'azione - come solevo fare quando vigeva ancora la repubblica - che non allo scrivere, e poi avrei affidato agli scritti stessi non queste osservazioni, ma le nostre azioni - come spesso ha fatto. Ma quando finì di esistere lo Stato, nel quale solevo riporre ogni mia cura, pensiero e attività, tacque anche quella mia forense e senatoria. |
Multa in eo viro praeclara cognovi; sed nihil admirabilius, quam quo modo ille mortem fili tulit clari viri et consularis. Est in manibus laudatio, quam cum legimus, quem philosophum non contemnimus? Nec vero ille in luce modo atque in oculis civium magnus, sed intus domique praestantior. Qui sermo, quae praecepta, quanta notitia antiquitatis, scientia iuris auguri! Multae etiam, ut in homine Romano, litterae. Omnia memoria tenebat, non domestica solum, sed etiam externa bella.Cuius sermone ita tum cupide fruebar, quasi iam divinarem id quod evenit, illo exstincto, fore, unde discerem, neminem. | Ebbi modo di apprezzare in lui molte eccellenti qualità, ma nessuna più ammirevole del modo in cui sopportò la morte del figlio, uomo illustre ed ex console. Il suo elogio funebre è nelle mani di tutti; quando lo leggiamo, quale filosofo non ne esce sminuito? E non solo si rivelò grande alla luce del sole e agli occhi dei suoi concittadini, ma ancora più notevole nell'intimità e in casa. Che modo di esprimersi, che insegnamenti, che conoscenza dell'antichità, che competenza nel diritto augurale! E vasta era la sua cultura letteraria, per essere un romano: ricordava non solo tutte le vicende interne, ma anche quelle estere. Godevo del suo conversare con tanta avidità come se già presagissi quanto si sarebbe avverato in seguito: morto lui, non avrei avuto più nessuno da cui imparare. |
Quam ob rem, Quirites, quoniam ad omnia pulvinaria supplicatio decreta est, celebratote illos dies cum coniugibus ac liberis vestris. Nam multi saepe honores dis inmortalibus iusti habiti sunt ac debiti, sed profecto iustiores numquam. Erepti enim estis ex crudelissimo ac miserrimo interitu [erepti]; sine caede, sine sanguine, sine exercitu, sine dimicatione togati me uno togato duce et imperatore vicistis. | E allora, Quiriti, festeggiate questi giorni con le vostre mogli e i vostri figli, dal momento che sono state decise cerimonie di ringraziamento in ogni tempio! Spesso abbiamo tributato onoranze agli dèi immortali, giustamente, sì, ma mai come ora. Infatti, siete stati strappati alla fine più crudele e più orribile, strappati senza morti, senza sangue, senza eserciti, senza combattimenti. Con la toga avete vinto, grazie a uno solo, a me, comandante in toga. |
Novitates autem si spem adferunt, ut tamquam in herbis non fallacibus fructus appareat, non sunt illae quidem repudiandae, vetustas tamen suo loco conservanda; [...] | Inoltre, le nuove amicizie, se hanno la speranza di fruttificare, come, per così dire, v'è il frutto nelle erbe non fallaci, non si devono per niente ripudiare, ma le vecchie amicizie devono conservare il proprio posto; [...] |
Haec ratio a Chrysippo reprehenditur. Quaedam enim sunt, inquit, in rebus simplicia, quaedam copulata; simplex est: 'Morietur illo die Socrates'; huic, sive quid fecerit sive non fecerit, finitus est moriendi dies. At si ita fatum est: 'Nascetur Oedipus Laio', non poterit dici: 'sive fuerit Laius cum muliere sive non fuerit'; copulata enim res est et confatalis; sic enim appellat, quia ita fatum sit et concubiturum cum uxore Laium et ex ea Oedipum procreaturum, ut, si esset dictum: 'Luctabitur Olympiis Milo' et referret aliquis: 'Ergo, sive habuerit adversarium sive non habuerit, luctabitur', erraret; est enim copulatum 'luctabitur', quia sine adversario nulla luctatio est.Omnes igitur istius generis captiones eodem modo refelluntur. 'Sive tu adhibueris medicum sive non adhibueris, convalesces' captiosum; tam enim est fatale medicum adhibere quam convalescere. Haec, ut dixi, confatalia ille appellat. | Nella realtà alcune azioni sono semplici, altre congiunte. Semplice è l'azione: "Socrate morirà in quel determinato giorno": per costui, che faccia o meno qualcosa, è fissato il giorno della morte. Ma se è stabilito dal fato che "Edipo nascerà da Laio", non si potrà dire: "che Laio si unisca o meno con una donna", perché l'azione è congiunta e confatale: così appunto la definisce Crisippo, perché è stabilito dal fato tanto che Laio giaccia con la propria moglie, quanto che da lei abbia come figlio Edipo. Per cui, posto di dire: "Milone lotterà ad Olimpia", se qualcuno ribattesse: "dunque lotterà, che abbia o meno un avversario", sbaglierebbe; "lotterà" è un'azione congiunta, perché senza avversario non si dà alcuna lotta. Quindi, tutti i sofismi di tal genere vengono confutati nello stesso modo. "Che tu mandi a chiamare o meno un medico, guarirai" è un ragionamento capzioso: è infatti stabilito dal fato tanto chiamare il medico, quanto guarire. Sono azioni che, come ho detto, Crisippo definisce confatali. |
Extrui autem vetat sepulcrum altius, quam quod <quinque homines> quinque diebus absolverint, nec e lapide excitari plus nec inponi, quam quod capiat laudem mortui incisam ne plus quattuor herois versibus, quos longos appellat Ennius. Habemus igitur huius quoque auctoritatem de sepulcris summi viri, a quo item funerum sumptus praefinitur ex censibus a minis quinque usque ad minam. Deinceps dicit eadem illa de inmortalitate animorum et reliqua post mortem tranquillitate bonorum, poenis impiorum. | Fa poi divieto che si costruisca un sepolcro più alto di quanto non possa essere condotto a termine in cinque giornate [da cinque uomini], né che vi sia messa sopra una lapide più grande di quanto necessario a contenere l'elogio del morto in non più di quattro esametri dattilici, quelli che Ennio chiama "lunghi". Abbiamo dunque anche l'autorità di un uomo eminente circa i sepolcri, da cui viene posto ancora un limite alle spese dei funerali a seconda del censo, da una a cinque mine. Di seguito dice quel che già sappiamo sull'immortalità dell'anima e di quanto ci attende dopo morte, della pace dei buoni e della punizione degli empi. |
Sic si diceretur, 'Morietur noctu in cubiculo suo vi oppressus Scipio', vere diceretur; id enim fore diceretur, quod esset futurum; futurum autem fuisse ex eo, quia factum est, intellegi debet. Nec magis erat verum 'Morietur Scipio' quam 'Morietur illo modo', nec magis necesse mori Scipioni quam illo modo mori, nec magis inmutabile ex vero in falsum 'Necatus est Scipio' quam 'Necabitur Scipio'; nec, cum haec ita sint, est causa, cur Epicurus fatum extimescat et ab atomis petat praesidium easque de via deducat et uno tempore suscipiat res duas inenodabiles, unam, ut sine causa fiat aliquid--, ex quo existet, ut de nihilo quippiam fiat, quod nec ipsi nec cuiquam physico placet--alteram, ut, cum duo individua per inanitatem ferantur, alterum e regione moveatur, alterum declinet. | Se si dicesse: "Scipione morirà durante la notte, di morte violenta, nella sua stanza da letto", risulterebbe un'affermazione vera, perché si verrebbe a sostenere che si realizzerà quanto doveva realizzarsi, e la prova di ciò deve essere arguita dal fatto che si è effettivamente realizzato. Non sarebbe stato più veritiero dire: "Scipione morirà" rispetto ad affermare: "Morirà in quel modo", né per Scipione sarebbe stato necessario morire più che morire in quel modo, né avrebbe potuto mutarsi da vera in falsa la frase: "Scipione è stato ucciso" più che la proposizione: "Scipione sarà ucciso". Se le cose stanno nei termini sopra indicati, non c'è motivo per cui Epicuro debba temere il fato e cercare una difesa nella teoria degli atomi, sostenendo che deviano dal loro asse e facendosi carico, a un tempo, di due difficoltà insolubili: l'una, secondo cui un evento si viene a creare senza una causa che lo determini, per cui si genererebbe dal nulla - tesi che né Epicuro stesso né alcun filosofo naturalista condivide -; l'altra, secondo cui, quando due atomi si muovono nel vuoto, l'uno procede perpendicolarmente, mentre l'altro devia dal proprio asse. |
Nec tamen illud genus alterum nocturnorum testium pertimesco. Est enim dictum ab illis fore, qui dicerent uxores suas a cena redeuntes attrectatas esse a Caelio. Graves erunt homines, qui hoc iurati dicere audebunt, cum sit iis confitendum numquam se ne congressu quidem et constituto coepisse de tantis iniuriis experiri. Sed totum genus oppugnationis huius, iudices, et iam prospicitis animis et, cum inferetur, propulsare debebitis. Non enim ab isdem accusatur M.Caelius, a quibus oppugnatur; palam in eum tela iaciuntur, clam subministrantur | Nè tuttavia ho grande paura di quell’altro genere di testimoni notturni. Infatti è stato detto da costoro, quelli che dovrebbero dire che le proprie mogli mentre tornavano da una cena, sarebbero state molestate da Celio. Sarebbero uomini autorevoli, quelli che sotto giuramento osassero dire ciò, quando da loro dovrà essere confessato di non aver mai provato ad incorrere in così grandi offese, neppure in un incontro nè convegno. Ma dovrete presentire in cuor vostro, o giudici, l’intero metodo di questo attacco, ed ormai gli animi guarderanno avanti, quando sarà stato sferrato. Infatti Marco Celio, non è accusato dai medesimi dai quali è avversato, le frecce vengono scagliate pubblicamente contro di lui, preprarate di nascosto . |
Potest enim accidere promissum aliquod et conven tum, ut id effici sit inutile vel ei, cui promissum sit, vel ei, qui promiserit. Nam si, ut in fabulis est, Neptunus, quod Theseo promiserat, non fecisset, Theseus Hippolyto filio non esset orbatus. Ex tribus enim optatis, ut scribitur, hoc erat tertium, quod de Hippolyti interitu iratus optavit; quo impetrato in maximos luctus incidit. Nec promissa igitur servanda sunt ea, quae sint is, quibus promiseris inutilia, nec si plus tibi ea noceant, quam illi prosint, cui promiseris, contra officium est, maius anteponi minori, ut si constitueris, cuipiam te advocatum in rem praesentem esse venturum atque interim graviter aegrotare filius coeperit, non sit contra officium non facere, quod dixeris, magisque ille, cui promissum sit, ab officio discedat, si se destitutum queratur.Iam illis promissis standum non esse quis non videt, quae coactus quis metu, quae deceptus dolo promiserit? quae quidem pleraque iure praetorio liberantur, nonnulla legibus. | Può darsi infatti che qualche promessa o qualche accordo sia di natura tale che il mandarlo ad effetto procuri danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta. In verità, se Nettuno, come raccontano le favole, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito. Di quei tre desideri, come si narra, gliene restava da chiedere uno, il terzo, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: poiché il desiderio era stato esaudito, egli piombò nei più atroci dolori. Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che sono dannose alle persone a cui sono fatte; se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno. Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliuolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantener la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al suo dovere, se si lamentasse dell'abbandono. Inoltre, chi non s'accorge che non bisogna mantenere le promesse che si sono fatte o costretti da paura o tratti in inganno? E appunto la maggior parte di questi obblighi è annullata dal diritto pretorio; alcuni di essi anche dalle leggi. |
Duo etiam Metelli, Celer et Nepos nihil in causis versati nec sine ingenio nec indocti hoc erant populare dicendi genus adsecuti. Cn. autem Lentulus Marcellinus nec umquam indisertus et in consulatu pereloquens visus est, non tardus sententiis, non in ops verbis, voce canora, facetus satis. C. Memmius L. f. perfectus litteris sed Graecis, fastidiosus sane Latinarum, argutus orator verbisque dulcis, sed fugiens non modo dicendi verum etiam cogitandi laborem, tantum sibi de facultate detraxit quantum imm inuit industriae. | Poi i due Metelli, Celere e Nepote: non avevano esperienza di cause, ma non erano privi né di talento né di cultura; si erano ben affermati nel genere che si chiama dell'eloquenza popolare. Mentre Gneo Lentulo Marcellino, che mai si era mostrato poco facondo, nel consolato rivelò davvero una bella eloquenza: non gli mancavano la prontezza nell'escogitare le idee né la facilità di parola, aveva una voce sonora, ed era abbastanza faceto. Gaio Memmio figlio di Lucio aveva un'ottima competenza nelle lettere, ma in quelle greche: per quelle latine aveva solo disdegno; come oratore era fine, e con un linguaggio piacevole; ma siccome rifuggiva non solo dalla fatica di parlare, ma anche da quella di preparare i discorsi, impoverì il proprio talento nella misura stessa in cui ridusse l'operosità". |
Quid, si illud etiam addimus, quod recte addi potest, nihil esse quod ad se rem ullam tam alliciat et attrahat quam ad amicitiam similitudo? Concedetur profecto verum esse, ut bonos boni diligant adsciscantque sibi quasi propinquitate coniunctos atque natura. Nihil est enim appetentius similium sui nec rapacius quam natura. Quam ob rem hoc quidem, Fanni et Scaevola, constet, ut opinor, bonis inter bonos quasi necessariam benevolentiam, qui est amicitiae fons a natura constitutus.[...] | Che cosa c'è, se aggiungiamo anche ciò, che si può aggiungere con sicurezza, (che cosa c'è) che attiri e attragga qualche cosa a sé quanto l'affinità l'amicizia? Certamente si ammetterà che sia vero che i buoni preferiscono i buoni e si uniscano ad essi, uniti quasi da una parentela e dalla natura. Nulla infatti più della natura è bramosa o rapace dei suoi simili. A motivo di ciò sia evidente, Fannio e Scevola, che secondo me per i buoni c'è tra i buoni un legame affettuoso quasi inevitabile che è la fonte dell'amicizia, costruita dalla natura. [...] |
At vero eos et accusamus et iusto odio dignissimos ducimus, qui blanditiis praesentium voluptatum deleniti atque corrupti, quos dolores et quas molestias excepturi sint, obcaecati cupiditate non provident, similique sunt in culpa, qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum et dolorum fuga. [...] | Però incolpiamo e stimiamo ben meritevoli di giusto odio coloro che, sedotti e corrotti dalle attrattive di piaceri presenti, non prevedono, accecati dal desiderio, quali dolori e quali dispiaceri subiranno in seguito e di simile colpa sono responsabili quelli che vengono meno ai loro doveri per mollezza d’animo, cioè per evitare fatiche e dolori. [...] |
Quoniam autem vivitur non cum perfectis hominibus planeque sapientibus, sed cum iis, in quibus praeclare agitur, si sunt simulacra virtutis, etiam hoc intellegendum puto, neminem omnino esse neglegendum, in quo aliqua significatio virtutis appareat, colendum autem esse ita quemque maxime, ut quisque maxime virtutibus his lenioribus erit ornatus, modestia, temperantia, hac ipsa, de qua multa iam dicta sunt, iustitia. Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto nec sapiente ferventior plerumque est, illae virtutes bonum virum videntur potius attingere.Atque haec in moribus. | E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere. |
Equidem et Platonem existimo si genus forense dicendi tractare voluisset, gravissime et copiosissime potuisse dicere et Demosthenem si illa, quae a Platone didicerat, tenuisset et pronuntiare voluisset, ornate splendideque facere potuisse; eodemque modo de Aristotele et Isocrate iudico, quorum uterque suo studio delectatus contempsit alterum. Sed cum statuissem scribere ad te aliquid hoc tempore, multa posthac, ab eo ordiri maxime volui, quod et aetati tuae esset aptissimum et auctoritati meae.Nam cum multa sint in philosophia et gravia et utilia accurate copioseque a philosophis disputata, latissime patere videntur ea quae de officiis tradita ab illis et praecepta sunt. Nulla enim vitae pars neque publicis neque privatis neque forensibus neque domesticis in rebus, neque si tecum agas quid, neque si cum altero contrahas, vacare officio potest in eoque et colendo sita vitae est honestas omnis et neglegendo turpitudo. | Personalmente sono convinto che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore, e che Demostene, se avesse assimilato del tutto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio esprimo su Aristotele e Isocrate; purtroppo sia l'uno che l'altro, innamorato ciascuno della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro. Ora, avendo io stabilito di scrivere per te qualche cosa in questo periodo e molte altre in avvenire, ho voluto prendere le mosse proprio da quell'argomento che più si addice e all'età tua e alla mia autorità. Difatti, tra le molte questioni filosofiche, importanti ed utili, trattate con grande attenzione e ampiezza dai filosofi, a parer mio quelli che hanno la più larga e vasta applicazione sono gli insegnamenti e i precetti tramandati da essi intorno ai doveri. Nessun momento della vita né degli affari pubblici né privati né forensi né domestici né se tu abbia a che fare con un altro può sottrarsi al dovere e tutta l'onestà della vita consiste nell'adempierlo e la disonestà nel trascurarlo.E questa ricerca appunto è comune a tutti i filosofi. Infatti chi è che osa chiamarsi filosofo senza dare alcun precetto morale? |
Nam quod ad Phalarim attinet, perfacile iudicium est. Nulla est enim societas nobis cum tyrannis et potius summa distractio est, neque est contra naturam spoliare eum, si possis, quem est honestum necare, atque hoc omne genus pestiferum atque impium ex hominum communitate exterminandum est. Etenim, ut membra quaedam amputantur, si et ipsa sanguine et tamquam spiritu carere coeperunt et nocent reliquis partibus corporis, sic ista in figura hominis feritas et immanitas beluae a communi tamquam humanitate corporis segreganda est.Huius generis quaestiones sunt omnes eae, in quibus ex tempore officium exquiritur. | Per ciò che riguarda, difatti, l'esempio di Falaride, la risposta è assai facile; non sussiste per noi alcun rapporto sociale coi tiranni; piuttosto vi è un estremo distacco; non è contro natura - se è possibile - spogliare dei suoi beni colui che è addirittura onesto uccidere, e tutto questo genere pestifero ed empio deve essere sterminato dalla comunità umana. Infatti come si amputano certe membra, se esse cominciano a mancare di sangue e quasi di vita e nuocciono alle altre parti del corpo, cosi questa belva feroce e selvaggia dall'aspetto d'uomo deve essere allontanata, per cosi dire, dal corpo comune dell'umanità. Di tal genere sono tutte quelle questioni, nelle quali si studia il dovere in rapporto alle circostanze. |
Neque enim assentior iis qui haec nuper disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire atque omnia morte deleri; plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum maiorum, qui mortuis tam religiosa iura tribuerunt, quod non fecissent profecto si nihil ad eos pertinere arbitrarentur, vel eorum qui in hac terra fuerunt magnamque Graeciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et praeceptis suis erudierunt, vel eius qui Apollinis oraculo sapientissimus est iudicatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque, sed idem semper, animos hominum esse divinos, iisque, cum ex corpore excessissent, reditum in caelum patere, optimoque et iustissimo cuique expeditissimum. | No, non sono d'accordo con chi, da qualche tempo, si è messo a sostenere che l'anima muore insieme al corpo e tutto viene distrutto dalla morte. Per me vale di più l'autorità degli antichi: quella dei nostri antenati, che non avrebbero sicuramente tributato ai morti diritti così sacri se avessero pensato che i morti ne fossero indifferenti; oppure l'autorità di coloro che abitarono il nostro paese e diedero istituzioni e norme di vita alla Magna Grecia, che oggi è certamente distrutta, ma allora era fiorente; o l'autorità di colui che, giudicato «il più saggio» dall'oracolo di Apollo, non disse sull'argomento ora questo ora quello, come fanno i più, ma sempre la stessa cosa: l'anima dell'uomo è divina e, quando si stacca dal corpo, ha schiuso di fronte il ritorno al cielo, ritorno tanto più veloce quanto più si è buoni e giusti. |
Doctum hominem sane, cuius fuit Accius perfamiliaris; sed mensem credo extremum anni ut veteres Februarium sic hic Decembrem sequebatur. Hostia autem maxima parentare pietatis esse adiunctum putabat. | Uomo certamente di grande dottrina, che fu intimo di Accio, ma questi considerava, credo, come l'ultimo mese dell'anno il mese di dicembre, gli antichi invece febbraio. Riteneva poi che fosse dovere di pietà aggiungere alle cerimonie funebri una grandissima offerta sacrificale. |
TULLIUS S. D. TERENTIAE SUAE.S. v. b. e. e. v. Tullia nostra venit ad me pr. Idus Iun.; cuius summa virtute et singulari humanitate graviore etiam sum dolore affectus nostra factum esse negligentia, ut longe alia in fortuna esset, atque eius pietas ac dignitas postulabat. Nobis erat in animo Ciceronem ad Caesarem mittere et cum eo Cn. Sallustium: si profectus erit, faciam te certiorem. Valetudinem tuam cura diligenter. Vale. XVII K. Quinctiles. | CICERONE ALLA SUA TERENZIAIo sto bene e così spero di te. La nostra Tullia mi ha raggiunto il 12 giugno. Le sue grandi virtù e la suaeccezionale sensibilità mi hanno fatto provare un rimorso anche più grande che per la mia imprudenza si trovi ora inuna condizione ben diversa da quella che pretenderebbero il suo affetto e il suo stato. Ho l'intenzione di mandare daCesare Cicerone insieme con Cneo Sallustio. Se dovesse partire te ne informerò subito. Non trascurare la salute.Addio.15 giugno. |
Hoc modo hanc causam disceptari oportet, non ab atomis errantibus et de via declinantibus petere praesidium. 'Declinat', inquit, 'atomus'. Primum cur? aliam enim quandam vim motus habebant a Democrito inpulsionis, quam plagam ille appellat, a te, Epicure, gravitatis et ponderis. Quae ergo nova causa in natura est, quae declinet atomum? aut num sortiuntur inter se, quae declinet, quae non? aut cur minimo declinent intervallo, maiore non? aut cur declinent uno minimo, non declinent duobus aut tribus? | Occorre discutere la questione sotto tale ottica, senza cercare una difesa negli atomi che vagano nel vuoto e deviano dal proprio asse. "L'atomo", sostiene Epicuro, "devia". Primo: perché? A parere di Democrito avevano, in effetti, una qualche altra forza di movimento, l'impulso, che egli chiama colpo, mentre secondo te, o Epicuro, si muovono in virtù della gravità e del peso. Quale nuova causa si trova dunque nella natura, per cui l'atomo dovrebbe deviare? Forse traggono a sorte tra di loro quale atomo debba deviare e quale no? O perché deviare di uno scarto minimo, e non maggiore? O ancora, perché di un solo scarto minimo e non di due o di tre? Questo significa esprimere desideri, non argomentare. |
Illud autem maxime rarum genus est eorum, qui aut excellenti ingenii magnitudine aut praeclara eruditione atque doctrina aut utraque re ornati spatium etiam deliberandi habuerunt, quem potissimum vitae cursum sequi vellent; in qua deliberatione ad suam cuiusque naturam consilium est omne revocandum. Nam cum in omnibus quae aguntur, ex eo, quomodo quisque natus est, ut supra dictum est, quid deceat, exquirimus, tum in tota vita constituenda multo est ei rei cura maior adhibenda, ut constare in perpetuitate vitae possimus nobismet ipsis nec in ullo officio claudicare. | Ma la specie più rara è quella di coloro che, dotati di una singolare altezza d'ingegno, o di una squisita cultura e dottrina, o dell'una e dell'altra cosa insieme, hanno anche il tempo e l'agio di scegliere liberamente quella particolar maniera di vita a cui il loro genio naturale li porta; e appunto in questa scelta ciascuno deve scrutare e penetrare la propria natura con la più vigile attenzione. Perché, se in ogni singola azione il decoro si determina, come sopra ho detto, dalla rispondenza di essa al carattere di ciascuno, così, nell'ordinamento di tutta la vita, con tanto maggior cura bisogna cercare tale armonia, sì che possiamo in tutto il corso della vita essere coerenti con noi stessi e non zoppicare in alcun dovere. |
Quamquam isti, qui Catilinam Massiliam ire dictitant, non tam hoc queruntur quam verentur. Nemo est istorum tam misericors, qui illum non ad Manlium quam ad Massilienses ire malit. Ille autem, si mehercule hoc, quod agit, numquam antea cogitasset, tamen latrocinantem se interfici mallet quam exulem vivere. Nunc vero, cum ei nihil adhuc praeter ipsius voluntatem cogitationemque acciderit, nisi quod vivis nobis Roma profectus est, optemus potius, ut eat in exilium, quam queramur. | Del resto, chi sostiene che Catilina è diretto a Marsiglia è più preoccupato che dispiaciuto. Nessuno di loro prova tanta pietà da preferire che vada a Marsiglia piuttosto che da Manlio! Quanto a lui, anche se non avesse mai premeditato quel che sta compiendo, preferirebbe certo morire da bandito che vivere da esiliato. Ma in questo momento, poiché finora non gli è accaduto nulla che fosse in contrasto con le sue intenzioni e i suoi progetti, se non partire da Roma lasciandomi vivo, auguriamoci che vada dritto in esilio e non lamentiamocene! |
At non debuit ratum esse, quod erat actum per vim. Quasi vero forti viro vis possit adhiberi. Cur igitur ad senatum proficiscebatur, cum praesertim de captivis dissuasurus esset? Quod maximum in eo est, id reprehenditis. Non enim suo iudicio stetit, sed suscepit causam, ut esset iudicium senatus; cui nisi ipse auctor fuisset, captivi profecto Poenis redditi essent. Ita incolumis in patria Regulus restitisset. Quod quia patriae non utile putavit, idcirco sibi honestum et sentire illa et pati credidit.Nam quod aiunt, quod valde utile sit, id fieri honestum, immo vero esse, non fieri. Est enim nihil utile, quod idem non honestum, nec quia utile, honestum, sed, quia honestum, utile. Quare ex multis mirabilibus exemplis haud facile quis dixerit hoc exemplo aut laudabilius aut praestantius. | Ma non si doveva mantenere ciò che era stato estorto con la forza. Come se a un uomo forte si potesse fare violenza! Perché, dunque, partiva per il senato, tenuto conto, soprattutto, del fatto che aveva intenzione di sconsigliare la restituzione dei prigionieri? Voi biasimate proprio il suo merito maggiore: egli non si accontentò del suo giudizio, ma accettò l'incarico perché fosse il senato a decidere, e se non fosse stato lui a consigliare, certamente i prigionieri sarebbero stati restituiti ai Cartaginesi. In tal caso Regolo restato incolume in patria; ma poiché non lo ritenne utile per la patria, proprio per questo giudicò onesto per sé esprimere il proprio parere e patirne le conseguenze. Riguardo, poi, all'affermazione che quanto molto utile diviene anche onesto, (si dovrebbe dire) anzi che lo è, non lo diventa: nulla, difatti, è utile se non è onesto, e non è onesto perché utile, ma utile perché onesto. Di conseguenza tra molti ammirevoli esempi difficilmente qualcuno potrebbe citarne uno più lodevole ed efficace di questo. |
Sic Hortensius non cum suis aequalibus solum, sed et mea cum aetate et cum tua, Brute, et cum aliquanto superiore coniungitur, si quidem et Crasso vivo dicere solebat et magis iam etiam vigebat Antonio; et cum Philippo iam sene pro Cn. Pompei bonis di cens in illa causa, adulescens cum esset, princeps fuit et in eorum, quos in Sulpici aetate posui, numerum facile pervenerat et suos inter aequalis M. Pisonem M. Crassum Cn. Lentulum P. Lentulum Suram longe praestitit et me adulescentem nactus octo annis minorem, quam erat ipse, multos annos in studio eiusdem laudis exercuit et tecum simul, sicut ego pro multis, sic ille pro Appio Claudio dixit paulo ante mortem. | Così Ortensio si collega non solo con i suoi coetanei, ma con la mia generazione e con la tua, Bruto, e anche con quella a lui alquanto precedente; tant'è vero che già soleva parlare quando Crasso era in vita, e aveva incominciato ad acquistare sempre maggiore rinomanza prima della morte di Antonio; che quando parlò insieme all'ormai vecchio Filippo in favore dei beni di Gneo Pompeo, in quella causa, per quanto fosse giovane, sostenne la parte principale; che agevolmente aveva trovato il suo posto nel novero di quelli che ho collocato nell'età di Sulpicio, che superò di gran lunga i suoi coetanei Marco Pisone, Marco Crasso, Gneo Lentulo e Publio Lentulo Sura; che mi incontrò quando ero giovane, di otto anni minore di lui, e per molti anni ha pungolato il mio ardore per un'identica gloria; e che ha collaborato con te, come ho fatto io in diversi patrocini," nella difesa di Appio Claudio, pronunciata poco prima della morte. |
Duplex est enim vis animorum atque natura; una pars in appetitu posita est, quae estormeGraece, quae hominem huc et illuc rapit, altera in ratione, quae docet et explanat, quid faciendum fugiendumque sit. Ita fit, ut ratio praesit, appetitus obtemperet. Omnis autem actio vacare debet temeritate et neglegentia nec vero agere quicquam, cuius non possit causam probabilem reddere; haec est enim fere discriptio officii. | Due sono, invero, le potenze naturali dell'animo: l'una è riposta nell'istinto (i Greci la chiamanoorme= impulso), e trascina ciecamente l'uomo qua e là; l'altra risiede nella ragione, che insegna e dimostra quello che si debba fare e quello che è da evitare. [Onde avviene che la ragione comanda e l'istinto obbedisce. Ogni nostra azione deve essere assolutamente priva di temerità e di negligenza; noi non dobbiamo far nulla di cui non possiamo fornire una plausibile ragione. Questa, invero, è quasi la definizione del dovere]. |
Secerni autem blandus amicus a vero et internosci tam potest adhibita diligentia quam omnia fucata et simulata a sinceris atque veris. Contio, quae ex imperitissimis constat, tamen iudicare solet quid intersit inter popularem, id est assentatorem et levem civem, et inter constantem et severum et gravem. | Ma, stando bene attenti, è possibile distinguere e riconoscere l'amico adulatore dal vero amico, così come si riconosce ciò che è contraffatto e falso da ciò che è autentico e genuino. L'assemblea popolare, composta da persone molto ignoranti, è capace tuttavia di vedere, di solito, la differenza tra il demagogo, cioè il cittadino adulatore e infido, e il cittadino coerente, serio e ponderato. |
Ut enim cetera paria Tuberoni cum Varo fuissent, honos, nobilitas, splendor, ingenium, quae nequaquam fuerunt, hoc certe praecipuum Tuberonis quod iusto cum imperio ex senatus consulto in provinciam suam venerat. Hinc prohibitus non ad Caesarem, ne iratus, non domum, ne iners, non aliquam in regionem, ne condemnare causam illam quam secutus esset videretur; in Macedoniam ad Cn. Pompei castra venit, in eam ipsam causam a qua erat reiectus iniuria. | Ammesso anche che Tuberone e Varo fossero stati alla pari nel resto: dignità, nobiltà, ingegno (il che non fu, certo); questo, indubbiamente fu a vantaggio di Tuberone, ché egli si era recato, investito di un potere legittimo, nella provincia sua in base ad una decisione senatoriale. Respinto da questa, non si recò presso Cesare, per non sembrare risentito, non rientrò in patria, per non sembrare infingardo, non si ritirò in alcuna provincia, per non dare a vedere che egli condannava la causa che aveva seguita; raggiunse in Macedonia il campo di Gneo Pompeo, proprio quel partito dal quale era stato ignominiosamente respinto. |
Huic successit aetati C. Galba, Servi illius eloquentissimi viri filius, P. Crassi eloquentis et iuris periti gener. laudabant hunc patres nostri, favebant etiam propter patris memoriam, sed cecidit in cursu. nam rogatione Mamilia Iugurthinae coniurationis invidia, cum pro sese ipse dixisset, oppressus est. exstat eius peroratio, qui epilogus dicitur; qui tanto in honore pueris nobis erat ut eum etiam edisceremus. hic, qui in conlegio sacerdotum esset, primus post Romam conditam iudicio publico est condemnatus. | Dopo di lui, in ordine di tempo, viene Gaio Galba, figlio di quell'eloquentissimo Servio, e genero di Publio Crasso, che fu a sua volta eloquente ed esperto di diritto. I nostri padri lo elogiavano, e anche lo appoggiavano in nome del ricordo del padre, ma cadde a mezza strada. Infatti, perseguito in virtù della legge Mamilia, a causa dell'ostilità suscitata dall'accusa di connivenza con Giugurta, si difese da solo, ma dovette soccombere. Resta la sua perorazione, detta "epilogo"; quando eravamo ragazzi, godeva di tanta rinomanza che dovevamo addirittura impararla a memoria. Costui fu, dalla fondazione di Roma, il primo membro di un collegio sacerdotale" a venire condannato in un pubblico giudizio. |
Ac de iure quidem praediorum sanctum apud nos est iure civili, ut in iis vendendis vitia dicerentur, quae nota essent venditori. Nam cum ex duodecim tabulis satis esset ea praestari, quae essent lingua nuncupata, quae qui infitiatus esset, dupli poena subiret, a iuris consultis etiam reticentiae poena est constituta; quicdquid enim esset in praedio vitii, id statuerunt, si venditor sciret, nisi nominatim dictum esset, praestari oportere. | Per quel che riguarda la regolamentazione dei beni immobili, il nostro diritto civile sancisce che all'atto della vendita si dichiarino i difetti noti al venditore. Difatti, mentre per le XII tavole era sufficiente rispondere delle cose esplicitamente dichiarate, e chi rinnegava la parola data era condannato a pagare una multa del doppio, i giureconsulti stabilirono una pena anche per la reticenza. Stabilirono, infatti, che il venditore deve rispondere di qualsiasi difetto si trovi in un bene immobile, se a lui è noto e non è stato espressamente dichiarato. |
Quorsus, inquam, istuc? non enim intellego. Quia primum, inquit, ita laudavisti quosdam oratores ut imperitos posses in errorem inducere. equidem in quibusdam risum vix tenebam, cum Attico Lysiae Catonem nostrum comparabas, magnum mercule hominem vel potius summum et singularem virum—nemo dicet secus—sed oratorem? sed etiam Lysiae similem? quo nihil potest esse pictius. bella ironia, si iocaremur; sin adseveramus, vide ne religio nobis tam adhibenda sit quam si testimonium diceremus. | "Dove vai a parare?" dissi. "Proprio non capisco." A che in primo luogo" disse "hai tanto elogiato certi oratori, da poter indurre in errore gli inesperti. Certo nel caso di alcuni quasi non riuscivo a tenere il riso, come quando paragonavi all'attico Lisia il nostro Catone, un grand'uomo, caspita!, o piuttosto una personalità somma ed eccezionale - nessuno dirà diversamente -, ma oratore?! E per di più simile a Lisia? Ma se questi ha un colorito che non trova confronti! Sarebbe una forma proprio carina di ironia, se stessimo scherzando; ma se parliamo sul serio, vedi se da parte nostra non sia necessaria altrettanta scrupolosità che se stessimo rendendo una testimonianza. |
'Eundem magistratum, ni interfuerint decem anni, ne quis capito. Aevitatem annali lege servanto.''Ast quando duellum gravius discordiaeve civium escunt, oenus ne amplius sex menses, si senatus creverit, idem iuris quod duo consules teneto, isque ave sinistra dictus populi magister esto. Equitatumque qui regat habeto pari iure cum eo quicumque erit iuris disceptator. Reliqui magistratus ne sunto.''Ast quando consules magisterve populi nec erunt, auspicia patrum sunto, ollique ec se produnto qui comitiatu creare consules rite possit.''Imperia potestates legationes, cum senatus creverit populusve jusserit, ex urbe exeunto, duella iusta iuste gerunto, sociis parcunto, se et suos continento, populi <sui> gloriam augento, domum cum laude redeunto.''Rei suae ergo ne quis legatus esto.''Plebes quos pro se contra vim auxilii ergo decem creassit, ei tribuni eius sunto, quodque ei prohibessint quodque plebem rogassint, ratum esto; sanctique sunto; neve plebem orbam tribunis relinquunto.' | "Nessuno assuma la stessa carica se non sono passati dieci anni; si osservino i limiti di età stabiliti dalla legge degli Annali.""Ma quando vi sarà una guerra piuttosto grave, oppure discordie civili, uno solo, se il senato lo avrà decretato, abbia il potere dei due consoli, per non più di sei mesi e, nominato conforme ad auspicio favorevole, sia maestro del popolo. Chi comanda la cavalleria abbia autorità pari all'interprete del diritto, chiunque quello sia. Tutti gli altri magistrati non esistano.""Ma nel momento in cui non vi saranno consoli né maestro del popolo, gli auspici spettino ai senatori, ed essi delegheranno fra loro quelli che possano convocare i comizi e nominare legalmente i consoli.""Le autorità militari e civili, gli ambasciatori, per decreto del senato e dietro ordine del popolo, escano di città, conducano guerre legittime legalmente, risparmino gli alleati, frenino se stessi ed i loro amici, accrescano la gloria del loro popolo, tornino a casa con dei meriti.""A nessuno sia conferita qualità di ambasciatore per interesse privato."" Abbia la plebe come suoi tribuni i dieci creati a sua difesa contro la violenza, e quello che essi vietino e quel che sarà ordinato dalla plebe, sia irrevocabile; essi siano sacri ed inviolabili, né la plebe sia mai lasciata priva dei tribuni." |
Nam si id dolemus, quod eo iam frui nobis non licet, nostrum est id malum; quod modice feramus, ne id non ad amicitiam sed ad domesticam utilitatem referre videamur: sin tamquam illi ipsi acerbitatis aliquid acciderit angimur, summam eius felicitatem non satis grato animo interpretamur. | 5 Infatti, se ci addoloriamo perché non possiamo ormai più godere della sua presenza, nostra è questa pena: sopportiamola con moderazione, per non sembrare riferirla non all'amicizia nei suoi confronti, ma al nostro particolare interesse; se invece ci crucciamo come se gli fosse accaduto qualcosa di crudele, non sappiamo riconoscere con sufficiente gratitudine la sua immensa fortuna. |
Quare quis ex populo, cum Q. Scaevolam pro M. Coponio dicentem audiret in ea causa de qua ante dixi, quicquam politius aut elegantius aut omnino melius aut exspectaret aut posse fieri putaret? | Perciò chi mai, del popolo, sentendo parlare Quinto Scevola in favore di Marco Coponio in quella causa che ho ricordato prima, si sarebbe aspettato -o avrebbe immaginato che si potesse fare - qualcosa di più forbito, di più elegante, o in generale di meglio? |
Tum fuit Lysias ipse quidem in causis forensibus non versatus, sed egregie subtilis scriptor atque elegans, quem iam prope audeas oratorem perfectum dicere. nam plane quidem perfectum et quoi nihil admodum desit Demosthenem facile dixeris. nihil acute inveniri potuit in eis causis quas scripsit, nihil, ut ita dicam, subdole, nihil versute, quod ille non viderit; nihil subtiliter dici, nihil presse, nihil enucleate, quo fieri possit aliquid limatius; nihil contra grande, nihil incitatum, nihil ornatum vel verborum gravitate vel sententiarum, quo quicquam esset elatius. | 35 Disse allora Lisia: " se è vero che non ebbe l'abitudine di cimentarsi direttamente nelle cause forensi, fu però scrittore egregiamente semplice ed elegante; quasi già ci si potrebbe azzardare a definirlo oratore perfettamente compiuto. Giacché proprio compiuto alla perfezione, uno al quale non manca praticamente niente, può esser detto senz'altro Demostene. Nelle cause per le quali ha lasciato scritti i suoi discorsi, sarebbe stato impossibile escogitare finezze di argomentazione, furbizie, per dir così, e destrezze, che egli non abbia visto; impossibile parlare" con altrettanta semplicità, concisione, chiarezza - la sua rifinitura non trova eguale -; ma anche con tale elevatezza e intensità, con altrettanto splendore di nobili espressioni e di pensieri maestosi: non trova eguale la sua sublimità. |
Quodsi is esset Panaetius, qui virtutem propterea colendam diceret, quod ea efficiens utilitatis esset, ut ii, qui res expetendas vel voluptate vel indolentia metiuntur, liceret ei dicere utilitatem aliquando cum honestate pugnare. Sed cum sit is, qui id solum bonum iudicet, quod honestum sit, quae autem huic repugnent specie quadam utilitatis, eorum neque accessione meliorem vitam fieri nec decessione peiorem, non videtur debuisse eiusmodi deliberationem introducere, in qua quod utile videretur cum eo, quod honestum est, compararetur. | E se Panezio fosse un uomo tale da affermare che la virtù si deve praticare proprio perché essa è produttrice di utilità, come quelli che misurano le cose da desiderare o in base al piacere o in base alla assenza di dolore, sarebbe possibile per lui affermare che l'utilità contrasta qualche volta con l'onestà. Ma poiché egli è tale che giudica unico bene ciò che è onesto, e ritiene che le cose in contrasto con l'onesto, pur con una certa apparenza di utile, non rendano la vita migliore con il loro apporto, né la rendano peggiore con la loro mancanza, perciò non sembra che egli avrebbe dovuto introdurre un discorso di tal genere, nel quale ciò che sembra utile viene messo a paragone con ciò che è onesto. |
C. Gracchus ad M. Pomponium scripsit, duobus anguibus domi comprehensis, haruspices a patre convocatos. Qui magis anguibus quam lacertis, quam muribus? Quia sunt haec cotidiana, angues non item; quasi vero referat, quod fieri potest, quam id saepe fiat. Ego tamen miror, si emissio feminae anguis mortem adferebat Ti. Graccho, emissio autem maris anguis erat mortifera Corneliae, cur alteram utram emiserit; nihil enim scribit respondisse haruspices, si neuter anguis emissus esset, quid esset futurum."At mors insecuta Gracchum est." Causa quidem, credo, aliqua morbi gravioris, non emissione serpentis; neque enim tanta est infelicitas haruspicum, ut ne casu quidem umquam fiat quod futurum illi esse dixerint. | Gaio Gracco scrisse a Marco Pomponio che suo padre aveva chiamato gli arùspici perché in casa sua erano stati presi due serpenti. Come mai tanto trambusto per dei serpenti e non per delle lucertole, per dei topi? Perché questi sono animali che càpita di vedere tutti i giorni, i serpenti no. Come se, dal momento che un evento può accadere, abbia importanza il considerare quanto spesso accada! Ma io non capisco una cosa: se il lasciare andar via il serpente femmina era causa di morte per Tiberio Gracco padre, il lasciare andar via il maschio era invece letale per Cornelia, perché egli lasciò andar via uno dei due serpenti? Per quel che scrive Gaio Gracco, gli arùspici non dissero affatto che cosa sarebbe avvenuto se nessuno dei due animali fosse stato lasciato andare. "Ma" tu dirai, "sta di fatto che sùbito dopo avvenne la morte del vecchio Gracco." Morì, credo, a causa di qualche malattia particolarmente grave, non per aver lasciato andar via un serpente; poiché gli arùspici non sono sfortunati fino al punto che non possa accadere nemmeno una volta per caso ciò che essi hanno predetto. |
Quintus:Atqui frater bona tua venia dixerim, ista sententia maxime et fallit imperitos, et obest saepissime rei publicae, cum aliquid verum et rectum esse dicitur, sed optineri id est obsisti posse populo negatur. Primum enim obsistitur cum agitur severe, deinde vi opprimi in bona causa est melius quam malae cedere. Quis autem non sentit omnem auctoritatem optimatium tabellariam legem abstulisse? Quam populus liber numquam desideravit, idem oppressus dominatu ac potentia principum flagitavit.Itaque graviora iudicia de potentissimis hominibus extant vocis quam tabellae. Quam ob rem suffragandi nimia libido in non bonis causis eripienda fuit potentibus, non latebra danda populo, in qua bonis ignorantibus quid quisque sentiret, tabella vitiosum occultaret suffragium. Itaque isti rationi neque lator quisquam est inventus nec auctor umquam bonus. | Quinto:Eppure, fratello, con tua buona pace, oserei dire, quest'opinione in particolare ed inganna gli inesperti ed assai spesso nuoce al pubblico interesse, quando si dice che qualcosa è vera e giusta, ma si afferma che non si può ottenere, cioè che non è possibile opporsi al popolo. Ci si oppone infatti in primo luogo agendo con severità, e secondariamente subire violenza per una causa buona è meglio che assecondarne una cattiva. Chi non s'accorge infatti che la legge tabellaria ha annullato tutta l'influenza degli ottimati? Legge che il popolo libero mai aveva desiderato, ma che chiese con insistenza invece quando fu oppresso dalla dominazione e dal potere dei capi. Pertanto quando si debbono giudicare i personaggi più potenti, risultano più severi i giudizi dati a voce di quelli della scheda. Per tal motivo si sarebbe dovuto impedire ai potenti l'eccessiva voglia di racimolare voti in cause non oneste, piuttosto che offrire al popolo un rifugio, nel quale mentre i galantuomini ignorano ciò che ciascuno di loro pensa, con la scheda esso nasconde un voto riprovevole. Pertanto non si trovò mai una persona retta che volesse suggerire o presentare un tale progetto di legge. |
Quamquam haec omnia, Quirites, ita sunt a me administrata, ut deorum inmortalium nutu atque consilio et gesta et provisa esse videantur. Idque cum coniectura consequi possumus, quod vix videtur humani consilii tantarum rerum gubernatio esse potuisse, tum vero ita praesentes his temporibus opem et auxilium nobis tulerunt, ut eos paene oculis videre possemus. Nam ut illa omittam, visas nocturno tempore ab occidente faces ardoremque caeli, ut fulminum iactus, ut terrae motus relinquam, ut omittam cetera, quae tam multa nobis consulibus facta sunt, ut haec, quae nunc fiunt, canere di inmortales viderentur, hoe certe, quod sum dicturus, neque praetermittendum neque relinquendum est. | Eppure, Quiriti, da come ho condotto la vicenda sembra che siano intervenuti gli dèi immortali a disporla e a risolverla con la loro volontà e saggezza. Se ci riflettiamo possiamo convincercene, perché sembra davvero difficile che la mente umana sia in grado di governare fatti tanto complessi. Ma gli dèi, standoci accanto in tali circostanze, ci hanno offerto aiuto e protezione al punto che potevamo quasi vederli con i nostri occhi. Non intendo parlarvi di fenomeni come meteore apparse di notte a illuminare a occidente il cielo; non voglio ricordare fulmini e terremoti, né parlare di altri fatti che si sono verificati con frequenza durante il mio consolato e che sembravano quasi il preannuncio divino degli eventi capitati ora. Un episodio, Quiriti, non va taciuto né dimenticato. Ve lo racconto. |
Atticus:Ita credo. Sed tamen hoc magis eas res et memini et specto, quod et ad pontificium ius et ad civile pertinent.Marcus:Vero, et a peritissimis sunt istis de rebus et responsa et scripta multa, et ego in hoc omni sermone nostro, quod ad cumque legis genus me disputatio nostra deduxerit, tractabo quoad potero eius ipsius generis ius civile nostrum, sed ita locus ut ipse notus sit, ex quo ducatur quaeque pars iuris, ut non difficile sit, qui modo ingenio possit moveri, quaecumque nova causa consultatiove acciderit, eius tenere ius, quom scias a quo sit capite repetendum. | Attico:Ne sono convinto. Però mi sono ricordato, e sono in attesa di questi argomenti per il fatto che hanno pertinenza col diritto pontificale e col diritto civile.Marco:Certamente molti giudizi e scritti sono stati lasciati dai più competenti in queste materie; ed in tutta questa nostra conversazione, a qualunque specie di legge ci avrà portati la discussione, tratterò entro i limiti del possibile il nostro diritto civile appunto per quel che riguarda quel genere di leggi, ma in modo tale che sia nota la fonte onde emana ogni parte del diritto, affinché non riesca difficile, anche con un minimo d'intelligenza, qualunque nuova causa o richiesta di parere si presenti, sostenerla sotto l'aspetto giuridico, una volta che si sappia da quale principio occorre partire. |
Quando igitur duobus generibus iniustitiae propositis adiunximus causas utriusque generis easque res ante constituimus, quibus iustitia contineretur, facile quod cuiusque temporis officium sit poterimus, nisi nosmet ipsos valde amabimus, iudicare. Est enim difficilis cura rerum alienarum. Quamquam Terentianus ille Chremes "humani nihil a se alienum putat"; sed tamen, quia magis ea percipimus atque sentimus, quae nobis ipsis aut prospera aut adversa eveniunt, quam illa, quae ceteris, quae quasi longo intervallo interiecto videmus, aliter de illis ac de nobis iudicamus.Quocirca bene praecipiunt, qui vetant quicquam agere, quod dubites aequum sit an iniquum. Aequitas lucet ipsa per se, dubitatio cogitationem significat iniuriae. | Noi poco fa abbiamo chiarito le due forme dell'ingiustizia, aggiungendovi le cause dell'una e dell'altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo l'eccessivo amore di noi stessi: perché è ben difficile il prendersi a cuore gl'interessi altrui. Ha un bel dire Cremete di Terenzio: "Sono uomo: non c'è nulla di umano che non mi riguardi", ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore le fortune e le sfortune nostre che non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per cosi dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di quelli e di noi. Saggio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in dubbio. La giustizia risplende di un suo proprio splendore; il solo dubbio implica sempre un sospetto d'ingiustizia. |
Atque ut ego primum fletu represso loqui posse coepi: "Quaeso", inquam, "pater sanctissime atque optime, quoniam haec est vita, ut Africanum audio dicere, quid moror in terris? Quin huc ad vos venire propero?". "Non est ita", inquit ille. "Nisi enim deus is, cuius hoc templum est omne, quod conspicis, istis te corporis custodiis liberaverit, huc tibi aditus patere non potest. Homines enim sunt hac lege generati, qui tuerentur illum globum, quem in hoc templo medium vides, quae terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas vocatis, quae globosae et rotundae, divinis animatae mentibus, circulos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili.Quare et tibi, Publi, et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum assignatum a deo defugisse videamini. | E appena incominciai ad essere in grado di parlare, dissi: "Ti prego, padre venerando e ottimo, poiché questa è la vita, come sento l'Africano dire, perché indugio su questa terra? Perché non mi dovrei affrettare a venire qui da voi?". "Non è così", disse lui. "Infatti se quel dio, di cui è tutto questo spazio infinito che tu vedi, non ti avrà liberato da questi vincoli del corpo, non è possibile che ti si apra l'accesso verso quassù. Gli uomini infatti sono stati generati con questo compito, affinché custodiscano quel globo che tu vedi nel centro di questo spazio, che è detto terra, e a questi fu data l'anima da quei fuochi eterni, che voi chiamate astri e stelle, le quali, sferiche e rotonde, animate da uno spirito divino, compiono il loro giro circolare con velocità straordinaria. Perciò tu, Publio, e tutti i pii, dovete trattenere l'anima nella prigionia del corpo né senza il consenso di colui, dal quale vi è stata data, dovete migrare dalla vita umana per non sembrare di aver dissertato il compito umano assegnato dal dio. |
Quid? Lacedaemoniis paulo ante Leuctricam calamitatem quae significatio facta est, cum in Herculis fano arma sonuerunt Herculisque simulacrum multo sudore manavit! At eodem tempore Thebis, ut ait Callisthenes, in templo Herculis valvae clausae repagulis subito se ipsae aperuerunt, armaque, quae fixa in parietibus fuerant, ea sunt humi inventa. Cumque eodem tempore apud Lebadiam Trophonio res divina fieret, gallos gallinaceos in eo loco sic adsidue canere coepisse, ut nihil intermitterent; tum augures dixisse Boeotios Thebanorum esse victoriam, propterea quod avis illa victa siliere soleret, canere, si vicisset.Eademque tempestate multis signis Lacedaemoniis Leuctricae pugnae calamitas denuntiabatur. Namque et in Lysandri, qui Lacedaemoniorum clarissumus fuerat, statua, quae Delphis stabat, in capite corona subito exstitit ex asperis herbis et agrestibus, stellaeque aureae quae Delphis erant a Lacedaemoniis positae post navalem illam victoriam Lysandri qua Athenienses conciderunt, qua in pugna quia Castor et Pollux cum Lacedaemoniorum classe visi esse dicebantur, - eorum insignia deorum, stellae aureae, quas dixi, Delphis positae, paulo ante Leuctricam pugnam deciderunt neque repertae sunt. Maximum vero illud portentum isdem Spartiatis fuit, quod, cum oraclum ab love Dodonaeo petivissent de victoria sciscitantes legatique [vas] illud in quo inerant sortes collocavissent, simia, quam rex Molossorum in deliciis habebat, et sortes ipsas et cetera quae erant ad sortem parata disturbavit et aliud alio dissupavit, Tum ea, quae praeposita erat oraclo, sacerdos dixisse dicitur de salute Lacedaemoniis esse, non de victoria cogitandum. | E ancora: quale presagio toccò agli spartani poco prima della battaglia di Leuttra, quando nel tempio di Ercole le armi risonarono e la statua di Ercole si coprì tutta di sudore! E contemporaneamente, come narra Callistene, a Tebe nel tempio di Ercole i battenti delle porte, chiusi da sbarre, si aprirono da sé all'improvviso, e le armi che erano appese alle pareti furon trovate sul pavimento. E ancora nel medesimo tempo, mentre presso Lebadìa si svolgeva un rito in onore di Trofonio, i galli in tutta quella contrada incominciano a cantare così insistentemente da non smetterla più. Gli àuguri della Beozia dissero allora che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli sogliono tacere quando son vinti, cantare quando hanno vinto. Frattanto gli spartani ricevevano molti preannunci del disastro nella battaglia di Leuttra. C'era a Delfi una statua di Lisandro, il più famoso degli spartani; sulla testa della statua comparve all'improvviso una corona di erbe spinose e selvatiche; e le stelle d'oro che erano state poste a Delfi dagli spartani dopo la famosa vittoria navale riportata da Lisandro, che segnò la rovina degli ateniesi, giacché si diceva che in quella battaglia Càstore e Pollùce erano apparsi dalla parte della flotta spartana, - le stelle d'oro che ho detto, dunque, poste a Delfi come insegne di quegli dèi, caddero giù poco prima della battaglia di Leuttra e non si ritrovarono più. Ma il prodigio più grave, ancora a danno degli spartani, fu quest'altro: quando chiesero un responso a Giove dodonèo per sapere se avrebbero vinto, e i messi ebbero collocato al suo posto il recipiente in cui si trovavano le sorti, una scimmia, che il re dei molossi aveva molto cara, scompigliò e buttò qua e là le sorti e tutti gli altri oggetti che erano stati portati per compiere il sorteggio. Si narra che allora la sacerdotessa preposta all'oracolo disse che gli spartani avrebbero dovuto pensare alla loro salvezza, non alla vittoria. |
Attico genere dicendi se gaudere dicunt. sapienter id quidem; atque utinam imitarentur nec ossa solum, sed etiam sanguinem! gratum est tamen, quod volunt. cur igitur Lysias et Hyperides amatur, cum penitus ignoretur Cato? antiquior est huius sermo et quaedam horridiora verba. ita enim tum loquebantur. id muta, quod tum ille non potuit, et adde numeros et, <ut> aptior sit oratio, ipsa verba compone et quasi coagmenta, quod ne Graeci quidem veteres factitaverunt: iam neminem antepones Catoni. | Ma perché non vogliono essere come Catone? Dicono di apprezzare il genere di eloquenza attico; questo è un giudizio da intenditori. E magari imitassero non solo le ossa, ma anche il sangue! Mi sono tuttavia gradite le loro intenzioni. Perché dunque Lisia e Iperide godono di tanto favore, mentre Catone è completamente ignorato? Il suo stile è ben antiquato, e certi termini sono alquanto ruvidi: a quel tempo si parlava così. Cambia quel che egli non avrebbe potuto, aggiungi un ritmo, e, perché il discorso abbia maggiore coesione, connettine, e per così dire cementane, le parole - una cosa che neppure i greci del tempo antico avevano l'uso di fare -: e non troverai più nessuno da anteporre a Catone. |
TULLIUS S. D. TERENTIAE ET TULLIAE ET CICERONI SUIS.Ego minus saepe do ad vos litteras, quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior lacrimis sic, ut ferre non possim. Quod utinam minus vitae cupidi fuissemus! certe nihil aut non multum in vita mali vidissemus. Quod si nos ad aliquam alicuius commodi aliquando recuperandi spem fortuna reservavit, minus est erratum a nobis; si haec mala fixa sunt, ego vero te quam primum, mea vita, cupio videre et in tuo complexu emori, quoniam neque di, quos tu castissime coluisti, neque homines, quibus ego semper servivi, nobis gratiam rettulerunt.Nos Brundisii apud M. Laenium Flaccum dies XIII fuimus, virum optimum, qui periculum fortunarum et capitis sui prae mea salute neglexit neque legis improbissimae poena deductus est, quo minus hospitii et amicitiae ius officiumque praestaret: huic utinam aliquando gratiam referre possimus! habebimus quidem semper. Brundisio profecti sumus a. d. II K. Mai.: per Macedoniam Cyzicum petebamus. O me perditum! O afflictum! Quid enim? Rogem te, ut venias? Mulierem aegram, et corpore et animo confectam. Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse. Sed quid Tulliola mea fiet? iam id vos videte: mihi deest consilium. Sed certe, quoquo modo se res habebit, illius misellae et matrimonio et famae serviendum est. Quid? Cicero meus quid aget? iste vero sit in sinu semper et complexu meo. Non queo plura iam scribere: impedit maeror. Tu quid egeris, nescio: utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliata. Pisonem, ut scribis, spero fore semper nostrum. De familia liberanda nihil est quod te moveat: primum tuis ita promissum est, te facturam esse, ut quisque esset meritus; est autem in officio adhuc Orpheus, praeterea magno opere nemo; ceterorum servorum ea causa est, ut, si res a nobis abisset, liberti nostri essent, si obtinere potuissent, sin ad nos pertineret, servirent praeterquam oppido pauci. Sed haec minora sunt. Tu quod me hortaris, ut animo sim magno et spem habeam recuperandae salutis, id velim sit eiusmodi, ut recte sperare possimus. Nunc miser quando tuas iam litteras accipiam? quis ad me perferet? quas ego exspectassem Brundisii, si esset licitum per nautas, qui tempestatem praetermittere noluerunt. Quod reliquum est, sustenta te, mea Terentia, ut potes. Honestissime viximus, floruimus: non vitium nostrum, sed virtus nostra nos afflixit; peccatum est nullum, nisi quod non una animam cum ornamentis amisimus; sed, si hoc fuit liberis nostris gratius, nos vivere, cetera, quamquam ferenda non sunt, feramus. Atqui ego, qui te confirmo, ipse me non possum. Clodium Philetaerum, quod valetudine oculorum impediebatur, hominem fidelem, remisi. Sallustius officio vincit omnes. Pescennius est perbenevolus nobis, quem semper spero tui fore observantem. Sicca dixerat se mecum fore, sed Brundisio discessit. Cura, quoad potes, ut valeas et sic existimes, me vehementius tua miseria quam mea commoveri. Mea Terentia, fidissima atque optima uxor, et mea carissima filiola et spes reliqua nostra, Cicero, valete. Pr. K. Mai. Brundisio. | TULLIO A TERENZIA E INSIEME Al FIGLI TULLIOLAE CICERONESpedisco lettere per voi il meno possibile, perché se non c'è momento per me che non sia triste, quando poi oscrivo a voi o leggo lettere vostre sono travolto dalla commozione, al punto da non farcela più. Ah, se fossi statomeno avido di vivere! Certo nel corso della mia vita non avrei visto alcuna sventura, o almeno non molte... Pure, seil destino mi riserba una qualche speranza di recuperare un giorno qualcosa del mio stato felice, allora il mio errorenon sarà stato irreparabile; ma se queste sciagure sono stabilite per sempre, io non desidero, vita mia, che rivedertial più pre sto e morire fra le tue braccia, giacche ne gli dei, che tu hai sempre religiosamente venerato, ne gli uomini, per i quali io mi sono sempre adoperato, ci hanno ricompensato.Sono rimasto tredici giorni a Brindisi presso M. Lenio Flacco, persona degnissima, che di fronte al problemadella mia sicurezza ha trascurato il rischio che correvano il suo patrimonio e la sua stessa vita; né le sanzionipreviste da una legge quanto mai iniqua l'hanno distolto dal prestare i diritti e le liberalità dell'ospitalità edell'amicizia. Cosi potessi un giorno dimostrargli la mia gratitudine! Che ne avrò per lui eterna. Da Brindisi partooggi stesso, con destinazione Cizico attraverso la Macedonia. Nella mia rovina e nella mia afflizione (ah, quali!)come potrei ora chiedere a te di venire, donna inferma e affranta nel corpo e nello spirito? D'altronde come nonchiedertelo? E allora restare senza di te? Io questo posso decidere: se c'è una speranza nel il mio ritorno, collabora ache sia consolidata; se invece, come temo, tutto e irreversibilmente concluso, in qualunque modo potrai cerca divenire da me. Sappi questo soltanto: se ti avrò con me non mi parrà di essere del tutto desolato. Ma che sarà dellamia Tulliola? Oramai spetta a voi provvedere, io non ho più che pensare. Qualunque sia il futuro sviluppo deglieventi, e ben certo che abbiamo degli obblighi nei confronti del matrimonio e della reputazione di quella poverainfelice. E ancora, che farà il mio ragazzo? E lui che io dovrei sempre seguire più da vicino. Non riesco a scriverealtro, la tristezza me lo impedisce. Non so che sarà di te, se potrai mantenere qualcosa, o se, come temo, saraispogliata di tutto. Pisone, come scrivi, spero che sarà sempre fedele a noi. Per l'affrancamento dei servi non hai diche preoccuparti. Prima di tutto, ai tuoi hai promesso che ti saresti comportata secondo i meriti di ciascuno. E poiOrfeo e ancora in servizio; a parte lui, non ce ne sono mica tanti altri. Circa i rimanenti schiavi la prospettiva e laseguente: in caso di confisca integrale dei miei beni, sarebbero miei liberti, purché l'a vessero potuto ottenere; seinvece rimanessero di mia proprietà continuerebbero il servizio, con qualche calcolata eccezione per qualcuno. Maquesti sono problemi secondari.Quanto alle tue esortazioni a farmi forza e a mantenere viva la speranza di un recupero della mia dignitàpersonale, vorrei proprio che ci fossero le condizioni per poter sperare con qualche fondamento. Per adesso, quandopotrò, infelice, ricevere più tue lettere? Chi me le recapiterà? Ne avrei aspettate a Brindisi, se l'equipaggio mel'avesse consentito, ma non hanno voluto perdere l'occasione favorevole per salpare. Per il resto, Terenzia mia,mantieniti come potrai conforme ai principi dell'onore. Ho vissuto, ho avuto il mio momento felice: non i miei vizi,ma le mie virtù mi hanno cagionato la presente afflizione. Non ho nulla da rimproverarmi, tranne di non averperduto insieme con le mie prerogative l'esistenza stessa. Ma se i figli nostri hanno preferito che io seguitassi avivere, va sopportato tutto il resto, anche se sopportabile non è! Pure, io che incoraggio te non so incoraggiare mestesso. Ho congedato Clodio Filetero, mio fido compagno, perché aveva delle difficoltà per un malanno agli occhi;Sallustio baste tutti per l'assiduità delle sue premure. Pescennio è affettuosissimo con me, e spero si manterràsempre pieno di riguardi anche con te. Sicca aveva detto che sarebbe stato al mio fianco, ma a Brindisi se ne èandato. Cura la salute con tutte le tue forze e pensa che sono sconvolto più dalla tua che dalla mia infelicità.Terenzia mia, moglie carissima e fedelissima, e figliola mia amatissima, e Cicerone ultima mia speranza, addio atutti.Brindisi, 30 aprile. |
Erant tamen, quibus videretur illius aetatis tertius Curio, quia splendidioribus fortasse verbis utebatur et quia Latine non pessume loquebatur usu credo aliquo domestico. nam litterarum admodum nihil sciebat; sed magni interest quos quisque audiat co tidie domi, quibuscum loquatur a puero, quem ad modum patres paedagogi matres etiam loquantur. | Vi erano tuttavia alcuni ai quali il terzo di quell'epoca appariva Curione, forse perché faceva uso di uno stile assai brillante e non parlava un latino troppo malvagio, credo in forza di una consuetudine domestica. Infatti era del tutto privo di cultura letteraria; ma importa molto, chi uno senta parlare tutti i giorni in casa, con chi parli fin da fanciullo, in che modo parlino i padri, i pedagoghi, e anche le madri. |
CICERO ATTICO SAL.ante quam a te proxime discessi, numquam mihi venit in mentem, quo plus insumptum in monimentum esset quam nescio quid quod lege conceditur, tantundem populo dandum esse. quod non magno opere moveret, nisi nescio quo modo, fortasse, nollem illud ullo nomine nisi fani appellari. quod si volumus, vereor ne adsequi non possimus nisi mutato loco. hoc quale sit, quaeso, considera. nam etsi minus urgeor meque ipse prope modum conlegi, tamen indigeo tui consili.itaque te vehementer etiam atque etiam rogo magis quam a me ns aut pateris te rogari ut hanc cogitationem toto pectore amplectare. | CICERONE AD ATTICOPrima di lasciarti, l'ultima volta, non mi era mai venuto in mente che se si spende per un monumento una certasomma oltre non so che livello fissato dalla legge, una somma pari all'eccedenza va versata nelle casse pubbliche.La cosa non mi turberebbe gran che, se non fosse che - non so per qual motivo e forse del tutto irrazionalmente -non vorrei che quello mio si chiamasse in altra maniera che tempietto. Se rimango di questa idea, temo di nonpotere ottenere nulla se non cambiandone completamente la collocazione. Per piacere, rifletti tu su questo punto.Benché infatti io mi sia un poco calmato e sia rientrato in certo modo in me stesso, ho bisogno lo stesso di un tuoconsiglio. Così ti scongiuro ancora una volta, e molto più di quanto tu gradisci o tolleri di essere pregato da me, diconsiderare con la massima attenzione tutti gli aspetti del problema. |
TULLIUS S. D. TERENTIAE ET TULLIOLAE ET CICERONI SUIS.Noli putare me ad quemquam longiores epistulas scribere, nisi si quis ad me plura scripsit, cui puto rescribi oportere; nec enim habeo, quod scribam, nec hoc tempore quidquam difficilius facio. Ad te vero et ad nostram Tulliolam non queo sine plurimis lacrimis scribere; vos enim video esse miserrimas, quas ego beatissimas semper esse volui idque praestare debui et, nisi tam timidi fuissemus, praestitissem.Pisonem nostrum merito eius amo plurimum: eum, ut potui, per litteras cohortatus sum gratiasque egi, ut debui. In novis tribunis pl. intelligo spem te habere: id erit firmum, si Pompeii voluntas erit; sed Crassum tamen metuo. A te quidem omnia fieri fortissime et amantissime video, nec miror, sed maereo casum eiusmodi, ut tantis tuis miseriis meae miseriae subleventur: nam ad me P. Valerius, homo officiosus, scripsit, id quod ego maximo cum fletu legi, quemadmodum a Vestae ad tabulam Valeriam ducta esses. Hem, mea lux, meum desiderium, unde omnes opem petere solebant! te nunc, mea Terentia, sic vexari, sic iacere in lacrimis et sordibus, idque fieri mea culpa, qui ceteros servavi, ut nos periremus! Quod de domo scribis, hoc est de area, ego vero tum denique mihi videbor restitutus, si illa nobis erit restituta; verum haec non sunt in nostra manu: illud doleo, quae impensa facienda est, in eius partem te miseram et despoliatam venire. Quod si conficitur negotium, omnia consequemur; sin eadem nos fortuna premet, etiamne reliquias tuas misera proiicies? Obsecro te, mea vita, quod ad sumptum attinet, sine alios, qui possunt, si modo volunt, sustinere, et valetudinem istam infirmam, si me amas, noli vexare; nam mihi ante oculos dies noctesque versaris: omnes labores te excipere video; timeo, ut sustineas. Sed video in te esse omnia; quare, ut id, quod speras et quod agis, consequamur, servi valetudini. Ego, ad quos scribam, nescio, nisi ad eos, qui ad me scribunt, aut [ad eos,] de quibus ad me vos aliquid scribitis. Longius, quoniam ita vobis placet, non discedam; sed velim quam saepissime litteras mittatis, praesertim si quid est firmius, quod speremus. Valete, mea desideria, valete, D. a. d. III. Non. Oct. Thessalonica. | TULLIO A TERENZIA, A TULLIOLA E AL FIGLIO CICERONENon credere che io scriva a nessuno lettere più lunghe, a meno che qualcuno non mi abbia scritto parecchio:allora penso che sia conveniente rispondergli; e infatti, non ho cose da scrivere e in questo periodo non faccio nullacon maggiore difficoltà. A te, poi, e alla nostra figliola non posso scrivere senza che mi sgorghino le lagrime dagliocchi. Vi vedo in preda alla disperazione , voi che avrei voluto sempre al colmo della felicità: e questo avrei dovutogarantirvi, e se non fossi stato tanto debole ve lo avrei garantito. Ho un affetto grandissimo per il nostro Pisone, chese lo merita ampiamente. Gli ho scritto, come ho potuto, per fargli coraggio e per ringraziarlo nel modo dovuto.Capisco che riponi delle speranze nei nuovi tribuni della plebe. Può essere una sicurezza, purché Pompeo dia il suobenestare; ma tuttavia ho paura di Crasso. Vedo che ti comporti in ogni circostanza nel modo più coraggioso eamorevole, e non mi sorprende; ma sono desolato che le mie sventure trovino sollievo a prezzo di sofferenze tuecosì grandi: me lo ha scritto Publio Valerio, uomo di una cortesia squisita - e non ho potuto leggere le sue righesenza scoppiare a piangere -, in che maniera tu sia stata trascinata dal tempio di Vesta agli uffici del tribunale.Vita mia, mia sola nostalgia, a cui tutti solevano rivolgersi per avere un aiuto! E ora, Terenzia mia, saperti cosìtormentata, così afflitta nel pianto e nella umiliazione, e che questo avviene per colpa mia, che ho salvato gli altriper trascinare noi stessi alla rovina!Quanto a quello che scrivi della casa, cioè dell'area della casa, se solo essa mi sarà restituita solo allora io micrederò reintegrato nei miei diritti. Ma queste cose non dipendono da noi. Soffro che per affrontare tutte le speseche ci sono da fare tu ti riduca in ristrettezze crudeli. Se questa faccenda si conclude, otterremo tutto; se il destinocontinuerà a infierire su di noi, dovrai tu addirittura miseramente disperdere gli avanzi della tua agiatezza? Tiscongiuro, vita mia: riguardo alle necessita impellenti la scia che ti diano una mano quelli che possono (solo che lovogliano!) e se mi ami non logorare la tua salute cosi fragile. Giorno e notte mi stai davanti agli occhi; vedo che tiaccolli tutte le fatiche: ho paura che tu non regga... Ma vedo anche che a te fa capo ogni cosa. Perciò abbi rispettoper la tua salute, se vuoi che otteniamo quello che speri e per cui ti adoperi. Non so a chi debba rivolgermi se non aquelli che scrivono a me o a quelli di cui voi scrivete a me qualcosa. Non andrò più lontano, se è questo chedesiderate; ma vorrei vostre lettere il più spesso possibile, specie se c'è qualche cosa di più solido su cui fondare lenostre speranze. Addio, nostalgia del mio cuore, addio.Tessalonica, 5 ottobre. |
Atticus:Excipis credo illa quibus ipsi initiati sumus.Marcus : Ego vero excipiam. Nam mihi cum multa eximia divinaque videntur Athenae tuae peperisse atque in vitam hominum attulisse, tum nihil meilus illis mysteriis, quibus ex agresti immanique vita exculti ad humanitatem et mitigati sumus, initiaque ut appellantur ita re vera principia vitae cognovimus, neque solum cum laetitia vivendi rationem accepimus, sed etiam cum spe meliore moriendi.Quid autem mihi displiceat in nocturnis, poetae indicant comici. Qua licentia Romae data quidnam egisset ille qui in saerificium cogitatam libidinem intulit, quo ne inprudentiam quidem oculorum adici fas fuit?Atticus:Tu vero istam Romae legem rogato, nobis nostras ne ademeris. | Attico:Fai un'eccezione, credo, per quei riti ai quali siamo stati iniziati.Marco:Li escluderò, non ho dubbi in proposito; infatti la tua Atene mi sembra abbia dato origine a molti ed egregi principi umani e religiosi, e li abbia introdotti nella vita umana, ma poi non vi fu nulla di meglio di quei misteri, dai quali, venuti fuori da vita rozza ed inumana, siamo stati educati e addolciti alla civiltà, e, quindi si chiamano iniziazioni, perché abbiamo conosciuto i principi della vita nella loro vera essenza; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere con gioia, ma anche quello di morire con una speranza migliore. Quello però che a me potrebbe dispiacere nelle celebrazioni notturne ce lo indicano i commediografi. Se tale concessione fosse fatta in Roma, che mai avrebbe compiuto quel tale, che introdusse con premeditazione la sua libidine in un rito sacro, dove non era lecito gettare uno sguardo neppure involontario?Attico:Tu proponi dunque questa legge particolare per Roma; ma non togliere a noi le nostre. |
Itaque cum me et amici et medici hortarentur ut causas agere desisterem, quodvis potius periculum mihi adeundum quam a sperata dicendi gloria discedendum putavi. sed cum censerem remissione et moderatione vocis et commutato genere dicendi me et periculum vitare posse et temperatius dicere, ut consuetudinem dicendi mutarem, ea causa mihi in Asiam proficiscendi fuit. itaque cum essem biennium versatus in causis et iam in foro celebratum meum nomen esset, Roma sum profectus. | Itaque cum me et amici et medici hortarentur ut causas agere desisterem, quodvis potius periculum mihi adeundum quam a sperata dicendi gloria discedendum putavi. sed cum censerem remissione et moderatione vocis et commutato genere dicendi me et periculum vitare posse et temperatius dicere, ut consuetudinem dicendi mutarem, ea causa mihi in Asiam proficiscendi fuit. itaque cum essem biennium versatus in causis et iam in foro celebratum meum nomen esset, Roma sum profectus. |
Intellegendum etiam est duabus quasi nos a natura indutos esse personis; quarum una communis est ex eo, quod omnes participes sumus rationis praestantiaeque eius, qua antecellimus bestiis, a qua omne honestum decorumque trahitur et ex qua ratio inveniendi officii exquiritur, altera autem quae proprie singulis est tributa. ut enim in corporibus magnae dissimilitudines sunt, alios videmus velocitate ad cursum, alios viribus ad luctandum valere, itemque in formis aliis dignitatem inesse, aliis venustatem, sic in animis existunt maiores etiam varietates. | Oltre a questo, bisogna riflettere che la natura ci ha come dotati di due caratteri: l'uno è comune a tutti, per cui tutti siamo partecipi della ragione, cioè di quella eccellenza onde noi superiamo le bestie: eccellenza da cui deriva ogni specie di onestà e di decoro, e da cui si desume il metodo che conduce alla scoperta del dovere; l'altro, invece, è quello che la natura ha assegnato in modo specifico alle singole persone. Invero, come nei corpi ci sono grandi differenze (alcuni, per l'agilità, sono evidentemente adatti alla corsa, altri, per la robustezza, alla lotta, e similmente, per ciò che riguarda le sembianze, alcuni hanno in sé la bellezza, altri la grazia), così negli animi appaiono dissomiglianze anche maggiori. |
In omni autem actione suscipienda tria sunt tenenda, primum ut appetitus rationi pareat, quo nihil est ad officia conservanda accommodatius, deinde ut animadvertatur, quanta illa res sit, quam efficere velimus, ut neve maior neve minor cura et opera suscipiatur, quam causa postulet. Tertium est, ut caveamus, ut ea, quae pertinent ad liberalem speciem et dignitatem, moderata sint. Modus autem est optimus decus ipsum tenere, de quo ante diximus, nec progredi longius.Horum tamen trium praestantissimum est appetitum obtemperare rationi. | Nell'intraprendere un'azione, qualunque sia, bisogna osservare costantemente tre norme: prima, che il sentimento obbedisca alla ragione (e questo è il miglior modo per adempiere i nostri doveri); poi, che si determini esattamente l'importanza della cosa che si vuole effettuare, per non assumersi cura e fatica maggiore o minore di quel che la cosa richiede; infine, procurare che tutto ciò che riguarda l'aspetto e la dignità di un uomo libero, non oltrepassi la giusta misura. E misura perfetta è mantener rigorosamente quel decoro, del quale ho parlato innanzi, senz'andare troppo oltre. Di queste tre norme, peraltro, la più importante è che il sentimento obbedisca alla ragione. |
Cavendum autem est, praesertim si ipse aedifices, ne extra modum sumptu et magnificentia prodeas, quo in genere multum mali etiam in exemplo est. Studiose enim plerique praesertim in hanc partem facta principum imitantur, ut L. Luculli, summi viri, virtutem quis? at quam multi villarum magnificentiam imitati! Quarum quidem certe est adhibendus modus ad mediocritatemque revocandus. Eademque mediocritas ad omnem usum cultumque vitae transferenda est.Sed haec hactenus. | E bisogna guardarsi, specialmente se uno si fabbrica per sé la sua casa, dall'eccedere nella spesa e nella magnificenza: in questo campo il cattivo esempio è contagioso e pernicioso. I più, infatti, specialmente a questo riguardo, si sforzano di imitare gli atti esteriori dei grandi. Chi, ad esempio, imitò l'intima virtù del grande Lucio Lucullo? Quanti, invece, non imitarono la magnificenza delle sue ville! Ma almeno in fatto di ville si osservi la modestia, e ci si attenga alla giusta misura; e la giusta misura, la si applichi anche a tutti i bisogni e a tutti i comodi della vita. Ma di ciò basti. |
Eos autem, quorum vita perspecta in rebus honestis atque magnis est, bene de re publica sentientes ac bene meritos aut merentes sic ut aliquo honore aut imperio affectos observare et colere debemus, tribuere etiam multum senectuti, cedere iis, qui magistratum habebunt, habere dilectum civis et peregrini in ipsoque peregrino privatimne an publice venerit. Ad summam, ne agam de singulis, totius generis hominum conciliationem et consociationem colere, tueri, servare debemus. | Quelli, poi, la cui vita si è distinta per oneste e grandi azioni; quelli che sono animati da un vero amor di patria, e hanno acquisito e acquisiscono tuttora benemerenze, tutti questi noi li dobbiamo rispettare e riverire non meno che se fossero investiti di qualche carica militare o civile. Dobbiamo anche rendere omaggio alla vecchiezza, mostrare deferenza verso i magistrati, far distinzione tra cittadino e forestiero e, nel forestiero stesso, guardare se sia venuto come privato o in veste ufficiale. In una parola, per non entrare in troppi particolari, noi dobbiamo rispettare, difendere e sostenere tutto ciò che promuove e aiuta la fratellanza e l'armonia di tutto il genere umano. |
Marcus:Expromam equidem ut potero, et quoniam et locus et sermo <haudquaquam> familiaris est, legum leges voce proponam.Quintus:Quidnam id est?Marcus:Sunt certa legum verba Quinte, neque ita prisca ut in veteribus XII sacratisque legibus, et tamen, quo plus auctoritatis habeant, paulo antiquiora quam hic sermo <noster> est. Eum morem igitur cum brevitate si potuero consequar. Leges autem a me edentur non perfectae - nam esset infinitum -, sed ipsae summae rerum atque sententiae.Quintus : Ita vero necesse est.Quare audiamus. | Marco:Le esporrò certo, secondo le mie capacità, e dal momento che il luogo e la conversazione mi sono familiari, proporrò le leggi con la forma tipica delle leggi.Quinto:Che significa questo?Marco:Vi sono determinate espressioni legali, Quinto, non così antiquate come nelle vecchie XII tavole e nelle leggi sacrate, e pur tuttavia un po' più arcaicizzanti di questa nostra conversazione, tali da assumere una maggiore autorità. E, se mi sarà possibile, cercherò di accompagnare questo stile con la brevità. Infatti non riporterò delle leggi complete - cosa che andrebbe per le lunghe -, ma solo il sommario ed il contenuto dei vari paragrafi.Quinto:È necessario procedere così; e allora ascoltiamo. |
Iam vero Origines eius quem florem aut quod lumen eloquentiae non habent? amatores huic desunt, sicuti multis iam ante saeclis et Philisto Syracusio et ipsi Thucydidi. nam ut horum concisis sententiis, interdum etiam non satis apertis [autem] cum brevitate tum nimio acumine, officit Theopompus elatione atque altitudine orationis suae—quod idem Lysiae Demosthenes —, sic Catonis luminibus obstruxit haec posteriorum quasi exaggerata altius oratio. | E poi le sue Origini, quale fiore, quale lustro di eloquenza non hanno? A lui mancano gli amatori, come, da tempi più lontani, a Filisto di Siracusa e allo stesso Tucidide. Allo stesso modo che Teopompo, col suo stile elevato e grandioso, offusca il loro procedere spezzettato e sentenzioso, talvolta anche poco perspicuo, vuoi per concisione, vuoi per eccesso di acume - e lo stesso inconveniente Demostene Io ha causato a Lisia -; così allo splendore di Catone ha fatto ombra, per dir così, questo più alto torreggiare dello stile degli autori successivi. |
Quid de pratorum viriditate aut arborum ordinibus aut vinearum olivetorumve specie plura dicam? Brevi praecidam: agro bene culto nihil potest esse nec usu uberius nec specie ornatius; ad quem fruendum non modo non retardat, verum etiam invitat atque adlectat senectus. Ubi enim potest illa aetas aut calescere vel apricatione melius vel igni, aut vicissim umbris aquisve refrigerari salubrius? | E dovrei ricordare ancora il verde dei prati, le file degli alberi, la bellezza delle vigne o degli oliveti? Taglierò corto: niente può essere più ricco di profitto o più bello a vedersi di un campo ben coltivato. E a goderne, la vecchiaia non solo non è un ostacolo, ma anzi uno stimolo e un incitamento: dove, infatti, questa età può scaldarsi meglio al sole o al fuoco, oppure, viceversa, prendere il fresco salutare dell'ombra o dell'acqua? |
Itaque hesterno die L. Flaccum et C. Pomptinum praetores, fortissimos atque amantissimos rei publicae viros, ad me vocavi, rem eui, quid fieri placeret, ostendi. Illi autem, qui omnia de re publica praeclara atque egregia sentirent, sine recusatione ac sine ulla mora negotium susceperunt et, cum advesperasceret, occulte ad pontem Mulvium pervenerunt atque ibi in proximis villis ita bipertito fuerunt, ut Tiberis inter eos et pons interesset. Eodem autem et ipsi sine cuiusquam suspicione multos fortis viros eduxerant, et ego ex praefectura Reatina complures delectos adulescentes, quorum opera utor adsidue in rei publicae praesidio, cum gladiis miseram.Interim tertia fere vigilia exacta cum iam pontem Mulvium magno comitatu legati Allobrogum ingredi inciperent unaque Volturcius, fit in eos impetus; educuntur et ab illis gladii et a nostris. Res praetoribus erat nota solis, ignorabatur a ceteris. Tum interventu Pomptini atque Flacci pugna, quae erat commissa, sedatur. Litterae, quaecumque erant in eo comitatu, integris signis praetoribus tradunturipsi comprehensi ad me, cum iam dilucesceret, deducuntur. Atque horum omnium scelerum inprobissimum machinatorem, Cimbrum Gabinium, statim ad me nihildum suspicantem vocavi; deinde item accersitus est L. Statilius et post eum C. Cethegus; tardissime autem Lentulus venit, credo quod in litteris dandis praeter consuetudinem proxima nocte vigilarat. | Così, ieri ho convocato i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino, uomini di provato valore e della massima devozione allo Stato. Ho esposto loro la situazione. Li ho messi al corrente del mio piano. Subito, senza indugio, senza alcuna obiezione, perché nutrono per lo Stato i sentimenti più nobili, hanno accettato l'incarico e, sul far della sera, si sono recati segretamente al ponte Milvio. Lì, nascondendosi nelle case vicine, si sono divisi in due gruppi in modo da avere in mezzo il Tevere e il ponte. Senza generare il minimo sospetto, avevano portato con sé molti uomini intrepidi ed io avevo inviato dalla prefettura di Rieti un gruppo di giovani armati, ragazzi scelti della cui opera mi avvalgo spesso per difendere lo Stato. Erano quasi le tre del mattino, quand'ecco arrivare al ponte Milvio gli ambasciatori degli Allobrogi, con grande seguito, e Volturcio. Vengono subito attaccati. Da entrambe le parti si snudano le spade. Solo i pretori erano al corrente di tutta la vicenda, gli altri la ignoravano. Allora, per intervento di Pomptino e Flacco, cessa lo scontro [che era iniziato]. Tutte le lettere trovate in possesso degli uomini del seguito sono consegnate ai pretori con i sigilli intatti. Gli arrestati vengono condotti da me all'alba. Io mando a chiamare immediatamente il perverso ideatore di tutti questi crimini, Cimbro Gabinio, che non sospettava nulla. Poi convoco anche Lucio Statilio e, dopo di lui, Cetego. Per ultimo viene Lentulo forse perché, la notte prima, diversamente dalle sue abitudini, era stato sveglio per scrivere la sua lettera. |
Tum Brutus: de isto postea; sed tu, inquit me intuens, orationes nobis veteres explicabis? Vero, inquam, Brute; sed in Cumano aut in Tusculano aliquando, si modo licebit, quoniam utroque in loco vicini sumus. sed iam ad id, unde digressi sumus, revertamur. | E Bruto, allora: "Di questo, dopo. Ma tu" disse guardandomi "ci illustrerai le orazioni antiche?". "Senz'altro, Bruto;" dissi "ma da me, a Cuma o a Tuscolo, una di queste volte, più che sia possibile; tanto, stiamo vicini in ambedue i posti. Ma è ormai tempo di tornare al punto dal quale ha preso inizio questa digressione . |
His propositis quaestiunculae multae nascuntur, quas qui non intellegat, si ad caput referat, per se ipse facile perspiciat. Veluti si minus quis cepisset ne sacris alligaretur, at post de eius heredibus aliquis exegisset pro sua parte id quod ab eo quoi ipse heres esset praetermissum fuisset, eaque pecunia non minor esset facta cum superiore exactione quam heredibus omnibus esset relicta, qui eam pecuniam exegisset, solum sine coheredibus sacris alligari.Quin etiam cavent ut, cui plus legatum sit quam sine religione capere liceat, is per aes et libram heredes testamenti solvat, propterea quod eo loco res est ita soluta hereditate, quasi ea pecunia legata non esset. | Da queste premesse nascono molte piccole questioni; e chi non ne avrà compreso l'essenza, non potrà forse averne piena conoscenza, risalendo al principio fondamentale. Così nel caso di uno che avesse preso meno dello spettante per non esser tenuto al carico del culto, ed in seguito uno dei suoi eredi pretendesse come sua parte ciò cui aveva rinunziato colui del quale è erede, e questi beni con la parte prelevata prima divenissero non inferiori a quelli lasciati globalmente a tutti gli eredi; colui il quale pretendesse tale parte del patrimonio sarebbe tenuto a provvedere al culto da solo, senza concorso dei coeredi. Anzi gli Scevola provvedono a che colui, il quale abbia ricevuto un lascito maggiore di quanto gli sarebbe lecito senza accollarsi il carico del culto, questi possa riscattare in contanti gli eredi testamentari dall'obbligo del culto, per questo fatto in tal modo il patrimonio viene liberato dagli obblighi derivanti dall'eredità, quasi che quel denaro non fosse stato trasmesso per testamento. |
Quod autem tributum est bono viro et grato, in eo cum ex ipso fructus est, tum etiam ex ceteris. Temeritate enim remota gratissima est liberalitas, eoque eam studiosius plerique laudant, quod summi cuiusque bonitas commune perfugium est omnium. Danda igitur opera est, ut iis beneficiis quam plurimos adficiamus, quorum memoria liberis posterisque prodatur, ut iis ingratis esse non liceat. Omnes enim immemorem beneficii oderunt eamque iniuriam in deterrenda liberalitate sibi etiam fieri, eumque, qui faciat communem hostem tenuiorum putant.Atque haec benignitas etiam rei publicae est utilis, redimi e servitute captos, locupletari tenuiores; quod quidem volgo solitum fieri ab ordine nostro in oratione Crassi scriptum copiose videmus. Hanc ergo consuetudinem benignitatis largitioni munerum longe antepono; haec est gravium hominum atque magnorum, illa quasi assentatorum populi multitudinis levitatem voluptate quasi titillantium. | Dal beneficio, dato ad un uomo onesto e grato si ricava doppio frutto e dall'individuo stesso e anche dagli altri. Se si tiene lontana l'avventatezza, la generosità è qualità graditissima, ed i più la lodano con tanto maggior zelo, per il fatto che la bontà dei cittadini più ragguardevoli diventa il rifugio comune di tutti. Ci si deve adoperare sì da concedere al maggior numero di persone possibili i benefici, il cui ricordo si trasmetta ai figli ed ai posteri, perché non sia loro lecito essere ingrati. Tutti odiano colui che è immemore del beneficio, pensano che quell'offesa nell'abbandonare la generosità sia rivolta anche contro loro stessi, e che l'ingrato sia il nemico comune degli umili. Inoltre questa generosità è utile anche allo Stato, il riscattare i prigionieri dalla schiavitù, l'arricchire i poveri; che appunto questo fu, di solito, il comportamento del nostro ordine, lo vediamo scritto, con abbondanza di esempi, nell'orazione di Crasso. Preferisco, dunque, di gran lunga questa consuetudine di generosità alla concessione di donativi; il primo tipo è proprio degli uomini seri e grandi, il secondo quasi di adulatori del popolo che, per cosi dire, solleticano col piacere la frivolezza della massa. |
At vero Aratus Sicyonius iure laudatur, qui, cum eius civitas quinquaginta annos a tyrannis teneretur, profectus Argis Sicyonem clandestino introitu urbe est potitus, cumque tyrannum Nicoclem inproviso oppressisset, sescentos exules, qui locupletissimi fuerant eius civitatis, restituit remque publicam adventu suo liberavit. Sed cum magnam animadverteret in bonis et possessionibus difficultatem, quod et eos, quos ipse restituerat, quorum bona alii possederant, egere iniquissimum esse arbitrabatur et quinquaginta annorum possessiones movere non nimis aequum putabat, propterea quod tam longo spatio multa hereditatibus, multa emptionibus, multa dotibus tenebantur sine iniuria, iudicavit neque illis adimi nec iis non satis fieri, quorum illa fuerant, oportere. | Si loda a buon diritto Arato di Sicione, il quale, poiché la sua città era soggetta alla tirannide da cinquanta anni, partì da Argo e, introdottosi clandestinamente in Sicione, s'impadronì della città, e avendo ucciso il tiranno Nicocle con un colpo di mano improvviso, richiamò i seicento esuli, che erano stati gli uomini più ricchi della sua città, e ridiede la libertà alla sua patria col suo intervento. Ma considerando che nel possesso dei beni si riscontrava una grave difficoltà, perché riteneva assai ingiusto che versassero in miseria quelli che egli stesso aveva richiamato - ed i cui beni erano posseduti da altri - e, d'altra parte, non riteneva troppo giusto sovvertire i possessi di cinquant'anni (per il fatto che in un periodo di tempo così lungo molti erano occupati con legittimo diritto per eredità o compere o doti), giudicò che non bisognava togliere i beni a quelli, e che si doveva anche dare soddisfazione agli antichi proprietari. |
Tum ille: nempe eum dicis, inquit, quo iste omnem rerum memoriam breviter et, ut mihi quidem visum est, perdiligenter complexus est? Istum ipsum, inquam, Brute, dico librum mihi saluti fuisse. Tum Atticus: optatissimum mihi quidem est quod dicis; sed quid tandem habuit liber iste, quod tibi aut novum aut tanto usui posset esse? | Allora lui: "Vuoi dire" fece "il libro nel quale costui ha raccolto in breve, e, a mio parere, con somma diligenza, tutta la storia?". "Proprio codesto libro, Bruto, dico che mi ha recato la salvezza." E allora Attico: "Quello che dici mi fa un immenso piacere; ma cosa aveva mai quel libro, che potesse risultare per te nuovo, o tanto utile?". |
Phalereus enim successit eis senibus adulescens eruditissimus ille quidem horum omnium, sed non tam armis institutus quam palaestra. itaque delectabat magis Atheniensis quam inflammabat. processerat enim in solem et pulverem non ut e militari tabernaculo, sed ut e Theophrasti doctissumi hominis umbraculis. | Infatti, quando costoro erano anziani, prese il loro posto il Falereo: un giovane, certo il più erudito fra tutti costoro, ma non ammaestrato tanto dalle vive lotte quanto dalla palestra. Pertanto dilettava gli ateniesi più che infiammarli: era uscito al sole e alla polvere come si poteva uscire non da una tenda militare, ma dall'ombroso ritiro della scuola di quell'uomo dottissimo che fu Teofrasto." |
Et Brutus: qui est, inquit, iste tandem urbanitatis color? Nescio, inquam; tantum esse quendam scio. id tu, Brute, iam intelleges, cum in Galliam veneris; audies tu quidem etiam verba quaedam non trita Romae, sed haec mutari dediscique possunt; illud est maius, quod in vocibus nostrorum oratorum retinnit quiddam et resonat urbanius. nec hoc in oratoribus modo apparet, sed etiam in ceteris. | E Bruto: "Qual è insomma" disse "questo colore di urbanità?". "Non saprei;" dissi "so solo che esiste. Lo comprenderai, Bruto, quando sarai arrivato in Gallia; certo ascolterai anche parole che a Roma non sono usuali; ma le parole si possono cambiare e si può perdere l'abitudine di usarle. La cosa più importante è che nelle voci dei nostri oratori vi è come un timbro e un accento più urbano. E questo non si sente solo negli oratori, ma anche negli altri. |
Intellegendum autem est, cum proposita sint genera quattuor, e quibus honestas officiumque manaret, splendidissimum videri, quod animo magno elatoque humanasque res despiciente factum sit. Itaque in probris maxime in promptu est, si quid tale dici potest:Vos enim, iuvenes, animum geritis muliebrem,illa virgo viriet si quid eiusmodi:Salmacida, spolia sine sudore et sanguine.Contraque in laudibus, quae magno animo et fortiter excellenterque gesta sunt, ea nescio quomodo quasi pleniore ore laudamus.Hinc rhetorum campus de Marathone, Salamine, Plataeis, Thermopylis, Leuctris, hinc noster Cocles, hinc Decii, hinc Cn. et P. Scipiones, hinc M. Marcellus, innumerabiles alii, maximeque ipse populus Romanus animi magnitudine excellit. Declaratur autem studium bellicae gloriae, quod statuas quoque videmus ornatu fere militari. | Ma bisogna pur riconoscere che, delle quattro virtù che io ho esposto innanzi e da cui procedono l'onestà e il dovere, la più splendida è certamente quella che risiede in un animo grande ed elevato, il quale disprezza i beni esteriori. Ecco perché, quando si tratta di fare un rimprovero a qualcuno, ci corrono subito alle labbra parole come queste:Voi, o giovani, avete un cuore di donna; quella fanciulla, invece, ha un cuore d'eroe;o come queste altre:O Salmacide (= effeminato), prenditi il bottino, che non ti costa né sudore né sangue;all'opposto, quando si tratta di lodare, tutte quelle azioni che furono compiute con grandezza e fortezza d'animo, noi le esaltiamo, non so come, con voce più alta e più chiara. Di qui, quella larga messe di esempi che offrono ai maestri d'eloquenza le battaglie di Maratona, di Salamina, di Platea, delle Termopili, di Leuttra; di qui quella gloria onde risplendono i nostri eroi: Orazio Coclite, i Decii, Gaio e Publio Scipione, Marco Marcello e innumerevoli altri; ma soprattutto il popolo romano, meraviglioso campione di magnanimità. Inoltre mette in chiara luce il nostro amore per la gloria delle armi il fatto che anche le statue noi le vediamo generalmente in abito militare. |
Cytisum, quod Graeci aut zeas aut carnicin aut trypheren vocant, quam plurimum habere expedit, quod gallinis, apibus, ovibus, capris, bubus quoque et omni generi pecudum utilissimum est, quod ex eo cito pinguescitet lactis plurimum praebet ovibus, [...]. Praeterea in quolibet agro quamvis acerrimo celeriter conprehendit omnemque iniuriam sine noxa patitur. | Il citiso, che i Greci chiamano zea, o carnice, o trifere, (e) che conviene tenere in grossa considerazione, poiché è utilissimo alle galline, alle api, alle capre, anche ai buoi e ad ogni genere di bestiame, che con questo ingrassa velocemente, e offre più latte alle pecore [...]. In più attecchisce velocemente dappertutto in qualsiasi giardino per quanto sia arido e sopporta ogni violenza senza malattia. |
[...] Igitur unus ex his maximus natu locutum accepimus: "Si dii habitum corporis tui aviditati animi parem esse voluissent, orbis te non caperet: altera manu Orientem, altera Occidentem contingeres, et, hoc adsecutus, scire velles ubi tanti numinis fulgor conderetur. Sic quoque concupiscis, quae non capis. Ab Europa petis Asiam, ex Asia transis in Europam: deinde, si humanum genus omne superaveris, cum silvis et nibivus et fluminisbus ferisque bestiis gesturus es bellum.Quid? tu ignoras arbores magnas diu crescere, una hora exstirpari? Stultus est qui fructus earum spectat, quarum altitudinem non metitur. Vide, ne, dum ad cacumen pervenire contendis, cum ipsis ramis, quos comprehenderis, decidas. Leo quoque aliquando minimarum avium pabulum fuit, et ferrum rubigo consumit. Nihil tam firmum est, cui periculum non sit etiam ab invalido. Quid nobis tecum est? Numquam terram tuam attigimus. Quis sis, unde venias, licetne ignorare in vastis silvis viventibus? Nec servire ulli possumus, nec imperare desideramus. [...] | [...] Dunque ricevemmo uno dei più anziani tra questi, che parlò: "Se gli dei avessero voluto che l'aspetto del tuo corpo fosse pari alla cupidigia del tuo animo, il mondo non ti conterrebbe: con una mano afferreresti l'Oriente, con l'altra l'Occidente e avendo ottenuto ciò, vorresti sapere dove si vada a nascondere il così grande splendore del sole. Così desideri fortemente anche ciò che non ottieni (puoi ottenere). Dall'Europa ti dirigi in Asia, dall'Asia attraversi fino in Europa: quindi se avrai vinto ogni popolo umano combatterai contro i boschi e le nevi, i fiumi e le bestie feroci. (Che cosa?) Tu ignori che i grandi alberi crescono in tempi molto lunghi e possono essere estirpati in una sola ora? Stolto è chi guarda i frutti di questi (alberi), dei quali non riesce a misurare l'altezza. Bada a non cadere mentre cercherai di arrivare alla sommità, con gli stessi rami, che afferrerai. Qualche volta anche un leone è stato cibo degli uccelli più piccoli, e il ferro si consuma con la ruggine. Niente è così saldo che non possa essere messo in pericolo anche da un invalido. Che cosa abbiamo in comune con te? Mai abbiamo toccato la tua terra. Per coloro che vivono nei grandi boschi, è lecito ignorare chi sei, da dove vieni? Non possiamo servire nessuno, né vogliamo comandare. [...] |
[...] Alexander phalangem, qua nihil apud Macedonas validius erat, in fronte constituit. Dextrum cornu Nicanor, Parmenionis filius, tuebatur: huic proximi stabant Coenos et Perdiccas et Meleager et Ptolomaeus et Amyntas, sui quisque agminis duces. In laevo, quod a mare pertinebat, Craterus et Parmenio erant, sed Craterus Parmenioni parere iussus. Equites ab utroque cornu locati: dextrum Macedones Thessalis adiunctis, laevum Peloponnesii tuebantur.Ante hanc aciem posuerat funditorum manum; Thraces quoque et Cretenses ante agmen ibant, et ipsi leviter armati. At his, qui praemissi a Dareo iugum montis insederant, Agrianos opposuit. [...] | [...] Alessandro sistemò sul fronte una falange di cui niente c'era di più forte tra i Macedoni. Nicomore, figlio di Parmenione, controllava l'ala destra dell'esercito. A costui stavano vicinissimi Cena, Perdicca e Meleagro, ciascuno comandante della propria schiera. Cratero e Parmenione stavano sull'ala sinistra che dava verso il mare. La cavalleria fu collocata su entrambe le ali: a destra difendevano i Macedoni, con aggiunti i Tessagli, a sinistra i Peloponnesii. (Alessandro) davanti a questa schiere aveva posto un manipolo di frombolieri; anche i Traci e i Cretesi (e proprio quelli armati più leggeri), andavano davanti l'esercito. E a quelli che, mandati avanti da Dario, avevano occupato la cima di un monte, contrappose gli Agrioni. [...] |
[...] Sed omnium oculos animosque in semet converterant captivae mater coniuxque Darei: illa non maiestate solum sed etiam aetate venerabilis, haec formae pulchritudine nec illa quidem sorte corruptae; receperat in sinum filium nondum sextum annum aetatis egressum, in spem tantae fortunae, quantam pater eius paulo ante amiserat, genitum. At in gremio anus aviae iacebant adultae virgines duae non suo tantum, sed etiam illius maerore confectae. Ingens circa eam nobilium feminarum turba constiterat laceratis crinibus abscissaque veste, pristini decoris inmemores, reginas dominasque veris quondam, tunc alienis nominibus, invocantes.Illae suae calamitatis oblitae in utro cornu Dareus stetisset, quae fortuna discriminis fuisset, requirebant: negabant se captas, si viveret rex. Sed illum equos subinde mutantem longius fuga abstulerat.In acie autem caesa sunt Persarum peditum C milia, decem equitum; at a parte Alexandri ad quattuor et quingenti saucii fuere, ex peditibus XXX omnino et duo desiderati sunt, equitum centum quinquaginta interfecti: tantulo inpendio ingens victoria stetit! | [...] Avevano attirato lo sguardo e l’attenzione generale su di loro la madre e la moglie di Dario prigioniere: l’una non solo per la sua regalità, ma anche per l’età, di tutto rispetto; l’altra per le sua bellezza fisica. Aveva accolto nel suo grembo il figlioletto che non aveva compiuto ancora cinque anni, destinato fin dalla nascita a raccogliere tutta quella straordinaria eredità che suo padre aveva da poco perduta. In seno alla vecchia nonna stavano le due figlie (di Dario) fanciulle in età da marito, angosciate non solo dalla loro pena, ma anche da quella che vedevano in lei. Intorno a loro si era fermata una grande quantità di donne di stirpe illustre, che coi capelli strappati e la veste squarciata non ricordavano più la loro antica dignità ed invocavano le donne regali loro sovrane. Quelle, dimenticando la loro condizione sventurata, chiedevano in quale ala dell’esercito fosse rimasto Dario, quale fosse stato l’esito della battaglia. Dicevano che, se il re era in vita, loro non sarebbero state prese prigioniere. Ma intanto quello, cambiando sempre cavallo, si era portato lontano con la fuga.D'altra parte in campo di battaglia furono uccisi centomila fanti persiani mentre di cavalieri diecimila. Dalla parte di Alessandro invece ci furono cinquecentoquattro feriti, in tutto dei fanti andarono dispersi trentadue ed uccisi centocinquanta cavalieri: così esiguo fu il prezzo che costò una grande vittoria (come quella). |
[...] Igitur cum tempestivis conviviis dies pariter noctesque consumeret, satietatem epularum ludis interpellabat, non contentus artificum, quos e Graecia exciverat, turba: quippe captivae iubebantur suo ritum canere inconditum et abhorrens peregrinis auribus carmen. Inter quas unam rex ipse conspexit maestiorem quam ceteras et producentibus eam verecunde reluctantem. Excellens erat rorma, et formam pudor honestabat: deiectis in terram oculis et, quantum licebat, ore velato suspicionem praebuit regi nobiliorem esse, quam ut inter convivales ludos deberet ostendi.Ergo interrogata quaenam esset, neptim se Ochi, qui nuper regnasset in Persis, filio eius genitam esser respondit, uxorem Hystaspis fuisse. E propinquis hic Darei fuerat, magni et ipse exercitus praetor. Adhuc in animo regis tenues reliquae pristini moris haerebant. Itaque fortunam regia stirpe genitae et tam celebre nomen Ochi reveritus, non dimitti modo captivam, sed etiam restitui ei suas opes iussitm virum quoque requirim ut reperto coniugem redderet. Postero autem die praecepit Hephaestioni, ut omnes captivos in regiam iuberet adduci. Ibi singulorum nobilitate spectata ecrevit a vulgo, quorum eminebat genus. M hi fuerunt: inter quos repertus est Oxathres, Darei frater, non illius fortuna quam indole animi sui clarior. XXVI milia talentum proxima praeda redacta erant: e quis duodecim milia in congiuarium militum absumpta sunt, par huic pecuniae summa custodum fraude subtracta est. [...] | [...] Pertanto, poiché trascorreva i giorni e allo stesso modo le notti con banchetti prolungati, interrompeva la noia dei conviti con dei giochi, non contento della massa di saltimbanchi che aveva fatto venire dalla Grecia: infatti fu ordinato a delle prigioniere persiane di intonare secondo la propria tradizione dei canti rozzi e sgraditi ad orecche straniere. Tra queste il re stesso ne notò una più triste delle altre, e che si opponeva con ritegno a coloro che la conducevano in pubblico. Era splendida di aspetto, e la pudicizia ne abbelliva le sembianze: abbassato lo sguardo a terra e velato il volto per quanto possibile diede al re il sospetto che fosse nata da una famiglia troppo nobile per doversi esibire in spettacoli conviviali. Quindi, domandatole chi mai fosse, rispose che era la nipote di Oco, che aveva regnato fino a poco tempo prima sui Persiani, nata da suo figlio, e che era stata la moglie di Istaspe. Quest'ultimo era stato parente di Dario, ed era stato egli stesso a capo di un grande esercito. Nell'animo del re rimanevano ancora deboli tracce della sua antica indole. E così, rispettando la sorte di una nata da stirpe reale e il tanto celebre nome di Oco, ordinò non solo che la prigioniera venisse liberata, ma anche che le fossero restituiti i suoi averi, che fosse persino rintracciato il marito, per restituirgli la moglie ritrovata. Inoltre l'indomani ordinò ad Efestione di ordinare che tutti i prigionieri fossero condotti nella regia. Lì, valutata la nobiltà di ciascuno, separò dalla massa coloro dei quali appariva ben visibile la nobiltà. Questi furono mille: tra di loro fu trovato Oxarte, fratello di Dario, più famoso di quest'ultimo non per la fortuna di quello ma per l'indole del proprio animo. Con l'ultimo bottino erano stati razziati ventiseimila talenti: di questi dodicimila furono spesi per le distribuzioni ai soldati, altrettanti furono sottratti a causa della disonestà delle guardie. C'era il nobile persiano Ossidate, che, destinato alla morte da Dario,veniva tenuto in ceppi; dopo averlo liberato, gli assegnò la satrapia della Media, e accolse il fratello di Dario nel gruppo degli amici, restituita(gli) ogni onore della precedente nobiltà. [...] |
[...] Alexander, urbe in dicionem suam redacta, lovis templum intrat. Vehiculum, quo Gordium, Midae patrem, vectum esse constabat, aspexit, cultu haud sane a vilioribus vulgatisque usu abhorrens. Notabile erat iugum adstrictum compluribus nodis in semetipsos implicatis et celantibus nexus. Incolis deinde adfirmantibus editam esse oraculo sortem, Asiae potiturum, qui inexplicabile vinculum solvisset, cupido incessit animo sortis eius explendae. Circa regem erat et Phrygum turba et Macedonum, illa expectatione suspensa, haec sollicita ex temeraria regis fiducia: quippe serie vinculorum ita adstricta, ut, unde nexus inciperet quove se conderet, nec ratione nec visu perspici posset, solvere adgressus iniecerat curam ei ne in omen verteretur inritum inceptum.lile, nequaquam diu luctatus cum latentibus nodis, "Nihil" inquit "interest, quomodo solvantur", gladioque ruptis omnibus loris, oraculi sortem vel elusit vel implevit. [...] | [...] Alessandro, ridotta in suo potere la città, entrò nel tempio di Giove. Vide il carro, con cui si sapeva che si era lasciato trasportare Gordio, padre di Mida, carro che alla vista non era affatto diverso nell’utilizzo da quelli più comuni e normali. Si notava immediatamente il giogo stretto con parecchi nodi avvolti su se stessi che nascondevano però i punti di connessione. Siccome poi gli abitanti dicevano che dall’oracolo era stata fatta la profezia che si sarebbe impadronito dell’Asia colui che avesse sciolto quel nodo inestricabile, gli venne il desiderio di mettere in atto quella predizione. Intorno al re c’era una folla sia di Frigi che di Macedoni, i primi sospesi nell’attesa, i secondi preoccupati per la sicurezza del re che pareva temeraria: infatti, dato che la serie di nodi era talmente stretta che non si riusciva né a capire né a vedere da dove prendesse avvio la connessione o dove andasse a finire, il re cercando di sciogliere i nodi aveva ingenerato in loro la preoccupazione che se il tentativo non fosse riuscito si risolvesse in un cattivo presagio. Quello, senza aver a lungo lottato coi nodi nascosti, disse: "Non ha importanza come vengono sciolti" e, tagliati colla spada tutti i lacci, o eluse o realizzò la predizione dell’oracolo. [...] |
Licuit paternis opibus contento intra Macedoniae terminos per otium corporis exspectare obscuram et ignobilem senectutem, quamquam ne pigri quidem sibi fata disponunt, sed unicum bonum diuturnam vitam existimantes saepe acerba mors occupat. Verum ego, qui non annos meos, sed victorias numero, si munera fortunae bene conputo diu vixi. Orsus a Macedonia, imperium Graeciae teneo, Thraciam et Illyrios subegi, Triballis Maedisque imperito; Asiam, qua Hellesponto, qua Rubro mari subluitur, possideo.Iamque haud procul absum fine mundi, quem egressus aliam naturam, alium orbem aperire mihi statui. Ex Asia in Europae terminos momento unius horae transivi. Victor utriusque regionis post nonum regni mei, post vicesimum atque octavum annum vitae videorne vobis in excolenda gloria, cui me uni devovi, posse cessare? Ego vero non deero et, ubicumque pugnabo, in theatro terrarum orbis esse me credam. Dabo nobilitatem ignobilibus locis, aperiam cunctis gentibus terras, quas natura longe submoverat. In his operibus extingui mihi, si fors ita feret, pulchrum est.Ea stirpe sum genitus, ut multam prius quam longam vitam debeam optare | Mi sarebbe stato possibile, contento delle ricchezze paterne, attendere nell’inattività fisica un’oscura e ingloriosa vecchiaia entro i confini della Macedonia, benché neppure gli incapaci dispongano del proprio destino, ma spesso una morte prematura colpisce proprio coloro che ritengono una lunga vita l’unico bene. Ma io, che non conto i miei anni, ma le mie vittorie, ho vissuto a lungo, se calcolo bene i doni della fortuna. Cominciando dalla Macedonia, detengo il dominio sulla Grecia, ho sottomesso la Tracia e l’Illiria, comando sui Triballi e sui Medi; posseggo l’Asia, dalla parte bagnata dall’Ellesponto a quella bagnata dal Mar Rosso. Ed ormai non sono molto lontano dai confini del mondo, attraversato il quale, ho deciso di aprirmi un’altra natura, un altro mondo. Sono passato dall’Europa ai confini dell’Asia nello spazio di una sola ora. Vittorioso di entrambe le terre dopo nove anni di regno e dopo ventotto di vita, vi sembra che io possa desistere dall’accrescere la mia gloria, alla quale sola io mi sono consacrato? Certamente non mi tirerò indietro e, ovunque combatterò, penserò di trovarmi sulla scena del mondo. Darò notorietà a luoghi sconosciuti, mostrerò a tutti i popoli le terre che la natura per lungo tempo aveva tenuto separate. Se la sorte così deciderà, sarà cosa giusta che io muoia durante queste imprese.Sono nato da una stirpe che vuole che io debba preferire una vita intensa piuttosto che una lunga. |
"[...] Ad extrema perventum est. Matrem meam, duas filias, Ochum, in spem huius imperii genitum, principes, illam sobolem regiae stirpis, duces vestros reorum instar vinctos habet: nisi quid in vobis, ipse ego maiore mei parte captivus sum. Eripite viscera mea ex vinculis, restituite mihi pignora pro quibus ipsi mori non recusatis, parentem, liberos; nam coniugem in illo carcere amisi. Credite nunc omnes hos tendere ad vos manus, inplorare patrios deos, opem vestram, misericordiam, fidem exposcere, ut compedibus, ut servitute, ut precario victu ipsos liberetis.An creditis aequo animo iis servire, quorum reges esse fastidiunt? Video admoveri hostium aciem, sed quo propius discrimen accedo, hoc minus iis quae dixi possum esse contentus. Per ego vos deos patrios, aeternumque ignem qui praefertur altaribus, fulgoremque Solis intra fines regni mei orientis, per aeternam memoriam Cyri, qui ademptum Meis Lydisque imperium primus in Persidem intulit, vindicate ab ultimo dedecore nomen gentemque Persarum. Ite alacres et spiritus pleni, ut, quam gloriam accepistis a maioribus vestris, posteris relinquatis. In dextris vestris iam libertatem, opem, spem futuri temporis geritis. Effugit mortem, quisquis contempserit; timidissimum quemque consequitur. Ipse non patrio more solum, sed etiam, ut conspici possim, curru vehor, nec recuso quo minus imitemini me, sive fortitudinis exemplum, sive ignaviae fuero." | "[...] Si è arrivati alla rovina. (Alessandro) ha mia madre, due figlie, Oco, nato per la speranza di questo impero, i principi, illustre discendenza di stirpe reale, i vostri comandanti prigionieri come criminali: se non fosse perché è riposta qualche risorsa in voi, io sono prigioniero per la maggior parte di me stesso. Liberate le mie viscere dai vincoli, restituitemi gli ostaggi, per i quali voi stessi non esitate a morire, il genitore, i figli: infatti persi la moglie in quella prigione. Credete ora che tutti vi tendano le mani, invochino gli dei patrii, implorino il vostro aiuto, pietà, fiducia, perché li liberiate dai vincoli, dalla servitù e dal vitto precario. O forse credete che facciano con serenità da servi a coloro dei quali disdegnano di essere re? Vedo che viene avvicinata la schiera dei nemici, ma quanto più mi avvicino al momento decisivo, tanto meno, per le cose che ho detto, vedo di poter essere contento. Dunque, nel nome degli dei patrii, dell'eterno fuoco che viene portato agli altari, dello splendore del sole che sorge fra i territori del mio regno, dell'eterna memoria di Ciro, che per primo portò in Persia il regno portato via ai Medi e ai Lidi, sottraete all'estremo disonore il nome e il popolo dei Persiani. Andate pronti e pieni di spirito a lasciare ai posteri la gloria che avete ricevuto dai vostri antenati. Nelle vostre destre già portate la libertà, l'aiuto, la speranza di un tempo futuro. Sfugge alla morte chiunque la disprezzi; essa segue tutti i più paurosi. Io stesso non solo per usanza patria, ma anche per poter farmi vedere, vengo trasportato dal carro, e non rifiuto che mi imitiate, sia che diventi un esempio di forza sia di viltà." |
At Dareus nuntio de adversa valitudine eius accepto celeritate, quantam capere tam grave agmen poterat, ad Euphraten contendit inunctoque eo pontibus quinque tamen diebus traiecit exercitum Ciliciam occupare festinans. Iam Alexander viribus corporis receptis ad urbem Solos pervenerat: cuius potitus ducentis talentis multae nomine exactis arci praesidium militum inposuit. Vota deinde pro salute suscepta per ludum atque otium reddens ostendit, quanta fiducia barbaros sperneret: quippe Aesculapio et Minervae ludos celebravit.Spectanti nuntius laetus adfertur Halicarnasso Persass acie a suis esse superatos, Myndios quoque et Caunios et pleraque tractus eius suae facta dicionis. Igitur edito spectaculo ludicro castrisque motis et Pyramo amne ponte iuncto ad urbem Mallum pervenit, inde alteris castris ad oppidum Catabolum. Ibi Parmenio regi occurrit: praemissus erat ad explorandum iter saltus, per quem ad urbem Isson nomine penetrandum erat. Atque ille angustiis eius occupatis et praesidio modico relicto Isson quoque desertam a barbaris ceperat. Inde progressus deturbatis, qui interiora montium obsidebant, praesidiis cuncta firmavit occupatoque itinere, sicut paulo ante dictum est, idem et auctor et nuntius venit. [...] | Ma Dario, ricevuta la notizia della cattiva salute di Alessandro, si diresse al fiume Eufrate con la velocità che poteva consentirgli un esercito tanto impacciato, e, collegatolo con dei ponti, fece tuttavia passare l'esercito in cinque giorni, affrettandosi ad occupare la Cilicia. E Alessandro, recuperate ormai le forze del corpo, era giunto alla città di Soli: impossessatosi di questa, dopo aver richiesto duecento talenti di taglio grosso, stabilì un presidio di soldati alla rocca. Quindi, sciolti i voti che aveva fatto per la sua salute, ricambiando(li) con giochi e riposo, dimostrò con quanta fiducia disprezzasse i barbari: poiché celebrò dei giochi in onore di Esculapio e di Minerva. Da Alicarnasso mentre assiste ai giochi gli viene recata la buona notizia che i Persiani sono stati vinti in battaglia dai suoi soldati, che i Mindi e persino i Cauni e la maggior parte del suo paese sono stati posti sotto il suo dominio. Quindi, finito lo spettacolo dei giochi, mosso l'accampamento, e congiunto il fiume Piramo con un ponte, giunse alla città di Mallo, di lì con altre tappe sino alla piazzaforte di Castabalo. Lì Parmenio venne incontro al re: era stato mandato in avanscoperta ad esplorare il percorso del passo attraverso il quale si doveva arrivare alla città di nome Isso. E quello, occupati gli stretti territori di esso e lasciata una modesta difesa, aveva conquistato anche Isso, abbandonata dai barbari. Dopo essere uscito, cacciati i nemici che occupavano l'interno dei monti, fortificò tutti gli accessi e, occupato il percorso, come si è detto poco fa, ritornò allo stesso tempo da autore (dell'impresa) e da messaggero. [...] |
[...] Forte Macedo gregarius miles seque et arma male sustentans, tamen in castra pervenerat; quo viso rex, quamquam ipse tum maxime admoto igne refovebat artus, ex sella sua exiluit, torpentemque militem et vix compotem mentis demptis armis in sua sede iussit considere. [...] | [...] Per caso un soldato semplice macedone, sorreggendo con difficoltà sé e le sue armi, giunse tuttavia all'accampamento; il re quando lo vide, nonostante riscaldava le membra con un fuoco che gli avevano appena portato, saltò su dalla sedia e ordinò al soldato intorpidito e a stento padrone di sé di sedersi al suo posto. [...] |
Iam in conspectu, sed extra teli iactum utraque acies erat, cum priores persae inconditum et trucem sustulere clamorem. [...] | Ormai entrambe le armate erano a vista ma non a portata di freccia, quando le avanguardie Persiane innalzarono un grido di guerra minaccioso e disordinato. [...] |
[...] Betim egregia edita pugna multisque vulneribus confectum deseruerunt sui, nec tamen segnius proelium capessebat, lubricis armis suo pariter atque hostium sanguine. Sed cum undique telis peteretur, ad postremum, exhaustis viribus, vivus in potestatem hostium pervenit. Quo adducto, insolenti gaudio iuvenis elatus, alias virtutis etiam in hoste mirator, "Non, ut voluisti", inquit, "morieris, sed, quidquid in captivum inveniri potest, passurum esse te cogita".Ille, non interrito modo, sed contumaci quoque vultu intuens regem, nullam ad minas eius reddidit vocem. Tum Alexander, "Videtisne obstinatum ad tacendum?" inquit, "num genu posuit? Num vocem supplicem misit? Vincam tamen silentium et si nihil aliud, certe gemitu interpellabo". Ira deinde vertit in rabiem iam tum peregrinos ritus nova subeunte fortuna. Per talos enim spirantis lora traiecta sunt religatumque ad currum traxere circa urbem equi gloriante rege, Achillen, a quo genus ipse deduceret, imitatum se esse poena in hostem capienda. [...] | [...] Beti, dopo aver combattuto una pregevole battaglia ed essere stato ferito in più punti, venne abbandonato dai suoi; eppure non affrontava lo scontro con minor alacrità, anche se le sue armi erano difficili da maneggiare per il sangue sia suo che dei nemici. Ma, preso di mira da tutte le parti dalle armi nemiche, alla fine, sfinito fisicamente, cadde da vivo nelle mani degli avversari; e quando gli fu portato davanti, il giovane Alessandro pieno di orgogliosa soddisfazione, lui che in altre occasioni sapeva ammirare il valore anche nel nemico, disse: "Non morirai come avresti voluto, ma preparati all’idea che subirai tutti i supplizi che si possono escogitare contro un nemico". Quello, guardando il re con un’espressione non solo imperturbabile, ma anche arrogante, alle sue minacce non proferì parola. Allora Alessandro aggiunse: "Non vedete come è ostinato nel suo silenzio? Si è forse inginocchiato? Ha forse pronunciato parole supplichevoli? Eppure io riuscirò a sopraffare il suo silenzio e sicuramente, se non altro, a interromperlo coi lamenti". Poi l’ira si trasformò in rabbia, mentre la sua straordinaria fortuna stava già allora lasciando spazio a consuetudini barbare. Infatti mentre ancora lui era vivo, il re gli fece trapassare i talloni con delle cinghie e per mezzo di quelle dopo averlo fatto legare a un carro lo fece trascinare intorno alla città da dei cavalli, mentre lui si vantava di aver imitato Achille, da cui traeva origine, nel punire un nemico. [...] |
[...] Anxium de instantibus curis agitabant etiam per somnum species imminentium rerum, sive illas aegritudo, sive divinatio animi praesagientis accersit. Castra Alexandri magno ignis fulgore conlucere ei visa sunt, et paulo post Alexander adduci ad ipsum in eo vestis habitu, quo ipse fuisset, equo deinde per Babylona vectus, subito cum ipso equo oculis esse subductus. Ad haec vates varia interpretatione curam distrinxerant. Alii laetum id regi somnium esse dicebant, quod castra hostium arsissent, quod Alexandrum, deposita regia veste, in persico et vulgari habitu perductum ad se vidisset; quidam non: augurabantur quippe inlustria Macedonum castra visa fulgorem Alexandro portendere: quod vel regnum Asiae occupaturus esset, haud ambiguae rei, quoniam in eodem habitu Dareus fuisset, cum appellatus est rex.Vetera quoque omina, ut fere solet, sollicitudo revocaverat. Recensebant enim Dareum in principio imperii vaginam acinacis persicam iussisse mutari in eam forman, qua Graeci uterentur, protinusque Chaldaeos interpretatos imperium Persarum ad eos transiturum quorum arma esset imitatus. [...] | [...] Dario, assillato per le preoccupazioni incombenti era turbato anche durante il sonno dalla visione dei fatti imminenti, sia che fosse l’ansia ad averla provocata, sia che fossero presentimenti del suo animo a presagirglielo. Ebbe l’impressione che il campo di Alessandro fosse rischiarato da un grande bagliore di fuoco e che poco dopo Alessandro fosse portato proprio davanti a lui con indosso l’abbigliamento che lui stesso aveva avuto: poi, andato per la città di Babilonia a cavallo, all’improvviso fosse sparito alla vista insieme col cavallo stesso. Di fronte a questi sogni, gli indovini avevano acuito la sua angoscia dando diverse interpretazioni: alcuni sostenevano che quello per il re era un sogno di buon auspicio, cioè il fatto che il campo nemico si fosse incendiato, perché aveva visto che Alessandro, lasciato l’abbigliamento da re, era stato portato da lui vestito umilmente come un persiano. Altri non erano d’accordo con questa interpretazione: infatti vaticinavano che il campo dei Macedoni che era stato illuminato preannunciava lo splendore di Alessandro; il fatto che avesse avuto indosso quella veste (dimostrava) senza ombra di dubbio che avrebbe conquistato il potere sull’Asia, poiché Dario era stato vestito nello stesso modo, quando fu acclamato re. L’ansia aveva richiamato alla memoria anche antichi presagi, come di solito succede: infatti ripensavano che Dario all’inizio del suo regno aveva ordinato che il fodero della scimitarra persiana fosse cambiato, assumendo quella forma che usavano i Greci e subito i Caldei avevano vaticinato che l’impero persiano sarebbe passato a coloro le cui armi egli avesse imitato. [...] |
Famem deinde pestilentia secuta est; quippe insalubrium ciborum novi suci, ad hoc itineris labor et aegritudo animi vulgaverant morbos: et nec manere sine clade nec progredi poterant; manentes fames, progressos acrior pestilentia urguebat. Ergo strati erant campi paene pluribus semivivis, quam cadaveribus; ac ne levius quidem aegri sequi poterant: quippe agmen raptim agebatur tantum singulis ad spem salutis ipsos proficere credentibus, quantum itineris festinando praeciperent.Igitur, qui defecerant, notos ignotosque, ut adlevarentur, orabant; sed nec iumenta erant, quibus excipi possent, et miles vix arma portabat, inminentisque et ipsis facies mali ante oculos erat. Ergo, saepius revocati ne respicere quidem suos sustinebant misericordia in formidinem versa. Illi relicti deos testes et sacra communia regisque inplorabant opem; cumque frustra surdas aures fatigarent, in rabiem desperatione versi parem suo exitum similesque ipsis amicos et contubernales precabantur. | Alla carestia poi seguì una pestilenza: infatti le essenze dannose contenute nei cibi esotici e oltre a ciò la fatica fisica e la pena interiore avevano diffuso la malattia ed essi non riuscivano né a stare fermi né a procedere senza perdite: se rimanevano era la fame che li opprimeva, se progredivano l’epidemia con maggior gravità. Perciò le zone lì intorno erano ricoperte più di persone mezze morte che di cadaveri. E chi era malato non potevano neppure seguire gli altri più lentamente, perché il grosso delle truppe procedeva rapidamente, in quanto i singoli credevano di contribuire alla speranza di salvezza in misura proporzionale allo spazio che riuscivano a guadagnare camminando in fretta. Dunque chi era venuto meno supplicava indistintamente chi conosceva e chi non conosceva di essere sollevato da terra, ma non c’erano neppure bestie da soma su cui si potessero caricare e i soldati a stento riuscivano a portare le armi e chiaro davanti agli occhi avevano l’aspetto di un male che incombeva anche su di loro. Dunque quelli più volte richiamati indietro non ce la facevano neppure a guardare i loro compagni, perché la pietà si trasformava in paura. Quelli che venivano lasciati indietro imploravano gli dei a testimoni e la comune fede religiosa e l’aiuto del re e siccome le loro preghiere restavano inutili perché inascoltate, volta la loro disperazione in rabbia, auguravano ai loro compagni una morte simile alla loro e amici simili a quelli. |
[...] Iamque iustis defunctorum corporibus solutis praemittit ad captivas, qui nuntiarent ipsum venire, inhibitaque comitantium turba tabernaculum cum Hephaestione intrat. Is longe omnium amicorum carissimus erat regi, cum ipso pariter eductus, secretorum omnium arbiter; libertatis quoque in admonendo eo non alius ius maius habebat, quod tamen ita usurpabat ut magis a rege permissum quam vindicatum ab eo videretur: et sicut aetate par erat regi, ita corporis habitu praestabat.Ergo reginae illum esse regem ratae suo more veneratae sunt. Inde ex captivis spadonibus quis Alexander esset monstrantibus, Sisigambis advoluta est pedibus eius ignorationem numquam antea visi regis excusans; quam manu adlevans rex: "Non errasti", inquit, "mater: nam et hic Alexander est". [...] | [...] Dopo aver reso gli onori funebri di rito ai morti, mandò alle prigioniere messi ad annunciare che stava arrivando di persona e, lasciata fuori la folla del suo seguito, entrò nella tenda con Efestione. Questo era di gran lunga l’amico più caro al re, educato alla pari insieme con lui, partecipe di tutti i suoi segreti: nessun altro aveva come lui nell’ammonirlo una libertà più ampia, di cui peraltro si avvaleva al punto che sembrava che dal re gli fosse stato concesso più di quanto da lui fosse stato richiesto. E come era pari in età al re, così lo superava in corporatura. Dunque le donne della famiglia reale, credendo che fosse lui il re, gli resero omaggio secondo la loro usanza. Poi al momento in cui gli eunuchi prigionieri indicarono loro chi era il vero Alessandro, Sisigambi si avvinghiò ai suoi piedi scusandosi per non aver riconosciuto il re che prima non aveva mai visto. Il sovrano, facendola alzare con la mano, disse: "Non hai sbagliato, madre: infatti anche lui è Alessandro". [...] |
Intuentibus lacrimae obortae praebuere speciem iam non regem, sed funus eius visentis exercitus. Maeror tamen circumstantium lectum eminebat; quos ut rex aspexit: "Invenietis", inquit, "cum excessero, dignum talibus viris regem?" Incredibile dictu audituque, in eodem habitu corporis, in quem se composuerat, cum admissurus milites esset, durasse, donec a toto exercitu illud ultimum persalutatus est; dimissoque vulgo, velut omni vitae debito liberatus fatigata membra reiecit.Propiusque adire iussis amicis, - nam et vox deficere iam coeperat, - detractum anulum digito Perdiccae tradidit adiectis mandatis, ut corpus suum ad Hammonem ferri iuberent. Quaerentibusque his cui relinqueret regnum, respondit ei qui esset optimus, ceterum providere iam se ob id certamen magnos funebres ludos parari sibi. Rursus Perdicca interrogante quando caelestes honores haberi sibi vellet, dixit tum velle, cum ipsi felices essent. suprema haec vox fuit regis, et paulo post extinguitur. [...] | Le lacrime agli occhi che vennero loro mentre lo guardavano dettero l’impressione di un esercito che guardasse non già il suo re, ma il suo funerale: tuttavia a spiccare maggiormente era il dolore di quelli che stavano intorno al suo letto. Appena il re li ebbe notati, disse: "Una volta che sarò morto, troverete un (altro) sovrano che meriti tali uomini?". È incredibile sia a dirsi che ad udirsi che egli fosse rimasto nella stessa posizione del corpo che aveva assunto quando si accingeva a far entrare da lui i soldati, fino a che tutto l’esercito non gli rese quell’ultimo saluto. Poi, congedati i soldati, come se si fosse liberato da ogni obbligo verso la vita, coricò le sue membra stanche e, dopo aver ordinato agli amici di venirgli più vicino, giacché anche la voce ormai aveva iniziato a mancargli, si tolse l’anello dal dito e lo consegnò a Perdicca aggiungendo l’ordine di far portare il suo corpo al tempio di Giove Ammone. E quando essi chiedevano a chi lasciasse in eredità il regno, rispose (che lo lasciava) a chi fosse il migliore: per il resto (disse) che già prevedeva che per quella gara gli si preparavano grandi giochi funebri. Poiché di nuovo Perdicca voleva sapere da lui quando voleva che gli si attribuissero onori funebri, (rispose che) lo voleva quando loro stessi fossero felici. Queste furono le ultime parole del re e poco dopo morì. [...] |
At tum quidem regem propius adeuntem maximus natu e sacerdotibus filium appellat, hoc nomen illi parentem Iovem reddere adfirmans. Ille se vero, et accipere ait et adgnoscere, humanae sortis oblitus. Consuluit deinde, an totius orbis imperium fatis sibi destinaretur; Vates aeque in adulationem conpositus terrarum omnium rectorem fore ostendit. Post haec institit quaerere, an omnes parentis sui interfectores poenas dedissent. Sacerdos parentem eius negat ullius scelere posse violari, Philippi autem omnes luisse supplicia; adiecit invictum fore, donec excederet ad deos.Sacrificio deinde facto, dona et sacerdotibus et deo data sunt, permissumque amicis, ut ipsi quoque consulerent Iovem.Nihil amplius quaesierunt quam an auctor esset sibi divinis honoribus colendi suum regem. Hoc quoque acceptum fore Iovi vates respondet. Vera et salubri aestimatione pensanti fidem oraculi vana profecto responsa videri potuissent; sed fortuna, quos uni sibi credere coegit, magna ex parte avidos gloriae magis quam capaces facit. Iovis igitur filium se non solum appellari passus est, sed etiam iussit rerumque gestarum famam, dum augere vult tali appellatione, corrupit. | E proprio allora il più anziano dei sacerdoti chiamò figlio il re che si stava avvicinando, affermando che questo appellativo glielo rivolgeva il padre Giove. (Alessandro) disse che lo accettava e lo riconosceva, dimenticando la sorte umana. Quindi gli chiese se fosse stato destinato a lui dal fato il dominio di tutta la terra. E il sacerdote ,tutto preso dall'adulazione, proclamò che egli sarebbe stato il sovrano di tutte le nazioni. Dopo ciò insistette nel chiedere se tutti gli uccisori di suo padre avessero pagato la pena. Il sacerdote rispose che suo padre non poteva essere violato da nessun delitto, mentre tutti avevano scontato per il tormento subito da Filippo: aggiunse che egli sarebbe stato invitto fino a che non fosse asceso agli dei. Quindi dopo aver sacrificato, furono offerti doni ai sacerdoti e alla divinità e fu permesso anche agli amici di consultare Giove. Essi non chiesero nient'altro che fosse permesso loro di venerare il proprio re con onori divini. Il sacerdote rispose che anche ciò sarebbe stato gradito a Giove. A chi avesse considerato con una vera e salutare valutazione la veridicità degli oracoli, certamente i suoi responsi sarebbero potuti sembrare vani, ma purtroppo la fortuna rende più avidi di gloria che capaci coloro che costringe a confidare solo in lei stessa. Dunque non solo gli fu permesso di essere chiamato figlio di Giove, ma lo impose e danneggiò la fama delle sue gesta mentre voleva accrescerla con tale appellativo. |