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Quis enim ferret istos, cum videret eorum villas signis et tabulis refertas, partim publicis, partim etiam sacris et religiosis, quis non frangeret eorum libidines, nisi illi ipsi qui eas frangere deberent cupiditatis eiusdem tenerentur?Nec enim tantum mali est peccare principes, quamquam est magnum hoc per se ipsum malum, quantum illud quod permulti imitatores principum existunt. Nam licet videre, si velis replicare memoriam temporum, qualescumquc summi civitatis viri fuerint, talem civitatem fuisse; quaecumque mutatio morum in principibus extiterit, eandem in populo secutam. | E chi mai avrebbe potuto sopportare tali uomini, vedendo le loro ville zeppe di statue e di quadri, in parte appartenenti allo Stato, in parte perfino ad enti religiosi e luoghi sacri? Chi non metterebbe fine alle loro brame, se appunto coloro che dovrebbero frenarle, non fossero succubi della stessa cupidigia?Ma i difetti degli ottimati non sono tanto un male in sé, sebbene questo sia già un grande male di per sé stesso, quanto per il fatto che degli ottimati spuntino fuori moltissimi imitatori. È possibile vedere infatti che, volendo andare indietro nel tempo, a seconda di quali siano stati i maggiori esponenti della città, tale fu pure la città; e qualunque cambiamento morale si sia manifestato negli ottimati, il medesimo cambiamento ne è seguito nel popolo. |
Quibus blanditiis C. Papirius nuper influebat in auris contionis, cum ferret legem de tribunis plebis reficiendis! Dissuasimus nos; sed nihil de me, de Scipione dicam libentius. Quanta illi, di immortales, fuit gravitas, quanta in oratione maiestas! ut facile ducem populi Romani, non comitem diceres. Sed adfuistis, et est in manibus oratio. Itaque lex popularis suffragiis populi repudiata est. Atque, ut ad me redeam, meministis, Q. Maximo, fratre Scipionis, et L.Mancino consulibus, quam popularis lex de sacerdotiis C. Licini Crassi videbatur! cooptatio enim collegiorum ad populi beneficium transferebatur; atque is primus instituit in forum versus agere cum populo. Tamen illius vendibilem orationem religio deorum immortalium nobis defendentibus facile vincebat. Atque id actum est praetore me quinquennio ante quam consul sum factus; ita re magis quam summa auctoritate causa illa defensa est. | Con quali lusinghe Caio Papirio cercava di insinuarsi nelle orecchie dell'assemblea popolare poco tempo fa, quando presentava il disegno di legge sulla rielezione dei tribuni della plebe! Ci siamo opposti alla sua proposta. Ma non è di me, è di Scipione che preferisco parlare. Dèi immortali, che solennità, che maestà risuonò nelle sue parole! Non avresti esitato a chiamarlo guida del popolo romano, non semplice cittadino! Ma eravate presenti ed è in circolazione il suo discorso. Così, una legge di ispirazione popolare è stata respinta dai voti dei popolo. E, per ritornare a me, vi ricordate senz'altro di quanto apparisse popolare la legge sui sacerdozi presentata da Caio Licinio Crasso nell'anno del consolato di Quinto Massimo, fratello di Scipione, e di Lucio Mancino! L'elezione dei membri dei collegi sacerdotali veniva trasferita al popolo. E fu lui il primo a parlare al popolo con la faccia rivolta al foro. Nonostante ciò, il rispetto degli dèi immortali, da me difeso, sconfisse senza difficoltà il suo discorso demagogico. L'episodio risale alla mia pretura, cinque anni prima del mio consolato. Così, fu il suo significato intrinseco la migliore difesa di quella causa, e non la suprema autorità del suo oratore. |
Verum ad istam omnem orationem brevis est defensio. Nam quoad aetas M. Caeli dare potuit isti suspicioni locum, fuit primum ipsius pudore, deinde etiam patris diligentia disciplinaque munita. Qui ut huic virilem togam dedit nihil dicam hoc loco de me; tantum sit, quantum vos existimatis; hoc dicam, hunc a patre continuo ad me esse deductum; nemo hunc M. Caelium in illo aetatis flore vidit nisi aut cum patre aut mecum aut in M. Crassi castissima domo, cum artibus honestissimis erudiretur. | Tuttavia, la difesa per (complemento di fine) tutto questo discorso sarà breve. Infatti finchè (quoad= avverbiale) l’età di Marco Celio potè dare luogo a questo sospetto, fu dapprima tutelata dal pudore di costui (ablativo di causa efficiente), poi anche dalla diligenza (altro ablativo di causa efficiente) e dal rigore del padre. Egli, quando gli diede la toga virile...ma io non dirò qui nulla riguardo a me (ablativo di argomento); pensate pure quello che credete subito a me subitaneamente venne affidato dal padre. Nessuno vide questo Marco Celio nel fiore di quella età se non o con il padre, o con me, o nella virtuosissima casa di Marco Crasso, dedicandosi a discipline assai onorevoli. |
Cum illo vero quis neget actum esse praeclare? Nisi enim, quod ille minime putabat, immortalitatem optare vellet, quid non adeptus est quod homini fas esset optare? qui summam spem civium, quam de eo iam puero habuerant, continuo adulescens incredibili virtute superavit, qui consulatum petivit numquam, factus consul est bis, primum ante tempus, iterum sibi suo tempore, rei publicae paene sero, qui duabus urbibus eversis inimicissimis huic imperio non modo praesentia verum etiam futura bella delevit.Quid dicam de moribus facillimis, de pietate in matrem, liberalitate in sorores, bonitate in suos, iustitia in omnes? nota sunt vobis. Quam autem civitati carus fuerit, maerore funeris indicatum est. Quid igitur hunc paucorum annorum accessio iuvare potuisset? Senectus enim quamvis non sit gravis, ut memini Catonem anno ante quam est mortuus mecum et cum Scipione disserere, tamen aufert eam viriditatem in qua etiam nunc erat Scipio. | Quanto a Scipione, chi può dire che la sorte non gli abbia arriso? A meno che non aspirasse all'immortalità, cosa a cui non pensava affatto, quali sono tra i desideri concessi all'uomo quelli che non è riuscito a realizzare? Appena adolescente, grazie al suo eccezionale valore, superò le enormi aspettative che i suoi concittadini avevano riposto in lui sin da bambino. Non si candidò mai al consolato, ma due volte fu eletto console, la prima quando non aveva ancora l'età prescritta, la seconda a tempo debito per lui, ma forse troppo tardi, ormai, per lo stato. Con la distruzione delle due città più ostili al nostro impero, pose fine alle guerre del suo tempo e scongiurò le future. E che dire della sua disponibilità, dell'amore per la madre, della generosità verso le sorelle, della benevolenza verso i suoi, del senso di giustizia verso tutti? Sapete di cosa parlo. Quanto poi fosse amato dalla città, lo si è visto dal pianto generale ai suoi funerali. A cosa gli sarebbe servito vivere qualche anno di più? A niente, perché la vecchiaia, sebbene non sia un peso (ricordo che Catone, un anno prima di morire, lo sostenne discutendo con me e Scipione), non di meno porta via quel vigore che Scipione aveva ancora. |
Quod autem idem maestitiam meam reprehendit, idem iocum, magno argumento est me in utroque fuisse moderatum. Hereditates mihi negasti venire. Utinam hoc tuum verum crimen esset! plures amici mei et necessarii viverent. Sed qui istuc tibi venit in mentem? Ego enim amplius sestertium ducentiens acceptum hereditatibus rettuli. Quamquam in hoc genere fateor feliciorem esse te. Me nemo nisi amicus fecit heredem, ut cum illo commodo, si quod erat, animi quidam dolor iungeretur; te is, quem tu vidisti numquam, L.Rubrius Casinas fecit heredem. [...] | Ma il fatto che proprio lui biasimi la mia tristezza, e ancora lui il mio scherzo, è grande prova che io sono stato moderato in entrambi. Hai detto che non mi è giunta l'eredità. Magari fosse vera questa tua accusa! Molti miei amici e parenti vivrebbero. Ma come ti viene in mente? Io infatti mi sono dichiarato debitore all'eredità di più di 200.000 sesterzi. Sebbene in questo genere ammetto che tu sei più fortunato. Nessuno mi ha fatto erede se non un amico, affinché con quel vantaggio, se era tale, fosse legato un qual certo dolore; quel Lucio Rubrio di Cassino, che tu non hai mai visto, ti ha fatto erede. E di certo vedi quanto ti abbia amato quello, che non sai se fosse bianco o nero. [...] |
Maxime autem adducuntur plerique, ut eos iustitiae capiat oblivio, cum in imperiorum, honorum, gloriae cupiditatem inciderunt. Quod enim est apud Ennium:Nulla sancta societasNec fides regni est,id latius patet. Nam quidquid eiusmodi est, in quo non possint plures excellere, in eo fit plerumque tanta contentio, ut difficillimum sit servare sanctam societatem. Declaravit id modo temeritas C. Caesaris, qui omnia iura divina et humana pervertit propter eum, quem sibi ipse opinionis errore finxerat principatum.Est autem in hoc genere molestum, quod in maximis animis splendidissimisque ingeniis plerumque existunt honoris, imperii, potentiae, gloriae cupiditates. Quo magis cavendum est, ne quid in eo genere peccetur. | Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando cadono in preda al desiderio del comando, degli onori e della gloria. Certo, quella sentenza di Ennio:La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fedeha un suo ben più vasto campo di applicazione. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di varie persone, diventa generalmente il campo di contese così aspre che è assai difficile rispettare "la santità degli affetti". Chiara dimostrazione ne ha dato di recente la temeraria azione di Gaio Cesare che ha sovvertito tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era creato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono i desideri d'onori, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggiore cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo. |
quare tibicen Antigenidas dixerit discipulo sane frigenti ad populum: 'mihi cane et Musis'; ego huic Bruto dicenti, ut solet, apud multitudinem: 'mihi cane et populo, mi Brute', dixerim, ut qui audient quid efficiatur, ego etiam cur id efficiatur inte llegam. credit eis quae dicuntur qui audit oratorem, vera putat, adsentitur probat, fidem facit oratio. | Perciò, se il flautista Antigenida disse a un discepolo che lasciava freddo il suo pubblico: "esibisciti per me e per le Muse io a Bruto, quando parla, come spesso fa, davanti a una moltitudine, direi piuttosto: "esibisciti per me e per il popolo di modo che gli ascoltatori si rendano conto degli effetti della sua eloquenza, e io anche del modo in cui sono ottenuti. Chi ascolta un oratore presta fede a quanto viene detto, lo ritiene vero, acconsente, approva, il discorso risulta convincente. |
Cum haec dixissem et paulum interquievissem: quid igitur, inquit, est causae, Brutus, si tanta virtus in oratore Galba fuit, cur ea nulla in orationibus eius appareat? quod mirari non possum in eis, qui nihil omnino scripti reliquerunt. Nec enim est eadem inquam, Brute, causa non scribendi et non tam bene scribendi quam dixerint. nam videmus alios oratores inertia nihil scripsisse, ne domesticus etiam labor accederet ad forensem—pleraeque enim scribuntur orationes habitae iam, non ut habeantur —. | 91 Detto questo, feci un attimo di pausa. "Per quale motivo, allora," disse Bruto "se Galba ebbe tanto talento di oratore, esso non compare minimamente nei suoi discorsi? Un simile contrasto, non posso certo avvertirlo in coloro che non lasciarono assolutamente niente di scritto. " "Difatti: non è la stessa, Bruto," dissi "la ragione del non scrivere, e quella di non scrivere così bene come si era parlato. Giacché vediamo che certi oratori non hanno scritto niente per indolenza, perché alla fatica forense non se ne aggiungesse anche una domestica -infatti la maggior parte delle orazioni si scrivono quando già sono state pronunciate, e non per poi pronunciarle -. |
Nunc ea, Torquato quae quondam et consule CottaLydius ediderat Tyrrhenae gentis haruspex,omnia fixa tuus glomerans determinat annus.Nam pater altitonans stellanti nixus Olympoipse suos quondam tumulos ac templa petivitet Capitolinis iniecit sedibus ignis.Tum species ex aere vetus venerataque Nattaeconcidit, elapsaeque vetusto numine leges,et divom simulacra peremit fulminis ardor.Hic silvestris erat Romani nominis altrixMartia, quae parvos Mavortis semine natosuberibus gravidis vitali rore rigabat;quae tum cum pueris flammato fulminis ictuconcidit atque avolsa pedum vestigia liquit.Tum quis non artis scripta ac monumenta volutansvoces tristificas chartis promebat Etruscis?Omnes civilem generosa stirpe profectamvolvier ingentem cladem pestemque monebant;tum legum exitium constanti voce ferebant,templa deumque adeo fiammis urbemque iubebanteripere et stragem horribilem caedemque vereri;atque haec fixa gravi fato ac fundata teneri,ni prius excelsum ad columen formata decoresancta Iovis species claros spectaret in ortus:tum fore ut occultos populus sanctusque senatuscernere conatus posset, si solis ad ortumconversa inde patrum sedes populique videret.Haec tardata diu species multumque morataconsule te tandem celsa est in sede locataatque una fixi ac signati temporis horaIuppiter excelsa clarabat sceptra columna,et clades patriae flamma ferroque paratavocibus Allobrogum patribus populoque patebat. | Ed ecco che tutti gli eventi che un tempo, sotto il consolato di Torquato e di Cotta, aveva profetato l'arùspice lidio della gente etrusca, tutti insieme, stabiliti dal fato, li porta a termine l'anno del tuo consolato. Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio. Allora l'antica e venerata effigie bronzea di Natta si abbatté al suolo, e scomparvero le tavole delle leggi di vetusta, sacra autorità, e la vampa del fulmine annientò le immagini degli dèi. Qui c'era la silvestre nutrice marzia della gente romana, che con le turgide mammelle alimentava di rugiada vitale i piccoli nati dalla stirpe di Marte: essa allora, colpita insieme coi fanciulli dal fulmine fiammeggiante, cadde e, divelta dalla base, vi lasciò l'impronta dei piedi. Chi in quel tempo, leggendo e rileggendo gli scritti e i documenti dell'arte divinatoria, non ricavava dalle carte etrusche lugubri presagi? Tutti avvertivano che una grande sciagura per tutta la città, un flagello stava per scatenarsi, per opera di una famiglia nobile; e annunziavano anche, con parole sempre ripetute, la rovina delle leggi e ordinavano soprattutto di sottrarre dalle fiamme i templi degli dèi e la città, e di guardarsi da una strage e da un massacro orribile. Dicevano che queste cose erano immutabilmente fissate da un tremendo destino, a meno che, prima, una sacra immagine di Giove, fatta con arte, collocata su un'alta colonna, fosse rivolta verso la chiara luce d'oriente. Soltanto allora il popolo e il santo senato avrebbero potuto scoprire queste mene occulte, se la statua di Giove, rivolta verso il sorgere del sole, avesse potuto di lì vedere le sedi dei senatori e del popolo. Questa effigie, eseguita con gran ritardo e attesa per molto tempo, finalmente sotto il tuo consolato fu collocata sulla sua alta sede; e in uno stesso momento, stabilito e fissato dal destino, Giove faceva risplendere il suo scettro in cima alla colonna, e la rovina della patria, preparata col ferro e col fuoco, veniva rivelata dalle parole degli Allobrogi ai senatori e al popolo. |
Ergo hoc auspicium divini quicquam habere potest, quod tam sit coactum et expressum? Quo antiquissumos augures non esse usos argomento est, quod decretum collegii vetus habemus omnem avem tripudium facere posse. Tum igitur esset auspicium, si modo esset ei liberum se ostendisse; tum avis illa videri posset interpres et satelles Iovis; nunc vero inclusa in cavea et fame enecta si in offam pultis invadit, et si aliquid ex eius ore cecidit, hoc tu auspicium aut hoc modo Romulum auspicari solitum putas? Iam de caelo servare non ipsos censes solitos qui auspicabantur? Nunc imperant pullario; ille renuntiat fulmen sinistrum, auspicium optumum quod habemus ad omnis res praeterquam ad comitia; quod quidem institutum rei publicae causa est, ut comitiorum vel in iudiciis populi vel in iure legum vel in creandis magistratibus principes civitatis essent interpretes."At Ti.Gracchi litteris Scipio et Figulus consules, cum augures iudicassent eos vitio creatos esse, magistratu se abdicaverunt." Quis negat augurum disciplinam esse? Divinationem nego. "At haruspices divini; quos cum Ti. Gracchus, propter mortem repentinam eius qui in praerogativa reverenda subito concidisset, in senatum introduxisset, non iustum rogatorem fuisse dixerunt." Primum vide, ne in eum dixerint, qui rogator centuriae fuisset; is enim erat mortuus: id autem sine divinatione coniectura poterant dicere. Deinde fortasse casu qui nullo modo est ex hoc genere tollendus. Quid enim scire Etrusci haruspices aut de tabernaculo recte capto aut de pomerii iure potuerunt? Equidem adsentior C. Marcello potius quam App. Claudio, qui ambo mei collegae fuerunt, existimoque ius augurum, etsi divinationis opinione principio constitutum sit, tamen postea rei publicae causa conservatum ac retentum. | Può dunque aver qualcosa di divinatorio questo auspicio, così coatto e tratto a forza? Che i più antichi àuguri non siano ricorsi a esso, lo dimostra il fatto che conserviamo tuttora un vecchio decreto del nostro collegio, secondo il quale da ogni uccello si può ottenere il "tripudio". Allora, sì, sarebbe un vero auspicio, a condizione che l'uccello fosse libero di mostrarsi; allora quell'uccello potrebbe sembrare un interprete e ministro di Giove; ora invece, chiuso in gabbia e stremato dalla fame, se si butta a divorare un pastone di farina, e se un pezzetto di cibo gli cade di bocca, credi che questo sia un auspicio o che in questo modo Romolo fosse solito trarre gli auspicii? Non credi, inoltre, che coloro che un tempo prendevano gli auspicii compissero da sé l'osservazione di ciò che veniva dal cielo? Ora la fanno fare al pullario: quegli riferisce che è caduto un fulmine proveniente da sinistra, che consideriamo come il migliore auspicio, tranne per i comizi; questa eccezione fu stabilita per motivi politici, perché i più potenti nello Stato fossero gli interpreti dei comizi nei processi popolari o nell'approvazione delle leggi o nell'elezione dei magistrati. "Ma," tu obietterai, "in séguito a una lettera inviata da Tiberio Gracco i consoli Scipione e Figulo dovettero rinunciare alla carica, perché gli àuguri avevano sentenziato che erano stati eletti con una procedura irregolare." Ma chi nega l'esistenza di una dottrina degli àuguri? È la divinazione che io nego "Ma gli arùspici sono indovini; quando Tiberio Gracco, a causa della morte improvvisa di colui che era stramazzato al suolo mentre raccoglieva i voti della centuria che votava per prima, li convocò in senato, essi dissero che il 'rogatore' non si era uniformato alle regole." Innanzi tutto rifletti se non si siano voluti riferire a colui che era stato il "rogatore" della prima centuria; quello, difatti, era morto, e che ciò costituisse un'irregolarità potevano dirlo senza avere doti divinatorie, per semplice interpretazione delle regole. In secondo luogo, forse dissero così per caso, e il caso non si può mai escludere in fatti di questo genere. E in effetti, che cosa potevano sapere degli arùspici etruschi quanto al modo giusto di erigere la tenda o alle leggi sull'attraversamento del pomerio? In verità, io mi trovo d'accordo con Gaio Marcello piuttosto che con Appio Claudio - entrambi furono miei colleghi come àuguri - e ritengo che il diritto augurale, sebbene all'inizio sia stato costituito in base alla credenza nella divinazione, sia stato poi conservato e rispettato per utilità politica. |
Tum Brutus admirans: tantamne fuisse oblivionem, inquit, in scripto praesertim, ut ne legens quidem umquam senserit quantum flagiti commisisset? Quid autem, inquam, Brute, stultius quam, si ea vituperare volebat quae vituperavit, non eo tempore instituere sermonem, cum illarum rerum iam tempora praeterissent? sed ita totus errat, ut in eodem sermone dicat in senatum se Caesare consule non acceder e, sed id dicat ipso consule exiens e senatu. iam qui hac parte animi, quae custos est ceterarum ingeni partium, tam debilis esset, ut ne in scripto quidem meminisset quid paulo ante posuisset, huic minime mirum est ex tempore dicenti solitam effluere mentem. | Allora Bruto, stupito: "Possibile tanta smemorataggine, e poi in uno scritto? Tanto da non accorgersi, nemmeno alla lettura, di aver commesso un errore così sciagurato!". "Ma se voleva biasimare quel che biasimò, Bruto, che cosa ci poteva essere di più stolto" dissi "di non collocare la conversazione in un periodo in cui il tempo di quei fatti fosse ormai passato? Ma sbaglia talmente in tutto! Tanto che nella stessa conversazione dice che finché Cesare sarà console non intende porre piede in senato, ma lo dice nell'atto di uscire dal senato proprio mentre Cesare è console. Ora uno che in quella facoltà della mente che custodisce le altre attività dello spirito, era così debole da non ricordarsi neppure in uno scritto di quanto aveva affermato poco prima, non c'è niente da meravigliarsi se di solito perdeva il filo quando doveva parlare all'impronta. |
Eiusmodi igitur credo res Panaetium persecuturum fuisse, nisi aliqui casus aut occupatio eius consilium peremisset. Ad quas ipsas consultationes ex superioribus libris satis multa praecepta sunt, quibus perspici possit, quid sit propter turpitudinem fugiendum, quid sit, quod idcirco fugiendum non sit, quod omnino turpe non sit. Sed quoniam operi inchoato, prope tamen absoluto, tamquam fastigium imponimus, ut geometrae solent non omnia docere, sed postulare, ut quaedam sibi concedantur, quo facilius quae volunt, explicent, sic ego a te postulo, mi Cicero, ut mihi concedas si potes, nihil praeter id, quod honestum sit, propter se esse expetendum.Sin hoc non licet per Cratippum, at illud certe dabis, quod honestum sit, id esse maxime propter se expetendum. Mihi utrumvis satis est et tum hoc tum illud probabilius videtur nec praeterea quicquam probabile. | Io credo, dunque, che Panezio avrebbe trattato simili questioni, se qualche evento o qualche occupazione non gli avessero impedito l'esecuzione di questo suo progetto. Per queste stesse questioni dai libri precedenti si deducono numerosi consigli, in base ai quali si può distinguere quale azione sia da evitare per la sua disonestà, e quale non si debba evitare proprio perché non è del tutto vergognosa. Ma poiché all'opera incominciata e quasi portata a termine sto per porre, per così dire, il tetto, come i geometri sono soliti non dimostrare ogni affermazione, ma chiedere che alcune siano loro concesse perché più facilmente possano spiegare il loro assunto, così io ti chiedo, o mio Cicerone, di concedermi, se lo puoi, questo, che non si deve desiderare niente di per se stesso tranne ciò che è onesto. Se invero ciò non ti è permesso, perché contrasta con le teorie di Cratippo, mi concederai sicuramente questo, che l'onesto si deve desiderare soprattutto per se stesso. A me basta o l'uno o l'altro; ed ora questo ora quello mi pare più probabile, ed inoltre non mi pare probabile alcun altro postulato. |
Omnia tum perditorum civium scelere discessu meo religionum iura polluta sunt, vexati nostri Lares familiares, in eorum sedibus exaedificatum templum Licentiae, pulsus a delubris is qui illa servarat: circumspicite celeriter animo - nihil enim attinet quemquam nominari -, qui sint rerum exitus consecuti: nos, qui illam custodem urbis omnibus ereptis nostris rebus ac perditis violari ab impiis passi non sumus eamque ex nostra domo in ipsius patris domum detulimus, iudicia senatus, Italiac, gentium denique omnium conservatae patriae consecuti sumus.Quo quid accidere potuit homini praeclarius? Quorum scelere religiones tum prostratae adflictaeque sunt, partim ex illis distracti ac dissipati iacent; qui vero ex iis et horum scelerum principes fuerant et praeter ceteros in omni religione inpii, non solum <nullo in> vita cruciatu atque dedecore, verum etiam sepultura et iustis exsequiarum carent. | Alla mia partenza, dal delitto di cittadini scellerati furono contaminate tutte le leggi sacre, profanati i nostri Lari familiari, al loro posto fu edificato un tempio alla Licenza, e dagli altari fu scacciato colui che li aveva salvati; considerate rapidamente - non è infatti il caso di fare il nome di alcuno- quali siano state le conseguenze. Noi, che non avevamo permesso che quella custode della città fosse violata dai sacrileghi, pur in mezzo alla distruzione ed alla dispersione dei nostri beni, e l'avevamo trasferita dalla casa nostra in quella del suo genitore, ci siamo meritati il riconoscimento da parte del senato, dell'Italia, ed infine di tutti i popoli, d'avere salvato la patria e che cosa di più eccezionale sarebbe potuta accadere ad un uomo? Coloro invece, per il cui delitto la religione era allora stata calpestata e profanata, in parte se ne stanno dispersi e sbandati; e quanti fra loro erano stati i principali responsabili di questi delitti ed empi più d'ogni altro verso ogni culto, non solo patirono in vita [ tormenti] e disonore, ma furono privi di sepoltura e di onoranze funebri. |
Quo magis tuum, Brute, iudicium probo, qui eorum [id est ex vetere Academia] philosophorum sectam secutus es, quorum in doctrina atque praeceptis disserendi ratio coniungitur cum suavitate dicendi et copia; quamquam ea ipsa Peripateticorum Academicorumque consuetudo in ratione dicendi talis est, ut nec perficere oratorem possit ipsa per sese nec sine ea orator esse perfectus. nam ut Stoicorum astrictior est oratio aliquantoque contractior quam aures populi requirunt, sic illorum liberior et latior quam patitur consuetudo iudiciorum et fori. | Tanto più, Bruto, io approvo la tua scelta, di seguire la scuola di quei filosofi nella cui dottrina e nei cui insegnamenti il metodo di argomentare si unisce a un'esposizione gradevole e copiosa; per quanto la stessa consuetudine seguita dai peripatetici e dagli accademici nel loro metodo di esposizione è tale, che essa da sola non basta a portare a compimento la formazione dell'oratore, né questa può risultare compiuta in sua mancanza. Infatti, se lo stile degli stoici è più denso, e alquanto più serrato, di quel che richiedono le orecchie del popolo, cosi quello di costoro è più libero e di più ampio re spiro di quanto consenta la consuetudine dei processi e del foro. |
Quid vero? nuper cum morte superioris uxoris novis nuptiis domum vacuefecisses, nonne etiam alio incredibili scelere hoc scelus cumulasti? quod ego praetermitto et facile patior sileri, ne in hac civitate tanti facinoris inmanitas aut extitisse aut non vindicata esse videatur. Praetermitto ruinas fortunarum tuarum, quas omnis inpendere tibi proxumis Idibus senties; ad illa venio, quae non ad privatam ignominiam vitiorum tuorum, non ad domesticam tuam difficultatem ac turpitudinem sed ad summam rem publicam atque ad omnium nostrum vitam salutemque pertinent. | E ancora: poco tempo fa, quando ti sei sbarazzato della tua prima moglie per poterti risposare, non hai forse aggiunto a questo un secondo inconcepibile delitto? Non intendo soffermarmi; preferisco tacere perché non sembri che nella nostra città è stato commesso un crimine tanto immane ed è rimasto impunito. Non intendo parlare del tuo dissesto finanziario, che sentirai pesarti addosso alla prossima scadenza dei debiti. Vengo piuttosto a fatti che non riguardano i vergognosi vizi della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, né la tua immoralità, ma gli interessi superiori dello Stato, la vita e la sicurezza di tutti noi. |
Honore et gloria et benivolentia civium fortasse non aeque omnes egent, sed tamen, si cui haec suppetunt, adiuvant aliquantum cum ad cetera, tum ad amicitias comparandas. Sed de amicitia alio libro dictum est, qui inscribitur Laelius; nunc dicamus de gloria, quamquam ea quoque de re duo sunt nostri libri, sed attingamus, quandoquidem ea in rebus maioribus administrandis adiuvat plurimum. Summa igitur et perfecta gloria constat ex tribus his: si diligit multitudo, si fidem habet, si cum admiratione quadam honore dignos putat.Haec autem, si est simpliciter breviterque dicendum, quibus rebus pariuntur a singulis, eisdem fere a multitudine. Sed est alius quoque quidam aditus ad multitudinem, ut in universorum animos tamquam influere possimus. | Non tutti, forse, hanno bisogno allo stesso modo dell'onore, della gloria e della benevolenza dei cittadini, ma tuttavia, se qualcuno è provvisto di queste qualità, esse l'aiutano sensibilmente a procurarsi, oltre a tutto il resto, le amicizie. Dell'amicizia si è parlato in un altro libro [che si intitola 'Lelio']; ora parliamo della gloria, sebbene anche su questo argomento ci siano due miei libri, ma ne accenniamo dal momento che giova moltissimo nell'occuparsi dei più alti affari. La suprema e perfetta gloria consta di tre elementi: se la moltitudine ci ama, se ha in noi fiducia, se, insieme con l'ammirazione, ci stima degni di un qualche onore. Orbene - per dirla in breve e semplicemente - suscitiamo nella moltitudine questi sentimenti quasi con quegli stessi mezzi coi quali li facciamo nascere nelle singole persone, Ma vi è anche un altro accesso alla simpatia della folla, per poter esercitare una certa influenza sull'animo di tutti. |
Alter locus erat cautionis, ne benignitas maior esset quam facultates, quod qui benigniores volunt esse, quam res patitur, primum in eo peccant, quod iniuriosi sunt in proximos; quas enim copias his et suppeditari aequius est et relinqui eas transferunt ad alienos. Inest autem in tali liberalitate cupiditas plerumque rapiendi et auferendi per iniuriam, ut ad largiendum suppetant copiae. Videre etiam licet plerosque non tam natura liberales quam quadam gloria ductos, ut benefici videantur facere multa, quae proficisci ab ostentatione magis quam a voluntate videantur.Talis autem simulatio vanitati est coniunctior quam aut liberalitati aut honestati. | La seconda cautela da usarsi è, come s'è detto, che la generosità non superi le nostre forze. Coloro che vogliono essere più generosi di quel che le loro sostanze consentono, peccano, in primo luogo, d'ingiustizia verso i loro più stretti congiunti, trasferendo ad estranei quelle ricchezze che sarebbe più giusto donare o lasciare ad essi; in secondo luogo, peccano di cupidigia, in quanto tale generosità implica per lo più la bramosia di rapire e di sottrarre illegalmente per aver modo e agio di fare elargizioni; in terzo luogo, peccano d'ambizione: infatti, la maggior parte di costoro, non tanto per naturale generosità, quanto per prepotente vanagloria, pur di apparire benefici, fanno molte cose che sembrano scaturire più da ostentazione che da sincera benevolenza. Tale simulazione è più vicina all'impostura che alla generosità o all'onestà. |
Agamus igitur pingui, ut aiunt, Minerva. Qui ita se gerunt, ita vivunt ut eorum probetur fides, integritas, aequitas, liberalitas, nec sit in eis ulla cupiditas, libido, audacia, sintque magna constantia, ut ii fuerunt modo quos nominavi, hos viros bonos, ut habiti sunt, sic etiam appellandos putemus, quia sequantur, quantum homines possunt, naturam optimam bene vivendi ducem. Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos ut inter omnes esset societas quaedam, maior autem ut quisque proxime accederet.Itaque cives potiores quam peregrini, propinqui quam alieni; cum his enim amicitiam natura ipsa peperit; sed ea non satis habet firmitatis. Namque hoc praestat amicitia propinquitati, quod ex propinquitate benevolentia tolli potest, ex amicitia non potest; sublata enim benevolentia amicitiae nomen tollitur, propinquitatis manet. | Ragioniamo allora, come si dice, con l'aiuto della «grassa Minerva». Uomini che si comportano, che vivono dimostrando lealtà, integrità morale, senso di equità, generosità, senza nutrire passioni sfrenate, dissolutezza, temerarietà, ma possedendo invece una grande coerenza (come i personaggi ora nominati), sono reputati virtuosi. Allora diamo loro anche il nome di virtuosi, perché seguono, nei limiti delle possibilità umane, la migliore guida per vivere bene, la natura.Mi sembra chiaro, infatti, che siamo nati perché si instauri tra tutti gli uomini un vincolo sociale, tanto più stretto quanto più si è vicini. Così agli stranieri preferiamo i concittadini, agli estranei i parenti. L'amicizia tra parenti, infatti, deriva dalla natura, ma difetta di sufficiente stabilità. Ecco perché l'amicizia è superiore alla parentela: dalla parentela può venir meno l'affetto, dall'amicizia no. Senza l'affetto, l'amicizia perde il suo nome, alla parentela rimane. |
Alios autem dicere aiunt multo etiam inhumanius (quem locum breviter paulo ante perstrinxi) praesidii adiumentique causa, non benevolentiae neque caritatis, amicitias esse expetendas; itaque, ut quisque minimum firmitatis haberet minimumque virium, ita amicitias appetere maxime; ex eo fieri ut mulierculae magis amicitiarum praesidia quaerant quam viri et inopes quam opulenti et calamitosi quam ii qui putentur beati. | Inoltre si afferma che altri affermino in modo anche più disumano che si debbano ricercare le amicizie per difesa e aiuto, non per benevolenza ed amore; e quanto meno ciascuno ha sicurezza e forza tanto più cerca amicizia: da ciò avviene che le donne cerchino il sostegno delle amicizie più degli uomini, i poveri piedi ricchi, i disgraziati più di quelli che ritengono d'essere felici. |
Cicero Attico sal.Cum primum Romam veni fuitque cui recte ad te litteras darem, nihil prius faciendum mihi putavi quam ut tibi absenti de reditu nostro gratularer. Cognoram enim, ut vere scribam, te in consiliis mihi dandis nec fortiorem nec prudentiorem quam me ipsum nec etiam pro praeterita mea in te observantia nimium in custodia salutis meae diligentem eundemque te, qui primis temporibus erroris nostri aut potius furoris particeps et falsi timoris socius fuisses, acerbissime discidium nostrum tulisse plurimumque operae, studi, diligentiae, laboris ad conficiendum reditum meum contulisse.Itaque hoc tibi vere adfirmo, in maxima laetitia et exoptatissima gratulatione unum ad cumulandum gaudium conspectum aut potius complexum mihi tuum defuisse. Quem semel nactus si umquam dimisero ac nisi etiam praetermissos fructus tuae suavitatis praeteriti temporis omnis exegero, profecto hac restitutione fortunae me ipse non satis dignum iudicabo. Nos adhuc, in nostro statu quod difficillime reciperari posse arbitrati sumus, splendorem nostrum illum forensem et in senatu auctoritatem et apud viros bonos gratiam magis quam optaramus consecuti sumus; in re autem familiari, quae quem ad modum fracta, dissipata, direpta sit non ignoras, valde laboramus tuarumque non tam facultatum quas ego nostras esse iudico quam consiliorum ad conligendas et constituendas reliquias nostras indigemus. Nunc etsi omnia aut scripta esse a tuis arbitror aut etiam nuntiis ac rumore perlata, tamen ea scribam brevi quae te puto potissimum ex meis litteris velle cognoscere. Pr. Nonas Sextilis Dyrrachio sum profectus ipso illo die quo lex est lata de nobis. Brundisium veni Nonis Sextilibus. Ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae et tuae vicinae salutis; quae res animadversa a multitudine summa Brundinisorum gratulatione celebrata est. Ante diem iii Idus Sextilis cognovi, quom Brundisi essem, litteris Quinti mirifico studio omnium aetatum atque ordinum, incredibili concursu Italiae legem comitiis centuriatis esse perlatam. Inde a Brundisinis honestissime ornatus iter ita feci ut undique ad me cum gratulatione legati convenerint. Ad urbem ita veni ut nemo ullius ordinis homo nomenclatori notus fuerit qui mihi obviam non venerit, praeter eos inimicos quibus id ipsum, se inimicos esse, non liceret aut dissimulare aut negare. Cum venissem ad portam Capenam, gradus templorum ab infima plebe completi erant. A qua plausu maximo cum esset mihi gratulatio significata, similis et frequentia et plausus me usque ad Capitolium celebravit in foroque et in ipso Capitolio miranda multitudo fuit. Postridie in senatu qui fuit dies Nonarum Septembr. senatui gratias egimus. [...] Ita sunt res nostrae, Ut in secundis fluxae, ut in advorsis bonae. In re familiari valde sumus, ut scis, perturbati. Praeterea sunt quaedam domestica quae litteris non committo. Quin tum fratrem insigni pietate, virtute, fide praeditum sic amo ut debeo. Te exspecto et oro ut matures venire eoque animo venias ut me tuo consilio egere non sinas. Alterius vitae quoddam initium ordimur. Iam quidam qui nos absentis defenderunt incipiunt praesentibus occulte irasci, aperte invidere. Vehementer te requirimus. | Cicerone saluta Attico.Non appena sono giunto a Roma e ci fu qualcuno a cui dare con sicurezza le lettere per te, ho pensato di non dover far nulla prima di rallegrarmi con te che eri assente dal nostro ritorno. Infatti avevo capito che tu nel darmi i consigli non sei stato né più forte né più saggio di me stesso e neanche troppo diligente nella custodia della mia salvezza per il mio rispetto per te; e che tu stesso, che nei primi tempi del nostro errore o piuttosto della nostra follia fosti confidente e compagno di un falso timore, hai sofferto con molto dolore la nostra lontananza e hai impiegato il più possibile di azione, impegno, scrupolosità, fatica per rendere possibile il mio ritorno. Pertanto ti assicuro seriamente (questo) che nella massima gioia e nell'assai desiderata felicitazione mi è mancata una sola cosa per portare al colmo la gioia, la tua presenza o piuttosto il tuo abbraccio. E una volta che avrò questo non ti lascerò più e se non raccoglierò anche tutti i frutti trascurati della tua amabilità del tempo passato, sicuramente non mi riterrò proprio degno abbastanza di questa recuperata fortuna. Io finora, ho ottenuto ciò che credevo molto difficile si potesse riacquistare nella mia situazione, la mia gloria forense d'un tempo e nel senato autorità e presso uomini onesti un prestigio maggiore di quanto desidero. Per quanto poi concerne il patrimonio, che sai bene in che modo sia stato diminuito, sperperato, saccheggiato, sono molto angustiato, e ho bisogno non tanto dei tuoi averi, che considero i miei, quanto dei tuoi consigli per raccogliere e riordinare quanto mi resta. Ora anche se penso che tutto sia stato o scritto dai tuoi o anche riferito da corrieri e voci, tuttavia scriverò in breve quello che ritengo che tu voglia sapere principalmente dalle mie lettere. Il 4 agosto sono partito da Durazzo, proprio nel giorno in cui è stata approvata la legge che mi riguarda. Sono giunto a Brindisi il 5 agosto. Ivi era presente la mia piccola Tullia proprio il giorno del suo compleanno, giorno che per caso era anche l'anniversario della fondazione della colonia di Brindisi e del tempio della Saluta tua vicina; e questa circostanza notata da una moltitudine fu festeggiata con grandi manifestazioni di gioia dei Brindisini. Il 13 agosto ho saputo, mentre ero a Brindisi, dalla lettera di mio fratello Quinto che la legge era stata approvata nei comizi centuriati con straordinario entusiasmo (di elettori) di ogni età e classe sociale, e con un'enorme affluenza (di cittadini) dell'Italia. Di lì equipaggiato onorevolmente dai Brindisini mi sono messo in viaggio sicché da ogni parte venivano a me deputazioni di cittadini per congratularsi. Sono giunto a Roma cosicché non ci fu nessuno di alcuna classe sociale noto al nomenclatore che non mi sia venuto incontro, tranne quegli avversari ai quali non era possibile dissimulare o negare proprio questo, cioè di essere miei nemici. Quando sono giunto alla porta Capena, i gradini dei Templi erano stati riempiti dalla plebe più umile. E mentre quella con applausi scroscianti mi ha espresso le proprie congratulazioni, una simile folla e un simile applauso mi hanno festeggiato fino al Campidoglio e nel foro e nel Campidoglio stesso ci si è dovuti meravigliare della moltitudine. In senato il giorno dopo, che era il 5 settembre, ho ringraziato i senatori. [...] Così stanno le cose, "incerte in riferimento ai tempi felici, buone in rapporto ai tempi tristi". Quanto ai beni familiari, come sai, sono molto preoccupato. Inoltre ci sono alcune contrarietà in famiglia che non affido alle lettere. Voglio bene così come devo a mio fratello Quinto dotato di insigne devozione, coraggio e fedeltà. Ti aspetto e ti prego di affrettare il tuo arrivo e di venire con tale disposizione d'animo da non lasciare che io avverta la mancanza del tuo consiglio. Do inizio, per così dire, a un'altra vita. Già alcuni che mi hanno difeso quanto ero assente cominciano ad irritarsi segretamente con me che sono presente, ad invidiarmi palesemente. Sento fortemente la tua mancanza. |
Formam quidem ipsam, Marce fili, et tamquam faciem honesti vides, "quae si oculis cerneretur, mirabiles amores ut ait Plato, excitaret sapientiae". Sed omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua. Aut enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore aut in omnium, quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo, in quo inest modestia et temperantia.Quae quattuor quamquam inter se colligata atque implicata sunt, tamen ex singulis certa officiorum genera nascuntur, velut ex ea parte, quae prima discripta est, in qua sapientiam et prudentiam ponimus, inest indagatio atque inventio veri, eiusque virtutis hoc munus est proprium. | Eccoti, o Marco, figliuol mio, la forma ideale e, direi quasi, la sembianza pura dell'onesto, "quella che, se la si scorgesse coi nostri occhi, accenderebbe in noi", come dice Platone, "un meraviglioso amore per la sapienza". Ma ogni atto onesto scaturisce da una di queste quattro fonti: o consiste nell'accurata e attenta indagine del vero; o nella conservazione della società umana, dando a ciascuno il suo e rispettando lealmente i patti; o nella grandezza e saldezza d'uno spirito sublime e invitto; o, infine, nell'ordine e nella misura di tutti i nostri atti e di tutti i nostri detti; e in ciò consiste appunto la moderazione e la temperanza. E benché queste quattro virtù siano in stretta connessione tra loro, tuttavia da ciascuna di esse nasce un particolare tipo di dovere, come, per esempio, quella virtù che ho distinta per prima e in cui poniamo la sapienza e la saggezza, la quale comporta, come suo proprio e speciale compito, la ricerca e la scoperta della verità. |
CICERO BASILO SALTibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo. | CICERONE A BASILOMi rallegro con te e mi compiaccio con me stesso. Ho affetto per te e prendo a cuore le tue cose. Ricambia questo mioaffetto e tienimi informato su quel che si fa. |
Atque haec, ut ego arbitror, veteres rerum magis eventis moniti quam ratione docti probaverunt. Philosophorum vero exquisita quaedam argumenta, cur esset vera divinatio, conlecta sunt; e quibus, ut de antiquissumis loquar, Colophonius Xenophanes unus, qui deos esse diceret, divinationem funditus sustulit; reliqui vero omnes, praeter Epicurum balbutientem de natura deorum, divinationem probaverunt, sed non uno modo. Nam cum Socrates omnesque Socratici Zenoque et ii qui ab eo essent profecti manerent in antiquorum philosophorum sententia vetere Academia et Peripateticis consentientibus, cumque huic rei magnam auctoritatem Pythagoras iam ante tribuisset, qui etiam ipse augur vellet esse, plurumisque locis gravis auctor Democritus praesensionem rerum futurarum comprobaret, Dicaearchus Peripateticus cetera divinationis genera sustulit, somniorum et furoris reliquit, Cratippusque, familiaris noster, quem ego parem summis Peripateticis iudico, isdem rebus fidem tribuit, reliqua divinationis genera reiecit.Sed cum Stoici omnia fere illa defenderent, quod et Zeno in suis commentariis quasi semina quaedam sparsisset et ea Cleanthes paulo uberiora fecisset, accessit acerrumo vir ingenio, Chrysippus, qui totam de divinatione duobus libris explicavit sententiam uno praeterea de oraclis, uno de somniis; quem subsequens unum librum Babylonius Diogenes edidit, eius auditor, duo Antipater, quinque noster Posidonius. Sed a Stoicis vel princeps eius disciplinae, Posidoni doctor, discipulus Antipatri, degeneravit Panaetius, nec tamen ausus est negare vim esse divinandi, sed dubitare se dixit. Quod illi in aliqua re invitissumis Stoicis Stoico facere licuit, nos ut in reliquis rebus faciamus a Stoicis non concedetur? praesertim cum id, de quo Panaetio non liquet, reliquis eiusdem disciplinae solis luce videatur clarius. Sed haec quidem laus Academiae praestantissumi philosophi iudicio et testimonio comprobata est. | Gli antichi, a mio parere, credettero alla verità della divinazione più perché impressionati dall'avverarsi delle profezie che per argomentazioni razionali. Ma quanto ai filosofi, sono stati raccolti i loro sottili ragionamenti per dimostrare che la divinazione corrisponde al vero. Tra essi (mi rifaccio dai più antichi), Senofane di Colofone fu il solo che, pur credendo all'esistenza degli dèi, negò ogni fede nella divinazione. Tutti gli altri, eccettuato Epicuro che sulla natura degli dèi disse cose assurde, approvarono la divinazione, ma non nella stessa misura. Socrate e tutti i socratici, Zenone stoico e i suoi seguaci, si attennero alla dottrina dei filosofi più antichi, e dello stesso parere furono l'Accademia antica e i peripatetici; già prima di essi, Pitagora aveva attribuito alla divinazione grande autorità (egli stesso, anzi, si considerava un àugure), e Democrito, filosofo di grande valore, in molti passi delle sue opere dichiarò di credere ai presentimenti del futuro. Invece il peripatetico Dicearco considerò veritieri soltanto i sogni e le profezie gridate in accessi di follìa, negò fede a ogni altro genere di divinazione e il mio intimo amico Cratippo, che io considero pari ai peripatetici più grandi, egualmente credette a quei due tipi di profezie, ripudiò tutti gli altri. Ma avendo gli stoici difeso in generale ogni divinazione (poiché Zenone nelle sue opere aveva, per così dire, sparso qua e là i semi di questa dottrina e Cleante li aveva sviluppati alquanto), ecco sopraggiungere un uomo d'ingegno acutissimo, Crisippo, il quale espose tutta la dottrina della divinazione in due libri, e poi in un altro libro trattò degli oracoli, in un altro ancora dei sogni; dopo di lui scrisse un libro sulla divinazione Diogene di Babilonia suo discepolo, due Antipatro, cinque il mio Posidonio. Ma dagli stoici si discostò il maggior pensatore di quella scuola, Panezio, maestro di Posidonio, scolaro di Antipatro; tuttavia egli non si spinse fino a negare la validità della divinazione, ma dichiarò di dubitarne. Ciò che fu lecito di fare fino a un certo punto a lui, stoico, contro l'aspro dissenso degli altri stoici, gli stoici non concederanno di farlo a noi fino in fondo? Tanto più che ciò di cui Panezio dubita, è considerato più chiaro della luce del sole dagli altri della stessa scuola. Ma questo titolo di merito dell'Accademia ha la conferma del giudizio e della testimonianza di un filosofo di gran valore. |
Nec vero M. Caelium praetereundum arbitror, quaecumque eius in exitu vel fortuna vel mens fuit; qui quamdiu auctoritati meae paruit, talis tribunus plebis fuit, ut nemo contra civium perditorum popularem turbulentamque dementiam a senatu et a bonorum causa steterit constantius. quam eius actionem multum tamen et splendida et grandis et eadem in primis faceta et perurbana commendabat oratio. graves eius contiones aliquot fuerunt, acres accusationes tres eaeque omnes ex rei publicae contentione susceptae; defensiones, etsi illa erant in eo meliora quae dixi, non contemnendae tamen saneque tolerabiles.hic cum summa voluntate bonorum aedilis curulis factus esset, nescio quomodo discessu meo discessit a sese ceciditque, posteaquam eos imitari coepit quos ipse perverterat. | E non credo di dover tralasciare Marco Celio, quale che ne sia stata, alla fine della vita, la sorte o l'inclinazione; egli, finché obbedì alla mia autorità, fu un tale tribuno della plebe, che nessuno si schierò con maggior fermezza a sostegno del senato e della causa della gente perbene, contro la demagogica e turbolenta follia di cittadini sciagurati. Ed era tuttavia fortemente sostenuta da un'eloquenza splendida e grandiosa, nonché particolarmente spiritosa e fine davvero. Di lui ci furono alcuni importanti discorsi di fronte all'assemblea popolare e tre accuse focose, tutte intraprese per fervido zelo verso lo stato; i discorsi di difesa, anche se era migliore in quel che ho appena detto, tuttavia erano non spregevoli, e del tutto accettabili. Eletto edile curule col più grande favore di tutta la gente perbene, con la mia partenza se ne dipartì, non so come, da se stesso, e cadde, dopo che ebbe incominciato a imitare quelli che proprio lui aveva abbattuto. |
Stomachari Canius, sed quid faceret? Nondum enim C. Aquilius, collega et familiaris meus, protulerat de dolo malo formulas; in quibus ipsis, cum ex eo quaereretur, quid esset dolus malus, respondebat, cum esset aliud simulatum, aliud actum. Hoc quidem sane luculente, ut ab homine perito definiendi. Ergo et Pythius et omnes aliud agentes, aliud simulantes perfidi, improbi, malitiosi. Nullum igitur eorum factum potest utile esse, cum sit tot vitiis inquinatum. | Canio montò in bestia, ma che avrebbe potuto fare? A quel tempo Gaio Aquilio, mio amico e collega, non aveva ancora proposto le norme relative alla frode, in cui, essendogli chiesto che cosa fosse la frode, rispondeva che essa si verifica quando si finge una cosa e se ne fa un'altra. Una definizione magnifica, com'è naturale in un uomo esperto in definizioni. Così sia Pizio che tutti coloro, i quali fanno una cosa e ne simulano un'altra, sono perfidi, malvagi, maligni. Nessuna loro azione può risultare utile dal momento che è viziata da tanti difetti. |
L. Iulio Caesare, C. Marcio Figulo consulibus filiolo me auctum scito salva Terentia. Abs te tam diu nihil litterarum! Ego de meis ad te rationibus scripsi antea diligenter. hoc tempore Catilinam, competitorem nostrum, defendere cogitamus. Iudices habemus, quos volumus, summa accusatoris voluntate. Spero, si absolutus erit, coniunctiorem illum nobis fore in ratione petitionis; sin aliter acciderit, humaniter feremus. Tuo adventu nobis opus est maturo; nam prorus summa hominum est opinio tuos familiares nobiles homines adversarios honori nostro fore.Ad eorum voluntatem mihi conciliandam maximo te mihi usui fore video. Quare Ianuario mense, ut constituisti, cura ut Romae sis. | Ti comunico che sotto il consolato di Lucio Giulio Cesare e Gaio Marcio Figulo mi è nato un figlio e tutto è andato bene per Terenzia. E' un pezzo che non ricevo una lettera da parte tua! io, invece, in una mia precedente ti ho messo a parte dei miei progetti elettorali, con precisione di dettagli. In questi frangenti vado rimuginando l'idea di difendere in giudizio Catilina, che poter essere mio competitore alle elezioni. Quanto ai giudici del processo, ti dico che abbiamo quelli che abbiamo voluto noi e l'accusatore ha fatto l'impossibile per favorire questo disegno. Conto sul fatto che, se riuscir assolto, porterà parecchia acqua al mio mulino durante la campagna elettorale; se, invece, non sarà così, accettar la cosa senza fare drammi. Mi preme che tu arrivi prontamente, perchè qui sono davvero in molti a pensare che quei tali nobili, con i quali tu hai dimestichezza, si opporranno alla mia elezione. Prevedo che la tua presenza mi gioverà moltissimo per conciliarmi la loro simpatia. Quindi fa' di tutto per essere a Roma all'inizio di gennaio, come hai stabilito. |
Etiam M. Pontidius municeps noster multas privatas causas actitavit, celeriter sane verba volvens nec hebes in causis vel dicam plus etiam quam non hebes, sed effervescens in dicendo stomacho saepe iracundiaque vehementius; ut non cum adversario solum sed etiam, quod mirabile esset, cum iudice ipso, cuius delinitor esse debet orator, iurgio saepe contenderet. M. Messalla minor natu quam nos, nullo modo inops, sed non nimis ornatus genere verborum; prudens acutus, minime incautus patronus, in causis co gnoscendis componendisque diligens, magni laboris, multae operae multarumque causarum. | Anche il mio compaesano Marco Pontidio trattò molte cause private; le parole gli fluivano rapide, e nelle cause non era stupido, dirò anzi che era anche meglio che non stupido; ma quando parlava, aveva spesso dei bollori troppo violenti, a causa del temperamento stizzoso e iracondo; tanto che spesso litigava non solo con l'avversario, ma, cosa strabiliante, con lo stesso giudice nei cui confronti l'oratore deve usare i toni più lusinghieri. Marco Messalla più giovane di me, aveva un'elocuzione niente affatto povera, ma con un vocabolario non eccessivamente elegante; come avvocato era perspicace, acuto, per niente malaccorto, meticoloso nello studiare le cause e nel progettare la difesa; un lavoratore infaticabile, molto attivo, e pieno di cause. |
Reliquis autem tribus virtutibus necessitates propositae sunt ad eas res parandas tuendasque, quibus actio vitae continetur, ut et societas hominum coniunctioque servetur et animi excellentia magnitudoque cum in augendis opibus utilitatibusque et sibi et suis comparandis, tum multo magis in his ipsis despiciendis eluceat. Ordo autem et constantia et moderatio et ea, quae sunt his similia, versantur in eo genere ad quod est adhibenda actio quaedam, non solum mentis agitatio.Is enim rebus, quae tractantur in vita, modum quendam et ordinem adhibentes, honestatem et decus conservabimus. | Le altre tre virtù hanno il compito di procurare e salvaguardare quelle cose da cui dipende la vita pratica, perché da un lato il legame sociale tra gli uomini si mantenga saldo, dall'altro l'eccellenza e la grandezza dell'animo risplenda in tutta la sua luce, non solo nell'accrescere potenza e vantaggi a sé e ai propri cari, ma anche, e molto più, nel disprezzar tali cose. Allo stesso modo, l'ordine, la coerenza, la moderazione e le altre simili virtù sono di natura tale che esigono non solo un'attività intellettuale, ma anche un'attività pratica. Se dunque alle operazioni della vita comune conferiamo una certa misura e un certo ordine, ecco, noi preserviamo ad un tempo l'onestà e la dignità. |
Atqui si natura confirmatura ius non erit, virtutes omnes tollantur. Ubi enim liberalitas, ubi patriae caritas, ubi pietas, ubi aut bene merendi de altero aut referendae gratiae voluntas poterit existere? Nam haec nascuntur ex eo quod natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum iuris est. Neque solum in homines obsequia, sed etiam in deos caerimoniae religionesque toll<e>ntur, quas non metu, sed ea coniunctione quae est homini cum deo conservandas puto.Quodsi populorum iussis, si principum decretis, si sententiis iudicum iura constituerentur, ius esset latrocinari, ius adulterare, ius testamenta falsa supponere, si haec suffragiis aut scitis multitudinis probarentur. | E se la natura non fosse pronta a dar forza al diritto, tutti i valori sarebbero annullati. Dove infatti potrebbe ancora esistere la generosità, l'amor di patria, la pietà, dove il desiderio di rendersi benemerito verso qualcuno o di dimostrare gratitudine? E' chiaro che questi sentimenti nascono dal fatto che siamo naturalmente inclini ad amare gli uomini, e questo costituisce il fondamento del diritto. E non soltanto si eliminerebbe il rispetto verso gli uomini, ma anche il culto ed i riti verso gli dèi, che penso debbano essere conservati non già per timore, ma per quel legame che unisce l'uomo alla divinità.Se infatti il diritto fosse costituito sulla base dei decreti del popolo, degli editti dei principi, delle sentenze dei giudici, sarebbe un diritto il rubare, commettere adulterio, falsificare testamenti, ove tali azioni venissero approvate dal voto o dal decreto della massa. |
Marcus:Faciam breviter si consequi potuero. Nam pluribus verbis scripsit ad patrem tuum M. Iunius sodalis, perite meo quidem iudicio et diligenter. Nos autem de iure nat<ur>ae cogitare per nos atque dicere debemus, de iure populi Romani quae relicta sunt et tradita.Atticus:Sic prorsum censeo, et id ipsum quod dicis exspecto. | Marco:Lo farò rapidamente, se mi sarà possibile; infatti l'amico M. Giunio ne scrisse diffusamente a tuo padre, con perizia, a mio avviso, e con diligenza. Ma noi dobbiamo ragionare e parlare del diritto naturale secondo il nostro criterio, mentre del diritto del popolo romano dovremmo esporre ciò che è rimasto valido e che ci è stato tramandato.Attico:Credo anch'io così, e mi aspetto appunto ciò che dici. |
Agit hominibus gratias et eorum benivolentiam erga se diligentiamque conlaudat. Ipse inflammatus scelere et furore in forum venit; ardebant oculi, toto ex ore crudelitas eminebat. Exspectabant omnes quo tandem progressurus aut quidnam acturus esset, cum repente hominem proripi atque in foro medio nudari ac deligari et virgas expediri iubet. Clamabat ille miser se civem esse Romanum, municipem Consanum; meruisse cum L. Raecio, splendidissimo equite Romano, qui Panhormi negotiaretur, ex quo haec Verres scire posset.Tum iste, se comperisse eum speculandi causa in Siciliam a ducibus fugitivorum esse missum; cuius rei neque index neque vestigium aliquod neque suspicio cuiquam esset ulla; deinde iubet undique hominem vehementissime verberari. | Egli ringrazia profondendosi in elogi per il benevolo interessamento nei suoi riguardi e, inferocito dal suo delittuoso e rabbioso sadismo, si reca nel foro. Aveva gli occhi fiammeggianti e da tutto il volto traspariva la crudeltà. Tutti erano in attesa di vedere a che eccesso si sarebbe spinto o cosa mai avrebbe fatto; ed ecco che all'improvviso ordina di trascinare Gavio fuori di prigione, denudarlo in mezzo alla piazza, legarlo e preparare le verghe. Il disgraziato gridava di essere cittadino romano, del municipio di Gonza, di aver prestato servizio militare con un illustre cavaliere romano, L. Recio, commerciante di Palermo, dal quale Verre poteva averne la conferma. Costui allora ribatte che era venuto a conoscenza che egli era stato inviato in Sicilia come spia dei capi degli schiavi ribelli: e ciò nonostante che non esistesse indizio ne traccia ne sospetto alcuno; ordina poi ai suoi littori di circondarlo e di fustigarlo con la massima violenza |
Saepe enim tempore fit, ut quod turpe plerumque haberi soleat, inveniatur non esse turpe. Exempli causa ponatur aliquid, quod pateat latius. Quod potest maius scelus quam non modo hominem, sed etiam familiarem hominem occidere? Num igitur se adstrinxit scelere, si qui tyrannum occidit quamvis familiarem? Populo quidem Romano non videtur, qui ex omnibus praeclaris factis illud pulcherrimum existimat. Vicit ergo utilitas honestatem? Immo vero honestas utilitatem secuta est.Itaque, ut sine ullo errore diiudicare possimus, si quando cum illo, quod honestum intellegimus, pugnare id videbitur, quod appellamus utile, formula quaedam constituenda est; quam si sequemur in comparatione rerum, ab officio numquam recedemus. | Spesso, infatti, accade che, mutate le circostanze, ciò che siamo soliti stimare per lo più immorale, si trova che non è tale. Per esempio, si ponga un caso che è suscettibile della più ampia applicazione. Quale delitto può essere più grande dell'uccidere non solo un uomo, ma anche un intimo amico? Forse qualcuno si rende colpevole di un delitto, se uccide un tiranno, anche se suo intimo amico? Ciò non sembra al popolo romano, che anzi considera quell'azione la più bella tra tutte le altre illustri. L'utile, dunque, ha prevalso sull'onesto? No; anzi, l'utile ha seguito l'onesto. Perciò, per poter distinguere senza ombra di errore, quando talora ci sembra che quanto chiamiamo utile contrasti con quanto riteniamo onesto, occorre stabilire una norma tale da non allontanarci mai dall'onesto se noi l'applicheremo nel mettere a confronto le azioni. |
Quod autem plures a nobis nominati sunt, eo pertinuit, ut paulo ante dixi, quod intellegi volui, in eo, cuius omnes cupidissimi essent, quam pauci digni nomine evaderent. quare eirona me, ne si Africanus quidem fuit, ut ait in historia sua C. Fannius, existumari velim. Ut voles, inquit Atticus. ego enim non alienum a te putabam quod et in Africano fuisset et in Socrate. | Quanto poi al fatto di averne nominati così tanti, mirava a questo, come ho detto poc'anzi, che volevo si comprendesse quanti pochi, in quello che per tutti è oggetto di vivacissima ambizione, siano riusciti davvero degni di menzione. Pertanto, neanche se tale fu l'Africano -come dice Gaio Fannio nella sua storia -, io vorrei esser ritenuto éiron ". "Come vuoi" disse Attico. "Ma io non ti credevo alieno da un'attitudine che era stata sia di Socrate sia dell'Africano." |
Quod si penitus perspicere posses concordiam Ligariorum, omnis fratres tecum iudicares fuisse. An potest quisquam dubitare quin, si Q. Ligarius in Italia esse potuisset, in eadem sententia futurus fuerit in qua fratres fuerunt? Quis est qui horum consensum conspirantem et paene conflatum in hac prope aequalitate fraterna noverit, qui hoc non sentiat quidvis prius futurum fuisse quam ut hi fratres diversas sententias fortunasque sequerentur? Voluntate igitur omnes tecum fuerunt, tempestate abreptus est unus, qui si consilio id fecisset, esset eorum similis quos tu tamen salvos esse voluisti. | Se tu potessi vedere sino in fondo lo spirito di concordia che unisce i Ligari, giudicheresti che tutti i fratelli sono stati dalla tua parte. Chi potrebbe dubitare che, se Quinto Ligario avesse avuto la possibilità di rimanere in Italia, sarebbe stato della stessa opinione, di cui furono i suoi fratelli? Chi c'è che, conoscendo l'intesa di costoro, concorde e quasi fusa in questa specie d'uguaglianza di spiriti fraterni, non senta che qualunque evento sarebbe stato possibile prima che questi fratelli seguissero idee e destini diversi? Per disposizione d'animo, dunque, furono tutti dalla tua parte: uno fu travolto da eventi tempestosi, ma, anche se egli avesse agito così per deliberato proposito, sarebbe sullo stesso piano di quelli che tu, ciò nonostante hai voluto fossero salvi. |
Tum Brutus: atque dubitamus, inquit, utrum ista sanitas fuerit an vitium? quis enim non fateatur, cum ex omnibus oratoris laudibus longe ista sit maxuma, inflammare animos audientium et quocumque res postulet modo flectere, qui hac virtute caruerit, id ei quod maxumum fuerit defuisse? Sit sane ita, inquam; sed redeamus ad eum, qui iam unus restat, Hortensium; tum de nobismet ipsis, quoniam id etiam, Brute, postulas, pauca dicemus. quamquam facienda mentio est, ut quidem mihi videtur, duorum adulescentium, qui si diutius vixissent, magnam essent eloquentiae laudem consecuti. | Allora Bruto: "E si può restare in dubbio" disse "se si trattasse di sanità di gusto o di un difetto? Dal momento che, tra tutti i pregi dell'oratore, di gran lunga il più grande è quello che dicevi, di saper infiammare gli animi degli ascoltatori e di piegarli in qualunque modo la causa richieda, chi non ammetterebbe che, a uno al quale manca questa qualità, fa difetto la cosa più importante?". "Sia pure così;" dissi "ma torniamo al solo che ci rimane, Ortensio;"' poi, siccome tu, Bruto, mi richiedi anche questo, dirò poche parole di me stesso. Per quanto si debba far menzione - così almeno mi sembra - di due giovani, che se fossero vissuti più a lungo, avrebbero conseguito grande gloria nell'eloquenza." |
Videsne, me non ea dicere, quae Carneades, sed ea, quae princeps Stoicorum Panaetius dixerit? Ego autem etiam haec requiro, omnesne, qui Cannensi pugna ceciderint, uno astro fuerint; exitus quidem omnium unus et idem fit. Quid? Qui ingenio atque animo singulares, num astro quoque uno? Quod enim tempus quo non innumerabiles nascuntur? At certe similis nemo Homeri. Et, si ad rem pertinet quo modo caelo adfecto compositisque sideribus quodque animal oriatur, valeat id necesse est non in hominibus solum, verum in bestiis etiam; quo quid potest dici absurdius? L.Quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster, in primis Chaldaeicis rationibus eruditus, urbis etiam nostrae natalem diem repetebat ab iis Pardibus, quibus eam a Romulo conditam accepimus, Romamque, in iugo cum esset Luna, natam esse dicebat, nec eius fata canere dubitabat. 0 vim maxumam erroris! Etiamne urbis natalis dies ad vim stellarum et lunae pertinebat? Fac in puero referre ex qua adfectione caeli primum spiritum duxerit; num hoc in latere aut in caemento, ex quibus urbs effecta est, potuit valere? Sed quid plura? Cotidie refelluntur. Quam multa ego Pompeio, quam multa Crasso, quam multa huic ipsi Caesari a Chaldaeis dicta memini, neminem eorum nisi senectute, nisi domi, nisi cum claritate esse moriturum! Ut mihi permirum videatur quemquam exstare qui etiam nunc credat iis quorum praedicta cotidie videat re et eventis refelli. | Come vedi, non riferisco le argomentazioni di Carneade, ma quelle di Panezio, il più eminente degli stoici. Io, poi, domando anche se tutti quelli che caddero nella battaglia di Canne erano nati sotto la stessa costellazione: poiché certo ebbero tutti una morte uguale. E quelli che hanno in dote un ingegno e una virtù eccezionali, nascono anche loro sotto la stessa costellazione? Quale istante c'è, in cui non nascono innumerevoli bambini? Eppure nessuno di loro è stato all'altezza di Omero. E se ha importanza sapere sotto quale composizione del cielo e congiunzione delle stelle ciascun essere vivente nasca, bisogna che ciò valga non solo a proposito degli uomini, ma anche delle bestie. Si potrebbe dire una cosa più assurda di questa? Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico, perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle quali si dice che essa fu fondata da Romolo, e diceva che Roma era nata mentre la luna si trovava nella costellazione della Libra, e non esitava a cantarne i destini. Oh straordinaria potenza dell'errore! Anche il giorno natalizio d'una città dipendeva dall'influsso delle stelle e della luna? Ammetti pure che, riguardo a un bambino, abbia qualche importanza lo stato del cielo nel quale egli abbia tratto il primo respiro; ma la stessa cosa avrebbe potuto valere anche per i mattoni o per le pietre con cui Roma fu costruita? Ma a che scopo dilungarsi? Ogni giorno simili profezie risultano smentite. Quante cose mi ricordo che furono predette dai caldei a Pompeo, quante a Crasso, quante a Cesare stesso, poc'anzi ucciso! Nessuno di loro sarebbe morto se non da vecchio, se non nel suo letto, se non nel pieno splendore della sua gloria. Cosicché mi sembra estremamente strano che vi sia qualcuno che ancora creda a costoro, le cui predizioni egli stesso, ogni giorno, vede che sono confutate dalla realtà e dagli avvenimenti. |
Tullius Terentiae suae sal.In maximis meis doloribus excruciat me valetudo Tulliae nostrae, de qua nihil est quod ad te plura scribam; tibi enim aeque magnae curae esse certo scio. Quod me proprius vultis accedere, video ita esse faciendum: etiam ante fecissem, sed me multa impediverunt, quae ne nunc quidem expedita sunt. Sed a Pomponio exspecto litteras, quas ad me quam primum perferendas cures velim. Da operam, ut valeas. | Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia.Fra i miei acerbissimi dolori mi tormenta la malattia della nostra Tullia, sulla quale non c'è ragione per cui ti scriverò di più; so con certezza infatti che ti sta tanto a cuore quanto a me. Riguardo al fatto che desiderate avvicinarvi a me, vedo che bisogna fare così e l'avrei fatto anche prima, ma molte cose, che nemmeno ora sono fuori dai piedi, mi hanno ostacolato. Ma aspetto una lettera da Pomponio, che vorrei che mi facesse recapitare quanto prima. Fai in modo di star bene. |
19. Haec ego admirans, referebam tamen oculos ad terram identidem. Tum Africanus: «Sentio» inquit «te sedem etiam nunc hominum ac domum contemplari; quae si tibi parva, ut est, ita videtur, haec celestia semper spectato, illa humana contemnito. Tu enim quam celebritatem sermonis hominum aut quam expetendam consequi gloriam potes? Vides habitari in terra raris et angustis in locis, et in ipsis quasi in maculis, ubi habitatur, vastas solitudines interiectas, eosque qui incolunt terram non modo interruptus ita esse ut nihil inter ipsos ab aliis ad alios manare possit, sed partim obliquos, partim transversos, partim etiam adversos stare vobis: a quibus exspectare gloriam certe nullam potestis». | 19. Benché io guardassi ammirato tutto ciò, tuttavia continuamente riportavo gli occhi a terra. Allora l’Africano disse: “Mi accorgo che continui a guardare la casa degli uomini; ma se essa ti appare così piccola, come in effetti è, tieni lo sguardo sempre fisso a queste realtà celesti e disprezza quelle umane. Infatti quale celebrità potresti conseguire nei discorsi degli uomini o quale gloria desiderabile? Tu vedi che sulla Terra si abita in luoghi sperduti e angusti e che in quelle stesse specie di macchie in cui si abita, sono inseriti vasti tratti di deserto, e che coloro che abitano la Terra non solo sono così separati che tra di loro nulla può passare dagli uni agli altri, ma anche in parte stanno in posizioni opposte rispetto agli emisferi, in parte in posizioni opposte rispetto all’equatore, in parte agli antipodi rispetto a voi: e da essi certamente non potete attendervi nessuna fama”. |
Haec igitur lex in amicitia sanciatur, ut neque rogemus res turpes nec faciamus rogati. Turpis enim excusatio est et minime accipienda cum in ceteris peccatis, tum si quis contra rem publicam se amici causa fecisse fateatur. Etenim eo loco, Fanni et Scaevola, locati sumus ut nos longe prospicere oporteat futuros casus rei publicae. Deflexit iam aliquantum de spatio curriculoque consuetudo maiorum. | Allora sia stabilita nell'amicizia questa legge, che né chiediamo cose turpi, né facciamole se richiesti. È una scusa turpe, infatti, e per nulla accettabile, come nelle altre colpe, così se uno dichiari di aver agito contro lo stato a causa di un amico. E infatti in tal punto, Fannio e Scevola, ci troviamo, cosicché bisogna prevedere da lontano le future faccende dello stato. Il costume degli antenati ha ormai deviato alquanto dalla sua strada e dal suo corso. |
In his gregibus omnes aleatores, omnes adulteri, omnes inpuri inpudicique versantur. Hi pueri tam lepidi ac delicati non solum amare et amari neque saltare et cantare, sed etiam sicas vibrare et spargere venena didicerunt. Qui nisi exeunt, nisi pereunt, etiamsi Catilina perierit, scitote hoc in re publica seminarium Catilinarum futurum. Verum tamen quid sibi isti miseri volunt? num suas secum mulierculas sunt in castra ducturi? Quem ad modum autem illis carere poterunt, his praesertim iam noctibus? Quo autem pacto illi Appenninum atque illas pruinas ac nives perferent? nisi idcirco se facilius hiemem toleraturos putant, quod nudi in conviviis saltare didicerunt. | In questa masnada annovero tutti i giocatori d'azzardo, tutti i dissoluti e gli svergognati. Questi "fanciulli" così graziosi e delicati hanno imparato non solo ad amare e a essere amati, a danzare e cantare, ma anche a brandire pugnali e somministrare veleni. Se non se ne vanno, se non muoiono, sappiate che, anche nel caso in cui Catilina dovesse morire, rimarranno loro, i Catilina in erba! Ma, in fondo, che cosa vogliono questi pusillanimi? Portarsi dietro nell'accampamento le loro donnine? Come potranno rinunciarvi in notti così lunghe? E come affronteranno l'Appennino, con il suo gelo e la sua neve? A meno che non siano convinti di resistere all'inverno meglio degli altri perché sanno danzare nudi nei festini! |
Sed quae tanta dementia est, ut in maxumis motibus mutationibusque caeli nihil intersit qui ventus, qui imber, quae tempestas ubique sit? Quarum rerum in proxumis locis tantae dissimilitudines saepe sunt, ut alia Tusculi, alia Romae eveniat saepe tempestas; quod qui navigant maxume animadvertunt, cum in flectendis promunturiis ventorum mutationes maxumas saepe sentiunt. Haec igitur cum sit tum serenitas, tum perturbatio caeli, estne sanorum hominum hoc ad nascentium ortus pertinere non dicere (quod non certe pertinet), illud nescio quid tenue, quod sentiri nullo modo, intellegi autem vix potest, quae a luna ceterisque sideribus caeli temperatio fiat, dicere ad puerorum ortus pertinere? Quid? Quod non intellegunt seminum vim, quae ad gignendum procreandumque plurimum valeat, funditus tolli, mediocris erroris est? Quis enim non videt et formas et mores et plerosque status ac motus effingere a parentibus liberos? Quod non contingeret, si haec non vis et natura gignentium efficeret, sed temperatio lunae caelique moderatio.Quid? Quod uno et eodem temporis puncto nati dissimilis et naturas et vitas et casus habent, parumne declarat nihil ad agendam vitam nascendi tempus pertinere? Nisi forte putamus neminem eodem tempore ipso et conceptum et natum, quo Africanum. Num quis igitur talis fuit? | Ma che follìa è questa, di credere che, mentre si prendono in considerazione i più grandi movimenti e mutamenti del cielo, non importino nulla le differenze tra i venti, le piogge, i climi di ciascun luogo? Perfino in località vicine tra loro tante sono le disparità tra questi fenomeni, che spesso le condizioni meteorologiche a Tuscolo sono diverse da quelle di Roma. I naviganti se ne accorgono più che mai quando, nel doppiare un promontorio, avvertono spesso un grandissimo cambiamento del vento. Perciò, se il clima è così variabile, ora sereno, ora perturbato, si può considerare sano di mente chi non dice che ciò influisca sulle nascite dei bambini (e in verità non vi influisce), ma sostiene poi che eserciti un influsso sulle nascite stesse quel non so che di evanescente, che non può in alcun modo essere oggetto di sensazione, a mala pena anche di attività pensante, cioè la composizione del cielo prodotta dalla luna e dagli altri astri? E il non capire che, ragionando così, si riduce a nulla l'influsso dei semi generativi, che ha un'importanza decisiva nel concepimento e nella procreazione, è forse un errore di poco conto? Chi, infatti, non vede che i figli ritraggono dai genitori la complessione fisica, il carattere, tanti modi di atteggiarsi da fermi e di muoversi? Ciò non accadrebbe se queste caratteristiche non provenissero dall'influsso e dall'efficacia dei generanti, ma dal potere della luna e dalla composizione del cielo. E il fatto che i nati nell'identico istante hanno caratteri e vicende della vita dissimili, è forse una prova di poco conto a favore della tesi che il tempo della nascita non c'entra nulla con lo svolgimento successivo della vita? A meno che, forse, riteniamo che nessuno sia stato concepito e sia nato nello stesso momento di Scipione l'Africano. C'è stato, in effetti, qualcuno da mettergli a confronto? |
Sequitur porro, nihil deos ignorare quod omnia sint ab iis constituta. Hic vero quanta pugna est doctissumorum hominum negantium esse haec a dis immortalibus constituta! "At nostra interest scire ea quae eventura sint." Magnus Dicaearchi liber est nescire ea melius esse quam scire. Negant id esse alienum maiestate deorum: scilicet casas omnium introspicere, ut videant quid cuique conducat. "Neque non possunt futura praenoscere. " Negant posse ii, quibus non placet esse certum quid futurum sit.Videsne igitur quae dubia sint, ea sumi pro certis atque concessis? Deinde contorquent et ita concludunt: "Non igitur et sunt di nec significant futura"; id enim iam perfectum arbitrantur. Deinde adsumunt: 'Sunt autem di", quod ipsum non ab omnibus conceditur. "Significant ergo." Ne id quidem sequitur; possunt enim non significare et tamen esse di. Nec, si significent, non dare vias aliquas ad scientiam significationis. At id quoque potest, ut non dent homini, ipsi habeant; cur enim Tuscis potius quam Romanis darent? " Nec, si dant vias, nulla est divinatio. " Fac dare deos, quod absurdum est; quid refert, si accipere non possumus? Extremum : 'Est igitur divinatio." Sit extremum, effectum tamen non est; ex falsis enim, ut ab ipsis didicimus, verum effici non potest. Iacet igitur tota conclusio. | Segue quest'altro assunto: che gli dèi non ignorano niente, perché tutto è stato stabilito da loro. Ma su questo punto quanta polemica c'è da parte di uomini dottissimi, i quali non ammettono che questa realtà sia stata stabilita dagli dèi! "Ma è nel nostro interesse sapere il futuro." C'è un'ampia opera di Dicearco che sostiene che è meglio ignorare il futuro che saperlo. Ancora, gli stoici negano che sia alieno dalla maestà degli dèi.... certo, andare a spiare dentro le casupole di tutti noi mortali, per giudicare che cosa sia utile a ciascuno! "Né possono essere incapaci di prevedere il futuro." E invece ciò è contestato da quei pensatori che ritengono che il futuro non sia predeterminato con certezza. Vedi, dunque, che i punti dubbi sono dati per certi e per ammessi da tutti? Poi rovesciano l'argomentazione e ragionano così: "Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono né indicano il futuro": credono che non sia ammissibile altra possibilità. Poi soggiungono: "Ma gli dèi esistono"; e anche questo non è ammesso da tutti. "Dunque predìcono"; nemmeno questa è una conseguenza necessaria: potrebbero non darci alcuna predizione e tuttavia esistere. Aggiungono anche che, se inviano segni premonitori, non è possibile che non ci forniscano qualche mezzo per interpretarli. Ma invece anche questo è possibile, che conoscano questi mezzi, ma non li forniscano agli uomini; perché, in effetti, li avrebbero dati agli etruschi più che ai romani? "Né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non esista la divinazione." Ammetti pure che gli dèi ce li forniscano, il che è già assurdo: a che serve, se noi non possiamo comprenderli? Ed ecco il finale: "Dunque la divinazione esiste." Sia pure il finale, ma non è il raggiungimento della dimostrazione: ché da false premesse, come abbiamo appreso proprio da loro, non si può giungere alla verità. Tutta l'argomentazione, dunque, giace a terra. |
Quocirca si sapientiam meam admirari soletis (quae utinam digna esset opinione vestra nostroque cognomine!), in hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem tamquam deum sequimur eique paremus; a qua non veri simile est, cum ceterae partes aetatis bene descriptae sint, extremum actum tamquam ab inerti poeta esse neglectum. Sed tamen necesse fuit esse aliquid extremum et, tamquam in arborum bacis terraeque fructibus maturitate tempestiva quasi vietum et caducum, quod ferundum est molliter sapienti.Quid est enim aliud Gigantum modo bellare cum dis nisi naturae repugnare? | Perciò, se siete soliti stupirvi della mia saggezza - possa essere degna del vostro giudizio e del mio soprannome! - sono saggio in questo: seguo la natura, ottima guida, come se fosse un dio e le obbedisco; non è verosimile che essa abbia descritto bene tutte le altre parti della vita per poi buttare giù l'ultimo atto, come un poeta senz'arte. Ma era pur necessario che esistesse qualcosa di ultimo, qualcosa, per così dire, di vizzo e sul punto di cadere, per maturità compiuta, come accade ai frutti degli alberi e ai prodotti della terra. Il saggio deve sopportare questa realtà con condiscendenza: la lotta dei Giganti contro gli dèi che altro è se non una ribellione contro la natura? |
[Suum] quisque igitur noscat ingenium acremque se et bonorum et vitiorum suorum iudicem praebeat, ne scaenici plus quam nos videantur habere prudentiae. Illi enim non optumas, sed sibi accomodatissimas fabulas eligunt; qui voce freti sunt, Epigonos Medumque, qui gestu Melanippam, Clytemestram, semper Rupilius, quem ego memini, Antiopam, non saepe Aesopus Aiacem. ergo histrio hoc videbit in scena, non videbit sapiens vir in vita? Ad quas igitur res aptissimi erimus, in iis potissimum elaborabimus.sin aliquando necessitas nos ad ea detruserit, quae nostri ingenii non erunt, omnis adhibenda erit cura, meditatio, diligentia, ut ea, si non decore, at quam minime indecore facere possimus, nec tam est enitendum, ut bona, quae nobis data non sint, sequamur, quam ut vitia fugiamus. | Ciascuno, dunque, ben conosca la propria indole, facendosi giudice attento e oculato delle sue virtù e dei suoi difetti, perché non sembri che gli attori abbiano più discernimento di noi. Gli attori, infatti, scelgono non i drammi migliori, ma quelli più adatti alle loro forze: coloro che confidano nella voce, preferiscono gli Epigoni e il Medo, coloro che confidano nella mimica, la Melanippa e la Clitemestra; Rupilio, ben lo ricordo, recitava sempre l'Antiope, Esopo di rado l'Aiace. Un istrione, dunque, vedrà ciò che gli conviene su la scena, e il sapiente non lo vedrà nella vita? Applichiamoci dunque con cura a quelle cose alle quali siamo più specialmente adatti. Che se talora la necessità, sviandoci dal nostro cammino, ci spingerà a cose non conformi all'indole nostra, ci converrà adoperare ogni cura, ogni più meditata diligenza per poterle fare, se non proprio convenientemente, almeno con la minore sconvenienza possibile. Non tanto dobbiamo sforzarci di conseguire quelle doti che la natura ci ha negato, quanto piuttosto di fuggire quei difetti che essa ci ha dato. |
Cicero Basilo sal.Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo. | Cicerone saluta BasiloCon te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede. |
Hoc nimirum est ffiud, quod de Socrate accepimus, quodque ab ipso in libris Socraticorum saepe dicitur: esse divinum quiddam, quod daimo/nion appellat, cui semper ipse paruerit numquam impellenti, saepe revocanti. Et Socrates quidem (quo quem auctorem meliorem quaerimus?) Xenophonti consulenti sequereturne Cyrum, posteaquam exposuit quae ipsi videbantur, "Et nostrum quidem," inquit, "humanum est consilium; sed de rebus et obscuris et incertis ad Apollinem censeo referundum, ad quem etiam Athenienses publice de maioribus rebus semper rettulerunt.Scriptum est item, cum Critonis, sui familiaris, oculum adligatum vidisset, quaesivisse quid esset; cum autem ille respondisset in agro ambulanti ramulum adductum, ut remissus esset, in oculum suum recidisse, tum Socrates: 'Non enim paruisti mihi revocanti, cum uterer, qua soleo, praesagatione divina." Idem etiam Socrates, cum apud Delium male pugnatum esset Lachete praetore fugeretque cum ipso Lachete, ut ventum est in trivium, eadem, qua ceteri, fugere noluit. Quibus quaerentibus cur non eadem via pergeret, deterreri se a deo dixit; cum quidem ii, qui alia via fugerant, in hostium equitatum inciderunt. Permulta conlecta sunt ab Antipatro, quae mirabiliter a Socrate divinata sunt; quac praetermittam; tibi enim nota sunt, mihi ad commemorandum non necessaria. Illud tamen eius philosophi magnificum ac paene divinum, quod, cum impiis sententiis damnatus esset, aequissimo animo se dixit mori; neque enim domo egredienti neque illud suggestum, in quo causam dixerat, ascendenti signum sibi ullum, quod consuesset, a deo quasi mali alicuius impendentis datum. | Questo è appunto ciò che sappiamo riguardo a Socrate e che egli stesso dice in tanti passi delle opere dei suoi discepoli: che in lui c'era qualcosa di divino, da lui chiamato dèmone, al quale egli sempre obbediva, e che non lo sospingeva mai a fare qualcosa, ma spesso lo distoglieva. E proprio Socrate (della cui autorità quale altra potrebb'essere migliore?), quando Senofonte gli chiese se dovesse andare in guerra al seguito di Ciro, gli espose prima la propria opinione, e poi aggiunse: "Il mio è il consiglio di un uomo; ma, trattandosi di cose oscure e incerte, ritengo che si debba ricorrere all'oracolo di Apollo," al quale, anche gli ateniesi ricorrevano sempre per le questioni statali più importanti. Di Socrate si legge anche che, avendo visto un giorno il suo amico Critone con un occhio bendato, gli chiese che cosa gli era successo. Critone gli disse che, mentre passeggiava in campagna, un ramoscello da lui scostato e poi lasciato libero gli era andato a colpire l'occhio. E Socrate: "Ecco, non mi hai dato retta quando ti dicevo di non andare in campagna, e te lo dicevo per quell'ammonimento divino che spesso mi viene in aiuto." Ancora Socrate, quando gli ateniesi guidati da Lachete avevano subìto una sconfitta presso Delio, ed egli batteva in ritirata insieme con Lachete, allorché furono giunti a un trivio, non volle prender la strada che prendevano gli altri. E siccome quelli gli chiesero perché non seguitava per il loro stesso cammino, rispose che il dèmone lo sconsigliava. E in effetti quelli che avevano proseguito la fuga per l'altra strada si trovarono alle prese con la cavalleria nemica. Antipatro ha raccolto moltissimi casi in cui Socrate dette mirabile prova della sua capacità di prevedere il futuro; io li tralascerò: tu li conosci, io non ho bisogno di rammentarli per il mio scopo. Ma un detto solo, splendido e, direi, divino, voglio ricordare di quel filosofo: condannato da un'empia sentenza, disse che moriva con piena serenità, perché, né quando era uscito di casa, né quando era salito sulla tribuna dalla quale aveva pronunciato la sua difesa, aveva ricevuto dal dèmone alcuno dei soliti segni premonitori di qualche male. |
Quorsus igitur haec tam multa de Maximo? Quia profecto videtis nefas esse dictu miseram fuisse talem senectutem. Nec tamen omnes possunt esse Scipiones aut Maximi, ut urbium expugnationes, ut pedestres navalesve pugnas, ut bella a se gesta, ut triumphos recordentur. Est etiam quiete et pure atque eleganter actae aetatis placida ac lenis senectus, qualem accepimus Platonis, qui uno et octogesimo anno scribens est mortuus, qualem Isocratis, qui eum librum, qui Panathenaicus inscribitur, quarto et nonagesimo anno scripsisse se dicit, vixitque quinquennium postea; cuius magister Leontinus Gorgias centum et septem complevit annos neque umquam in suo studio atque opere cessavit.Qui, cum ex eo quaereretur, cur tam diu vellet esse in vita, 'Nihil habeo,' inquit, 'quod accusem senectutem.' Praeclarum responsum et docto homine dignum. | Allora, perché tante parole su Massimo? Per farvi capire bene che sarebbe un'empietà dire infelice una simile vecchiaia. È pur vero che non tutti possono essere degli Scipione o dei Massimi per ricordarsi città espugnate, battaglie terrestri e navali, guerre da loro condotte, trionfi. Ma anche la vecchiaia di una vita trascorsa nella calma, nell'onestà e nella distinzione è tranquilla e dolce, come fu, secondo la tradizione, quella di Platone, che mori a ottantun anni mentre era impegnato a scrivere, e quella di Isocrate, che dice di aver composto, novantaquattrenne, l'opera intitolata Panatenaico e visse ancora cinque anni; il suo maestro, Gorgia di Leontini, compì centosette anni senza smettere mai di studiare e lavorare; quest'ultimo, a chi gli chiedeva perché volesse vivere così a lungo, rispondeva: "Non ho niente da rimproverare alla vecchiaia!" Risposta eccezionale e degna di un uomo colto! |
Regalis sane et digna Aeacidarum genere sententia. Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis, cum de captivis commutandis Romam missus esset iurassetque se rediturum, primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere. | Parole veramente regali e degne di un Eacida. Ancora. Se le singole persone, costrette dalle circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla. Così, per esempio, nella prima guerra punica, Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe ritornato. Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al nemico. |
Etenim si in leviorum artium studio memoriae proditum est poetas nobilis poetarum aequalium morte doluisse, quo tandem animo eius interitum ferre debui, cum quo certare erat gloriosius quam omnino adversarium non habere? cum praesertim non modo numquam sit aut illius a me cursus impeditus aut ab illo meus, sed contra semper alter ab altero adiutus et communicando et monendo et favendo. | Infatti, se a proposito dell'esercizio di arti meno importanti si tramanda che poeti illustri ebbero a dolersi della morte di poeti loro contemporanei, con quale animo avrei mai dovuto sopportare la scomparsa di colui, cimentarsi col quale era più glorioso che non avere assolutamente rivali? Tanto più che non solo io non cercai mai di ostacolare la sua carriera, o lui la mia, ma al contrario sempre ci aiutammo reciprocamente, attraverso lo scambio dei pareri, dei suggerimenti, degli appoggi. |
Quocirca astutiae tollendae sunt eaque malitia, quae vult illa quidem videri se esse prudentiam, sed abest ab ea distatque plurimum; prudentia est enim locata in dilectu bonorum et malorum, malitia, si omnia quae turpia sunt, mala sunt, mala bonis ponit ante. Nec vero in praediis solum ius civile ductum a natura malitiam fraudemque vindicat, sed etiam in mancipiorum venditione venditoris fraus omnis excluditur. Qui enim scire debuit de sanitate, de fuga, de furtis, praestat edicto aedilium.Heredum alia causa est. | Bisogna, perciò, eliminare le furberie e quella malizia che vorrebbe sembrare prudenza, ma lontana da essa in modo enorme: la prudenza è, difatti, fondata sulla scelta dei beni e dei mali; la malizia antepone il male al bene, se è vero che è male tutto ciò che è immorale. E non solo nel caso dei beni immobili il diritto civile, che deriva dalla natura, punisce la malafede e la frode, ma anche nella vendita degli schiavi è esclusa ogni frode da parte del venditore. Chi, infatti, dovesse essere al corrente della salute, di una fuga, di ruberie, ne risponde in base all'editto degli edili. |
C. deinde Piso statarius et sermonis plenus orator, minime ille quidem tardus in excogitando, verum tamen voltu et simulatione multo etiam acutior quam erat videbatur. nam eius aequalem M.'. Glabrionem bene institutum avi Scaevolae diligentia socors i psius natura neglegensque tardaverat. etiam L. Torquatus elegans in dicendo, in existimando admodum prudens, toto genere perurbanus. meus autem aequalis Cn. Pompeius vir ad omnia summa natus maiorem dicendi gloriam habuisset, nisi eum maioris gloriae cupi ditas ad bellicas laudes abstraxisset.erat oratione satis amplus, rem prudenter videbat; actio vero eius habebat et in voce magnum splendorem et in motu summam dignitatem. | Poi, Gneo Pisone, oratore "statico" e discorsivo, non mancava affatto di prontezza nell'escogitare gli argomenti, e tuttavia, grazie alla capacità di contraffare l'espressione del volto, riusciva ad apparire anche molto più ricco di sagacia di quanto era. Invece il suo coetaneo Manio Glabrione, per quanto avesse ricevuto una buona formazione grazie alle cure del nonno Scevola, era rallentato dal temperamento indolente e neghittoso. E Lucio Torquato aveva parola elegante, era di giudizio assai avveduto, e in generale si distingueva per un bel tratto di urbanità. Il mio coetaneo Gneo Pompeo d'altra parte, uomo nato per ogni grandezza, avrebbe avuto maggior rinomanza nell'eloquenza, se un desiderio di più grande fama non lo avesse trascinato a gloriose imprese di guerra; aveva una discreta elevatezza di stile, e buona capacità di cogliere le questioni; la sua azione, poi, si distingueva per una voce dalla grande e limpida sonorità, e per l'insigne nobiltà del gestire. |
In primis autem videndum erit ei, qui rem publicam administrabit, ut suum quisque teneat neque de bonis privatorum publice deminutio fiat. Perniciose enim Philippus in tribunatu cum legem agrariam ferret, quam tamen antiquari facile passus est et in eo vehementer se moderatum praebuit—sed cum in agendo multa populariter, tum illud male, 'non esse in civitate duo milia hominum, qui rem haberent'. Capitalis oratio est ad aequationem bonorum pertinens, qua peste quae potest esse maior? Hanc enim ob causam maxime, ut sua tenerentur, res publicae civitatesque constitutae sunt.Nam, etsi duce natura congregabantur homines, tamen spe custodiae rerum suarum urbium praesidia quaerebant. | In primo luogo chi governa uno Stato dovrà badare a che ciascuno conservi il proprio patrimonio e non sia adoperata una decurtazione dei beni privati per opera dello Stato. Si comportò in modo pericoloso Filippo durante il suo tribunato, proponendo la legge agraria, che, tuttavia, egli permise facilmente che fosse abrogata, dimostrandosi in questo molto moderato; ma come nella sua attività disse molte cose in modo gradito al popolo, così fu dannosa quella sua affermazione: "Non ci sono nelle città duemila persone che abbiano una proprietà". È un discorso criminale, che porta al livellamento dei beni; quale peste può esser più rovinosa di questa? Soprattutto per questo motivo, cioè per conservare le proprietà, si sono costituiti gli Stati e le città. Infatti gli uomini si fossero riuniti in società per l'impulso della natura, tuttavia cercavano la protezione delle città nella speranza di difendere i propri averi. |
Adhuc, C. Caesar, Q. Ligarius omni culpa vacat. Domo est egressus non modo nullum ad bellum, sed ne ad minimam quidem suspicionem belli; legatus in pace profectus in provincia pacatissima ita se gessit ut ei pacem expediret. Profectio certe animum tuum non debet offendere. Num igitur remansio? Multo minus. Nam profectio voluntatem habuit non turpem, remansio necessitatem etiam honestam. Ergo haec duo tempora carent crimine, unum cum est legatus profectus, alterum cum efflagitatus a prouincia praepositus Africae est. | Fino a questo momento, o Gaio Cesare, Ligario è esente da ogni colpa. Partì da Roma quando, non dico la guerra, ma non c'era di essa neppure il più vago presentimento; partito come luogotenente in tempo di pace, in una provincia del tutto tranquilla, si comportò in modo che ad essa conveniva restare in pace. La sua partenza, certo, non deve dispiacerti; ti dispiace, dunque, la sua permanenza ? Molto meno. Ché la partenza obbedì a un proposito non disonorevole, la permanenza ad una necessità anche onorevole. Dunque, questi due momenti restano immuni da colpa; l'uno, quando partì come luogotenente, l'altro, quando su richiesta degli amministrati fu messo a capo dell'Africa. |
Eodem tempore Moloni dedimus operam; dictatore enim Sulla legatus ad senatum de Rhodiorum praemiis venerat. itaque prima causa publica pro Sex. Roscio dicta tantum commendationis habuit, ut non ulla esset quae non digna nostro patrocinio videretur. deinceps inde multae, quas nos diligenter elaboratas et tamquam elucubratas adferebamus. | Nello stesso periodo, seguii l'insegnamento di Molone; "durante la dittatura di Silla," era infatti venuto come ambasciatore presso il senato, per discutere dei benefici concessi ai rodii." Pertanto la mia prima causa penale, la difesa di Sesto Roscio, tanto giovò alla mia reputazione, che non ce ne fu più nessuna che non apparisse meritevole del mio patrocinio. Ne seguirono poi molte, che io presentavo in pubblico dopo un'elaborazione diligente, dopo averci, per così dire, passato sopra le notti. |
Praeclare, inquam, Brute, dicis eoque magis ista dicendi laude delector, quod cetera, quae sunt quondam habita in civitate pulcherrima, nemo est tam humilis qui se non aut posse adipisci aut adeptum putet; eloquentem neminem video factum esse victoria. sed quo facilius sermo explicetur, sedentes, si videtur, agamus. Cum idem placuisset illis, tum in pratulo propter Platonis statuam consedimus. | "Sono parole eccellenti, le tue, Bruto;" gli risposi "e tanto più mi compiaccio di codesto elogio dell'eloquenza, giacché le altre prerogative che un tempo nella nostra città erano considerate segni della più alta distinzione, non v'è alcuno, per infimo che sia, che non ritenga di poterle conseguire o di averle già conseguite; mentre non vedo nessuno che sia divenuto eloquente grazie a una vittoria. Ma perché il nostro discorso si svolga più agevolmente, continuiamo da seduti, se vi va." Acconsentirono, e ci sedemmo in un praticello, vicino alla statua di Platone. |
Neque id ego dico, ut invidiosum sit in eos, quibus gloriosum etiam hoc esse debet. Funguntur officio, defendunt suos, faciunt, quod viri fortissimi solent; laesi dolent, irati efferuntur, pugnant lacessiti. Sed vestrae sapientiae tamen est, iudices, non, si causa iusta est viris fortibus oppugnandi M. Caelium, ideo vobis quoque vos causam putare esse iustam alieno dolori potius quam vestrae fidei consulendi. Nam quae sit multitudo in foro, quae genera, quae studia, quae varietas hominum, videtis.Ex hac copia quam multos esse arbitramini, qui hominibus potentibus, gratiosis, disertis, cum aliquid eos velle arbitrentur, ultro se offerre soleant, operam navare, testimonium polliceri? | Né io dico ciò perché sia ostile verso di loro, per i quali anche questo deve essere glorioso. Adempiono ad un compito, difendono i loro cari, fanno ciò che gli uomini coraggiosissimi sono soliti (fare); afflitti soffrono, irati si esaltano, provocati combattono. Ma tuttavia, oh giudici, sta al vostro buonsenso non se il pretesto di attaccare Marco Celio sia legittimo per i coraggiosissimi uomini e perciò anche per voi, (sottinteso “ma”) che voi consideriate che la causa di chieder consiglio al tormento altrui piuttosto che alla vostra lealtà sia giusta. Infatti vedete quale sia la folla nel foro, quali tipi, quali le fazioni, quale la molteplicità di uomini. Credete che da questa moltitudine vi siano tanti uomini che sono soliti offrirsi spontaneamente, compiere un’opera, offrire testimonianza per uomini potenti, cortesi, arguti, pur credendo che quelli vogliano qualcosa?PARADIGMI :oppugnandi: gerundio genitivo da oppugno, as, avi, atum, areputare: Infinito presente da puto, as, avi, atum, areconsulendi: gerundio genitivo da consulo, is, consului, consultum, consulere (III con.)esse: infinito presente da sum, es, fui, essevidetis: indicativo presente da video, es, vidi, visum, videre (II con.)sit: congiuntivo presente da sum, es, fui, essearbitramini: indicativo presente da arbitror, arbitraris, arbitratus sum, arbitrari (I con.)Soleant: indicativo presente da soleo, es, solitus sum, solere (II con, semidep.)Se Offerre: infinito presente da offero, offers, obtuli, oblatum, offerre (v. anomalo)navare: infinito presente da navo, as, avi, atum, arepolliceri: infinito presente da polliceor, polliceris, pollicitus sum, polliceri (II con, dep)arbitrentur: congiuntivo presente da arbitror, arbitraris, arbitratus sum, arbitrari (I con.)velle: infinito presente volo, vis, volui, velle (v. anomalo) |
Multa me consule a me ipso scripta recitasti, multa ante Marsicum bellum a Sisenna collecta attulisti, multa ante Lacedaemoniorum malam pugnam in Leuctris a Callisthene commemorata dixisti. De quibus dicam equidem singulis, quoad videbitur; sed dicendum etiam est de universis. Quae est enim ista a deis profecta significatio et quasi denuntiatio calamitatum? Quid autem volunt di immortales, primum ea significantes quae sine interpretibus non possimus intellegere, deinde ea quae cavere nequeamus? At hoc ne homines quidem probi faciunt, ut amicis impendentes calamitates praedicant, quas illi effugere nullo modo possint; ut medici, quamquam intellegunt saepe, tamen numquam aegris dicunt illo morbo eos esse morituros: omnis enim praedictio mali tum probatur, cum ad praedictionem cautio adiungitur.Quid igitur aut ostenta aut eorum interpretes vel Lacedaemonios olim vel nuper nostros adiuverunt? Quae si signa deorum putanda sunt, cur tam obscura fuerunt? Si enim ut intellegeremus quid esset eventurum, aperte declarari oportebat; aut ne occulte quidem, si ea sciri nolebant. | Molti versi hai recitato, scritti da me, riguardanti l'anno del mio consolato; molte cose avvenute prima della guerra màrsica, riferite da Sisenna, hai rammentato; molte altre, narrate da Callistene, hai citato, che sarebbero accadute prima della sconfitta subìta dagli spartani a Leuttra. Di questi singoli fatti dirò qualcosa in seguito, entro i limiti che mi sembreranno opportuni; ma bisogna discutere anche la questione nel suo insieme. Che cos'è codesta indicazione e, direi, codesta minaccia di sventure, inviata dagli dèi? E che cosa vogliono gli dèi immortali, innanzi tutto col mandarci dei segni che non possiamo capire senza interpreti, in secondo luogo col predirci sventure che non possiamo evitare? Ma questo non lo fanno neppure gli uomini onesti, di preannunciare agli amici sciagure incombenti alle quali essi non possono sfuggire in alcun modo; per esempio i medici, pur rendendosene conto spesso, tuttavia non dicono mai agli ammalati che la loro malattia li condurrà certamente a morte: ché ogni predizione di un pericolo grave è da approvarsi soltanto quando alla predizione si aggiunge l'indicazione dei mezzi per poter guarire. Che giovamento arrecarono i prodigi e i loro interpreti agli spartani in quei tempi remoti, ai nostri poco tempo addietro? Se dobbiamo ritenerli segnali divini, perché erano così oscuri? Se erano mandati dagli dèi perché comprendessimo che cosa sarebbe successo, bisognava che le predizioni fossero chiare; oppure, se gli dèi non volevano che noi sapessimo, non dovevano mandarci nessun segno, nemmeno occulto. |
Quamquam est uno loco condicio melior externae victoriae quam domesticae, quod hostes alienigenae aut oppressi serviunt aut recepti [in amicitiam] beneficio se obligatos putant; qui autem ex numero civium dementia aliqua depravati hostes patriae semel esse coeperunt, eos cum a pernicie rei publicae reppuleris, nec vi coercere nec beneficio placare possis. Quare mihi cum perditis civibus aeternum bellum susceptum esse video. Id ego vestro bonorumque omnium auxilio memoriaque tantorum periculorum, quae non modo in hoc populo, qui servatus est, sed in omnium gentium sermonibus ac mentibus semper haerebit, a me atque a meis facile propulsari posse confido.Neque ulla profecto tanta vis reperietur, quae coniunctionem vestram equitumque Romanorum et tantam conspirationem bonorum omnium confringere et labefactare possit. | È pur vero che sotto un certo aspetto la vittoria all'estero è migliore della vittoria politica: i nemici stranieri, quando sono vinti, sono asserviti, oppure, quando ricevono dei favori, si sentono obbligati; invece chi appartiene al novero dei cittadini, se viene fuorviato da qualche idea insensata e diventa un nemico della patria, è impossibile piegarlo con la forza o ammansirlo con dei favori, sempre che gli sia stato impedito di nuocere allo Stato. Ecco perché so di aver intrapreso contro dei cittadini perduti un conflitto che non avrà fine. Ma l'aiuto vostro e di tutti gli onesti e il ricordo di pericoli così gravi - ricordo che vivrà per sempre non solo nel nostro popolo, ormai salvo, ma nelle parole e nella mente di tutte le genti - difenderanno me e i miei cari da questa guerra, ne sono sicuro. Non ci sarà certamente una forza così grande da spezzare e dissolvere la vostra unione con i cavalieri romani e un così unanime accordo tra tutti gli onesti. |
Nam <a> patribus acceptos deos ita placet coli, si huic legi paruerint ipsi patres. Delubra esse in urbibus censeo, nec sequor magos Persarum quibus auctoribus Xerses inflammasse templa Graeciae dicitur, quod parietibus includerent deos, quibus omnia deberent esse patentia ac libera, quorumque hic mundus omnis templum esset et domus.Melius Graii atque nostri, qui ut augerent pietatem in deos, easdem illos urbis quas nos incolere voluerunt. Adfert enim haec opinio religionem utilem civitatibus, si quidem et illud bene dictum est a Pythagora doctissimo viro, tum maxume et pietatem et religionem versari in animis, cum rebus divinis operam daremus, et quod Thales qui sapientissimus in septem fuit, homines existimare oportere, omnia <quae> cernerent deorum esse plena; fore enim omnis castioris, veluti quom in fanis essent maxime religiosis.Est enim quaedam opinione species deorum in oculis, non solum in mentibus. | Si stabilisce infatti che siano venerati gli dèi tramandati dai padri, a condizione che i padri stessi abbiano seguito questa legge. Io ritengo che nelle città vi debbano essere dei templi, e non concordo con i magi dei Persiani, per consiglio dei quali si dice che Serse bruciò i templi della Grecia, perché rinchiudevano entro pareti quegli dèi ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei quali tutto questo mondo è tempio e sede.Meglio si comportarono invece gli Elleni ed i nostri padri, i quali vollero che essi abitassero le stesse città nostre, affinché aumentasse la pietà verso gli dèi; questa credenza sostiene infatti che il culto sia utile alle città, se, come disse il dottissimo Pitagora, proprio allora la pietà ed il culto maggiormente si radicano negli animi, cioè quando ci dedichiamo alle cose divine; e ricordiamo il detto di Talete, uno dei sette sapienti, che gli uomini sono convinti che tutto [quanto] vedono debba essere pieno di dèi; tutti saranno infatti più puri, come se si trovassero in templi che ispirano la massima religiosità. Secondo questo concezione infatti, si presenta una certa immagine degli dèi non soltanto negli animi, ma anche innanzi agli occhi. |
Quid? cum te Praeneste Kalendis ipsis Novembribus occupaturum nocturno impetu esse confideres, sensistin illam coloniam meo iussu meis praesidiis, custodiis, vigiliis esse munitam? Nihil agis, nihil moliris, nihil cogitas, quod non ego non modo audiam, sed etiam videam planeque sentiam. Recognosce tandem mecum noctem illam superiorem; iam intelleges multo me vigilare acrius ad salutem quam te ad perniciem rei publicae. Dico te priore nocte venisse inter falcarios (non agam obscure) in M.Laecae domum; convenisse eodem complures eiusdem amentiae scelerisque socios. Num negare audes? quid taces? Convincam, si negas. Video enim esse hic in senatu quosdam, qui tecum una fuerunt. | E quando eri convinto di occupare Preneste di notte, con un colpo di mano, il 1° novembre, non ti sei accorto che, su mio ordine, quella colonia aveva ricevuto i rinforzi della mia guarnigione, delle mie guardie, delle mie sentinelle? Nulla di quanto fai, ordisci, mediti, sfugge alle mie orecchie e ai miei occhi, tanto meno alla mia mente. Rievochiamo insieme i fatti dell'altra notte: capirai subito che sono più risoluto io nel vegliare sulla sicurezza dello Stato che tu sulla sua rovina. Denuncio che l'altra notte ti sei recato in via dei Falcarii (non lascerò nulla nell'ombra) in casa di Marco Leca, dove si erano riuniti molti complici della tua pazzia, della tua scelleratezza. Osi negarlo? Perché taci? Te lo dimostrerò, se neghi. Vedo, infatti, che sono qui in Senato alcuni uomini che erano con te. |
Gavius hic quem dico, Consanus, cum in illo numero civium Romanorum ab isto in vincla coniectus esset et nescio qua ratione clam e lautumiis profugisset Messanamque venisset, qui tam prope iam Italiam et moenia Reginorum, civium Romanorum, videret et ex illo metu mortis ac tenebris quasi luce libertatis et odore aliquo legum recreatus revixisset, loqui Messanae et queri coepit se civem Romanum in vincla coniectum, sibi recta iter esse Romam, Verri se praesto advenienti futurum.Non intellegebat miser nihil interesse utrum haec Messanae an apud istum in praetorio loqueretur; nam, ut antea vos docui, hanc sibi iste urbem delegerat quam haberet adiutricem scelerum, furtorum receptricem, flagitiorum omnium consciam. Itaque ad magistratum Mamertinum statim deducitur Gavius, eoque ipso die casu Messanam Verres venit. Res ad eum defertur, esse civem Romanum qui se Syracusis in lautumiis fuisse quereretur; quem iam ingredientem in navem et Verri nimis atrociter minitantem ab se retractum esse et adservatum, ut ipse in eum statueret quod videretur. | Questo Gavio di Gonza di cui sto parlando, era stato da Verre gettato in prigione con quegli altri cittadini romani e, riuscito a evadere di nascosto dalle latomie, era arrivato a Messina. Qui, vedendo ormai così vicine l'Italia e le mura di Reggio, i cui abitanti sono cittadini romani, si sentì fuori della paura della morte e delle tenebre della prigione, quasi tornato a novella vita grazie alla luce della libertà e a qualche sentore di legalità; e così a Messina si lasciò andare alle chiacchiere lamentandosi che lui, un cittadino romano, èra stato gettato in prigione: aggiungendo che stava recandosi direttamente a Roma e che Verre al suo arrivo se lo sarebbe trovato tra i piedi. Non comprendeva, lo sventurato, che non c'era alcuna differenza tra il parlare in questo modo a Messina o alla presenza stessa di Verre nel palazzo del governo; che io ve l'ho già detto prima che egli s'era scelto da sé questa città per averla come collaboratrice nelle sue scelleratezze, ricéttatrice dei suoi furti, complice di tutte le sue infamie. Conseguenza immediata è che Gavio viene trascinato dinanzi alla più alta autorità di Messina, e proprio quel giorno, che coincidenza fortunata!, eccoti arrivare Verre in città. Gli si riferiscono i fatti: la viva protesta, cioè, da parte di un cittadino romano per essere stato rinchiuso a Siracusa nelle latomie, il suo arresto al momento dell'imbarco mentre lanciava contro di lui delle minacce fin troppo violente, e il suo imprigionamento perché fosse proprio il governatore a prendere a suo carico i provvedimenti ritenuti più opportuni. |
Ac mea quidem sententia nemo poterit esse omni laude cumulatus orator, nisi erit omnium rerum magnarum atque artium scientiam consecutus: etenim ex rerum cognitione ecflorescat et redundet oportet oratio. Quae nisi res est ab oratore percepta et cognita, inanem quandam habet elocutionem et paene puerilem. Neque vero ego hoc tantum oneris imponam nostris paesertim oratoribus in hac tanta occupatione urbis ac vitae, nihil ut eis putem licere nescire, quanquam vis oratoris professioque ipsa bene dicendi hoc suscipere ac polliceri videtur, ut omni re, quaecumque sit proposita, ornate ab eo copioseque dicatur.[...] | E senza dubbio a mio parere nessuno potrà essere un oratore provvisto di ogni lode, se non avrà raggiunto la conoscenza di tutti i grandi argomenti e delle arti: e infatti un discorso deve fiorire e sgorgare dalla conoscenza di (ogni) argomento. Ma se non c’è alla base un argomento appreso e conosciuto dall’oratore, questo ha un certo modo di esprimersi vuoto e quasi infantile. E io in realtà non imporrò un così grande impegno specialmente ai nostri oratori in questa così grande attività civile e privata, che credo che nulla per loro sia lecito non sapere, sebbene sembra che il valore dell’oratore e la stessa professione del ben parlare ammetta e prometta questo, che si parli da lui (che l’oratore possa parlare) di ogni argomento, qualunque sia stato proposto, con gusto e abbondanza. [...] |
Noster item aequalis D. Silanus, vitricus tuus, studi ille quidem habuit non multum, sed acuminis et orationis satis. Q. Pompeius A. f., qui Bithynicus dictus est, biennio quam nos fortasse maior, summo studio dicendi multaque doctrina, incredibili la bore atque industria, quod scire possum: fuit enim mecum et cum M. Pisone cum amicitia tum studiis exercitationibusque coniunctus. huius actio non satis commendabat orationem; in hac enim satis erat copiae, in illa autem leporis parum. | Un altro mio coetaneo, Decimo Silano, tuo patrigno, senza possedere grande cultura, aveva tuttavia un discreto acume e una certa facilità di parola. Quinto Pompeo figlio di Aulo, soprannominato Bitinico forse di due anni più anziano di me, si segnalava per la grandissima dedizione all'eloquenza e per la vasta dottrina, per l'attività incredibilmente operosa: posso ben saperlo, perché fu legato a me e a Marco Pisone, oltre che dall'amicizia, dai comuni studi ed esercizi oratori. In lui l'azione non rendeva giustizia al suo stile oratorio; in questo vi era una discreta ricchezza, in quella troppo poca grazia. |
[...] Ac principio terra universa cernatur locata in media sede mundi, solida et globosa et undique ipsa in sese nutibus suis conglobata, vestita floribus, herbis, arboribus, frugibus, quorum omnium incredibilis multitudo insatiabili varietate distinguitur. Adde huc fontum gelidas perennitates, liquores perlucidos amnium, riparum vestitus viridissimos, speluncarum concavas altitudines, saxorum asperitates, inpendentium montium altitudines inmensitatesque camporum; adde etiam reconditas auri argentique venas infinitimamque vim marmoris.Quae vero et quam varia genera bestiarum vel cicurum vel ferarum, qui volucrium lapsus atque cantus, qui pecudum pastus, quae vita silvestrium.Quid iam de hominum genere dicam, qui quasi cultores terrae constituti non patiuntur eam nec inmanitate beluarum efferari nec stirpium asperitate vastari, quorumque operibus agri, insulae litoraque collucent distincta tectis et urbibus. [...] | [...] Si consideri innanzitutto la terra nel suo complesso, situata al centro dell'universo, solida e rotonda, ricoperta di fiori, di erba, di alberi, di raccolti: l'incredibile moltitudine di tutti questi si distingue per l'infinita varietà di colori. Si aggiunga a ciò la fredda inesauribilità delle fonti, le acque cristalline dei fiumi, il lussureggiante rivestimento delle rive, le profondità incavate delle grotte, le asperità delle rocce, l'altezza dei monti scoscesi e l'immensità dei terreni pianeggianti, si aggiunga anche i luoghi nascosti dell'oro e i filoni di argento e l'infinita forza del marmo. Oltre a ciò quali e quanto vari tipi di bestie sia domestiche sia selvatiche! Che voli e canti di uccelli! Che meravigliosi pascoli di animali! O quanto grande è la bellezza del mare! Quale la bellezza dell'universo! Che abbondanza e varietà di isole! Che bellezza delle spiagge e delle coste! Quanti tipi di animali in parte sommersi, in parte che nuotano e galleggiano e in parte vivono attaccati ai sassi! Che cosa posso dire del genere degli uomini? E questi costituiti come coltivatori della terra, non sopportano che essa venga resa selvaggia né dalla ferocia delle belve né dalle male erbe; e grazie all'opera di costoro, i campi, le isole e i litorali si distinguono per il loro splendore da tetti e città. [...] |
Itaque nervosius qui ista disserunt, solum audent malum dicere id, quod turpe sit, qui autem remissius, ii tamen non dubitant summum malum dicere. Nam illud quidem "Neque dedi neque do infideli cuiquam" idcirco recte a poeta, quia, cum tractaretur Atreus, personae serviendum fuit. Sed si hoc sibi sument, nullam esse fidem, quae infideli data sit, videant, ne quaeratur latebra periurio. | Quelli che trattano questo argomento con maggior vigore, hanno il coraggio di dire che è unico male ciò che è vergognoso, mentre quanti ne discutono con maggiore accondiscendenza non esitano, tuttavia, a chiamarlo sommo male. Per quel che riguarda le parole 'Non l'ho data né la do ad alcuno sleale' esse sono state scritte giustamente dal poeta, perché, rappresentandosi il personaggio di Atreo, bisognava tenersi strettamente legati ad esso. Ma se vorranno prenderle nel senso che non esiste fede data ad un uomo sleale, badino a non cercare un mezzo per occultare lo spergiuro. |
Nec tamen nostrae nobis utilitates omittendae sunt aliisque tradendae, cum his ipsi egeamus, sed suae cuique utilitati, quod sine alterius iniuria fiat, serviendum est. Scite Chrysippus, ut multa,qui stadium, inquit, currit, eniti et contendere debet quam maxime possit, ut vincat, supplantare eum, quicum certet, aut manu depellere nullo modo debet; sic in vita sibi quemque petere, quod pertineat ad usum, non iniquum est, alteri deripere ius non est. | Non dobbiamo, tuttavia, trascurare i nostri interessi e affidarli agli altri, quando noi stessi ne abbiamo bisogno, ma ciascuno deve preoccuparsi della propria utilità, se ciò avviene senza recare ingiustizia ad altri. Dice bene Crisippo, come al solito:Chi corre nello stadio, deve sforzarsi e lottare quanto più gli è possibile per vincere, ma non deve assolutamente sgambettare o allontanare con la mano il suo rivale: allo stesso modo nella vita non è ingiusto che ciascuno ricerchi ciò che riguarda le sue necessità, ma non è consentito sottrarlo ad un altro. |
Vacandum autem omni est animi perturbatione, cum cupiditate et metu, tum etiam aegritudine et voluptate nimia et iracundia, ut tranquillitas animi et securitas adsit, quae affert cum constantiam tum etiam dignitatem. Multi autem et sunt et fuerunt, qui eam, quam dico, tranquillitatem expetentes a negotiis publicis se removerint ad otiumque perfugerint, in his et nobilissimi philosophi longeque principes et quidam homines severi et graves, nec populi nec principum mores ferre potuerunt vixeruntque non nulli in agris delectati re sua familiari. | Sia l'animo tuo sgombro da ogni passione, non solo dalla cupidigia e dalla paura, ma anche, e specialmente, dalla tristezza, dalla eccessiva allegria e dalla collera, perché tu abbia quella tranquilla serenità che porta con sé fermezza e soprattutto dignità. Molti sono e molti furono quelli che, aspirando a questa tranquillità di cui parlo, rinunziarono ai pubblici uffici per cercare un rifugio nella pace d'una vita appartata: fra questi troviamo celebratissimi filosofi, veri principi del sapere, e certi uomini austeri e autorevoli che non seppero adattarsi ai capricci del popolo o dei potenti; e non pochi di essi passarono la vita in campagna, trovando il loro piacere nella cura del loro patrimonio. |
Sed studium eius generis maiorque vis agnoscitur in Pisistrato. denique hunc proximo saeculo Themistocles insecutus est, ut apud nos, perantiquus, ut apud Athenienses, non ita sane vetus. fuit enim regnante iam Graecia, nostra autem civitate non ita pridem dominatu regio liberata. nam bellum Volscorum illud gravissimum, cui Coriolanus exsul interfuit, eodem fere tempore quo Persarum bellum fuit, similisque fortuna clarorum virorum. | Ma un interesse di questo tipo, e una maggiore efficacia, si riconosce in Pisistrato. Infine seguì a lui nel secolo successivo Temistocle," molto antico in rapporto a noi, ma non poi così vetusto in rapporto agli ateniesi. Visse infatti quando la Grecia era al culmine della sua potenza, non molto dopo che la nostra città era stata liberata dal dominio dei re." Difatti la tremenda guerra contro i volsci, cui prese parte Coriolano esule," fu all'incirca contemporanea della guerra contro i persiani, e simile fu la sorte dei due illustri personaggi. |
Ad Appi Claudi senectutem accedebat etiam, ut caecus esset; tamen is, cum sententia senatus inclinaret ad placem cum Pyrrho foedusque faciendum, non dubitavit dicere illa, quae versibus persecutus est Ennius:Quo vobis mentes, rectae quae stare solebantAntehac, dementis sese flexere viai?ceteraque gravissime; notum enim vobis carmen est; et tamen ipsius Appi exstat oratio. Atque haec ille egit septimo decimo anno post alterum consulatum, cum inter duos consulatus anni decem interfuissent, censorque ante superiorem consulatum fuisset; ex quo intellegitur Pyrrhi bello grandem sane fuisse; et tamen sic a patribus accepimus. | Alla vecchiaia di Appio Claudio si aggiungeva la cecità. Eppure, quando il senato era incline a stipulare il trattato di pace con Pirro, non esitò a dire quel che Ennio trascrisse in versi:Dove piegano le vostre menti, dementi,che sin qui solevano proceder rette?"e così via con stile molto solenne. Vi è nota l'opera e, del resto, esiste ancora il discorso di Appio. Ebbene, parlò così diciassette anni dopo il suo secondo consolato, quando erano trascorsi dieci anni tra il suo primo e secondo mandato ed era già stato censore prima del consolato iniziale. Da ciò si capisce che durante la guerra di Pirro era molto avanti con gli anni; e tuttavia così ci hanno tramandato i Padri. |
Omnino amicitiae corroboratis iam confirmatisque et ingeniis et aetatibus iudicandae sunt, nec si qui ineunte aetate venandi aut pilae studiosi fuerunt, eos habere necessarios quos tum eodem studio praeditos dilexerunt. Isto enim modo nutrices et paedagogi iure vetustatis plurimum benevolentiae postulabunt; qui neglegendi quidem non sunt sed alio quodam modo aestimandi. Aliter amicitiae stabiles permanere non possunt. Dispares enim mores disparia studia sequuntur, quorum dissimilitudo dissociat amicitias; nec ob aliam causam ullam boni improbis, improbi bonis amici esse non possunt, nisi quod tanta est inter eos, quanta maxima potest esse, morum studiorumque distantia. | In generale, si devono giudicare le amicizie quando il carattere si è formato e l'età è matura. Se, da giovani, siamo stati appassionati di caccia o del gioco della palla, non dobbiamo considerare necessariamente amici i compagni che allora prediligevamo perché accomunati dalla stessa passione. In questo modo, nutrici e pedagoghi si sentiranno in dovere di esigere il massimo dell'affetto per diritto di anzianità! Noi non dobbiamo dimenticarli, ma amarli in un altro modo. Diversamente, le amicizie non possono durare in maniera stabile. Caratteri diversi comportano interessi diversi ed è questa diversità a separare gli amici; se i virtuosi non possono essere amici dei malvagi e i malvagi dei virtuosi è solo perché la loro differenza di carattere e di interessi è la più grande che ci sia. |
Tot igitur annos versatus in foro sine suspicione, sine infamia studuit Catilinae iterum petenti. Quem ergo ad finem putas custodiendam illam aetatem fuisse? Nobis quidem olim annus erat unus ad cohibendum brachium toga constitutus, et ut exercitatione ludoque campestri tunicati uteremur, eademque erat, si statim mereri stipendia coeperamus, castrensis ratio ac militaris. Qua in aetate nisi qui se ipse sua gravitate et castimonia et cum disciplina domestica, tum etiam naturali quodam bono defenderet, quoquo modo a suis custoditus esset, tamen infamiam veram effugere non poterat.Sed qui prima illa initia aetatis integra atque inviolata praestitisset, de eius fama ac pudicitia, cum is iam se corroboravisset ac vir inter viros esset, nemo loquebatur. | Essendosi aggirato così tanti anni nel foro senza sospetto, senza infamia, si appassionò a Catilina che nuovamente aspirava al consolato. Dunque, fino a che punto pensi che la sua età debba essere vigilata? Certamente ci fu un tempo nel quale era a noi prescritto per un solo anno di coprire il braccio con la toga , e affinchè vestiti della tunica praticassimo esercitazioni e il gioco del campo, e c’era la stessa regola militare e relativa all’accampamento, se subito se cominciavamo ad ottenere benefici. In questa età se qualcuno con la propria serietà e riservatezza, con l’educazione domestica, e con una bontà naturale non si fosse saputo difendere, in qualunque modo fosse stato sorvegliato dai suoi, tuttavia non avrebbe potuto fuggire un’infamia meritata. Ma chi avesse conservati integri e immacolati quei primi inizi della giovinezza, riguardo la sua fama e pudicizia, quando egli si fosse ormai rafforzato e fosse uomo fra gli uomini, nessuno avrebbe sparlato. |
O fortunatam rem publicam, si quidem hanc sentinam urbis eiecerit! Uno mehercule Catilina exhausto levata mihi et recreata res publica videtur. Quid enim mali aut sceleris fingi aut cogitari potest, quod non ille conceperit? quis tota Italia veneficus, quis gladiator, quis latro, quis sicarius, quis parricida, quis testamentorum subiector, quis circumscriptor, quis ganeo, quis nepos, quis adulter, quae mulier infamis, quis corruptor iuventutis, quis corruptus, quis perditus inveniri potest, qui se cum Catilina non familiarissime vixisse fateatur? quae caedes per hosce annos sine illo facta est, quod nefarium stuprum non per illum? | Che fortuna per lo Stato, se si libererà da questa fogna! Gli è bastato ripulirsi solo di Catilina e mi sembra abbia acquistato serenità, fiducia. Quale delitto, quale crimine è possibile pensare, immaginare che Catilina non abbia compiuto? C'è, in tutt'Italia, avvelenatore, assassino, bandito, sicario, omicida, falsificatore di testamenti, truffatore, dissoluto, scialacquatore, adultero, prostituta, corruttore della gioventù, corrotto, vizioso che non ammetta di essere stato intimo amico di Catilina? Quale assassinio, in questi anni, è stato compiuto senza di lui? Quale nefanda violenza se non per mano sua? |
Nec vero dubitat agricola, quamvis sit senex, quaerenti, cui serat respondere: 'Dis immortalibus, qui me non accipere modo haec a maioribus voluerunt, sed etiam posteris prodere.' Et melius Caecilius de sene alteri saeclo prospiciente quam illud idem:Edepol, senectus, si nil quicquam aliud vitiAdportes tecum, cum advenis, unum id sat est,Quod diu vivendo multa, quae non volt, videt.Et multa fortasse, quae volt; atque in ea, quae non volt, saepe etiam adulescentia incurrit.Illud vero idem Caecilius vitiosius:Tum equidem in senecta hoc deputo miserrimum,Sentire ea aetate eumpse esse odiosum alteri. | L'agricoltore, in realtà, per quanto vecchio sia, se gli viene chiesto per chi pianta, non esita a rispondere: "Per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessi tali doni dai miei antenati, ma li trasmettessi anche ai posteri." E meglio si esprime Cecilio a proposito del vecchio che provvede alla generazione futura rispetto a quando dice:Perdio, vecchiaia, se non portassi al tuo arrivonessun altro male, questo solo basterebbe:vedere, vivendo a lungo, molte cose che non si vorrebbero.e forse molte che si vorrebbero! Anzi, anche la giovinezza si imbatte spesso in quel che non vuole. Ma ecco un passo di Cecilio ancora peggiore:"Della vecchiezza questo reputo il male più grande:sentire che, da vecchi, si è odiosi agli altri." |
His adiuncti sunt C. Curio M. Scaurus P. Rutilius C. Gracchus. de Scauro et Rutilio breviter licet dicere, quorum neuter summi oratoris habuit laudem et est uterque in multis causis versatus. erat in quibusdam laudandis viris, etiam si maximi ingeni non essent, probabilis tamen industria; quamquam his quidem non omnino ingenium, sed oratorium ingenium defuit. neque enim refert videre quid dicendum sit, nisi id queas solute et suaviter dicere; ne id quidem satis est, nisi id quod dicitur fit voce voltu motuque conditius. | Insieme a costoro vanno Gaio Curione, Marco Scauro, Publio Rutilio e Gaio Gracco. Su Scauro e Rutilio basteranno poche parole, giacché nessuno dei due godé del prestigio di oratore eccellente; eppure ambedue si cimentarono in molte cause. Vi sono uomini che meritano elogio perché, anche se privi di un talento eccelso, possedevano tuttavia un'encomiabile operosità; a costoro, però, non mancò il talento in generale, ma il talento per l'eloquenza. Difatti, non ha importanza sapere ciò che bisogna dire, se non lo si sa dire in modo spigliato e piacevole; e nemmeno questo è sufficiente, se quanto si dice non è reso più saporito dalla voce, dall'espressione del volto e dalle movenze del corpo. |
Et ego: non, inquam, Brute, sine causa, propterea quod istorum in dialecticis omnis cura consumitur, vagum illud orationis et fusum et multiplex non adhibetur genus. tuus autem avunculus, quemadmodum scis, habet a Stoicis id, quod ab illis petendum fuit; sed dicere didicit a dicendi magistris eorumque more se exercuit. quod si omnia a philosophis essent petenda, Peripateticorum institutis commodius fingeretur oratio. | E io: "Questo, Bruto," dissi "non è senza motivo. Infatti costoro spendono ogni loro cura nella dialettica, ma non fanno uso di uno stile libero, sciolto e vario. Invece il tuo zio materno, come ben sai, ha saputo trarre dagli stoici ciò che a essi si doveva chiedere; ma a parlare, ha imparato da maestri di eloquenza, e secondo il loro metodo si è esercitato. Se ogni cosa si dovesse chiedere ai filosofi, a un discorso sarebbe più agevole dar forma in base agli insegnamenti dei peripatetici. |
[...] quorum in aliis, ut in Antipatro poeta, ut in brumali die natis, ut in simul aegrotantibus fratribus, ut in urina, ut in unguibus, ut in reliquis eius modi, naturae contagio valet, quam ego non tollo--vis est nulla fatalis; in aliis autem fortuita quaedam esse possunt, ut in illo naufrago, ut in Icadio, ut in Daphita. Quaedam etiam Posidonius (pace magistri dixerim) comminisci videtur; sunt quidem absurda. Quid enim? si Daphitae fatum fuit ex equo cadere atque ita perire, ex hocne equo, qui cum equus non esset, nomen habebat alienum? aut Philippus hasne in capulo quadrigulas vitare monebatur? quasi vero capulo sit occisus.Quid autem magnum aut naufragum illum sine nomine in rivo esse lapsum--quamquam huic quidem hic scribit praedictum in aqua esse pereundum); ne hercule Icadii quidem praedonis video fatum ullum; nihil enim scribit ei praedictum: | [...] in alcuni dei quali, come nel caso del poeta Antipatro, delle persone nate nel giorno del solstizio d'inverno, dei fratelli che si ammalano contemporaneamente, dell'urina, delle unghie e di tutti i rimanenti esempi del genere, vale la solidarietà naturale, che io non nego, ma non vi è alcun influsso del fato; in altri casi possono invece verificarsi alcune circostanze fortuite, ad esempio per quel naufrago, oppure per Icadio o Dafita; sembra che anche Posidonio - sia detto con buona pace del maestro - abbia escogitato qualche esempio fittizio: palesi assurdità. Ebbene? Se il fato di Dafita era che dovesse cadere da cavallo e così morire, doveva forse cadere da quel determinato cavallo che, non essendo affatto un cavallo, di esso non aveva altro che il nome? E poi, era proprio la piccola quadriga incisa sull'elsa della spada quella da cui, secondo gli avvertimenti, Filippo doveva guardarsi? Quasi fosse stato ucciso dall'elsa! Che importanza ha, poi, se quel naufrago, che non ha nemmeno nome, è caduto in un ruscello? Eppure il nostro autore scrive che a costui era stata predetta una morte nell'acqua. E neanche nel caso del predone Icadio, insomma, vedo alcun intervento del fato: Posidonio non scrive infatti che qualcosa era stato predetto a Icadio. |
Quid? Cum pluribus deis immolatur, qui tandem evenit ut litetur aliis, aliis non litetur? Quae autem inconstantia deorum est, ut primis minentur extis, bene promittant secundis? Aut tanta inter eos dissensio, saepe etiam inter proxumos, ut Apollinis exta bona sint, Dianae non bona? Quid est tam perspicuum quam, cum fortuito hostiae adducantur, talia cuique exta esse, qualis cuique obtigerit hostia? "At enim id ipsum habet aliquid divini, quae cuique hostia obtingat, tamquam in sortibus, quae cui ducatur." Mox de sortibus; quamquam tu quidem non hostiarum causam confirmas sortium similitudine, sed infirmas sortis conlatione hostiarum.An, cum in Aequimaelium misimus qui adferat agnum quem immolemus, is mihi agnus adfertur qui habet exta rebus accommodata, et ad eum agnum non casu, sed duce deo servus deducitur? Nam si casum in eo quoque esse dicis quasi sortem quandam cum deorum voluntate coniunctam, doleo tantam Stoicos nostros Epicureis inridendi sui facultatem dedisse; non enim ignoras quam ista derideant. Et quidem illi faciliius facere possunt: deos enim ipsos iocandi causa induxit Epicurus perlucidos et perflabilis et habitantis tamquam inter duos lucos sic inter duos mundos propter metum ruinarum, eosque habere putat eadem membra, quae nos, nec usum ullum habere membrorum. Ergo hic, circumitione quadam deos tollens, recte non dubitat divinationem tollere; sed non, ut hic sibi constata item Stoici. Illius enim deus, nihil habens nec sui nec alieni negoti, non potest hominibus divinationem impertire; vester autem deus potest non impertire, ut nihilo minus mundum regat et hominibus consulat. Cur igitur vos induitis in eas captiones, quas numquam explicetis? Ita enim cum magis properant, concludere solent: "si di sunt, est divinatio; sunt autem di; est ergo divinatio." Multo est probabilius: "non est autem divinatio; non sunt ergo di." Vide quam temere committant ut, si nulla sit divinatio, nulli sint di. Divinatio enim perspicue tollitur, deos esse retinendum est. | E ancora: quando si fa un sacrificio in onore di più dèi, come mai può accadere che per alcuni il sacrificio riesca propizio, per altri no? E cos'è questa volubilità degli dèi, tale da minacciarci con le viscere del primo sacrificio, da farci sperar bene con quelle del secondo? O c'è fra loro tanta discordia, spesso anche tra divinità imparentate, sì che le viscere delle bestie immolate ad Apollo risultano gradite, quelle a Diana sgradite? Che cosa può essere così evidente come il fatto che, essendo scelte a caso le vittime condotte al sacrifizio, le viscere saranno per ciascun sacrificante tali quale sarà la vittima che gli capiterà? "Ma," tu risponderai, "il fatto stesso che a ciascuno tocchi una determinata vittima ha in sé qualcosa di profetico, come, a proposito delle sorti, il fatto che a ciascuno ne càpiti una determinata." Delle sorti parleremo in seguito, anche se, in verità, tu non rafforzi la causa dei sacrifici con l'analogia delle sorti, ma svaluti le sorti paragonandole ai sacrifici. O forse, se ho mandato a prendere all'Equimelio un agnello da immolare, mi vien portato proprio quell'agnello che ha le viscere adatte al mio proposito, e lo schiavo che ho mandato è attratto verso quell'agnello non dal caso, ma da una divinità che lo guida? Ché se tu mi dici che anche in questa circostanza il caso è una specie di sorte collegata con la volontà degli dèi, mi dispiace che i nostri stoici abbiano offerto agli epicurei una così ampia possibilità di prenderli in giro; sai certamente quanto gli epicurei deridano codeste teorie. E certo essi possono farlo con più facilità degli altri: giacché Epicuro si è divertito a immaginare gli dèi trasparenti e attraversabili dai soffi d'aria e abitanti tra due mondi, come "tra i due boschi", per paura che uno dei mondi crolli loro addosso; e dice che hanno le stesse nostre membra, ma senza alcuna occasione di usarle. Egli perciò, togliendo di mezzo gli dèi con una sorta di raggiro, coerentemente non esita a toglier di mezzo anche la divinazione; ma se egli è d'accordo con se stesso, non lo sono altrettanto gli stoici. La divinità di Epicuro, non avendo niente da fare né per se stessa né per gli altri, non può concedere agli uomini la divinazione. La vostra divinità, invece, può non concederla, senza per questo rinunciare a governare il mondo e a prendersi cura degli uomini. Perché, dunque, vi intricate in quei cavilli, che non sarete mai capaci di risolvere? Quando vogliono sbrigarsela più in fretta, gli stoici argomentano così: "se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono; dunque esiste la divinazione". Senonché riesce molto più convincente il dire: "ma non esiste la divinazione; dunque non esistono gli dèi". Guarda con quale avventatezza si espongono al pericolo che, se la divinazione si riduce a nulla, si riducano a nulla anche gli dèi. Ché la divinazione si elimina con tutta facilità, mentre l'esistenza degli dèi dev'essere tenuta ferma. |
[...] Quid? Quod a senatu dantur mandata legatis, ut D.Brutum militesque eius adeant iisque demonstrent summa in rem publicam merita beneficiaque eorum grata esse senatui populoque Romano iisque eam rem magnae laudi magnoque honori fore, passurumne censetis Antonium introire Mutinam legatos, exire inde tuto? Numquam patietur, mihi credite. Novi violentiam, novi inpudentiam, novi audaciam. | [...] E che? Quanto al fatto che sono dati dal senato ordini con i delegati, affinché vadano da Bruto e dai suoi soldati e a loro dimostrino che i loro grandi servigi nello stato e i loro benefici sono cari al senato e al popolo romano e che questa cosa a loro sarà di grande lode e di grande onore, pensate che Antonio lascerà entrare i delegati a Modena, uscire di là senza danno? Non lo lascerà mai, credetemi. Ne conosco la violenza, conosco l'impudenza, conosco l'astuzia. |
[De evertendis autem diripiendisque urbibus valde considerandum est, ne quid temere, ne quid crudeliter. Idque est viri magni rebus agitatis punire sontes, multitudinem conservare, in omni fortuna recta atque honesta retinere.] Ut enim sunt, quemadmodum supra dixi, qui urbanis rebus bellicas anteponant, sic reperias multos, quibus periculosa et calida consilia quietis et cogitatis splendidiora et maiora videantur. | [Quando la necessità impone di distruggere o di saccheggiare una città, si osservino scrupolosamente due cose: nessun atto temerario, nessuna crudeltà. Nei rivolgimenti politici e sociali, è stretto dovere dell'uomo magnanimo punire i sobillatori, preservare il popolo; in ogni momento e in ogni evento, rispettare la giustizia e l'onestà]. Come ci sono alcuni (ne ho parlato più sopra), i quali alle opere civili antepongono le imprese militari, così si trovano molti, a cui le decisioni rischiose e precipitose appaiono più splendide e più nobili di quelle tranquille e meditate. |
"Sed quo sis, Africane, alacrior ad tutandam rem publicam, sic habeto, omnibus, qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae 'civitates' appellantur; harum rectores et conservatores hinc profecti huc revertuntur". | "Ma affinché tu sia, Africano, più pronto a difendere lo stato, abbi per certo questo: a coloro che hanno conservato, aiutato, accresciuto la patria è fissato in cielo un posto determinato, dove beati godono dell'eternità; infatti a quel primo dio, che governa tutto il mondo, nulla di quello almeno che si fa sulla terra è più gradito che le riunioni e i sodalizi degli uomini associati sulla base del diritto, che si chiamano città; i governatori e conservatori di queste, da qui partiti, qui ritornano". |
Itaque et lectis utitur verbis et frequentibus <sententis>, splendore vocis, dignitate motus fit speciosum et inlustre quod dicitur, omniaque sic suppetunt, ut ei nullam deesse virtutem oratoris putem; maxumeque laudandus est, qui hoc tempore ipso, cum liceat in hoc communi nostro et quasi fatali malo, consoletur se cum conscientia optumae mentis tum etiam usurpatione et renovatione doctrinae. vidi enim Mytilenis nuper virum atque, ut dixi, vidi plane virum.itaque cum eum antea tui similem in dicendo viderim, tum vero nunc a doctissimo viro tibique, ut intellexi, amicissimo Cratippo instructum omni copia multo videbam similiorem. | Perciò ha un linguaggio elegante, ed è ricco di formulazioni brillanti; la voce limpida e la nobiltà delle movenze conferiscono risalto e lustro a quanto dice; ha tutti i requisiti, tanto che non credo gli manchi nessuna delle qualità del vero oratore; ed è lodevole soprattutto perché proprio di questi tempi - come è ben possibile fare in mezzo a queste nostre comuni e in qualche modo fatali sventure - sa consolarsi, oltre che con la consapevolezza del proprio retto sentire, con la pratica e il rinnovamento dei suoi studi. Ho visto quest'uomo a Mitilene poco tempo fa e, come ho detto, ho visto un vero uomo. Pertanto, anche se già prima lo avevo visto simile a te nell'eloquenza, lo vedevo ora molto più simile, ammaestrato com'era, con ogni dovizia d'insegnamenti, da Cratippo, uomo dottissimo e, come intesi, tuo grande amico." |
Tandem aliquando, Quirites, L. Catilinam furentem audacia, scelus anhelantem, pestem patriae nefarie molientem, vobis atque huic urbi ferro flammaque minitantem ex urbe vel eiecimus vel emisimus vel ipsum egredientem verbis prosecuti sumus. Abiit, excessit, evasit, erupit. Nulla iam pernicies a monstro illo atque prodigio moenibus ipsis intra moenia comparabitur. Atque hunc quidem unum huius belli domestici ducem sine controversia vicimus. Non enim iam inter latera nostra sica illa versabitur, non in campo, non in foro, non in curia, non denique intra domesticos parietes pertimescemus.Loco ille motus est, cum est ex urbe depulsus. Palam iam cum hoste nullo inpediente bellum iustum geremus. Sine dubio perdidimus hominem magnificeque vicimus, cum illum ex occultis insidiis in apertum latrocinium coniecimus. | Finalmente, Quiriti, Lucio Catilina, pazzo nella sua audacia, ansante nel suo crimine, empiamente teso a ordire la rovina della patria, a minacciare col ferro e col fuoco voi e questa città, lo abbiamo cacciato da Roma, o, se volete, lo abbiamo lasciato partire, o, meglio ancora, lo abbiamo accompagnato alla partenza con i nostri saluti. È andato, partito, fuggito, sparito. Quell'essere spaventoso non provocherà più alcuna catastrofe dentro le mura contro le stesse mura! Lui, il solo capo della guerra civile, lo abbiamo vinto: non ci sono dubbi. Il suo pugnale non ci insidierà più al fianco. Nel Campo Marzio, nel Foro, nella Curia, tra le pareti domestiche non saremo più in preda al terrore. Cacciandolo dalla città, gli abbiamo fatto perdere la sua posizione. Apertamente, ormai, combatteremo contro il nemico una guerra regolare: nessuno ce lo impedirà. È indiscutibile che lo abbiamo annientato con una vittoria strepitosa, costringendolo a uscire da trame occulte e a portare allo scoperto la sua azione di bandito. |
Vide, quaeso, Cratippe noster, quam sint ista similia; nam mihi non videntur. Oculi enim vera cernentes utuntur natura atque sensu; animi, si quando vel vaticinando vel somniando vera viderunt, usi sunt fortuna atque casu; nisi forte concessuros tibi existumas eos, qui somnia pro somniis habent, si quando aliquod somnium verum evaserit, non id fortuito accidisse. Sed demus tibi istas duas sumptiones (ea quaelemmataappellant dialectici, sed nos latine loqui malumus), adsumptio tamen (quampróslepsisidem vocant) non dabitur.Adsumit autem Cratippus hoc modo: "Sunt autem innumerabiles praesensiones non fortuitae." At ego dico nullam: vide, quanta sit controversia; iam adsumptione non concessa nulla conclusio est. "At impudentes sumus, qui, cum tam perspicuum sit, non concedamus." Quid est perspicuum? "Multa vera" inquit "evadere." Quid quod multo plura falsa? Nonne ipsa varietas, quae est propria fortunae, fortunam esse causam, non naturam esse docet? Deinde, si tua ista conclusio, Cratippe, vera est (tecum enim mihi res est), nonne intellegis eadem uti posse et haruspices et fulguratores et interpretes ostentorum et augures et sortilegos et Chaldaeos? Quorum generum nullum est, ex quo non aliquid, sicut praedictum sit, evaserit. Ergo aut ea quoque genera divinandi sunt quae tu rectissume improbas, aut, si ea non sunt, non intellego cur haec duo sint quae relinquis. Qua ergo ratione haec inducis, eadem illa possunt esse quae tollis. | Guarda un po', ti prego, caro Cratippo, quale somiglianza ci sia tra queste due argomentazioni; poiché io non riesco a vederla. Gli occhi, quando vedono giusto, si servono di una sensazione dataci dalla natura; le anime, se qualche volta o nell'esaltazione o nel sogno han visto cose che poi si avverano, hanno avuto dalla loro la fortuna e il caso; a meno che tu non creda che quelli che considerano i sogni nient'altro che sogni, ti concederanno che, se talvolta un sogno si avvera, ciò non sia accaduto fortuitamente. Ma concediamoti pure quei due presupposti (che i dialettici chiamanolemmatacon parola greca, ma io preferisco parlar latino); in ogni caso l'"aggiunta" (che quelli chiamanopróslepsis) non ti sarà concessa. L'aggiunta di Cratippo è questa: "Vi sono innumerevoli presentimenti non casuali". Io, invece, dico che non ce n'è nemmeno uno: vedi quanto è grande il dissenso; e, una volta che quell'aggiunta non viene concessa, nessuna conclusione si può raggiungere. Ma, secondo lui, sono io uno sfrontato, nel non voler ammettere quell'aggiunta, mentre è tanto evidente. Che cosa è evidente? "Che molte predizioni risultano vere," risponde. E che dire allora del fatto che molte di più risultano false? Proprio questa incostanza di risultati, che è caratteristica del caso, non dovrà dimostrarci che dal caso, noti da una legge di natura, essi dipendono? Inoltre, se codesta tua argomentazione è vera, caro Cratippo (dal momento che è con te che sto attualmente discutendo), non ti accorgi che di essa possono servirsi egualmente gli arùspici, gli interpreti dei fulmini e dei prodìgi, gli àuguri, gli estrattori di sorti, i caldei? Di tutte queste forme di divinazione non ce n'è nemmeno una in base a cui, una volta su tante, l'evento non sia stato conforme alla predizione. Dunque o anche queste forme di divinazione, che tu giustissimamente ripudii, sono valide, o, se non lo sono, non capisco perché lo siano quelle due sole che tu ammetti. Grazie allo stesso ragionamento con cui tu dài il benestare a quelle, possono avere il diritto di esistere anche quelle che neghi. |
Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui. Etiam planius: nihil in aedibus cuiusquam, ne in <hospitis> quidem, nihil in locis communibus, ne in fanis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem Romanum, denique nihil istum, quod ad oculos animumque acciderit, neque privati neque publici neque profani neque sacri tota in Sicilia reliquisse. | Sembra che io esageri: prestate attenzione anche a come lo dico. Infatti non abbraccio tutte le cose per accrescere il discorso né il crimine. Quando dico che costui in tutta la provincia non ha lasciato nulla di questo tipo, sappiate che io parlo Latino e non in modo accusatorio. Parlo anche più chiaramente: non ha lasciato niente nelle case di nessuno, neppure in quelle di un ospite, nulla nei luoghi pubblici, neppure nei templi, niente presso un Siculo, niente presso un cittadino romano; infine nulla che sia capitato sotto i suoi occhi e nei suoi desideri, né di privato, né di pubblico, né di profano, né di sacro in tutta la Sicilia. |
honoratorum virorum laudes in contione memorentur, easque etiam <et> cantus ad tibicinem prosequatur, cui nomen neniae, quo vocabulo etiam <apud> Graecos cantus lugubres nominantur.Atticus:: Gaudeo nostra iura ad naturam accommodari, maiorumque sapientia admodum delector. Sed requiro ut ceteri sumptus sic etiam sepulcrorum modum.Marcus : Recte requiris. Quos enim ad sumptus progressa iam ista res sit, in C. Figuli sepulcro vidisse [te] credo.Minimam olim istius rei fuisse cupiditatem multa extant exempla maiorum. Nostrae quidem legis interpretes, quo capite iubentur sumptum et luctum removere a deorum Manium iure, hoc intellegant in primis, sepulcrorum magnificentiam esse minuendam. | si ricordino in un discorso commemorativo i meriti dei defunti insigni, e che questi siano seguiti da un canto accompagnato dai flautisti, detto nenia, nome col quale anche [presso] i Greci vengono denominate le cantilene da lutto.XXV.Attico:Sono contento che le nostre leggi si accordino con la natura, e sono oltremodo soddisfatto della saggezza dei nostri antenati. Tuttavia mi aspetterei, come per le altre spese, così anche una limitazione per quella dei sepolcri.Marco:Giusta esigenza, la tua; a quale sperpero di denaro infatti si sia ormai giunti, credo che te ne sarai fatta un'idea dal sepolcro di G. Figulo. Molti esempi dei nostri antenati testimoniano che un tempo non ci fu alcuna ambizione di questa portata. Infatti gli interpreti della nostra legge, in quel paragrafo dove si dispone di allontanare dal diritto degli dèi Mani le spese ed il lutto, questo dovrebbero capire soprattutto, che si dovrebbe limitare il lusso delle tombe. |
Quam palmam utinam di immortales, Scipio, tibi reservent, ut avi reliquias persequare! cuius a morte tertius hic et tricesimus annus est, sed memoriam illius viri omnes excipient anni consequentes. Anno ante me censorem mortuus est, novem annis post meum consulatum, cum consul iterum me consule creatus esset. Num igitur, si ad centesimum annum vixisset, senectutis eum suae paeniteret? Nec enim excursione nec saltu nec eminus hastis aut comminus gladiis uteretur, sed consilio, ratione, sententia; quae nisi essent in senibus, non summum consilium maiores nostri appellassent senatum. | Gli dèi immortali ti riservino questa palma, o Scipione, e ti concedano di portare a termine l'impresa lasciata incompiuta da tuo nonno! Sono passati trentatré anni dalla sua morte, ma tutti gli anni a venire manterranno vivo il ricordo di quel grande. Morì l'anno prima della mia censura, nove anni dopo il mio consolato durante il quale fu eletto console per la seconda volta. Ebbene, se fosse vissuto sino a cento anni, sarebbe forse scontento della propria vecchiaia? Certo non potrebbe fare incursioni, saltare, combattere da lontano con la lancia o da vicino con il gladio, ma farebbe valere il senno, la ragione, la capacità di giudizio. Se tali qualità non fossero nei vecchi, i nostri antenati non avrebbero chiamato "senato" il consiglio supremo. |
Cum vero de imperio decertatur belloque quaeritur gloria, causas omnino subesse tamen oportet easdem, quas dixi paulo ante iustas causas esse bellorum. Sed ea bella, quibus imperii proposita gloria est, minus acerbe gerenda sunt. Ut enim cum civi aliter contendimus, si est inimicus, aliter si competitor (cum altero certamen honoris et dignitatis est, cum altero capitis et famae) sic cum Celtiberis, cum Cimbris bellum ut cum inimicis gerebatur, uter esset, non uter imperaret, cum Latinis, Sabinis, Samnitibus, Poenis, Pyrrho de imperio dimicabatur.Poeni foedifragi, crudelis Hannibal, reliqui iustiores. Pyrrhi quidem de captivis reddendis illa praeclara:Nec mi aurum posco nec mi pretium dederitis,Nec cauponantes bellum, sed belligerantesFerro, non auro vitam cernamus utrique.Vosne velit an me regnare era, quidve ferat Fors,Virtute experiamur. Et hoc simul accipe dictum:Quorum virtuti belli Fortuna pepercit,Eorundem libertati me parcere certum est.Dono, ducite, doque volentibus cum magnis dis. | Quando, poi, si combatte per la supremazia, e con la guerra si cerca la gloria, occorre che anche allora le ostilità siano aperte per quelle stesse ragioni che, come ho detto poco fa anzi, sono giuste ragioni di guerra. Queste guerre, però, che hanno come scopo la gloria del primato, si devono condurre con meno asprezza. Come, con un cittadino, si contende in un modo, se è un nemico personale, in un altro, se è un competitore politico (con questo la lotta è per l'onore e la dignità, con quello per la vita e il buon nome), cosi coi Celtiberi e coi Cimbri si guerreggiava come con veri nemici, non per il primato, ma per l'esistenza; per contro, coi Latini, coi Sabini, coi Sanniti, coi Cartaginesi, con Pirro si combatteva per il primato. Fedifraghi e spergiuri furono i Cartaginesi, crudele fu Annibale; più giusti gli altri. Splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul riscatto dei prigionieri:Io non chiedo oro per me, e voi a me non offrirete riscatto. Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati: non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte. Sperimentiamo col valore se la Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo se altro ci arrechi la sorte. E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciare la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la vita. Ecco, riprendeteli con voi: io ve li offro in dono col favore del cielo. |
Existit autem hoc loco quaedam quaestio subdifficilis, num quando amici novi, digni amicitia, veteribus sint anteponendi, ut equis vetulis teneros anteponere solemus. Indigna homine dubitatio! Non enim debent esse amicitiarum sicut aliarum rerum satietates; veterrima quaeque, ut ea vina, quae vetustatem ferunt, esse debet suavissima; verumque illud est, quod dicitur, multos modios salis simul edendos esse, ut amicitiae munus expletum sit. Novitates autem si spem adferunt, ut tamquam in herbis non fallacibus fructus appareat, non sunt illae quidem repudiandae, vetustas tamen suo loco conservanda; maxima est enim vis vetustatis et consuetudinis.Quin ipso equo, cuius modo feci mentionem, si nulla res impediat, nemo est, quin eo, quo consuevit, libentius utatur quam intractato et novo. Nec vero in hoc, quod est animal, sed in iis etiam, quae sunt inanima, consuetudo valet, quon locis ipsis delectemur, montuosis etiam et silvestribus, in quibus diutius commorati sumus. Sed maximum est in amicitia parem esse inferiori. Saepe enim excellentiae quaedam sunt, qualis erat Scipionis in nostro, ut ita dicam, grege. Numquam se ille Philo, numquam Rupilio, numquam Mummio anteposuit, numquam inferioris ordinis amicis, Q. vero Maximum fratrem, egregium virum omnino, sibi nequaquam parem, quod is anteibat aetate, tamquam superiorem colebat suosque omnes per se posse esse ampliores volebat. Quod faciendum imitandumque est omnibus, ut, si quam praestantiam virtutis, ingenii, fortunae consecuti sint, impertiant ea suis communicentque cum proximis, ut, si parentibus nati sint humilibus, si propinquos habeant imbecilliore vel animo vel fortuna, eorum augeant opes eisque honori sint et dignitati. Ut in fabulis, qui aliquamdiu propter ignorationem stirpis et generis in famulatu fuerunt, cum cogniti sunt et aut deorum aut regum filii inventi, retinent tamen caritatem in pastores, quos patres multos annos esse duxerunt. Quod est multo profecto magis in veris patribus certisque faciendum. Fructus enim ingenii et virtutis omnisque praestantiae tum maximus capitur, cum in proximum quemque confertur. Ut igitur ii qui sunt in amicitiae coniunctionisque necessitudine superiores, exaequare se cum inferioribus debent, sic inferiores non dolere se a suis aut ingenio aut fortuna aut dignitate superari. Quorum plerique aut queruntur semper aliquid aut etiam exprobrant, eoque magis, si habere se putant, quod officiose et amice et cum labore aliquo suo factum queant dicere. Odiosum sane genus hominum officia exprobrantium; quae meminisse debet is in quem conlata sunt, non commemorare, qui contulit. Quam ob rem ut ii qui superiores sunt submittere se debent in amicitia, sic quodam modo inferiores extollere. Sunt enim quidam qui molestas amicitias faciunt, cum ipsi se contemni putant; quod non fere contingit nisi iis qui etiam contemnendos se arbitrantur; qui hac opinione non modo verbis sed etiam opere levandi sunt. Tantum autem cuique tribuendum, primum quantum ipse efficere possis, deinde etiam quantum ille quem diligas atque adiuves, sustinere. Non enim neque tu possis, quamvis excellas, omnes tuos ad honores amplissimos perducere, ut Scipio P. Rupilium potuit consulem efficere, fratrem eius L. non potuit. Quod si etiam possis quidvis deferre ad alterum, videndum est tamen, quid ille possit sustinere. Omnino amicitiae corroboratis iam confirmatisque et ingeniis et aetatibus iudicandae sunt, nec si qui ineunte aetate venandi aut pilae studiosi fuerunt, eos habere necessarios quos tum eodem studio praeditos dilexerunt. Isto enim modo nutrices et paedagogi iure vetustatis plurimum benevolentiae postulabunt; qui neglegendi quidem non sunt sed alio quodam modo aestimandi. Aliter amicitiae stabiles permanere non possunt. Dispares enim mores disparia studia sequuntur, quorum dissimilitudo dissociat amicitias; nec ob aliam causam ullam boni improbis, improbi bonis amici esse non possunt, nisi quod tanta est inter eos, quanta maxima potest esse, morum studiorumque distantia. | "Ma sorge a questo punto una questione piuttosto difficile: se mai, talvolta, le nuove conoscenze, degne di amicizia, debbano essere preferite a quelle vecchie, come siamo soliti preferire ai cavalli piuttosto vecchi quelli giovani. Dubbio indegno dell'uomo! Infatti, non deve esserci sazietà nell'amicizia, come nelle altre cose: le amicizie più antiche, come quei vini che sopportano l'invecchiamento, devono essere molto piacevoli ed è vero quello che si dice, ovvero che si devono mangiare insieme molte moggia di sale affinché si raggiunga la piena intesa (lett. "favore") dell'amicizia. Però, le novità, se portano speranza, al punto che appaia un frutto in germogli non sterili, non devono essere in vero respinte; tuttavia, quelle vecchie devono essere conservate al loro posto. E' massima, infatti, la forza di una consuetudine antica. Anzi, nel caso stesso del cavallo, di cui ho appena parlato, se niente lo impedisce, non c'è nessuno che non usi più volentieri quello a cui è abituato, piuttosto che uno non domato e sconosciuto. In realtà, la consuetudine ha forza non soltanto in questo, che è un animale, ma anche in quelle cose che sono inanimate, poiché siamo allietati dagli stessi luoghi, anche se montuosi e selvaggi, nei quali ci siamo trattenuti più a lungo. Ma nell'amicizia la cosa più importante è essere pari ad uno inferiore. Spesso, infatti, ci sono delle eccellenze, quale era quella di Scipione nel nostro, per così dire, gregge. Mai egli si antepose a Filo, mai a Rupilio, mai a Mummio, mai agli amici di grado sociale inferiore. Inoltre, onorava come un superiore il fratello Quinto Massimo, uomo egregio in tutto, ma in nessun modo pari a lui, poiché egli lo precedeva di età, e voleva che tutti i suoi cari potessero essere grazie a lui più elevati di posizione. Questo deve essere fatto e imitato da tutti, affinché, se hanno raggiunto qualche eccellenza in virtù, ingegno o fortuna, la offrano ai propri cari e la condividano con i parenti, affinché, se sono nati da genitori umili, se hanno parenti modesti intellettualmente o per condizioni economiche o poco fortunati, accrescano i loro mezzi e siano per loro fonte di onore e prestigio.Come nelle rappresentazioni teatrali, coloro che sono stati per qualche tempo in condizione di servitù a causa dell'ignoranza della loro stirpe e provenienza, quando sono stati riconosciuti o scoperti come figli di re o di dei, tuttavia, conservano l'amicizia per i pastori che hanno creduto per molti anni essere loro padri. E questo certo si deve molto più fare trattandosi di padri veri e certi. Infatti, il frutto dell'ingegno, della virtù e di ogni eccellenza viene raccolto massimo proprio quando è condiviso con qualcuno di vicino. Come, dunque, quelli che sono superiori nel legame di amicizia o di parentela, devono mettersi alla pari con gli inferiori, così gli inferiori non devono dolersi se sono superati dai propri cari o in ingegno o in fortuna o in prestigio. Di questi, i più si lamentano sempre di qualcosa o anche rimproverano, e tanto più se pensano di avere qualcosa che possano dire di aver fatto premurosamente, amichevolmente e con qualche loro fatica. Certamente è odioso il genere di uomini che rinfaccia i favori, che li deve ricordare colui al quale vengono fatti e non colui che li ha fatti. Per questo motivo, così come coloro che sono superiori devono abbassarsi di grado in amicizia, gli inferiori devono in qualche modo elevarsi. Infatti, ci sono alcuni che ritengono le amicizie fastidiose, quando loro stessi pensano di essere disprezzati, ciò generalmente non accade, se non a coloro che si ritengono degni di essere disprezzati i quali devono essere liberati da questa opinione non solo con le parole, ma anche con i fatti. D'altronde, bisogna concedere a ciascuno in primo luogo tanto quanto tu stesso possa fare, in secondo luogo, anche quanto colui, che tu apprezzi e aiuti, possa sostenere. Infatti, tu non potresti, nonostante la tua eccellenza, elevare tutti i tuoi cari alle più alte cariche, come Scipione ha potuto rendere console Publio Rupilio, ma non ha potuto fare altrettanto per suo fratello Lucio. Che se anche potessi conferire ad un altro qualunque cosa, tuttavia, bisogna fare attenzione a che cosa egli possa sostenere. Generalmente, le amicizie devono essere decise quando ormai il carattere e l'età si siano irrobustiti e rafforzati, e non se alcuni sono stati appassionati della caccia o del gioco della palla in giovane età, devono essere considerati amici quelli che allora prediligevano perché avevano la stessa passione. Infatti, in questo modo, nutrici e pedagoghi, per diritto di anzianità, pretenderanno il più grande affetto, che certamente non devono essere trascurati, ma considerati in qualche altro modo. Infatti, differenti passioni seguono differenti abitudini, la cui diversità divide le amicizie e gli onesti non possono essere amici dei disonesti, né i disonesti degli onesti per nessun altro motivo se non quello per cui fra loro c'è tanta differenza di abitudini e passioni, quanta può essere la più grande che vi sia." |
Ego enim Catonem tuum ut civem, ut senatorem, ut imperatorem, ut virum denique cum prudentia et diligentia tum omni virtute excellentem probo; orationes autem eius ut illis temporibus valde laudo—significant enim formam quandam ingeni, sed admodum impolitam et plane rudem—, Origines vero cum omnibus oratoris laudibus refertas diceres et Catonem cum Philisto et Thucydide comparares, Brutone te id censebas an mihi probaturum? quos enim ne e Graecis quidem quisquam imitari potest, his tu comparas hominem Tusculanum nondum suspicantem quale esset copiose et ornate dicere. | Il tuo Catone io lo apprezzo come cittadino, come senatore, come generale, infine come un personaggio eccellente per sagacia e diligente operosità, e anche per tutte le virtù; le sue orazioni le trovo assai lodevoli per quel tempo - infatti lasciano intravedere come un abbozzo di talento, ma ben poco rifinito e del tutto grezzo -; ma quanto alle Origini, quando dicevi che erano ricolme di ogni pregio oratorio, e paragonavi Catone con Filisto e Tucidide, credevi che saresti riuscito a convincere di ciò Bruto o me? A quelli che nessuno neanche tra i greci è capace di imitare, tu paragoni un uomo di Tuscolo, che ancora nemmeno immaginava cosa fosse parlare con eloquenza ricca e adorna. |
Nunc vero, inquit, si es animo vacuo, expone nobis quod quaerimus. Quidnam est id? inquam. Quod mihi nuper in Tusculano inchoavisti de oratoribus: quando esse coepissent, qui etiam et quales fuissent. quem ego sermonem cum ad Brutum tuum vel nostrum potius detulissem, magnopere hic audire se velle dixit. itaque hunc elegimus diem, cum te sciremus esse vacuum. quare, si tibi est commodum, ede illa quae coeperas et Bruto et mihi. | Ora però," disse "se non hai altri pensieri, esponici ciò che ti chiediamo." "E di che si tratta?" dissi. "Di quel discorso sugli oratori che poco tempo fa avevi iniziato a farmi in casa tua, a Tuscolo: quando ebbe inizio la loro attività, chi furono, e quali ne furono le peculiarità. Questo discorso io l'ho riferito al tuo -anzi, al nostro - Bruto; ed egli ha manifestato un vivo desiderio di ascoltarlo. Perciò abbiamo scelto questo giorno, in cui ti sapevamo libero. Dunque, se ti va, esponi, per Bruto e per me, quanto avevi incominciato." |
Diogenes contra "Num te emere coegit, qui ne hortatus quidem est? Ille, quod non placebat, proscripsit, tu quod placebat, emisti. Quod si qui proscribunt villam bonam beneque aedificatam non existimantur fefellisse, etiam si illa nec bona est nec aedificata ratione, multo minus, qui domum non laudarunt. Ubi enim iudicium emptoris est, ibi fraus venditoris quae potest esse? Sin autem dictum non omne praestandum est, quod dictum non est, id praestandum putas? Quid vero est stultius quam venditorem eius rei, quam vendat, vitia narrare? Quid autem tam absurdum quam si domini iussu ita praeco praedicet: "6domum pestilentem vendo?" | E Diogene di rimando: "Ti ha costretto forse a comprare, chi non ti ha neanche esortato a farlo? Quello l'ha messa in vendita, perché non gli piaceva, tu l'hai comprata, perché ti piaceva. Se quanti mettono in vendita una villa come bella e ben costruita non vengono ritenuti frodatori, anche se la villa non è né bella né ben costruita, molto meno dovrebbero esserlo considerati coloro che non hanno decantato i pregi della casa. Quando, difatti, la decisione è lasciata al compratore, quale potrebbe essere la frode del venditore? Se, poi, non bisogna mantenere tutto quello che è stato detto espressamente, pensi che si debba mantenere ciò che non è stato detto espressamente? E che c'è, poi, di più sciocco del fatto che il venditore elenchi i difetti della sua merce, e che cosa di più assurdo, se il banditore, per ordine del padrone, andasse gridando: vendo una casa malsana"? |
Quid est, quod non possit isto modo ex conexo transferri ad coniunctionum negationem? Et quidem aliis modis easdem res efferre possumus. Modo dixi: 'In sphaera maximi orbes medii inter se dividuntur'; possum dicere: 'Si in sphaera maximi orbes erunt', possum dicere: 'Quia in sphaera maximi orbes erunt'. Multa genera sunt enuntiandi nec ullum distortius quam hoc, quo Chrysippus sperat Chaldaeos contentos Stoicorum causa fore. Illorum tamen nemo ita loquitur; maius est enim has contortiones orationis quam signorum ortus obitusque perdiscere. | Che cosa impedirebbe di passare in tal modo da una deduzione alla negazione di proposizioni? Anzi, a dire il vero, possiamo esporre in altri termini gli stessi concetti. Poco fa ho detto: "In una sfera i diametri si intersecano a metà"; potrei dire: "Se in una sfera ci saranno diametri", oppure: "Poiché in una sfera ci saranno diametri". Varie sono le forme di enunciazione, ma nessuna è più distorta di quella cui Crisippo spera che si attengano i Caldei per fare un piacere agli stoici. |
Sed ecce in manibus vir et praestantissimo ingenio et flagranti studio et doctus a puero C. Gracchus: noli enim putare quemquam, Brute, pleniorem aut uberiorem ad dicendum fuisse. Et ille: sic prorsus, inquit, existumo atque istum de superioribus paene solum lego. Immo plane, inquam, Brute, legas censeo. damnum enim illius immaturo interitu res Romanae Latinaeque litterae fecerunt. | Ma ecco che arriviamo a un uomo d'ingegno eccellente, ardente di attività, e ben istruito fino dall'infanzia, Gaio Gracco. Non credere, Bruto, che vi sia stato alcuno più pienamente e riccamente dotato per l'eloquenza." E lui: "La penso proprio così," disse "e praticamente lui solo io leggo tra gli oratori di un tempo". A proprio mia opinione, Bruto," dissi "che tu debba leggerlo. Lo stato romano e le lettere latine hanno infatti subito un danno dalla sua morte prematura. |
Uno in genere relinqui videbatur vocis suffragium, quod ipse Cassius exceperat, perduellionis. Dedit huic quoque iudicio C. Coelius tabellam, doluitque quoad vixit se ut opprimeret C. Popillium nocuisse rei publicae. Et avus quidem noster singulari virtute in hoc municipio quoad vixit restitit M.Gratidio cuius in matrimonio sororem aviam nostram habebat, ferenti legem tabellariam. Excitabat enim fluctus in simpulo ut dicitur Gratidius, quos post filius eius Marius in Aegaeo excitavit mari.Ac nostro quidem avo, cum res esset ad se delata, M. Scaurus consul: 'Utinam' inquit 'M. Cicero isto animo atque virtute in summa re publica nobiscum versari quam in municipali maluisses!' | In un solo genere di dichiarazioni, per il quale aveva fatto eccezione lo stesso Cassio, sembrava essere lasciato il voto verbale, quello di alto tradimento. Ma anche a questa sorte di processi C. Celio impose la scheda, e finché visse si rammaricò di avere procurato un danno allo Stato pur di far condannare G. Popilio. Anche il nostro nonno, eccezionalmente probo tra i cittadini di questo municipio, finché visse, si oppose a M. Gratidio che proponeva una legge tabellaria, quantunque ne avesse sposato la sorella, che era nostra nonna; infatti Gratidio, com'egli era solito dire, sollevava tempeste in un bicchiere, quelle che poi suo figlio Mario sollevò nel mare Egeo. Ed a nostro nonno il console M. Scauro, informato della cosa, disse: "Dio volesse, M. Cicerone, che con questo tuo carattere e questo tuo rigore morale tu avessi preferito occuparti di tutto lo Stato insieme a noi, anziché di questo tuo municipio!" |
Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas. Ex quo, quamquam hoc videbitur fortasse cuipiam durius, tamen audeamus imitari Stoicos, qui studiose exquirunt, unde verba sint ducta, credamusque, quia fiat, quod dictum est appellatam fidem. Sed iniustitiae genera duo sunt, unum eorum, qui inferunt, alterum eorum, qui ab is, quibus infertur, si possunt, non propulsant iniuriam. Nam qui iniuste impetum in quempiam facit aut ira aut aliqua perturbatione incitatus, is quasi manus afferre videtur socio; qui autem non defendit nec obsistit, si potest, iniuriae, tam est in vitio, quam si parentes aut amicos aut patriam deserat. | Fondamento poi della giustizia è la lealtà, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti. Perciò - ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata - oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che "fede" sia stata chiamata così perché "si fa" quel che è stato promesso. Vi sono, poi, due tipi d'ingiustizia: l'uno è di coloro che fanno una offesa; l'altro, di quelli che, pur potendo, non la respingono da quanti la subiscono. Difatti, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi metta le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non respinge e non contrasta l'offesa non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria. |
Quemadmodum officia ducerentur ab honestate, Marce fili, atque ab omni genere virtutis, satis explicatum arbitror libro superiore. Sequitur ut haec officiorum genera persequar, quae pertinent ad vitae cultum et ad earum rerum, quibus utuntur homines, facultatem, ad opes, ad copias [; in quo tum quaeri dixi, quid utile, quid inutile, tum ex utilibus quid utilius aut quid maxime utile]. De quibus dicere adgrediar, si pauca prius de instituto ac de iudicio meo dixero. | In qual modo i doveri derivino dall'onesto, o Marco figlio mio, e da ogni genere di virtù, penso di averlo abbastanza spiegato nel libro precedente. Ne consegue la trattazione di questi generi di doveri che riguardano il tenor di vita e il possesso di quei mezzi di cui si servono gli uomini, la potenza e le richezze; [a tal riguardo allora ho detto che ci si chiede che cosa è utile e cosa inutile, e tra due cose utili quale sia la più utile o cosa sia massimamente utile]. Inizierò a trattare di tali argomenti; dopo aver detto poche cose sulle mie intenzioni e sul mio criterio. |
Nec haec a sapientissimis legum scriptoribus neglecta sunt. Nam et Atheniensium in more a Cecrope ut aiunt permansit hoc ius terra humandi, quod quom proxumi fecerant obductaque terra erat, frugibus obserebatur, ut sinus et gremium quasi matris mortuo tribueretur, solum autem frugibus expiatum ut vivis redderetur. Sequebantur epulae quas inibant propinqui coronati, apud quos de mortui laude quom siquid veri erat praedicatum - nam mentiri nefas habebatur -, iusta confecta erant. | Ciò non fu dimenticato dai più saggi legislatori. Infatti anche nella consuetudine degli Ateniesi, fin dai tempi di quel primo suo re Cecrope, rimase questa norma di seppellire nella terra; ed una volta che i parenti avevano adempiuto questa disposizione e la terra era stata gettata sul cadavere, veniva seminata a grano, quasi per dare al morto il seno ed il grembo della madre, e perché il suolo purificato dalle messi venisse restituito ai vivi. Seguiva un banchetto, cui i parenti intervenivano col capo incoronato, e presso di essi si esaltavano, se ve n'erano - infatti era ritenuto empio il mentire -, i meriti del morto, [e] le cerimonie erano finite. |
Et hercules eae quidem exstant: ipsae enim familiae sua quasi ornamenta ac monumenta servabant et ad usum, si quis eiusdem generis occidisset, et ad memoriam laudum domesticarum et ad illustrandam nobilitatem suam. quamquam his laudationibus historia rerum nostrarum est facta mendosior. multa enim scripta sunt in eis quae facta non sunt: falsi triumphi, plures consulatus, genera etiam falsa et ad plebem transitiones, cum homines humiliores in alienum eiusdem nominis infunderentur genus; ut si ego me a M'.Tullio esse dicerem, qui patricius cum Ser. Sulpicio consul anno x post exactos reges fuit. | E questi ci restano, diamine! Le famiglie stesse li conservavano quasi come titoli d'onore e come documenti, per farne uso in caso di morte di altri membri della stessa casata, per tramandare la memoria delle glorie familiari, e per dar lustro alla propria nobiltà. Tuttavia da questi elogi la nostra storia nazionale è stata alquanto alterata. Vi si trovano scritte molte cose mai accadute: trionfi falsi, un numero esagerato di consolati, anche genealogie false, e passaggi alla plebe, quando si riversavano personaggi di origine più umile in un'altra famiglia dallo stesso nome; come se io dicessi di discendere da Manio Tullio, patrizio che fu console con Servio Sulpicio dieci anni dopo la cacciata dei re. |
Nisi vero cuipiam L. Caesar, vir fortissimus et amantissimus rei publicae, crudelior nudius tertius visus est, cum sororis suae, feminae lectissimae, virum praesentem et audientem vita privandum esse dixit, cum avum suum iussu consulis interfectum filiumque eius inpuberem legatum a patre missum in carcere necatum esse dixit. Quorum quod simile factum, quod initum delendae rei publicae consilium? Largitionis voluntas tum in re publica versata est et partium quaedam contentio.Atque illo tempore huius avus Lentuli, vir clarissimus, armatus Gracchum est persecutus. Ille etiam grave tum vulnus accepit, ne quid de summa re publica deminueretur; hic ad evertenda rei publicae fundamenta Gallos accersit, servitia concitat, Catilinam vocat, adtribuit nos trucidandos Cethego et ceteros civis interficiendos Gfabinio, urbem inflammandam Cassio, totam Italiam vastandam diri piendamque Catilinae. Vereamini censeo, ne in hoc scelere tam immani ac nefando nimis aliquid severe statuisse videamini; multo magis est verendum, ne remissione poenas crudeles in patriam quam ne severitate animadversionis nimis vehementes in acerbissimos hostis fuisse videamur. | O forse qualcuno, l'altro ieri, ha giudicato troppo crudele un uomo così coraggioso e devoto allo Stato come Lucio Cesare quando ha affermato, in presenza del marito di sua sorella, donna della massima rispettabilità, che bisognava condannarlo a morte e ha ricordato che era stata giusta la morte, ordinata dal console, di un suo avo e quella, in prigione, del giovane figlio di questi, inviato dal padre a trattare? Avevano compiuto azioni paragonabili alle attuali? Volevano distruggere lo Stato? Allora si trattava di richieste di largizioni e di conflitti tra le parti. E in quel tempo, l'antenato di Lentulo, un uomo del massimo prestigio, combatté Gracco e restò gravemente ferito perché lo Stato non venisse minimamente danneggiato. Lentulo, invece, per scalzare le fondamenta dello Stato ricorre ai Galli, chiama gli schiavi alla rivolta, fa venire Catilina, ordina a Cetego di trucidarci e a Gabinio di eliminare tutto il resto della cittadinanza, a Cassio di incendiare la città, a Catilina di devastare e di saccheggiare l'Italia intera! Quel che dovete temere, a mio giudizio, è che le vostre disposizioni appaiano troppo blande in presenza di un crimine così immane e mostruoso! Ma molto di più dobbiamo temere di apparire crudeli verso la patria se saremo miti nella condanna, piuttosto che duri verso i nostri peggiori nemici se saremo inflessibili! |
Tullius s.d. Terentiae et Tulliae et Ciceroni suis.Ego minus saepe do ad vos litteras, quam possum, propterea quod cum omnia mihi tempora sunt misera, tum vero, cum aut scribo ad vos aut vestras lego, conficior lacrimis sic, ut ferre non possim. Quod utinam minus vitae cupidi fuissemus! certe nihil aut non multum in vita mali vidissemus. Quod si nos ad aliquam alicuius commodi aliquando recuperandi spem fortuna reservavit, minus est erratum a nobis; si haec mala fixa sunt, ego vero te quam primum, mea vita, cupio videre et in tuo complexu emori, quoniam neque di, quos tu castissime coluisti, neque homines, quibus ego semper servivi, nobis gratiam rettulerunt.Nos Brundisii apud M. Laenium Flaccum dies XIII fuimus, virum optimum, qui periculum fortunarum et capitis sui prae mea salute neglexit neque legis improbissimae poena deductus est, quo minus hospitii et amicitiae ius officiumque praestaret: huic utinam aliquando gratiam referre possimus! habebimus quidem semper. Brundisio profecti sumus a. d. II K. Mai.: per Macedoniam Cyzicum petebamus. O me perditum! O afflictum! Quid enim? Rogem te, ut venias? Mulierem aegram, et corpore et animo confectam. Non rogem? Sine te igitur sim? Opinor, sic agam: si est spes nostri reditus, eam confirmes et rem adiuves; sin, ut ego metuo, transactum est, quoquo modo potes ad me fac venias. Unum hoc scito: si te habebo, non mihi videbor plane perisse. Sed quid Tulliola mea fiet? iam id vos videte: mihi deest consilium. Sed certe, quoquo modo se res habebit, illius misellae et matrimonio et famae serviendum est. Quid? Cicero meus quid aget? iste vero sit in sinu semper et complexu meo. Non queo plura iam scribere: impedit maeror. Tu quid egeris, nescio: utrum aliquid teneas an, quod metuo, plane sis spoliata. Pisonem, ut scribis, spero fore semper nostrum. De familia liberanda nihil est quod te moveat: primum tuis ita promissum est, te facturam esse, ut quisque esset meritus; est autem in officio adhuc Orpheus, praeterea magno opere nemo; ceterorum servorum ea causa est, ut, si res a nobis abisset, liberti nostri essent, si obtinere potuissent, sin ad nos pertineret, servirent praeterquam oppido pauci. Sed haec minora sunt. Tu quod me hortaris, ut animo sim magno et spem habeam recuperandae salutis, id velim sit eiusmodi, ut recte sperare possimus. Nunc miser quando tuas iam litteras accipiam? quis ad me perferet? quas ego exspectassem Brundisii, si esset licitum per nautas, qui tempestatem praetermittere noluerunt. Quod reliquum est, sustenta te, mea Terentia, ut potes. Honestissime viximus, floruimus: non vitium nostrum, sed virtus nostra nos afflixit; peccatum est nullum, nisi quod non una animam cum ornamentis amisimus; sed, si hoc fuit liberis nostris gratius, nos vivere, cetera, quamquam ferenda non sunt, feramus. Atqui ego, qui te confirmo, ipse me non possum. Clodium Philetaerum, quod valetudine oculorum impediebatur, hominem fidelem, remisi. Sallustius officio vincit omnes. Pescennius est perbenevolus nobis, quem semper spero tui fore observantem. Sicca dixerat se mecum fore, sed Brundisio discessit. Cura, quoad potes, ut valeas et sic existimes, me vehementius tua miseria quam mea commoveri. Mea Terentia, fidissima atque optima uxor, et mea carissima filiola et spes reliqua nostra, Cicero, valete. Pr. K. Mai. Brundisio. | Tullio (Cicerone) saluta la sua Terenzia e la sua Tullia e il suo Cicerone.Vi scrivo meno di quanto potrei, perché, se ogni istante è miserabile per me, quando poi scrivo a voi o leggo le vostre lettere, allora mi struggo in lacrime, da non poter resistere. Oh, se avessi meno desiderato la vita! Non avrei certamente veduto alcuno o molti mali nella vita stessa. Se dunque la fortuna mi ha risparmiato per qualche speranza di ricuperare prima o poi un poco di felicità, il mio errore non è stato grande; ma se queste sventure sono definitive, desidero vederti al più presto, o vita mia, e fra le tue braccia morire, dal momento che né gli dei, da te purissimamente onorati, né gli uomini, da me sempre serviti, ci contraccambiarono. Sono rimasto a Brindisi, presso Marco Lenio Flacco, tredici giorni. Persona ottima, egli trascurò, per salvarmi, il rischio di perdere i bene e la testa, e non si lasciò dissuadere dalla pena che commina una legge iniquissima, dal compiere i sacri doveri dell'ospitalità e dell'amicizia. Magari un giorno possa io contraccambiargli il beneficio! La riconoscenza sarà comunque eterna. Partii da Brindisi il 30 aprile, diretto a Cizico attraverso la Macedonia. Sono un uomo rovinato, un uomo abbattuto! Come potrei chiederti di raggiungermi, donna malata e stremata nelle forze fisiche e morali? Non te lo chiederò? Rimarrò dunque senza di te? Penso di fare così: se esistono speranze di un mio ritorno, rafforzale e datti da fare in questo senso; se, come temo, la partita è chiusa, cerca di raggiungermi a qualsiasi costo. Questo solo sappi bene: se ti avrò con me, non mi sembrerà di aver perso tutto. Ma che avverrà della mia piccola Tullia? Vedete ormai voi, io non so che ben fare. In ogni caso, è certo che quella poverina deve tener conto sia del suo matrimonio che della sua reputazione. E poi, che farà il mio Cicerone? Egli sì vorrei fosse sempre sulle mie ginocchia, fra le mie braccia. Non posso scrivere oltre, a questo punto; me lo impedisce lo sconforto. Cosa tu faccia lo ignoro, se possiedi qualcosa o, come temo, sia stata spogliata di tutto Pisone, come scrivi, spero sarà sempre dei nostri. Quanto alla liberazione degli schiavi, non c'è motivo di preoccuparti. Anzitutto ai tuoi fu promesso che avresti agito verso ciascuno secondo i suoi meriti, e ligio al suo dovere è tuttora Orfeo, nessun altro assolutamente. Quanto ai rimanenti servi, la cosa sta così: che se ci fossero alienati, divengano nostri liberti, qualora possano ottenerlo; se dipendessero ancora da noi, ci servano, a eccezione di pochissimi. Ma queste sono faccende di minor conto. Quanto alle tue esortazioni di confidare e sperare di riprender vita, vorrei fosse cosa in cui potessimo sperare legittimamente. Ora, infelice, quando più riceverò una tua lettera? Chi me la porterà? L'avrei aspettata a Brindisi, se non l'avessero permesso i marinai, mentre non vollero lasciarsi sfuggire il bel tempo. Per il resto, vivi, o mia Terenzia, col medesimo decoro, come puoi fare. Siamo vissuti floridamente, fummo abbattuti non da una colpa, ma da un merito: nessuna colpa abbiamo commesso, tranne quella di non aver abbandonato la vita insieme ai suoi ornamenti. Ma se fu più gradevole ai nostri figli che noi vivessimo, sopportiamo tutto il resto, per quanto sia insopportabile! Eppure io, che cerco di farti coraggio, non posso darne a me stesso. Ho rimandato indietro Clodio Filetero, elemento fedele, perché angustiato dal male agli occhi. Sallustio supera tutti in zelo; Pescennio è devotissimo a me, e spero sarà sempre riguardoso verso di te. Sicca mi aveva promesso di stare con me, ma poi è partito da Brindisi. Cerca, come puoi, di star sana e, credi che io mi turbo più per la tua infelicità che per la mia. Terenzia mia, fedelissima e ottima moglie, e mia carissima figliola, e tu, speranza mia superstite, Cicerone, state bene. Da Brindisi il 30 aprile. |
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