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] | Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze
Giuditta Bassano
Abstract. This article explores the problem of materials with respect to contemporary semiotic research. The
contribution defines a general problem of including processual aspects in the analysis of materials and artefacts. It
therefore focuses on dust, as a material identified both in a socio-technological sense and focused on by many
contemporary art works. In analyzing dust, a proposed model for the problems posed by materials is outlined, as
including: a figurative dimension, a figural dimension, a thymic dimension, and an aspectual dimension. Some
strengths and weaknesses of this proposal are discussed in the final part of the article.
1. Introduzione
Paul Valéry intitola un capitolo di Degas Danse Dessin “Du sol et de l’informe”, del suolo e dell’informe.
Qui distingue tra oggetti con una “forma nota” – quelli che ci appaiono attraverso la loro “funzione” e che
secondo il poeta “non possiamo più vedere”, come una sedia, un tavolo, una forchetta – e quelli di forma
“sconosciuta”, che Valery definisce “informi”, come per esempio un pezzo di carta accartocciato. Questi
ultimi, privi di ogni sorta di “neutralizzazione” provvista dall’uso, appunto dalle funzioni, secondo Valery
ci costringono a uno sguardo più profondo, e forse più proficuamente ingenuo. Tanto che il poeta
suggerisce un esercizio di allenamento del pensiero “attraverso l’informe” (Valery 1938, pp. 75-76).
Sulla scorta di queste note, pare possibile seguire e forse riaprire i tracciati della riflessione semiotica
sugli artefatti e sulle materie ed elementi1. A costo senza dubbio di una semplificazione2, i lavori condotti
fino ad oggi sembrano concentrati in due indirizzi principali. Da una parte ci sono le ricerche sul senso
degli oggetti, in dialogo con un’antropologia delle tecniche e successivamente con gli studi di design, la
storia delle tecnologie, la filosofia latouriana e il lavoro di Ingold. Dall’altra ci sono quelle dedicate al
campo artistico; luogo d’incontro con la fenomenologia della letteratura, l’estetica, la storia dell’arte.
La divaricazione tra questi terreni d’indagine sembra caratterizzata anche da una progressiva distanza,
più o meno netta, tra approcci. La semiotica degli oggetti mette a fuoco in particolare la dimensione
valoriale e la narratività; si concentra sulle interazioni narrative interoggettive, intraoggettive (Mattozzi,
Sperotto, Poli 2009) e tra artefatti e utilizzatori. Nel caso degli artefatti, da un reattore nucleare a un
muro, passando com’è chiaro per tutti gli “oggetti d’uso quotidiano”, sbattitori, chiavi, spazzolini da
denti, il commercio semiotico è determinato dall’idea dell’uso. Tutti i prodotti di qualche tecnica sono
1
Il modo in cui sono intesi qui i sostantivi “materie” e “sostanze” non ha connessioni con la teoria hjelmsleviana,
che è astratta e a nostro avviso priva di qualsiasi presa analitica sul mondo sensibile. Per “elementi” ci rifacciamo
all’idea del simbolismo classico.
2
È una considerazione che non rende giustizia per esempio agli studi semiotici sul cibo – che non presentano
affatto i tratti della divaricazione analitica individuata di seguito (cfr. per es. Marrone 2016; Marrone e
Giannitrapani, a cura, 2012). Un’altra serie di analisi elusa dalle considerazioni svolte qui è quella di Marsciani
(1995, 2007, 2009, 2012).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
connessi con la fattitività, e l’ANT, all’inizio, ha colto nella semiotica proprio un punto di vista sulla
fattitività. Il che pare valere anche per i materiali, sostanze, elementi. Qui i materiali e le sostanze sono
concepibili come artefatti allo stato virtuale o attuale. Della carta sappiamo che si collega a un “foglio”,
il cemento a un muro, il cotone a indumenti e altri oggetti per tamponare la pelle. Si ha cioè a che fare
perlopiù con percorsi che dipendono da due poli, percorsi che legano materiali da una parte e artefatti
dall’altra, come virtualità e realizzazioni, come parti di un insieme e forme stabilizzabili3. Basta pensare,
per esempio, al concetto di componente tassica nel modello di analisi messo a punto da Floch su Opinel
(1995, pp. 198-230)4, oppure alle considerazioni di Bolchi nella sua celebre analisi di un rasoio femminile
(Semprini 1999, pp. 39-56)5.
Quando invece la disciplina si rivolge all’arte, le dimensioni privilegiate sembrano piuttosto quella
enunciativa e discorsiva. Il lavoro di Omar Calabrese è un riferimento essenziale, e vale, tra molti, uno
studio dedicato ai concetti di figurale e figurativo rispetto alle rappresentazioni pittoriche dell’acqua
(2006); inoltre ci riferiamo a lavori come Deleuze (1981), Marin (1980), Calabrese (1980, 1985), Fabbri
(2020), Corrain (2004, 2016), Lancioni (2012), Migliore (2021), e dell’intera scuola senese (cfr. per es.
Mengoni 2015; Polacci 2012). Nell’arte, e nell’analisi semiotica che vi si dedica, la nozione di materiale
con tutta evidenza si dissolve. I materiali possono essere intesi come ingredienti dei colori pittorici, come
temi o figure di un’installazione, ed emergono infinite “sostanze” – che si tratti di metallo, ossa, diossine,
cenere, cemento 6 etc. – ed elementi (intesi secondo il simbolismo classico) 7 , convocati ora
dall’enunciazione ora dall’enunciato di un’opera, ora da dimensioni intermedie tra le due8. Lo iato tra
queste due direzioni di ricerca appare almeno duplice. Mentre la semiotica degli oggetti ha più o meno
narcotizzato il dialogo con una dimensione estetico-fenomenologica, la semiotica dell’arte ha per parte
sua riflettuto principalmente sulla dimensione estesica del senso. Un altro punto di divergenza riguarda
il ruolo delle questioni legate alla temporalità, oggi forse meno tematizzate nell’analisi degli artefatti9,
ma centrali nell’analisi semiotica del campo artistico. Infatti, liberando sostanze e materie da una
3
Come noto, Barthes aveva riflettuto sulla plastica, dedicandole una sorta di “scomunica sostanziale”: “Più che
una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare,
l’ubiquità resa visibile. […] Più che oggetto essa è traccia di un movimento […]. La sua costituzione è negativa: né
dura né profonda essa deve contentarsi in una qualità sostanziale neutra a dispetto dei suoi vantaggi utilitari: la
resistenza, stato che suppone la semplice sospensione di un abbandono. Nell’ordine poetico delle grandi sostanze
è un materiale sgraziato, sperduto tra l’effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: essa non arriva a
nessun vero prodotto dell’ordine minerale: schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato
la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato” (Barthes
1957, p. 170, corsivi nell’originale). Barthes qui sta pensando a una plastica intesa come materiale. E, forse, Alberto
Burri ha saputo smentirlo liberando nelle proprie opere una “plastica sostanza” con caratteristiche molto diverse.
4
Nonostante Floch stesso (1984) avesse aperto a uno studio degli effetti di senso “fenomenologici” del cemento
impiegato come materiale architettonico.
5 Alcune analisi principali in ambito di semiotica degli oggetti sono in Mangano (2008, 2010); Mattozzi (2006);
Deni (2002); Semprini (1999); Hammad (1989); Marrone e Landowski (2002).
6
Cfr. le opere di Eliseo Mattiacci oggetto di uno studio di Fabbri (2020, pp. 291-303); Balkan Baroque di Marina
Abramovic del 1999; il progetto Yellow Dust: Making Visible Particulate Matter in the Air di Nerea Calvillo, del
2017; i lavori di Daniel Arsham, tra i quali per esempio Fictional Archeology del 2015; Narrow are the Vessels di
Anselm Kiefer del 2012 (tra moltissime opere dell’artista).
7 Rimandiamo a un altro lavoro di Fabbri (2020, pp. 239-254) sull’acqua in Ocean Without a Shore di Bill Viola.
8
Cfr. a questo proposito il lavoro fondamentale di Krauss (1981).
9
Lo si vede con il famoso schema d’analisi derivato dall’analisi di Floch sul coltello Opinel, già citato, il quale
ancora oggi, a dispetto di un aggiornamento proposto da Mattozzi (Mattozzi et al., cit., 2009), è lo schema didattico
più usato. Questo schema fotografa uno stato, provvede una sorta di istantanea dell’uso e del senso degli artefatti.
E in questo sembra simile alle criticità di modelli sviluppati dagli studi di design e progettazione per l’analisi dei
materiali (cfr. Rognoli, Levi 2011, pp. 44-45). Prospettive che cercano qualità degli oggetti in senso aristotelico;
punti di vista che tendono ad eludere la dimensione temporale e processuale.
180
funzione tecnica d’uso, l’arte apre per esse percorsi figurativi illimitati10, percorsi in cui ha rilievo anche
un aspetto nettamente processuale. Basta pensare, per un esempio tra molti, alla serie Ice Watch di Olafur
Eliasson (Fig. 1). Si tratta di un gruppo di installazioni collocate in varie capitali europee tra il 2014 e il
2018; attraverso di esse l’artista islandese ha dato corpo a una riflessione sul tema del cambiamento
climatico. Una serie di blocchi di ghiaccio artico, di diversi metri di diametro ciascuno, era collocata in
cerchio nello spazio pubblico, evocando la configurazione del quadrante di un orologio. I blocchi erano
accessibili ai visitatori, che potevano toccarli, salire su essi, scattare foto, ma la “mostra” aveva una
scadenza cinicamente determinata. Quella connessa allo scioglimento spontaneo dei blocchi, esposti
all’aperto e appoggiati direttamente sulla pavimentazione urbana.
Fig. 1 – Ice Watch, Olafur Eliasson e Minik Rosing, 2018.
Installazione londinese all’esterno di Bloomberg European. Foto
di Charlie Forgham-Bailey (© Olafur Eliasson).
Se i percorsi figurativi attraverso cui il discorso dell’arte fa significare le materie e le sostanze sono fluidi,
imprevedibili, incalcolabili, l’analisi di testi di questo tipo può richiamare l’attenzione dello sguardo
semiotico sul rilievo di una temporalità interna11 inscritta in ogni genere di elementi, sostanze (e artefatti).
Di seguito, questo contributo svolge alcune considerazioni su uno specifico oggetto d’analisi, la polvere
“ordinaria” (Amato 1999, p. 71), tentando di unificare alcuni rilievi degli approcci rapidamente visti.
2. Polvere
La polvere è di difficile definizione12. Non è un elemento nel senso del simbolismo classico – a meno
di non considerarla come unione di terra e aria –, né naturalmente è un materiale, nel senso di “ciò di
cui è fatto qualcosa”. Con la polvere non si fa niente, non si tratta di “carne degli oggetti”, non è “il
corpo di un’opera o di uno strumento” (Fiorani 2000, p. 14). La polvere è una “massa” informe nel
10 Ipotesi abbracciata per esempio da Dagognet (1997, p. 74) e Krauss (cit., pp. 204-206).
11
Semprini (1996, pp. 123) proponeva di pensare agli artefatti come stratificati: “agglomerazioni di strati, intrico di
livelli, sovrapposizione di piani che potrebbe rendere meglio l’idea sia della multidimensionalità virtuale sia del
duplice regime temporale che si applica a ciascuna di queste dimensioni”. Il riferimento a una doppia temporalità
riguarda la proposta di Semprini di pensare a un tempo come corso d’azione, dentro cui gli oggetti si inserirebbero,
e a un tempo come temporalità propria degli oggetti, a sua volta scomponibile in più aspetti.
12
Una stessa vacuità ha interessato il senso delle varie entità connesse al concetto di ombra, cfr. Stoichita (1997);
cfr. anche Dubuffet (1971).
181
senso di Valery, che, in qualche modo, si avvicina all’idea di sostanza. La definizione lessicale articola
questa prossimità: lo Zingarelli ricorda che quando non corrisponde a un materiale, la materia è appunto
un parasinonimo di sostanza. Cioè un “elemento primario di qualcosa” – vaghezza notevole – “di cui
sono esempi i composti chimici”. Per coincidenza con la divaricazione a cui si è accennato sopra,
menzionando una semiotica degli oggetti e gli studi semiotici sull’arte, questa sostanza sui generis è
trattata precipuamente in una storia della tecnologia e delle scienze (Amato 1999; Reynolds 1948;
Beltrame, Houdart, Jungen 2017) e nella critica d’arte (Grazioli 2004; Hennig 2001; cfr. anche Burgio
2011). Amato ricorda una serie di trasformazioni che hanno interessato la polvere da un punto di vista
timico e cognitivo rispetto alle scoperte tecnologiche degli ultimi due secoli:
Un tempo regno inaccessibile, la polvere era al contempo mescolanza e summa di tutte le piccole cose.
Nel Novecento la polvere, analogamente ai contadini dell’ancien régime, è stata sospinta ai margini
della vita. Ha perso il suo ruolo di prima e più comune unità di misura del piccolo. Da normale
compagna di vita è divenuta un insieme di particelle altamente differenziate. E questa differenziazione
della polvere è andata di pari passo con l’indagine scientifica, la produzione industriale e la
regolamentazione della salute pubblica. […] Vulcanologi, meteorologi, geofisici, medici industriali e
igienisti, insieme ad altri specialisti si occuparono ciascuno di un differente particolato. […] Nei
laboratori gli scienziati manipolano l’invisibile. Trasformano i batteri in agenti igienizzanti e fanno
giochi di prestigio con tecnologie in scala molecolare. In questo mondo non c’è più spazio per la
polvere, a meno che non presenti le credenziali di uno specifico particolato. La vecchia polvere mista
e indifferenziata – le gatte sotto il divano – è ora priva di dignità formale. Con così tante conoscenze
sull’invisibile, la polvere ordinaria non ha più diritto al rispetto (Amato 1999, pp. 102-104).
Grazioli scrive alcune righe significative sul rapporto tra polvere e arte:
La polvere in sé non è quasi niente, si disfa sotto le dita, ma anche sotto l’occhio, sotto lo sguardo
che la coglie, eppure è il segno del tempo, del suo trascorrere e insieme del suo restare, deposito
assoluto, presenza in quanto deposito; e insieme immagine, pellicola che rifà nel dettaglio l’oggetto
su cui si deposita, sottile come l’essenza dell’immagine stessa – “infrasottile” – eppure fedele come
un calco (2004, p. 73).
Entrambi gli autori colgono elementi dirimenti di una considerazione della polvere ordinaria in senso
semiotico. Di più, i saggi di Amato e Grazioli aprono a una galleria di discorsi e prospettive analitiche
possibili. Così, traendo da entrambi i lavori alcuni esempi, proveremo a sviluppare un modello che
“sintatticizza” la polvere, cioè la inserisce in sintassi di diverso ordine, in una proposta più generale
relativa all’analisi delle sostanze, discussa oltre, nel § 2.
2.1. Un “tritume”
Quali sono i tratti figurativi di quello che a vario titolo chiamiamo polvere? Come si trasferiscono su
altre sostanze? Gli usi linguistici come “polvere di riso”, “polvere di stelle” ricordano che la polvere è
un composto granulare, discreto – come opposto a compatto nel senso in cui Françoise Bastide (1987,
p. 348) usa questi termini – e spesso aereo. In questo senso le “piogge d’oro” della mitologia greca, il
pepe polverizzato, la farina e la cenere sono tutti parenti stretti della polvere. La contrapposizione tra
polvere e sabbia permette di specificare altri contrasti, quello tra asciutta (la polvere) e bagnata, leggera13
e pesante, ubiqua e localizzata, eterogenea e omogenea, non minerale e minerale.
13
Per Grazioli la leggerezza della polvere è un elemento tipico della sua caratterizzazione in Oriente: “il tema è
importante perché divide chi la vede sospesa e antigravitazionale in forma di pulviscolo volteggiante nei fasci di
182
La polvere si differenzia poi dalla polvere della terra, cioè dal terreno seccato, per il fatto che la prima
è una materia del mondo culturale, la seconda appartiene alla natura – non ha infatti senso parlare di
una polvere lungo il letto di un fiume o su una montagna. Sia chiaro che questa è un’articolazione degli
ultimi due secoli, sia perché prima la polvere per come ne discutiamo qui non esisteva, sia perché la
polvere del terreno può rientrare in un qualsiasi impiego culturale, per esempio in senso bellico quando
segnala l’arrivo di una fila di carrarmati nemici, o in altre epoche di un’armata a cavallo14.
Il che porta presto ai rapporti che rendono la polvere che conosciamo oggi anche una materia inutile e
spontanea, in rapporto con le polveri strumentali e artificiali (powder, poudre, in inglese e in francese,
differenti da dust e poussière). Cioè le polveri della pittura, della chimica e del trucco – phard, ombretti
–, le spezie, i composti farmaceutici e le droghe (Amato, cit., p. 27). Tra queste polveri, al plurale, alcune
evidenziano altri tratti della polvere ordinaria. Rispetto alla polvere da sparo, per esempio, l’essere non
infiammabile e commestibile in senso vago. Rispetto alle micropolveri (o particolato atmosferico) la
minore o totale assenza di nocività, la minor rilevanza rispetto all’elemento di penetrazione nel corpo,
la visibilità, la natura non esclusivamente aerea. Rispetto al polline, una polvere “fecondante” (Grazioli,
cit., p. 233), la sterilità15 e il tratto semantico durativo piuttosto che puntuale (Fig. 2)16.
Fig. 2 – Wolfgang Laib mentre compone Pollen from
Hazelnut, 1992. Installazione al Museum of Contemporary
Art di Los Angeles, 330x370 cm (© Wolfgang Laib).
Amato ricorda che persino gli escrementi, una volta polverizzati, si contrappongono alla polvere
ordinaria per una funzione fertilizzante attiva (Amato, cit., p. 27).
Per parte sua, Grazioli sottolinea l’aspetto veridittivo della polvere ordinaria rispetto all’amido, grande
sovrano del maquillage già cinquecentesco. L’amido in polvere, usato per accordare i capelli al biancore
della carnagione e del volto fa “entrare in gioco la maschera”, un “effetto di finzione, di apparenza, di
luce, o evanescente e fragile al tatto quando depositata, e chi considera che essa finisce pur sempre per cadere e
depositarsi e ricordare allora la pesantezza del tempo e del destino inesorabile” (Grazioli, cit., p. 164). Noi
cercheremo di mantenere aperte tutte e due le valorizzazioni, in una proposta discussa nel § 2.
14
“Se la polvere si solleva alta e definita giungono dei carri; se è bassa e diffusa, giungono soldati a piedi. Fili di
fumo sparsi indicano boscaioli. Relativamente poca polvere che va e viene indica la preparazione di un
accampamento”. Sun Tzu, L’arte della guerra, in esergo in Amato (cit., p. 25).
15
Intendendo una sterilità sessuale transitiva, perché, come accennato poco oltre, la polvere è anche uno spazio
vitale per alcuni organismi che la abitano e si nutrono dei suoi componenti, tanto quanto il polline è nutritivo
per molti insetti.
16 Il riferimento è alle sculture di Wolfgang Laib (Fig. 2) che compone forme con grani di polline da lui raccolti
personalmente in sessioni, come prevedibile, lunghe e ripetute, che sono parte dell’opera. Il polline è qui
concepibile per Grazioli in quanto “polvere che crea vita, che diffonde, sparge, espande, moltiplica, dissemina,
seme, sperma vegetale, custode della forma, polvere che dà forma, in-forma, ri-forma”, ibidem.
183
ornamento”, fino alla “spiritualizzazione” (cit., p. 52). Così il trucco raggiunge la morte per via di purezza,
contrariamente all’impurità della polvere ordinaria: “questo leggero velo di polvere bianca attenua la
nudità, sottraendole i caldi e provocanti colori della vita. La forma si avvicina così alla statuaria, si
spiritualizza e si purifica” (Hennig 2001, p. 51).
Per quanto riguarda il rapporto con le droghe, è stato l’artista Marco Cingolani a mettere in luce un
elemento di non marcatezza della polvere ordinaria, rapportata con il traffico illecito degli stupefacenti.
La sua serie Refurtive (1989) include armi e quadri rubati, accostati a bustine di cocaina, suggerendo
l’idea di un mercato dove queste “polveri” hanno ormai un legame imprescindibile17.
Potremmo poi parlare di tritume nel ruolo di Oggetto o di Destinante. La polvere è infatti un ambiente
vitale per alcuni animali: oltre alle spore dei funghi e a semi minuscoli, ogni grammo di polvere ospita
fino a un migliaio di acari – i più piccoli fra i ragni, che se ne nutrono e le cui deiezioni sono la causa
principale di asma e allergie (Amato, cit., p. 129). Inoltre, è una materia disponibile a essere spostata e
attratta a causa dei fenomeni elettrostatici, in contrapposizione con i caratteri attanziali soggettivi della
polvere biblica, che è un resto identitario – così come lo sono le ceneri delle urne funerarie. Burgio
(2011) ha analizzato un progetto dell’architetto e artista ispano-statunitense Otero-Pailos che fa emergere
per la polvere ordinaria il ruolo attanziale di Destinante. Insieme ad altri artisti come Erwin Wurm18 e
Claudio Parmiggiani (Fig. 3) che lavorano sulla facoltà della polvere di ricalcare i contorni delle cose,
tracciare forme, far vedere, Otero-Pailos ha sfruttato la polvere per ‘generare una copia” di una serie di
palazzi che ha restaurato. Con un metodo sperimentale, un telo di lattice veniva steso e fatto aderire alle
pareti o pavimenti di un edificio; rimuovendolo, vi restava incollata una parte delle sedimentazioni che
la polvere e lo smog avevano prodotto nel tempo sulla superficie. Ricomponendo i teli in strutture
retroilluminate, l’artista ha potuto così esporre dei grandi “delicati, calchi fossili” (Burgio, cit., p. 103) su
cui era impressa la topografia materica dei muri degli edifici. Otero-Pailos ha messo in luce l’aspetto
formante di questo tipo di gesto, dichiarando di voler dare dignità all’azione del tempo e alla polvere
come operatore di un effetto di permanenza19. Ci ritorneremo in § 2.4.
Fig. 3 – (da sinistra) Delocazione, Claudio Parmiggiani, 1970 (© Galleria Civica di Modena); The Ethics of Dust,
Jorg Otero-Pailos, 2008-2016, Old Us Mint, San Francisco 2016, collezione del SFMoMa (© Jorg Otero-Pailos).
17
Cfr. M. Cingolani, “Baby è solo polvere…” (1991).
18
Erwin Wurm, artista svizzero celebre per la sua serie Fat House, è l’autore di una serie di Dust Sculptures, opere
composte da teche e piedistalli su cui è visibile ‘solo’ l’alone di polvere depositata intorno a un oggetto ora assente.
Cfr. www.erwinwurm.at/artworks/dust-sculptures.html. Consultato il 4 giugno 2023.
19
Intervista del 2008 su Radio Papesse, www.radiopapesse.org/it/archivio/interviste/jorge-otero-pailos-the-ethic-of-
dust. Consultato il 6 giugno 2023.
184
2.2. Un residuo
Sotto un altro aspetto la polvere ordinaria è un residuo, un resto che risulta da altre sostanze, e qui
intrattiene due ordini di parentele sintattiche: la prima, più forte, con lo sporco, la seconda con la cenere.
Nella sua storia della polvere Joseph Amato ricorda che la “polvere appartiene alla terra e all’aria
equamente; lo sporco è terreno, è pesante e prende spazio” (cit., p. 13). Rispetto allo sporco, tanto del
corpo quanto dei rifiuti di ogni tipo, la polvere è senza dubbio più neutra, sia perché perlopiù non si
distinguono percettivamente le parti che la compongono, sia perché, più invisibile, effimera e amorfa,
non ha origine e storia, non si conoscono i resti da cui risulta. La polvere è uno sporco che si lega alla
mancanza di tatto, al contrario di quello che si accumula con la manipolazione e l’uso, lo sporco delle
cose vissute, cioè lo strato traslucido che vela il metallo di un mazzo di chiavi, la cover del telefono, le
lenti degli occhiali, lo sporco come grasso cutaneo delle impronte di un polpastrello su un vetro. Tanto
che un artista come Jean Dubuffet (Fig. 4) ha potuto metterne in rilievo il carattere “antiumanistico”
(Grazioli, cit., p. 110): “Mi interessano più degli altri gli elementi che abitualmente si sottraggono ai
nostri sguardi in virtù della loro stessa diffusione. Le voci della polvere, l’anima della polvere, mi
incuriosiscono mille volte più del fiore, dell’albero o del cavallo, giacché li sento più strani. La polvere
è qualcosa di tanto diverso da noi” (Dubuffet 1971, p. 149). Dubuffet usa la polvere come materia
compositiva, in una precisa ricerca sui materiali negletti e di scarto. La serie delle Materiologie
(Texturology) porta a compimento una riflessione che tematizza la polvere come emblema di
un’omogeneità “metafisica”, potremmo dire “antiplatonica”:
Occorre immaginare che agli occhi di esseri diversi da noi l’universo materiale sia continuo e non
presenti punti vuoti; quelli che chiamiamo oggetti rispondono solamente a una condensazione, in
un dato punto, delle vibrazioni che, più o meno dense, brulicano ovunque altrove, solo meno dense
nei luoghi in cui crediamo di vedere dei vuoti. L’universo è continuo e ovunque è fatto della stessa
sostanza (Dubuffet 1971, pp. 37).
Fig. 4 – Texturology LXIII, 1958, Jean Dubuffet (© ADAGP,
Paris and DACS, London 2023).
Per Grazioli, nella poetica di Dubuffet la polvere è l’emblema di un mondo senza l’uomo – titolo peraltro
di una serie di suoi lavori –, liberato della sua “asfissiante cultura”, in cui “l’apparente monotonia,
185
l’apparente mancanza di vita, di figure, di segni, si scoprirà invece altrettanto se non più ricca della
presunta ricchezza del mondo umano” (Grazioli, cit., p. 114)20.
Per quello che riguarda il rapporto con la cenere, altro grande attore di processi e trasformazioni non
direttamente inerenti all’umano, pare di poter dire che la polvere e la cenere si spartiscono i due grandi
ambiti della “morte naturale” e della “morte violenta”. Se è nell’aria la polvere si apparenta al fumo e
ai gas; ma dal fumo e dalla cenere si distingue proprio come resto di operazioni che non coinvolgono il
fuoco. Se la polvere è una materia dinamica, incessantemente disponibile a un flebile movimento, una
volta terminata la combustione la cenere è un resto inerte e più concentrato. La polvere si stacca e si
accumula, si posa e si rialza, arriva su tutto e per tutti, ma con un ritmo flemmatico. La cenere al contrario
è l’esito di un processo intenso e molto più rapido di depurazione brutale, al termine del quale
potremmo dire che “giace”. La polvere è un residuo tanto orizzontale quanto verticale, mentre la cenere
è una conseguenza, un cascame della fiamma, e quindi orientata dall’alto verso il basso. Come residuo,
infine, la polvere è un insieme di frammenti che provengono da qualcos’altro, ormai assente, e così
anche la cenere. Soltanto che se la figura tipica della cenere è un mucchio, un cumulo, una presenza
insomma vivida in termini di quantità e densità, la polvere al contrario è più legata all’assenza, a ciò che
non si vede. Artisti come Urs Fisher (Untitled hole 2007), Eduardo Basualdo (La caída 2021), Lee Bae
(Promenade 2019), il già citato Daniel Arsham (Fictional Archeology 2015), Phoebe Cummings (Flora
2010) hanno lavorato con la cenere – o il carbone, suo parente stretto, sostanza intermedia tra il legno
e la cenere. Sono opere che sottolineano questo aspetto più “violento” e definito della cenere rispetto
alla polvere (ricordando anche la parentela tra carbone e grafite, che riattiva il circuito tra materia e
materiale da disegno)21. Non sorprende, d’altra parte, che l’aspetto di residuo effimero e ‘neutrale” della
polvere ordinaria possa aver avuto ammiratori anche in epoche più lontane. Grazioli vi annovera per
esempio lo scrittore decadente J. K. Huysmans, poeta di un inno alla “buccia dell’abbandono”: “La
polvere è una gran bella cosa. Oltre ad avere un gusto di vecchissimo biscotto e un odore avvizzito di
antichissimo libro, è il velluto fluido delle cose, la pioggia fine e asciutta che rende anemici i colori troppo
forti e i toni violenti. È la buccia dell’abbandono, il velo dell’oblio22. Ma non è meno interessante una
lettura del ruolo della polvere nelle opere di Jean Baptiste-Siméon Chardin, maestro settecentesco della
natura morta, in cui Grazioli (cit., pp. 35-36) intravede una poetica della pace domestica, del piccolo e
dell’inutile. Qui la polvere è una “materia del silenzio”, circonda gli oggetti producendo un’atmosfera
molto particolare, si fa, per Grazioli, addirittura segno di un “rallentamento della pittura”, come se questo
residuo “causasse attrito sulla tela per la stesura del colore, o per lo sguardo che indugia” (ibidem).
20
Sono suggestive e molto chiare le parti in cui Dubuffet si lamenta del ruolo dell’essere nel pensiero occidentale:
tra le nozioni il cui fondamento si trova più gravemente compromesso nel nostro gioco vi è quella di essere […]
cosa distingue un essere da un fatto? Che un uccello, un albero, un ciuffo d’erba, a rigore anche una nuvola – che
pure sono oggetti di breve durata ed aspetto più o meno cangiante – siano degli esseri, nessuno, che io sappia
potrà negarlo. […] Ma che dire dell’essere momentaneo e mobile – l’onda che per un attimo forma il mare al largo:
è un essere? Il vortice che si produce in un punto del torrente, laddove l’acqua è meno profonda, è un essere?
L’ombra del passante è un essere come lo è il passante stesso? (Dubuffet, cit., p. 161).
21
Ringraziamo Gianfranco Marrone per una nota critica, secondo cui la contrapposizione proposta tra polvere e
cenere non funzionerebbe per esempio nel caso di una favola come quella di Cenerentola. Si possono tuttavia
fare due considerazioni. 1) Quella della protagonista della fiaba è una caratterizzazione figurativa che rimanda di
fatto a una vicinanza con il basso e l’insulso – tale per cui per la nostra proposta Cenerentola è un ‘attore della
polvere’ piuttosto che un ‘attore della cenere’, e si potrebbe soprassedere sul nome del personaggio. 2) Ci sono
senza dubbio discorsi – per esempio l’intero lavoro artistico di Anselm Kiefer – dove la contrapposizione tra
polvere e cenere viene meno, perché entrambe le sostanze sono riunite come iponimi della sostanza che compone
il suolo, cioè di una terra come iperonimo.
22
Così recita un passaggio di un romanzo di Huysmans, L’abisso (Là-bas, 1891, pp. 44-45), citato da Grazioli (cit., p. 53).
186
2.3. Un infiltrato
Alle prime due serie classificatorie che abbiamo tentato di costituire, a cui poi dovremo dare un nome,
ne segue una terza di genere ben diverso. Una presa in conto degli aspetti timici, che nel caso della
polvere ordinaria, sono, oggi, in senso comune, nettamente negativi. Il saggio di Amato si occupa del
modo in cui il “nuovo” mondo della microbiologia pasteuriana ha trasformato la polvere, associandola,
molto presto, a qualcosa di contaminante e indesiderato. Agente chiave di questa trasformazione è stata
senza dubbio “una teoria microbica che affermava che tutto, financo la polvere sulla capocchia di uno
spillo, abbondava di microrganismi”, in modo tale da concepire “tutti i tessuti viventi come un
permanente campo di battaglia tra microrganismi, dai parassiti ai batteri ai virus ai fagociti” (Amato, cit.,
p. 95). Lo stesso autore prosegue riflettendo tuttavia su come nuove minacce legate al piccolo e
all’invisibile – la radioattività dopo Chernobyl, le piogge acide, oggi il particolato atmosferico –, la nascita
di svariati fronti ecologisti in Occidente, e il progresso medico e scientifico, abbiano abbassato il livello
di pericolosità della polvere ordinaria. Circa cento anni dopo la scoperta dei germi, la polvere si è
trasformata in un elemento portatore di valori disforici in senso morale, più che medico-igienico. Grazioli
discute il “più che perfetto” della morale borghese23 che si è fatta interprete di queste forme simboliche:
la polvere è ostacolo al perfetto scorrimento delle cose, all’assoluto incastro degli elementi, al perfetto
funzionamento della macchina. Nel frattempo le macchine che eliminano la polvere si sono
moltiplicate e perfezionate, anche perché la polvere stessa si è complicata e modificata diventando
sempre più invisibile e subdola. La storia della pulizia, del sapone, dello shampoo, del lucido da
scarpe, delle macchine per l’igiene, fino al cibo in scatola, è strettamente intrecciata a quella della
polvere (Grazioli, cit., p. 228).
Né, per parte sua, l’arte ha mancato di riflettervi (Fig. 5). In questi due esempi, tra molti altri possibili,
se Bazile lavora ripulendo angoli di percorsi espositivi, fino a farli brillare, Ross gioca a raccogliere in
un cestino sui generis un campione “commovente e patetico” di una polvere legata “all’usura” e
“all’incrostazione”. Una polvere che “ci mette davanti alla materialità in sé stessa in un senso quasi
opposto a ciò che chiamiamo essenza, perché ci rendiamo conto che la pura materia, nelle sue ultime
particelle, ci mostra la sua eterogeneità, la sua pullulazione, le stigmate dei drammi che ha attraversato”24
(Grazioli, cit., p. 246).
Fig. 5 – (da sinistra) Brillance, 1981, Bernard Bazile, Fotografia a colori (© Bernard Bazile); The smallest type
of architechture for the body containing the dust from my bedroom, my studio, my living room, my kitchen,
and my bathroom, 1991, Michael Ross, ditale e polvere (© Musée d’art contemporain, Gand).
23 Ringraziamo Stefano Bartezzaghi per il rilievo sulla “polvere sotto il tappeto”, cioè sulla definizione metaforica
di qualcosa di compromettente che “si insabbia” (cfr. anche Amato, cit., p. 28).
24
Note mutuate da Francois Dagognet, “Pourquoi une art de la poussière?” in Elkar, Latreille (1998, pp. 12-13).
187
In questo suo statuto disforico relativamente nuovo, non potremmo dire che la polvere sia repellente in
senso percettivo. Se si parla di temperatura non è né calda né fredda, è neutra rispetto all’udito e al
gusto, e ha un odore, sì, ma più che una vera identità olfattiva si tratta di un’aria di famiglia, un sentore
vegetale-animale che spesso è già una forma di tatto: infatti la polvere solletica le narici in una
congiunzione vellutata a cui spesso segue uno starnuto. In questa dimensione la polvere è la nemica
dell’aria: contro la permanenza della polvere disforica, sporca, si appronta la circolazione dell’aria pulita.
Rimandiamo per questo agli studi di Alain Corbin sull’aria viziata e sulla fine del XVIII secolo come
momento storico in cui si elaborano norme di aereazione e disinfezione in modo congiunto: “il vascello,
la prigione, la caserma, l’ospedale diventano laboratori di nuove gestualità di “sbattimento, spostamento,
aereazione” che poi diverranno le norme igieniche della società igienista” (Corbin 1982, pp. 241-242).
Come attore che informa, ora, un suo ruolo di Antisoggetto, la polvere è un avversario che si presenta
sotto le vesti di un infiltrato. La polvere appare in silenzio, come ricordano alcuni versi di una poesia di
Lucetta Frisa: “Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/sopra il naso dei mobili su tutta la
pelle della casa/scendere al buio così non si può mandarla indietro./Forse spolverare è un atto duplice
come quando si nasce/e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/secondo i punti di vista” (1999, pp.
24-25). La polvere si avvantaggia della nostra mancanza di attenzione; la sua “sconfitta” corrisponde
spesso al momento stesso in cui la si identifica. La polvere è un attentatore imperituro, come la natura
attenta alle case e alla civiltà nella vita di campagna, a cui non a caso corrisponde spesso un sistema di
valori che considera sporche le piante che lasciano cadere aghi e semi sul patio di casa, e che muove
senza sosta in difesa dello spazio vitale disciplinato dal lavoro degli umani. Ce lo ricorda una celebre
riflessione di George Bataille, che tematizza una vittoria finale a venire, della polvere, su tutte le fatue
contromisure messe in atto.
I novellieri non hanno immaginato che la bella addormentata nel bosco si sarebbe svegliata coperta
da una spessa coltre di polvere; non hanno neanche immaginato le sinistre tele di ragno che al primo
movimento i suoi capelli rossi avrebbero spezzato. Tuttavia tristi strati di polvere invadono senza
fine le abitazioni terrestri e le sporcano uniformemente: come se si trattasse di disporre le soffitte e
le vecchie camere per l’entrata delle ossessioni, dei fantasmi, delle larve che l’odore tarlato della
vecchia polvere sostanzia e inebria. […] Un giorno o l’altro la polvere, che non cede, comincerà
probabilmente ad avere buon gioco sulle serve, invadendo con masse enormi di calcinacci gli edifici
abbandonati, i magazzini deserti: in quella lontana epoca, non ci sarà più niente che salvi dai terrori
notturni, in mancanza dei quali noi siamo diventati dei così perfetti contabili (Bataille 1970, p. 185).
Lavorando sui rifiuti urbani, che sono a loro volta legati a un tratto disforico chiaro e noto a tutti, abbiamo
parlato di valori negativi, di qualcosa con cui ci troviamo congiunti e da cui ci si vuole disgiungere (Bassano
2023, pp. 116-122). Per la polvere vale qualcosa di simile, se non fosse che la polvere non viene
esplicitamente, solo, da noi, e si ingaggia con essa una lotta che in senso retorico è piuttosto quella di
mantenimento dello stato di non-congiunzione. È quindi uno sporco combattibile ed invadente, che si
apparenta, nel sistema dello sporco urbano, con le macchie sui vestiti, i peli dei cani, le briciole degli
alimenti, il fango che si può portare in casa con le scarpe, la forfora sulle giacche – anche per il fatto banale
che di tutti queste cose la polvere è composta – piuttosto che con i rifiuti solidi urbani.
2.4. Una patina, un destino
Una quarta serie di considerazioni, quelle da cui di fatto siamo partiti, riguarda l’aspetto temporale e
le trasformazioni attive e passive iscritte nelle sostanze. Quali sono le trasformazioni della polvere? Se
anziché come punto finale di un processo, un residuo, ne osserviamo le possibilità operative, le azioni
188
che compie e può compiere, ci troviamo allora davanti ad accumuli, inspessimenti, stratificazioni, che
nel tempo trasformano la polvere in sporco. In un senso aspettuale potremmo dire cioè che la polvere
è logicamente una prefigurazione, un’anticipazione lenta e durativa dello sporco. Inoltre la polvere
conosce anche delle trasformazioni interne, morfologiche: può infatti strutturarsi in ammassi
lanuginosi e un po’ più pesanti, quelli che chiamiamo “gatti” di polvere. In senso esterno, e nella
lunga durata, la polvere conferma l’analisi di Jacques Fontanille (2001, 2004) sul rapporto tra superfici
e corpi delle cose: la polvere nasce come patina , cioè si posa e si fa pelle degli oggetti, ma nel tempo
e con l’accumulo si trasforma in corpo essa stessa, si con-fonde, in un altro corpo di qualsiasi tipo, in
una densità compatta e aggregante, disponibile a essere rivestita esteriormente da altre patine.
Attraverso questo passaggio inesorabile è un’istanza che ha a che fare con il destino e parla della
stessa circolarità dei processi di strutturazione e disintegrazione del precetto biblico – polvere eri e
polvere tornerai.
Fig. 6 – Élevage de poussière, Man Ray, 1920 (© Centre
Pompidou, Paris).
La sua particolarità si vede bene se la paragoniamo ad altre patine, la ruggine e tutti i derivati dei
processi di ossidazione, il grasso cutaneo, il cerume, la muffa, il muschio. La ruggine e i processi di
ossidazione sono trasformazioni minerali, mentre le patine della pelle, il muschio e la muffa hanno a
che fare con corpi vegetali e animali, e negli ultimi due casi, muffa e muschio, sono secrezioni vive, che
generano altri esseri viventi. La polvere è curiosamente trasversale ai due casi, perché raccoglie elementi
inerti ma è anche un ambiente vitale, come detto, per una classe di viventi. Mentre per tutte le altre
patine le sostanze in oggetto emergono dall’interno della materia o si stratificano a partire dalla stessa
superficie dove si sono sempre trovate (così le spore della muffa e dei muschi), sono cioè isotrope, la
polvere è allotropa, o meglio allotopica, non appartiene a nessun corpo in particolare, né per contiguità
spaziale né per sviluppo organico. Ma li tocca tutti, nessuno escluso e nessuno più specificamente. La
polvere è una “massa” insieme ubiqua e quasi amorfa, lenta e implacabile.
Tutto il saggio di Grazioli declina, di fatto, questo ultimo aspetto. Un illustre “esponente radicale” di
una lettura filosofica della polvere come destino 25 è Goethe, che nel Faust arriva a descrivere “uno
scrittore fatto di polvere”, condannato, cioè, a un’infelicità data dalla propria natura infima e limitata,
e dall’essere “schiacciato da un accumulo di accumuli”, cioè i libri, l’erudizione, sui quali – mise en
abyme – a sua volta si accumula la polvere. In secondo luogo è messo in gioco un profondo legame
25
Grazioli articola ancora oltre i collegamenti tra polvere e Romanticismo, discutendo separatamente il successo
di un’estetica del pittoresco in cui il decadimento e le cose misere hanno un grande valore (cit., pp. 41-43).
189
tra fotografia e polvere. Come l’attimo, l’istante che la fotografia coglie, passa per sempre e già dopo
la sua fissazione in immagine non esiste più, altrettanto gli oggetti, “i luoghi, le opere della natura e
dell’uomo, che cambiano, si consumano, sono minacciati di sparire per sempre, trovano
nell’immagine fotografica l’ultima risorsa figurativa per essere registrati e tramandati al futuro. Tutto,
si potrebbe in fondo dire, è in questo senso polvere per la fotografia” (Grazioli, cit., p. 44). Ancora, e
più specificamente, nell’esempio clou della Figura 6, nella foto cioè che Man Ray scattò al Grande
vetro di Marcel Duchamp, la polvere è un grande traduttore, simbolo del ready made, in quanto
aperta a tutte le forme , e nello stesso tempo capace di conservare l’impronta di ciò che,
metaforicamente, è stato, senza perdere niente. Come un “immenso deposito o un’immensa matrice
virtuale di ricostruzione” (Barone 1999, p. 296). Tutto, della realtà, anche la polvere, attraverso la
fotografia può diventare ready made (Grazioli, cit., p. 70).
Infine, vale la pena menzionare un ultimo caso, il lavoro di un artista francese, Robert Filliou, che
“chiude” per certi aspetti un cerchio legato al destino. Attraverso il gesto di Robert Filliou, infatti, la
polvere dialoga nel modo forse più didascalico con il senso stesso dell’operazione artistica, con il gesto
dirompente, innovativo, che poi sarà superato, neutralizzato, dimenticato (Fig. 7).
Fig. 7 – Poussière de la poussière, (multiplo di opera in serie),
Robert Filliou, 1977 (© Robert Filliou).
Filliou infatti gioca con il gesto di Duchamp – spolverando lui e molti altri illustri artisti ospitati dalle
collezioni del Louvre e del MOMA – e riponendo poi il panno con la polvere in una scatola di
cartone. La dicitura comune a tutta la serie, oltre a una foto dell’artista nell’atto di pulire la tela, è
questa iscrizione: “The Eternal Network presents: Robert Filliou, Poussière de la poussière, de l’effet”
seguita dal nome dell’autore e dal titolo dell’opera spolverata scritti a mano. In questo gioco, che
Grazioli definisce secondo l’idea dell’“antimuseo”, chiaramente la polvere è simbolo della fine, della
decomposizione e della morte.
La polvere si posa sugli oggetti che non attirano più la curiosità, che restano abbandonati
dall’utilizzo, dal disinteressamento. Di polvere si copre il passato che non stimola più, che è chiuso
in un contenitore, in un archivio, in un’istituzione che lo conserva senza vivificarlo. La polvere
abbonda nelle biblioteche, nelle pinacoteche, nei musei di ogni tipo, sulla cultura pedante, sulla
sterile erudizione, sul capolavoro dimenticato (Grazioli, cit., p. 156).
190
3. Trasformazioni sostanziali e temporalità
Nelle sue specificità – non ne abbiamo menzionate che alcune – la polvere ordinaria è una sostanza
tra altre sostanze. In merito ad esse, in primo luogo, si è tentato di mettere a fuoco il fatto che
assistiamo a trasformazioni e a processi che si svolgono nel tempo, che si tratti di ruggine, sangue,
diossine, ghiaccio, mercurio, o, appunto, polvere. Non soltanto cioè la polvere riguarda il passato e il
futuro, si addensa e stratifica, ma è stato possibile parlare anche di un’“entità” che ci tocca con un suo
modo pruriginoso, che avanza, che appare, che viene rimossa, che si sposta, si alza e si posa, è spostata
e attratta.
Più in generale, è parso plausibile articolare, in senso provvisorio, quattro dimensioni per l’indagine
semiotica del senso delle sostanze. Qui per la polvere:
1. uno statuto differenziale in senso figurativo: la polvere come tritume;
2. uno statuto differenziale in senso figurale: la polvere come residuo;
3. uno statuto timico-passionale: la polvere quale “infiltrato”;
4. uno statuto aspettuale: la polvere come una patina e un destino.
Il che richiede senza dubbio qualche chiarimento. La prima serie di considerazioni sulla polvere come
tritume, che chiamiamo in modo provvisorio “figurativa”, cerca di dialogare con lo schema di Floch
(1995) rispetto alla tassia . Come noto, Floch aveva derivato l’idea di prevedere una categoria analitica
denominata tassica dal “metodo” del Greimas “lessicografo”. Infatti, in Del senso II, Greimas aveva
riflettuto sulla descrizione del termine “automobile” considerando l’oggetto lessema come “insieme
di virtualità” organizzate internamente. Per il semiologo lituano queste virtualità non erano altro che
“valori” a cui l’oggetto offriva uno “spazio in cui fissarsi e riunirsi” (Greimas 1983, pp. 19-20). In
quanto valori, infine, avevano giocoforza uno statuto posizionale e differenziale. In questo senso, la
componente tassica della definizione del termine “automobile” definiva un’assiomatica delle
differenze e delle relazioni, perché permetteva di tracciare catene, o famiglie di oggetti: “una
componente tassica deve rendere conto, attraverso i tratti differenziali, dello statuto di automobile
come oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo” (ibidem ). Lo sviluppo di questa idea da parte di
Floch consiste nel collocare l’Opinel tra gli utensili e le armi a mano, e via via definirne i rapporti con
sciabole e pugnali, con le lame di altri strumenti da taglio, con tipi diversi di gestualità percussive, con
altri coltelli pieghevoli. Floch ha la premura di ammettere che la trattazione non è esaustiva, e che anche
solo limitandosi alla famiglia dei coltellini a molla, l’impresa di ritracciare i loro tratti differenziali in
senso tassico richiederebbe “un’intera opera”. Da un punto di vista filosofico, si tratta con tutta evidenza
di un eufemismo: è la natura categoriale dei concetti stessi, infatti, a prevedere una catena di connessioni
enciclopediche infinitamente percorribile, come Umberto Eco ha saputo insegnare.
Tuttavia, la “messa in moto” delle relazioni tassiche appare un passo imprescindibile anche nel caso
delle sostanze: la serie che abbiamo tratteggiato rispetto al “tritume” si rivolge appunto a percorsi di
flessione enciclopedica di una certa “entità” culturalmente determinata, qui la polvere. Se anziché di
polvere, avessimo cercato di trattare di legno, per esempio, allora si sarebbe trattato di riarticolare le
varianti degli usi della sostanza “legno” attraverso una ricerca su Google, il mercato antiquario, una
visita da Bricoman , le fiabe, la fisica dei materiali etc. Va notato che quest’approccio permetterebbe
di considerare insieme le navi omeriche e Pinocchio, per il legno, o la chirurgia plastica e i polimeri
complessi, se tentassimo, con un altro esempio, la stessa via rispetto alla plastica (cfr. la nota numero
4, supra, p. 1).
Come abbiamo cercato di mostrare, vari tipi di polveri, cioè di tritumi, si legano alla polvere in
un’articolazione di unità sociali apparentate, portatrici di valori strutturanti secondo i tratti semantici
del culturale vs naturale, marcato vs non marcato, omogeneo vs eterogeneo, eccetera.
La seconda dimensione, quella chiamata “figurale” è anche quella su cui persistono più dubbi. Rispetto
al modello di Floch potremmo indicare una corrispondenza in termini di componente funzionale mitica.
191
L’Opinel, concludeva Floch nella sua analisi, è uno strumento identitario, il coltello del bricoleur, nel
senso che il suo proprietario lo usa per “esprimersi e realizzarsi”.
Nel progetto che non realizzerà mai come l’aveva pensato, il suo utilizzatore non può che mettere
qualcosa di sé stesso. In modo parallelo […] questo semplice “coltello pieghevole” di faggio e di
acciaio dimostrerà anche il sapere e la cultura del suo utilizzatore: occorre più savoir fare per
servirsi di un utensile semplice che il contrario, come sottolinea Lévi Strauss (Floch, cit., p. 222).
Sono righe e pagine celebri, che mostrano il modo in cui uno sguardo semiotico può pensare con
grande profondità insieme, in accordo con un’antropologia delle tecniche, innestandovi nel contempo
una riflessione fenomenologica. Tuttavia, quando ci si allontana dal caso di Opinel e si analizzano
oggetti di altro tipo, l’idea di funzione mitica è talvolta problematica.
Da una parte soffre una certa semplicità, che si constata per esempio nel caso di artefatti ipercomplessi.
Quando si è davanti all’automobile da cui partiva Greimas 26, come gerarchizzare la sua importanza
come status symbol, la capacità di un’auto di valere come un luogo che protegge dalle intemperie
negli spostamenti – fino a renderla un quasi-spazio, più che un artefatto – e ancora le “connotazioni
mitiche” legate all’automazione, alla velocità, o al contrario all’abitabilità che suggerisce il sostantivo
abitacolo? Dall’altra parte l’idea di funzione mitica è improduttiva se si giunge alle questioni che
interessano le sostanze, dato che esse, considerate come nodi di relazioni e come insiemi processuali
e temporali, non possono avere alcuna funzione in assoluto, né pratica né mitica.
Per questo motivo, abbiamo preferito, almeno provvisoriamente, il riferimento a una dimensione
“figurale”. L’abbiamo fatto nel solco di alcune considerazioni di Michel Pastoreau sul legno, contenute
in Medioevo simbolico . Qui lo storico ricorda che nell’immaginario europeo tra i secoli XI e XIV il
legno era la “materia prima”, spesso in testa alle enumerazioni dei materiali lavorati dall’uomo. In
latino medievale come nel latino classico il termine materia indicava il legno da costruzione, opposto
a lignum, il legno da riscaldamento. Così, per estensione, “materia” è divenuto in seguito il nome di
qualsiasi materiale, incluso l’iperonimo della “materia in sé”. Da questa linea di discendenza
provengono tanto “materiale” quanto “materialismo”. Ma l’elemento più interessante dello studio di
Pastoreau è la tesi secondo cui l’immaginario del Medioevo avrebbe pensato il legno come “quasi
vivo”, come simile a un animale. Il legno “muore, soffre malattie e difetti, cambia aspetto a seconda
della pezzatura”. Nelle superstizioni medievali che mettevano in scena statue che parlavano, si
spostavano, sanguinavano e versavano lacrime, occorrevano sempre statue in legno, mai in pietra.
Alcuni autori sottolineano il carattere antropomorfo non soltanto dell’albero ma anche del legno,
materiale che come l’uomo possiede vene ed umori, che si anima per l’ascesa della linfa, contiene
una gran quantità d’acqua, vive in stretta relazione con il clima, i luoghi, il ritmo del tempo. Il
legno prevale sulla pietra, anch’essa associata al sacro, ma inerte, rozza, e immutabile.[…]. Poi si
oppone in maniera più violenta al metallo, concepito quest’ultimo sempre con tratti infernali. Il
metallo è strappato alle viscere della terra e poi trattato al fuoco (il grande nemico del legno).
Prodotto dalle tenebre del mondo sotterraneo, il metallo è il risultato di un’operazione di
trasformazione che ha qualcosa a che vedere con la magia (Pastoreau 2004, p. 74, corsivo nostro).
Con una scelta lessicale un po’ azzardata, nella citazione Pastoreau definisce la “vita” del legno come
un suo carattere “antropomorfo”. Non è chiaramente questo l’elemento semiotico in gioco, ma
piuttosto un essere animato del legno, la proprietà di riuscire a esprimere una serie di trasformazioni
interne, timicamente definite. Sembra di poter dire anche che una simile animatezza è ancora oggi un
tratto identitario del legno: si parla del legno di un pavimento a parquet come “materiale caldo”, si
26
Fermo restando il salto “radicale” costituito dall’analisi di Floch, dal momento che Greimas si occupava
dell’automobile lessema, non dell’artefatto veicolo.
192
apprezza il cambiamento nel tempo di un tagliere o di una ciotola in ciliegio, e un armadio di pino
cembro, o cirmolo, può emanare ancora un profumo intenso a trecento anni dalla sua fabbricazione.
Pare abbastanza plausibile, cioè, sostenere che nel legno vi sia una sorta di carattere iperonimo che
lo colloca tra i materiali vivi, e al quale carattere qui ci riferiamo, appunto, con il termine “figurale”.
Questo tipo di determinazione sintetica del “modo di essere” è più astratta di una vera e propria
figura, ma nondimeno generalizzabile al legno come sostanza. In tal senso, se prendessimo per
esempio la plastica analizzata da Barthes e la accostassimo ai modi assai icastici con cui significa nelle
Combustioni di Alberto Burri, potremmo rintracciare questa “sintesi figurale” nel suo essere un
materiale multiforme. Analogamente, potremmo procedere per sostanze come le diossine – a cui è
ascrivibile, crediamo, una generale per quanto astratta velenosità – ed è proprio in questa direzione
che abbiamo provato ad articolare lo statuto “figurale” della polvere ordinaria tra le sostanze residuali.
Sulla terza dimensione, che abbiamo legato a uno statuto “timico-passionale”, l’inquadramento
sembra finalmente meno spinoso. Le sostanze, gli elementi hanno infatti i loro tracciati timici di
significazione, più o meno ampi e variabili, più o meno complessi o semplici. L’idea di poter
ricostruire una serie di valorizzazioni timiche, rispetto alle sostanze, ci ha permesso per esempio in
questa sede di iniziare a esplorare tutto il tema delle valorizzazioni negative, cioè della repulsione
timica che accompagna spesso stati o trasformazioni in cui si realizza una devalorizzazione cognitiva.
La lotta contro la polvere come sottospecie dello sporco è solo un esempio tra molti tipi di “relazioni
disgustose” che intratteniamo quotidianamente e da un punto di vista teoretico avvicinarsi a questi
problemi è forse di particolare urgenza. A nostro parere, infatti, nello sviluppo del metalinguaggio
l’intera sfera della valorizzazione negativa risulta un luogo teorico adombrato, per ragioni ideologiche
e storiche, in favore di una concezione dei valori come positivi.
Permane tuttavia un’incertezza sulla distinzione tra statuto “timico-passionale” e statuto “aspettuale”,
cioè sulla pertinenza di mantenere separate le ultime due dimensioni di cui si è discusso rispetto alla
polvere. Abbiamo trattato in modo autonomo lo statuto di una sostanza che viene percepita come
“infiltrato” – appunto definendola secondo una dimensione timico-passionale, e quello di una sostanza
“patina”, che intrattiene un rapporto cruciale con il passare del tempo e la terminatività.
In effetti, come già detto, siamo partiti proprio dall’ultima dimensione, ovvero dall’urgenza di
collocare la polvere ordinaria rispetto al tempo, e definirla in senso trasformativo e processuale. A
questo scopo, sembra di poter dire che l’idea dell’aspetto come strato della significazione che dipende
da un attante osservatore – nozione ricavata da Greimas dai tempi verbali – resti la più efficace.
Tuttavia, nelle pagine precedenti è emerso in modo chiaro come questo statuto di patina della polvere
ordinaria non sia il solo che coinvolge trasformazioni. Anche descrivendo lo statuto timico-passionale
abbiamo avuto a che fare con trasformazioni narrative a tutti gli effetti: congiunzioni contaminanti,
disgiunzioni purificanti. Tanto che per la polvere si potrebbe parlare di due condizioni incoative e
terminative, cioè del suo “più o meno gradito” e “più o meno concesso” apparire, e del suo destino
inesorabile di progressivo inspessimento e accumulazione. Si potrebbe cioè forse mantenere l’ipotesi
di una dimensione aspettuale da sviluppare meglio in futuro, considerando invece l’aspetto timico
come trasversale a tutti e tre gli altri statuti discussi – secondo l’idea che in senso fenomenologico un
orientamento forico nutra in nuce qualsiasi processo di valorizzazione.
Infine, vorremmo comunque sottolineare la rilevanza di poter pensare, con Semprini, il legame
stringente non solo tra sostanze e tempo, ma anche tra artefatti e tempo, e tra materiali e tempo.
Come visto, in alcuni casi uno “statuto aspettuale” può essere quello deputato a far emergere aspetti
dirimenti della significazione di una sostanza, cosa che avviene se si analizza un esplosivo, la neve, o
appunto la polvere. Ma una volta discusse simili questioni di temporalità in merito alle sostanze –
sostanze “liberate” dalla funzione strumentale – questo approccio analitico può essere esteso a
materiali e artefatti. Si tratta di costituire rispetto ad essi un modello – sicuramente migliorabile, senza
dubbio provvisorio – di possibili “punti di fuga”. Insomma, dire che il senso delle cose è determinato
193
in modo dirimente da una dimensione aspettuale significa tenere insieme problemi di patina, di ciclo
di vita degli artefatti, dinamizzare finalmente una presa analitica che scavalchi l’idea di una “sorta di
istantanea” non solo dello stato di una sostanza ma anche dell’uso di un artefatto, superando nel
contempo l’idea di funzione come descrizione dei qualia in senso aristotelico.
194
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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Ramon Rispoli
Abstract. This article delves into the concept of dirt, its management, and its relationship with architectural spaces.
Drawing from anthropologist Mary Douglas’s perspective, dirt is viewed as something inherently “out of place”,
intrinsically connected to the idea of order and its disruption. Accordingly, cleaning is considered a domestic ritual
of purification, serving the purpose of constantly reestablishing an order that remains under threat. The study also
explores how architecture operates as a “technology of partitioning”, delineating the boundaries between what is
visible and invisible, exposed and concealed. It investigates the significance of architectural elements, such as
doors, in shaping the politics of spaces and their organization. Furthermore, the article examines the association
between the notion of dirt and time, shedding light on the role of maintenance practices that often remain
inconspicuous, both within the realm of architecture and art.
“Spazzare via la polvere dal pavimento di una stanza, spargerla in un’altra stanza, così non sarà notata.
Continuare ogni giorno” (Kaprow, cit. in Obrist 1997, p. 87). Queste sono le istruzioni comunicate nel
1995 dal celebre artista nordamericano Allan Kaprow al curatore Hans Ulrich Obrist per mettere in atto
la sua performance, nell’ambito del progetto espositivo itinerante Do it curato proprio da Obrist. Kaprow
sosteneva che in fondo pulire non significa nient’altro che spostare ciò che si considera sporcizia da uno
spazio a un altro, sottraendolo alla vista (Fig. 1); e l’“altra stanza” a cui faceva riferimento è qualsiasi
spazio su cui possa chiudersi una porta: uno sgabuzzino, un ripostiglio, o semplicemente il mobile della
cucina in cui è collocato il contenitore dell’immondizia.
Fig. 1 – Street Cleaner, Banksy.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Come affermava l’antropologa inglese Mary Douglas, infatti, la sporcizia è prima di tutto qualcosa di fuori
posto, il che implica sia l’esistenza di un ordine specifico sia la sua contravvenzione. Quindi, ad esempio,
le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non
è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati
di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie;
mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria
dove normalmente ci sono gli abiti, e così via. In breve, il comportamento che noi seguiamo
riguardo alla contaminazione si fonda su una reazione negativa verso ogni oggetto o idea che può
confondere o contraddire le classificazioni a cui siamo legati (Douglas 1966, pp. 77-78).
Un’idea condivisa anche dall’antropologa italiana Carla Pasquinelli, secondo cui lo spazio domestico è
il “luogo della permanenza e dell’ordine che ci sforziamo di mantenere il più possibile uguale a sé stesso
per proteggerci da un esterno demoniacamente ostile” (Pasquinelli 2004, p. 11). Visto da questa
prospettiva, il pulire è quindi “una sorta di rito domestico di purificazione che riscatta dalla
contaminazione, dovuta a una presenza indesiderata o troppo ravvicinata, comunque sentita come
invasiva” (ivi, p. 47), e che permette la ricostruzione incessante di quell’ordine domestico – una sorta di
kósmos personale – che è oggetto di continue violazioni dall’esterno.
Pulire è quindi un’attività topologica, che riporta fuori ciò che è entrato dentro e non merita di starci:
“l’ordinare e il classificare hanno una dimensione spaziale: questo va qui, quello va lì. Tutto ciò che
non è spazzatura appartiene alla casa; la spazzatura va fuori. Le categorie marginali vengono riposte
in luoghi marginali (soffitte, scantinati, fabbricati annessi) per essere usate, vendute o semplicemente
date via” (Strasser 1999, p. 6).
Lo storico e teorico dei media Bernhard Siegert sottolinea come la distinzione tra dentro e fuori sia
sempre stata “legata a modi di operare la distinzione tra zone sacre e profane, e questa potrebbe forse
essere la prima di tutte le articolazioni culturali dello spazio” (Siegert 2015, p. 195). In tal senso le porte
sono, a suo parere, proprio quegli elementi allo stesso tempo materiali e semiotici capaci di creare un
dentro e un fuori.
Ma più in generale, le porte – così come altri elementi architettonici, tra cui muri e solai – sono dispositivi
capaci di articolare quella che il filosofo Jacques Rancière (2000) ha definito una “partizione del
sensibile”: stabilire, cioè, il posto che le cose possono occupare, e la visibilità che ad esse può essere o
meno accordata. Ciò che sembra essere solo una questione di estetica è quindi, allo stesso tempo, una
questione di politica. Secondo Rancière, infatti, il potere e la politica hanno molto a che vedere con
quest’attività di ripartizione, di “ordinamento” di spazi, tempi e modi di visibilità: tracciare – o viceversa,
mettere in discussione – la linea di separazione tra chi e cosa merita di essere dentro o un certo spazio
e chi e cosa viene lasciato fuori, chi e cosa merita di essere visto e chi e cosa deve invece rimanere
invisibile, chi si può ascoltare e chi non ha voce.
Ed evidentemente, la polvere e ciò che serve per rimuoverla – così come anche chi ha normalmente il
compito di farlo – non occupano certo una posizione di riguardo nelle gerarchie del visibile, per le
connotazioni di cui normalmente si caricano.
In un contributo pubblicato recentemente su e-flux Architecture, il teorico dell’architettura Mark Wigley
(2022) riflette su come un edificio sia metafora del corpo umano, nella misura in cui in entrambi –
edificio e corpo – è costantemente all’opera un tentativo di occultamento dei meccanismi interni: un
tentativo ossessivo ma mai del tutto efficace, per tutte le forze (o per tutti gli anti-programmi, per dirla
con Bruno Latour) che si oppongono ad esso.
Nel corpo ci si riferisce soprattutto all’apparato digerente con i suoi processi metabolici e le sue
escrezioni, e qui il tentativo di occultamento è condotto attraverso un vasto arsenale di strumenti
materiali e/o semiotici: strati di abbigliamento, cosmetici, salviette, assorbenti, lozioni, norme di
198
comportamento sociale. Bisogna nascondere tutto ciò che è in qualche modo connesso alla digestione,
e nello specifico, all’apparato digerente: questo canale di “esterno” che ci attraversa il corpo, e che ci
intreccia simbioticamente con ciò che ci circonda e che rende possibile la vita. E proprio come il corpo
umano, secondo Wigley
l’architettura è un complesso sistema digestivo che produce un senso dell’interno distaccato
dall’esterno dissimulando tutte le pieghe, le liquidità interiori, i suoni, gli odori e i movimenti
anche del più semplice degli edifici. I limiti esterni – apparentemente molto ben definiti – di una
struttura, e tutte le sue divisioni interne tra stanze o piani, sono un effetto dell’occultamento della
permeabilità e della continua trasgressione di quegli stessi limiti, proprio come il corpo umano
culturalmente visibile non è che una maschera delle liquidità che lo rendono possibile. […] gran
parte dell’abilità professionale degli architetti consiste nel reprimere l’universo della digestione
facendo apparire gli edifici più semplici, fermi, solidi, asciutti, silenziosi e impermeabili di quanto
non siano, nascondendo tutte le reti di tubazioni, valvole, sfiati, filtri, serbatoi, pompe e
membrane con i loro continui flussi interni (Wigley 2022, trad. mia).
“Non c’è niente da nascondere, solo tubi”, affermava la collaboratrice domestica Guadalupe Acedo,
parlando di cosa ci fosse al di sotto di una botola del pavimento della “Maison à Bordeaux” di Rem
Koolhaas, nel celebre documentario del 2008 Koolhaas Houselife (Fig. 2). Come se i tubi – le “interiora”
dell’edificio – non fossero proprio ciò che bisognava nascondere.
Fig. 2 – Locandina di Koolhaas Houselife,
di Ila Bêka & Louise Lemoine, Francia 2008.
Ma nelle riflessioni di Wigley c’è spazio anche per la polvere:
Tutti i tessuti e le superfici tra il corpo e l’edificio, e quelli dell’edificio stesso, diventarono nel
tempo minacce escrementizie che dovevano incessantemente essere purificate, sostituite o
rimosse. La polvere, ad esempio, era vista come materia organica che doveva essere
continuamente espulsa, insieme a tutte le modanature, i cornicioni e gli ornamenti che la
attraggono. Qualsiasi complessità ornamentale era una minaccia per la salute, perché tratteneva
le escrezioni umane e rendeva difficile la pulizia. Le superfici semplici e lisce, invece, non offrono
199
una casa agli escrementi; al contrario, rendono possibile la loro espulsione immediata. L’edificio
sano espelle ciò che lo stesso essere umano espelle, come se i limiti del corpo si estendessero
fino a coincidere con quelli della casa. O, per dirla al contrario, l’edificio sano non racchiude il
corpo ma lo ‘restituisce’ all’esterno (Wigley 2022, trad. mia).
Ad avere un ruolo cruciale nella genesi di questa concezione dello spazio interno fu la celebre infermiera
inglese Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna, che nel 1859 dedicò
alcuni passaggi cruciali del suo libro più famoso, Notes on Nursing, alla questione della salubrità delle
case. Salubre per Nightingale era appunto uno spazio fatto di aria pura, drenaggio efficiente, pulizia e
luce – quelli che saranno, qualche decennio più tardi, tra i principi cardine dell’architettura moderna –
ma soprattutto uno spazio scevro di qualunque tipo di porosità, crepa, fessura, complessità e intricatezza:
scevro, cioè, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo e misura trattenere residui prodotti dal corpo
umano (Nightingale 1859). I corpi dovevano essere isolati dalle loro stesse escrezioni. Il paradosso quindi
è che nella visione di Nightingale – e successivamente nella visione igienista moderna – l’interno più
sano per l’essere umano era proprio quello meno influenzato dall’umano stesso.
In ciò Pasquinelli ha visto addirittura una sorta di principio metastorico, valido al di là delle differenze
geografiche e culturali:
al di là dei tanti criteri usati per mettere in ordine la casa […] c’è comunque qualcosa che è comune
a tutti a dispetto delle rispettive e spesso abissali differenze, quasi una regola universale, ed è il
bisogno di cancellare le tracce del corpo. […] Il primo requisito di una casa ordinata è la sistematica
esclusione di tutti quei determinati segnali visivi e olfattivi che costituiscono un ‘indebita estensione
dell’organismo umano. […] il corpo quale soggetto di bisogni è quello che non riusciamo a tollerare,
quel corpo che imbratta e sporca le nostre case, cui l’ordine cerca quotidianamente di porre riparo
cancellandone le tracce (Pasquinelli 2004, pp. 37-38).
Sia quale sia la sua origine, questa “ellissi” del corpo umano si è tradotta spesso, nella cultura
architettonica tradizionale, in una rimozione di tutto ciò che allude all’ordinarietà – o all’infra-ordinarietà,
per dirla con Georges Perec (1989) – del quotidiano. Nelle immagini delle architetture iconiche gli
oggetti ordinari devono apparire il meno possibile: è celebre il caso di Peter Eisenman che chiese ai
coniugi Frank di rimuovere la culla del loro neonato dalla House VI in occasione della visita di Philip
Johnson (Till 2009); analogamente, nella serie televisiva britannica Sign of the Times prodotta nel 1991
dal fotografo Martin Parr un architetto si lamentava dei giocattoli, veri e propri “oggetti vaganti” che i
bambini introducevano nello spazio da lui concepito interno mettendone a repentaglio l’ordine. Il
domestico, come “lo spazio dove si concentrano abitudini, disordine, macchie […] è un affronto alla
normatività degli ordinamenti architettonici. Così, nell’architettura canonica il domestico è deprivato di
ogni vita; è incasellato, ordinato, messo dietro un vetro per essere ispezionato, contorto in giochi formali,
tecnicizzato”; eppure il controllo è solo un’illusione, perché “le forze contingenti della quotidianità
domestica sono troppo potenti per essere soppresse in quel modo” (Wigglesworth e Till 1998a, p. 9,
trad. mia). Questa natura recalcitrante dell’ordinario è uno dei temi preferiti del collettivo di ricerca
siciliano Living Sphere (2020), nei cui brevi divertissements audiovisivi alcune delle case più iconiche
dell’architettura moderna si riempiono di panni stesi, pantofole e tavole imbandite (Fig. 3).
200
Fig. 3 – Fotogramma del video Finally at Home, Living Sphere, 2020 (© Living Sphere)
Ma oltre a rimandare alla “pericolosa” insalubrità dell’organico la polvere è letta normalmente anche, e
forse soprattutto, come segno di tempo: ciò che l’architettura, “arte dello spazio” per eccellenza, cerca
disperatamente di cancellare o di occultare. Si pensi, a tale proposito, a ciò che scriveva nel 1977 il
teorico dell’arte Rudolf Arnheim:
L’architettura […] ha sempre agito come un simbolo tangibile di ciò che è dato, di ciò su cui si può
fare affidamento, ma anche di ciò che deve essere considerato una condizione costante. […] L’edificio
beneficia della dignità delle cose che trascendono il cambiamento”, motivo per cui “le pesanti mura
di pietra dei templi, delle fortezze e dei palazzi sono sempre servite da adatta metafora del potere
temporale e spirituale (Arnheim 1977, p. 166).
Analogamente, Jacques Derrida ha sostenuto che è stata soprattutto la consistenza dell’architettura –
cioè “la sua durata, la sua durezza, la sua sussistenza monumentale” – a fare di essa “l’ultima fortezza
della metafisica” (1986, p. 69). Va da sé che, per essere “fortezze” di questo tipo, le architetture sono
costrette a rimanere il più possibile stabili e immutabili: solo così saranno capaci di rappresentare ciò
che è stabile e immutabile. In questa prospettiva persino la posizione degli oggetti all’interno dello spazio
dovrebbe restare il più possibile fissa: l’antropologo Edward T. Hall (1966) sosteneva che le poltrone
disegnate da Mies van der Rohe per i suoi interni fossero volutamente pesanti in modo da renderle
difficili da spostare.
Eppure, le architetture non sono mai immutabili né perfettamente stabili. Lo stesso maestro
dell’architettura moderna Frank Lloyd Wright scrisse, nel 1931, che se è vero che “ogni casa è una sorta
di imitazione eccessivamente complicata, goffa, pignola e meccanica del corpo umano”, è altrettanto
vero che si tratta sempre di “un corpo in cattive condizioni, che soffre di indisposizione e che ha bisogno
di continui ritocchi e cure mediche per mantenersi in vita” (Wright 1931, p. 65).
Il già citato documentario Koolhaas Houselife è tutto incentrato su queste “cure mediche” che si
dedicano a un edificio, cioè sul modo in cui si gestisce il suo rapporto con il tempo.
Da un lato tutto ciò che è relativo alla manutenzione straordinaria: le vetrate si fessurano o si rompono
con l’usura; l’acqua inizia a infiltrarsi in qualsiasi crepa o giunto indebolito; più in generale, tutti gli
elementi strutturali o di arredo che invecchiano devono essere sostituiti, proprio perché non più
compatibili con le necessità di un edificio che non può e non deve invecchiare.
Oltre alle riparazioni e alle sostituzioni ci sono poi tutte le forme di manutenzione ordinaria, parimenti
necessarie per l’esistenza di un edificio: attività di pulizia di routine come quelle svolte nel documentario
201
dalla collaboratrice domestica, o come quelle su cui si è concentrato l’artista canadese Jeff Wall nella
sua fotografia Morning Cleaning del 1999, con un inserviente che pulisce con una spatola la parete
vetrata all’interno del celeberrimo Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe.
Sempre nel Padiglione di Barcellona, nel 2012, l’architetto-artista madrileno Andrés Jaque e il suo Office
for Political Innovation hanno realizzato un’installazione – dal titolo Phantom. Mies as Rendered Society
– che risulta interessantissima nell’economia di questa riflessione. L’obiettivo dichiarato di Jaque era
infatti quello di rendere visibili oggetti e strumenti necessari all’esistenza del Padiglione, e che avevano
proprio a che vedere con queste due dimensioni, ordinaria e straordinaria, della manutenzione: pezzi
di ricambio come lastre di travertino e tende di velluto, ma anche spatole, aspirapolveri, detersivi,
confezioni di sale per l’elettrolisi delle due vasche d’acqua.
Un’operazione di “visibilizzazione” – di unblackboxing, avrebbe detto Latour (1999, p. 304) – che svela
ciò che normalmente si fa di tutto per celare, relegandolo dietro la porta di uno sgabuzzino o nel
sotterraneo del Padiglione, che non è caso è stato progettato e realizzato, nella ricostruzione dell’edificio
del 1986, in modo tale da essere inaccessibile ai visitatori (Jaque 2019).
Le pratiche di cura e manutenzione legate a questi strumenti sono indispensabili all’esistenza del
Padiglione, come di qualsiasi altro edificio, al punto tale da poter essere considerate tra le sue condizioni
materiali di possibilità1. Esattamente come succede alle grandi opere d’arte della tradizione occidentale
come la Monna Lisa, la cui apparente atemporalità, come ha dimostrato in maniera molto efficace
Fernando Domínguez Rubio (2016), è in realtà l’esito performativo di delicate operazioni di
manutenzione che hanno luogo con una determinata frequenza. Eppure si tratta di operazioni e pratiche
a cui molto raramente viene riconosciuta una visibilità, seppur minima, nell’ambito della storia, della
teoria e della critica dell’arte, così come in quelle dell’architettura. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che
più un’opera – un quadro o una scultura, come un edificio – è considerata un monumento, e più devono
rimanere invisibili.
C’è di più. Pratiche del genere vengono a malapena riconosciute come lavoro nel vero senso della
parola, come sostengono sin dagli anni Settanta pensatrici femministe come Silvia Federici, la cui
riflessione si è incentrata a lungo sul ruolo essenziale, ma quasi del tutto trascurato, del cosiddetto lavoro
riproduttivo e di cura nel ciclo produttivo capitalista (Federici 2014; Duffy 2007).
Torniamo alla performance di Allan Kaprow di cui si è detto inizialmente. Nel 2013 un’altra artista
nordamericana, Suzanne Lacy, in collaborazione con Meg Parnell, ha offerto un’ironica reinvenzione
delle istruzioni di Kaprow attraverso le lenti dell’attivismo artistico.
La performance, intitolata Cleaning Conditions (An Homage to Allan Kaprow), ha avuto luogo negli spazi
dell’Art Gallery di Manchester, a partire dalla sala dei pittori Preraffaelliti. Lacy e Parnell hanno coinvolto
squadre di addette e addetti alla pulizia – costituite da immigrate e rappresentanti di organizzazioni
sindacali – che durante l’orario di apertura2 pulivano i pavimenti del museo, ma contemporaneamente vi
spargevano un’altra tipologia di “spazzatura”: volantini e stampe delle loro organizzazioni attiviste e di
rivendicazione politica. Dopo la performance aveva luogo un dibattito aperto tra attivisti, amministratori
locali, studenti e pubblico incentrato proprio sulle “politiche della pulizia” e di chi se ne occupa,
considerando che il lavoro nell’ambito dei servizi, così come in quello dell’assistenza e della cura, è ancora
oggi affidato soprattutto a soggetti marginalizzati. Una marginalizzazione che va peraltro intesa in maniera
1 L’edificio è dotato di un piano di manutenzione che funge da vero e proprio ‘copione’ per tali attività, fornendo
un ampio numero di indicazioni che vanno dalla periodicità della pulizia delle vetrate alla pressione dell’acqua
indicata per lavare le lastre di travertino. Anche le fodere in pelle delle poltrone “Barcelona” vengono sostituite
con una periodicità predefinita, che può anche essere più corta in corrispondenza dei periodi di maggiore affluenza
di visitatori (che sono soliti sedersi su di esse per qualche minuto). Queste informazioni sono state fornite da Victor
Sánchez, coordinatore del team di gestione e manutenzione del Padiglione, nel corso di un’intervista condotta
dall’autore nel marzo 2023.
2
Nei tempi, quindi, in cui la loro presenza era normalmente considerata “fuori posto”, per dirla nuovamente con Rancière.
202
“intersezionale”, per dirla con il termine di Kimberle Crenshaw (1989, 1991): come il risultato, cioè,
dell’incrociarsi di asimmetrie di classe, etnia e genere.
Ma per finire, torniamo all’architettura e alla questione centrale della visibilità. In uno dei suoi scritti
che hanno come oggetto il Padiglione di Barcellona, Andrés Jaque scrive:
Amministrare la percezione collettiva, fare in modo che le cose siano invisibili, o renderle visibili,
creare gerarchie o metterle in discussione […]: tutte queste attività appartengono all’ambito della
politica. Queste pratiche si producono attraverso l’impiego di artefatti, sistemi tecnici e dispositivi
che fanno parte, a loro volta, dell’ambito dell’architettura (Jaque 2019, p. 85).
Le cose occupano sempre un qualche spazio. Timothy Morton (2017), filosofo del pensiero ecologico
contemporaneo, dice che le cose non si buttano mai via: si buttano al massimo sul fondo dell’oceano
Pacifico, o sulla cima dell’Everest. Il che, in fin dei conti, un po’ equivale a ciò che diceva Kaprow:
pulire non è nient’altro che cambiare posto a ciò che si considera sporco, magari chiudergli una porta
davanti per renderlo invisibile.
Sempre Jaque, alludendo a una celebre espressione di Latour, afferma “l’architettura è società
tecnologicamente rappresentata” (2019, p. 26). E se è vero che oggi si stanno affermando approcci
ecologici nel senso più ampio del termine, che riconoscono il ruolo giocato nello spazio architettonico da
una molteplicità di “attanti” non solo umani – si pensi all’architettura cosmopolitica (Yaneva e Zaera-Polo
2017) o multispecie (Sommariva 2021) – è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi l’architettura
stessa continua a essere concepita e praticata come tecnologia di partizione e ri-partizione di tempi e spazi3.
È fondamentale, in tal senso, riconoscere le gerarchie di valore su cui si fondano queste topologie del
dentro e del fuori, del visibile e dell’invisibile, dell’esposto e del celato. Topologie che – come si è cercato
di mettere in luce – raccontano di questioni che vanno ben al di là della sola architettura.
3
Scrivono Sarah Wigglesworth e Jeremy Till, coppia di architetti britannici il cui studio coincide con la propria
casa: “Ciò che sappiamo è che lavorare e vivere nello stesso edificio significa che le nostre due vite (lavoro e casa)
non possono distinguersi chiaramente, ma sono inevitabilmente intrecciate”, eppure “la risposta comune di un
architetto a ciò potrebbe essere: separare le due cose fisicamente; chiarire le zone; mantenere le due attività distinte;
applicare ordine” (1998b, p. 31, trad. mia). Un ordine negato dal loro tavolo che allo stesso tempo è da lavoro,
da pranzo, e da qualsiasi altra funzione, su cui si accumulano alternativamente piatti, planimetrie, chiavi di casa,
bicchieri e posate, lettere e documenti.
203
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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204
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] | Schiume, polveri, saponi: i materiali dell’igiene nell’immaginario pubblicitario
Giorgia Costanzo
Abstract. Through the observation of a corpus of cleaning products’ commercials – especially detergents –, the
aim of the following paper is to examine if and how the material transformations inscribed in the removal of dirt
contribute to the shaping of values such as purity and contamination.
This work starts from the point of view of the anthropologist Mary Douglas’s idea of dirt as disorder but also from
the assumption that common sense and every day practises allow Semiotics to explicit proliferations of meaning
that circulate in our culture.
In this sense, the research hypothesises that there are logics of cleanliness in the struggle against dirt staged by
advertising, that are linked both to the materiality and consistency of dirt and to the forms of removal of impurities.
La schiuma è una cosa pura come il latte
purifica di dentro.
La schiuma è una cosa sacra
che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa
una cosa sacra come la santa messa.
Giorgio Gaber, Shampoo
Il lavoro che segue si inserisce all’interno di un più ampio percorso di ricerca sui valori della purezza e
della contaminazione. Dal momento che, come vedremo, il pulito e lo sporco sono una delle possibili
manifestazioni di tale categoria, in questa sede si analizzerà con metodologia sociosemiotica un corpus
di spot pubblicitari1 di prodotti per il pulito – in particolar modo detersivi –, con l’obiettivo di vedere
se e come le trasformazioni materiche inscritte nella rimozione dello sporco contribuiscano alla
costruzione di diverse “idee” di pulizia e di sporcizia, intese come sostanze del contenuto messe in forma
dai discorsi sociali che le convocano.
In tal modo, ragionando sull’apparente banalità del vivere comune, irriflesso e impensato, per far
emergere proliferazioni di senso tutt’altro che scontate ed evidenti (come le mitologie del quotidiano di
Barthes 1957), la ricerca ipotizza che esistano, nella lotta allo sporco, forme di eliminazione delle impurità
1 Il corpus è stato costruito alla maniera semiotica: la sua definizione non è stata guidata da un criterio di esaustività
né di rappresentatività statistica quanto dall’intenzione di ricostruire sistemi di senso, forme, logiche del pulito,
maniere di costruzione dell’oggetto di valore, procedure narrative legate alle trasformazioni materiche etc. È per
questa ragione che i casi in analisi sono talvolta trasversali alle varie categorie merceologiche dell’igiene. In tal
senso, e trattandosi di un inizio di ricerca, il corpus non è stato definito a priori, ma la sua raccolta ha preso forma
a mano a mano che l’analisi andava avanti, inglobando testi a partire dal cui confronto potessero emergere le
dimensioni figurative di cui si parlerà in § 2 e nei quali, in particolare, la dimensione materica della visualizzazione
e della trasformazione dello sporco risulta particolarmente pertinente.
Accanto ai frammenti di clip riportati nel corso dell’analisi il lettore troverà i QR code che rimandano agli spot integrali.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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e logiche del pulito legate a specifiche forme di trasformazione della materia (Bastide 1987). È per questa
ragione, per il carattere dinamico e culturale delle trasformazioni che tali logiche subiscono nel tempo,
che l’analisi prenderà in considerazione un certo numero di testi pubblicitari in un’ottica sia sincronica
(spot 2018-2022) che diacronica (spot 1950-90).
1. Sensi del pulito
Cosa vuol dire esattamente “pulire”? A consultare il dizionario (Devoto-Oli 2023), pulire è un iperonimo
che include tutta una serie di azioni volte alla rimozione dello sporco e, più in generale, di tutto ciò che
è “inutile, ingombrante, fastidioso”. Da un lato, pulire ha dunque a che fare con la rimozione della
sporcizia in cui emerge principalmente l’idea di un’azione operata sulla superficie di qualcosa (strofinare,
lucidare etc.). Dall’altro, però, l’idea dello sporco da pulire è intesa estensivamente in riferimento a tutto
ciò che sta fuori posto, è un non-dover-essere lì che in qualche modo può essere perfezionato (tra i
significati di “pulire” infatti troviamo anche “perfezionare, limare, rifinire”).
La definizione presuppone cioè l’esistenza di un modello, un ordine delle cose che, una volta infranto,
vada in qualche modo ricomposto, ed è in quella anomalia intesa come rottura di uno schema che si
dà la contaminazione: “dove c’è lo sporco c’è il sistema” (Douglas 1966, p. 77), è la presenza della
macchia che interrompe la continuità del tessuto pulito, è la polvere del caffè sparsa per errore sul
pavimento. È l’idea dello sporco come fuori posto di Mary Douglas e il suo fondamentale Purezza e
pericolo (1966), in cui l’impurità è da ricercarsi non tanto nelle cose ma nelle relazioni fra le cose che
per presupposizione costruiscono certe idee di mondo, con i propri confini e un proprio ordine che
viene contaminato non appena questi confini vengono oltrepassati. Per Douglas, infatti, la sporcizia
comprende al suo interno ogni elemento che un dato sistema di cose del mondo rifiuta di classificare al
proprio interno, ossia una relazione anomala fra cose. In questo modo:
Le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non
è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati
di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere
in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove
normalmente ci sono gli abiti, e così via (1966, p. 77).
È evidente: il pulito, come lo sporco, posto in questi termini, ha a che fare con la posizione che diamo
alle cose nel mondo, è una questione di ordine, di confini, e dunque di spazio. Non è solo un problema
di relazioni fra cose, quanto di spazializzazione, di territorializzazione: lo sporco è il fuori posto, pulire è
rimuovere lo sporco per rimettere le cose al loro posto. Questo emerge chiaramente dalla famosa
citazione di Douglas, nella quale si parla di bagni, salotti, stanze da letto, tavole… lo sporco si definisce
a partire da relazioni spaziali sopra/sotto, dentro/fuori; per cui la sporcizia manifesta di certo il sistema,
ma occorre tuttavia precisare che si tratta di un sistema topologico.
Non è un caso, infatti, che la pulizia sia innanzitutto un programma di rimozione dell’impurità, che
presuppone il ritorno a un qualche stato di originaria purezza iniziale delle cose: d’altronde, il “pulito”
è sempre privo di qualcosa, così come il “puro” si definisce sempre in termini privativi a partire da
quello che non è o che non ha. La purezza, in questo senso, sembra doversi intendere come ciò che
non si mischia a nient’altro, ma anche come ciò che non ha segno. Ma come si dà, allora, qualcosa
come puro e qualcosa come impuro?
Consumi e pratiche quotidiane articolano differentemente questi valori rendendoli concreti. Infatti, se
da un lato le idee di purezza e contaminazione sono costitutivi di discorsi come quello religioso o
medico-scientifico – nel quale i batteri, i microbi, i virus e in generale le regole che stanno alla base di
ciò che è asettico o, al contrario, di ciò che è contaminato sono centrali nel funzionamento stesso di tale
206
discorso2–, dall’altro, tali valori si dispiegano anche nell’universo commerciale, in maniera certamente
meno esplicita e dunque in qualche modo ancora più interessante.
Parlare di igiene e di pulito fa venire in mente tutta una serie di pratiche della quotidianità – fare la
lavatrice, lavare i piatti, spolverare, lucidare i vetri, pulire i pavimenti, ma anche farsi la doccia, lavarsi le
mani, e via dicendo – e convoca anche numerosi ed eterogenei oggetti di consumo – detersivi, spugnette,
saponi, igienizzanti, scope etc. – che non sembrano dirci molto più della loro stessa prosaicità. Eppure, le
pratiche del pulito sono apparse oggi anche sul web e sui social network, dove numerosi utenti rendono
il mondo delle pulizie una vera e propria forma di intrattenimento (video tutorial, makeover di case
sepolte dalla sporcizia etc.). Pulire è oggi, più ancora che un basilare bisogno di igiene, un vero e proprio
dovere sociale che ci parla del modo in cui, nella nostra cultura, vengono messi in forma valori più
ampi e socialmente rilevanti come rischio/sicurezza, salute/malattia, natura/cultura e, di specifico
interesse in questo lavoro, puro/impuro.
Dal momento che queste idee, come abbiamo visto, non sono ontologiche ma sempre storicamente e
culturalmente situate, da una prospettiva semiotica ciò significa che la purezza e l’impurità non sono tratti
intriseci delle cose, né esistono come puri concetti, non essendo propri di per sé né del piano
dell’espressione (E), né del piano del contenuto (C). Il senso del puro e dell’impuro si danno piuttosto a
partire dalla relazione fra questi due piani e sono dunque da intendersi come effetti di senso (C) che si
concretizzano a partire da una serie di tracce espressive differenziate (E) che, chiamando in gioco specifiche
pertinenze, contribuiscono alla formazione di idee di volta in volta diverse di contaminazione a seconda
dei tratti che le manifestano e della semiosfera all’interno della quale funzionano.
Il pulito e lo sporco, da questo punto di vista, possono essere visti come elementi espressivi che
articolano sul piano del contenuto certi significati di puro e impuro e tuttavia, possono essere intesi a
loro volta come effetti di senso che si definiscono in maniera diversa a partire dalle specifiche categorie
del piano dell’espressione che li producono: biancore/grigiore, lucentezza/opacità, macchia/non
macchia etc. e in cui la dimensione materica diventa evidentemente pertinente per ragionare su questi
temi. Ecco che, al contrario di ciò che si legge sul dizionario, per potersi manifestare, la purezza si
lega necessariamente a tutta una serie di figure che le danno concretezza e in cui testure, consistenze,
sostanze di vario genere e la loro reciproca interazione, da una prospettiva semiotica, sono da
intendersi perciò come alcune delle possibili forme di figurativizzazione di quei valori. Vediamo come
vengono messi in discorso dalla pubblicità 3.
2. Tre dimensioni figurative
Anche dagli spot pubblicitari, in effetti, sembra emergere quella regola di classificazione di tipo
posizionale di Douglas che costruisce la sporcizia come il grande contenitore di ciò che non sta al suo
posto. Nella campagna pubblicitaria del 2018-19 di Ace, lo storico brand di prodotti per l’igiene dà
forma e specifiche identità allo sporco in generale (Fig. 1): sono il vino, il cioccolato, le pappe, il trucco,
i cani e il ragù della domenica. A ben vedere però non sono mai queste singole cose in sé a fare lo
sporco. Per dirla con Douglas, “non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso prende vita
nell’ottica dell’osservatore” (p. 32). Ecco che, fino a quando la pasta resta fumante dentro al piatto, ossia
dove dovrebbe stare, va tutto bene; ma se il sugo viene rovesciato sulla tavola, il dolce animale
2
Un riferimento importante in tal senso è I microbi (1984), il lavoro attraverso cui Bruno Latour riflette sulla
costruzione del discorso scientifico moderno a partire dall’analisi della letteratura prodotta intorno alle opere di
Louis Pasteur nella Francia di fine Ottocento.
3
L’analisi che segue fa riferimento agli studi semiotici sul discorso di marca, tra gli altri cfr. Floch (1990, 1995);
Marrone (2007); Traini (2008); Boero (2018); Mangano (2019).
207
domestico sale sul letto e la pappa del bimbo sparsa ovunque il sistema entra in crisi, l’equilibrio si
rompe e nasce un problema da risolvere.
Una situazione simile si può trovare nel recente spot di Dixan che mostra una scena di vita familiare in
cui una mamma e i due figli si divertono a cucinare senza curarsi del disordine (Fig. 2). Dunque, tra
impasti che schizzano sui vestiti lindi e chiazze di sudore post allenamento, compare il nemico numero
uno del pulito, la figura che per eccellenza concretizza il tema dello sporco: la macchia, segno visivo di
qualcosa che è andato fuori posto la cui presenza trasforma ciò su cui si è andata a posare. Così, il sugo
non è più sugo, ma una macchia, e la maglia sporcata non è più un abito convenientemente opportuno.
C’è una storia di regole infrante.
Fig. 1 – Ace gentile, 2018.
Fig. 2 – Dixan discs, 2022.
Tuttavia, la macchia è solo una delle possibili figure dello sporco. Da un lato, il profumo, il biancore, la
luminosità, la morbidezza, la freschezza, la materialità del detersivo – polvere, liquido, gel etc. – e
dall’altro, il cattivo odore, la consistenza dello sporco – unto, incrostato etc. –, vengono a formare una
grande varietà di figure che concretizzano il tema del pulito e dello sporco, articolando in maniera
sempre diversa gli attanti delle storie: Oggetti di valore (il bianco più bianco), Soggetti (il detersivo),
Anti-soggetti (la macchia, l’unto etc.). Partendo da un livello tematico e figurativo (Greimas 1984), punto
di partenza dell’analisi, entrambi gli spot (Ace e Dixan) sembrano avere una struttura comune che
costruisce il processo di pulitura proprio sulla base di precise dimensioni figurative che entrano in sintassi
fra loro: una dimensione visiva, una dimensione materica e una dimensione olfattiva (Fig. 3).
Dimensione visiva Dimensione materica Dimensione olfattiva
Ace gentile, 2018.
Fig. 3 – Dixan discs, 2022.
208
Ora, nel caso specifico degli spot osservati la compresenza delle tre dimensioni contribuisce a costruire
un prodotto per l’igiene “completo” perché fa tutto: smacchia, igienizza e profuma. Tuttavia, non è
sempre così e l’emergenza di tali dimensioni o la narcotizzazione di alcune di esse in favore di altre
sono legate anche alle strategie di differenziazione che ciascun brand mette in atto per posizionarsi
all’interno dell’arena concorrenziale4. Questo vale, ad esempio, quando si passa da una categoria
merceologica a un’altra, poniamo da un ammorbidente a uno sgrassatore: alcuni tratti diventeranno
più pertinenti di altri (la morbidezza e il profumo per uno, il potere sgrassante e smacchiante per
l’altro). Ma vale talvolta anche per lo stesso tipo di detersivo, il cui racconto e valorizzazione può
cambiare proprio in relazione al modo in cui la sua azione viene figurativizzata. Da un punto di vista
semiotico, la conseguenza è quella di produrre diverse idee di sporco e pulito che si presuppongono
a vicenda e che sono legate di volta in volta ai diversi tratti espressivi a cui vengono associate.
Guardiamo nello specifico le tre dimensioni:
1. Nella dimensione visiva rientrano tutti i prodotti che, ad esempio, parlano del bianco. Tutt’altro che
grado zero del colore, nel tempo il bianco si è fatto portatore di significati differenti. Nella nostra cultura,
la relazione tra il bianco e la purezza ha una lunga storia (Pastoureau 2022): dalle vesti religiose di greci
e romani, passando per il Medioevo fino al diciottesimo secolo quando è finito per significare l’universo
dell’igiene, con la scoperta della candeggina che permise candidi corredi e la porcellana bianca per i
sanitari delle toilette. In tal senso, come nota Agnello nella sua disamina semiotica dei colori, “la purezza
viene dalla presenza di una sola tinta nelle cose e il bianco serve a unificare, a creare continuità visiva”
(2013, p. 32), quella continuità interrotta dallo sporco. Il biancore di camicie e lenzuola ottenuto grazie
alle proprietà sbiancanti del detersivo diventa così il segno del pulito, la figura attraverso la quale esso
si manifesta. Ogni tempo, tuttavia, dà vita alle proprie pertinenze e in tal modo se negli anni 80 la
preoccupazione principale era quella di garantire un bianco senza danno, in cui emerge anche un
problema di consistenza, di tatto e di resistenza dei tessuti (Fig. 4), successivamente gli spot mettono in
atto una retorica del confronto che basa l’efficacia del prodotto sulla riuscita del bianco più bianco,
garanzia di massima pulizia (Figg. 5-6). Il bianco viene così legato a un’altra figura, la luce, o meglio al
suo contraltare plastico: la luminosità. Il pulito di Ace, infatti, è “senza ombra di macchia” (Fig. 5) e il
suo obiettivo è quello di “riaccendere” il bianco dei nostri capi (Fig. 6).
Fig. 4 –Ace candeggina, 1983. Fig. 5 –Ace detersivo, 1992. Fig. 6 –Ace denso più, 2018.
Questo ragionamento, oltre a essere valido anche nella comunicazione della pulizia dei capi colorati di
cui risvegliare la luminosità, è valido anche per altri tratti, per certi versi sovrapponibili al bianco, come
la lucentezza. Questa sovrapposizione non deve stranire: se i latini discriminavano i tipi di bianco a
seconda della sua luminosità (distinguendo tra albus – il bianco opaco – e candidus – il bianco brillante)
è proprio perché, come tutti i colori, il bianco è una figura dal carattere composto e il suo significato,
nel tempo e nello spazio, cambia al variare delle sue componenti interne, intese come categorie
cromatiche – tono, saturazione, luminosità etc. (Agnello 2013). Ovviamente, individuare il pulito nel
bianco o nella luminosità dei colori definisce, per presupposizione, lo sporco come tutto ciò che non ha
4
L’individuazione di tali strategie di posizionamento non è tuttavia pertinente rispetto a questo lavoro che intende
ragionare principalmente sulla ricostruzione della figurativizzazione dello sporco.
209
queste caratteristiche: è sporco ciò che opacizza i colori, ingrigisce la biancheria e macchia le superfici.
In questo caso il senso del pulito è dato dunque dalle categorie cromatiche lucentezza/opacità,
luminosità/oscurità, e la macchia, intesa come elemento visibile che marca una discontinuità nella
continuità di capi e superfici puliti, è la figura dello sporco per eccellenza.
Bianco Macchia
Luminosità Oscurità
E Lucentezza Opacità
Continuità Discontinuità
C Pulito (Ov) Sporco (Anti-S)
2. La dimensione olfattiva, invece, è dominante in tutti quegli spot che tematizzano la questione dello
sporco e del pulito legandola a precise figure come quella dell’odore. “La peggiore macchia del pulito
è l’odore di sudore”, recita uno spot Deox, brand di detersivi famoso per la formula brevettata anti-
odore. Ma come tradurre i buoni e i cattivi odori attraverso un audiovisivo? E di cosa sa il famoso
“profumo di pulito”? La dimensione olfattiva è la più difficile da restituire in uno spot, ma come
sappiamo, la pubblicità ridice e traduce l’odore producendo effetti sinestetici che investono la sintassi
figurativa dell’olfatto (Fontanille 2004; Marrone 2007) per poterla comunicare attraverso sostanze
sensoriali diverse, come quella visiva tipica del prodotto pubblicitario. L’articolazione formale
dell’olfatto, secondo Fontanille, rende conto infatti della relazione che si instaura fra il corpo investito
dall’odore (corpo-bersaglio) e quello che lo produce (corpo-sorgente), ciascuno dei quali è caratterizzato
da una propria sintassi e dal cui intreccio prende vita l’esperienza olfattiva. La vita di un odore, in questo
senso, attraversa, dal punto di vista del corpo-bersaglio, tre fasi (emanazione, diffusione, penetrazione)
che fanno da contraltare alla sintassi del corpo-sorgente (nascita, degradazione, decomposizione). Questi
momenti, nel racconto pubblicitario, possono non essere sempre tutti presenti e, a seconda degli obiettivi
strategici, il brand può decidere di privilegiare alcune fasi sulle altre. Nel nostro caso, se profumo e
cattivi odori concretizzano il pulito e lo sporco rendendoli percepibili, la pubblicità fa lo stesso con
questi elementi, generalmente immateriali, concretizzandoli attraverso specifiche figure. Infatti, la messa
in scena dell’emanazione o della penetrazione è data attraverso l’utilizzo di tutta una serie di figure come
fiorellini, scie visive, esalazioni verdognole (Fig. 7 – Napisan). Ma a significare gli odori sono anche gli
effetti di materia prodotti dalla consistenza del detersivo: Nelsen associa in questo senso la materialità
metallica all’igiene legando metallo e assenza di odore (Fig. 7).
Napisan additivo igienizzante, 2021. Nelsen, 2012.
Fig. 7
3. Infine, vi è una dimensione specificamente materica, spesso risultato di strategie sostanziali nel senso
che dà Floch (1990) a questo termine come stile pubblicitario. È a tale dimensione che s’intende dedicare
particolare attenzione in questa sede, dal momento che è qui che avviene la messa in forma, attraverso
precise modalità, della visualizzazione della profondità del tessuto e della trasformazione materica dello
sporco, da un lato, e dell’agente pulente, dall’altro. La dimensione materica emerge ogni volta che, con
210
un débrayage spaziale, gli spot ci portano all’interno dei tessuti. Può infatti cambiare la logica di igiene
legata ora a una dimensione più visiva, la macchia, ora a una dimensione più olfattiva, il cattivo odore,
e tuttavia ciò che non sembra cambiare è proprio la dimensione materica che si costituisce come
invariante della comunicazione pubblicitaria dei prodotti per l’igiene e nella quale, a prescindere dal
tipo di sporco a cui si dà la caccia, a essere messo in scena è sempre il passaggio dallo sporco al pulito
nei termini della trasformazione materica dell’uno nell’altro. Lenzuola e camicie lasciano allora spazio
alle trame dei tessuti tra le quali, incastrato, troviamo lo sporco. Ma cosa avviene una volta entrati
all’interno del tessuto?
3. Sporco, unto e bisunto
Vediamo lo sporco, le macchie, ma vediamo anche ciò che dall’esterno non era visibile. Nel passaggio
dalla superficie alla profondità del tessuto, il cambio di scala rende il punto di vista dell’osservatore
fortemente inscritto, attivando uno sguardo aptico attraverso il quale l’ingrandimento del tessuto non
solo fa leva sulle caratteristiche sensibili dello sporco ma rende possibile un poter-vedere, ossia una
nuova conoscenza. La pubblicità traduce, facendole proprie, le specificità dell’informazione tattile che
“segue un processo di somma analitica che cumula singole e deformate percezioni fino ad ottenere
l’identificazione, ‘invisibile’, di oggetti-figure che acquistano solo in questo modo esistenza e capacità
discorsiva, racconto e investimento di valore” (Ceriani 1995, p. 197). I cambiamenti dal macro al micro,
come spiegano Migliore e Colas-Blaise (2022), rappresentano in questo senso “movimenti di
approssimazione o di totalizzazione, di analisi e sintesi nella percezione e nella conoscenza” (pp. 46-7).
Se la macchia, infatti, svolge il ruolo di informatore, ossia di un attante che fa sapere della presenza
dello sporco, alcuni prodotti pulenti, in particolare i prodotti igienizzanti, ci dicono che lo sporco può
essere presente anche in assenza di tale informatore. Il débrayage spaziale dall’esterno all’interno del
tessuto, dunque, rende possibile una vera e propria visualizzazione dell’invisibile che costruisce
l’opposizione fra sporco visibile e sporco invisibile (Fig. 8).
Ace gentile, 2018. Napisan, 2020.
Fig. 8
Infatti, se i classici prodotti detergenti combattono la macchia che si vede a occhio nudo, totalità integrale
e indistinta dello sporco, per i detersivi igienizzanti il nemico è più pericoloso e difficile da eliminare
perché invisibile. In questo senso, è solo entrando nel tessuto, osservandolo come sotto la lente di un
microscopio, lo sporco assume specifiche identità. Il débrayage, infatti, oltre che spaziale è anche
attoriale: piccoli mostriciattoli, cellule e batteri, totalità partitiva dello sporco, come usciti da un libro di
chimica (v. germi, Fig. 8), sono chiaramente l’esito di strategie oggettivanti che fanno proprio il discorso
parascientifico, oggi certamente complice anche la recente pandemia che ha cambiato il modo di
figurativizzare virus e germi adottandone l’immagine scientifica.
La differenza fra uno sporco rilevabile (tutto sommato innocuo) e uno sporco impossibile da individuare
a occhio nudo (potenzialmente pericoloso per la salute), convoca questioni veridittive legate al regime
del segreto (è sporco ma non sembra) se non della menzogna (sembra pulito ma non lo è), che si
traducono concretamente nell’idea che per avere un pulito completo il detersivo non basta e bisogna
211
anche igienizzare. Tale differenza è prodotta negli spot attraverso l’articolazione della categoria
superficie/profondità che coinvolge sia la dimensione verbale (“Pulito profondo”, “nel cuore di ogni
bucato”, “pulisce a fondo”, “igienizza le superfici in profondità”, “pulito profondo che penetra nelle
fibre” etc.) sia visiva, attraverso tutta la serie di débrayage e embrayage che ci consentono di fare da
spola dalla superficie alla profondità dei tessuti, e viceversa (Fig. 9). All’interno di tale opposizione
spaziale, il raggiungimento della profondità diventa una sfida, un vero e proprio programma narrativo
(v. Marrone 2001, sull’agire spaziale) che, nel nostro caso, sancisce la realizzazione dell’obiettivo: il pulito
profondo delle pubblicità, appunto.
Débrayage 1
Débrayage 2 Embrayage 1 Embrayage 2
Fig. 9 – Ace gentile, 2018.
Al livello dell’enunciato, i débrayage spaziali e attoriali ci portano sempre più all’interno delle maglie,
mentre gli embrayage consentono un ritorno verso la superficie. Va notato, in particolare, ciò che avviene
all’interno della lavatrice: l’effetto di profondità prodotto dal primo débrayage (che mostra la macchia),
infatti, è ulteriormente amplificato (in un rapporto zoom-macro zoom) dal secondo débrayage (che mostra
i germi). Questo ci consente di articolare la categoria superficie/profondità nel modo che segue:
212
Questa profondità dell’azione pulente non è solo interna allo spot analizzato ma, come si diceva, emerge
anche dal confronto fra prodotti tradizionali/igienizzanti. D’altronde, come sottolinea anche Pozzato
(2009) analizzando due pack di additivo per il bucato, un detersivo che agisce sui colori dei capi ha
spesso a che fare con un pulito dai valori estetici, al contrario dell’azione igienizzante-disinfettante che
riguarda piuttosto la salute.
Se sul dizionario dunque pulire è un iperonimo che racchiude e per certi versi appiattisce le diverse
attività di pulizia, la pubblicità costruisce delle differenze sotto forma di una scala tensiva che va da un
minimo a un massimo dell’azione pulente.
In questo modo, pulire, lavare, igienizzare e disinfettare non sono che effetti delle diverse
figurativizzazioni della superficie o della profondità e l’efficacia del prodotto pulente è direttamente
legata al modo in cui viene figurativizzata la profondità della sua azione. Anche grazie agli spot.
4. Schiume, polveri e saponi
Anche dal lato dell’agente pulente, negli spot si narrano le vicende di questo o quel detersivo, la cui
specifica azione è messa in forma proprio dal tipo diverso di consistenza materica di cui è fatto. Oggi, i
consumatori possono far affidamento su una grande varietà di sostanze pulenti dalle caratteristiche più
diverse. Esistono prodotti in polvere, liquidi, in gel, in capsule, da usare contro i vari tipi di sporcizia:
macchie unte, sporco incrostato, polvere e via dicendo (Fig. 10).
Fig. 10 – Diverse consistenze dei detersivi in commercio.
Ma cosa ci fa dire, poniamo nella scelta di un detersivo, che una consistenza sia migliore delle altre? La
preferenza fra la polvere o il liquido contro l’unto da cosa dipende? La scelta è tutt’altro che naturale o
scontata: a essere messe in gioco, oltre alle motivazioni chimico-scientifiche, sono infatti dinamiche legate
agli immaginari e alla percezione collettiva delle specifiche materialità e ai contrasti di sostanze che, in
quanto tali, cambiano nel tempo.
Osserviamo la questione da un punto di vista diacronico: Barthes (1957), analizzando le pubblicità dei
nuovi detersivi in polvere degli anni 50, notava la contrapposizione fra i “liquidi purificatori” e le “polveri
saponificanti”. Mentre la candeggina era “fuoco liquido” che uccide lo sporco e rovina i capi se non
utilizzata con parsimonia, il detersivo in polvere metteva in atto un’azione selettiva contro lo sporco,
espellendolo senza danneggiare tutto il resto. Tuttavia, le qualità del liquido o della polvere non sono
ad essi intriseci. Il liquido, infatti, non è più aggressivo o efficace di per sé: come tutti i materiali, il
liquido – ma anche il solido, la polvere etc. –, è un oggetto di senso, “la manifestazione particolarmente
suggestiva di una riflessione sul mondo sensibile, di una ‘logica concreta’ in atto” (Floch 1984, p. 176). I
materiali sono già culturalizzati e il loro valore si costruisce, proprio come in questo caso, a partire dagli
usi che se ne fanno.
Con l’introduzione dei detersivi liquidi negli anni 80, ad esempio, la situazione appare ribaltata rispetto
agli anni 50: la polvere è percepita ancora come molto più efficace del liquido, e i brand dunque iniziano
a produrre massicce campagne pubblicitarie per convincere i consumatori del contrario. Nello spot
dell’allora nuovo detersivo liquido Dash del 1989, infatti, una giovane motociclista sfuggendo ai consigli
di una signora incontrata in lavanderia (Fig. 11 – “no signora, con il liquido ci lava il bucato leggero,
213
ma sul grasso ci vuol la polvere”, “liquido in pallina, bianco in rovina”), s’impegna a convincerla
dell’efficacia del nuovo prodotto liquido, valido quanto quello in polvere.
Polvere tradizionale Nuovo liquido
Fig. 11 – Dash liquido, 1989.
Ci troviamo in un momento di passaggio e per certi versi di fronte a uno scontro fra immaginari diversi
legati a un passato e a un presente delle sostanze lavanti che ne costruisce il valore. È evidente che, in
un dato momento storico-culturale, la polvere è stata percepita come più adatta a eliminare lo sporco
unto – da cui il semisimbolismo diacronico che lo spot Dash vuole ribaltare:
E Polvere Liquido
C Passato Presente
Efficace Inefficace
Dunque, contro il grasso sarà più efficace il liquido o la polvere? Dipende. Si tratta di un problema di
contrasti di sostanze, ossia della relazione che intessono fra loro, e della percezione collettiva legata
all’efficacia della combinazione di alcune materialità.
Questo potrebbe spiegare perché, ad esempio, come mostrano abbondantemente i numerosi profili
social sull’igiene domestica che spopolano oggi sul web (v. @lacasadimattia, @mammapuntodue,
@yesyoucandeggina, su Instagram), l’uso del bicarbonato nelle pulizie sia oggi attraversato da una vera
e propria passione collettiva che va di pari passo con la recente tendenza a riproporre i prodotti per
l’igiene nelle formulazioni solide o in polvere, specialmente nel caso di prodotti per la pulizia
appartenente a linee “naturali”. Ha poca importanza, da questo punto di vista, che il bicarbonato non
abbia alcuna proprietà pulente o igienizzante come si affrettano a informarci da ogni dove (sulla
divulgazione scientifica in materia di igiene, v. Bressanini 2022): il biancore della polvere, la sua
materialità, così come la schiuma prodotta dal suo contatto con l’aceto, elemento con cui il bicarbonato
intesse una vera e propria relazione sintagmatica nel mondo delle pulizie oggi, rappresentano l’esempio
perfetto non solo del valore semiotico dei materiali, ma anche della loro efficacia. Non a caso, proprio
il bicarbonato oggi è nell’elenco dei numerosi “con”, ossia delle sostanze aggiunte leggibili sulle
confezioni dei detersivi.
Un’altra figura specifica su cui vale la pena soffermarsi è poi la schiuma, elemento materico che spesso
significa più di ogni altro il prodotto pulente. A leggere il dizionario, individuiamo almeno due
invarianti figurative che trovano manifestazione nei discorsi sociali: la prima è l’idea della spumosità
di una sostanza che ingloba aria; la seconda è relativa invece allo stato di attività della schiuma, dato
dell’agitazione e dell’effervescenza. Ancora una volta Barthes nel suo studio su saponificanti e
detersivi, in Miti d’Oggi (1957), evidenziava come la performatività abrasiva dei nuovi saponi venisse
camuffata dalla sua schiumosità aerea: non è un caso, infatti, che Calvino (1963) individui proprio
nelle bolle sprigionate dalle polveri saponificanti gettate in un fiume dai figli di Marcovaldo uno dei
tratti significanti della società consumistica di quel tempo.
214
Oggi la situazione è ambivalente. Nei casi che abbiamo osservato, la schiuma non sembra essere un
tratto pertinente nella significazione del processo di pulizia: in lavatrice, infatti, il detersivo entra in
contatto con lo sporco e grazie alla mediazione dell’acqua lo elimina (Fig. 12). Se ci spostiamo su altre
tipologie di prodotto, invece, accade che la schiuma non solo è presente ma diventa l’elemento che
racchiude la potenza pulente del prodotto: nello spot di Svelto da una piccola e densa goccia di
detersivo si prigiona una copiosa schiuma pronta ad affrontare le stoviglie lerce (Fig. 13). La differenza
fra questi prodotti è una e determinante: in un caso si tratta di lavaggio a mano, nell’altro no.
Informatore dell’azione pulente in atto, la schiuma finisce per significare la performance stessa del
prodotto ed è come se parlasse direttamente al suo utilizzatore: il prodotto è in azione e funziona – è
opinione diffusa, d’altronde, che se non fa più schiuma non è buono o la spugnetta va ricaricata! –.
Una performance che, in qualche modo, contiene in sé anche la sanzione della buona riuscita del
lavaggio e ne anticipa i risultati.
Fig. 12 – Ace denso più, 2018.
Fig. 13 – Svelto, 2022.
Tuttavia, la schiuma non ha sempre un valore positivo. Da una parte, infatti, le aziende di detersivi si
impegnano affinché la formulazione dei loro prodotti consenta la produzione copiosa di schiuma durante
il lavaggio. Ma basta cambiare categoria merceologica e oggi, nel mondo cosmetico e della cura
dermatologica, ad esempio, accade esattamente il contrario. Da un punto di vista sincronico, nell’universo
dell’igiene odierno infatti la schiuma significa contemporaneamente cose diverse: per un detersivo
significherà che il prodotto è in uno stato di attività (Fig. 14), per un bagnoschiuma la morbidezza della
spuma profumata sarà caricata del significato “coccola, carezza” (Fig. 15), mentre per i moderni detergenti
per il viso o per i capelli, specialmente se si tratta di prodotti “naturali”, la schiuma è segno di un prodotto
troppo aggressivo che non va utilizzato, e infatti la schiuma è leggera o, spesso, del tutto assente (Fig. 16).
In altre parole, i significati dei materiali non stanno nei materiali stessi ma nella relazione che questi
instaurano fra loro in un dato momento all’interno di un certo contesto socioculturale.
Fig. 14 – Svelto, 2022. Fig. 15 – Spuma di Sciampagna, 2022. Fig. 16 – Nivea Naturally Clean, 2021.
215
5. Ibridi in lotta
Nell’individuare diverse “ideologie” del lavaggio, tra le altre cose, in Miti d’Oggi Barthes osserva anche
i verbi utilizzati nella descrizione pubblicitaria del prodotto pulente (uccide vs espelle). Seguendo
dunque quello che si definisce come un modus operandi tipico dell’approccio semiotico (Greimas 1966)
ragionare sui lessemi utilizzati negli spot per descrivere l’attività del detersivo (così come anche le
immagini che mostrano tali azioni) ci aiuta a svelarne il fare, e con esso la struttura narrativa soggiacente
all’enunciato. In tal senso, i verbi utilizzati negli spot sono principalmente di tre tipi:
1. Azioni che descrivono il processo pulitura come cancellazione dello sporco, che riguarda la
comunicazione pubblicitaria della quasi totalità dei prodotti (“toglie lo sporco”, “rimuove il grasso”,
“elimina le impurità”, “fredda lo sporco”, “uccide germi e batteri” etc.);
2. Azioni che, pur indicando la stessa eliminazione, mettono l’accento sulle operazioni di trasformazione
da una materialità a un’altra (“liquida lo sporco”, “scrosta”, “sgrassa”, “scioglie”, “dissolve” etc.);
3. Azioni che parlano del processo di costruzione del pulito (“profuma la biancheria”, “fa splendere le
superfici” etc.).
La pulizia emerge dalle pubblicità come una vera e propria lotta contro lo “sporco cattivo”. In termini
semiotici potremmo dunque dire che quello della pulizia è un processo di disgiunzione dallo sporco e che
alla storia della biancheria macchiata che viene ripulita raccontata dagli spot soggiace, cioè, un programma
narrativo (PN) che da uno stato di iniziale disgiunzione dal pulito porta, attraverso tutta una serie di
trasformazioni, al ricongiungimento con esso. Ma chi opera queste trasformazioni? Quale struttura
attanziale presuppongono?
A ben vedere, gli spot analizzati hanno tutti una struttura simile: c’è un momento iniziale in cui si crea lo
sporco da pulire, il momento del lavaggio, e infine l’apprezzamento del risultato ottenuto. Si tratta, in effetti,
di tre momenti specifici della trasformazione narrativa che dallo sporco porta al pulito e in particolare del
danneggiamento, della competenza-performance e della sanzione.
In effetti, in tutti i casi analizzati, la macchia causata dall’aver rovesciato il vino sulla tovaglia o l’impasto sulla
camicetta è l’agente che, rompendo l’equilibrio iniziale del pulito, innesca il racconto. Lo sporco da
combattere, differentemente figurativizzato (macchie, cattivi odori, grasso, polvere etc.), svolge in questo
senso il ruolo attanziale di Anti-soggetto della storia la cui azione attiva il senso sociale del pulito che,
imponendo una certa forma di ordine e decenza, agisce da Destinante che manipola il soggetto del fare che
dunque vuole e deve lavare via le macchie. Ovviamente ciò avviene anche in concomitanza con altri attori
che svolgono il medesimo ruolo attanziale: nonne e mamme, costruite dalla pubblicità come soggetti
competenti pronti a dispensare consigli, ancor più in passato (Fig. 4) e tal volta ancora oggi (Fig. 2), ne
sono un esempio.
Tale manipolazione, inoltre, avviene spesso per provocazione: parlare di sporco “difficile” o “impossibile”,
infatti, fa emergere tutta la dimensione della sfida (Greimas 1983) – la presenza dello sporco nella profondità
del tessuto minaccia la competenza, ossia il poter e saper fare, del Soggetto operatore – legata oltretutto alla
possibilità una dimensione patemica della sporcizia che trova il suo eccedente passionale nell’ostinazione
(Greimas, Fontanille 1991) (es. “efficace contro le macchie più ostinate”).
Ma il protagonista dell’azione chi è? Chi svolge la performance? Il detersivo, il soggetto umano, o la lavatrice?
La risposta non può essere stabilita una volta e per tutte: per quanto possa essere intuitivo pensare che sia
sempre l’uomo a lavare, protagonista indiscusso dell’azione, nel racconto dei prodotti per l’igiene la situazione
è più flessibile e le possibilità diverse.
In questi casi, infatti, non è il soggetto umano a operare le trasformazioni del processo di pulitura: è il detersivo
a essere infatti il protagonista indiscusso dell’azione, Soggetto Operatore che riesce a far tornare gli abiti al
suo originario splendore – il nostro Oggetto di Valore. Mentre l’uomo è il Soggetto di stato danneggiato dallo
sporco e al tempo stesso un Aiutante che insieme a tutta una serie di altri oggetti che contribuiscono a portare
a termine il programma. In tal modo, elettrodomestici e persone, così come anche scope, spugnette,
216
spolverini, spazzolini e tutte le sostanze “aggiunte” al detersivo (i con presenti sulle confezioni – con
bicarbonato, aceto, igienizzante etc.) costruiscono, alla Latour (1991, 2005), ibridi efficaci, una rete
interattanziale, attorializzata poi differentemente, che contribuisce a pari merito alla buona riuscita del
programma narrativo. Ciò non vale solamente per gli attori coinvolti nell’azione pulente: pentole, superfici e
abiti uniti al calcare, all’unto e al grasso sono da intendersi come altrettante entità ibride, risultato dell’unione
di materialità originariamente separate.
Ovviamente questa struttura attanziale può essere ulteriormente complessificata. Nel mondo delle pulizie, ad
esempio, anche la temperatura dell’acqua o altri elementi come il calcare svolgono un ruolo narrativo: veri
e propri Aiutanti, nel caso delle alte temperature che sgrassano meglio, o al contrario Opponenti, come per
le basse temperature che non garantiscono una buona pulizia dei capi e l’uccisione dei batteri; così come
un’acqua calcarea può rovinare i nostri vestiti. Ciò nonostante, l’acqua è, nel mondo dell’igiene, un attante
importante per la buona riuscita del lavaggio e non solo perché, riprendendo Bachelard, “l’acqua è oggetto
di una delle maggiori valorizzazioni del pensiero umano: la valorizzazione della purezza […] L’acqua
accoglie tutte le immagini della purezza” (1942, p. 21-22), ma anche perché senza di essa pulire sarebbe
praticamente impossibile.
Greimas (1983), nell’analisi della zuppa al pesto, notava che la pentola destinata ad accogliere la zuppa di
legumi poteva essere considerata uno spazio utopico, ossia il luogo in cui avvengono le principali
trasformazioni narrative, e che l’acqua presente al suo interno, e nella quale erano versati gli ingredienti, era
da intendersi come un attante operatore delle trasformazioni che portano dal crudo al cotto. Nel nostro caso,
e a un primo sguardo, la lavatrice sembrerebbe avere lo stesso ruolo attanziale della pentola: in essa avviene
la performance, la prova che porta dallo sporco al pulito e in cui l’acqua rappresenta un fondamentale agente
di trasformazione. E tuttavia la lavatrice è più di questo perché non solo contiene il lavaggio ma lo aziona:
ruotando, agisce a sua volta definendosi in tal modo come un luogo utopico attivo. Continuando con
l’analogia culinaria, il suddetto elettrodomestico sembrerebbe così più simile alla ciotola girevole dello
sbattitore che collabora con le fruste all’amalgama degli ingredienti (Marrone, Mangano 2002).
Infine, la Sanzione è delegata, oltre che all’attore umano (che ad esempio annusa soddisfatto i capi puliti),
anche alla materialità stessa: sono infatti la lucentezza delle superfici, il biancore dei capi e il profumo delle
lenzuola a sancire positivamente la buona riuscita del programma e dell’azione di pulitura appena terminata.
Considerando quindi il programma di pulizia come un programma di base, troviamo, grazie alle indicazioni
dei verbi e alle azioni raffigurate, almeno altri due programmi narrativi d’uso che consentono di raggiungere
l’obiettivo finale, ossia il pulito. Si tratta dei programmi di cancellazione (PN1) e di costruzione (PN2). Da un
lato, infatti, il detersivo interviene per dissolvere lo sporco. Detersivi, spugne e lavatrici intervengono in questo
senso per eliminare macchie, cattivi odori e batteri dalle superfici e lo fanno sgrassando, sciogliendo,
dissolvendo. Tuttavia, una volta eliminato e smaterializzato lo sporco, ciò non basta per creare il pulito. Infatti,
se in linea di principio, come abbiamo visto, il puro è ciò che non è, ossia quello che rimane quando si
separa da ciò che lo contamina, è pure vero che, una volta rimosso lo sporco, questo non basta a dar vita di
per sé al pulito. L’oggetto lindo, una volta terminato il programma, non sarà più quello che era all’inizio.
Risulta infatti trasformato, ottenendo delle qualità diverse perché intensificate rispetto a quelle possedute in
origine: sarà più bianco, più profumato, più brillante (Fig. 17).
Fig. 17 – Ace denso più, 2018. Figurativizzazione dell’azione costruttiva
del detersivo che trasforma il tessuto donandogli nuove caratteristiche.
217
Il valore del pulito può dunque essere costruito e concretizzato in tanti modi, come abbiamo visto
all’inizio parlando delle tre dominanti figurative, e dopo aver tolto qualcosa (macchie, germi, impurità
etc.), per avere il pulito va aggiunto dell’altro: in tal senso il profumo, la freschezza, la lucentezza, la
protezione igienica sono esempi di Ov del PN di costruzione che, insieme al PN di cancellazione dello
sporco, dà vita ai diversi modi attraverso i quali il discorso pubblicitario materializza il fare narrativo del
pulito. Ecco che gli spot costruiscono tale processo non solo come una lotta fra figure attanziali con
obiettivi opposti (sporco vs agenti del pulito), ma più precisamente come una lotta fra materialità che si
trasformano reciprocamente.
6. Trasformazioni materiche
In tal senso, potremmo riprendere lo studio elaborato da Françoise Bastide (1987) nel suo saggio sul
trattamento della materia, che ci consente un aggancio fra il livello discorsivo e quello semio-narrativo.
È a partire dai verbi utilizzati in alcune ricette di cucina, tra cui anche la zuppa al pesto di Greimas
(1983), e trasformazione di sostanze chimiche, che Bastide individua alcuni stati della materia, pensati
nella forma di categorie semantiche, e un numero limitato di operazioni elementari di trasformazione
da uno stato all’altro. Trattandosi dell’articolazione semantica di valori profondi, questi stati e queste
operazioni possono poi assumere manifestazioni espressive di tipo diverso. Dunque, dopo aver visto la
materializzazione dello sporco a livello discorsivo e la sua rimozione come disgiunzione narrativa,
ragionare sulle trasformazioni materiche à la Bastide è utile per osservare il processo, la relazione
sintagmatica fra questi elementi: come si passa dall’uno e dall’altro? Quali cambiamenti materici
descrivono tale trasformazione?
Per osservare queste trasformazioni bisogna concentrare lo sguardo sul momento della performance:
corrispondendo infatti al momento in cui lo sporco viene eliminato è in questa fase che vengono messi
in scena i cambiamenti di materia. Innanzitutto, secondo Bastide, le procedure di lavaggio
rappresentano la manifestazione figurativa dell’operazione di scelta (Fig. 18), quell’azione che porta
cioè l’oggetto dallo stato composto (es. un maglione macchiato che in quanto tale, come si è detto, è
da intendersi come ibrido, intreccio di materialità di diversa origine) allo stato semplice (il maglione
pulito, le cui trame sono isolate dal resto), perché, selezionando gli elementi estranei da eliminare, la
pulitura lo priva di ciò che lo contamina.
Fig. 18 – Ace gentile, 2018. L’operazione di selezione figurativizzata
in maniera diversa.
Come si può osservare negli spot che abbiamo preso in analisi, il detersivo elimina le macchie, indicando
una generica disgiunzione, sono poi le immagini a raccontare nello specifico come ciò avviene attraverso
le trasformazioni materiche. Vediamo cosa avviene in lavatrice.
L’indumento sporco è presentato come un tessuto tra le cui trame è incastrata la macchia, in maniera
tale da apparire dunque particolarmente coesi e non facilmente separabili; tessuto e sporcizia si trovano
cioè in uno stato di compattezza. L’azione detergente che “scioglie” o “sgrassa” svolge in questo senso
un’operazione di apertura, ossia il passaggio dallo stato compatto allo stato discreto, liquefacendo lo
sporco. Nel caso specifico del lavaggio in acqua a essere evidenziata è inoltre l’operazione di espansione
218
che descrive il dissolvimento di un elemento in un liquido. “L’acqua o altri solventi – come gli acidi –
rappresentano in questo contesto un caso particolare, in cui l’azione del liquido annulla una forma di
coesione e rivela in tal modo un carattere […] laddove il corpo appariva compatto al livello macroscopico
della nostra osservazione: ci troviamo in presenza, dunque, di un’operazione di apertura che precede
l’espansione” (Bastide 1987, p. 168). È questo, dunque, il caso dei lavaggi in lavatrice in cui lo sporco
viene sciolto e si disperde in acqua.
Stato iniziale Operazione Stato finale
Compatto Apertura Discreto
Concentrato Espansione Espanso
La rimozione dello sporco invisibile – quali cattivi odori, germi e batteri – rende più complesso
figurativizzare le trasformazioni materiche. Come dicevamo proprio in riferimento alla dimensione
olfattiva (§2), la pubblicità costruisce effetti sinestetici che danno corpo e struttura a elementi
normalmente non visibili a occhio nudo. In questo caso, infatti, la trasformazione provocata
dall’operazione di separazione ed espansione viene tradotta visivamente attraverso un cambiamento del
colore, o meglio della sua luminosità, per cui:
cattivo odore : profumo = ombra : luce
In tal modo, gli spot danno vita a effetti di materialità che tuttavia non sempre rientrano nelle categorie
individuate da Bastide. Gli odori, in questi spot, non sono figurativizzati compatti come una macchia,
ma non sono neanche discreti o amorfi, essendo in qualche modo legati al tessuto.
Non-discreto Espansione Discreto
Scelta
219
Lo stesso avviene per quanto riguarda i prodotti che combattono batteri e virus: in questo caso, pur
essendoci la disgiunzione, e dunque una trasformazione narrativa, a mancare sembra essere la
visualizzazione delle trasformazioni materiche che a livello figurativo concretizzano tale trasformazione.
A essere messa in scena è infatti un’eliminazione totale, una disgiunzione nuda e cruda dagli agenti
patogeni: partendo da uno stato discreto – perché sparsi disordinatamente sui vestiti – al passaggio del
detersivo i germi spariscono letteralmente nel nulla come a voler significare che il detersivo non li
scioglie o disperde da qualche altra parte dove potrebbero continuare a rappresentare un pericolo –
banalmente, la lavatrice –, ma li fa totalmente fuori (Fig. 19). In tal modo, insieme all’eliminazione, il
rischio della presenza batterica viene disinnescato.
Ace gentile, 2018. Napisan, 2020.
Fig. 19
Similarmente a quanto osservava Floch riguardo agli annunci di certi psicofarmaci (1990), negli spot
della figura 19 a essere messa in scena è la trasformazione diretta da uno stato disforico, nel nostro caso
lo sporco, a uno euforico, il pulito, attraverso specifiche opposizioni plastiche:
Sinistra Destra
Molteplicità Unità
E Discontinuità Continuità
Policromatismo Monocromatismo
C Disforia Euforia
Sporco Pulito
In generale, vanno notati due aspetti: il primo, che potrebbe sembrare banale, riguarda il fatto che al
cambiare della categoria merceologica alcune trasformazioni materiche diventano più pertinenti di altre
(uno sgrassatore punterà in linea generale di più verso la destrutturazione del grasso incrostato, rispetto
poniamo a un ammorbidente). Il secondo è che non è detto che la pubblicità decida di mostrare tutti i
passaggi che portano da uno stato all’altro: per ragioni legate alle strategie di posizionamento dei propri
prodotti a volte l’accento è posto maggiormente sullo stato iniziale dello sporco, altre volte sul momento
della performance, e altre volte ancora sul momento finale che corrisponde alla sanzione positiva per la
riuscita del buon bucato. Esattamente come abbiamo visto per le tre dimensioni figurative individuate
– quella visiva, quella materica e quella olfattiva – si tratta di un aspetto interessante perché riguarda il
modo attraverso cui i brand costruiscono differenze interne ponendo l’attenzione su uno specifico
momento del processo di pulizia, individuando delle pertinenze che costruiscono il valore del prodotto.
E non solo, perché tali dimensioni oltre a concretizzare delle idee di pulito alternative – sul piano
paradigmatico – presuppongono e tracciano il percorso della loro costruzione – sul piano
sintagmatico. Ciascuna di esse rappresenta, in altre parole, la messa in discorso di momenti specifici
della produzione del pulito.
In ogni caso, scrive Bastide, “il risultato della pulitura è la riduzione di una eterogeneità ‘naturale’: […]
sudicio-sporco-contaminato/puro-pulito-isolato” (1987, p. 174). Pulire significa innanzitutto selezionare,
ed effettuare una scelta su cosa eliminare – e dunque ritenere sporco – presuppone uno schema, un
220
ordine delle cose dove, è evidente, il pulito è ciò che rimane isolato, non mischiato ad altro, rispetto allo
stato eterogeneo che assumono le cose quando vengono sporcate. L’idea di Bastide è, in altri termini,
la stessa idea di contaminazione di Mary Douglas: per entrambe pulire è un modo per fare ordine sotto
forma di costruzione della purezza.
In questo senso, le specificità di volta in volta diverse di pulizia e sporcizia in qualità di effetti di senso
dipendono anche dalle trasformazioni materiche che li sottendono e che vengono sfruttate dal
racconto di marca per arricchire e meglio articolare il nostro immaginario igienico rispetto a come è
normalmente inteso dal senso comune, ampliando ad esempio i significati del pulito che ci vengono
restituiti dal dizionario. D’altronde, l’enfasi materica e sensoriale è oggi particolarmente presente
nell’universo di brand e mediatico 5, e gli strumenti analitici adottati in questo studio (v. i riferimenti
al lavoro di Bastide, ma anche a quello di Greimas e Floch) risultano dunque particolarmente utili e
pertinenti nello studio di simili strategie commerciali e comunicative.
Tuttavia quello di sporco e pulito è ancora un problema aperto: sporcare è disordinare, pulire è rimettere
al posto. Ma lo sporco, una volta rimosso, dove va a finire? Le attività di pulizia nient’altro sono, in
questo senso, che la concretizzazione di un ritaglio effettuato sul mondo, logiche guidate da vere e
proprie forme dell’ordine che ci permettono di controllarlo per comprenderlo, punto di partenza per
una semiotica dell’igiene ancora tutta da indagare.
5
Si pensi ad esempio al fenomeno dell’ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response), ossia a quelle tecniche
di rilassamento legate a stimoli di natura principalmente uditiva e tattile, di cui il web e i social sono oggi densamente
popolati sotto forma di video dalla natura più disparata: dalle ricette di cucina in cui, più che i passaggi, a essere
enfatizzata è la materialità del cibo grazie ai suoni amplificati (croste croccanti, coltelli che affettano etc.) associati a
sguardi aptici e fortemente ravvicinati agli ingredienti, fino ai video degli aspirapolvere in funzione in cui a divenire
protagonista è il “rumore bianco” (vedi ad es. Dyson su YouTube, www.youtube.com/watch?v=5SEYNV4WaC8).
Di conseguenza, in questi video la ricetta non è più un testo istruttorio, e l’aspirapolvere non serve per pulire: a
essere prodotta tramite tali strategie sostanziali è una vera e propria estetica trasversale in cui vige l’esibizione
sensoriale, più vicina al fenomeno del food porn (Marrone 2016) che a un tutorial.
221
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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222
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Giulia Ceriani
Abstract. In the measure which currently willingly favors the discussion on materials – their nature, their recycling
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are brought back to a pure effect in a digital context? Does this deal with a visual transcoding only, or there is
something more? If the same expressive substances are called to dress an actorial identity in a digital world, are
they just to be considered as a last development of the mutation of materials that we have been witnessing for
years, or they represent a specific case of mediatization?
Are we just faced to the overturn of our perceptual habits, expectations and criteria of appreciation, or are we attending,
by the ongoing development of Metaverse, to unprecedented manifestations of a world still under construction?
This reflection aims to investigate the different aspects inherent to the evolution of materiality, up to its physical
dissolution (immaterial materiality), and to understand how much -and if- the semiotic tools we have at our
disposal can help us.
1. Materialità e immateriale
C’è la materia e ci sono i materiali. La materia non esiste se non in quanto formata, ovvero investita
della pertinenza con cui la trasformiamo in sostanza: non stiamo naturalmente dicendo nulla di nuovo,
se non che tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di
costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del tutto
antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben prima
degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce “oggetti di valore”, pure
posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di discorso.
Sappiamo, come ci indica Hjelmslev, che “la materia rimane sostanza per una nuova forma e non ha
altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa e quella forma” (1943, p. 57). Sostanza
dell’espressione, con la virtualità intersemiotica che traccia affinità ed esclusioni, e sostanza del
contenuto, che investe le tematiche, i generi, le tecnologie in essere.
Proprio a queste ultime, è dato oggi rilevare in primissima istanza il testimone dell’innovazione, dove
quest’ultima venga intesa come l’intenzione di invitare ad usi non previsti, o quanto meno fino ad allora
non immaginati, i materiali stessi. La questione dei materiali immateriali, oggetto di questa nostra breve
riflessione, si inserisce precisamente in questo filone, dove la tecnologia che conduce l’ideazione delle
skin con le quali abbigliamo gli avatar nel gaming o nel Metaverso, o anche solo che vediamo in
evidenza negli NFT droppable che la moda sta promuovendo, consegna alla visione l’intero percorso
di valutazione del materiale stesso.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
È così che, nella definizione “pixelata” dei materiali che incontriamo in ambiente digitale, l’assenza di
naturalità che ne fa dei referenti semi-culturalizzati, è conseguenza diretta della programmazione
algoritmica degli effetti di materia: effetti, per l’appunto, senza che si possa in alcun modo porre la
questione della loro matrice originaria, di una “verità referenziale” che è in questo caso impossibile da
porsi. Non riteniamo infatti ci sia possibile corrispondenza tra la meccanicità dei movimenti, delle
caratteristiche prossemiche, dell’interazione attoriale della quale è investita una figura (ad esempio ma non
solo vestimentaria) delle skin, e la sua potenziale equivalenza nel mondo offline; le separa una dinamica
percettiva che è altra anche rispetto a quella, ben più nota, dei personaggi di cartone animato anche
tridimensionale, la cui funzione, in termini di coinvolgimento dello spettatore, resta ben meno risolutiva.
Ben altro percorso dunque rispetto alla rappresentazione di una denaturalizzazione dei materiali già
in essere da almeno venti anni, quando si è dato il là a una robusta creazione di effetti di materia
contrari e anche contraddittori rispetto alle caratteristiche previste, persino in una semiotica del
mondo naturale, da alcune sostanze base: l’elasticità della ceramica, la non frangibilità del vetro, la
morbidezza del cemento, tra quelle che hanno diversamente interpellato i sensi a partire dalla
cancellazione del confine naturale/artificiale.
2. La materialità digitale
Stiamo di fatto affrontando, con la materialità digitale, l’ultima, dal punto di vista temporale, epifania
dei processi di mutazione che attraversano il nostro tempo, e interessano a livelli diversi la definizione
delle identità: che si tratti del gender, della relazione con l’ambiente, del rapporto con la nutrizione e di
quello con i rifiuti, le inversioni, le transizioni, gli scivolamenti, se appartengono alla generale evoluzione
di ogni congiuntura, sono tuttavia particolarmente cruciali in questa specifica stagione, che vede la
saturazione di fenomeni addensatisi nel tempo (tra tutti, ad esempio, quello climatico ma anche, sul
fronte economico, quello della contrazione che ci coinvolge trasversalmente).
La mutazione che qui ci riguarda è tuttavia molto specifica: è quella della veridizione dei materiali stessi,
distratti dal loro significato culturale e riorientati in direzione di un livello secondo di realtà che non
sapremmo chiamare artificialità. Pensiamo, in particolare, a quello che succede con le “skin” indossate
dagli avatar all’interno dei videogames, dove l’identità costruita nella continuità della materia digitale
genera sostanze che riorganizzano non solo il dato percettivo in assoluto, ma anzitutto la percezione
della propria collocazione identitaria. In un articolo che rifletteva sui primi materiali mutanti, Ceriani
(2018) suggeriva di riprendere l’opposizione categoriale proposta da Fontanille (1995) tra visée, dove il
soggetto è in tensione verso un oggetto a lui esterno, e saisie, dove è al contrario assorbito nel divenire
dell’oggetto stesso. La smaterializzazione, che è il focus paradossale dei materiali digitali, avrebbe allora il
proprio fulcro nella mera consistenza come état d’ame, modalizzazione dell’essere attraverso stati luminosi
che simulano le materie fisiche. O meglio, che a queste si sostituiscono, stante che non c’è un loro esistere
prima della digitalizzazione. Sono discorsi di luce, investiti su corpi simulacro che non hanno consistenza
fisica, e che non sono del resto riconducibili – nelle movenze, nelle proporzioni, nella qualificazione
d’insieme della propria tenuta – a nessuna sostanza che abbia un analogo nel mondo offline.
Eventualmente riconducibili al cinema d’animazione in 3D, ma con in più la sfida di fornire da supporto
a quell’identificazione immersiva che veicola, attraverso l’avatar, il soggetto al centro della scena.
L’esistenza digitale chiede che si acceda all’effetto di materia per pura via sinestesica, e dunque che sia
la visibilità/la luce per l’appunto, a guidare l’articolazione del contenuto (l’intellegibile), ma anche la
modalizzazione del sensibile da cui dipenderebbe la percezione; intensità, salti cromatici, diffusione
della luminosità, in una spazialità dinamica che non può essere simulazione, poiché non ha nessun
riscontro in un mondo costruito che precede la visione.
224
Ci chiediamo dunque fino a che punto la smaterializzazione intervenga all’interno del percorso
immersivo, quasi a garantire l’indipendenza dell’effetto di senso proposto, la sua autosufficienza sinergica
al mondo possibile che risucchia, e che è pura saisie senza riscontri al di là dell’online. Oppure, se la
componente visiva che gestisce l’effetto di senso sinestesico, pur investita apparentemente di una
configurazione plastica, non sia invece da ricondursi a parametri figurativi che, nella profondità più o
meno concessa dal 3D, invitino in qualche modo a un confronto, scuotendo, a partire dal vedere, quella
dimensione fiduciaria che appare l’aspetto più entusiasmante, quello davvero innovativo, del percorso
di fruizione del materiale. Del materiale tessile in particolare, nel contesto digitale, se pensiamo allo
specifico della funzione vestimentaria: credere che qualcosa sia, esserne protagonisti, sentire e capire, in
funzione dell’incontro percettivo con quello che non ha di fatto alcuna consistenza fisica. Un tema del
tutto diverso da quello dei materiali mutanti: si trattava, in quel caso, di rinnovare le meccaniche
percettive; si tratta, in questo secondo caso, di mettere in opera dinamiche percettive che riconoscono
salienze puramente immaginarie, generate dai giochi visivi voluti da un algoritmo.
3. L’esempio delle skin
L’esempio è a questo punto necessario. Sapendo che occorre ricorrere, nel pensare alle pertinenze
materiche digitali, a una distinzione tra quelle circolanti sulle piattaforme di giochi (come Roblox o
Fortnite) e quelle invece che si occupano di NFT (come su Decentraland). Si tratta, di fatto, di due
diverse gradualità di attualizzazione del Metaverso: in entrambi i casi, però, si pone appunto la questione
delle skin da far indossare all’avatar, ed è rispetto a queste che vorremmo porre la discussione dei
materiali immateriali. Con la premessa che a distinguerle è di fatto la diversa funzione che sono chiamate
a ricoprire, in relazione ai diversi e progressivi livelli di realtà che queste piattaforme investono.
Non è infatti di moda che vogliamo parlare, ma di come la necessità vestimentaria con la quale in questi
contesti si riveste, letteralmente, la funzione attanziale dei protagonisti, faccia da tramite alla
compenetrazione dell’effetto di realtà attraverso cui si ottiene l’engagement immersivo. Le skin sono dei
veicoli mediali fondamentali, ben più del contesto in cui si muovono, proprio perché rivestono, in
soggettiva, l’identità dell’attore con il quale ci identifichiamo; non solo, nel contesto attuale di silhouette
relativamente elementari e di dinamiche ancora poco naturali, a gestire l’effetto di verisimiglianza non
è tanto la shape, la silhouette spesso ancora impacciata e cartoon, quanto il materiale digitale stesso.
Il punto è come definire i mondi possibili a cui danno accesso le skin digitali, come stabilire che quello
che stiamo percependo è un mondo sufficientemente “reale” per poter desiderare di agirvi, e ancora
per decidere se c’è o meno una linea di distinzione tra un mondo “reale” e uno che reale non è…
Oppure, per decidere che proprio lo stato di imperfezione e indecidibilità dei materiali è la marca del
tempo presente, ove non si ritenga opportuno assumere lo choc di stabilire un limite tra quello che è
“dentro” e quello che è “fuori”.
Le piattaforme di gioco, così come i marketplace, sono e non a caso, il terreno favorito per la
veicolazione di questi materiali mediali, termine con il quale intendiamo quegli effetti di materialità
che vengono investiti su attori digitali in particolare attraverso le skin, prestando loro uno specifico
effetto di verosimiglianza in funzione della propria corrispondenza figurativa. La verosimiglianza è il
loro stato naturale, la pre-condizione della loro esistenza: non c’è gioco senza un’identità simulata,
senza un avatar, e non c’è avatar senza il rivestimento di materiali che tematizzano (o brandizzano) la
sua silhouette fantomatica.
Un primo esempio emblematico di questa forma di significazione è riconoscibile nel cobranding
inaugurato nel 2021 da Balenciaga e Fortnite (cf. Fig 1): la moda virtuale, digitalizzando gli outfit del
brand di lusso francese, consente – su un doppio fronte- di convogliare una community di fans che
presumibilmente “pescano” nella Gen Z, ben più disposta a investirsi, anche in ambito vestimentario,
225
negli ambienti virtuali che in quelli fisici, anche in nome di un più radicale sostegno della sostenibilità.
Questa l’operazione. Di cui tuttavia ci interessano qui non tanto il dettaglio e la seduttività delle shapes,
ben più primitive di quanto la dimensione fisica ad oggi consenta, quanto le peculiari caratteristiche
iconiche che i materiali che le rivestono (cotone per la felpa, materiale a scaglie per le armature, tessuto
elasticizzato animalier per le tute etc.) assumono: dove ad essere pertinenti non sono, ad esempio, la
freschezza del primo, la luminosità del secondo o la vestibilità del terzo, quanto la capacità di intervenire
in una dinamica di rappresentazione gommosa e morbida, tale per cui il corpo umano non potrebbe
seguire. Sono cartoni? No, a nostro avviso sono ibridi che inaugurano, grazie ai materiali smaterializzati,
una possibilità immersiva peculiare, un poter fare sommato a un poter essere che ne sottolinea un drive
argomentativo del tutto nuovo.
Fig. 1
Sulle piattaforme – per comprare, interagire, giocare etc. – c’è necessità di una consistenza visiva, ma
sappiamo che questa consistenza visiva ha pochissimo o nulla a che vedere con il suo “pretesto” fisico.
Di fatto, misuriamo l’effetto di realtà attraverso gradienti di diversa intensità, secondo un progressivo
distanziarsi dalla materialità fisica a quella aumentata, fino a quella immersiva.
Detto questo, stante l’immaterialità della sostanza delle identità digitali, i termini della significazione si
rovesciano: quali paradigmi conducono? In particolare, quando si tratta di skin brandizzate o di NFT,
qual è il criterio qualitativo/valutativo che guida? Quale, in relazione a parametri correnti come fitting,
stile, opportunità?
Proviamo a rispondere aiutandoci con un secondo caso ben noto, quello dell’entrata di Dolce & Gabbana
nel Metaverso, con la presenza alla Metaverse Fashion Week svoltasi sulla piattaforma nel 2022 (Fig. 2),
che ha fatto seguito alla prima collezione sperimentale del 2021 (Fig. 3). Ed è proprio nel confronto tra le
due diverse modalità di rappresentazione dei materiali che è dato leggere il senso dell’intervento di questi
ultimi sull’effetto di realtà: dove l’evocazione della versione più recente, che porta i materiali in una
dimensione connotativa e del tutto autonoma rispetto alla pertinenza referenziale accuratamente ricercata
nella prima versione, appare sufficiente a legittimare la proprosta. Il Metaverso non ha più bisogno di
identificarsi con figure del mondo già note, ha stato, percezione e immaginario a se stanti.
Scrivono Greimas e Courtès (1986, p. 185): “L’effet de sens ‘réalité’ correspond à la relation conjonctive
que le discours installe entre le monde et le sujet par une sorte d’embrayage existentiel”. I materiali
digitalizzati si confermano oggetti culturali costruiti, enunciati (nella porzione figurativa dei capi
vestimentari che interpretano) che producono significazione nell’insieme della proposta in questo caso
siglata da una marca di moda (ma analogamente sarebbe per prodotti e brand di altra natura), e
contemporanemente diventano attori della costruzione di una realtà semiotica inaugurale, che conosce
valenze di senso e patemizzazione del tutto proprie.
226
L’impressione è che il valore diventi, in questo contesto, puramente modale, e che prescinda
necessariamente dalla descrittività: si tratta di fashionscapes (Appadurai 1996; Calefato 2021) dalla
potenzialità immaginaria, dove il processo sinestesico riveste la massima importanza, improntato a un
accesso sensoriale esclusivamente visivo (visivo e sonoro in qualche caso).
Fig. 2
Fig. 3
4. Identità visive in mutazione
Veniamo dunque alle identità. Sappiamo bene che la differenza è garanzia di unicità e che non c’è
identità senza la differenza che distingue da un attore secondo: l’identificazione è l’azione che trasforma
un attante non identificato in un attore che ha il suo carico di figuratività e tematizzazione.
Questo è cruciale quando pensiamo ai materiali che ricoprono gli NFT, in arte come nella moda il primo
step dell’identità con cui possiamo esperire il Metaverso, ma anche produzioni autonome, acquisibili anche
solo in nome del loro valore economico: sappiamo che il loro codice privilegiato è stato concepito per
sigillare la loro identità digitale, facendola scivolare dal polo della continuità a quello della non continuità.
Le domande che salgono sono allora evidenti: come valutare il valore immateriale quando si investe in
una forma figurativa? Come catalogarlo? Come conservarlo? Come mostrarlo? Come interagire con?
Ancora più, come stabilire i criteri di apprezzamento del suo valore, fino a quello finanziario?
Abbiamo, in particolare, bisogno di capire che cosa succede quando le figure digitali allentano il
rapporto con il loro equivalente analogico, come si ristruttura l’esperienza estesica che appare
improvvisamente insignificante, o altrimenti significante.
Se facciamo riferimento agli esempi di cui sopra, la nostra risposta ultima è che l’unica rappresentazione
che conta è quella che conduce a una strategia della visibilità non autosufficiente, ma improntata a una
ricerca di efficacia in relazione a una dinamica interna alla testualità digitale, e non più orientata al
semplice embrayage di uno spettatore esterno. Nel momento in cui accettiamo l’immaginario veicolato
227
dai materiali digitalizzati che rivestono le skin, che le costruiscono, siamo già al centro della scena, in
un’immersività paradossalmente facilitata proprio dalla loro distanza rispetto alla referenzialità.
Il corpo/l’oggetto rivestito dalla skin è un pretesto mediale, che gestisce la sua azione in direzione di
una relazione interattanziale. E la sua funzione è puramente performativa: promette, intimidisce, seduce,
seguendo i ruoli che costruiscono la sua identità nella specifica contestualizzazione a cui riferiscono nel
contesto del Metaverso: molti corpi fisici potrebbero corrispondervi, o nessuno.
I materiali che rendono consistenti le emergenze digitali sono allora la porta d’entrata con cui il
Metaverso stesso rifocalizza la relazione tra espressione e contenuto della customer experience, il pattern
liquido che riassume esperienze plurime cancellando le marche dell’enunciazione.
5. Insignificanza e rimaterializzazione
Si tratta, forse più che di smaterializzazione, di rimaterializzazione. La figura attorializzata è condizione
di immersività, il materiale diventa ambiente inteso a produrre effetti di presenza. L’esperienza estetica
è ridefinita “sembra collassare ogni distanza fra soggetto e oggetto del sentire e del conoscere” (Corrain,
Vannoni 2021, p. 16). Il materiale è significante in funzione dell’esperienza polisensoriale che genera e
di cui il suo spettatore partecipa, attivando una modalità sinestesica inedita, perché partecipe della sua
costruzione. Come scrive Paul Dourish “rematerialization – not as a move away from the material to
create a domain of the virtual but rather a new material foundation for digital experience” (2017, p. 36).
La digitalità materiale si sottrae alle delimitazioni delle unità discrete e individua altre opposizioni,
inscritte nella matrice del codice di programmazione. Non si chiude in oggetti, abiti, case o altre figure
del mondo, ma lascia trascorrere il proprio flusso di pixel e connessioni. È informe formato. È semiotica
di una diversa naturalità del mondo, che ha il suo grado zero dentro la rete.
Scriveva Algirdas J. Greimas a proposito del contratto di veridizione: “le concept de vraisemblance est
nécessairement soumis à un certain relativisme culturel, qu’il correspond, géographiquement et
historiquement, à telle ou telle aire culturelle qu’il est possible de circonscrire” (1983, p. 103).
La ridefinizione che ne dà il contesto presente interviene direttamente nella qualificazione dei materiali
immateriali del digitale, il cui valore di rappresentazione è direttamente proporzionale alla capacità di
restituzione dell’effetto di realtà, secondo un concetto di reale che dosa l’intensità del suo effetto sul
mondo e sull’ideologia di riferimento.
Quello che ci appassiona, è che questa ridefinizione del mondo “naturale” rimette l’accento su una
logica dei sensi ancorata in formanti ritmici che precedono l’ancoraggio figurativo.
Se è vero che la realtà è un significato che dipende dalla conformità alle regole culturali condivise, ecco
che la plausibilità diventa condizione sufficiente per considerare questi “nuovi materiali” digitali come
sostituti a pieno titolo di quelli a noi più consueti. In un altro mondo, però. La smaterializzazione distrae
il valore dalla qualità materiale e ci obbliga di necessità a riconsiderare che cosa il valore stesso è: ecco
perché le contestualizzazioni digitali del gaming, che si fondano sulla verosimiglianza, sono apparse da
subito come l’humus naturale in cui permettere a questo nuovo immaginario di espandersi, rovesciando
l’assiologia del contratto con i destinatari, verso un riconoscimento del valore che non può più essere
descrittivo ma è subito soggettivo e modale.
Ci sono due modi, scriveva Deleuze in Logique de la sensation, “di superare la figurazione (cioè insieme
l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta oppure verso la Figura” (1981, p. 85). E la
Figura, che Deleuze riconosce in Cézanne e Bacon, è la potenza di un’unità originale dei sensi che
funziona come un dispositivo ritmico, “il mio io che si apre al mondo e che apre il mondo” (ibidem, p.
99): insignificanza apparente della riconduzione referenziale, sensazionalità e insensato di un’artificialità
naturale che ci chiede di rinunciare all’ovvietà del riconoscimento materiale.
228
Bibliografia
Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization, Minneapolis, University of
Minnesota Press.
Calefato, P., 2021, La moda e il corpo, Roma, Carocci.
Ceriani, G., 2018, “Vedere e credere: dalla mutazione dei materiali all’oggetto in presenza”, in Id., Cavalli al
galoppo e pomodori, Milano, FrancoAngeli.
Corrain, L., Vannoni, M., 2021, Figure dell’immersività, in Carte Semiotiche, Annali 7.
Deleuze, G., 1981, Logique de la sensation, Paris, La Différence; trad. it. Logica della sensazione, Macerata,
Quodlibet 1995.
Dourish, P., 2017, The Stuff of Bits: An Essay on the Materialities of Information, Cambridge (Mass.), MIT Press.
Fontanille, J., 1995, Sémiotique du visible. Des mondes de lumière, Paris, PUF.
Greimas, A. J., 1983, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Seuil.
Greimas, A. J., Courtès, J., 1986, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage II, Paris, Hachette.
Hjelmslev, L., 1943, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse; trad. it. Fondamenti di teoria del linguaggio, a cura
di G. Lepschy, Torino, Einaudi 1987.
229
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] | La materia dello spirito: ontologia o semiotica?1
Francesco Galofaro
Abstract. In the first part of the paper the notion of matter will be considered as purport or mening (meaning)
without metaphysical connotations. It will be also meant as inherence, i.e., the orientation of the subject towards a
value. Starting from a semiotic work on the purport, in fact, some characteristics become the form of value in view
of a subject. The second part will show how different texts, from Paul to Edith Stein through Plutarch, John
Damascene, Thomas Aquinas, Teresa of Avila, Leibniz, Florensky and Wittgenstein, construct the metaphysical
opposition between matter and spirit by attributing different values to the two terms. Thus, purport precedes matter
in the ontological acceptation. The third part summarizes the first two: there is no pre-semiotic or extra-semiotic
matter; the discourse about ontology can think of matter only within a semiotics of value. In this frame, the principle
of inherence will be considered as an operator who organizes purport (meaning) into a value and a subject for
whom such a value is worth through semiotic work.
1. La “materia” come purport
Nella traduzione italiana di Hjelmslev (1943) la tripartizione forma/sostanza/materia segue
essenzialmente la versione francese (forme/substance/matière). Ne deriva una inevitabile analogia con il
concetto aristotelico di synolon, foriero di molte confusioni filosofiche e di derive ontologiche non
sempre produttive, oltre all’esclusione della materia dall’indagine della significazione, dato che essa non
è conoscibile se non tramite una forma. Proprio da questa esclusione sono sorte in passato serie difficoltà
nel dialogo tra semiotica e discipline che hanno molto a che fare col materiale, dalle arti figurative al
design, che gli articoli contenuti nel presente volume intendono superare.
Dal punto di vista che qui intendiamo sviluppare, l’esclusione della materia sorge entro la ricezione del
pensiero di Hjelmslev in ambito francese e italiano, a causa delle connotazioni metafisiche del termine
matière; la traduzione inglese di Francis J. Whitfield, approvata dall’autore, usa il termine purport.
Secondo il dizionario Merriam-Webster online, purport significa “meaning conveyed, professed, or
implied : import; also : substance, gist”. Dunque, purport non è la materia nel senso, ontologico, di “ciò
che costituisce tutti i corpi” (Treccani online). Purport è un “argomento in genere, soggetto di cui si
tratta in una conversazione, in una conferenza, in un libro, ecc”. È il “succo del discorso”, il “nocciolo
della questione”. Sempre secondo il Merriam-Webster online, il verbo to purport originariamente aveva
il valore di “significare”; ha acquisito nell’inglese contemporaneo la sfumatura di intendere, implicare;
dunque, se ha un qualche genere di interesse filosofico, la c.d. “materia” ha a che vedere con la
problematica dell’intenzionalità più che con la metafisica.
Forti di questa prospettiva, si ritorni sul noto passo dei fondamenti:
1Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council (ERC) nell’ambito del programma
di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea (convenzione di sovvenzione n. 757314).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Così troviamo che le catene:
jeg véd det ikke (danese)
I do not know (inglese)
je ne sais pas (francese)
en tiedà (finlandese)
naluvara (eschimese)
nonostanti le loro differenze, hanno un fattore in comune, cioè la materia, il senso, il pensiero stesso
(Hjelmslev 1943, p. 55).
Nella versione inglese troviamo: “despite all their differences, have a factor in common, namely the
purport, the thought itself” (Hjelmslev 1943, p. 50 della trad. ingl.) . Il traduttore italiano, Giulio
Lepschy, è costretto a specificare che per “materia” si intende senso; d’altronde, nella sua introduzione
(Hjelmslev 1943, p. xxiv) si legge che il termine danese usato da Hjelmslev è mening. Il termine
ricorda anche foneticamente il meaning inglese, ma vale anche come “opinione” e si colora di
sfumature cognitive ed ermeneutiche.
Il mening, tradotto col termine ontologicamente connotato di “materia”, è stato identificato grossomodo
col supporto o con il canale della teoria dell’informazione (l’aria, la carta e tutto ciò che si presta ad
essere formato dalla lingua). In questa prospettiva, restava oscuro e misterioso in che senso il pensiero
fosse una specie di “supporto” della forma del contenuto. Ma se traduciamo mening con “senso,
argomento”, a costituire un mistero non è più cosa sia la materia del piano del contenuto. È anzi piuttosto
chiaro che la materia del contenuto è una sorta di presa molare sul senso, anteriormente all’analisi vera
e propria; è il gist, il nodo in discussione, il punto di cui si tratta. Il concetto meno intuitivo diviene
piuttosto il purport–expression, ossia il senso dell’espressione. In altri termini, non è che Hjelmlsev
estrapoli al piano del contenuto una nozione che ricava dallo scarto residuale dall’analisi del piano
dell’espressione; è piuttosto il contrario. Una cosa è certa: Hjelmslev non sembra intendere la carta, la
tela, in un senso “ontico”: in che modo, infatti, i pixel dello schermo su cui scrivo potrebbero essere
intesi come senso dell’espressione?
I problemi non finiscono qui: una volta identificata la materia al senso, come intendere, la seguente,
notissima affermazione?
La materia è dunque in se stessa inaccessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni conoscenza
è un’analisi di qualche tipo; la materia si può conoscere solo attraverso una qualche formazione, e non
ha quindi esistenza scientifica indipendente da tale formazione (Hjelmslev 1943, p. 82-83).
È chiaro che Hjelmslev parla di una inconoscibilità ad un livello epistemologico, e non gnoseologico,
altrimenti il senso di una qualsiasi frase sarebbe inconoscibile; non solo: a rigore egli stesso dovrebbe
astenersi dallo scrivere alcunché sulla materia. E invece si spinge fino a darne una definizione formale:
la materia è una “classe di variabili che manifestano più di una catena entro più di una sintagmatica, e/o
più di un paradigma entro più di una paradigmatica” (Hjelmslev 1943, p. 148). Poiché la sostanza è la
variabile in una manifestazione, la materia è una classe di sostanze. È quindi difficile accogliere la
proposta di Eco, che – a suo dire, alla luce della semiotica peirceana – propone di identificare la materia
ad un unico continuum (Eco 1984, p. 52). Infatti, intendendo la materia in termini di purport, ciò
equivarrebbe a dire che esiste un unico senso, un unico argomento. Dalla definizione non si deduce
l’esistenza di un’unica classe di sostanze. Dovremmo piuttosto pensare a un pluralismo delle materie e
dei sensi, ovvero delle classi di sostanze costruibili entro uno stesso piano (dell’espressione e del
contenuto) o tra i piani.
231
1.1. La materia tra differenza e inerenza
A mio parere, la materialità del senso messa in gioco dal purport si comprende meglio se la
consideriamo non tanto come differenza, con Saussure (non usciremmo infatti dal paradosso della sua
inconoscibilità al di fuori della forma) quanto piuttosto come inerenza: il significato per un soggetto è
investito in un oggetto che ha valore per lui.
Il principio di inerenza, da parte sua (posizione del soggetto), risponde alla nozione fenomenologica di
valore, al tipo di valore che giustifica la correlazione fondamentale soggetto-oggetto all’interno della
nozione fenomenologica di intenzionalità. Si tratta di plasmare una relazione orientata, vettorializzata
da una dinamica che è quella di dare senso, o, se si vuole, di coglierlo (Marsciani 2014, p. 18).
Chiaramente, differenza e inerenza si presuppongono come la nozione di costante presuppone la nozione
di variabile, senza che vi sia l’una anteriormente all’altra, senza che ciascuna di esse si dia senza l’altra in
senso assoluto – a dircelo è anche la definizione hjelmsleviana della materia come classe di variabili.
Nella semiotica di Greimas, il valore non può essere sic et simpliciter identificato con il purport. Al
contrario, il concetto saussuriano di valore linguistico, “ha permesso l’elaborazione del concetto della
forma del contenuto (L. Hjelmslev) e la sua interpretazione come insieme di articolazioni semiche”
(Greimas, Courtés 1979, p. 375). Dunque, il valore è forma in quanto è il risultato di un’analisi. Tuttavia,
nella brevissima voce che Greimas dedica alla materia, scrive:
L. Hjelmslev usa indifferentemente i termini materia o senso applicandoli insieme ai due
‘manifestanti’ del piano del contenuto. La sua preoccupazione di non-impegno metafisico è qui
evidente: i semiologi possono dunque scegliere a loro piacimento una semiotica ‘materialista’ o
‘idealista’ (Ibid., p. 209).
Ciò che sembra contare, dunque, non è tanto che il valore appartenga a uno dei due piani (nella
fattispecie, quello del contenuto), quanto l’attribuzione di valore da parte di un soggetto che fa presa su
questo o quell’aspetto della materia, così formandola: dar valore (o far valere) è un’operazione di
“ritaglio”; è una “selezione”; è distinguere ed evidenziare.
Un esempio può venire dall’oculistica: la leggerezza di un paio d’occhiali è senza dubbio una proprietà
formale, relazionale, risultante da una combinazione dello spessore delle lenti e del materiale della
montatura. Detto questo, è anche il risultato dell’orientamento del soggetto che attribuisce un valore
all’oggetto (inerenza). Nella scelta di un paio d’occhiali, la leggerezza è una tra le proprietà fondamentali
che permette l’incorporazione dell’oggetto (si veda anche Marsciani 2008 per quanto riguarda
l’incorporazione delle calzature).
Il sapere degli oculisti, codificato nella cultura, include le proprietà formali (pratiche, estetiche …)
ricavabili, dunque valorizzabili, attraverso il lavoro su una data materia. Allo stesso tempo, nella
produzione di un oggetto nuovo si dà una ricerca del valore virtuale che mira a oltrepassare i limiti
dell’attuale. Si tratta di un lavoro semiotico esercitato sulla materia per produrre, modificare, sostituire
forme dell’espressione e del contenuto e per correlarle (Eco 1975, 3.1.2.). La leggerezza dell’occhiale, in
quanto forma del valore, è frutto di un qualche genere di selezione e di ritaglio: esso si effettua sulla
materia-purport – il metallo che si lascia formare in aste sottili, il vetro puro che si lascia ritagliare in
geometrie prive di difetti. Un senso globale, il purport, si presta a un lavoro semiotico di valorizzazione,
di informazione: si presta insomma a divenire forma del valore.
Nella prossima sezione, mi occuperò di un caso studio importante: quello dell’opposizione formale tra
materia e spirito. Nonostante le diverse epoche abbiano costruito la relazione tra i due valori in modi
molto diversi, la nozione di purport e il principio di inerenza permetteranno di cogliere fenomeni
comuni e tendenze di fondo, rivelandosi – almeno spero – piuttosto utili nella pratica d’analisi
232
2. La materia e lo spirito
Materia e spirito sono in primo luogo due valori semantici che caratterizzano il discorso religioso
occidentale, in larga parte cristiano, nella misura in cui esso la eredita l’opposizione forma/materia dalla
filosofia greca e l’assimila all’opposizione tra anima e corpo o tra spirito e carne. Tale opposizione risulta
dall’analisi del linguaggio - oggetto del discorso religioso e non va confusa con quella tra forma, sostanza
e materia che caratterizza il metalinguaggio semiotico. Per evitare confusioni, d’ora in avanti riserviamo
il termine ‘materia’ al linguaggio oggetto e il termine purport o mening al metalinguaggio.
Lo scopo che mi propongo, in primo luogo, non è una ricostruzione delle complesse vicende e
incarnazioni dello spirito attraverso i millenni, quanto ridurre questa complessità a un numero finito di
opposizioni che normalmente ricorrono nei testi. Come vedremo, infatti, tra materia e spirito si sono
date per lo meno le seguenti relazioni:
1. Antonimia: spirito e materia sono contrari;
2. Opposizione privativa: la materia è assenza di forma (spirito) e viceversa;
3. Inclusione: lo spirito è contenuto nella materia;
4. Partecipazione: lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva “materia”, la
quale lo comprende al proprio interno.
In ciascun caso è possibile ricostruire diversi investimenti forici che trasformano tali opposizioni in
assiologie. Qui di seguito presenterò i relativi esempi e cercherò, attraverso il principio di inerenza, di
render conto del purport di partenza.
2.1. La carne e lo spirito
Generalizzando, nel cristianesimo si assiste a una difficile convivenza tra due cosmologie più o meno
implicite: la prima considera la materia come un male da cui liberarsi, rasentando a tratti lo gnosticismo;
la seconda la vede come parte del creato, e dunque non può associarle un valore del tutto negativo.
Innanzitutto occorre sottolineare come l’opposizione spirito-materia non sia familiare all’ebraismo:
L’imitatio Dei non divide nell’ebraismo l’essere umano in due sfere distinte, una corporale e una
spirituale, bensì va perseguita con tutto il néfesh, con l’integralità della persona. Anche il corpo
dunque va santificato, dalla nascita (attraverso la circoncisione) fino alla morte (con le pratiche di
cura del corpo del defunto, che non va dissacrato né distrutto, per esempio con la cremazione)
(Volli 2022, p. 29).
L’antonimia spirito/carne (sarx) organizza l’assiologia della lettera di Paolo ai Romani:
Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso
possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato,
egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non
camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rm 8, 3-4).
La sintesi tra pensiero ebraico e greco costituita da tale opposizione è originale (Volli 2022, p. 16).
Secondo il commento della TOB (1988, pp. 2590 - 2591, 2571-2, n. g), il passo abbonda di relazioni con
altre lettere paoline mentre è singolarmente privo di riferimenti intertestuali ai vangeli.
Ad essere precisi, l’antonimia spirito/carne non ha un valore assoluto nemmeno in Paolo: “carne” può
valere anche come “umanità”, la quale non può essere giustificata attraverso le opere (Rm 3, 20) oppure
come debolezza umana incline al peccato (Rm 7, 25). Nel passo riportato sopra, tuttavia, essa ha un
valore di norma etica (vivere secondo la carne/secondo lo spirito). “Carne” è l’economia mosaica (BDJ
233
1998, p. 2668): non si può pensare di costringere Dio a salvarci rispettando formalmente l’insieme di
norme dell’antico testamento; dopo la resurrezione di Cristo, le opere si compiono con la forza dello
Spirito. La lettera è indirizzata alla comunità romana e, come è noto, si propone di prevenire divisioni
tra i convertiti di origine ebraica e pagana.
Chi ha provato a ricostruire l’insegnamento orale di Cristo attraverso le tracce che esso lascia negli scritti
di Paolo riscontra piuttosto una convergenza tra Rm 8, 26 e la nozione gesuana di Spirito come
soccorritore (Walt 2013, pp. 348 – 350). È innegabile l’assonanza con Mt 26, 41: “Vegliate e pregate, per
non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Tuttavia, nelle parole che Gesù
pronuncia sul monte degli ulivi, in un momento di angoscia, non risuona una vera antonimia. Anche la
TOB (1988, p. 2307, n. w) riconosce in Gesù un insegnamento più vicino ad alcuni testi ebraici
dell’epoca, secondo i quali “Dio ha messo nell’uomo uno spirito orientato verso il bene, ma l’uomo è
nello stesso tempo tutto carne in quanto è sottomesso al potere del peccato”: avremmo insomma
un’opposizione partecipativa (la parte vs. il tutto che la comprende).
Anche negli scritti giovannei – Gv 1, 14: et verbum caro factum est – la carne rappresenta “la natura
umana con le sue possibilità e i suoi limiti, e, più ampiamente l’esistenza terrena senza alcuna sfumatura
peggiorativa” (TOB 1988, p. 2424, n. p). Insomma, il punto di vista di Paolo, secondo cui carne e spirito
sono antonimi, è originale. Del resto, il suo stile di scrittura era incline alla figura retorica dell’antitesi
(Walt 2013, p. 317).
Non sarebbe corretto, tuttavia, ascrivere genericamente al pensiero greco che risuona in Paolo la
svalutazione della materia. Ad esempio, in pieno medio-platonismo, idea e materia sono entrambe
valorizzate positivamente:
La natura migliore, quella più divina, si compone di tre parti, ossia il principio intelligibile, la materia,
e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile
con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di
nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione (Plutarco 1985, p. 122).
Nel passo citato, Plutarco interpreta il Timeo di Platone sottolineando soprattutto la metafora
matrimoniale e generativa tra idea e materia. Proprio in quanto antonimi, idea e materia danno vita al
cosmo, termine complesso che li comprende entrambi, e non sembrano opposte assiologicamente.
Plutarco (Ivi) divinizza la relazione
forma
materia
} cosmo
stabilendo un parallelo con gli dèi egizi Osiride (origine), Iside (ricezione) e Horos (compiutezza).
L’identificazione della materia con una sede ci mostra come la presunta antonimia tra materia e forma
possa essere riarticolata come rapporto di inclusione, contenitore/contenuto, su cui ritornerò nel
prossimo paragrafo2. Il male non coincide di per sé con la materia; per Plutarco esso è piuttosto l’effetto
di un’anima malvagia, titanica, irrazionale, volubile, insita nella materia. Tale anima è impersonata dal
personaggio di Tifone che uccide Osiride (cfr. Reale, 2018, pp. 1847, 1850, 1852-1854).
Detto questo, l’opposizione paolina tra materia e spirito, entro cui la prima è valorizzata negativamente
e il secondo positivamente, organizza ancora di fatto la nostra cultura sopravvivendo ai fenomeni di
secolarizzazione connessi alla nascita del capitalismo (Berzano 2017). Si ritrova, ad esempio, in un
2A una sensibilità contemporanea, tuttavia, non sfugge il fatto che nella cultura greca il principio maschile è
generatore, mentre quello femminile è ridotto a mero contenitore (Pazé 2023, pp. 101 – 102). Si potrebbe definire
una sorta di utero in comodato d’uso.
234
filosofo laico come Ludwig Wittgenstein, che la attribuisce a Tolstoj (1881) nel proprio diario segreto,
scritto in codice durante la Prima guerra mondiale:
12.9.’14
Le notizie diventano sempre peggiori. Stanotte ci sarà uno stato di allerta generale. Lavoro un po’
di più o un poco meno ogni giorno, e mi sento abbastanza ottimista. Mi ripeto sempre le parole di
Tolstoj: “L’uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito”. Possa lo spirito essere in
me. Nel pomeriggio il sottotenente ha udito dei colpi nelle vicinanze. Ero molto agitato.
Probabilmente verremo posti in stato di allarme. Come mi comporterò quando si comincerà a
sparare? Non ho paura di essere ucciso, ma di non compiere fino in fondo il mio dovere. Dio mi
dia forza! Amen. Amen. Amen (Wittgenstein 2021, p. 50).
Nella lettura di Wittgenstein, che adatta Tolstoj alla propria angosciosa esperienza esistenziale, lo Spirito
è il destinante che consente la liberazione dell’uomo da uno stato miserabile caratterizzato come un
paradosso modale (dover e non poter fare). Lo Spirito e Dio dotano l’uomo di un poter fare. Il valore
verso cui si orienta Wittgenstein è il compimento del proprio dovere di filosofo e ricercatore, che può
essere interrotto in qualsiasi momento dalla morte.
Quale purport è in gioco qui? Le condizioni estreme di pericolo che caratterizzano l’esperienza
raccontata nei diari lasciano emergere immagini quali sirene d’allarme, fucilate nel buio, panico tra i
soldati sotto attacco. Tale purport viene riorganizzato grazie all’opposizione formale materia/spirito, fino
a venire valorizzato nonostante tutto dal credente nella misura in cui egli è in grado di ri-categorizzarlo,
attraverso un lavoro semiotico, come “prova”.
2.2. Tomaso d’Aquino tra ontologia e semiotica
Come si è detto, il discorso filosofico non può trattare il tema ontologico della materia se prima essa
non è considerata come purport. Questo appare chiaro quando un testo filosofico assegna un valore
forico alla materia. Solitamente, ciò avviene senza che chi scrive se ne mostri consapevole; tuttavia,
Tomaso d’Aquino (De spiritualibus creaturis) presenta il problema in forma esplicita.
Tomaso sottolinea lo scarso consenso dei teologi nel considerare la sostanza spirituale come composta
da materia e forma. Da un lato, infatti, Dionigi Areopagita pensa gli esseri spirituali come il grado di
perfezione più prossimo a Dio, ovvero all’atto puro privo di potenza, puramente intellettivo, senza
bisogno di quella materia che è imperfetta, incompletissima inter omnia entia. D’altronde, ogni forma
creata è limitata e definita attraverso la materia; dunque non vi sono sostanze create prive di materia:
questa almeno era l’opinione corrente nel XIII secolo, sulla scorta di Avicebrol, contro la quale
argomenta Tomaso.
Al di là del retroterra filosofico di Tomaso e della sua personale soluzione al problema, per la quale si
può rimandare a Sofia Vanni Rovighi (1973, pp. 50-52), egli nota come il dibattito filosofico metta in
gioco due sensi distinti del termine “materia”, spesso confusi: “ad huius veritatis inquisitionem, ne in
ambiguo procedamus, considerandum est quid nomine materiae significetur”. In senso proprio e
generalmente accettato, la “materia prima” è identificata come pura potenza, senza delimitazioni,
incompleta, ma in grado di venire definita dalla forma. In questo primo senso, la materia prima è definita
negativamente, è privazione di forma; d’altro canto vi è un secondo senso, meno comune secondo
Tomaso, per il quale ogni potenza è chiamata materia, ogni atto è chiamato forma, e ogni atto
presuppone la propria potenza. In questo secondo senso, la “materia” è solo il terminale di una relazione
che la precede, ovvero l’esistenza.
Dal punto di vista che qui mi interessa sviluppare, la “materia” presenta nei discorsi teologici due distinti
purport-mening. Il principio di inerenza aiuta a comprendere come ciascuno di essi sia frutto di una
relazione intenzionale tra la materia e un soggetto per la quale ad essa può essere attribuito un valore,
235
positivo o negativo. Il soggetto può attribuire un valore alla perfezione: in tal caso, la materia è imperfetta
(priva di perfezione) e lo spirito è privo di tale privazione. In alternativa, il valore è attribuito alla
creazione, nel qual caso lo spirito è ricevuto dalla materia per venire all’esistenza: si stabilisce allora tra
i due una relazione di inclusione. In questa seconda accezione, la materia non è più l’antitesi dello
spirito, perché è in grado di riceverlo e ne è la sede.
2.3. Corpo e spirito nell’ascesi
La questione di Tomaso non era puramente speculativa, ma coinvolgeva, da un punto di vista
sociosemiotico, diverse forme di vita circoscritte dal discorso cristiano. Come si è detto, infatti,
l’opposizione tra forma e materia sono centrali in alcuni sottogeneri specifici del discorso religioso quali
l’ascesi o la mistica. Per esempio, le agiografie abbondano di digiuni strenui, di mistiche in grado di
nutrirsi per anni di una sola ostia al giorno; in realtà i consigli dei padri del deserto ai loro figli spirituali
erano molto chiari sulla necessità di non causare danni irreparabili al corpo, creato da Dio:
Uno dei padri raccontò che vi era alle Celle un anziano vestito di stuoia, che lavorava con molto
zelo. Un giorno che si era recato presso l’abate Ammonas, questi, vedendolo rivestito di quella
stuoia, gli disse: “Ciò non ti serve a niente”. L’anziano gli confidò: “Ho tre pensieri che mi
tormentano: il primo mi spinge a ritirarmi in qualche parte del deserto; il secondo a raggiungere
paesi stranieri dove nessuno mi conosca; il terzo a rinchiudermi in una cella dove nessuno mi possa
vedere e a mangiare solo ogni due giorni”. L’abate Ammonas gli rispose: “Nessuna di queste tre
cose è conveniente per te; continua piuttosto a vivere nella tua cella, mangia un poco ogni giorno,
custodisci sempre nel tuo cuore la parola del pubblicano che si legge nel Vangelo, e potrai essere
salvo (Campo, Draghi 1975, Ammonas, 4).
Se ci si chiede quale sia qui il purport in gioco, ci si imbatte nel grande tema dell’accesso allo spirito
attraverso il corpo. L’inerenza chiama in causa il valore perseguito dal soggetto, rappresentato dal
perfezionamento spirituale. Il racconto contrappone due opposte valorizzazioni foriche: una radicale
mortificazione del corpo o una rinuncia moderata, metodica e costante. In termini di semiotica narrativa,
nell’ascetismo estremo il valore di base di base (la salvezza) è sostituto da valori d’uso (estraniamento,
solitudine, digiuno), sanzionati negativamente dal Destinante incarnato da Ammonas. La moderazione
e la metodicità nella rinuncia, suggerite dall’abate Ammonas, ricordano all’anziano che l’atletismo
spirituale non deve in nessun caso sostituirsi al fine della vita eremitica, poiché in questo modo la
vanagloria (quella del fariseo cui fa riferimento il passo evangelico citato) impedisce la salvezza.
2.4. La materia dell’icona
L’antonimia paolina non toglie nulla al mistero dell’incarnazione: se la materia è così vile, come ha
potuto Dio farsi uomo? Nell’VIII secolo, Giovanni Damasceno si pone proprio questa domanda nel
difendere le icone. Disprezzata dagli iconoclasti, che egli paragona per questo ai manichei, la materia
ha purtuttavia un valore. Non si tratta del sacro: nell’immagine si venera il prototipo che essa raffigura,
la trasmissione del sacro è una proprietà formale della relazione tra tipo e occorrenza. Il valore della
materia consiste piuttosto nella sua capacità di ospitare, di racchiudere questo valore:
[…] onoro e tratto con venerazione anche tutta l’altra materia attraverso la quale è avvenuta la mia
salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina. O forse non è materia il legno della croce,
esso infinitamente felice e beato? Non è materia il monte venerabile e santo, il luogo del Golgota?
Non è materia la roccia donatrice e apportatrice di vita, tomba santa, fonte della nostra resurrezione?
236
Non è materia l’inchiostro ed il santissimo libro dei vangeli? Non è materia la tavola vivificante che
prepara per noi il pane della vita? Non sono materia l’oro e l’argento con cui si approntano croci,
patene e calici? E prima di tutte queste cose, non sono materia il corpo ed il sangue del Signore? E
quindi, elimina il culto e la venerazione di tutte queste cose! Oppure concedi alla tradizione della
Chiesa anche la venerazione delle immagini santificate dal nome di Dio e degli amici di Dio, e per
questo motivo adombrate dalla grazia dello Spirito Santo! (Giovanni Damasceno 1983, pp. 46-47).
Anche in questo caso, si parte da un purport consistente in roccia, legno, inchiostro, oro, corpo e sangue.
Per il principio di inerenza, essi assumono un valore spirituale per un soggetto credente. Si immagini un
pellegrino, per il quale i paesaggi rocciosi che attraversa sono solidi e immutabili come la verità che egli
insegue, pur avendola già dentro di sé. Nel caso presente, la relazione tra spirito (qui assimilato alla
forma) e materia non è più antonimica; è piuttosto una relazione di complementarità, la medesima che
si dà tra contenitore e contenuto. Questa relazione si trova ancora nel XX secolo in Florenskij:
Nella consistenza del colore, nel modo di applicarlo sulla superficie corrispettiva, nella struttura
meccanica e fisica delle superfici stesse, nella natura chimica e fisica della materia che lega i colori,
nella composizione e nella consistenza dei solventi e dei colori stessi, nelle lacche o altre sostanze
fissanti dell’opera dipinta e in altre sue “cause materiali”, già è espressa direttamente anche quella
metafisica, quella profonda percezione del mondo che la volontà creativa dell’artista cerca di
esprimere attraverso la data opera come insieme unico (Florenskij 2008, p. 82).
Poiché l’insieme di queste cause materiali non è una scelta dell’artista, ma si colloca entro la cultura di
cui egli fa parte, Florenskij dichiara che “la causa materiale dell’opera esprime il senso di un’epoca
perfino più dello stile in quanto carattere comune delle forme in questo preferite” (ivi).
2.5. Etnosemiotica e materia
Mi sono imbattuto in un caso interessante in cui le proprietà del materiale manifestano il senso spirituale
del rito osservato. Nella Chiesa ortodossa polacca, in alcune occasioni speciali, i fedeli si riuniscono in
cerchio intorno al celebrante. A turno si inchinano mentre il presbitero pone loro sul capo una Bibbia.
Ho avuto occasione di assistere al rito a Varsavia, nella Cattedrale di Santa Maria Maddalena, durante
una cerimonia dei vespri, in ottobre 2022.
Ricorrendo ai codici della propria cultura, un osservatore cattolico può interpretar il rito come una sorta
di benedizione. Inoltre, un semiotico potrebbe formulare l’ipotesi che un qualche valore “sacro” si
trasmetta grazie al contatto con il libro, per contiguità, come avviene nei segni indicali di Peirce. Tuttavia,
tale descrizione non è ancora sufficientemente adeguata. Infatti, il significato simbolico è manifestato da
una qualità materiale del volume: la pesantezza. “Al fedele è richiesto di farsi supporto della fede, e il rito
è appagante per coloro che sentono questo bisogno”, mi ha detto il mio informatore, un fedele ortodosso.
Vi è dunque in gioco il purport rappresentato da una qualità (la pesantezza) che viene rivalorizzata per
qualcuno (il fedele), e dunque l’inerenza tra il valore e un soggetto per il quale tale valore vale3.
3
Si intravede qui una direzione di ricerca ulteriore. Infatti, è proprio l’opposizione tra forma e sostanza in
Hjelmslev ad essere partecipativa (cfr. Zinna 2001). Come è noto, Deleuze fu un interprete di Hjelmslev. È possibile
che la piega rappresenti il lavoro semiotico applicato al purport-mening per produrre la forma? Quanto l’attenzione
di Deleuze alla doppia piegatura si deve al suo interesse verso la biplanarità delle semiotiche hjelmsleviane?
Purtroppo, un tentativo di rispondere qui alla questione mi porterebbe lontano dal tema del presente lavoro.
237
2.6. La materia della mistica nel XVII secolo
Un’alternativa più radicale all’opposizione antonimica tra materia e spirito si trova nella cultura barocca.
La spiritualità del barocco in genere è carnale e sensuale: coincide con l’apoteosi dei corpi dei santi
nelle cupole delle chiese, il culto degli organi (il sacro cuore di Gesù), la coprofagia di Santa Margherita
Maria Alacoque. Scrive Deleuze:
Il barocco diversifica le pieghe, seguendo due direzioni, due infiniti, come se l’infinito stesso si
dislocasse su due piani: i ripiegamenti della materia e le pieghe nell’anima. In basso, la materia è
ammassata in un primo genere di pieghe, ed è poi organizzata in un secondo genere di pieghe, nella
misura in cui le sue diverse parti costituiscono altrettanti organi ‘piegati in maniera differente e più
o meno sviluppati’. In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe
senza mai giungere a svilupparle interamente, ‘poiché esse vanno all’infinito’ (Deleuze 1988, p. 5).
Nell’interpretazione deleuziana, ispirata a Leibniz, lo spirito risulta da un ripiegamento formale di
secondo grado della materia, che dapprima si fa corpo (inteso come un insieme di invaginazioni e
cavità), e in seguito sviluppa una seconda interiorità psichica. Quello barocco è un materialismo
spirituale, nella misura in cui abolisce la relazione antonimica tra materia e spirito accentuandone il
carattere di opposizione partecipativa (Hjelmslev 1937). Lo spirito è il termine intensivo che si oppone
alla categoria estensiva delle “materie ripiegate”, la quale lo comprende al proprio interno4.
Leibniz è un autore di ambito protestante; la semisfera cattolica manterrà una distinzione più netta tra
materia e spirito. Nonostante ciò, vi è almeno un ambito in cui l’incarnazione dello spirito tende ad
abolire la dicotomia spirito/materia, ed è la mistica. Come nota De Certeau, alla fine del Cinquecento
la parola “mistica” cessa di essa un aggettivo (teologia mistica) per divenire il nome di una disciplina
sperimentale che fa del corpo un laboratorio mirato alla conoscenza del divino. Si tratta di una reazione
ad una crisi di credibilità del discorso teologico tradizionale ereditato dalla scolastica, e di un recupero
dell’inclusione della spiritualità nella materia.
[...] depuis que la culture européenne ne se définit plus comme chrétienne, c’est-à-dire depuis le
XVIe ou le XVIIe siècle, on ne désigne plus comme mystique le mode d’une «sagesse» élevée à la
pleine reconnaissance du mystère déjà vécu et annoncé en des croyances communes, mais une
connaissance expérimentale qui s’est lentement détachée de la théologie traditionnelle ou des
institutions ecclésiales et qui se caractérise par la conscience, acquise ou reçue, d’une passivité
comblante où le moi se perd en Dieu (De Certeau 1975).
Sempre secondo De Certeau, alla pretesa indicibilità del senso mistico si accompagna la sua
manifestazione psicosomatica. Anche in questo caso, come in quello dell’antonimia spirito/materia, non
si tratta di una opposizione tralatizia: la concezione della mistica sviluppatasi nel corso del XVII secolo
negli scritti di San Giovanni della Croce diviene rapidamente il modello per eccellenza del sapere
cattolico sulla mistica, e in questo modo è ereditato dalla cultura del XX secolo (Da Pietrelcina 1984;
Wojtyła 2003).
Non si tratta di una opposizione del tipo contenitore/contenuto: come abbiamo detto, l’interiorità che
risulta dalla piega di secondo grado è spirito. A entrare nello spirito, ovvero in se stessa, è l’anima:
Può darsi, figlie mie, che ciò vi sembri una stranezza [...] Esiste, in qualche modo, un’evidente
differenza fra l’anima e lo spirito, pur essendo essi una cosa sola Si percepisce una divisione cos
sottile, che a volte l’uno sembra operare in un senso e l’altra in un altro, a seconda di come decide
il Signore (Teresa d’Avila 1577, p. 217).
4
Rinvio la discussione dei problemi metodologici relativi all’osservazione partecipante a una successiva pubblicazione.
238
Anche Edith Stein avverte il contrasto tra l’impostazione scolastica e la spiritualità moderna
rappresentata da Teresa D’Avila, tentando una conciliazione in chiave fenomenologica:
Noi abbiamo cercato di risolvere quest’enigma distinguendo da un lato la differenza contenutistica
esistente fra spirito e materia (che riempie lo spazio) considerati quali diverse categorie dell’essere
[...] e dall’altro la distinzione formale esistente fra corpo, anima, spirito, stando alla quale l’anima è
l’elemento recondito, ancora informe, mentre lo spirito ne è la vita palese, liberamente fluente (Stein
1950, p. 130).
Come vediamo, per risolvere il problema ontologico Edith Stein deve distinguere diverse accezioni in
un medesimo purport (lo “spirito”), confermando il fatto che la nozione semiotica di purport è
condizione di possibilità del discorso ontologico. Al di là della soluzione proposta, è l’interiorità
risultante dalla doppia piegatura descritta da Deleuze a divenire sede per elezione della ricerca del
divino. Il purport consta di cavità, antri, anfratti corporei, che il fedele ri-valorizza, per il principio di
inerenza, in quanto coincidenti con lo spirito.
3. Discussione
Come abbiamo visto, le rispettive proprietà “ontologiche” della materia e dello spirito si producono
entro un genere di discorso che ne costruisce la relazione: antonimica, privativa, di inclusione o di
partecipazione. Secondo il principio di inerenza, i poli della relazione vengono diversamente
assiologizzati a seconda di una relazione di carattere intenzionale per la quale il soggetto attribuisce un
valore ad alcune caratteristiche che seleziona entro un insieme di virtualità presenti in maniera indistinta
nel purport. Non tutti i filosofi si avvedono del fatto che la concezione metafisica della materia che
vanno sviluppando dipende dal significato che le attribuiscono (purport-mening); lo prova l’esempio di
Tomaso, il quale, al contrario, si mostra consapevole della questione.
La materia-purport è il campo d’esercizio di un ritaglio dal quale emerge la forma del valore, per effetto
del lavoro di quel soggetto per il quale tale valore vale. Tuttavia, ciò comporta un problema. Nella
prospettiva strutturalista, adottata da Hjelmslev e alla quale ci siamo rifatti, non può che essere la
relazione di inerenza a porre i propri terminali, a operare sul purport perché ne emergano non solo una
forma del valore, ma anche una forma-soggetto per il quale tale valore vale. D’altronde, il discorso
teologico non si limita ad attribuire valore a Dio ma produce al contempo anche il teologo che ne scrive;
allo stesso modo, il filosofo non preesiste all’ontologia, né il semiotico al senso.
3.1. Il monismo e i suoi rischi
Dagli anni Settanta in poi all’interno del post-strutturalismo sono stati pubblicati diversi lavori in cui il
confine semio-ontologico non è ben chiaro: vi sarebbe una materia pre-semiotica, la quale si auto-
organizza articolandosi e diviene semiotica. Vi è una confusione non del tutto chiarita sui principi che
emergono dallo studio morfodinamico della forma: una confusione mai del tutto chiarita tra morfogenesi
e ontogenesi. In analogia con il discorso religioso, per i tentativi di fondare la semiotica sul monismo
ontologico vale qualcosa di simile a ciò che Leone scrive dell’ascesi:
[...] dal punto di vista semiotico l’ascesi è fondamentalmente racconto del sogno impossibile di
ritornare a uno stadio della generazione del senso ove le differenze che lo producono si annullino
239
nell’unità assoluta, o nell’indistinzione (sogno impossibile perché lì dove le differenze si annullano
non vi è prensione possibile del senso) (Leone 2013).
Inoltre, optare per un modello che faccia discendere la semiotica da una nozione ontologica di materia
è a mio parere un passaggio scarsamente motivato: non si vede perché fondare la semiotica
sull’ontologia; non si ravvisano nell’oggetto d’analisi motivazioni sufficienti; soprattutto, non si vedono
le conseguenze della scelta di questo fondamento per quanto riguarda gli sviluppi della disciplina. Per
un dibattito sull’argomento rimando ad Amoroso et al. (2016).
Inoltre, le descrizioni del passaggio da un monismo pre-semiotico all’articolazione semiotica si collocano
in un ambito prettamente ontologico soltanto in apparenza; come abbiamo visto, l’attribuzione stessa di
un qualche valore al monismo può accadere solo a valle di una semiotica del valore. È ben noto che
Heidegger, dopo essersi posto, in Essere e tempo, il problema del senso dell’esserci dell’essere, non è
riuscito nell’intento di analizzare il senso dell’essere in generale per un limite linguistico:
La terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La
sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato
questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica (Heidegger
1976, p. 94).
Heidegger diviene consapevole del fatto che il linguaggio non è “trasparente” nel porre in rapporto
l’individuo e il reale, e conclude che “il linguaggio è la casa dell’essere” (ibid., p. 44). Vorrei prenderlo
alla lettera: qualsiasi ontologia è il risultato di un lavoro che il discorso filosofico compie sui propri
concetti non solo attraverso una lingua tecnica ma soprattutto entro una semiotica del valore. Nulla ci
obbliga considerare il discorso filosofico come un ambito sottratto all’analisi semiotica, la quale potrà
anzi contribuire a chiarirlo (Marrone 2022). Il giudizio di valore su quel che è “reale” e “non-reale” esita
dal senso che il mondo ha per noi. Dunque: dapprima abbiamo un discorso filosofico il cui purport-
mening consiste nel ricavare valore dalla “materia” per costruire un fondamento ontologico; in seguito,
il discorso filosofico ancora a tale principio primo la significazione stessa. Del resto, i principi di
qualunque insieme d’assiomi sono sempre scelti precisamente sulla base dei teoremi che da essi si
intende dimostrare.
3.2. Per concludere
La nozione di materia- purport che ho difeso fin qui assimila la materia al senso e ne fa qualcosa di
totalmente interno alla semiotica. Naturalmente, se proprio un principio primo generativo del cosmo
semiotico ci dev’essere, ci si può chiedere per quale motivo esso debba essere una materia
differenziabile e non la differenza stessa, ad esempio. La differenza è in grado di produrre, per
differenza, anche l’identità, in quanto la seconda è differente dalla prima. Non vale il contrario: non
è possibile produrre la differenza a partire dall’identità per identità, perché se qualcosa è identico
all’identità esso è proprio l’identità. Non si tratta solo di un sofisma: se consideriamo D e I alla stregua
di operatori, e definiamo I come l’operatore che lascia inalterato il suo ingresso, possiamo scrivere
𝐷2 = 𝐼
240
per tradurre il fatto che la differenza produce l’identità attraverso la differenza e
𝐼2 = 𝐼
per rappresentare il fatto che l’identità, applicata a se stessa, restituisce l’identità. Anche il principio di
inerenza (In) andrebbe considerato come un operatore che, applicato alla materia (M), fornisce come
risultato la giunzione tra un Valore (Ov) e un Soggetto (S) per il quale il valore vale:
𝐼𝑛𝑀 = 𝑆𝑂𝑣
In questo modo, non siamo costretti a postulare un Soggetto originario, il quale è un prodotto
dell’applicazione del principio di inerenza al purport. In analogia con la semiotica testuale, per la quale
il soggetto non è un elemento, ma il prodotto dell’articolazione della categoria proto-attanziale, i soggetti
dell’enunciazione sono il prodotto di una articolazione della materia a partire dal principio di inerenza.
Come si è detto sopra, è precisamente tale processo a restituire “materia formata” (sostanza) attraverso
un lavoro semiotico (Eco 1975) che fa emergere la forma-valore.
241
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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Francesco Piluso, Francesco Pelusi
Abstract. In Crimes of the Future (2022), David Cronenberg comes back to the body-horror genre, by shedding
light on the body and its deformations as symptoms of an ontological degeneration of the human subject. The
human body is constantly involved in a process of hybridization with technologies that strongly alter its physical
traits and undermine its aesthetic abilities. This double-logic of extension and amputation of the body by
technological means is reproduced by the thematic figure of the surgery that, in a world deprived of any aesthetic
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art to sex. To these surgical operations corresponds an attempt of semiurgical rewriting, aimed to give a meaning
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of the movie serves as a premise for a broader semiotic reflection and theoretical hypothesis: the reconfiguration
of the category /nature vs. (techno)culture/ in a circularity that questions the assiological priority assumed by
nature in western metaphysics, by giving credits to a body matter that has acquired the capacity of becoming
sense in autonomous way.
Il corpo è il grande trasformatore, traduttore, luogo
delle trasposizioni, dei trasferimenti; corpo come
cerniera, come relais, come convertitore, come
luogo dei rovesciamenti e delle metamorfosi.
Francesco Marsciani, Minima Semiotica
1. Il ritorno al body horror di Cronenberg: le mutazioni tecno-materiche del corpo
Crimes of the Future, ultimo film di David Cronenberg presentato al festival di Cannes del 2022, è
stato annunciato come ritorno del regista al genere di cui viene considerato padre fondatore: il body
horror1. La filmografia del regista canadese, infatti, è segnata da numerosi esempi cinematografici
propriamente ascrivibili al genere come Il demone sotto la pelle (1975); Rabid (1977); Scanners (1981);
Videodrome (1983); La Mosca (1986) e Crash (1996). Film in cui le deformità tipiche del body horror
costituiscono un meccanismo narrativo centrale, diversamente da altre pellicole del regista – in cui le
1
Si segnala che nella precedente edizione del Festival di Cannes (2021) la palma d’oro è stata assegnata a Titane
di Julia Docournau. Film ascrivibile al genere del body horror definito dalla critica come erede di Crash di David
Cronenberg del 1996.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
mutazioni corporee assumono un carattere di semplice tematizzazione – che tuttavia si presentano in
continuità con una riflessione di più ampia portata sulla relazione tra linguaggio e materia 2.
L’interesse per questo film – in relazione all’occasione per cui questo contributo nasce 3 – è legato alla
problematizzazione che, in linea con i topoi estetico-narrativi di questo sottogenere dell’horror,
propone della nozione di “materia” e di quelle di “corpo” e “soggetto” che, a partire dalla stabilità
ontologica di questa, assumono caratteri di chiusura e coerenza 4. Le deformazioni fisiche – mutazioni
genetiche, malattie deturpanti e mutilazioni – presenti in questo genere cinematografico attualizzano,
infatti, una prospettiva del soggetto “in metamorfosi” (Braidotti 2006) che mette in crisi un’ontologia
dell’umano stabilizzata sull’indiscutibilità unificatrice del concetto di “natura” che si attualizza a partire
dalla stabilità materica del corpo, arrivando a definirne la mostruosità (Coen 1996) e la relazione
problematica che questo intrattiene con definizioni identitarie comprese quelle di genere (Grant 1996).
A mettere in questione questa funzione stabilizzatrice anche la rappresentazione in questi film del
complesso rapporto che l’uomo intrattiene con la tecnologia. Un rapporto con la macchina che, nella
filmografia di Cronenberg, assume diverse declinazioni passando da una relazione di ibridazione in
parte inspiegata tra corpo organico e materiale inorganico – come in Videodrome (1983) – o resa in
maniera più diretta e violenta – come in Crash (1996) – ad un rapporto più sofisticato e intimo in
Crimes of the Future (2022).
Nel film preso in analisi in questo contributo viene presentata, infatti, una tecnologia che si insinua
nella quotidianità dell’umano accompagnandolo nelle sue attività essenziali, come il mangiare e il
dormire e, come vedremo, in quelle più intime come il sesso. Si assiste dunque a una penetrazione
della tecnologia nel fisiologico che ne ridefinisce i limiti e ne riorganizza le coerenze manifestando
l’inadeguatezza di una prospettiva che oppone in maniera discreta le dicotomie “natura-cultura”,
“organico-inorganico” e “soggetto-oggetto”. Al contrario, la complessità di un’epoca postumana
(Braidotti 2013) – che mette in crisi il rappresentazionismo identitario dell’umano (Butler 1990) –
evidenzia la circolarità che tiene insieme in maniera dialettica (Morin 2001) i binarismi – orientati
assiologicamente – tipici della metafisica occidentale (Derrida 1967). Lo statuto identitario dell’umano
– anche nella sua dimensione biologica – viene riarticolato in un futuro imprecisato, quello di Crimes
of the Future, dove non esistono più dolore fisico e malattie infettive. I protagonisti del film, Saul
Tencer (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), sono una coppia di artisti di fama mondiale che
si esibisce in pubblico in una performance in cui i nuovi organi di origine tumorale prodotti dal corpo
di Tencer – affetto da Accelerated Evolution Syndorme – vengono asportati chirurgicamente. Una
pratica che – sterilizzata del portato disforico del dolore fisico – viene livellata alla performance
sessuale non riproduttiva.
Assistiamo nel film dunque a una riarticolazione dell’umano che opera su due livelli: da un lato le
mutazioni corporee di Saul che dislocano l’agentività – e l’intenzionalità – dal “soggetto-persona”
verso un “corpo-materia” che, rendendosi autonomo nel proprio divenire, si fa soggetto; dall’altro
un’evoluzione dei dispositivi tecnologici che arrivano a mediare anche tutte quelle attività – immediate
– che gli esseri umani condividono con gli altri esseri viventi nella loro dimensione fisiologica a
prescindere dalla connotazione “culturale-tecnologica” che discrimina l’uomo rispetto agli altri esseri
(Morin 2001). Mentre quest’ultime innovazioni tecnologiche sono normalizzate e capitalizzate, nella
2 Si vedano alcuni esempi quali, lo scenario ginecologico in Dead Rings (1988) – Inseparabili nella versione
italiana; l’occhio sfregiato di Carl Fogarty, interpretato da Ed Harris, in An History of Violence (2005) e le ustioni
di Mia Wasikowska in Maps to the stars (2014).
3
Il presente contributo nasce in relazione al nostro intervento tenuto al 50° Congresso dell’Associazione Italiana
di Studi Semiotici “Semiotica Elementale” tenutosi a Palermo dal 1 al 3 dicembre 2022.
4 I tratti di chiusura, coerenza e coesione sono gli elementi che definiscono un testo. Contrariamente, i sistemi
complessi che definiscono la nostra contemporaneità sono caratterizzati dai tratti di apertura, contraddizione e
non-coesione in linea con il modello enciclopedico configurato da Umberto Eco (Paolucci 2010).
245
società rappresentata in Crimes of the Future , vedremo come la sovrapproduzione di organi nel corpo
di Saul rappresenta un’occasione per tematizzare il film in chiave politica. Si avrà modo di evidenziare,
infatti, come nella pellicola si assista ad uno “scontro tra ideologie” in cui agenzie governative operano
affinché venga limitato il reale portato eversivo delle mutazioni corporee del personaggio interpretato
da Mortensen: attraverso un’operazione di controllo razionale, tipica del linguaggio, che conferma
una metafisica della sostanza, viene ribadita la “stabilità” e la “coerenza” del soggetto e del corpo
umano in nome di una “naturalità” in realtà costruita discorsivamente (Butler 1993). Le categorie
caratterizzanti la modernità – le “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (1979) – vengono così a
palesarsi come posizioni di discorso, aprendo di fatto ad una forma di relativismo “semio-culturale”
che si pone subito come atteggiamento critico, dal momento che, nel legame tra visione del mondo e
il modo in cui le diverse culture segmentano a livello semantico e sintattico l’esperienza, “i processi
di mutamento di codice avvengono quando questa interazione non viene accettata come naturale e
viene sottoposta a revisione critica” (Eco 1975, p. 138).
Tuttavia, è importante evidenziare che in Crimes of the Future il corpo esplicita il proprio carattere
mutevole e differenziale proprio in virtù del regime discorsivo e socioeconomico postfordista in cui
questo è continuamente prodotto e riprodotto come base significante da cui estrarre plusvalore
(Cooper, Waldby 2014). Una prospettiva che riduce il corpo, il bios e la vita a oggetti di
interpretazione da sfruttare economicamente (Fumagalli 2007), “allo stato di trasportatori di
informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e capitalizzandoli” (Braidotti 2013, p.
126). La tecnologia presente nel film monitora e manipola digitalmente i dati forniti dai corpi,
esplicitando in questo modo la stretta relazione – di dominio – che il linguaggio intrattiene con la
materia. Un rapporto che, in linea con la svolta semiotica e i successivi sviluppi poststrutturalisti,
implica un portato critico relativizzante – una forma di critica sociale – che tuttavia può arrivare a
ridurre la materia a semplice fattore semiolinguistico.
Con Hjelmslev (1943) ricordiamo, infatti, che la prospettiva semiotica afferma come la possibilità di
accesso alla materia avvenga esclusivamente in quanto questa si offre formata in sostanze. Una
schermatura formale operata dal linguaggio che offre una prospettiva costruttivista che riduce la
materia a passività relazionata ad una recezione tutta umana che la valorizza. Un limite –
antropocentrico – che riduce la materia a semplice significato, reintroducendo di fatto una forma di
“rappresentazionismo ontologico” che un’epistemologia semiotica fondata sulla “relazione” dovrebbe
evitare. Il rischio è quello di riproporre uno squilibrio – orientato assiologicamente – tra le istanze
enuncianti (Coquet 2008) che livellerebbe la materia in una sintesi generalizzante – immanenza –
basata sul linguaggio-forma. Uno sbilanciamento dal lato “semio-culturale” che – contrariamente alla
monodimensionalità semiotica priva di profondità gerarchica (Paolucci 2007) – propone un
riduzionismo ideologico (Eco 1975) che non riesce a rendere conto delle molteplici istanze
d’enunciazione – umane e non – coinvolte nelle mutazioni corporee di Saul Tencer e, più in generale,
nella costituzione dell’ecologia “socio-tecnologica” di Crimes of the Future. In questo senso, l’ultimo
film del regista canadese offre una rappresentazione narrativa di una semiosi materica che esula dalla
simbolizzazione operata dal linguaggio, oltre che un pretesto per avanzare una (auto)critica e una
prospettiva semiotica sul farsi senso della materia.
2. Estensione ed amputazione
In Crimes of the Future , il corpo umano è soggetto a costanti mutazioni ed evoluzioni (Ricci 2011) al
fine di adattarsi all’ambiente esterno, a sua volta in costante cambiamento. Le tecnologie con le quali
l’essere umano entra in contatto sino ad ibridarsi fungono da estensioni protesiche che ne alternano
la facoltà sensibile, la presa estetica sul mondo (McLuhan 1964). È proprio l’estetica di questi
246
dispositivi mediali ad allontanarsi dal tradizionale immaginario cronenberghiano, che tende ad
esaltarne la materialità inorganica, soprattutto nel contrasto, spesso incidentale, con la carne viva –
come avviene in Crash . In Crimes of the Future , invece, ciò che viene messa in scena è una certa
organicità delle apparecchiature tecnologiche, sia per quanto riguarda il materiale di cui sono
composte, sia per il modo naturale e armonico attraverso cui queste si legano al corpo del proprio
utente: dal materiale sintetico, alla sua sintesi con l’organico.
Fig. 1 – Orchibed.
Si prenda ad esempio l’Orchibed (Fig. 1), una sorta di letto sospeso il cui sofisticato impianto
tecnologico è efficacemente dissimulato dalla naturalità che ne caratterizza i materiali, le forme e le
operazioni: il corpo di Saul vi si può adagiare, rigenerare (sia nel senso di riposo che di rigenerazione
dei propri organi interni) e addirittura cullare, raccolto nel guscio di quello che appare come uno
strano esemplare di coleottero gigante o, ai più visionari, una rara specie di orchidea carnivora.
Discorso analogo per quel che riguarda il Breakfaster (Fig. 2), una particolare sedia utilizzata durante
i pasti, il cui scheletro – letteralmente – è costituito da elementi che non solo ricordano visivamente
delle ossa umane 5 , ma si interpongono tattilmente tra i muscoli e gli organi impegnati nella
masticazione e nella digestione, accompagnandone i movimenti.
5
Nel design osseo di questa sedia è forse possibile rintracciare un rimando alla celebre scena iniziale di 2001 Odissea
nello spazio di Kubrick: qui, la nascita della tecnica, e assieme ad essa della civiltà umana, è allegoricamente
rappresentata da un osso di una carcassa animale che da resto organico diviene strumento nelle mani della scimmia che
si appresta a diventare umana in virtù di questa sua estensione; in linea con la prospettiva di Leroi-Gourhan (1943, 1945),
l’ipotesi che si vuole avanzare è che l’ibridazione tra umano e tecnologia una condizione originaria e costitutiva di
entrambi i termini della relazione. Allora, come mostrato nel film di Cronenberg, l’evoluzione dell’essere umano e della
tecnologia non può che rimandare, retrospettivamente, a un percorso filogenetico comune.
247
Fig. 2 – Breakfaster.
A questo movimento di estensione protesica, organica, si contrappone in modo sottile ma estremamente
violento, un processo di amputazione (McLuhan 1964): il corpo umano è ormai anestetizzato e i suoi
sensi narcotizzati dagli stessi dispositivi tecnologici che ne mediano l’esperienza. Si prendano
nuovamente in considerazione l’Orchibed e la poltrona scheletrica: entrambe queste tecnologie
intervengono in gesti e momenti quotidiani, quali appunto dormire e mangiare, al fine di anticipare e
ammortizzare ogni minimo dolore fisico, anche la più lieve ombra di disagio corporale, che tali azioni
possono comportare. Da un’estetica tattile si passa così a una vera e propria ideologia del tatto, inteso
come profilassi, anestesia e tutela dal mondo esterno. Piuttosto che fungere da mediazione tra corpo
umano e ambiente naturale, le tecnologie diventano progressivamente esse stesse l’ambiente ibrido di
cui il soggetto non può che avere un’esperienza impoverita, calcolata per difetto.
In questo modo, Cronenberg ci offre una rappresentazione originale delle bioinfotecnologie e delle
relative operazioni di manipolazione e informatizzazione del soggetto umano di cui si è parlato
nell’introduzione. Ciò diventa particolarmente evidente nel caso del protagonista Saul, dove gli
apparecchi che ne regolano le funzioni vitali vengono continuamente ritarati in funzione delle mutazioni
costanti, quali continua crescita di tumori e di nuovi organi interni, che ne caratterizzano il corpo. La
Accelerated Evolution Syndrome è uno degli effetti perversi dell’ibridazione e anestetizzazione del corpo
umano rispetto al mondo esterno che le tecnologie tentano di limitare e, al contempo, favoriscono, come
una sorta di patologia autoimmune, di virus che si diffonde dall’interno di un corpo sottoposto a una
costante profilassi (Baudrillard 1990). Escrescenze tumorali che, come eccedenze dei sensi e del senso,
continuamente deformano e ridefiniscono i confini del soggetto umano in relazione all’ambiente
circostante: momento esplosivo della dialettica tra estensione e amputazione che stenta a trovare sintesi.
3. Chirurgia e semiurgia
La doppia logica dell’estensione e dell’amputazione trova il proprio sviluppo narrativo nella
concatenazione continua tra questi due momenti; una dinamica che nel film è ulteriormente esplicata
attraverso il tema e la figura della chirurgia. Difatti, in maniera analoga alla tecnologia, la chirurgia
assume un ruolo fondamentale in quanto forma, spesso deformante, di controllo estetico e semiotico del
248
corpo umano. Questo ruolo si esplicita all’interno di diversi campi discorsivi; primo tra tutti, quello
dell’arte. Saul e la sua partner Caprice sono artisti impegnati in delle performance di body art in cui la
chirurgia è, oltre che strategia, una tattica che opera direttamente sul corpo in funzione di una sua catarsi.
In particolare, Caprice, attraverso il SARK – un altro macchinario che esalta la connessione digitale e
la circolarità manipolatoria, nella modalità del far fare, tra corpi organici e inorganici – rimuove
chirurgicamente le escrescenze tumorali di Saul; le parti asportate vengono poi esposte e ammirate dal
pubblico come delle vere e proprie opere d’arte (Fig. 3).
Fig. 3 – SARK, operazione chirurgica.
Il valore artistico dell’organo deriva dalla stessa performance che si presenta come un rituale di
consacrazione, forse addirittura di transustanziazione, dell’elemento “sovrannaturale” in opera d’arte.
Analogamente alla Comunione cristiana, la ritualità della performance è un modo per comunicare, nel
senso di mettere in scena e in condivisione, il miracolo osceno di questa generazione spontanea di
organi; un’operazione che permette di ridare un senso a queste singolarità eccedenti. Dunque, più che
a una rivelazione di una verità profonda, a uno spogliamento della mediazione e apertura dello sguardo
verso l’oggetto in quanto tale, assistiamo a un processo di ri-velazione (Ricci 2008), ossia di costruzione
e istituzione semiotica di un oggetto feticcio che riflette sul proprio codice di valorizzazione e
significazione. All’operazione chirurgica si sovrappone così un’operazione di riscrittura semiurgica
(Baudrillard 1976). A questo proposito, non è un caso che l’organo, prima di essere rimosso, sia
marchiato e tatuato da Caprice (Fig. 4), in modo che – nel successivo momento performativo – ciò che
venga rimarcato e ricondiviso e celebrato sia lo stesso meccanismo di messa in forma semiotica di una
deformità di partenza.
Fig. 4 – Organo tatuato e asportato.
249
L’operazione di riscrittura semiologica è attutata non solo durante le performance artistiche clandestine
dei due protagonisti, ma dalle stesse istituzioni e, in particolare, da alcuni organi interni in via di
istituzionalizzazione, costretti ad operare anch’essi in un regime di semioscurità in attesa di un
riconoscimento ufficiale; tant'è che l’intero film è dominato da un clima di spionaggio, in cui risulta
complicato avanzare una lettura ideologica lineare e individuare con chiarezza l’assiologia dei vari
personaggi, costantemente coinvolti o segretamente infiltrati in piani complottistici che ambiscono a farsi
egemonia, nuova norma. Dopo tutto, è questo l’obiettivo del National Organ Registry, dipartimento
governativo segreto della New Vice Unit, progettato per catalogare e conservare i nuovi organi che i
corpi umani sembrano generare spontaneamente; un tentativo di normazione burocratica che
goffamente si sovrappone, piuttosto che opporsi, al discorso artistico ed estetico portato avanti da
Caprice e Saul – come quando quest’ultimo viene candidato al concorso di “bellezza interna”6 istituito
dallo stesso ufficio: una strategia per svuotare l’escrescenza interna del suo significato profondo,
potenzialmente rivoluzionario, e riportarla a una superficie discorsiva, puramente estetica.
Le cospirazioni di questi attori rispondono tutte alla necessità di una normalizzazione sociale e di una
manipolazione semiotica del “caos interno” che affligge i corpi mutanti. Chirurgia e semiurgia allora
cooperano per separare l’organo dalla sua presunta (sovra)naturalità e reimmetterlo nell’ordine sociale
dominante; al contrario di quanto professato e agito da un gruppo di mangia-plastica, la cui prassi
biopolitica è volta a naturalizzare gli effetti dell’ibridazione tra organico e inorganico per istituire un
nuovo ordine naturale delle cose (§ 5). In ogni caso, che sia a trazione naturalizzante o culturalizzante,
di fatto ciò che viene sancita da queste pratiche discorsive è la natura ibrida del corpo, in quanto
prodotto di un difficile connubio tra natura e cultura ed elemento critico di un ecosistema complesso e
dinamico che elude qualsiasi forma di stabilizzazione ideologica (Latour 1991, 2005).
4. La chirurgia è il nuovo sesso
Oltre che nel campo dell’arte, la chirurgia è figura centrale anche nel dominio discorsivo e politico della
sessualità. Nel film più volte viene ripetuto che “la chirurgia è il nuovo sesso”; tutta una serie di pratiche
erotiche sono infatti legate a operazioni chirurgiche, attraverso cui il corpo umano assume nuova forma e
nuovi significati. Il taglio opera chirurgicamente e semioticamente sul corpo, trasformandolo in quello che
Baudrillard (1976) definisce un “carnaio di segni”; secondo l’autore, mediante il taglio chirurgico non solo
viene scongiurata la castrazione del sesso “reale”, ma caricata di un valore sessuale feticcio ciascuna parte
si erige a partire dallo stesso taglio. Analogamente al caso dell’arte, il rito chirurgico-sessuale:
Non è un gioco di spogliamento di segni, verso una profondità sessuale, è al contrario un gioco
ascendente di costruzione di segni – dove ogni marchio assume un valore erotico grazie al suo lavoro
di segno, cioè di capovolgimento che esso opera da ciò che non è mai stato (castrazione) a ciò che
esso designa al suo posto e in sua vece: il fallo (ivi, pp. 122-123).
Anche in questo caso, dunque, il taglio non si presenta come apertura in profondità verso una natura
intima del corpo, ma come lavoro erotizzante e (an)estetizzante. A questo proposito, risulta
particolarmente emblematica un’altra scena di performance, in cui un artista si esibisce in una sorta di
ballo estatico; la peculiarità e l’efficacia della scena sta nel corpo del danzatore, interamente ricoperto
6
La tematica della “bellezza interiore”, configurazione estetica – non animista – dell’interno della corporalità
umana, è ricorrente all’interno della filmografia del regista canadese. Nell’ambientazione ginecologica di Dead
Rings (1988), ad esempio, Jeremy Irons fa un continuo riferimento ad un ipotetico concorso di bellezza per le
fattezze organiche del corpo umano. In merito ad un approfondimento su questo aspetto si segnala il volume
curato da Michele Canosa (1995).
250
da orecchie o, più precisamente, da padiglioni auricolari impiantati chirurgicamente, che sembrano
amplificarne la capacità sensoriale ed il trasporto fisico (Fig. 5).
Come ci viene però rivelato, in realtà, gli organi in questione non si fanno più mediatori di una
determinata facoltà estetica, ossia non hanno più alcuna funzione uditiva, dal momento che sono stati
espiantati dalla loro naturale rete di relazioni anatomiche e ricuciti lungo la superficie del corpo con una
funzione meramente ornamentale – e solo in questo senso, estetica. In questa scomposizione chirurgica
e riconfigurazione superficiale delle parti del corpo viene a perdersi qualsiasi protensione sensoriale
(così come ribadito dalla bocca e dagli occhi dell’artista cuciti chirurgicamente); l’aspetto estensivo,
ovvero di apertura del corpo al mondo esterno, è talmente estremizzato dalla moltiplicazione e
installazione artificiale di orecchie al punto che il corpo ne risulta saturato e suturato.
Fig. 5 – Performance, estasi e anestesia.
La cerniera che Saul si fa applicare chirurgicamente sul proprio ventre, utilizzata come motivo erotico
nel rapporto sessuale consumato con Caprice, ha un’analoga funzione di suturazione del corpo (Fig. 6).
Fig. 6 – Cerniera e nuovo sesso.
251
Se da un lato la cerniera aperta permette l’esplorazione e la penetrazione degli organi interni, dall’altro,
essa opera una trasposizione di questi stessi organi a un livello superficiale, laddove è possibile una loro
riscrittura semiotica e valorizzazione sessuale feticcia. In questo modo, sono gli stessi organi interni che
vanno a rimarginare il varco aperto dalla cerniera che, richiudendosi, non fa che ri-velare l’intimità del
sesso reale. Il corpo risulta intero e chiuso, fallo esso stesso, proprio in virtù dei tagli che lo configurano
come superficie significante: la sua scomposizione, e ricomposizione, in parti che si significano
reciprocamente, e metonimicamente rimandano al corpo nella sua totalità, esclude qualsiasi possibilità
di rimando metaforico a un significato profondo o a un referente naturale. Per questa ragione, il nuovo
sesso non ha né ragione interna né una finalità esterna: non è attività riproduttiva, ma piuttosto
operazione e passione del corpo, che seduce e, al contempo, esclude, proprio in virtù dell’autonomia,
della coerenza e della perfezione semiologica che lo stesso rituale sessuale gli conferisce. Ed è proprio
lungo queste categorie che si gioca la battaglia ideologica del film: da una parte, l’inesorabilità di una
materia e di un corpo che continuamente si riproduce, evolve e si fa nuovo senso; dall’altro, il tentativo
disperato di un controllo biopolitico e di una manipolazione semiurgica di questa stessa materialità
attraverso la sacralizzazione, la catalogazione, l’estetizzazione e l’erotizzazione – in una parola, la
feticizzazione – di tutte le sue eccedenze di senso.
5. Dare senso al caos interno
La scena di apertura di Crimes of the Future (Fig. 7) introduce uno sviluppo narrativo che, inizialmente
slegato dai protagonisti Saul e Caprice, diventerà chiave interpretativa dell’impostazione ideologica del
film di Cronenberg. In un’ambientazione post apocalittica – una spiaggia con una nave affondata
all’orizzonte – un ragazzino sta giocando con i sassi presenti sul fondale, quando la madre lo invita a
non mettere nulla in bocca e a rientrare a casa. Una raccomandazione solita che un genitore dà ad un
figlio, ma che diviene sospetta quando vediamo lo stesso bambino una volta in casa prendere a morsi un
cestino seduto a terra in bagno, mentre la madre lo guarda di nascosto piangendo. Nella scena successiva
la donna soffocherà il figlio con un cuscino nel sonno e successivamente farà una telefonata – al padre del
bambino – avvisandolo dell’accaduto e di andare a prendere il corpo: “chieda a Lang se ha interesse di
venire a prendere il corpo di quella creatura che chiama figlio […] quella cosa che è Brecken”.
Fig. 7 – Scena iniziale.
La “mostruosità” di Brecken avrà nel film la funzione di mettere in crisi la morfologia dell’umano che
la società di Crimes of the Future garantisce attraverso l’operato delle sue istituzioni. Lo stesso Saul –
che scopriremo agente del governo sotto copertura – avrà modo di rivalutare la propria posizione in
relazione agli accadimenti del film. Alle prese con i disturbi legati alla crescita di un nuovo organo, si
reca insieme a Caprice al “Registro Nazionale degli organi” dove dichiara la sua preoccupazione per il
252
“mutamento” che sta coinvolgendo il corpo umano. Come afferma il dipendente del registro: “Umano
è la parola d’ordine. Ciò che preoccupa è l’evoluzione umana che sta andando per il verso sbagliato.
Che è fuori controllo. È ribelle” 7 . Sono anni che Saul continua a produrre nuovi organi che
puntualmente fa esportare – nella performance artistica con Caprice – in quanto tumori che mettono in
pericolo la regolare funzionalità del corpo. L’ufficio che opera al fine della registrazione di questi nuovi
organi – che avviene attraverso l’operazione semiurgica del tatuaggio8 – è preoccupato dallo sviluppo
di questi in quanto possono anche arrivare ad affermarsi geneticamente, trasmettendosi dai genitori ai
figli, i quali non sarebbero più umani almeno nel senso convenzionale del termine.
Il controllo semiotico, tecnologico e politico operato sui corpi manifesta la propria inadeguatezza in
relazione alla metamorfosi in atto nel corpo di Saul, strettamente connessa alla vicenda del piccolo
Brecken. La “creatività organica” di Saul viene amputata – nell’esaltazione della performance artistica –
in quanto “un organismo deve essere organizzato, sennò è solo cancro artificiale” (Caprice). Ma questa
convinzione comincia a vacillare quando il padre del piccolo Brecken – Lang Dotrice – incontra Saul e
gli propone di fare un’autopsia al corpo di suo figlio nella prossima performance. La volontà del padre
è quella di avere una dichiarazione “molto pubblica” di quello che l’interno del corpo del bambino
rivelerebbe. Contrariamente alla posizione condivisa da Saul e Caprice, per cui la chirurgia artistica
delle loro esibizioni sarebbe un modo di trasformare in arte l’anarchia, Lang è a capo di
un’organizzazione di sovversivi – definiti “mangia-plastica” – che si fanno portavoce di un “fantastico
processo naturale” di sincronizzazione dell’evoluzione umana con la tecnologia. Grazie ad un intervento
chirurgico questi soggetti, infatti, sono in grado di digerire la plastica: “dobbiamo iniziare a nutrirci dei
nostri stessi rifiuti industriali. È destino” (Lang).
L’ultimo film di Cronenberg mette in opposizione, da un lato una prospettiva – attorializzata nelle
agenzie governative e nei due performer – che attualizza una normativizzazione del corpo, attraverso un
controllo semiotico – tecnologico – finalizzato al mantenimento di una certa morfologia dell’umano in
quanto significato stabilizzato da un codice (Eco 1975) che assume carattere di presunta naturalità,
dall’altro, un gruppo di sovversivi, che propone un nuovo rapporto di ibridazione del soggetto con
l’ambiente tecnologico, aperto al divenire. Un’interpretazione questa che vede il corpo in funzione delle
sue potenzialità e non in virtù della sua essenza che definisce una problematica esclusivamente morale
(Deleuze 2007): i processi del divenire sono forme di resistenza al sistema, “in quanto mirano al
potenziamento e all’accrescimento di ciò che i soggetti possono fare (la loro potentia)” (Braidotti 2006,
p. 156). Assistiamo ad uno “scontro tra ideologie” in quanto entrambe le posizioni – anche se
apparentemente opposte – condividono una prospettiva limitata in relazione alla dimensione umana
da cui sono condizionate: la prima tutela la categoria di umano radicata in uno schematismo semantico
del passato; la seconda valuta positivamente la metamorfosi corporea in atto in nome di un umano
che si proietta verso il futuro. L’autopsia da svolgere sul corpo di Brecken ha l’obbiettivo di mostrare
come la mutazione artificiale – prodotta con un’operazione chirurgica in Lang – sia stata ereditata
geneticamente dal figlio producendo una naturalizzazione dell’artificio che legittimerebbe la
metamorfosi agli occhi dell’opinione pubblica, confermando in questo modo come l’effetto
d’indiscutibilità naturale sia in realtà la risultante di una stabilizzazione discorsiva identificata in questo
caso specifico con la fenomenologia riproduttiva.
Nella trasmissione genetica dell’artificio – insabbiata durante l’autopsia del corpo di Brecken –
l’intenzionalità del soggetto umano viene messa tra parentesi in favore di un corpo che, in un percorso
7 Il responsabile dell’ufficio evidenzia come la scomparsa del dolore, come sistema di allerta dell’essere umano,
abbia portato all’affermarsi di una società molto più pericolosa rispetto al passato.
8 Il tatuaggio per la registrazione dell’organo viene criticato da Saul che, in quanto ripetizione della conformazione
dell’organo stesso, lo domina. Non limitandosi ad essere parassitario – in quanto scrittura (Derrida 1967) – pare
tolga significato all’organo ponendo la significazione su di sé: un controllo semiotico che toglie alla materia la
propria capacità di significare.
253
di adattamento con il proprio ambiente tecnologico ed inorganico, manifesta una propria agentività.
Saul afferma più volte di non essere consapevole di quello che accade al suo corpo, dando a quest’ultimo
anche i meriti creativi che sono alla base delle sue performance. Lasciati crescere questi organi assumono
una funzione sistemica relazionandosi tra loro e relazionandosi all’inorganicità della plastica con
funzione digestiva, in una relazionalità che rende l’uomo un’istanza periferica. Le due fazioni, che si
scontrano in Crimes of the Future sulle sorti dell’umano – condividono il limite ideologico del voler dare
senso al caos interno del corpo attraverso una semiotizzazione della materia che non tiene conto
dell’agentività di quest’ultima nella costituzione della realtà sociale. In una continua dinamica di
esplicitazione interpretativa (Peirce) che – analogamente a quanto avviene con la pratica dell’autopsia – è
finalizzata a riempire un corpo che crediamo vuoto di significato attraverso un processo di simbolizzazione.
6. Conclusioni
In Crimes of the Future si assiste dunque ad un continuo debordare della materia rispetto al controllo
semiotico operato dall’essere umano. Questa mutevolezza corporea viene limitata dagli uffici governativi
- in funzione di uno schematismo semantico che definisce politicamente, attraverso una dinamica di
esclusione, il campo di legittimità di ciò che può definirsi umano (Butler 1990) – mentre viene accolta
da quelli che si stanno spingendo pericolosamente oltre il tracciato, i mangia-plastica, per i quali il
mutamento viene letto solo e comunque alla luce di quello che può implicare per il futuro dell’umanità.
Al contrario, il film definisce l’inadeguatezza del limitare la rappresentazione al semplice linguaggio
umano evidenziando come questa sia distribuita in maniera più ampia. Il sistema rappresentazionale
basato sul linguaggio umano è un particolarismo all’interno di un movimento semiosico più ampio che
permette di definire un’antropologia che va oltre l’umano attraverso un’attività di provincializzazione
del linguaggio (Kohn 2013). I “neo-organi” dell’ultimo film di Cronenberg si fanno soggetto del proprio
mutamento fino al raggiungimento di una natura sistemica con funzione di apparato digerente.
Nel mondo postumano (Braidotti 2013) le istanze – umane e non – si relazionano in una continua
riconfigurazione (agency) material-discorsiva per cui il significato non è né intralinguisticamente
conferito né extralinguisticamente riferito, ma è definito a partire da continue pratiche di rielaborazione
di confini, proprietà e significati (Barad 2007). È necessario, dunque, non limitare l’enunciazione ad una
prospettiva condizionata dalla priorità conferita al soggetto umano, quanto piuttosto riassegnarli una
fisionomia impersonale ed evenemenziale che redistribuisce questo sbilanciamento gerarchico in favore
della polifonica eterogeneità delle istanze enuncianti (Paolucci 2020; Latour 2002, 2017). Le mutazioni
corporee di Crimes of the Future sono infatti fuori dal controllo dell’intenzionalità del soggetto
fenomenologico manifestando una propria capacità di farsi senso, contrariamente ad una prospettiva
che identifica il lavoro d’interpretazione basato su convenzioni culturali come l’unica possibilità per
la materia per non apparire a-semiosica (Eco 1990, p. 181). Un atteggiamento che stabilisce la natura
culturale di qualsiasi mondo (ivi , p. 255) definendo la semiotica come forma di critica sociale (Eco
1975) e la decostruzione derridiana come forma di spiazzamento degli ordini concettuali che
definiscono la realtà (Culler 1982).
I valori della società umana rappresentata nel film sono messi in discussione da queste metamorfosi
materiche sottolineando l’adeguatezza che una prospettiva costruttivista può assumere in relazione alla
complessità che caratterizza anche la nostra contemporaneità in cui le assiologie tipiche della metafisica
occidentale vengono continuamente riarticolate. Tuttavia, nell’ultimo film di Cronenberg, assistiamo ad
un continuo debordare della materia che, allo stesso tempo, rileva il limite che una prospettiva di questo
genere può assumere reimmettendo una forma di rappresentazionismo a partire dall’ontologia
linguistica affermata. Al contrario, bisogna impostare “una riflessione sulla vitalità di una materia che
254
non è ormai più natura, ma neanche solo tecnologia, bensì processo costante di messa in relazione di
tutti questi elementi” (Braidotti 2010, p. 93).
Il momento di profonda crisi e incertezza che ci viene prospettato in Crimes of the Future ci offre uno
spaccato di un ordine naturale e sociale in disperato bisogno di una sua restaurazione o di un nuovo
riassemblaggio (Latour 2005). Quello che ci appare come uno scenario distopico, un mito
dell’apocalisse, diventa quindi occasione di rinascita, di un nuovo inizio, anche per l’umanità. A questo
proposito, la scelta di girare il film in Grecia – culla della civiltà umanista e della metafisica occidentale
– pur se mai esplicitata, non è forse casuale. Così come non lo è una determinata estetica sofisticata e al
contempo primordiale delle tecnologie, che sembrano aver nuovamente intercettato l’umano nel loro
percorso evolutivo, senza per questo snaturarsi. Ora spetta all’umanità prendere coscienza e farsi eco di
questo legame originario, per evitare di soccombere narcisisticamente nella propria immagine
identitaria, di fronte all’inesorabile avanzata della materia dall’interno e dall’esterno dei nostri corpi.
255
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia
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257
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] | Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente
Anna Varalli
Abstract. Mary Magdalene is a mysterious and misrepresented woman, connected to the fundamental events in
the life of Christ. Over the centuries, numerous superimpositions with other female characters have made her an
elusive figure with nebulous boundaries, a synthesis of multiple meanings: both sinner and prostitute and converted
woman and apostle. Through the study of the iconography of “Penitent Magdalene” and the semiotic analysis, the
paper aims to investigate, how contrasting themes such as sin and repentance, carnality and holiness have been
articulated and how they have been favourably developed in the representation of the female body and in the
historical ambiguity of this character.
1. Quale Maria? La Maddalena e le altre figure femminili
La storia della Chiesa cattolica è costellata di figure di santi e sante, uomini e donne che, seguendo
l’esempio di Gesù, hanno accolto la chiamata di Dio, si sono distinti in vita nell’esercizio delle virtù
cristiane e muoiono in grazia di Dio. Nel corso dei secoli, le figure dei santi, che si sono costruite sia
attraverso l’intervento diretto della Chiesa sia grazie alla partecipazione attiva di altri soggetti, diventano
modelli di comportamento imitabili per milioni di fedeli, qualcosa a cui tendere per poter vivere rettamente
nell’amore di Dio (Ponzo 2019a). Tra le numerose vite di santi che ci sono state tramandate, alcune
incuriosiscono particolarmente perché raccontano di figure in contrasto con ciò che un fedele si
aspetterebbe da un santo o una santa. Figure controverse, che sfidano apertamente il potere e i costumi
della loro epoca e che nei secoli sono state riassorbite e riabilitate dalla Chiesa, ma nelle quali rimane una
forte tensione che molto spesso emerge nei racconti, nelle leggende e nelle raffigurazioni che li riguardano1.
La figura di Maria Maddalena è forse una delle più misteriose e controverse, anche perché collegata a
eventi fondamentali della vita di Cristo. Il nome di Maria, molto comune in Israele, si distingue dalle
altre grazie al toponimo “Magdala”2, il luogo dove è nata, secondo la tradizione. Le prime notizie di
Maria Maddalena si ritrovano nei quattro Vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni): la
Maddalena è citata, insieme ad altre, in quel gruppo di donne che segue Gesù, ed è collegata agli episodi
finali della vita del Nazareno: la crocifissione, la deposizione del corpo, la scoperta del sepolcro vuoto
e l’apparizione di Gesù risorto. Solo nel Vangelo di Luca è citata anche all’inizio dell’attività pubblica
di Gesù, quando l’evangelista parla di un gruppo di donne “[...] guarite da spiriti cattivi e da infermità
[...]” (Lc 8,2) che seguivano il Nazareno.
1
Un esempio sono le analisi di Ponzo (2019c) nel capitolo “Atypical Models of Sanctity”, in cui tratta la
rappresentazione della santità nella narrativa italiana contemporanea.
2 Màgdala di Galilea era un piccolo centro romano-giudaico vicino a Cafarnao, sulle sponde del lago di Tiberiade.
La città era identificata da una torre romana: Màgdala deriva infatti dall’ebraico migdol che significa torre.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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Crocifissione Sepoltura Sepolcro vuoto Apparizione (Esorcismo)
27,56: 27,61: 28,1: - -
Tra queste Lì, sedute di Dopo il sabato,
c'erano Maria di fronte alla all'alba del primo
Màgdala, Maria tomba, c'erano giorno della
Matteo madre di Maria di settimana, Maria
Giacomo e di Màgdala e l'altra di Màgdala e
Giuseppe, e la Maria. l'altra Maria
madre dei figli andarono a
di Zebedeo. visitare la tomba.
15,40: 15,47: 16,1: 16,9: -
Vi erano anche Maria di Passato il sabato, Risorto al
alcune donne, Màgdala e Maria di mattino, il primo
che osservavano Maria madre di Màgdala, Maria giorno dopo il
da lontano, tra le Ioses stavano a madre di sabato, Gesù
Marco quali Maria di osservare dove Giacomo e apparve prima a
Màgdala, Maria veniva posto. Salome Maria di
madre di comprarono oli Màgdala, dalla
Giacomo il aromatici per quale aveva
minore e di andare a scacciato sette
Ioses, e Salome, ungerlo. demòni.
- - - 24,10: 8,2:
Erano Maria e alcune donne
Maddalena, che erano state
Giovanna e guarite da spiriti
Maria madre di cattivi e da
Giacomo. infermità: Maria,
Luca Anche le altre, chiamata
che erano con Maddalena,
loro, dalla quale
raccontavano erano usciti sette
queste cose agli demòni3;
apostoli.
19,25: - 20,1: 20,16: -
Stavano presso Il primo giorno Gesù le disse:
la croce di Gesù della settimana, «Maria!». Ella si
sua madre, la Maria di voltò e gli disse
sorella di sua Màgdala si recò in ebraico:
madre, Maria al sepolcro di «Rabbunì!» –
madre di Clèopa mattino, quando che significa:
Giovanni e Maria di era ancora buio, «Maestro!».
Màgdala. e vide che la 20,18: Maria di
pietra era stata Màgdala andò
tolta dal ad annunciare ai
sepolcro. discepoli: «Ho
visto il Signore!»
e ciò che le
aveva detto.
3 L’espressione “sette demoni” non indica necessariamente che la Maddalena fosse afflitta da demoni o da un male
morale; nel linguaggio veterotestamentario, poteva indicare che la donna fosse stata colpita da un gravissimo male
fisico o interiore, dal quale Gesù l’aveva liberata (Brunelli 2022, p. 18).
259
La Maddalena compare anche nei vangeli apocrifi, in particolare nei vangeli di Pietro, di Nicodemo e
di Filippo (Rogers 2019; Mignozzi 2019), quest’ultimo più sensibile allo gnosticismo. Se nei primi due è
citata sempre in relazione agli episodi della crocifissione e della deposizione – racconti che avranno
ampia fortuna nello sviluppo dell’iconografia sia mariana sia della Maddalena stessa – nel testo gnostico
di Filippo, Maria Maddalena è presentata come “interlocutrice ideale di Gesù e sua intima compagna
spirituale” (Brunelli 2022, pp. 18-19). Ben presto si perde la memoria di quest’ultimo testo, molto
controverso, e non avrà influenza sullo sviluppo iconografico della santa; ne ritroviamo echi sul piano
letterario e cinematografico solo nel Novecento, quando ormai la Chiesa ha fatto chiarezza su questa
figura dibattuta, in opere che fanno chiaro riferimento a una relazione tra la Maddalena e Gesù, dal
quale sarebbe nata anche una discendenza4. A partire dal III secolo, i Padri della Chiesa riservano
sempre maggiore attenzione alla Maddalena ed è nella letteratura patristica che questa figura inizia
presto a con-fondersi con altre figure femminili, anonime o con lo stesso nome, citate nei vangeli (Kunder
2019): Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che cosparge con olio di nardo i piedi di Gesù e
li asciuga con i suoi capelli (Gv 20,3); una seconda donna che unge il capo di Gesù sempre con olio di
nardo, a casa di Simone il lebbroso (Mt 26,7; Mc 14,3); una terza che viene chiamata ‘peccatrice’, cioè
prostituta, che a casa di Simone il fariseo “stando dietro, presso i piedi di lui [Gesù], piangendo, cominciò
a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo” (Lc 7,38).
L’unificazione di tutte queste donne nella figura di Maddalena trova ufficialità nelle omelie XXV e
XXXIII di Gregorio Magno (540 circa-604):
Ella considerò le colpe passate e non volle porre freno al suo atteggiamento di penitente. Entrò
durante il convito, venne non invitata, e versò lacrime di fronte alla mensa imbandita. Rendetevi
conto dell’amarezza di questo dolore che non si vergogna di manifestarsi neppure in un banchetto.
Questa donna peccatrice di cui parla Luca, che da Giovanni è chiamata Maria, riteniamo sia quella
Maria dalla quale Marco afferma furono cacciati sette demoni (Gregorio Magno 1968, pp. 325-6).
Inoltre, in alcuni casi, la tradizione patristica affianca a Maria Maddalena la figura di Eva (Kunder 2019,
p. 124), dalla quale l’iconografia trarrà l’attributo dei lunghi capelli.
Entro il VII secolo, in Occidente, si assiste quindi alla completa identificazione di Maria Maddalena con
la figura della peccatrice, in particolare nell’accezione della prostituta. Il percorso di riabilitazione di questa
figura da parte della Chiesa è stato lungo e vede come atto più recente l’istituzione della festa liturgica di
Maria Maddalena da parte di Papa Francesco nel contesto del Giubileo straordinario della Misericordia
(8 dicembre 2015-20 novembre 2016), “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande
amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”5, la prima messaggera che annuncia agli apostoli la risurrezione
del Signore, tanto da essere definita da San Tommaso d’Aquino l’apostolorum apostola6.
Nel corso dei secoli, la costante sovrapposizione tra Maria Maddalena e le numerose donne che
abitano i Vangeli ha reso questa figura femminile inafferrabile e dai confini nebulosi. È questo lento
processo che ha portato la Maddalena a “divenire simbolo”, la sintesi di molteplici significazioni, e
quindi a poter riconoscere in essa sia la peccatrice e la prostituta, sia la convertita e l’apostola.
Riprendendo le riflessioni di Sedda: “esso [il simbolo] può risultare oscuro solo per l’eccesso di
4 Nella letteratura moderna, il primo libro che tratta questo tema è Le Tresor Maudit de Rennes-le-Château (“Il
Tesoro Maledetto di Rennes-le-Château”) di Géraud Marie de Sède de Liéoux e pubblicato nel 1967, al quale si
ispirano i successivi testi di Michael Baigent, Richard Leigh, e Henry Lincoln (The Holy Blood and the Holy Grail,
1982), di Umberto Eco (Il pendolo di Foucault, 1988) e di Dan Brown (The Da Vinci Code, 2003).
5Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: la celebrazione di Santa Maria
Maddalena elevata al grado di festa nel Calendario Romano Generale, bollettino Sala Stampa della Santa Sede,
n. 0422, 10-06-2016.
6
Cfr. San Tommaso d'Aquino, In Ioannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6.
260
memorie, di storie più o meno immaginarie, di proprietà semantiche che porta in sé. Il simbolo può
apparire vuoto perché è troppo pieno” (2021, p. 26).
2. Maria Maddalena: l’esempio perfetto della peccatrice penitente
Intorno alla figura di Maria Maddalena si sono infine delineate due diverse tradizioni agiografiche che
seguono l’evento della resurrezione di Cristo: quella orientale, che vede la Maddalena seguire Giovanni
a Efeso, dove morirà; quella occidentale che dà avvio a numerose narrazioni della vita della santa, fino
ad arrivare alla definizione della Legenda aurea di Jacopo da Varazze, composta tra gli anni Cinquanta
e Sessanta del XIII secolo. Quest’ultima, a sua volta, sovrappone due diverse tradizioni agiografiche
occidentali: da una parte la narrazione del dossier Vézelien, la leggenda che vede Maria Maddalena
evangelizzatrice della Francia assieme a Lazzaro, primo vescovo di Marsiglia, e che morirà dopo molti
anni di eremitaggio; dall’altra, la storia della figura di Maria Egiziaca, una giovane prostituta convertita
del IV secolo che passerà il resto della sua vita da eremita (Mignozzi 2019).
La Legenda aurea è una delle fonti maggiori a cui gli artisti si sono ispirati e da cui hanno attinto gli
elementi figurativi che costruiscono l’iconografia della Maddalena. Per poter delineare al meglio i tratti
iconografici, l’abbondante produzione artistica intorno a questa figura ci spinge a selezionare un corpus
più ristretto di immagini: a tale scopo, la mostra Maddalena. Il mistero e l’immagine (Forlì, Musei San
Domenico, 27 marzo-10 luglio 2022), organizzata intorno alle numerose configurazioni iconografiche
della santa, si presenta già come una prima selezione, seppur ancora molto ampia. L’analisi, in
particolare, si occuperà di quelle raffigurazioni pittoriche presenti in mostra il cui soggetto rientra nel
tipo iconografico della “Maddalena penitente”, tema che si afferma nella pittura devozionale a seguito
del Concilio di Trento (1545-1563). Le rappresentazioni prese in esame, infine, risultano attinenti al
periodo cronologico XVI-XX secolo.
In queste rappresentazioni, lo spazio figurativo può presentare due situazioni differenti; un ambiente
esterno, come un paesaggio boschivo o con molta vegetazione, oppure uno spazio interno roccioso non
meglio definito, buio e raccolto. È possibile individuare anche una soluzione intermedia, una sorta di
luogo-limite tra esterno e interno, con ambienti rocciosi che si aprono su paesaggi a volte caratterizzati
anche dalla presenza di attività umane in lontananza, come piccoli centri abitati, torri e ponti. È sempre
presente una figura femminile, in un intervallo d’età che spazia da una giovane ragazzina a una donna
matura, con lunghi capelli sciolti e colta in situazioni differenti: mentre legge o dorme, oppure
semplicemente seduta o sdraiata. L’abbigliamento della donna può variare molto da opera a opera, e
può presentarsi vestita di tutto punto, coperta da un tessuto, oppure completamente nuda. La figura si
accompagna ad alcuni oggetti – un piccolo recipiente con coperchio, un crocifisso, un teschio e un libro
– che possono essere presenti tutti contemporaneamente o almeno uno di essi. È in particolare il
recipiente che permette di identificare con certezza la figura femminile in Maria Maddalena: si tratta del
vasetto che contiene l’unguento profumato con cui Maria cosparge i piedi di Cristo e fa quindi
riferimento alle narrazioni dei vangeli; quando non è presente alcun attributo, la figura femminile viene
riconosciuta per la presenza dei lunghi capelli7, che rimandano anch’essi alla narrazione dei vangeli (Gv
20,3; Lc 7,38). Il crocifisso, il libro e il teschio, invece, non rimandano a una narrazione specifica della
7
Questo attributo è condiviso con altre figure femminili, cosa che potrebbe rendere l’identificazione ancora più
difficoltosa, e solitamente ha la funzione di coprirne la nudità. Maria Maddalena eredita questo attributo dal
parallelismo con Eva, rappresentata nuda nel giardino di Eden prima della cacciata dal Paradiso, e dall’iconografia
occidentale di Maria Egiziaca, che figura nella variante con lunghi capelli castani che le coprono tutto il corpo fino
alle caviglie, forse anche per una contaminazione con la raffigurazione di Eva (Brasa 2022, p. 58).
261
vita della Maddalena: si riferiscono al tema della meditazione8 – come anche la testa appoggiata a una
mano9, posizione in cui viene spesso raffigurata. Gli oggetti riuniti intorno al teschio compongono una
piccola natura morta del tipo specifico della Vanitas, genere pittorico che si sviluppa e diffonde a partire
dal XVII secolo. Il tema della morte, nella forma del teschio, si intreccia con il tema della transitorietà
della bellezza e della ricchezza, per ricordare all’uomo il suo destino; come spiega Scalabroni (1999),
nella Vanitas tutto ruota intorno alla meditazione, aspetto rimarcato anche dalla presenza del libro,
oggetto peculiare della “vita contemplativa”. Tuttavia, la presenza del crocifisso, simbolo di Resurrezione,
inserisce nella severa visione della Vanitas un elemento positivo perché “Il pensiero della morte deve in
sostanza essere inteso come un principio di vita, un riferimento costante per misurare le proprie azioni. La
via che all’uomo viene indicata è insomma una via di amore e di virtù, di elevazione e di distacco dalle
cose terrene” (ivi, p. 19). Il tema della transitorietà della vita nella Vanitas condivide con la figura di Maria
Maddalena un’intima ambiguità: è sia un invito a godere dei piaceri della vita finché è possibile, sia
un’esortazione cristiana a staccarsi dalle vanità del mondo per poter accedere alla vita eterna (ivi).
Maria Maddalena è quindi raffigurata sola, in un luogo isolato e spoglio, e porta con sé gli strumenti
della preghiera e della meditazione. Si potrebbe pensare che si tratti di un momento non meglio definito
della vita romita di Maddalena descritto nella Legenda aurea ma, in questo caso, ci troveremmo di
fronte a una discrepanza temporale. Maddalena si sarebbe pentita della sua condotta e si sarebbe
convertita dopo il primo incontro con Cristo nella casa di Simone il fariseo (o il lebbroso) e avrebbe
deciso di seguirlo insieme ad altre donne; nella Legenda aurea, l’eremitaggio segue un primo momento
di evangelizzazione, quindi a pentimento e conversione già avvenuti. Perché allora gli storici dell’arte
definiscono questa particolare iconografia della Maddalena come “penitente”? È più probabile che sia
la figurativizzazione del tema della penitenza. Il pentimento di Maria Maddalena è messo in forma
attraverso l’utilizzo di luoghi isolati che rimandano all’allontanamento dalle abitudini viziose del suo
passato; ella è nel pieno del suo percorso di conversione che inizia con il pentimento e la remissione
dei peccati da parte di Cristo, a cui fanno diretto riferimento sia il crocifisso (1Pt 2,24: “Egli portò i
nostri peccati nel suo corpo/sul legno della croce,/perché, non vivendo più per il peccato,/vivessimo
per la giustizia;/dalle sue piaghe siete stati guariti”) sia il vasetto di unguenti (Lc 7,48: “Poi disse a lei:
«Ti sono perdonati i tuoi peccati»”). Se accettiamo questa proposta di lettura, la discrepanza temporale
viene meno ma, con essa, viene a mancare anche una narrazione a cui fare direttamente riferimento.
Sono le raffigurazioni che attraverso l’insieme di queste determinate scelte rappresentative
costituiscono una medesima storia, colta in fasi differenti, in cui Maria Maddalena è la figura per
eccellenza della peccatrice penitente.
3. Il percorso di redenzione di una peccatrice
Qual è la storia unitaria che ci raccontano queste rappresentazioni? L’aggettivo “penitente” indica
un’azione prolungata nel tempo, cioè l’atto di fare penitenza dei propri peccati che conduce il penitente
in un percorso di abbandono completo delle abitudini viziose del passato e di riorientamento della
propria vita in direzione di Cristo. Possiamo affermare di essere di fronte a una storia di conversione, a
8
Questi attributi accompagnano molto spesso anche la figura di Maria Egiziaca, come anche il contesto roccioso
in cui viene ambientata la rappresentazione, a rimando della vita romita della santa. Il riconoscimento della figura
di Maria Maddalena, in questi casi, può essere risolto solo dalla presenza del vasetto di unguenti e dall’aspetto
della figura femminile: infatti, Maria Egiziaca viene solitamente rappresentata con un corpo anziano, segnato dal
digiuno; Maria Maddalena, invece, è una giovane fanciulla dal corpo florido e sensuale.
9
Si tratta di un gesto convenzionale in uso sin dall’antichità e indica dolore, cordoglio e umore malinconico.
262
un processo10 che vede Maria Maddalena allontanarsi da una vita vissuta nel peccato per congiungersi
a Cristo e iniziare una nuova vita.
Nonostante la figura della Maddalena aderisca alla tradizione con i suoi attributi e gli oggetti che
solitamente l’accompagnano, possiamo notare che in questa serie di rappresentazioni l’iconografia
subisce delle variazioni. Ciò dipende da quale momento di questo percorso di conversione ha voluto
rappresentare l’artista (Calabrese 2012; Marrone 1995).
Il primo momento è quello della consapevolezza del suo vissuto, che dà avvio al processo della
conversione: Maria Maddalena, che conduce una vita nella dissolutezza, prende coscienza della sua
condizione di peccatrice e si prepara anche nell’animo alla conversione11. Le rappresentazioni di questo
tipo la raffigurano in un atteggiamento di sconforto, molto spesso in lacrime. Caravaggio (Fig. 1) raffigura
la santa avvolta in tessuti preziosi e circondata da gioielli che si lascia cadere su una seggiola, con il capo
piegato e le braccia in grembo, in una postura raccolta che rimanda a tutta l’intimità del momento. La
lacrima che le scorre sul viso figurativizza il dissidio interiore e la presa di coscienza del suo vissuto fino
a quell’istante, rendendo partecipe l’osservatore all’evento che può in questo modo identificarsi con la
figura della peccatrice penitente.
Il secondo momento è quello della meditazione sul proprio destino: è la fase in cui Maria Maddalena sceglie
di intraprendere il percorso della conversione. La figura viene rappresentata mentre appoggia la testa a una
mano con fare malinconico e lo sguardo vacuo perso nel vuoto. Secondo la tradizione della Vanitas, l’oggetto
a cui viene dato maggiore rilievo è il teschio (Fig. 2): insieme alla Maddalena, l’osservatore è invitato a
prendere consapevolezza del proprio destino e a meditare sul proprio futuro.
Il terzo momento può essere definito quello della contemplazione: Maria Maddalena, in cerca della salvezza,
si dedica alla meditazione delle cose spirituali. È la prima situazione in cui Maddalena inizia a lavorare su di
sé, tramite la preghiera, per preparare il suo incontro con Cristo. In queste rappresentazioni il suo sguardo è
fortemente attratto dal vangelo o dal crocifisso, gli oggetti che la aiutano nella preghiera; in alcuni casi, tutto
il corpo della santa tende verso la Croce, anticipando – o richiamando – l’evento della crocifissione, in una
contemplazione che la coinvolge completamente (Fig. 3).
Il quarto momento è quello che può essere definito dell’illuminazione. Si tratta di un momento di svolta,
una componente ricorrente nelle narrazioni di conversione (Ponzo 2019b): è la fase di passaggio che
segna per Maddalena l’allontanamento dalle cose del mondo terreno e apre le porte al mondo spirituale.
Gli oggetti della preghiera le hanno consentito di prepararsi a questo momento, l’esperienza illuminante
della salvezza e del perdono dei peccati, che le consentirà di completare la sua conversione. In questo
tipo di rappresentazioni, lo sguardo di Maria Maddalena è attratto da qualcosa posto all’estremità del
quadro – una luce accecante – o al di là dei suoi limiti, come se qualcuno l’avesse chiamata e le stesse
parlando (Fig. 4). Maddalena, quindi, non è più sola come lo è stata fino a questo momento – e forse
non lo è mai stata – ma solo ora il suo sguardo può incontrare un ‘altro’ e l’osservatore assiste, insieme
a lei, a questa rivelazione. Sono la meditazione e la contemplazione che le hanno permesso di aprire gli
occhi, di prepararsi alla remissione dei suoi peccati e di accedere alla salvezza, l’ultimo passo prima di
poter incontrare Cristo.
Infine, alcune rappresentazioni fanno invece riferimento al momento dell’estasi di Maria Maddalena,
tema iconografico che rientra a pieno titolo nel percorso di conversione della santa. In questo caso, gli
artisti hanno deciso di rappresentare o l’attimo appena precedente del punto culminante della vicenda,
cioè il momento del rapimento estatico, oppure quello immediatamente successivo, che potremmo
definire della “post-estasi” (Marrone 1995). Il rapimento estatico è il grado più alto della contemplazione,
quando l’anima, al culmine della sua esperienza religiosa, si innalza al divino ed entra in immediata
comunione con esso. Maria Maddalena viene rappresentata semidistesa, con la testa gettata all’indietro
10 Cfr. Greimas 1974, voce “processo”.
11
Possiamo riconoscere in questo momento la prima fase (Costituzione) del percorso passionale canonico, quando
il soggetto patemico “è messo nella condizione di conoscere una passione” (Fontanille 2012, p. 408).
263
e lo sguardo perso rivolto verso l’alto; anche quando il corpo sembra rilassato, alcuni dettagli lasciano
trasparire una tensione che l’attraversa completamente, ad esempio le punte dei piedi tese. Come scrive
Careri, “Per mostrare all’esterno uno stato spirituale interno, il corpo in rappresentazione può limitarsi
a esibire gli aspetti patologici marginali che investono il corpo «reale» o assumere la configurazione
erotica del corpo «immaginario»” (2017, p. 89); per questo motivo, è possibile individuare nella postura
di Maria Maddalena tratti tra loro contradditori che rimandando da una parte alla distensione e
all’abbandono, dall’altra alla tensione e alla contrazione 12 . In alcuni casi, Maria Maddalena è
accompagnata da figure angeliche che figurativizzano l’istante della sospensione, il momento in cui il
mondo spirituale e il mondo sensibile entrano in contatto attraverso l’esperienza mistica della santa (Fig.
5). Non si tratta propriamente della rappresentazione del momento dell’estasi, ovvero delle possibili
visioni della santa: l’osservatore vede nel corpo della Maddalena gli effetti che l’esperienza mistica
provoca. Si tratta quindi del momento iniziale dell’esperienza estatica, quando la coscienza del mondo
sensibile e di ogni legame corporeo viene meno.
Se è vero che il mistico subisce l’estasi e “non ha alcun controllo sul piano di espressione, sui fenomeni
che è costretto a considerare sintomi del divino” (Galofaro 2019, p. 116), forse non è completamente
passivo davanti a tali fenomeni. Leggiamo le parole di Santa Teresa d’Avila13:
Pur provando diletto, la debolezza della nostra natura ci colma agli inizi di timore, rendendo
necessaria un’anima determinata e coraggiosa, molto più di quanto richiesto sino ad ora, per
affrontare tutto, accada quel che deve accadere, abbandonarsi nelle mani di Dio e lasciarsi condurre,
con fiducia. A tal livello tante volte vorrei resistere, porre resistenza, mettendoci tutte le mie forze,
alcune conosciute e altre molto nascoste, perché temo di essere ingannata. Talvolta sono riuscita a
resistere un po’, con grande fatica: restavo in seguito stanca come quando si lotta contro una persona
grande e grossa. Altre volte era impossibile, mi portava via l’anima e mi rialzava il capo se non tutto
il corpo fino a sollevarlo da terra (Santa Teresa d’Avila 2018, p. 287).
A causa della debolezza della natura umana che la rende insicura e incerta, l’anima non è sempre
pronta: per questo motivo, deve lottare contro la debolezza umana per diventare “un’anima determinata
e coraggiosa”. L’unico modo è cedere alla forza divina e abbandonarsi completamente nelle mani di
Dio. Alla luce di questo, è possibile riconoscere nella “post-estati” il momento terminativo
dell’esperienza estatica. Ancora una volta, ci affidiamo alle parole di Santa Teresa d’Avila:
Si resta poi con una strana stanchezza che non saprei neppure descrivere. Mi sembra però di poter
dire che è in qualche modo diversa dal solito (al contempo ben diversa dalle altre cose riguardanti
il solo spirito). Se già si è spiritualmente distaccati dalle cose, qui sembra che il Signore voglia
produrre questo medesimo effetto anche nel corpo, e si crea un nuovo strano rapporto con le cose
della terra, da rendere penosa la vita (ibidem).
Come nella citazione precedente, torna il tema della stanchezza fisica: dopo aver subìto la forza del
divino, il corpo si ritrova sfinito. Maria Maddalena ha completato il suo percorso di conversione che
12
In riferimento al tema dell’estasi si segnala anche lo studio di Careri (1991) del gruppo scultoreo della Cappella
Albertoni, realizzato da Gian Lorenzo Bernini: la figura femminile presenta parti del corpo contratte e altre distese,
ed è quindi segnata dalla compresenza di termini opposti che non corrisponde a una posizione logica statica ma
a un processo dinamico, intensivo e intermittente (p. 131).
13
Come scrive Leone (2010), gli scritti autobiografici di Santa Teresa d’Avila sono caratterizzati da una forte carica
emotiva: il cambiamento spirituale non è mai rappresentato come definitivo “but rather as a process or, even
better, as an oscillation” (p. 494). La conversione di Teresa d’Avila viene presenta le caratteristiche che
l'immaginario religioso della prima età moderna proietta sulla conversione religiosa femminile: seguendo lo
stereotipo della trasformazione spirituale della Maddalena, “the religious mutation of a female heart was hardly
conceivable without this tumultuous unfolding of tension, attention, passions, emotions” (p. 494).
264
viene sanzionato positivamente grazie all’incontro con Cristo. In queste rappresentazioni, la santa viene
raffigurata addormentata e il suo corpo è completamente rilassato. Nell’opera di Karl Wilhelm
Diefenbach (Fig. 6), la luce che illumina il corpo nudo della santa è dai toni giallo-arancioni, come se
provenisse da una lanterna, mentre sullo sfondo le nuvole presentano leggerissime sfumature di rosa e
gialli: la notte è passata e sta albeggiando, è l’inizio di una nuova vita, seguendo Cristo.
4. Uno sguardo al corpo nudo
L’enorme fortuna che ha avuto la figura di Maria Maddalena non è solamente legata al tema della
penitenza e della conversione. La storia del passato peccaminoso della santa ha consentito agli artisti di
esercitarsi e destreggiarsi con il nudo femminile senza allontanarsi dei temi sacri che hanno dominato
per secoli la produzione artistica14. Per questo motivo, la bellezza seducente e la femminilità di Maria
Maddalena si trovano a dialogare in modo dialettico con la sua santità e il legame con Cristo che le
attribuisce la tradizione. Nel Cinquecento, la figura di Maria Maddalena penitente trova una sensualità
nuova con Tiziano (Fig. 7), che si distacca dalle precedenti raffigurazioni della santa che ne
nascondevano completamente il corpo (Donatello, Maddalena penitente, 1453-1455, Fig. 8) e ne esalta
la nudità. Inizia così a porsi l’accento sulla condizione di “peccatrice seducente” (Brunelli 2022, p. 22)
che si arricchisce, sul finire del XVI secolo e in particolare grazie alla circolazione degli scritti di Santa
Teresa d’Avila e alla sua beatificazione (1614), di nuovi modelli figurativi in cui sensualità e spiritualità
possono coesistere senza scontrarsi (Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente, 1626-1627, Fig.
9) ma anche di forme più devozionali legate al tema dell’incontro con il divino (Strozzi, Santa Maria
Maddalena penitente, 1620 circa, Fig. 3). Infine, con il Neoclassicismo e il Romanticismo, la figura della
Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa e diventa pura esibizione dell’abilità pittorica
dell’artista sul nudo femminile (Hayez, La Maddalena penitente, 1833, Fig. 10).
Il corpo della santa, a partire dall’opera di Tiziano, sembra che inizi sempre più a parlare di sensualità.
Il nudo, però, è solo una parte di una “configurazione discorsiva che si iscrive in una narrazione”
(Calabrese 2012, p. 206) e, in questo caso, ne riveste il ruolo centrale. Prendendo ad esempio l’analisi
sul nudo di Calabrese in La macchina della pittura (2012), è interessante approfondire anche nel nostro
caso in che modo il corpo della santa si relaziona con l’osservatore. Inoltre, se non in alcune
rappresentazioni, Maria Maddalena non è mai completamente nuda: gli artisti giocano con le vesti e, in
particolare, con capelli per (s)coprirne il corpo. Come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 2), Maddalena
è raffigurata sola e in un luogo isolato: non sono quindi presenti altri attori che potrebbero vederla nuda
ma è solo l’attante osservatore, posto nella posizione implicita del punto di vista, che intrattiene una
qualche relazione con essa. Non potendo però affrontare l’analisi di ogni rappresentazione nel dettaglio,
ci limiteremo a individuare delle situazioni-tipo.
1. Il corpo della santa è completamente nascosto alla vista dell’osservatore: i capelli lo rivestono nella
sua totalità, lasciando visibili solo gli arti e il volto, impedendo anche la sola percezione delle forme;
in questo caso, viene messa in evidenza l’opacità materica dei capelli che, data la loro quantità e
lunghezza, svolgono la funzione di una veste, di una pelliccia. Lo sguardo della Maddalena è
orientato all’osservatore e lo interpella direttamente, lo pone in una posizione di dover guardare.
Ne sono un esempio le rappresentazioni più antiche, come la tavola agiografica di Maddalena
penitente e otto storie della sua vita (Maestro della Maddalena, 1280-1285; cfr. anche Fig. 8),
precedenti all’opera di Tiziano.
2. Le vesti scivolano sul corpo, lasciando in parte scoperte le spalle e i seni; alcune ciocche di capelli ne
14Sul tema della bellezza seducente della figura della Maddalena è possibile visionare anche il lavoro di Dondero
(2007), in particolare l’analisi delle fotografie di Pierre et Gilles che “utilizzano la sensualità della donna fotografata
per instillare nell’osservatore il dubbio sulla leggendaria conversione della santa” (p. 92).
265
limitano la visione completa. L’osservatore può percepirne le forme o avere una visione quasi perfetta
del seno. In questo caso, i capelli offrono svariati gradi di visibilità, non sono più un filtro completamente
opaco ma lasciano trasparire la carne; svolgono la funzione di “focalizzatore del desiderio” spostando
l’attenzione su ciò che (non)coprono, impossibile però da afferrare e quindi fortemente desiderabile
(Volli 2016). Rispetto allo sguardo della santa, possiamo individuare delle varianti di questa situazione:
a) Lo sguardo è orientato allo spettatore ma è assente, come indifferente alla sua presenza; b) Lo sguardo
è interno al quadro e rivolto a un oggetto (il teschio, il libro, il crocifisso). La santa non cerca di coprirsi
ma, al contempo, non è interessata allo sguardo dell’osservatore.
3. Maddalena copre volontariamente il suo corpo dal possibile sguardo di un’intrusione improvvisa,
portando le mani al petto. La semitrasparenza che offrivano i capelli è, in questo caso, negata dal
gesto volontario della santa che li raccoglie tra le mani, davanti al seno (Fig. 4), mentre vengono
sfruttate le proprietà coprenti del tessuto (Fig. 7). Lo sguardo è rivolto verso l’alto in direzione di
qualcosa posto ai limiti del quadro o fuori di esso, che ha attirato improvvisamente la sua attenzione.
Rispetto alle situazioni precedenti, si definisce una situazione di riservatezza e subentra il pudore:
la santa non vuole essere guardata da questo nuovo attante, percepito come estraneo e intruso.
4. Il corpo della santa è completamente offerto alla vista dell’osservatore (Fig. 9, 5), i capelli e i tessuti
non ne impediscono in alcun modo la visione. La santa può rivolgere uno sguardo completamente
assente fuori dai limiti del quadro, oppure tiene gli occhi chiusi: in entrambi i casi, è indifferente
alla presenza dell’osservatore e non accenna alcun gesto di copertura.
5. Conclusioni
In questa serie di opere, classificate sotto la medesima configurazione iconografica definita “Maddalena
penitente”, si può individuare un percorso narrativo15. Alla prima fase di presa di consapevolezza del
proprio vissuto, in cui avviene la rottura dell’equilibrio, segue la meditazione, cioè il momento della
manipolazione in cui la santa decide di intraprendere il percorso di conversione; la contemplazione e
l’illuminazione corrispondono alla fase della competenza, in cui Maddalena si prepara all’incontro con
Cristo. Infine, la fase dell’estasi, di cui vediamo solo il momento incoativo del rapimento estatico e quello
terminativo della post-estasi, corrisponde da una parte alla fase della performanza, cioè della lotta
interiore dell’anima contro la debolezza umana; dall’altra alla sanzione, in cui alla santa viene
riconosciuta l’avvenuta conversione tramite la possibilità di incontrare Cristo.
Abbiamo anche notato che gli artisti, nel corso dei secoli, danno al corpo nudo e alla sua sensualità sempre
maggiore rilievo. Possiamo però osservare che la nudità della santa assume accezioni diverse nelle varie
fasi del suo percorso di conversione e non rimanda necessariamente solo alla sensualità, come invece
sembra emerge dall’opera di Tiziano in poi. Osserviamo che la Maddalena passa da una postura raccolta
(testa china, spalle chiuse e busto ricurvo sugli oggetti della preghiera) che caratterizza i momenti della
meditazione e della contemplazione, a una postura più aperta nel momento dell’illuminazione (spalle e
testa dritte, sguardo verso l’alto), fino ad una completa apertura nel momento del rapimento estatico (corpo
sdraiato e testa gettata all’indietro). A questa progressiva apertura, corrisponde da una parte, una tensione
crescente che, come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 3), culmina nel momento del rapimento estatico
per poi distendersi immediatamente; dall’altra, possiamo notare un mostrarsi graduale del corpo che, in
un gioco di opacità e trasparenze che articola le vesti, le mani e i capelli, arriva ad offrirsi completamente
nudo all’osservatore (Fabbri 2004; Galimberti-Zanetti 2004; Volli 2016; Chiais 2022). Sul piano del
contenuto, questa inversione della postura di Maria Maddalena corrisponde al graduale allontanamento
dal suo passato peccaminoso; invece, il progressivo svestirsi del corpo rimanda all’abbandono delle
15
Cfr. Greimas 1974, voce “narrativo (percorso –)”.
266
abitudini viziose e della mondanità – di cui l’abito e i capelli ne sono figura – e al graduale mutamento
dello spirito che conduce Maria Maddalena alla conversione e all’incontro con Cristo. Utilizzando le parole
di Paolo Fabbri: “Lo svelamento è rivelazione: può andare ben oltre la pelle – che è vestigio della veste –
e cercare, nella sua effrazione e tortura (ferire, amputare, scorticare), l'accesso ad una verità incorruttibile
di cui la carne è il velo” (2004, p. 7).
La tensione tra carnalità e spiritualità che caratterizza la figura ambigua di Maria Maddalena è stata
certamente la fortuna della diffusione e dell’interesse nei confronti di questa santa. Se nella storia dell’arte
l’iconografia della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa per dare spazio al virtuosismo
pittorico, dall’altra l’analisi dimostra che non ha mai perso del tutto il suo carattere devozionale. In
questo modo, la carnalità sensuale che ne traspare non si pone in opposizione alla spiritualità: il corpo
nudo, giovane e voluttuoso di Maria Maddalena è figura degli habitus del suo passato che, tuttavia,
tramite il percorso di conversione della santa, viene risemantizzato e anch’esso diviene figura del
pentimento, della conversione e della comunione con Dio.
267
Appendice
Fig. 1 – Maddalena penitente, Caravaggio, 1596-1597, olio su tela, 122,5x98,5 cm,
Roma, Galleria Doria Pamphilj.
Fig. 2 – Santa Maria Maddalena penitente , Giovanni Maria Viani, 1690 circa, olio su tela, 96x78 cm,
collezione privata.
268
Fig. 3 – Santa Maria Maddalena penitente , Bernardo Strozzi, 1620 circa, olio su tela, 97x73 cm
Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco.
Fig. 4 – Santa Maria Maddalena penitente , Palma il Giovane, 1615 circa, olio su tela, 132x112 cm
Bergamo, Accademia di Carrara.
269
Fig. 5 – Esatasi di Santa Maria Maddalena, Alessandro Rosi, 1670 circa, olio su tela, 110x135 cm,
Firenze, Galleria degli Uffizi, Galleria palatina.
Fig. 6 – La Maddalena penitente, Karl Wilhelm Diefenbach, olio su tela, 213x122 cm,
Vienna, Fine Art Gallery Leon Wilnitsky.
270
Fig. 7 – Santa Maria Maddalena penitente , Tiziano Vecellio, 1566-1567, olio su tela, 122x94 cm,
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Fig. 8 – Santa Maria Maddalena penitente , Donatello, 1450-55 circa, legno, 185x5x45 cm
Firenze, Museo dell'Opera del Duomo.
271
Fig. 9 – Santa Maria Maddalena penitente , Guido Cagnacci, 1626-1627, olio su tavola, 86x72 cm,
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.
Fig. 10 – La Maddalena penitente, Francesco Hayez, 1833, olio su tavola, 118x141,5 cm,
Galleria d’Arte Moderna, Milano.
272
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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273
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Mirco Vannoni
Abstract. Direct engagement with the theoretical problems of painting characterizes contemporary art. As Louis
Marin (1986) points out, the idea of “artistic practice” and its emphasis on thinking about the difference between
the material support and the painted surface of the work is central to contemporary art. This type of investigation
deserves to be linked to reflections on the “factual power” of the materials used in contemporary art (Magli 2003)
and on the enunciative role of the artist’s gestural expressiveness in the production of the artwork (Damisch 1981;
Corrain 2016). This paper will focus on the work of Nicola Samorì and the material dimension of his artistic
practice. It will reflect on the status of the visual material as a generative element of representation and on the
relationship between the manipulative power of the materials and tools used by the artist. Taking into account
Barthes’ doctrine (1982) of a not yet written history of the tools and materials of art, I will question Samorì’s work,
starting from the way these works of art are realised, with the attempt to show the various sensitive relationships
that can arise between surfaces, materials and the gestures of the artist.
« Apercevez-vous quelque chose ?» demanda
Poussin à Porbus. « Non. Et vous ? », « Rien »
[…]. « Le vieux lansquenet se joue de nous », dit
Poussin en revenant devant le prétendu tableau.
Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu
La peinture pense. Comment ? C’est une
question infernale.
Georges Didi-Huberman, La peinture incenee
1. In apertura
Come ricorda Louis Marin in un’intervista a Flash Art del 1986, molta della produzione artistica
contemporanea si caratterizza per l’emergere progressivo di una riflessione teorica sulla pittura espressa
attraverso il linguaggio stesso della pittura:
ciò che mi sembra più caratteristico della pittura “contemporanea” (in contrapposizione alla pittura
“moderna”) è che la sua nozione di pratica pittorica o, più in generale, di pratica artistica, si basa
sul presupposto che la sperimentazione diretta dei problemi teorici della pittura possa in effetti
diventare “il soggetto della pittura” [...]. In passato, il pittore (o il “critico”) elaborava un discorso
teorico sulle procedure pittoriche. Nel “presente”, il pittore realizza un’opera, o un quadro, che dà
corpo pittorico alla sua teoria della pittura (Marin 1986, p. 53; tr. nostra).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Stando a queste parole dello studioso francese, conosciuto soprattutto per le sue ricerche sulla
rappresentazione pittorica dell’età classica 1 , il prisma interpretativo dell’arte contemporanea può
dunque rivelarsi un ottimo luogo di analisi e di messa alla prova delle teorie della pittura espresse
attraverso la pittura stessa.
Ne è un caso il problema dalla dimensione alchemico-elementale della materia pittorica nel lavoro di
Nicola Samorì, la cui produzione artistica si caratterizzata per una continua e costante messa in
discussione della presupposta planarità del supporto della rappresentazione pittorica.
Nel mio lavoro ho sempre molestato il piano, la superficie. Tutto il mio lavoro parla di questo: di
un’incapacità di accogliere il sonno bidimensionale della pittura. Guardando di profilo, cosa succede a
un dipinto? Il problema della rottura di integrità di una superficie, della ferita che torna e ritorna, è reale?
È immaginata? Ha comunque a che fare con una sorta di inaccettabilità del piano (Samorì 20232).
Nel suo lavoro Samorì erode, corrode, brucia e strappa la “pelle” della pittura. Si prenda, tra le altre, la
serie di opere che compone Cammino cannibale esposta nel 2020 alla Fondazione Made in Cloister di
Napoli. Sono sei progressivi strappi murali in cui la figura di Marsia, giovane sileno punito da Apollo,
da un grado massimo di densità figurativa arriva alla completa astrazione, alla pura materialità della
porzione muro incorniciata come ultimo elemento dell’ensemble.
Fig. 1 – Nicola Samorì, Cammino Cannibale (2018-2019), chiostro di Santa Cecilia – Fondazione Made in
Cloister, Napoli, 2021 (© Nicola Samorì).
Il racconto della scarificazione, topos che nella storia dell’arte ha suscitato l’interesse di maestri come
Tiziano, viene tradotto da Samorì in una vera e propria decorticazione dell’immagine3. Infatti, una volta
realizzato l’affresco del sileno, Samorì procede a strappare l’opera muraria dal suo supporto. Esito di
questa procedura di estrazione, come si può vedere (Fig. 1), sono sei livelli di intonaco che l’artista rende
autonomi ed espone in serie come differenti strati dell’“epidermide” della pittura. In quest’opera il tema
dell’enunciato, la flagellazione di Marsia, si trova appunto duplicato nel gesto enunciativo dell’artista
ovvero nello sfregio del supporto. A discapito di una rappresentazione mimetica del racconto della
punizione divina, la mise en place dei diversi strappi che compongono Cammino cannibale si configura
come ri-presentazione del gesto che li ha resi possibili. Un cortocircuito tra narrazione mitologica e
1
Si faccia riferimento, a titolo di esempio, ai lavori su Caravaggio e Poussin (Marin 1978), Philippe de Champaigne
(Marin 1995) o sulla pittura italiana del Quattrocento (Marin 1989). È bene notare, tuttavia, che a partire dalle sue
ricerche sulla teoria del linguaggio e del segno nella Logica di Port-Royal, Marin si è lungamente occupato di temi
come quello dell’efficacia dell’immagine (sia verbale che visiva), di teoria del potere, del discorso religioso così
come dei testi letterari che esulano da un campo di ricerca esclusivamente votato all’età moderna come dimostrano
i suoi studi su Disneyland a partire dall’Utopia di Thomas More, o quelli su Pollock, Stella, Klee e Crivelli (Marin
1971, 1982, 1992).
2
www.artribune.com/television/2023/01/video-nicola-samori-i-martedi-critici/, consultato 14 gennaio 2023.
3
Sul tema della scarificazione nelle arti visive, si veda Polacci (2018). Sul tema delle ferite, invece, Mengoni (2012).
275
pratica artistica in cui Samorì sviluppa una meta-riflessione sulle modalità di costruzione dell’opera
effettuata attraverso la materialità intrinseca della pittura muraria e della sofisticata tecnica dello strappo.
Quella di Samorì è infatti una gestualità che gioca costantemente in una dialettica tra figuratività e de-
figurazione e in cui assume piena centralità lo statuto della materialità pittorica come elemento intrinseco
della significazione, di cui si tenterà di rendere conto.
2. La s-smaniera Samorì
Nicola Samorì è un artista contemporaneo che guarda con meticolosa attenzione ai maestri e alle opere
del passato da cui la sua poetica prende avvio. Uno sguardo rivolto prevalentemente al Seicento italiano
e spagnolo e a figure come Guido Reni, Annibale Carracci, il Guercino o José de Ribera. Forme
sedimentate nella memoria collettiva della cultura occidentale che Samorì riproduce con estrema
precisione attivando veri e propri giochi di intertestualità che si discostano dal mero citazionismo. A un
primo momento di ri-produzione delle opere dei grandi maestri, seguono interventi successivi eseguiti
direttamente sul supporto della rappresentazione che producono un costante scontro tra sostanza
formata e informe. Si tratta, come già ricordato, di smembramenti, graffi, dissezioni del supporto
pittorico che sono al tempo stesso sia traccia del fare artistico sia elementi significanti a livello discorsivo.
I primi da interrogare a partire dalla forza manipolatoria dei materiali e degli strumenti utilizzati in
relazione con il supporto della rappresentazione; i secondi, invece, in quanto in grado di abilitare a una
riflessione sullo statuto della materia pittorica come elemento generativo della significazione.
Questo tipo di processualità, riportando l’attenzione sul diagramma di forze che sono al lavoro nelle
opere di Samorì – per dirla à la Deleuze (1983) –, impone una specifica riflessione sulla dimensione
della materia, dei materiali, delle texture e delle tecniche di realizzazione, così come sulla gestualità del
fare artistico, che operano all’interno della singolarità delle sue opere. È qui in discussione quanto
mettono in luce anche da Stefania Caliandro e Angela Mengoni (2022, p. 2; tr. nostra) a partire da una
ripresa del lavoro di Hubert Damisch: “gli elementi (fili, forme, colori), manipolati dall’artista in vista
della creazione, hanno valore in definitiva solo attraverso le relazioni morfologiche e spazio-temporali
che questi oggetti possono generare”. Un potenziale della significazione che esula dalla dimensione
mimetica della rappresentazione prospettica e invita, piuttosto, a una riflessione sullo spessore della
pittura. Nei termini di una logica del sensibile dell’immagine, sottolinea Damisch (1984, p. 290; tr.
nostra), “non mi sembra che ci sia alcuna difficoltà [...] che un piano possa avere un certo spessore”.
Uno spessore che manifesta nel lavoro di Samorì un rapporto indissolubile, ricostruibile àpres-coup, tra
impasto materico della pittura e pelle dei soggetti rappresentati (cfr. Didi-Huberman 1985).
Un legame che non riguarda ovviamente soltanto le opere dell’artista forlivese, ma che è comune a
molte sperimentazioni artistiche contemporanee. Come sostiene anche Willem de Kooning (1950),
infatti, “la carne è la ragione per la quale la pittura a olio è stata inventata”. Tuttavia, vi è una differenza
sostanziale tra la modalità d’uso dell’impasto a olio da parte di Samorì e quello proprio, ad esempio,
dei pittori fiamminghi del XV secolo (tra i primi, in epoca moderna, a utilizzare questa tecnica)4. A
differenza di quest’ultimi, attenti alle qualità materiche della pittura a olio per gli straordinari effetti di
mimetici che essa permetteva di realizzare, Samorì si mostra piuttosto interessato alla condotta del
materiale, a quella che potremmo chiamare una “logica di significazione fondata sui comportamenti di
tale sostanza” (Migliore 2012, p. 213).
4Nelle Vite Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio a Jan van Eyck. Sebbene sappiamo che la genealogia
di questa tecnica pittorica sia molto più antica – ne davano notizia già Marco Vitruvio Pollione, Plinio il Vecchio
e Galeno, così come alla fine del Trecento Cennino Cennini ne parlava nel Libro dell’Arte – è comunque dalla
metà del XV secolo che l’olio conobbe una straordinaria diffusione.
276
Tutto il mio lavoro di pittore e scultore ha a che vedere con la pelle […] con l’organo che separa
l’interno dall’esterno. Un dipinto è sempre, del resto, una pelle che riveste uno scheletro: la tela, il
telaio, il muro, il foglio. Una volta costruito il corpo della pittura per me è quasi automatico pensare
che se ne possa scorticare la pelle per mettere in evidenza le prime pennellate, quelle che si sono
appoggiate direttamente sulla superficie levigata del rame, oppure del legno. Il rovescio della pittura,
come la parte nascosta della pelle, rivela allora qualcosa di fresco e di brutale (Samorì 2021).
La maniera di lavoro di Samorì è quella dello sfregio. È una s-maniera capace di cogliere gli inviti che
la materialità della pittura a olio può offrire alla sua pratica artistica che si presentano come aspetti
interessanti da indagare con più precisione.
3. Prodromie letterarie
In apertura a un’indagine sul rapporto tra materialità e fare artistico, il racconto di Honoré de Balzac,
Le chef d’œuvre inconnu (1837) può consentirci di entrare con un po’ più di chiarezza nel merito di
alcune questioni che sono centrali nel lavoro di Nicola Samorì: da un lato ciò a cui si fa riferimento è il
rapporto che esiste tra rappresentazione mimetica e astrazione; dall’altro a essere chiamato in causa è
invece la relazione tra le modalità di produzione testuale e l’opera-testo5.
In breve, quella di Balzac, è la storia inventata di tre pittori. Di essi, due sono effettivamente esistiti
(Nicolas Poussin e Frans Pourbus il Vecchio), il terzo invece è un personaggio di fantasia (Frenhofer).
Sviluppando temi cari alla letteratura artistica come quello della verosimiglianza e del capolavoro
artistico, le vicende orbitano intorno a una misteriosa opera, La Belle Noiseuse, una tela a cui Frenhofer
sta lavorando da oltre dieci anni nel tentativo di renderla perfetta. Un lavoro estenuante e meticoloso
che il maestro non riusciva a portare a compimento e a cui però trovò soluzione il giovane Poussin: far
posare la donna che amava – la bellissima Gilette – così d’avere in cambio, anche solo per una volta, la
possibilità di vedere il quadro qualora fosse stato realizzato. Sebbene le iniziali ritrosie, Frenhofer
acconsente e così in poco tempo riuscì a terminare il suo capolavoro. Una volta svelata l’opera, però,
essa non destò nei due pittori l’effetto sperato: “Io qui vedo soltanto un confuso ammasso di colori,
delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura” fu l’esclamazione del
giovane Poussin. Solo in seguito, a uno sguardo più attento, i due pittori si resero conto della bellezza
del capolavoro del maestro: “Avvicinandosi scorsero in un angolo della tela la punta di un piede nudo
che fuoriusciva da quel caos di colori, di toni, di sfumature indecise, di tutto, una specie di nebbia
informe: ma era un piede delizioso, un piede vivo! Rimasero pietrificati per l’ammirazione dinanzi a
quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione” (Balzac 1837, p. 123).
Come si può notare da questa rapida ripresa del racconto, a sorreggere l’intera macchina narrativa de Le
chef d’œuvre inconnu risiede una complessa e articolata riflessione sulle forme artistiche che Balzac dipinge
ben prima dell’avvento dell’astrattismo. Nelle parole del romanziere emerge infatti il complesso tema della
distruzione della dimensione figurativa della rappresentazione e che, seguendo la proposta di Omar
Calabrese, mette a fuoco la questione squisitamente semiotica della dimensione astratta del figurativo:
Il vero problema è che la perfetta verosimiglianza ricercata da Frenhofer comporta in realtà una tale
sottigliezza dell’artificio tecnico che solo questo alla fine appare alla superficie, dato che non c’è più spazio
per la rappresentazione come contenuto, ma solo per la rappresentazione come forma pura dell’artificio.
La assoluta verità coincide anzi con l’assoluto dell’artificio. Linee senza più forme da contenere; colori
5Oltre a quelli a cui si fa riferimento, sono stati molti i lavori all’interno del panorama semiotico e di teoria dell’arte
che si sono occupati del racconto di Balzac. Si vedano a tal proposito: Damisch (1984); Marin (1984a); Didi-
Huberman (1985); Lancioni (1993).
277
senza più oggetti da manifestare. Le geometrie e lo spessore del supporto sono talmente trattati che la
profondità dello spazio mimetico non riesce più ad apparire (Calabrese 1987a, p. 18).
In aperto contrasto con le strategie della rappresentazione che hanno come obiettivo quello di
restituire una resa della profondità, effetto mimetico della terza dimensione, quella che appare nel
racconto di Balzac è la descrizione di una sfida aperta alla verosimiglianza. Una profezia, si potrebbe
quasi dire, che troverà il suo effettivo compimento soltanto con le sperimentazioni di artisti moderni
come i dripping di Jackson Pollock, le bruciature di Alberto Burri, i tagli di Lucio Fontana o, appunto,
i giochi alchemico-elementali dello stesso Samorì 6. A fianco a questo tipo di considerazioni, la ripresa
della lezione americana sulla visibilità di Italo Calvino può rivelarsi utile per mettere a fuoco un
interessante rapporto di analogia tra la produzione del capolavoro di Frenhofer (fare enunciativo a
livello dell’enunciato) e quella testuale di Balzac (livello dell’enunciazione enunciata) 7. Calvino ci
ricorda infatti come la forma ultima de Le chef d’œuvre inconnu sia stata l’esito di una serie di
riscritture iniziate nel 1831, anno in cui comparve per la prima volta sulla rivista L’artiste, e giunte a
compimento solo nel 1837. Questo è a tutti gli effetti un “gioco di testualità”, come direbbe anche
Louis Marin (1971, p. 9), le cui tracce si possono già ritrovare nell’utilizzo di differenti sottotitoli che
accompagnarono l’opera e per cui – ad esempio – all’iniziale epiteto “racconto fantastico” (1831) fu
infine preferito il più caustico “studio filosofico” (1837) 8 . La serie di variazioni che si possono
riscontrare tra le varie edizioni del racconto, “strati di parole che s’accumulano sulle pagine come gli
strati di colore sulla tela” (Calvino 1993, p. 86), permettono infatti di riconoscere un interessante
relazione meta-testuale tra la produzione del racconto da parte di Balzac e le imprese di Frenhofer.
Un gioco dialogico tra produzione e prodotto testuale che è fondativo della pratica artistica di Samorì
come si è potuto scorgere anche in apertura con Cammino cannibale in cui la gestualità dell’artista in
relazione con la materialità pittorica dell’affresco ri-presenta il processo di scorticamento a cui fu
sottoposto Marsia.
4. Lo spessore della pittura: luogo del senso
Per capire la portata semiotica e teorica del gesto di Samorì sembra quindi opportuno sviluppare una
riflessione che si muove nel solco della proposta barthesiana di una storia ancora non scritta di
strumenti e materiali dell’arte. Quando la pittura è entrata nella sua crisi storica – dice Barthes (1982,
p. 147) –, così come si è assistito a una moltiplicazione degli strumenti a discapito del solo pennello,
lo stesso è avvenuto anche per i materiali: “c’è stato un viaggio infinito di oggetti traccianti e dei
supporti dietro la pittura. Al di là della sua superba individualità storica (l’arte sublime della
rappresentazione colorata) c’è altro: i movimenti del graffio, della glottide, delle viscere, una
proiezione del corpo, e non solo una padronanza dell’occhio”.
6
Sui “problemi di enunciazione astratta” è recentemente tornata Mengoni (2020). Un testo fondamentale, vista la
postura mariniana che permette di tornare con acume sul problema delle marche enunciative all’opera nella
produzione artistica contemporanea.
7
Come sostiene anche Emile Benveniste a proposito dell’enunciazione scritta: “questa si muove su due piani: lo scrittore
si enuncia scrivendo e, all’interno del suo scrivere, fa sì che degli individui si enuncino” (Benveniste 1970, p. 127).
8
Il cambiamento di nomenclatura è a tutti gli effetti un apparato testuale che si fa ri-presentazione di variazioni
operate dall’autore a livello di una semantica del discorso. Nella processualità delle riscritture de Le chef d’œuvre
inconnu è allora possibile vedere una vera e propria rappresentazione (cfr. Marin 1975; 1989) dell’evoluzione stilistica
della produzione balzachiana dato che questo racconto, come ci ricorda Calvino (1993, p. 84), è “situato in un punto
nodale della storia della letteratura, in un’esperienza ‘di confine’, ora visionario ora realista, ora l’uno e l’altro insieme”.
278
Una questione che chiama parimenti in causa l’inscindibile rapporto tra materiali e gestualità del fare
artistico. Perché, potrebbe essere legittimo chiedersi, guardare in maniera così insistente a questo tipo
di rapporto? Una delle possibili chiavi di lettura a questa domanda, nel momento in cui si vuole
riflettere sui meccanismi di produzione della significazione nell’arte 9 , è stata avanzata sempre da
Hubert Damisch:
Se vale la pena soffermarsi sulla questione dell’artista è in primo luogo in quanto essa può e deve
portare a sviluppare, nel quadro di una teoria generale dell’enunciazione, una problematica coerente
del soggetto non come ‘origine’ ma come operatore del messaggio: come agente tra gli altri, in un
dato contesto, della funzione artistica stessa (Damisch 1981, p. 964; tr. nostra).
Visto che, come ricorda anche Paolo Fabbri (1986, p. 16), la semiotica è una disciplina che “rinfresca
la sua forza con l’uso”, vorrei concentrarmi adesso su alcune opere di Nicola Samorì che
permetteranno di sviluppare alcune di queste premesse. I casi su cui mi soffermerò sono tra loro
accumunati da una vicinanza tematica che è quella della rappresentazione dei martiri10. Questo è uno
dei grandi filoni della sperimentazione artistica di Samorì in cui figurazione, de-figurazione, materia
formata e informe sono indissolubilmente connessi fra loro. Si vedrà che a differenza di quella
tradizione barocca che presuppone una rappresentazione trionfante del santo nel momento del
martirio, le opere di Samorì sono decadenti, funeree e antimonumentali. In aperto contrasto con una
retorica della meraviglia che doveva investire lo spettatore, quelle dell’artista forlivese sono piuttosto
immagini abominevoli, orrorifiche. Sono opere che non hanno niente a che vedere con la stoicità
cristiana. Sono immagini molli, in declino costante.
4.1. Chi ha peccato, scagli la prima pietra
Pietra Penitente è un olio su tavola (100 x 100 cm) in cui vediamo ripresa la figura di San Girolamo
realizzata da José de Ribera tra il 1638 e il 1640 (Fig. 2), oggi conservata al Museum of Art di
Cleveland. A partire dalla riscrittura di quest’opera, il lavoro di Samorì si configura come caso
paradigmatico in cui l’agire pittorico dell’artista si costituisce come meta-discorso sulla pittura. Nel
rapporto di tensioni tra gestualità dell’artista e materia, infatti, il piano trasparente della
rappresentazione viene messo in discussione a partire dalla relazione che si può rintracciare tra pittura
e materialità dell’opera come insieme significante. Le operazioni che ne permettono la realizzazione
sono l’esito di una successione di momenti ben precisi e distinti, ognuno dei quali intrattiene con la
materialità della tecnica a olio un rapporto diverso. A essere in gioco nel lavoro di Samorì è l’arte
dell’alchimia, per come la intende anche John Elkins (1999), ovvero come specifica competenza di
chi la esercita 11.
9
La questione ovviamente è ampia, e riguarda l’annoso problema della supposta distinzione tra testo e pratica. Si
veda, a tal proposito, la risoluzione del dissidio proposta da Marrone (2010, pp. 3-80) e Lancioni e Marsciani
(2007). Posizioni in cui chi scrive si riconosce.
10 Su questo si veda Leone (2016), Ponzio (2018).
11
Sostiene a tal proposito Elkins (1999, p. 27): “L’alchimia è l’arte che sa come ottenere una sostanza che nessuna
formula può descrivere”.
279
Fig. 2 – José de Ribeira, San Girolamo (1638-1640). Fig. 3 – Nicola Samorì, Pietra penitente (2016)
(© Nicola Samorì).
Nel caso di Pietra penitente (Fig. 3), si assiste a un incontro-scontro tra la maestria del saper-fare
dell’artista e le proprietà materiche dalla pittura a olio, vero e proprio attore non-umano. La materialità
pittorica, nella viscosità dell’olio, detiene in sé tutta una serie di proprietà intrinseche che invitano,
suggeriscono, quelle che sono le azioni stesse per manipolarla12. Sono i lunghi tempi richiesti all’impasto
oleoso per essiccare che permettono pertanto la realizzazione dell’opera in una serie di concatenamenti
sintagmatici di avvenimenti sensomotori in cui emerge l’importanza della dimensione alchemico-
elementale della pittura.
Tutto prende avvio dalla sovrapposizione su una tavola di un grande strato materico di pittura (oltre 5
cm). Un momento di occultamento per stratificazione del supporto della rappresentazione che rievoca
la fase di preparazione della tela che è l’imprimitura. Atteso il tempo necessario affinché il solo strato
più superficiale sia asciutto (pochi mm), l’artista realizza su di esso una copia dell’opera di Ribera con
una lievità del gesto simile a quella di un tatuatore sulla pelle umana13 . Un’operazione che è resa
possibile dal cambiamento delle condizioni di esistenza elementali che mutano nel passaggio della
materia da uno stato discreto a uno compatto. Seguendo la proposta di Françoise Bastide (1987), è
questa operazione di chiusura della materia che dona alla pittura a olio più superficiale la resistenza
necessaria a rendere possibile il suo uso da parte dell’artista come supporto per la rappresentazione.
Tuttavia, questo processo di “compattizzazione” è solo parziale e celato dalla strutturazione più superficiale:
al di sotto di essa la corposità della pittura a olio è infatti ancora molle e amorfa. Un gioco di consistenze,
una co-esistenza di gradi di compattezza differenti, che permette la realizzazione del secondo atto del fare
artistico di Samorì. Presa una pietra, con un gesto che rievoca la violenza del martire, fende la superficie
essiccata e grazie alla mollezza sottostante de-figura l’immagine di San Girolamo.
Quella dell’artista forlivese, come si può vedere, è a tutti gli effetti una pièce in due atti in cui la pratica
artistica introduce due atteggiamenti tra loro in aperto contrasto in rapporto all’idea di opera-quadro. Il
primo riguarda l’effetto mimetico della profondità che Samorì realizza attraverso la ricostruzione di una
12
Sulla manipolazione delle materie si veda in ambito prettamente artistico Magli (2003); in ambito culinario
Pozzato (2020); Marrone (2022).
13 Si noti come di tutto l’insieme degli oggetti propri dell’iconografia del santo, l’unico a essere preservato è la
pietra. Sono scomparsi dal livello figurativo dell’immagine di Samorì il testo sacro e la croce. Un processo di
spoliazione che laicizza la pittura e la prepara per un discorso di altro tipo.
280
profondità al di là del quadro proprio del momento di ri-produzione dell’immagine del santo14 , il
secondo invece pertiene allo statuto della pittura a olio come soggetto della rappresentazione che emerge
nel momento in cui Samorì smembra lo spesso strato di impasto pittorico ancora molle.
Come evidenzia anche Barthes a proposito delle opere di Cy Twombly, “il potere demiurgico del pittore
consiste nel fatto che egli fa esistere il materiale come materia; anche se dalla tela scaturisce del senso, [la
pittura a olio] rimane cosa, sostanza ostinata, il cui ‘esserci’ non può essere impedito da nulla (da nessun
senso a posteriori)” (Barthes 1982, p. 178). C’è però una sostanziale differenza tra il Twombly barthesiano e
il nostro pittore forlivese. Il primo aggiunge strati di matita e colore; Samorì invece, in un procedimento che
rievoca più i grattage surrealisti, interviene per asportazione della superficie pittorica che così assume corpo,
volume e senso. Materialità e significazione sono infatti nel lavoro di Samorì due elementi inscindibili.
Guardando al valore che un tale avviluppamento materico assume all’interno del sistema testuale in cui
è iscritto, si può rintracciare il rapporto specifico che la materia informe intrattiene con il senso
complessivo dell’opera. È grazie alla relazione con gli altri elementi del quadro che la materia scarificata
da Samorì può attualizzarsi in un’analogia tra pittura asportata e pelle decorticata. Un gioco significante
come nel caso della rappresentazione di Girolamo, santo penitente che si percuote il petto con la pietra,
il cui volto e corpo sono stati flagellati dalla mano dell’artista15.
4.2. Fendere la pelle, mostrare la violenza
Questo gioco dialettico tra potenzialità della materia e produttività del senso è all’opera anche nel dittico
Indovina – Abbagliata che Samorì realizza nel 2017. La prima di queste immagini, Indovina (Fig. 4), è
realizzata in maniera analoga a quanto si è messo in luce con Pietra penitente. Differisce da essa solo
per il tipo di gestualità con cui viene realizzato lo sfregio. Invece di ricorrere a una pietra, Samorì
smembra il volto di Santa Lucia conficcando all’interno dell’impasto materico ancora duttile le sue dita.
Nuovamente, si assiste a un dialogo significante tra gestualità del fare artistico e storia della passione del
santo. Come si sa, la tradizione popolare ha da sempre invocato Lucia (da lux, luce), martire accecata,
come la santa protettrice degli occhi e della vista.
Di questa prima opera Samorì realizza in seguito un calco e con il marmo crea un’opera che è il
negativo della prima, Allucinata (Fig. 5). Ne risulta in questo caso una superficie perfettamente liscia
da cui in aggetto sporgono solo due protuberanze amorfe che sono il corrispettivo dell’incavo prodotto
nella pittura a olio. Un processo traduttivo tra due sostanze espressive differenti in cui l’artista gioca
con quelle che sono le condizioni di malleabilità dei materiali 16 : da un lato la duttilità dell’olio,
dall’altro la durezza del marmo.
14
Calabrese (1987b), a proposito dello spazio prospettico come la “finestra sul mondo” proprio della teoria
albertiana parla di “una spazialità illusoria della scena figurativa”. Samorì opera per ricostruire una profondità al
di là del quadro. Sull’approccio alla figuratività si vede anche Bertrand (2000, pp. 97-103).
15 Come si può vedere nel caso di Pietra penitente, le operazioni di riscrittura di Samorì implicano una chirurgica
procedura di neutralizzazione del valore sacro delle immagini. Non ci si addentrerà in questa sede su una puntuale
analisi del tipo di valori che questa procedura mette in gioco. Si rimanda però a Vannoni (2022) in cui la questione
è stata affrontata con maggiore puntualità. Sulla questione della neutralità e dei processi di ri- e de-semantizzazione
si veda invece Giannitrapani (2022).
16 Sul gioco di traduzione nell’arte contemporanea si rimanda al lavoro di Lucia Corrain (2016), in cui l’autrice si
concentra sull’opera di Pascal Convert Pietà Kosovo (2002), una scultura in cera realizzata a partire da un processo
di traduzione della fotografia Veillée funèbre au Kosovo di Georges Merillon (1990).
281
Fig. 4 – Nicola Samorì, Indovina (2017) Fig. 3 – Nicola Samorì, Abbagliata (2017)
(© Nicola Samorì). (© Nicola Samorì).
Nel momento in cui queste due immagini sono chiamate a guardarsi reciprocamente, come nel caso
della loro esposizione al MART di Rovereto nel 2020, è possibile riconoscere un peculiare effetto
chiasmatico che si fa mostrazione17 attraverso i suoi prodotti, di una meta-riflessione sulla pratica artistica
di Samorì. Un lavorio di tecniche e di materiali che si intrecciano costantemente tra loro e che lascia
emergere un cortocircuito tra le condizioni di esistenza di quanto è tradizionalmente considerato pittura
e quello che invece è scultura. La pittura, discostandosi da un processo di accumulo di lievi strati di
materia, si avvicina all’azione propria del fare scultoreo come quello michelangiolesco, ovvero un’arte
del levare, un processo sottrattivo grazie al quale la figura imprigionata nella materia è finalmente
liberata. All’opposto, per quanto riguarda la scultura, vediamo una quasi completa cancellazione dello
spessore volumetrico, che richiama piuttosto la bidimensionalità della pittura.
5. In forma di conclusione
Gli avviluppamenti della materia al lavoro nelle opere di Samorì sono dell’ordine del figurale, mettono
in gioco una virtualità di senso possibile e attivano con la loro potenza l’efficacia stessa delle
immagini18. Sono delle discontinuità, delle rotture, che nel sabotare il corpo dell’immagine sono al
tempo stesso “traccia violenta di un limite, marchiatura a fuoco, se così si può dire, di un margine che
rompe una forma manifesta o una figura esibita” (Marin 1992, p. 222). Attraverso la forza elementale
17
È Paolo Fabbri (2020) che suggerisce di leggere l’enunciazione come gesto dell’indicare, del mostrare:
“Dovremmo allora promuovere e difendere l’idea di un campo deittico in grado di allargare la pronominalità
linguistica, chiusa in termini visivi, a una problematica più complessa […]. Avevo proposto “deissi”, ma non è stato
accolto favorevolmente. Mostrare?” (pp. 132-4).
18
Sull’efficacia, si veda Marin (2019).
282
della materia pittorica creano dei colmi, delle interruzioni, nella sintassi visiva della rappresentazione.
Con l’idea di “colmo”, si fa riferimento a quello che è il duplice statuto del termine: da un lato come
“accidente” della rappresentazione; dall’altro come cumulus , eccedenza, sporgenza, sovrappiù di
materia. Come ricorda Marin (1984b p. 65) in un saggio dedicato all’opera Ad Marginem di Paul
Klee, “chiamo colmo della rappresentazione tutto ciò che si giocherà sui limiti del suo dispositivo,
della sua costruzione in un luogo o in un momento che non è ancora il suo esterno, il suo ‘altro’, ma
che non è più del tutto il suo interno, il suo stesso”. Analogamente, l’aggetto materico nel lavoro di
Samorì si configura per la sua carica utopica, al tempo stesso di negazione del piano mimetico della
rappresentazione e di autoaffermazione come elemento significante. Se, come abbiamo visto, la
gestualità del fare artistico di Samorì si muove secondo l’analogia del martirio dei santi articolando
specifici effetti di senso, allo stesso tempo la dimensione amorfa della materia ci parla anche di altro.
Ci guida verso qualcosa di diverso rispetto alla dimensione transitiva della rappresentazione. Ci parla
della riflessività della rappresentazione, della sua opacità, per utilizzare un termine caro a Louis Marin.
Un “effetto di soggetto” reso possibile dalle condizioni materiali di realizzazione del quadro, da un a
priori materiale della rappresentazione che è sempre, inevitabilmente chiamato in gioco:
Opacità [opacités, al plurale]: la presenza di una materia, di una carne, di un corpo della pittura nel
puro movimento della significanza dell’immagine del visibile che è il quadro di pittura, lo scheletro
del suo telaio, la pelle della sua tela, ruvida o liscia, con le sue dimensioni e il suo formato, i pigmenti
colorati, gli impasti, gli stucchi e le vernici; le tracce lasciate dalla pennellata del gesto del pittore; gli
accenti, le spaziature, le composizioni, le dissimulazioni e gli oscuramenti, le esplosioni, i vortici, i
flussi e i riflussi, le unzioni, le mellosità, le soavità, le liquidità, le viscosità, i grumi, le gocciolature e
le colature, i graffi, le incisioni, gli schizzi: opacità [di nuovo al plurale] (Marin 1997, p. 67; tr. nostra).
Attraverso questo percorso tra le opere di Samorì, si è tentato di sviluppare una riflessione sulle
capacità e le potenzialità della materia all’interno della pratica artistica contemporanea. Riflessioni
che ci si augura possano risultare utili anche a chi – di lato alle riflessioni interne al dominio dell’arte
– si potrebbe interessare al “potere fattivo” dei materiali, come ricorda anche Patrizia Magli (2003), ai
modi e alle modalità di manipolazione propri della materia che nel momento in cui viene in-formata
diventa sostanza significante.
283
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Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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285
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] | Livelli di materialità del gusto e dell’intelligenza artificiale
Karina Astrid Abdala Moreira
Abstract. This article presents the main issues to be taken into account when analyzing the taste experience and
its relationship with artificial intelligence. For this purpose, I base on a qualitative methodology. Firstly, I
understand that to analyze this phenomenon there are different levels of taste and for each “level” there is a
“translation” in terms of Lotman (1993). To distinguish the levels, I base on Hjelmslev’s linguistic analysis,
understanding what happens at the level of expression and the level of content when we pass from the form to the
substance and the matter of the taste experience. As far as artificial intelligence is concerned, I focus on the
philosophical issues in this area. To conclude I present how the media discourse of this new mode of taste
experience is presented by using the classic storytelling that appears in the gastronomy field.
1. Introduzione
Per analizzare i diversi livelli di materialità del gusto, ci concentreremo innanzitutto sulla definizione di
gusto. Ci sono molti teorici del gusto e del disgusto come Boutaud (2005), Bianciardi (2011), Marrone
(2014, 2016, 2022), Mazzocut-mis (2015), Stano (2017, 2015). Tra le ricerche che stabiliscono i principali
problemi teorici legati al gusto, vale la pena citare il lavoro di Bianciardi (2011, p. 29). L’autore sostiene
che il senso del gusto è sinestetico, quindi nell’analizzarlo è necessario tenere conto di tutti gli altri sensi
nel loro insieme. È per questo motivo che, quando si analizza l’esperienza gustativa, si considerano
anche le dimensioni visive, uditive, olfattive e tattili, che si producono contemporaneamente nel soggetto
degustatore. In quanto alla pluralità sensoriale, secondo Bianciardi (2011) il gusto implica una
degustazione di diversi sapori e che l’individuo possa identificare ognuno di questi sapori; “la matrice
di partenza di ogni forma di «gusto» risiede nella degustazione dei sapori alimentari: nel suo significato
originario, il gusto si presenta innanzitutto come la capacità di discernere i sapori specifici degli alimenti,
la qual cosa implica la preferenza per alcuni di essi” (Bianciardi 2011, p. 31).
Inoltre, ogni esperienza sensibile si configura con il riconoscimento della differenza, pertanto, è grazie
all’esperienza che il soggetto è in grado di classificare i gusti.
Chiaramente, questa classificazione è fortemente segnata dall’aspetto sociale e culturale. La prospettiva
sull’esperienza di Peirce (CP 1.335) 1 è utile in questo senso, poiché è attraverso questa teoria che
possiamo capire come funziona l’esperienza: la userò per spiegare il riconoscimento del gusto. Il soggetto
passa dalla Firstness (CP 1.302), – dove solo nella sua percezione compaiono le sensazioni di quel gusto,
il che implica una gamma di possibilità, dove il soggetto non può conoscere nulla prima dell’assaggio,
tutto è immerso nelle possibilità – alla Secondness che è fortemente legata alle caratteristiche dell’oggetto
assaggiato (temperatura e consistenza, ad esempio) e Thirdness, in cui diviene possibile definire gusti e
sapori. Secondo Peirce, la Firstness implica che “la libertà può manifestarsi solo in modo illimitato e
incontrollato varietà e molteplicità; e così il primo diventa predominante nelle idee di varietà e
1Le citazioni dell’opera di C. S. Peirce sono fatte nel modo consueto: CP [x.xxx] si riferisce al volume e al
paragrafo dell’edizione The Collected Papers of Charles S. Peirce.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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molteplicità smisurate. È l’idea guida della ‘varietà di sensi’” (CP1.302). Il numero di possibilità
all’interno della Firstness dipende chiaramente dalla società dell’individuo, perché questa determina
quali ingredienti è possibile assaggiare. Poi la persona giunge al riconoscimento dell’elemento che
assaggia, e a questo punto del processo siamo di fronte alla Thirdness (CP 1.26), ovvero all’Interpretante,
che permette una semiosi del riconoscimento del gusto.
Questi stadi dell’esperienza coinvolgono diversi livelli di percezione che appaiono istantaneamente
e congiuntamente.
Pertanto, in questo articolo il mio obiettivo è mostrare i diversi passaggi e traduzioni in grado di attivare
diversi sensi che esistono quando questi fenomeni vengono analizzati. Mentre approfondiamo gli studi
di entrambi i campi (intelligenza artificiale e gusto), comprendiamo che in essi compaiono diversi livelli
e il comune denominatore è la percezione e l’esperienza.
In sintesi, è importante analizzare il gusto come sinestetico, poiché tutti i sensi sono attivati nella degustazione.
2. Concettualizzazione e problemi principali dell’Intelligenza Artificiale
Il problema principale che si pone quando si analizza l’intelligenza artificiale è il nome che usiamo per
definirla, che orienta l’interpretazione delle sue funzioni. Secondo Ienca (2019) e Cristianini (2023),
esistono diversi tipi di intelligenza e non devono essere paragonati all’intelligenza degli esseri umani. “È
fuorviante attribuire qualità umane a tutti gli agenti intelligenti, e quando riflettiamo sulle intelligenze
che incontriamo nei nostri browser è più utile compararle alle erbe o alle lumache del giardino che a
noi stessi” (Cristianini 2023, p. 9).
Anche Ienca (2019) sottolinea che la questione dell’intelligenza può essere riscontrata in diversi animali
e non implica che funzioni allo stesso modo degli esseri umani. Ma sottolinea come l’intelligenza umana
sia ugualmente stata nella storia un modello per sviluppare forme di intelligenza artificiale. Fumo (2017)
ha spiegato che la rete neurale artificiale funziona come un modello computazionale basato sul modo
in cui le reti neurali biologiche del cervello umano elaborano le informazioni. L’unità di base della
computazione in una rete neurale è il neurone, chiamato nodo o unità. Riceve input da altri nodi e
calcola un output. “Ogni ingresso ha un peso associato, che viene assegnato in base alla sua importanza
relativa rispetto agli altri ingressi. Il nodo applica una funzione alla somma ponderata dei suoi input”
(Fumo 2017, p. 1). A sua volta, questo sistema neurale ha delle regole, una delle più importanti delle
quali è l’apprendimento, ovvero un algoritmo che modifica i parametri della rete neurale in modo che
un dato input alla rete produca un output favorito.
Pertanto, ci troviamo costantemente di fronte a un’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale. Non
solo perché essa simula il funzionamento del cervello umano, ma perché a differenza del resto degli
animali o degli esseri intelligenti che possiamo trovare, l’intelligenza artificiale è stata possibile grazie
alla mano dell’essere umano (Cristianini 2023).
D’altra parte, Fry (2018) dopo aver analizzato diversi casi in cui le decisioni sono prese principalmente
dagli algoritmi che sono alla base dell’intelligenza artificiale, ha mostrato il problema dell’autonomia.
Fry spiega che l’algoritmo si limita a seguire le istruzioni “logiche che mostrano, dall’inizio alla fine,
come eseguire un compito. Con questa definizione ampia, una ricetta per una torta è un algoritmo” (Fry
2018, p. 11). Gli algoritmi possono ricevere istruzioni, ma anche fornirne, sulla base dei modelli “che
apprende dai dati, una foresta casuale è descritta come un algoritmo di apprendimento automatico, che
rientra nel più ampio ombrello dell’intelligenza artificiale” (Fry 2018, p. 48).
L’algoritmo di machine learning pone il problema dell’autorità che l’essere umano dà all’algoritmo:
tuttavia, conclude Fry, “forse riconoscendo che gli algoritmi non sono perfetti, non più degli esseri
umani, potrebbe avere solo l’effetto di sminuire qualsiasi assunzione sulla loro autorità” (Fry 2018, p.
153). Come soluzione al problema dell’autorità, si propone che non solo venga fornito un output come
287
soluzione a un determinato problema, ma che l’algoritmo fornisca una serie di opzioni, in modo che
l’essere umano possa scegliere tra loro, e togliere la piena autorità alla macchina. Poiché, secondo
l’autrice (Fry 2018, p. 154), è proprio qui che sorgono i problemi, quando ci si fida totalmente del
risultato che appare, senza interrogare, senza considerare che i dati che sono stati dati alla macchina
sono prodotti dell’ambiguità umana.
Tutte queste spiegazioni sul funzionamento dell’intelligenza artificiale sono fondamentali per capire
come questa possa creare suggerimenti per articolare la materialità e creare nuovi gusti, possibili grazie
all’esistenza di un database. Ovvero, l’archivio di una enciclopedia di forme semiotiche che l’intelligenza
artificiale è in grado di riconoscere e produrre (Eco 2007, p. 14).
Nel caso dell’intelligenza artificiale nel gusto, l’opzione della macchina è quella che suggerisce un mix
di ingredienti per produrre una nuova materialità di un nuovo gusto. Ma in che senso la scelta di
ingredienti può essere definita come intelligente?
Definiremo l’intelligenza in termini di comportamento di un agente, ovvero di qualsiasi sistema in
grado di agire nel suo ambiente, usando informazioni sensoriali per prendere decisioni. Ci
interesseremo in particolare agli agenti autonomi, ovvero agenti che prendono decisioni
internamente senza essere controllati, e agli ambienti che possono essere almeno in parte influenzati
dalle azioni dell’agente (Cristianini 2023, p. 13).
In questa affermazione appare un elemento fondamentale, ovvero la percezione sensoriale. Gli studi
di Parisi (2019), attraverso un’analisi del rapporto dell’essere umano con la tecnologia, permettono di
delineare il processo di autopoiesi (Maturana, Varela 1980) che esiste con gli esseri umani. Si instaura
quindi un rapporto con la tecnologia che dipende dal nostro corpo. Secondo Parisi (2019) il nostro
corpo limita le nostre azioni, è la base delle nostre sensazioni e soprattutto della nostra percezione. È
qui che si collega a quanto accennato da Cristianini (2023), dove la percezione è la base della
decisione. Ma fino a che punto l’intelligenza artificiale può percepire sensorialmente gli elementi che
appaiono nel suo ambiente?
Uno dei primi casi di studio sulla tecnologia è la simulazione del naso elettronico, che permette la
digitalizzazione dei componenti chimici di ogni ingrediente (Alphus 2009). Questa fase è stata quella
che ha permesso la costruzione di un database, che successivamente, con l’intelligenza artificiale, ha
potuto suggerire una miscela di ingredienti e materializzare nuovi gusti. Parisi (2019, p. 72) sostiene che,
poiché le nostre sensazioni dipendono dal nostro corpo, la tecnologia e l’intelligenza artificiale devono
sviluppare elementi simili, al fine di incrementare nuovi gusti. Questo è uno dei problemi centrali che
troviamo quando si parla di percezione sensoriale, e della prima “traduzione”, nei termini di Lotman
(1993), tra il corpo dell’essere umano e la simulazione del corpo della macchina.
Pensando alla questione dell’esperienza gustativa applicata nel campo dell’intelligenza artificiale, è
proprio Cristianini (2023, pp. 73-74) che fa un confronto tra alcune ricette di cucina per capire il
funzionamento di un algoritmo. Egli sottolinea che ogni cambiamento nella ricetta di cucina può alterare
il risultato. Ma non prende in considerazione i problemi del gusto e della percezione, limitandosi a
descriverli come “ordini dettati”. L’aspetto interessante di questo discorso è che nella ricetta, come
nell’algoritmo, la nozione di esperienza si basa sulle conoscenze maturate in seguito a errori commessi.
Un cuoco esperto probabilmente ha provato molte variazioni prima di trovare i valori ideali, ma
probabilmente continua lo stesso a sperimentare ogni volta che lavora in una nuova cucina o usa
un tipo diverso di farina. In linguaggio matematico queste quantità modificabili della ricetta si
chiamano parametri [...] Questo è uno dei modi più tipici in cui le macchine imparano, ovvero
cambiano il proprio comportamento sulla base dell’esperienza, e può essere applicata ai parametri
numerici che controllano le previsioni (e quindi i comportamenti) di agenti che raccomandano
(Cristianini 2023, p. 74).
288
Pensare alla cucina come a un meccanismo di prova ed errore può essere la base per collegare i due
ambiti, ma è chiaro che se si parte da questa base si tralasciano i livelli di esperienza gustativa, che sono
fondamentali per la creazione della materialità dei nuovi sapori.
Un altro problema che dobbiamo affrontare quando analizziamo questi temi è quello della traduzione
di un mondo percettivo sensoriale, continuo, come quello del gusto, in un mondo “più matematico”
come quello dell’intelligenza artificiale, discontinuo. Questo passaggio non significa che si debba cadere
nella banalità di distinguere i due mondi come opposti naturali e/o artificiali. Perché sappiamo che la
costruzione di un gusto ideale è un elemento chiaramente sociale, culturale, tutt’altro che naturale.
Uno dei problemi che Cristianini (2023) sottolinea è la fiducia che viene data a questi dispositivi: negli
studi che troviamo sull’intelligenza artificiale, compaiono autonomia e fiducia. Elementi che possono
essere migliorati prendendo in considerazione il modo in cui viene creato il database e come viene
pensata la traduzione degli elementi, non trascurando le questioni culturali. Soprattutto, non pensando
da una prospettiva antropocentrica.
Quando mi riferisco alla questione della traduzione, è necessario prendere in considerazione anche la
nozione di immaginario sociale, perché, come già accennato nell’articolo, esso governa sia il gusto che
l’intelligenza artificiale. Nel concetto di immaginario sociale, basato su Castoriadis (1975), troviamo gli
aspetti simbolici e la rappresentazione di un ideale. A questa funzione dell’immaginario sociale sono
associate le istituzioni che lo promuovono (Castoriadis 1975).
Nel caso dell’intelligenza artificiale e del gusto possiamo trovare dispositivi diversi, da quelle del settore
ICT a gastro-alimentare. Entrambi generano un immaginario sociale in ogni area. Per quanto riguarda
il dispositivo dell’intelligenza artificiale, sempre inquadrato in ambito gastronomico, siamo all’interno
dell’immaginario sociale che cerca la perfezione. Ad esempio, quando si dice che l’intelligenza artificiale
può selezionare gli ingredienti in base al miglioramento dell’ambiente. Per quanto riguarda la
gastronomia, esistono i discorsi che fanno gli chef sul gusto nell’area confermano la pervasività di questa
ideologia culturale. Diversi chef menzionano l’importanza dello storytelling che ha luogo prima che
l’individuo assaggi il cibo. Gli chef sanno che questa storia predispone gli aspetti sensoriali al momento
dell’assaggio2. Uso il termine storytelling e non narrazione, perché il modo di spiegare come è stato fatto
un piatto richiede tecniche artistiche profonde che gli chef conoscono per creare una certa atmosfera
quando si assaggiano i loro piatti. Lo storytelling è accompagnato anche dalla decorazione e da tutti gli
elementi che si trovano nel ristorante, che aiutano la credibilità dello stesso. Tutti questi elementi
favoriscono un immaginario sociale che guida la costruzione del piatto e alla qualificazione sensoriale
dell’esperienza gustativa.
La realizzazione di piatti mediante l’uso dell’intelligenza artificiale è oggi uno storytelling centrale nella
cultura gastronomica. Questo storytelling richiede anche l’istituzione dei media, dove si comunica questa
nuova forma di creazione gastronomica enfatizzando certi aspetti.
In questi casi si pone il problema del passaggio dall’immaginario alla materialità del gusto – nei termini di
Peirce, dal simbolico (CP 1.558) all’oggetto dinamico. Ma l’immaginario sociale creerà sempre un Interpretante
(CP 2.228) che sarà irraggiungibile, stabilendo una tendenza che si avvicini all’immaginario sociale.
Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale e il gusto, Davidsson (2021) sottolinea che l’intelligenza
artificiale inizi con le reti algoritmiche, ma quando parla di ricette, sostiene che gli esseri umani si basano
sull’esperienza dei sapori per realizzarle:
L’odore e l’aspetto dei diversi ingredienti. Tutte queste informazioni non sono disponibili per
l’algoritmo, che può solo vedere come i diversi ingredienti vengono utilizzati insieme. Per inciso,
questo è un problema comune nell’apprendimento automatico, in cui il modello eredita i pregiudizi
2
Proprio su questi temi sto concentrando il mio lavoro di tesi dottorale in svolgimento presso l’Università degli
Studi di Torino e l’Université de Lille.
289
dai dati. In questo modo si escludono alcune combinazioni di ingredienti che sono rare a causa delle
caratteristiche geografiche (Davidsson 2021, p. 1).
In questa citazione emerge l’elemento culturale centrale, dove a seconda del Paese, l’individuo trova il
suggerimento di ogni ingrediente da mescolare. Ci si chiede fino a che punto si possa creare qualcosa
di nuovo. Diversi chef affermano che l’intelligenza artificiale è un modo per sbloccare la creatività e
creare insieme oggetti e ricette.
Davidsson (2021) cita alcuni elementi che un buon pasto dovrebbe avere, come l’equilibrio, la
variazione, la novità e la familiarità. Secondo l’autore, l’equilibrio degli elementi di gusto, la variazione
e la novità, sono facili da comprendere dall’intelligenza artificiale, mentre tutto ciò che riguarda la
familiarità è legato alla memoria gustativa del soggetto. Per quanto riguarda le spezie, sostiene che il
loro abbinamento è dovuto solo ad un aspetto culturale. Le spezie sono legate all’odore e potrebbero
avere “una stretta connessione tra la parte del cervello che elabora gli odori e l’ipotesi che elabora i
ricordi. Ciò significherebbe che le spezie potrebbero essere utilizzate per evocare determinati ricordi”
(Davidsson 2021, p. 2).
Ancora una volta ci troviamo tra la traduzione tra l’essere umano e la macchina, perché ci sono
componenti difficili da replicare dall’intelligenza artificiale, come la memoria del gusto, a cui fa
riferimento Boutaud (2005) e l’altro elemento importante da replicare è la percezione.
Per ricapitolare, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, c’è antropomorfismo, ed il database è frutto
di una costante traduzione tra il corpo umano e la macchina. La traduzione appare nelle percezioni
sensoriali tra gusto e matematica. Ma la percezione neanche è naturale perché entra in gioco la
concezione dell’immaginario sociale, dove troviamo sia il gusto come ideale che come lo storytelling.
3. Livelli del gusto e dell’intelligenza artificiale
Per comprendere i diversi livelli della materialità del gusto, e come ciascun livello venga tradotto nella
sua ri-creazione con l’intelligenza artificiale, possiamo ricorrere alla linguistica di Hjelmslev (1943, p. 52).
Con questa teoria possiamo distinguere in linea di principio due livelli fondamentali, quello del
contenuto e quello dell’espressione. Il piano del contenuto ha un significato arbitrario se viene pensato
in relazione al piano dell’espressione. Sul piano del contenuto si trovano forma, materia e sostanza, così
come sul piano dell’espressione.
Se applichiamo questo modello all’esperienza gustativa dell’intelligenza artificiale, possiamo riconoscere
diverse tipologie di segni: gli output (ricette su schermo, algoritmi, 3D food etc.), che sono anche piani
dell’espressione della stimolazione sensoriale che è l’esperienza gustativa, così come il database, cioè il
paradigma di possibili combinazioni fra ingredienti.
Ad ognuno di questi segni corrisponderà un piano dell’espressione e del contenuto, entrambi suddivisi
in forma, sostanza e materia.
Possiamo affermare che, sul piano dell’espressione, la forma è costituita dall’insieme degli output (ricette,
3D food etc.), a partire da un paradigma, che è il database, di possibili combinazioni; la sostanza sarà
da individuare nell’insieme di tecnologie, ingredienti e piatti che definiscono l’intelligenza artificiale
attuale e che si realizzano nei diversi segni e nelle diverse culture. Il database concerne invece il modo
in cui le combinazioni fra gli ingredienti sono predisposte dall’intelligenza artificiale, cioè contengano
(embedded) stereotipi culturali; la materia, infine, concerne sia il segno realizzato, sia la materialità
plurilinguistica della macchina, così come il livello biologico di stimolazione sensoriale, gustativa, tattile
e olfattiva, o il livello visivo del piatto, e uditivo che accompagna l’esperienza gustativa, e la materialità
del contesto in generale (il luogo in cui si svolge la degustazione).
Corrispondono anche al livello di espressione i segni che compongono lo storytelling, che viene
realizzato nel momento che precede ogni degustazione nello restaurante. Lo storytelling può essere
290
presentato sotto forma di immagini o di parole, insieme a tutti gli elementi che fanno parte del contesto
in cui si svolge la degustazione.
A livello del contenuto, saranno da situare tutte le operazioni interpretative e deduttive attuali (da tutti
gli attori umani e non umani) – come fra amaro/dolce/aspro/salato/umami – che intervengono
nell’esperienza gustativa, fino al riconoscimento culturale di gusto e testura, l’orchestrazione sensoriale
e sinestesica, la memoria, il giudizio di gusto (Bourdieu 1979).
Un’altra funzione segnica è la memoria gustativa, che ha il compito di collegare gli elementi che portano
al riconoscimento del piatto. Nella degustazione, l’espressione sarà individuata da un segno tattile perché
attraverso la consistenza (ad esempio la croccantezza del piatto, la morbidezza, la temperatura etc.), il
soggetto può riconoscere il piatto, in base alla sua esperienza gustativa. Infine, tutta questa analisi di
Hjelmslev (1943) mi permette di comprendere i diversi passaggi e traduzioni che avvengono
internamente ed esternamente, nei dispositivi analizzati.
4. Casi d’esperienza gustativa mediati dall’intelligenza artificiale
Uno dei primi esempi che in cui possiamo trovare il collegamento tra intelligenza artificiale e gusto, si
trova nella birra. Secondo Dunshea, Fuentes, Gonzalez e Torrico, (2019) l’uso di algoritmi di
apprendimento automatico in alimenti e bevande “è diventato più popolare negli ultimi anni, poiché
aiutano ad aumentare l’accuratezza, ridurre tempi e costi nei metodi analitici e sensoriali per valutare la
qualità e accettabilità delle bevande” (Dunshea et al. 2019, p. 2). Nel caso della birra è stato verificato
che esistono modelli di intelligenza artificiale in grado di prevedere il gusto al palato, come l’amarezza,
“utilizzando i parametri fisici relativi al colore e alla schiuma, cosa possibile perché i consumatori
possono giudicare la qualità e l’accettabilità di birra basata esclusivamente su attributi visivi” (Dunshea
et al. 2019, p. 8). Ciò implica che esiste una relazione tra schiuma e parametri legati al colore e all’amaro,
poiché il luppolo contribuisce allo sviluppo di aromi e sapori nella birra. Anche questo ci porta a pensare
all’importanza di ogni senso quando si parla di gusto, poiché attraverso il visivo la macchina può
prevedere il sapore più o meno amaro di ciò che è custodito da detta bevanda. Secondo gli autori esiste
un modello di intelligenza artificiale che si basa sulla raccolta di dati attraverso l’utilizzo di un Robobeer
e indaga i video grazie ad algoritmi di visione artificiale. Gli autori sottolineano che tutta questa
tecnologia “offrirà all’industria della birra un processo completamente automatizzato per prevedere il
gusto del consumatore e l’accettabilità delle diverse birre” (Dunshea et al. 2019, p. 8).
Un altro esempio importante è la realizzazione di una ricetta creata dall’intelligenza artificiale ed è un
biscotto 50%, torta 50%, pensato per le feste di Natale. Nel loro blog Markowitz e Robinson (2020),
spiegano come sono arrivati a questo risultato, entrambi sono ingegneri e questo esempio mostra
l’importanza di contestualizzare il luogo in cui viene realizzata la ricetta e il periodo dell’anno. Gli autori
sono americani e spiegano che nel loro paese è comune mangiare torte e biscotti a Natale: questi
elementi sono importanti quando l’intelligenza artificiale crea la loro nuova ricetta. Secondo Markowitz
e Robinson (2020) prendendo i valori per le nuove ricette da una rete neurale, “ti mostreremo come
creare un modello di apprendimento automatico spiegabile che analizzi le ricette di cottura e persino
usarlo per creare le nostre nuove ricette, senza dati competenza scientifica richiesta” (Markowitz,
Robinson 2020, p. 1). Il risultato ottenuto è un impasto ibrido tra biscotti e pane, in cui sono stati inseriti
solo 16 ingredienti selezionati dall’intelligenza artificiale, ma includendo ingredienti che influenzano la
consistenza dell’impasto. Da quanto approfondito in questo blog si capisce che il risultato della nuova
ricetta dipende esclusivamente dai dati forniti al motore di ricerca, utilizzando ad esempio la parola
biscotto o torta, ottenendo così un grafico che determina gli ingredienti comuni per entrambi ricette sia
come farina, uova etc. La cosa importante di questo esperimento è capire cosa accadrà all’esperienza
gustativa. Questo esempio ci fa anche riflettere su cosa può succedere con le ricette considerate
tradizionali in un certo paese, cosa accadrà con l’unione tra piatti tradizionali e l’intelligenza artificiale.
291
Fig. 1– Biscotto torta esterna. Fig. 2 – Biscotto torta interno.
Fig. 3 – Torta biscotto esterna. Fig. 4 – Torta biscotto interno.
5. Analisi del discorso: presentazione di Flavor Graph
Flavor graph, una delle principali applicazioni ideate da Sony nell’ambito di un progetto dell’Università
della Corea, esegue, come suggerisce il nome, la “mappatura dei sapori”. In questa applicazione viene
visualizzata la composizione chimica di ogni ingrediente, che si trova all’interno del database, e poi
vengono visualizzati i nomi degli ingredienti che corrispondono a ciascuna composizione chimica.
Infine, l’algoritmo “rischia” di suggerire all’individuo che utilizza l’applicazione le possibili combinazioni
di determinati ingredienti. Vengono visualizzate le combinazioni già realizzate, quelle che non è
consigliabile realizzare e quelle che sono consigliabili ma non sono mai state realizzate. Nei casi in cui
gli elementi suggeriti dall’intelligenza artificiale non vengono mai creati, si distingue la creazione da
parte degli algoritmi, anche se gli chef che ho intervistato nella mia ricerca di dottorato affermano che
le creazioni passano sempre attraverso l’essere umano, e ciò che l’intelligenza artificiale può fare è
sbloccare la mente del creatore per ispirare nuove ricette. Comprendo che il suggerimento sia dato
dall’intelligenza artificiale e che il risultato dipenda sempre dalle capacità dell’essere umano che prepara
il piatto, ma la creazione del nuovo gusto è opera della macchina. In questi casi, si stabilisce sempre che
si tratta di una realizzazione congiunta, perché senza la macchina non saremmo sicuri se quella
combinazione esisterebbe o meno. La figura 5 mostra la costruzione della mappa dei sapori disegnata
dall’applicazione Flavor Graph.
292
Fig. 5 – Design della mappa dei sapori a cura di Flavor Graph.
Un’intervista di Gifford e Marcus (2022) allo chef Hajime Yoneda, disponibile sul sito web
dell’applicazione Sony, lo chef spiega di aver collaborato alla creazione del database dell’applicazione,
fornendo tutte le sue ricette. L’intervista è divisa sul sito in tre parti, dove nella prima troviamo un intero
discorso che punta al sentimentale, dove la cucina diventa fonte di emozioni e pensa all’unione tra uomo
e macchina, avvicinandola alle emozioni. Sebbene nell’immaginario sociale (Castoriadis 1975)
l’intelligenza artificiale sia associata a qualcosa di “freddo” (ad esempio è sempre disegnata con il colore
blu), in questo caso, si cerca di dare emozioni a qualcosa che per sua natura non le ha, e siamo ancora
una volta di fronte a un’antropomorfizzazione. Questa analisi discorsiva tiene sempre conto del fatto che
siamo di fronte a un’azienda che intende vendere e posizionare il proprio discorso, ma questa analisi va
oltre le leggi del marketing. Uno degli elementi utilizzati per alludere alle emozioni è l’immagine che
possiamo vedere nella figura 6, dove viene fatto un gioco di parole tra AI (intelligenza artificiale in
inglese) e la parola amore, che in giapponese è AI.
Fig. 6 – Rappresentazione delle emozioni tra uomo e l’intelligenza artificiale.
Si può notare, in particolare nella seconda parte dell’intervista, un cambiamento radicale del discorso,
che mira a modificare gli oggetti, in questo caso gli ingredienti, fino alla perfezione. Lo chef menziona
la necessità di tagliare con precisione ogni ingrediente perché, anche il più piccolo dettaglio, ne
cambierebbe il sapore. Allo stesso tempo, cita la necessità di inserire nel suo ristorante dei robot che
controllino la temperatura, il suono e le altre variabili ambientali, come i livelli di dopamina dei
commensali, per rendere la loro esperienza gustativa il più appropriata possibile. Alla luce di queste
affermazioni, ritengo impossibile replicare i suoi piatti al di là dell’utilizzo dell’applicazione Flavor
Graph. Questa serie di interviste si conclude con l’immaginario sociale della democratizzazione, che
implica che tutti possano cucinare come uno chef grazie all’applicazione, cosa che, come abbiamo già
visto nella seconda parte dell’intervista, è praticamente impossibile. Perché stare a tavola, come segnala
293
Boutaud (2005), implica una serie di parametri non replicabili tra l’ambiente del ristorante e quello
privato. Tutta questa analisi discorsiva richiede la semiotica peirceana, poiché si passa dalle emozioni della
prima parte, ovvero Firstness (CP 1.302), alla Secondness (CP 1.325), attraverso la manipolazione diretta
degli oggetti, e la costante ricerca di aspetti indessicali (CP 2.281) (l’aumento di dopamina da commensali,
reazioni non controllate dal soggetto). Per poi, infine, passare attraverso la Thirdness (CP 1.26), quando si
parla dell’ideale di democratizzazione che implica chiaramente l’aspetto simbolico sociale.
Insomma, vorrei evidenziare il ruolo del discorso mediatico, che mette in luce il nuovo storytelling che
l’intelligenza artificiale e la gastronomia implicano. Nell’analisi dell’intervista, emerge la necessità di
affrontare entrambi gli elementi in modo sensibile, per poi mostrare una precisione grazie all’aspetto
più matematico della macchina. Una ricerca di aspetti indessicali, ovvero l’autenticità del piacere del
piatto per il commensale, con la finalità di raggiungere un’accettazione sociale.
294
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295
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] | Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione
materiale degli utenti
Daria Arkhipova
Abstract. This research delves into the physical implications of digital communication, with a specific focus on
social media platforms that utilise Artificial Intelligence recommendation systems (AiRS). AiRS continually provide
stimuli to users, encouraging their interactions with digital representations of everyday material objects. These AI-
mediated representations have the potential to influence users’ behaviours and physical states, bridging the gap
between the digital and the material, natural environments. The primary objective of this study is to establish a
methodological framework for investigating how digital platforms can shape users’ interactions with AI-mediated
digital representations and their material world objects. Furthermore, this research views digital platforms as
environments capable of providing affordances to users and fostering scaffolding processes through interactions
within the environment. The impact of AI-mediated social media on its users is examined by establishing connections
between methodologies from cognitive science and semiotics, aiming to gain a comprehensive understanding of how
these platforms influence users’ experiences and behaviours in both the digital and physical realms.
1. Introduzione
Il contesto digitale è spesso considerato in contrasto con la dimensione fisica e materiale. Nella concezione
comune, il digitale viene percepito come privo di una manifestazione tangibile e concreta. Dal punto di
vista della semiotica, il digitale può essere compreso come un sistema semiotico che opera attraverso
rappresentazioni degli oggetti del mondo fisico e materiale. Negli ultimi anni, le interazioni digitali hanno
subito un notevole aumento a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia da COVID-19. Durante
questo periodo, molte persone si sono trovate costrette a rimanere confinate nelle proprie abitazioni e ad
interagire principalmente attraverso soluzioni di videoconferenza, social media e altre piattaforme digitali.
Questa situazione di separazione fisica ha avuto delle conseguenze significative sul benessere degli
individui, manifestandosi in sintomi di esaurimento, stress e burnout, che hanno influenzato anche il loro
stato fisico e corporeo (Liu, Ma 2020; Shao et al. 2021; Sharma et al. 2020).
Il presente studio propone un approccio metodologico per analizzare l’impatto dei social media basati
sull’intelligenza artificiale (IA) sugli utenti, concentrandosi principalmente sulle dimensioni psicologica
e fisica. L’obiettivo principale della ricerca è comprendere se i social media basati sull’IA abbiano un
impatto concreto e tangibile sulla dimensione fisica e materiale degli utenti e come questa “materialità”
possa essere identificata e analizzata attraverso i loro effetti psicofisici. Particolare attenzione è rivolta
alle reazioni da stress degli utenti, ovvero alle risposte che il nostro corpo sviluppa per affrontare
situazioni stressanti. Nell’affrontare una minaccia, specifiche regioni del cervello, come l’amigdala,
vengono attivate per stimolare la produzione di cortisolo, glucocorticoidi e adrenalina, al fine di potenziare,
ad esempio, la forza fisica o la velocità (Rabin 2002, p. 43). Questa reazione fisiologica si è sviluppata
nell’ambito dell’evoluzione umana per far fronte a potenziali pericoli presenti nell’ambiente circostante.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Per analizzare la dimensione materiale del digitale, questo articolo adotta i metodi delle scienze cognitive
e della semiotica. In particolare, si avvale di strumenti teorici provenienti dalla biosemiotica e dalla
semiotica cognitiva per spiegare come la materialità dei social media basati sull’IA si manifesti attraverso
le reazioni corporee degli utenti, focalizzandosi in particolar modo sulle reazioni da stress.
La ricerca si concentra sulle interazioni degli utenti con i social media basati sull’IA che si fondano su
rappresentazioni digitali, come ad esempio TikTok. Questi social media condividono molte
caratteristiche nella loro logica di funzionamento, con particolare enfasi su contenuti quali immagini e
video. Verranno anche esaminate le affordances offerte da queste piattaforme agli utenti e come tali
affordances possano promuovere processi di scaffolding.
L’articolo è diviso in sette sezioni. Il paragrafo due presenta la terminologia utile. Il terzo paragrafo
discute il ruolo dei sistemi di raccomandazione basati sull’IA all’interno delle piattaforme di social
media. Tali sistemi influenzano in modo significativo i processi di comunicazione tra gli utenti e hanno
un ruolo cruciale nel funzionamento delle piattaforme stesse. Il quarto paragrafo analizza le affordance
offerte dalle piattaforme di social media agli utenti, riferendosi alle caratteristiche e alle possibilità che
esse offrono per interagire e partecipare all’interno dell’ambiente virtuale. Il quinto paragrafo spiega
come i social media basati sull’IA favoriscano processi di scaffolding e pratiche interpretative che
inducono reazioni fisiche all’interno dell’ambiente materiale dell’utente. Il sesto paragrafo presenta un
caso studio riguardante l’uso del filtro #horseface su TikTok, evidenziando come l’impiego di filtri di
realtà aumentata possa influenzare le reazioni fisiche degli utenti nella loro dimensione materiale. Infine,
il paragrafo sette conclude riassumendo i risultati, evidenziando le limitazioni e fornendo suggerimenti
per ricerche future. Precedentemente a ciò, il paragrafo seguente introduce la terminologia e i concetti
chiave per definire e caratterizzare i social media e i sistemi di raccomandazione basati sull’IA.
2. Terminologia
Il termine “social media” rappresenta un concetto generale utilizzato per indicare piattaforme digitali
che permettono agli utenti di cercare, creare e condividere rappresentazioni digitali, quali immagini,
video, audio e testi in linguaggio naturale, al fine di comunicare una specifica identità (Aichner et al.
2021). Questa identità, costantemente negoziata, è percepita e valorizzata come il risultato di una
complessa interazione tra l’intenzione dell’utente, la materialità del supporto digitale e le dinamiche
delle altre comunità di utenti (Leone 2021).
I social media basati sull’IA sono piattaforme che impiegano algoritmi di raccomandazione dell’IA per
fornire agli utenti esperienze personalizzate, suggerendo contenuti, prodotti, servizi o altre informazioni
rilevanti in base ai loro interessi, preferenze, comportamenti e storico di utilizzo. Le raccomandazioni
dell’IA sono diventate fondamentali per il funzionamento di tali piattaforme digitali, poiché consentono di
organizzare e presentare in modo coerente e pertinente le informazioni a disposizione degli utenti.
I Recommender Systems (RSs) sono strumenti software che suggeriscono elementi utili agli utenti
(Kantor et al. 2011). I sistemi di raccomandazione basati sull’IA, come Recommendations AI, il termine
proposto da Google, o AiRS, il termine proposto da Naver, utilizzano il Machine Learning per mostrare
agli utenti informazioni rilevanti più rilevanti in base a vari criteri, come la cronologia precedente delle
interazioni, la loro provenienza geografica etc. L’obiettivo è semplificare la ricerca e personalizzare
l’esperienza online. Questi sistemi sono spesso studiati nel contesto dell’e-commerce e del consumo (per
esempio, Necula, Păvăloaia 2023) e la ricerca si concentra principalmente su come migliorare le
raccomandazioni al fine di soddisfare meglio le esigenze degli utenti (McNee et al. 2006).
297
3. Il ruolo delle AI Recommendation nei social media?
I social media rappresentano un’interfaccia unica in cui l’ambiente digitale e quello naturale si fondono,
consentendo agli utenti di amplificare le loro esperienze attraverso rappresentazioni digitali che
costituiscono una parte integrante della comunicazione quotidiana. Il loro ruolo è oggetto di un ampio
dibattito anche nel campo della semiotica. Alcuni studi si sono focalizzati sugli aspetti visivi dei social
media (Jovanovich, von Leeuwen 2018), mentre altri hanno analizzato altri elementi come le audio
(Ferguson, Greer 2018). Le analisi semiotiche hanno esplorato l’impatto dei social media sulle relazioni
sociali e nella cultura, analizzando specifiche pratiche digitali come il dating digitale (Leone 2019b;
Vuzharov 2019), le proteste digitali (Bonilla, Rosa 2015), il metaverso (Giuliana 2022), i selfie (Surace
2020; Leone 2019a) e la viralità (Marino 2022).
Il ruolo delle AiRS per gli utenti dei social media costituisce un’area di ricerca che richiede un’analisi
completa dal punto di vista semiotico. Attraverso l’approccio della semiotica narrativa di Greimas (1970,
1983; Greimas, Courtés 1979), le AiRS possono essere concepite come degli Aiutanti che assistono il
Soggetto nella sua ricerca dell’Oggetto di Valore. Tuttavia, è importante notare che le AiRS hanno il
potere di generare nuovo valore verso un oggetto che il Soggetto potrebbe non aver originariamente
riconosciuto come di valore intrinseco per sé. Questo processo avviene all’interno di un ambiente
digitale, caratterizzato da spazi e relazioni attraverso cui le AiRS possono ottenere maggiore valore e,
conseguentemente, un maggiore impatto nello stimolare l’azione pragmatica del Soggetto, come ad
esempio l’effettuazione di un acquisto.
Le AiRS stesse giocano un ruolo fondamentale nella strutturazione degli spazi all’interno dei social
media, contribuendo a determinare luoghi specifici in cui vengono collocate con maggiore frequenza,
dove gli utenti sono maggiormente esposti a tali raccomandazioni. I social media costituiscono così un
ambiente in cui un volume crescente di informazioni viene categorizzato e ordinato dall’IA mediante
un approccio logico e statistico. Ad esempio, TikTok1 utilizza raccomandazioni dell’IA basate sulle
visualizzazioni e i clic, ordinate per posizione geografica (piuttosto che basarsi su connessioni di amicizia
come avviene su Instagram o Facebook). In questa prospettiva, TikTok impone agli utenti video di
durata media compresa tra 7 e 60 secondi, con elementi testuali sintatticamente riutilizzabili come suoni,
immagini, filtri e hashtag, che risultano utili per fini algoritmici di categorizzazione e assegnazione di
valore, prima di inserirli in un loop con altri contenuti. Le AiRS di TikTok sono riconosciute come
estremamente efficaci sulla base dei dati di interazione (Yao 2021; Zhang, Liu 2021). In questo contesto,
l’algoritmo può definire i valori semantici dei testi e degli elementi testuali presenti nei video, senza
necessariamente riconoscere il valore semantico intrinseco del testo stesso. Le raccomandazioni dell’IA
si basano sul feedback dell’interazione degli utenti e sulla dimensione pragmatica delle azioni intraprese
dagli stessi utenti. Ciò significa che un video o un suo elemento testuale su TikTok può acquisire un
alto valore per le AiRS e, di conseguenza, essere imposto a migliaia e milioni di utenti semplicemente
perché statisticamente stimola l’interazione e risulta quindi di alto valore algoritmico. Si evince quindi
che nelle piattaforme social come TikTok, in cui le AiRS svolgono un ruolo cruciale nel processo di
categorizzazione e assegnazione del valore alle rappresentazioni digitali, le azioni e le modalità del
Soggetto-utente assumono una rilevanza meno significativa rispetto alla strutturazione dell’ambiente
stesso, che è costituito da valori e relazioni complesse tra elementi digitali.
Questo ambiente digitale ha il potere di influenzare il corrispondente ambiente materiale dell’utente:
specifiche raccomandazioni, strategicamente collocate in determinati spazi digitali, possono indurre
l’utente a compiere azioni pragmatiche, come effettuare un acquisto o seguire un nuovo profilo. Per
raggiungere tale obiettivo, i valori posizionali e relazionali dei social media basati sull’IA si avvalgono
1Per un’approfondita analisi semiotica sul funzionamento e sull’impatto social di TikTok si veda il recente volume
collettivo curato da Marino e Surace (2023).
298
di specifiche affordance digitali (Boccia et al. 2017), le quali saranno descritte dettagliatamente nel
paragrafo successivo.
4. Affordance nei social media
Il concetto di “affordance” è ampiamente studiato nel contesto degli oggetti presenti in un ambiente,
poiché essi offrono specifiche possibilità d’uso ai loro utenti in relazione alle loro esigenze e abilità
(Gibson 1977). Nell’ambito degli oggetti culturali, queste caratteristiche sono spesso previste dai designer
stessi. Secondo Gibson (1977, 2014), l’affordance non è una proprietà statica dell’ambiente né
completamente creata dagli utenti, ma emerge attraverso il processo di interazione e comunicazione tra
di essi. Gli studi più recenti esplorano le affordance da due prospettive principali: l’interazione tra utente
e ambiente (Nye, Silverman 2012; Nagy, Neff 2015) e le relazioni tra progettista, artefatto e utente (Van
Osch, Mendelson 2011; Shaw 2017).
La prospettiva della biosemiotica di Campbell et al. (2019) offre un’analisi approfondita delle affordance
nel processo di apprendimento, collegandole alla nozione di umwelt, dove le proprietà dell’ambiente
sono identificate dagli organismi stessi invece di essere predeterminate dall’ambiente. Il concetto di
umwelt, sviluppato da Jakob von Uexküll (1982) e Thomas A. Sebeok (1989), si riferisce al mondo
sensoriale specifico di un organismo. Come dimostrato da Ingold (2009), ogni organismo vivente crea
affordance 1) all’interno di un determinato ambiente e 2) basate sulle capacità percettive dell’organismo
stesso, identificate come umwelt. La biosemiotica si concentra principalmente sulla dimensione fisica
della comunicazione tra un organismo e l’ambiente. Il caso dei social media mediati dall’IA è più
complesso: per accedervi, l’utente deve avere un dispositivo portatile, come uno smartphone o un
computer, l’accesso a Internet, le capacità di interazione mediante dita e così via. Le affordance dei
social media possono essere individuate nel modo in cui organizzano il loro ambiente, costituito da
valori posizionali e relazionali, popolato da testi, immagini, video e audio.
Un’ipotesi riguardante le affordance nei social media suggerisce che le interazioni degli utenti
nell’ambiente digitale di tali piattaforme, compresa la condivisione di rappresentazioni digitali come
immagini, video, testi e audio, possono essere influenzate sia dalle intenzioni e dagli input dei progettisti
nelle caratteristiche del sistema (AiRS), sia dalle affordance fornite dal sistema stesso. Queste interazioni
si adattano, di conseguenza, alle esigenze e alle capacità degli utenti. In questo contesto, le AiRS possono
svolgere un ruolo di rilievo nella strutturazione delle interazioni sociali all’interno dell’ambiente digitale,
manipolando gli umwelten dei loro utenti. Seguendo il concetto di umwelt, gli organi percettivi giocano
un ruolo cruciale: i social media, come TikTok, si basano principalmente sulla capacità di percezione
visiva degli utenti. L’occhio è l’organo primario che permette agli utenti di interagire con le
rappresentazioni digitali. Considerando che i social media sono percepiti in modo simile all’ambiente
naturale, gli utenti possono avere l’esperienza della percezione olistica delle rappresentazioni digitali
come parte di un messaggio generale creato dalle AiRS (Whitney, Leib 2018). Il processo di
categorizzazione, successivo al processo di percezione (Klinkenberg 2015), è fortemente imposto dalla
piattaforma digitale e dalle AiRS, in modo simile alla percezione umana olistica nell’ambiente naturale
(Mitchell et al. 1995) che si basa sul contesto (Russell, Giner-Sorolla 2013).
Poiché i social media come ambiente digitale sono in costante cambiamento e sono manipolati dall’IA,
gli utenti devono adattarsi costantemente basandosi sulle informazioni relative a entrambi gli ambienti
percepiti olisticamente come una fusione tra l’ambiente fisico e le sue rappresentazioni digitali. Paolucci
(2021) spiega bene questo processo: il nostro cervello cerca di indovinare informazioni non disponibili
sull’ambiente che alla fine corrispondono ai dati sensoriali in evoluzione, influenzando il modo in cui
percepiamo il mondo e creando infine. Applicato nel caso della percezione sui social media, crea un
299
bricolage tra il mondo fisico e gli stimoli digitali mediati dall’IA. In questo contesto, la percezione di sé
e degli altri sui social media può essere associata a una forma di “controlled hallucination”.
[...] by ‘controlled hallucination’, I mean the product of the imagination controlled by the world. The way
in which we match the hallucination’ of imagination with the ‘control’ of the world is through diagrams
and narratives. The main idea is that ‘hallucination’ is the model of perception and not a deviant form of
it. With ‘hallucination’, [...] I mean the morphological activity of the production of forms by the
imagination, which remains crucial both when it is not controlled by the world – as in the case of
hallucination, imagination or dream – and when it is controlled by the world, as in the case of online
perception (Paolucci 2021, p. 127).
Applicando i concetti esposti da Paolucci, emergono considerazioni rilevanti riguardo al ruolo del
controllo nella descrizione dell’“hallucination” basata sulla percezione, governata dall’ambiente digitale
rappresentato dai social media. Nonostante l’ambiente di tali piattaforme siano considerate di natura
lontano dal naturale, sembrano essere percepite in modo olistico, seguendo la prospettiva di Paolucci
(2021) sulla connettività tra organismo e ambiente, tra mente e materia, convincendo gli utenti della
materialità delle rappresentazioni digitali con cui interagiscono.
In altre parole, gli utenti dei social media basati sull’IA tendono a percepire queste piattaforme come
un’estensione dell’ambiente naturale, integrando le rappresentazioni digitali in una visione olistica del
mondo. Tale percezione coinvolge processi cognitivi intensi, poiché gli utenti devono continuamente
adattarsi all’ambiente digitale e alle sue affordance, pur mantenendo una connessione continua con il
mondo fisico. Questa continua negoziazione tra il reale e il digitale può comportare un carico cognitivo
significativo e, a lungo termine, può essere causa di stress e burnout digitale. Gli studi indicati da Liu e
Ma (2020), Shao et al. (2021) e Sharma et al. (2020) forniscono prove della rilevanza di tali effetti negativi.
In conclusione, la percezione degli utenti dei social media basati sull’IA è profondamente influenzata
dal rapporto tra organismo e ambiente digitale, che si traduce in un’esperienza olistica e materialità
attribuita alle rappresentazioni digitali. Come social media possono influenzare gli utenti promuovendo
sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee attraverso il processo di scaffolding indagato
nel prossimo paragrafo.
5. I processi di scaffolding nei social media
Valsiner (2005, p. 205) definisce lo “scaffolding” come “a form of guidance – and guidance is everywhere
in human social and (internalized) personal lives. It is a generic process that always operates in unique
forms’’. Possiamo quindi ipotizzare che i social media possano influenzare gli utenti promuovendo sia
l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee. La semiotica offre strumenti per comprendere
come le rappresentazioni digitali all’interno di tali piattaforme influenzino la percezione di sé, degli altri
e dell’ambiente circostante. Paolucci (2021) spiega anche come il linguaggio naturale possa fungere da
struttura portante per la cognizione umana, modellando i nostri punti di vista, ampliando e rafforzando
le nostre capacità cognitive e la nostra comprensione del mondo. Allo stesso modo, tutti gli altri elementi
digitali all’interno dei social media svolgono una funzione simile.
La categorizzazione degli utenti fa parte di un processo interpretativo strutturato a diversi livelli. Valsiner
et al. (2021, p. 4) propongono un modello che identifica cinque livelli di interpretazione. Il livello 0
riguarda le sensazioni corporee basate sugli organi percettivi (ad esempio, in caso di rappresentazioni
digitali, il colore, contrasto, forme etc.), mentre il livello 1 la riflessione emergente (ad esempio, gli utenti
si rendono conto di interagire con qualcosa che sarà categorizzato e interpretato ai livelli successivi). Al
livello 2 vi è la riflessione in categorie verbalizzabili, che nel caso dei social media comprende le
categorie offerte attraverso l’IA (ad esempio, testi ripetitivi utilizzati dagli algoritmi). Il livello 3 implica
300
la riflessione in generalizzazioni verbalizzabili, come riconoscere un influencer in base al numero di
follower o video virale a base di click raggiunti. Infine, il livello 4 riguarda la riflessione in
generalizzazioni non verbalizzabili, che rappresenta la percezione olistica e potrebbe influenzare il livello
0. Nell’ambito del processo interpretativo degli utenti sui social media, si ipotizza che le affordance siano
presenti a tutti livelli.
Un esempio della classificazione di Valsiner et al. (2021) riguarda una ricerca di Kramer et al. (2014)
che dimostra come le raccomandazioni dell’IA influenzino la percezione degli utenti attraverso contenuti
audiovisivi come testi, immagini e video. Durante l’esperimento, alcuni utenti hanno ricevuto una
selezione di notizie positive, altri di notizie negative, alcuni in ordine cronologico e altri in modo casuale
per le varie settimane. Gli utenti con notizie negative tendevano a pubblicare messaggi negativi,
evidenziando l’effetto dell’IA nella categorizzazione dei contenuti e nel processo di apprendimento degli
utenti basato sulle raccomandazioni. Da un lato, ciò conferma che la percezione di sé e degli altri negli
ambienti digitali e in quelli naturali è simile, confermando una tendenza generale già dimostrata da
Baumeister et al (2001). Dall’altro, sottolinea il ruolo dell’IA nel processo di categorizzazione adottato
dagli utenti e come le raccomandazioni dell’IA influenzino il loro processo di scaffolding, basandosi
sulle opportunità fornite dai social media. In sintesi, l’esperienza vissuta attraverso l’ambiente digitale
può essere percepita e interpretata in modo simile all’esperienza vissuta fisicamente nell’ambiente
naturale. Gli oggetti rappresentati dagli ambienti digitali e mediati dall’IA possono essere interpretati
come oggetti fisici, suscitando reazioni corporee negli utenti. Il prossimo paragrafo esplora queste idee
attraverso l’analisi di un caso studio su TikTok.
6. Materialità del TikTok: un caso studio
Per dimostrare l’impatto dei social media nella dimensione materiale degli utenti, concentriamo la nostra
attenzione su un particolare caso di studio riguardante le pratiche originate dalla pratica
#horsefacefilterchallenge su TikTok. Su TikTok, #horseface è un popolare hashtag, elemento usato per
cercare e far trovare i propri contenuti (Karamalak et al. 2021). Inoltre, è anche un filtro basato sulla
realtà aumentata che, all’interno di un breve video di TikTok, trasforma il volto umano in quello di un
cavallo. Questo paragrafo analizza le affordance offerte da questo filtro e il ruolo delle raccomandazioni
dell’IA nell’esporlo a un vasto pubblico, influenzando la loro esperienza di apprendimento attraverso il
processo di scaffolding.
Il filtro “Horsehead” è stato inizialmente lanciato su Snapchat e successivamente adottato da TikTok
con il nome di “horseface”, ottenendo notevole popolarità grazie alle raccomandazioni dell’IA. Gli utenti
possono utilizzarlo per sperimentare il mascheramento digitale e condividere i video delle
trasformazioni. Su TikTok, questo filtro ha dato vita alla sfida denominata #horsefacefilterchallenge, in
cui gli adulti provano il filtro mentre i loro bambini osservano la trasformazione sullo schermo dello
smartphone. Secondo i dati forniti da Google, sono stati pubblicati circa 31 milioni di video utilizzando
questo filtro. L’analisi dei dati si è concentrata sulle espressioni fisiche di 500 video, analizzati tra gennaio
2022 e luglio 2023 e dimostra che la maggior parte dei bambini, dopo aver osservato la trasformazione
della testa degli adulti in quella di un cavallo, appare spaventata e inizia a piangere, osservando sia lo
schermo che la presenza fisica dell’adulto. Nella minoranza dei video in cui i bambini reagiscono in
modo diverso dal pianto, si osserva una sorpresa degli adulti nei confronti della reazione dei loro
bambini, poiché l’aspettativa, creata anche dagli altri video simili suggeriti, era che essi interpretassero
queste rappresentazioni digitali con spavento o pianto.
Le affordance che gli utenti trovano nell’utilizzo del filtro “horseface” su TikTok sono basate sul loro
umwelt, dai loro bisogni e dalle loro capacità. Queste affordance sono strettamente legate alla funzione
delle raccomandazioni dell’IA. La maggior parte degli utenti partecipa a questa esperienza, che
301
coinvolge la realizzazione di un video con un bambino, per tre motivi principali: 1) l’esposizione al filtro
è stata suggerita dalle raccomandazioni dell’IA; 2) cercano di sperimentare alterazioni del loro stato
cognitivo e fisico ispirandosi alle reazioni osservate nei video di altri utenti; 3) sperano che le
raccomandazioni dell’IA possano individuare il loro video, consigliarlo ad altri utenti e ricevere reazioni
e feedback dal resto della comunità online. Tuttavia, i risultati indicano che la maggior parte degli utenti
espone i bambini a un’esperienza potenzialmente stressante, in cui possono verificarsi “controlled
hallucination” nell’ambiente digitale (Paolucci 2021) e ciò può influenzare il modo in cui i bambini imparano
a comprendere il mondo. Inoltre, TikTok impone i strumenti di interpretazione, come evidenziato
applicando la classificazione di Valsiner et al. (2021), specialmente in contesti di esperienze complesse
offrendo le categorie attraverso le raccomandazioni dell’IA nei testi ripetitivi e negli elementi testuali utilizzati
dagli algoritmi per manipolare gli elementi all’interno dello spazio della piattaforma.
7. Conclusioni e prospettive future
Questo articolo ha analizzato l’influenza dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale e
fisica degli utenti. Ha dimostrato che tali piattaforme possono avere effetti significativi sul corpo degli
utenti, nonostante nel senso comune siano percepite come separate dalla dimensione fisica e materiale.
Da un lato, gli utenti sono esposti a rappresentazioni digitali mediate dall’IA, dove quest’ultima decide
quale valore attribuire a determinati testi, inducendo l’utente ad adottare determinati stati fisici attraverso
le varie affordance riconosciute all’interno dei social media. D’altra parte, gli strumenti di scaffolding
dei social media mediati dall’IA possono guidare gli utenti a interagire con strumenti interpretativi che
promuovono determinate reazioni e si manifestano in cambiamenti fisici all’interno del loro corpo.
Questa ricerca, basata su un quadro metodologico della biosemiotica e della semiotica cognitiva, mira
a spiegare come gli stimoli mediati dall’IA possano offrire affordance e promuovere processi di
scaffolding agli utenti dei social media. Il caso di studio presentato ha evidenziato come gli utenti
possono essere esposti a esperienze potenzialmente stressanti con la possibilità di influenzare i loro stati
fisici. Questo impatto è attribuito all’interazione tra lo spazio digitale dei social media, le rappresentazioni
digitali e le raccomandazioni dell’intelligenza artificiale che sovrastimolano gli utenti, favorendo un
maggiore coinvolgimento. Ricerche future dovranno aprire la discussione non solo verso gli effetti dei
social media basati sull’IA a livello individuale, ma anche a livello sociale e della cultura, nonché testare
altri metodi di raccolta dati per ottenere una comprensione più completa della complessa interazione
tra utenti, ambienti digitali e tecnologie IA.
302
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Elisa Sanzeri
1. Materie e materiali
A leggere il dizionario, luogo in cui si sedimenta la memoria semantica della lingua rendendo conto di
occorrenze e usi di un certo lessema, materie e materiali sono quanto di più concreto e tangibile ci sia.
Vediamo la definizione di materia fornita dal Devoto-Oli (2023).
materia (ma-te-ria) (arc. matera) s.f. 1. Tutto ciò che ha una propria consistenza fisica ed è percepibile
con i sensi; sostanza, materiale: materia organica, inorganica; materia malleabile, elastica, infiammabile;
di che materia è fatto?; una statuetta di materia preziosa | CHIM., INDUSTR. materia plastica →
PLASTICO; materie prime, quelle che servono di base alle lavorazioni industriali; FIG., SCHERZ.: materia
prima, l’intelligenza o il denaro. 2. FILOS. Nella filosofia greca, in particolare in quella di Aristotele, la
sostanza indistinta che ha dato origine alla realtà e che si contrappone alla forma || TEOL. Nella
concezione cristiana, la realtà soggetta ai sensi (contrapposta allo spirito) || SCIENT. Nel pensiero
scientifico moderno, insieme di atomi e molecole soggetto alle leggi dell’universo, oggetto di studi fisici
e chimici: materia solida, liquida, gassosa 3. ANAT. Sostanza organica, tessuto cellulare: materia
cerebrale | materia bianca, sostanza bianca → SOSTANZA) | materia grigia → GRIGIO 4. Argomento
di cui si parla in un testo o in un discorso; soggetto, tema: c’è materia per un libro: catalogo per materie;
una materia scabrosa, delicata | in materia, riguardo all’argomento in questione: non sono un esperto
in materia | in materia di, relativamente a, riguardo a: fornire consulenza in materia di investimenti 5.
Disciplina di studio o di insegnamento: materie letterarie, scientifiche; materie d'esame; andare bene
in tutte le materie 6. Occasione, motivo, pretesto: dare, offrire materia a chiacchiere, a sospetti […] •
Dal lat. materia, der. di mater ‘madre’ • sec. XIII •.
Nell’accezione più generica, la materia è la sostanza fisica che forma ogni corpo, dotata di estensione
spaziale e qualità sensibili che la rendono percepibile ai sensi e ne consentono la riconoscibilità, una
sostanza uniforme che investe gli oggetti e le cose che ci stanno intorno.
Che dire invece dei materiali? Di seguito la voce corrispondente estrapolata dallo stesso dizionario.
materiale (ma-te-rià-le) agg., s. A. agg. Della materia, che riguarda la materia o è costituito di materia:
la realtà materiale; cose, oggetti materiali 2. Relativo agli aspetti fisici e concreti della vita umana
(contrapposto a morale, spirituale, intellettuale): aiuto materiale; benessere materiale; lavoro materiale
| errore materiale, che incide soltanto sull’esecuzione o sulla realizzazione pratica di qualcosa ||
Effettivo, reale: mi trovo nell’impossibilità materiale di aiutarti; non ho il tempo materiale per fare sport
| autore materiale di un delitto, chi lo ha effettivamente compiuto (distinto dal mandante) | DIR.
costituzione materiale, l’insieme dei principi che, pur non essendo formalmente contemplati nella
costituzione, regolano le strutture fondamentali dello stato 3. Grossolano, rozzo, volgare: un uomo
materiale; avere modi materiali B. s.m. 1. Prodotto o manufatto dotato di proprietà o caratteristiche
particolari, individuato o definito spec. in rapporto all’origine e all’impiego: materiali naturali, artificiali;
materiali da costruzione; materiale esplosivo 2. Insieme di oggetti o strumenti necessari per lo
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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svolgimento di una determinata attività: materiale ferroviario, rotabile; materiale scolastico; materiale
chirurgico | FIG., materiale umano, gli individui che sono oggetto di ricerca o trattamento o in quanto
mezzo per il conseguimento di un fine 3. Insieme di appunti e documenti raccolti per una successiva
elaborazione o compilazione: ho già tutto il materiale per la tesi […] • Dal lat. tardo materialis, der, di
materia ‘materia’ • inizio sec. XIV •.
Come è evidente, tra i due lessemi c’è una stretta vicinanza semantica, tanto da renderli in buona parte
interscambiabili. Tuttavia, è possibile rintracciare alcune differenze, in particolare nel modo in cui si
articolano certe categorie a livello semantico e aspettuale. Laddove infatti materia sta a indicare per lo
più un qualcosa di omogeneo al suo interno, conchiuso, naturale, puro o quanto meno semplice – si
pensi alle materie prime (cfr. Campailla in questo volume), alla materia cerebrale, a quelle zuccherine
– il materiale è invece spesso non-omogeneo, composto da elementi diversi. Si tratta in genere di una
pluralità di sostanze, ma anche di oggetti, raggruppati in virtù di alcuni caratteri comuni, come l’origine
o la destinazione d’uso, e che sono già stati sottoposti a un qualche tipo di elaborazione. In questo senso,
sono materiali, ad esempio, quelli metallici, i sintetici o gli isolanti, come anche quelli scolastici,
ospedalieri o edilizi sino a quelli preparatori pensati come un complesso di informazioni raccolto in vista
di un futuro lavoro. Così, se la materia è investita del tratto semantico della continuità, il materiale di
contro è non-discontinuo; se la materia si presenta come una totalità integrale, il materiale invece si
configura come un’unità integrale. Un altro tratto semantico differenziale che è possibile rilevare dal
confronto delle due definizioni interessa la dicotomia natura vs cultura: in un’ottica un po’ naïve, la
materia sarebbe naturale, qualcosa che ricostruiamo come autentico, genuino e spontaneo, all’opposto
dei materiali, frutto invece della cultura, sostanze lavorate dall’uomo e dunque artificiali e artificiose.
Al di là di queste differenze, materie e materiali appaiono entrambi come qualcosa di fisico e terreno,
reale e palpabile, in ogni caso evidente. Una realtà fenomenica data e oggettiva, a tratti ovvia e banale,
dotata di valori e sensi che dovrebbero esserle intrinseci e determinati da qualità e proprietà che essa
possiede di per sé e che ne condizionerebbero l’uso e l’impiego in certi contesti e oggetti. Non a caso,
materiale, in quanto aggettivo, si contrappone a termini come morale, spirituale, intellettuale, astratto o
ideale e prevede come parasinonimi attributi come concreto, corporeo, effettivo, sensibile.
Ciononostante, la definizione di materia fa accenno alla lunga storia che il concetto ha avuto
nell’evoluzione del pensiero filosofico, portando alla luce come di fianco a questa accezione ne scorra
un’altra che vuole la materia come grezza e amorfa, una sostanza primordiale indifferenziata, in sé
inaccessibile, solo ed esclusivamente pensabile. E d’altro canto, gli usi che se ne fanno del termine
rendono conto in parte anche di quest’altra faccia della materia che si trova così a essere insieme
qualcosa di informe e differenziato, intellettivo ed empirico, cognitivo e sensoriale, incorporeo e fisico.
Come si legge dal dizionario, essa infatti è anche l’oggetto o il soggetto di un discorso, il tema di un
romanzo, di una conversazione, di una conferenza; una questione, in altre parole, che può essere
identificata, determinata e magari riconosciuta come scottante, controversa, delicata o difficile. Oppure
ancora un insieme di nozioni ordinate che finiscono per formare discipline di studio o d’insegnamento.
È interessante notare a questo proposito che la voce ripropone il dualismo tra matters of fact e matters
of concern di latourinana memoria (cfr. Latour 2005, 2008). Si passa infatti da una definizione della
materia come fatto della scienza, dato oggettivo e incontrovertibile a quello di materia come oggetto di
dibattito e discussione. In un certo senso è lo stesso passaggio che è stato svolto in questo volume e che
il semiologo si trova a eseguire nel momento in cui indirizza il suo sguardo a materie e materiali: essi da
fatti indiscutibili tramutano in questioni da interrogare.
All’interno del paradigma semiotico, come è noto e come più volte è stato ribadito in questo volume,
la materia assume un particolarissimo ruolo. La disciplina, fondandosi sulla quadripartizione
hjelmsleviana, considera la materia come antecedente ai meccanismi di senso – massa amorfa ma già
dotata di una qualche organizzazione, substrato virtuale per significazioni future – e al contempo
posteriore a essi, essendo ricavabile solo a partire dalle sostanze formate e dunque dal ritaglio che la
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forma ha impresso sulla materia. Materie e materiali, trasposti entro la teoria della significazione,
richiedono dunque di essere distinti più di quanto non faccia il senso comune, non fosse altro perché
ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana, nel mondo-della-vita campeggiato da effetti
di senso, sono sempre e solo le sostanze, materie per definizione già messe in forma. Lo spiega bene
Floch, punto di riferimento per molti dei saggi che compongono il volume: “Il materiale non è la materia,
poiché l’uomo utilizzandolo l’ha caricato di senso; e non è nemmeno una forma, poiché dipende dall’uso
[…]. Come si sarà compreso, il materiale va concepito secondo noi come sostanza, come materia formata,
assunta dalla forma significante” (1984, p. 176).
Che sia ferro, vetro o legno, caffè, grani o pelli, sangue, organi o carni, plastiche, cemento o carta, per
le scienze semiotiche è sempre di materiali che si tratta, e non di materie, di sostanze che hanno già una
propria foggia, che sono già figure del mondo, che plasmano già oggetti e cose senza le quali non
potremmo percepirle (cfr. Ventura Bordenca 2009). E ciò vale tanto per i materiali compositi e artificiali
quanto per le materie sedicenti pure e naturali. Prendiamo ad esempio il cotone, quello che compone i
bastoncini di ovatta, i dischetti struccanti, le lenzuola o le camicie, ma anche le tende del bagno, gli
strofinacci della cucina e una miriade di altri oggetti della nostra vita quotidiana. Ora, la materia che
costituisce tutti questi artefatti la si otteniene di fatto per astrazione, mettendo a confronto bastoncini,
dischetti, lenzuola, camicie, tende e strofinacci, e ricavando così il batuffolo della pianta di cotone, che è
già tuttavia per il semiologo materia formata. Anche il marmo, di cui parla Festi, l’acqua, intorno alla quale
ruota il saggio di Fadda, o la polvere, oggetto di riflessione nei contributi di Bassano e Burgio, solo
ingenuamente e nel senso comune possono esser ritenute materie. Marmo, acqua e polvere, tanto quanto
il cotone, non esistono di per sé: esistono come idee, concettualizzazioni astratte che ricaviamo a posteriori,
a partire da una serie di occorrenze che, mettendole in forma, danno loro sostanza (Marrone 2023).
Così, persino ciò che può apparire a un primo sguardo materia pura è già materiale, è già un oggetto
culturale che, in quanto tale, si trova investito di sensi e di valori. Questi sensi e valori che investono i
materiali non sono intrinseci ai materiali stessi ma derivano da usi collettivi e abitudini individuali che
ovviamente non sono dati una volta e per tutte: mutano nel tempo e nello spazio, cambiando da cultura
a cultura e modificandosi nel corso della storia. Se per gli amerindi incontrati dai primi colonizzatori il
rame era stimato più dell’oro, utilizzato nei riti religiosi e per la fabbricazione di gioielli, nello stesso
periodo e dall’altra parte del globo, le cose non stavano affatto così. Nell’Inghilterra di Enrico VIII
l’impiego massiccio del rame nelle monete d’argento fu motivo di malcontento per il popolo e valse al
sovrano l’appellativo “Old Coppernose”, letteralmente “vecchio naso di rame”: infatti le parti in rilievo
delle monete, come il naso del profilo del re, lasciavano comparire il rosso non appena si consumavano
un po’ (Aldersey-Williams 2010). Per fare un esempio a noi più vicino basti pensare all’inversione di
reputazione che ha subìto la plastica nell’arco di meno di un secolo: osannata dapprima per la sua
praticità, resistenza ed economicità, vero e proprio mito della società borghese (cfr. Barthes 1957), oggi,
sulla scorta dell’ideologia ecologista, è messa al bando. Alla plastica, difficile se non impossibile da
smaltire, si preferiscono così altri materiali, come il vetro, il legno o la ceramica, che si trovano a significare
la natura. Un valore euforico, quello della natura, che non sta, lo ripetiamo, nei materiali in sé, ma che
siamo noi in una certa misura ad attribuire loro. Ciò non significa tuttavia che da una parte ci sono i
materiali e le cose da essi composti e dall’altra i significati, come se venissero loro aggiunti ex post: il senso
che i materiali acquisiscono non arriva, per così dire, dopo, ma insieme ai materiali stessi, secondo quel
rapporto di presupposizione reciproca che collega il piano dell’espressione con quello del contenuto.
Ad ogni modo, il materiale, come visto nel caso della plastica, si carica di significati anche in virtù delle
relazioni che intrattiene con altri materiali, ma è evidente che il senso che acquisisce è strettamente
legato anche alla forma oggettuale che assume o ha assunto (cfr. Ventura Bordenca 2009). Una cosa
sarà, poniamo, l’oro di una collana, un’altra sarà lo stesso oro che troviamo nei chip dei computer o nel
celebre risotto di Gualtiero Marchesi. Allo stesso modo, una cosa sarà il valore della ceramica dei servizi
igienici, del tutto diverso sarà il senso che ha per noi la stessa ceramica del vaso per i fiori o del servizio
da thè. Lo stesso, è chiaro, è valido all’inverso, considerando non più i materiali che compongono
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oggetti di diverso tipo bensì i medesimi oggetti costituiti da materiali differenti. Ciò significa che oggetti
e materiali si costruiscono reciprocamente, di modo che, ad esempio, il senso di un metallo come
l’acciaio dipende dalle sue occorrenze oggettuali; in maniera analoga, il valore assunto da un oggetto
come il sofà potrà variare al variare delle sostanze di cui si compone. L’acciaio, dopo esser stato
protagonista della Rivoluzione industriale, impiegato in artefatti più disparati – dalle travi strutturali dei
ponti alle linee ferroviarie, dalle caldaie delle navi ai grattacieli – negli anni Trenta del Novecento
assume un nuovo aspetto e viene utilizzato per la realizzazione di oggetti come poltrone, sedie e divani,
per i quali non sembrava di per sé adeguato perché considerato troppo duro e freddo per adattarsi ai
cosiddetti mobili sostenitori, in linea di principio morbidi, comodi e caldi. Reso in forma tubolare e
piegato ad arte, l’acciaio intesse una stretta relazione con le pelli e il gommapiuma, la corda e il legno,
dando luogo a celebri pezzi di design come la Chaise Longue di Le Corbusier. Ecco così che il materiale
si carica di caratteri come la linearità, la leggerezza e l’eleganza che non sembravano appartenergli,
mentre la poltrona a sdraio viene investita di un senso di razionalità e funzionalità del tutto inedito per
l’oggetto in questione che ben si esplica nell’espressione “macchina per riposare” che usava lo stesso Le
Corbusier per descrivere il frutto del suo ingegno.
La storia del tubolare metallico permette, inoltre, di sottolineare come occuparsi di materiali significhi
spesso addentrarsi nel mondo delle sperimentazioni e della creatività. Il mito racconta che l’idea di
adoperare l’acciaio per realizzare eleganti sedute nasca da un’intuizione tanto semplice quanto geniale
di Marcel Breuer: se il tubolare è in grado di sostenere un corpo soggetto a sollecitazioni su strada, come
fa quello che compone i telai delle biciclette, sarà capace di fare altrettanto entro le mura domestiche o
nell’ufficio di un avvocato (cfr. Dardi, Pasca 2019). Da qui, una serie di tentativi e aggiustamenti, come
quelli dell’architetto olandese Mart Stam che sfrutta dei tubi del gas per realizzare uno dei primi prototipi
di sedia a sbalzo. Così, dalle navi e dai ponti che mettevano in contatto le persone si arriva sino ai mobili
razionalisti, passando per le biciclette e i condotti del gas, facendo di fatto bricolage con l’acciaio,
imparando a lavorarlo per dargli lucentezza, a sfruttare le sue potenzialità per nuovi usi e portando alla
luce caratteri che non pensavamo possedesse, facendoli passare da uno stato virtuale a uno realizzato.
In tal senso, anche quel fascio di qualità sensibili che attribuiamo ai materiali, e che essi sembrano avere
a prescindere da noi, sono in una certa misura frutto del nostro modo di conferire senso al mondo, esito
di una serie di processi semiotici – pragmatici, cognitivi, passionali, somatici – attraverso cui stabiliamo
ad esempio che il marmo è freddo e compatto mentre il sughero è caldo e poroso, la lana è soffice e la
seta è liscia, il metallo è rigido e il legno è flessibile, il vetro è fragile e duro e la plastica è resistente e
morbida, e così via (Marrone 2023). Proprietà sensibili, dunque, che, ancora una volta, non hanno nulla
di oggettivo e naturale ma dipendono dalla cultura e dalla società in cui siamo immersi, dagli usi e dalle
abitudini della gente, dai gusti e dai disgusti, dai rapporti tra materiali e con oggetti e soggetti. In
definitiva, è solo entro una rete di relazioni significanti che le materie, pure virtualità di significazione,
assumono una forma e si fanno materiali, organizzandosi sulla base di differenze e opposizioni e,
collegandosi a certi contenuti, diventando luogo di investimento di valori.
2. Materiali in circolo
Affermare che le materie sono sempre sostanze, e dunque formalizzazioni materiali, comporta per la
semiotica oltrepassare il senso comune e l’evidenza fenomenologica per considerare i materiali come
veri e propri testi, dotati di una propria articolazione formale interna. Ricordando che per la semiotica
il testo è una costruzione teorica, un modello per l’analisi dei fenomeni di senso, diventa possibile
abbordare i materiali interrogandoli con gli strumenti elaborati dalla teoria e rintracciando così non solo
organizzazioni plastiche, fatte di contrasti sensibili e trasformazioni materiche, ma anche, ad esempio –
in una logica generativa e sulla base di precise pertinenze – meccanismi discorsivi, organizzazioni
narrative e passionali e articolazioni assiologiche. In altre parole, sostenere che i materiali possano esser
308
concepiti come oggetti testuali significa dichiararli oggetti di conoscenza e descrizione scientifica: su di
essi allora sarà possibile proiettare i tratti di chiusura, coerenza e coesione, molteplicità di livelli, etc.
Come le analisi di questo volume hanno dimostrato, indagare semioticamente la dimensione materica
della significazione può voler dire, a livello operativo, volgere il proprio sguardo analitico a costrutti
culturali di diverso tipo – oggetti, alimenti e bevande, pubblicità e media digitali, romanzi e libri, ricettari
e manuali, opere d’arte e film, pratiche e architetture, spazi e mappe, etc. – entro i quali la materia stessa
si dà come effetto di senso, esito di una serie di meccanismi e processi di produzione del senso. I lavori
qui presentati, nella loro eterogeneità, affrontando la questione della materia da angolazioni differenti,
mettono in luce come entità anche molto diverse tra loro contribuiscano a portare avanti un discorso
comune. Un discorso proferito non solo da quell’insieme di materiali che consideriamo testi, ma anche
da tutto un complesso di prodotti culturali di altra natura che, per così dire, parlano i materiali e che in
tal modo, a vario titolo, prendono parte alla costruzione di ciò che intendiamo e chiamiamo materia. Il
volume così interseca da una parte ciò che possiamo definire il discorso dei materiali – ossia il discorso
che i materiali stessi producono con gli oggetti del mondo attraverso cui si fanno manifestazione – e che
ha dato il titolo alla raccolta di saggi; dall’altra ciò che è possibile identificare come il discorso sui
materiali – ovverosia quello che ha i materiali come proprio argomento, più o meno esplicito, più o
meno consapevole, e che può assumere forme assai diverse. Due discorsi che si presuppongono
reciprocamente e i cui confini, come si può facilmente immaginare, non sono mai così netti, finendo
spesso per diventare la medesima cosa.
Ma ciò che forse ancora di più emerge dall’insieme di questi saggi è la natura dinamica e processuale,
pervasiva e traduttiva che un tema discorsivo come quello della materia e dei materiali può acquisire.
Dal punto di vista discorsivo, materie e materiali, lungi dall’essere entità statiche e stabili, sono unità
semantiche in continuo mutamento e trasformazione, flussi di senso che variano, si muovono, si
convertono e si traducono e, traducendosi, cambiano faccia e assumono sembianze di volta in volta
diverse a partire dalle varie configurazioni testuali che danno loro corpo e dai vari discorsi entro i quali
si collocano e che ne ridisegnano i profili. D’altra parte, come sappiamo, il discorso stesso è un processo
che entra in relazione con altri discorsi con cui si incrocia e si ibrida (cfr. Marrone 2001, 2010). Così,
non stupisce affatto che in questo numero, nel tentativo di intercettare semioticamente la materia, non
solo siano state prese di mira forme testuali fondate su sostanze espressive diverse, ma che inoltre questo
eteroclito insieme di testi, pur parlando di materiali ed essendo dai materiali parlato, attraversi discorsi
sociali d’altro tipo. Il discorso dei e sui materiali, in altre parole, si avviluppa e si intreccia col discorso
storico, economico, politico, ecologico, turistico, enogastronomico, pubblicitario, artistico, religioso,
mediale, etc. che al contempo alimenta e da cui è alimentato. Guardando in controluce i contributi che
compongono il volume, quel che si vede è allora una catena interdiscorsiva che mette in collegamento
oggetti, pratiche e immaginari che circolano nella semiosfera, complesso e frammentario serbatoio di
senso in cui materie e materiali trovano posto e migrano da un discorso a un altro.
3. Relazioni materiche
Il discorso dei e sui materiali risulta dunque quasi un campo trasversale, ma non per questo laterale,
che riunisce oggetti culturali differenti e richiama attorno a sé formazioni discorsive difformi. Le
esplorazioni svolte in questo volume mettono in evidenza, d’altro canto, come vi sia una dimensione
elementale, materica della significazione che investe l’esperienza umana e sociale a tutto tondo. Ciò ha
comportato la messa in campo di modelli teorici e di analisi eterogenei, l’impiego di prospettive diverse
e l’impegno di differenti branche della semiotica – dalla sociosemiotica alla semiotica interpretativa
passando per la semiotica della cultura e l’etnosemiotica – ma anche di discipline altre, più o meno
vicine – come l’architettura o la filosofia del linguaggio.
309
Le riflessioni condotte, sebbene svolte sulla base di domande di ricerca di volta in volta specifiche,
hanno avuto come obiettivo principale quello di indagare la dimensione culturale e sociale dei materiali
nel tentativo di mettere in luce il ruolo da essi giocato nei meccanismi di significazione e organizzazione
del senso. Riflessioni che non guardano né alla sola teoria né alla sola analisi ma che mettono in moto
quel circolo virtuoso che consente alla semiotica di osservare il mondo e tornare su sé stessa. Da qui la
possibilità di individuare, a dispetto dell’eterogeneità dei contributi, alcuni orientamenti comuni che
ribadiscono certi postulati semiotici e che possono venire a configurarsi come alcune possibili direzioni
di una ricerca ancora tutt’altro che conchiusa.
Abbiamo già sottolineato come il senso dei materiali si dia sempre per differenza, di modo che, seguendo
il dettame epistemologico strutturalista, le relazioni siano primarie mentre gli elementi – è il caso di dirlo
– siano secondari. È l’instaurazione di una differenza tra le cose a renderle percepibili e dunque significanti,
e ciò diventa ancora più vero se pensiamo proprio ai materiali come sostanze dell’espressione. Se la
significazione si manifesta a partire dalle sostanze del mondo in cui l’uomo è immerso, richiamando il suo
apparato sensoriale (Greimas 1968), il compito del semiologo, dinnanzi ai materiali con i loro caratteri
sensibili, è quello di passare dalla semplice percezione di una differenza mediante i sensi alla precisa
identificazione di una serie di relazioni significanti. Fermo restando che la percezione sensoriale,
l’esperienza estesica non sono attività originarie che, per così dire, stanno prima di ogni possibile
significazione ma rientrano nelle condizioni immanenti del senso (Greimas 1987). Il sensibile, come ha
evidenziato anche Floch lavorando sulla fotografia e il visivo (1986, 1995), non è separato dall’intelligibile
e la predilezione per l’uno o per l’altro non ha alcuna ragion d’essere: il sensibile è già intelligibile e, al
contempo, l’intelligibile è già sensibile, essendo l’una e l’altra due facce della stessa medaglia.
Con la materialità quindi si apre anche il vasto campo della sensibilità e di una semiotica del sensibile
(cfr. Bertrand), entro le quali diventa pertinente interrogarsi sulla relazione tra materialità differenti. C’è,
in altre parole, una sensibilità costitutiva dei materiali che emerge nel momento in cui essi entrano in
rapporto tra loro. Non si tratta solo di un problema di accostamento o abbinamento ma di vero e proprio
di contatto, fatto di aderenze e giunture, frizioni e rotture, che interessa i materiali nelle loro interazioni
intra- ed extra-oggettuali. Negli oggetti, d’altra parte, è raro trovare un singolo materiale. Molto più
spesso essi sono composti da un complesso di materiali che, come nel caso delle sedute razionaliste,
costruiscono come dei sintagmi (quello della Chaise longe di Le Corbusier potrebbe essere sintetizzata
nella formula “acciaio + écru + pelle + poliuretano”). Diventa dunque essenziale vedere come le parti si
adattano o meno tra loro e nell’insieme dell’oggetto, in che modo la sensibilità dell’uno o dell’altro
materiale produce determinati effetti, ancor di più nel momento in cui, come nei binari ferroviari
analizzati da Bertrand, la materia è in movimento. Lo stesso vale per le relazioni extra-oggettuali che si
svolgono attraverso catene interoggettive e intersoggettive. Ad esempio, nel caso dei cocktail analizzato
da Giannitrapani la materialità degli oggetti e i loro caratteri sensibili svolgono un ruolo di primordine
nella preparazione del miscuglio, chiamando in causa inoltre un soggetto operatore – il bartender – a
cui è richiesta una competenza non solo tecnica ma anche e in primo luogo estesica, sensibile. Al
contempo, il contatto tra materialità diverse può dar luogo a trasformazioni che ridefiniscono le identità
dei materiali stessi. Nel caso del legno, ricorda Giannitrapani, c’è tutto un problema di memoria olfattiva
rilevante soprattutto in ambito culinario, dove i materiali di cui si compongono strumenti e oggetti,
entrando in relazione con gli ingredienti, possono subire delle alterazioni e, così facendo, produrne a
loro volta delle altre, con il rischio di mandare all’aria la ricetta. Scegliere l’oggetto giusto e il materiale
giusto, preferendo ad esempio nel caso del pestello per gli aromi l’acciaio al legno, ma anche, più in
generale, convocare le sensibilità dei corpi e degli oggetti, e quindi dei materiali di cui sono fatti, diventa
decisivo per la riuscita del cocktail.
Le qualità sensibili dei materiali hanno dunque un’influenza tanto nei rapporti tra materie entro il
medesimo oggetto, quanto nei rapporti con e tra oggetti e soggetti, artefatti e corpi. Emblematico ed
estremo è il caso delle protesi in cui materiali inorganici si trovano a integrarsi se non addirittura a
fondersi col materiale organico del corpo umano (cfr. Piluso, Pelusi). Dagli apparecchi odontoiatrici,
310
alle protesi ortopediche o cardiovascolari sino a quelle articolari, passando per gli impianti cocleari,
oggetti e tecnologie con le loro materialità, realizzandosi come protensioni sensoriali, arrivano a
modificare la stessa percezione. Ma non sempre le integrazioni di materiali altri hanno buon esito e
molto più spesso di quanto pensiamo il corpo li rifiuta, richiedendo a professionalità diverse, dagli
artigiani ai medici, di trovare la giusta combinazione. Da questi pochi esempi si vede insomma come
l’intermatericità rappresenti una condizione costitutiva dei materiali stessi che pone una serie di quesiti
a cui la scienza della significazione può provare a dar risposta. Esiste o meno un confine materiale tra
materiali differenti? tale confine è determinato dalla forma oggettuale che essi assumono, dalle loro
funzioni o dalle situazioni in cui si trovano ad operare? come vengono a configurarsi queste relazioni,
ora contrattuali, ora conflittuali, che i materiali intrattengono tra loro? quali sensibilità sono messe in
gioco? quali i principi che li rendono possibili? esistono dei legami prescritti e altri vietati, delle gerarchie,
una grammatica dei sintagmi materiali? In altre parole, secondo quali logiche i materiali si accoppiano
tra loro per formare configurazioni materiche più vaste? Ancora: in che modo i materiali, interagendo
tra loro, provocano trasformazioni? e tali trasformazioni a quali criteri sono sottoposti?
Le discipline semiotiche hanno tutti gli strumenti per affrontare queste questioni. Lo studio delle qualità
o proprietà dei materiali, delle loro reazioni e interazioni, così come delle trasformazioni a cui danno
adito può essere pienamente sviluppato nell’ambito di una semiotica narrativa, passionale e discorsiva,
come molti dei contribuiti qui presentati hanno mostrato. Materiali o combinazioni tra questi a livello
semio-narrativo possono essere infatti concepiti come attanti, entità astratte e formali che si differenziano
dalle figure del mondo che li prendono in carico. In conformità con uno dei presupposti della semiotica
narrativa per la quale la distinzione tra umano e non-umano, animato e inanimato, non ha alcuna ragion
d’essere, dei materiali siamo in grado di individuare il carattere agentivo e performativo considerandoli
come soggettività al pari dei soggetti umani, attanti che fanno e fanno fare entro una precisa cornice
narrativa. Basti pensare a un materiale conduttore come il rame a cui abbiamo delegato l’ardua impresa
di connetterci e illuminare le nostre città. Oppure ancora a un materiale come la lana, che avvolge i
nostri corpi da tempo immemore per proteggendoci dai rigidi inverni ma a cui abbiamo affidato
anche il compito di isolare termo-acusticamente le nostre case, ponendo sottili materassi di lana sotto
il parquet o tra le pareti.
Soggetti attivi, i materiali non solo agiscono ma permettono o impediscono, incoraggiano o dissuadono
dal compiere certe azioni, mettendo in moto tutta una serie di manovre di manipolazione che hanno
spesso ricadute passionali. Come non pensare al vetro che con la sua trasparenza è in grado di istallare
un soggetto modalizzato secondo il poter-vedere e di costruire al contempo un oggetto di visione dotato
di un poter-esser-visto, realizzando tra i due una congiunzione visiva ma impedendo a conti fatti una
congiunzione somatico-tattile (Hammad 2003)? Ma questo materiale fa di più: nello scarto tra poter-
vedere e non-poter-toccare, il vetro dà luogo alla configurazione della promessa, prospettando al
soggetto la futura congiunzione somatico-tattile con l’oggetto di visione. Ed è facile immaginare, a partire
da qui, il dispiegarsi di tutta una serie di sviluppi narrativi e passionali che il vetro può generare nel
momento in cui, ad esempio, la promessa viene infranta o esso diviene dispositivo scopico che consente
di acquisire un poter-sapere entro un percorso passionale come quello della gelosia.
I materiali dunque possono assurgere a differenti ruoli attanziali, vestendo ora i panni del Soggetto, ora
quelli del Destinante, ma anche quelli di Antisoggetto, Aiutante o Opponente, ed essere coinvolti a
vario titolo tanto in programmi d’azione quanto in processi passionali. Si è visto bene, ad esempio, nel
lavoro di Costanzo in cui i materiali impiegati nella lotta allo sporco, quel processo di trasformazione
della materia che da uno stato disforico di sporcizia conduce a uno stato euforico di pulizia, assumono
volta per volta all’interno di precise situazioni narrative una particolare funzione. In questo caso, il
contatto tra materialità differenti – da una parte la macchia, l’unto e l’incrostato, e dall’altra le polveri e
i saponi detergenti – dà luogo a vere e proprie trasformazioni materiche (Bastide 1987), processi che
possono esser figurativizzati in vario modo e manifestarsi a livello espressivo in maniere differenti ma
che fanno capo a operazioni elementari di trasformazione di stati che una grammatica narrativa è in
311
grado di rendere intelligibili. All’interno di una teoria della narratività è allora possibile individuare ruoli
e strutture attanziali, modalizzazioni, programmi d’azione, stati e trasformazioni che consentono di
andare al di là dell’empiria degli oggetti e dei materiali per ritrovarne la forma.
A livello discorsivo invece sembra possibile in primo luogo ragionare sulle marche dell’enunciazione
che i materiali portano inscritte, tracce che da una parte fanno capo all’istanza di creazione, ovvero
l’enunciatore, e dall’altra a quella di ricezione, ossia il suo enunciatario. Come ogni enunciato
presuppone un soggetto enunciatore che l’ha prodotto e un soggetto enunciatario a cui è rivolto, allo
stesso modo, ogni materiale presuppone al suo interno un produttore e un utilizzatore impliciti. Laddove
le marche dell’enunciazione funzionano come “istruzione per l’uso” dei materiali, si apre, è chiaro, la
questione degli usi effettivi dei materiali che possono rivelare uno scarto tra ciò che era stato pianificato
a monte e l’utilizzo concreto che di quel dato materiale viene fatto a valle. Il loro uso produttivo, come
la risematizzazione degli stessi e le operazioni di bricolage, può esser identificato come un atto di ri-
enunciazione dei materiali che da singolo e individuale, puro fatto di parole, può sedimentarsi fino a
istituzionalizzarsi secondo il meccanismo della prassi enunciativa. Ancora, a tale livello, dove si interseca
la teoria dell’enunciazione e l’allestimento figurativo dei testi, diventa interessante lavorare sugli effetti
di matericità e, di conseguenza, di realtà che vengono prodotti e ricercati nel momento in cui la materia
viene tradotta da un linguaggio a un altro (cfr. ad esempio Ceriani; Abdala Moreira; Costanzo). Come
restituire consistenze e texture? come tradurre la morbidezza, l’elasticità o la ruvidità di un materiale,
poniamo, in formato digitale? come fare in modo che l’enunciatario possa creder-vero, quali strategie
mettere in campo?
Ragionare intorno a materie e materiali ci costringe a guardare qualcosa a cui di solito non prestiamo
attenzione, forse perché ritenuta troppo ovvia e banale. Le riflessioni condotte in questo volume
mostrano come indagare la dimensione materica della significazione sia imprescindibile per una
semiotica che si voglia scienza dei meccanismi e dei processi di articolazione del senso umano e sociale.
Non è possibile indagare semioticamente spazialità, gastronomia, letteratura, religione, arte, architettura,
politica, mondo digitale, pratiche e design senza volgere lo sguardo alle costruzioni materiche. Esse
hanno, al di sotto della patana di evidenza che le ricopre, un valore rilevante nelle nostre vite: assumono
significati sociali e culturali, influenzano la formazione delle identità collettive e individuali, sottendono
visioni del mondo. Le riflessioni intorno ai materiali possono dunque considerarsi come l’estensione e
il coronamento di una semiotica che si interessa al design e agli oggetti quotidiani, ma anche al cibo e
all’architettura, alle arti e al digitale, alla storia e alla politica, alle mitologie e alle pratiche. Una semiotica
che si mette alla prova e, osservando il mondo, riflette su sé stessa.
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] | Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok
Maddalena Sanfilippo
Abstract. In this paper, we discuss about the phenomenon of intersemiotic translation of recipe genre within digital
media, with specific reference to audiovisual content produced by food influencers in social media. After
examining studies on the semiotics of taste in relation to recipe and the relationship between the Internet and
cuisine, we focus on the analysis of a group of social video-recipes. The objective is to understand, through a socio-
semiotic comparative analysis, the dialogue between the language of digital media and the culinary system, aiming
to identify the mechanisms of signification that characterize this part of contemporary gastronomic discourse.
1. Introduzione
“È solo parte del menù. Fa parte dello spettacolo. Questo è ciò per cui state pagando. Questa è
un’esperienza esclusiva. Vi prego, tornate ai vostri posti”
Lo chef stellato Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, nel recente film The Menu (Mylod,
2022), liquida così il suicidio, da lui stesso indotto, di un aspirante chef della sua brigata, troppo poco
talentuoso per vivere la vita di uno chef di alto livello. E fra grida, scompiglio, stupore e assurdo
compiacimento per il privilegio di poter far parte di questo spettacolo gastronomico, i “poveri” ospiti
del ristorante esclusivo nell’isola dispersa di Hawthorn tornano ai loro posti. Le parole dello chef
colpiscono e allo stesso tempo rassicurano, probabilmente perché dicono quello che i commensali
vogliono sentirsi dire, facendo leva sugli aspetti che sembrano caratterizzare maggiormente il
panorama mediatico culinario: intrattenimento, performance, esperienza, spettacolo.
Nelle pagine che seguono ci soffermeremo sul fenomeno della traduzione intersemiotica del genere
testuale della ricetta all’interno dei mezzi di comunicazione digitale, con specifico riferimento ai
contenuti audiovisivi prodotti dai food influencer nei social media, in cui gli aspetti legati
all’entertainment e alla spettacolarizzazione dell’universo gastronomico sembrano essere oggi
maggiormente pervasivi. Grazie a un’analisi sociosemiotica comparativa approfondiremo il dialogo
fra il linguaggio dei media digitali e il sistema culinario, cercando di rintracciare quei meccanismi di
significazione che caratterizzano questa composita porzione del più ampio discorso gastronomico
contemporaneo, partendo dagli aspetti superficiali (inquadrature, tempi, montaggio, comportamenti
degli attori coinvolti nei racconti culinari) e scendendo verso le strutture significative più profonde
(organizzazione narrativa, valori culinari).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
2. La natura semiotica della ricetta
Di ricette e ricettari, di cucina e media, della relazione fra linguaggio e cibo, del valore culturale e
semiotico del sistema culinario, si è ampiamente occupata la semiotica del gusto negli ultimi anni. Grazie
a numerosi studi1 è stata dimostrata la natura intrinsecamente semiotica del cibo, il suo essere linguaggio
per raccontarsi, parlare con gli altri, produrre significazione. A ben vedere, però, non c’è un linguaggio
del cibo, ma un più ampio discorso gastronomico costituito da “entità linguistiche come da forme
d’azione e di passione, di testi che parlano di altri testi, di metatesti che discutono di piatti, rituali,
cerimoniali, pose più o meno caricaturali, saperi taciti e sapori dichiarati, assetti disciplinari, letture e
scritture, assunti etici, poetiche ed estetiche, sistemi di senso, pacchetti di valori” (Marrone 2022, p. 9).
Il sistema alimentare può essere pensato come una semiosfera, un insieme di testi e linguaggi, di processi
e azioni, di rimandi continui che partecipano alla formazione e alla trasformazione delle entità che
compongono il discorso gastronomico, il quale si configura a partire da processi traduttivi. Ragionare
dunque sul genere testuale della ricetta, sulla sua evoluzione, significa ricostruire tutti quei meccanismi
di funzionamento discorsivo, ricercare le condizioni di possibilità, i processi di significazione nonché
tornare a riflettere sulle lazioni fra pratiche culinarie e linguaggio, fra cibo e mondo.
La ricetta in quanto testo culinario, dal punto di vista semiotico, è un’unità di senso variabile e dotata di
una struttura organizzativa interna che va a determinare il senso di un’esperienza gastronomica
(Mangano 2022, p. 293). Come sappiamo, le ricette di cucina sono soggette a reinterpretazioni continue,
agiscono alla stessa stregua di spartiti musicali, come massime da poter seguire per l’esecuzione del
piatto. È in questo senso che la cucina può essere definita, riprendendo Goodman (1968), come un’arte
allografica. Un testo che per sua natura si evolve, attraversando generi testuali, linguaggi, stili discorsivi,
epoche, tendenze, mode (Marrone 2016). Dal ricettario tradizionale al giornale, alla radio, al cinema,
alla televisione, ai siti internet, ai blog, ai video-tutorial, ai social media. Da Il Talismano della felicità di
Ada Boni, a Cotto e mangiato di Benedetta Parodi, a Masterchef, al Pranzo di Babette, a Giallo zafferano,
a Benedetta Rossi fino ai più recenti food influencer, attori sociali che abitano gli universi della rete di
Instagram e Tik Tok. La ricetta è un genere che cambia, senza forse cambiare davvero. In questo
processo di rinascita continua mutano i sistemi di valori, cambiano le strutture manifeste, ma allo stesso
tempo si riscontra la resistenza di alcuni tratti invarianti dell’articolazione interna del testo in questione.
Appare dunque centrale nel discorso sui ricettari, il fenomeno della traduzione, comunicare la cucina
significa tradurre da un linguaggio, quello orale per esempio, a un altro linguaggio, quello scritto, ma
anche quello audiovisivo etc.
Trascrizioni del saper-fare delle mani tramandate oralmente, le ricette di cucina si scontrano da sempre
con l’impossibilità di tradurre perfettamente la gestualità sapiente delle operazioni culinarie. Vi è un
inevitabile divario fra il linguaggio delle istruzioni e il corpo, fra le procedure e le azioni fisiche, fra la
scrittura e il fare delle mani (Sennett 2008). La forma testuale della ricetta, nell’attualizzare un saper-fare,
pone per definizione il problema dello scarto di conoscenze pregresse fra l’enunciatore e l’enunciatario.
È un testo istruttorio che diventa luogo di negoziazione fra due tipi di conoscenza, quella di chi scrive,
teoricamente competente, e quella di chi legge una pagina o guarda un video, che si presuppone poco
preparato. Ogni forma testuale della ricetta ipotizza quindi un contratto tacito fra i due soggetti del
discorso, che negoziano il detto e il non detto, l’esplicito e l’implicito, dando vita a differenti patti
comunicativi (Marrone 2014, p. 29). Arriviamo così ad affrontare un altro aspetto costitutivo della ricetta,
ovvero il suo essere, in quanto testo prescrittivo, intrinsecamente narrativo. Come per i racconti, la prassi
culinaria è una messinscena di azioni di soggetti umani e non umani, che trasformano ingredienti, che
modificano oggetti all’interno di cornici temporali e di inscatolamenti di programmi narrativi (Greimas
1983). Emerge così la natura performativa del testo di cucina, trascrizione di un fare pregresso, esibizione
1
v. Barthes (1961); Greimas (1983); Bastide (1987); Fontanille (2006); Marrone, Giannitrapani (a cura, 2012); Marrone
(a cura, 2014); (Marrone 2013, 2014, 2016, 2019, 2022); Giannitrapani (a cura, 2021); Giannitrapani, Puca (a cura, 2020).
315
di un fare gastronomico di un soggetto operatore. La ricetta è per definizione un testo sfuggente, aperto,
frammentato, imperfetto, sempre correggibile, mai definitivo (Capatti 2020). È un testo che mette in
scena un fare, fin dalle sue prime apparizioni trascritte in prosa o in versi, in radio o in televisione, al
cinema o in rete. Il cuciniere è innanzitutto un attore del fare gastronomico e la ricetta è un copione da
interpretare ed eseguire all’interno di una cornice che, sia nei media tradizionali che nei nuovi mezzi
digitali richiama irrimediabilmente quella dello spettacolo, del divertimento, e più in generale del
macrogenere dell’entrateinment, il quale ha come scopo primario far divertire il pubblico assumendo
forme diverse: talk show, game show, reality, e oggi reel e tik tok (Giannitrapani 2014).
3. La rete e le forme brevi della ricetta
Di cibo su Internet se n’è parlato sin dagli albori, ma è con l’avvento del web 2.0 che si è assistito
all’esplosione dei blog culinari2, alla crescita di materiale audiovisivo fatto di video-ricette e reportage
fotografici, e alla degenerazione mediatica delle pratiche di food porn. Ciò ha comportato un
ampliamento dell’immaginario culturale legato al cibo. I social media, di fatto, “ci hanno resi tutti registi,
conduttori, operatori, attori, desiderosi di comunicare attraverso un linguaggio un tempo riservato a
specialisti [...]” (Mangano 2013, p. 213). I blog, invece, hanno reso eroi intermediali (Marrone 2003)
autori di culto e non, generando schiere di lettori, pronti a seguire il proprio beniamino ovunque: in
rete, in libreria, e in giro per i festival di cucina (Mangiapane 2014). Il risultato di questo fenomeno, che
Marrone (2014) ha definito gastromania, è stato un delirio culinario, un megatrend che ha raggiunto il
suo apice con l’Expo del 2015. Uno scenario ghiotto di aspiranti chef, tutorial, video, post, foto,
recensioni, e soprattutto backstage, alla scoperta dei segreti delle ricette più famose.
In questo panorama variopinto, e grazie alla diffusione e all’intreccio di nuovi mezzi di comunicazione
digitale, il video sembra essersi affermato come il linguaggio della contemporaneità, ideale per
raccontare l’esperienza alimentare e tradurre il genere testuale della ricetta.
Negli ultimi anni, la comunicazione enogastronomica su Internet e nei social media non è scomparsa,
si è, al contrario, evoluta insieme alle piattaforme digitali, interiorizzandone le trasformazioni, sempre
più repentine e confermando il sodalizio intrinseco fra cibo, media e rete. Lo abbiamo osservato nel
corso del 2020, nei mesi della pandemia del Covid-19, in cui la gastromania è tornata alla ribalta, a far
parlare di sé, a scandire i tempi delle giornate, a saturare i feed dei social network. La quarantena,
dunque, non ha trovato impreparata la produzione dell’intrattenimento digitale, come neanche
l’industria alimentare. Adepti, vecchi e nuovi, della loggia culinaria della rete hanno dato avvio a una
nuova ondata, fatta di panificazioni lunghe, preparazioni di gnocchi, tagliatelle, pizze soffici o croccanti,
esperimenti, farine, lieviti. Tutto ciò ha risvegliato il web, battezzando Tik Tok come il social del
momento, “il posto dove oggi accadono le cose” (Marino 2023, p. 77).
Parlare, quindi, di cibo oggi significa interrogare social network come Instagram e Tik Tok, capaci di
catalizzare l’attenzione di ampie fasce di popolazione, rispondendo a logiche complesse e non ovvie. I
social media sono spazi virtuali abitati dalla contemporaneità, in cui si costruiscono regimi identitari, in
cui si interagisce e si definiscono legami sociali e politici. Nuovi sistemi linguistici, culturali, oggetti da
analizzare per mettere in risalto le peculiarità delle forme politiche e sociali presenti in rete. Luoghi che
riflettono la società, influenzandola al contempo.
Instagram e Tik Tok, come anche Facebook, YouTube e così via, non sono delle bolle chiuse e
circoscritte. I loro linguaggi interni, i loro contenuti mediali circolano nella semiosfera, fuoriescono dai
confini, viaggiano nella rete e negli altri medium, dalla televisione, alla radio e ai giornali, influenzandosi,
inevitabilmente a vicenda. Essendo immersi, inoltre, in un ecosistema transmediale, si integrano
reciprocamente, dando vita a incastri di senso, narrazioni disperse in modo sistematico, esperienze
2
Per un approfondimento sui blog culinari cfr. Mangiapane (2014, 2018).
316
digitali unificate nella loro frammentarietà. L’utente social rimbalza dal video breve su Tik Tok a quello
completo su YouTube, dal post di presentazione su Instagram al sito web per l’acquisto di una master
class. Così, ininterrottamente. Salti continui, fatti di click e scroll, che conducono incessantemente avanti,
allo step successivo.
In questo flusso inarrestabile, di foto, sorrisi, suoni, aperitivi, è il video il contenuto mediale
maggiormente pervasivo, quello che più di selfie e tramonti catalizza l’attenzione degli utenti online.
L’audiovisivo, lo abbiamo detto, è il linguaggio dell’oggi. Lo si è visto con la diffusione dei tutorial, con
la scalata degli youtuber, con le IG stories, le dirette Facebook, le clip di Tik Tok e i reel di Instagram.
Le piattaforme si sono evolute e ne sono arrivate di nuove, che hanno dato ancora maggiore spazio alla
componente audiovisiva, risemantizzandola al proprio interno. Le video-ricette su Instagram e Tik Tok
sono distanti dai primissimi video-tutorial di YouTube. La prima differenza sostanziale rispetto al passato
è legata alla durata dei video-clip, oggi sempre più brevi, condensati in pochissimi minuti se non secondi.
In secondo luogo, a mutare è il ritmo che emerge dal montaggio, molto spesso accelerato. Sebbene
siano clip di durata molto breve, si prestano perfettamente a raccontare l’alimentazione, così come oggi
viene percepita a livello culturale e sociale, dentro e fuori lo schermo dello smartphone.
Per tale ragione si è deciso di soffermare lo sguardo sui contenuti audiovisivi, cercando di superare una
loro visione semplicistica e ingenua, dal momento che risultano essere forme brevi di comunicazione
che rispondono a logiche tutt’altro che scontate, che mostrano la complessità strutturale dei testi in
questione (Peverini 2012). In un testo audiovisivo i movimenti di macchina, l’uso della colonna sonora,
la diversa articolazione dei punti di vista, e infine il montaggio, assumono un ruolo decisivo nella
costruzione del senso complessivo dell’opera e costituiscono un oggetto di studio (Peverini 2012).
I contenuti audiovisivi che si osserveranno sono testi rapidi, di pochi secondi o minuti. Sono forme brevi
(Pezzini, a cura, 2002) che, al pari degli spot o dei trailer, vengono confezionate con cura dal punto di
vista comunicativo. Sono testi brevi e densi, capaci di intrecciare, grazie alla loro struttura ritmica e alle
scelte stilistiche, diversi livelli di significazione. Come scrive infatti Pezzini (2002), in questi casi, la
questione dell’estensione del testo sul piano dell’espressione va intrecciata con l’intensità, la forza,
l’energia e la passione messa in scena dal testo stesso, poiché “uno stesso breve tempo, una stessa
estensione si può riempire secondo strategie e intensità differenti” (p. 18). In quanto prodotti audiovisivi
di breve durata, appare particolarmente centrale l’organizzazione del tempo delle azioni messe in scena
sia in relazione all’aspettualizzazione, ma soprattutto, come vedremo, in riferimento all’agogia, ovvero
alle variazioni di movimento delle operazioni da svolgere: lentamente o rapidamente, frenando o
accelerando. Questo ci porta a riflettere anche sulla questione del ritmo, il cui andamento non è altro
che il risultato percettivo, l’effetto di senso, scaturito da una organizzazione complessa sul piano
dell’espressione che, a livello discorsivo, intreccia tempi, spazi e attori, ma anche temi e figure.
Riprendendo quanto scrive Ceriani (2003, pp. 102-103) possiamo infatti definire il ritmo come un
sistema, “una struttura composta di correlazioni differenziali: in quanto tale, esso rappresenta un codice,
e quindi una regola, un meccanismo di trasformazione responsabile, che si può riconoscere sia a livello
dell’espressione sia a livello del contenuto […]”.
4. I social e l’expertise culinaria
“Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori, non avere paura, ma soprattutto divertiti”.
Le parole di Julia Child – cuoca, scrittrice e personaggio televisivo statunitense – sembrano sintetizzare
perfettamente la strada che l’arte culinaria percorre ormai da qualche anno all’interno dell’arena digitale
dei social media. Nel reticolo della rete social quasi nessun food creator vanta più la sua expertise
gastronomica, pochissimi a oggi si definiscono esperti. Tutti, invece, sono appassionati, amatori, cultori di
cibo e social, di cucina e tecnologie. Ma soprattutto, tantissimi cucinano perché hanno il desidero di
assaporare e mangiare (finalmente!) un piatto che li soddisfi, a livello estetico, nutrizionale, etico e, a detta
317
loro, gustativo. Sembra che su Instagram e Tik Tok si cucini quindi per assaporare, provare, condividere
storie, intrattenere, creare engagement, divertirsi, costruire community, quasi mai per istruire.
Dove sono finiti allora gli esperti culinari della rete (blogger e youtuber) a cui l’esplosione mediatica ci
aveva abituati? Forse sono diventati gli “snob” del web, come li ha definiti Benedetta Rossi, una delle
food creator più seguite d’Italia, in un suo recente sfogo contro i suddetti esperti gastronomici3, dai quali,
esplicitamente, lei prende le distanze in difesa dei propri follower, gente comune e semplice, che non
può permettersi cibi sofisticati perché costretta a farsi i conti in tasca al supermercato. Ma c’è di più.
L’influencer afferma con vigore la sua totale mancanza di competenze nel settore culinario, che l’ha resa
famosa. Dichiara la sua incapacità di cucinare, il suo non-saper fare, il non voler impartire insegnamenti,
la sua totale assenza di expertise, a differenza degli chef, ai quali si oppone. Tutto torna al suo posto,
ricostruendo un nuovo equilibrio, con un ordine chiaro e preciso, quando Benedetta asserisce che il suo
unico volere è quello di “condividere” ciò che nella vita di tutti i giorni le “viene bene”, sperando che
possa essere utile a qualcuno. È così che la star culinaria della rete vince la sua battaglia contro i colleghi
“snob”, giocando la sua partita su un terreno che, ovviamente, conosce molto bene, ovvero quello dei
social media, e si appella a ciò che questi ultimi sono sempre stati: spazi di socializzazione, che nulla di
per sé hanno a che spartire con la formazione culinaria di alto livello o con l’esibizione di maestrie da
chef stellati. Luoghi in cui risulta fondamentale la condivisione, il contatto, l’interazione, tutto ciò che
rimanda a una comunicazione fàtica, orientata al canale, alle tecnologie e ai media adoperati per creare
o mantenere contatto fra gli interlocutori (Marrone 2017). Una comunicazione in cui parlare “non serve
dunque a trasmettere informazioni o a esprimere pensieri, e nemmeno a manifestare emozioni; svolge
tuttavia un fortissimo ruolo antropologico, quello, diciamo così, fondamentale di istituire la socialità, di
foraggiare il legame sociale” (ibidem, p. 3).
Ritornando alla figura dell’esperto, sembra si stia assistendo a un’inversione di marcia nell’ampio
dibattito sulla competenza dei soggetti. Come scrive Marrone (2020) “Mai come oggi l’esperto, il
competente, il navigato conoscitore di uomini e cose è sotto i riflettori della cronaca, protagonista
indiscusso, ma anche antagonista acclamato, del discorso dei media, e dunque, per proprietà transitiva,
della vita di tutti noi, tanto sociale quanto individuale” (p. 7). Osservando social media e blog, si riscontra
la presenza di una relazione spesso conflittuale fra chi cucina e una parte del pubblico che giudica
negativamente le ricette proposte. Molti food creator si ritrovano spesso a motivare le scelte degli
ingredienti, a giustificare la loro scarsa abilità tecnica e a marcare il loro essere appassionati di cucina e
non cuochi professionisti. Altri, invece, si impegnano a criticare aspramente il fare culinario altrui,
disprezzando ricette, alimenti e gusto. Questi ultimi, valorizzando fortemente la loro expertise culinaria,
si configurano come esperti del settore, opponendosi a tutti coloro che si approcciano alla cucina per
diletto. Sembra quindi emergere, da un lato, la figura del food creator dilettante, che ama condividere
la sua passione con la propria community, e dall’altra quella dell’esperto/critico gastronomico.
5. Le forme della ricetta social
Il discorso gastronomico nei social media è caratterizzato da un fluire costante di immagini in
movimento, di colori, suoni, parole, sussurri, storie, sbattitori che montano instancabilmente, piatti che
splendono, arnesi antichi e moderni, carni pregiate del Nebraska, che dopo tanta strada vengono gettate
ferocemente, prima, su taglieri lucenti, che diventano podi da esibizione, e poi su padelle ardenti, per
conferirgli il giusto onore. Un organismo interconnesso, transmediale, in cui le pratiche di utilizzo si
differenziamo da un social all’altro, anche per i fruitori che interagiscono, e dove risultano essere
fondamentali le scelte stilistiche e identitarie dei produttori.
3
www.instagram.com/reel/Cr6Tf-cgFUE/, consultato il 06/05/2023.
318
Dopo aver guardato, in modo trasversale, numerosi profili social di content creator del settore food
presenti nelle differenti piattaforme digitali (Pinterest, Facebook, Twich, Twitter, YouTube, Instagram e
Tik Tok), ci si è resi conto che i cambiamenti odierni relativi al testo gastronomico della ricetta, risultano
di forte rilevanza soprattutto su Instagram e Tik Tok. Il corpus d’analisi selezionato è composto da casi
di particolare successo, che si richiamano a vicenda, dai quali emerge una rete di analogie e differenze
di tipo strutturale.
Uno dei modi in cui si può analizzare l’articolazione del testo ricetta è l’osservazione della sua struttura
narrativa attraverso il modello dello schema narrativo canonico. Osservando i racconti delle video-ricette
prese in considerazione, si è notato come non tutte le fasi del percorso canonico risultano sempre
presenti e come spesso alcune fasi siano maggiormente dominanti rispetto ad altre. In alcune ricette, per
esempio, predomina il momento della manipolazione, in altre quello della competenza, in moltissime
prevale la performance, e in altre ancora la sanzione. Occorre precisare che i tratti distintivi delle quattro
funzioni convivono nelle diverse tipologie di ricette, ma seguono gerarchie di rilevanza variabili, che
lasciano emergere come pertinente ora una precisa fase narrativa ora un’altra, che sembra padroneggiare
rispetto alle altre. Il concetto di dominante, a cui qui stiamo facendo riferimento, è stato approfondito
da Jakobson (1963) in relazione alla prevalenza di alcune delle funzioni comunicative (emotiva, poetica,
conativa, metalinguistica, referenziale, fàtica) all’interno dei processi comunicativi. La dominante è “un
élément linguistique spécifique domine l’oeuvre dans sa totalité; il s’agit de façon impérative, irrécusable,
exerçant directement son influence sur les autres éléments” (Jakobson 1971, p. 77). Quel tratto centrale
di un testo che presiedendo e modificando gli elementi interni, assicura la coesione del testo stesso
(Marrone 2017).
Detto questo, riprendiamo quando elaborato da Calabrese e Volli (1979), poi riadattato da Marrone
(1998) in riferimento all’articolazione narrativa delle notizie dei telegiornali, e proviamo a individuare
quattro tipologie di ricetta social:
1. virtuale, in cui domina l’aspetto manipolativo del racconto messo in scena dal food creator;
2. potenziale, in cui a prevalere è la competenza culinaria da trasmettere allo spettatore;
3. performativa, in cui predomina la performance del cuoco;
4. cerimoniale, in cui emerge fortemente il giudizio del fare culinario altrui.
Vediamo nel dettaglio come si manifesta questa organizzazione narrativa.
5.1. Ricetta virtuale
Come trasporre sullo schermo di uno smartphone i ricordi della nonna, le tradizioni di famiglia e le
esperienze personali? Valeria Raciti4, vincitrice dell’ottava edizione di Masterchef Italia, sceglie di farlo
all’interno di una cornice narrativa, in cui l’esecuzione della ricetta diventa parte di un racconto che
attrae lo spettatore, dotandolo di un voler-sentire e voler-vedere. L’enunciatore mette in scena un fare
semplice, tendenzialmente casalingo, in cui le pietanze realizzate evocano la tradizione. Le storie
raccontate da Valeria donano alla ricetta un valore aggiunto, un’anima, una vita, proiettando lo
spettatore fuori dalla sua dimensione quotidiana.
La ricetta trascritta trova spazio al di fuori dei contenuti audiovisivi, nelle poche righe della caption di
Instagram o della descrizione di Tik Tok. Tutte le video-ricette sono libere da voci descrittive fuori
campo che enunciano le fasi della preparazione, ma anche da sottotitoli e infografiche. Scorrono, invece,
lentamente le inquadrature in primissimo piano del cibo, il cui sfondo è caratterizzato da piccole porzioni
di ambiente casalingo (Figg. 1.1. - 1.2.). Si confeziona così un testo mediatico culinario in cui il tempo
dal punto di vista agogico procedere lento e il cui effetto di senso complessivo richiama eleganza,
4
www.instagram.com/valeria.raciti/, www.tiktok.com/@valeriaraciti.masterchef, consultati il 10/05/2023
319
pacatezza, finezza, magia. L’obiettivo di Valeria non è insegnare a cucinare tramite le sue brevi video-
ricette, bensì condurre il pubblico che la segue all’interno del suo mondo, della sua storia.
Fig. 1.1. – Lo sfondo della cucina Fig. 1.2. – Inquadratura ravvicinata
di casa. del piatto realizzato.
5.2. Ricetta potenziale
I tutorial che abbiamo imparato a conoscere anni fa su YouTube non sono scomparsi. Esiste ancora
qualcuno che si ostina a volere insegnare al mondo come cucinare la “carbonara perfetta”. Nei social,
infatti, emergono varie forme di video-ricette dal carattere formativo, che mirano a trasferire una
competenza, un saper fare culinario. Un tratto comune a tutti casi che vedremo di seguito è la presenza
di sottotitoli che accompagnano lo scorrere delle fasi di preparazione dall’inizio alla fine dei brevi filmati,
marcandone la finalità didattica. Non tutti i video, però, seguono la medesima impostazione discorsiva.
Riportiamo di seguito tre casi esemplificativi in cui la ricetta conserva il suo valore istruttorio,
manifestandolo secondo articolazioni attoriali, spaziali e tematiche differenti.
Il “grado-zero” delle ricette social, che evoca gli ormai classici tutorial, si può rintracciare nei contenuti
audiovisivi di Benedetta Rossi, la food influencer di Fatto in casa da Benedetta, nome dello storico blog
e degli account social connessi5. I reel di Benedetta infatti mettono in scena una ricetta referenziale, una
competenza acquisita che vuole essere trasmessa allo spettatore, il quale potrebbe voler replicare la
ricetta. Il patto comunicativo che si delinea è quello che regola normalmente il testo istruttorio. Dal retro
del bancone da cucina, la cuoca-insegnante descrive, passo dopo passo, la preparazione che sta
eseguendo (Fig. 2.1. – 2.2.) Per coadiuvare la descrizione orale, i passaggi fondamentali della preparazione
vengono riportanti in sovraimpressione creando un ancoraggio (Barthes 1982) tra parte visiva e parte
verbale, mentre l’intera ricetta viene trascritta, quindi ridetta, nella caption dei post di Instagram. Le
inquadrature e il tipo di montaggio costruiscono una struttura ritmica in cui il tempo delle operazioni
svolte, dal punto di vista agogico, viene percepito come disteso e rilassato. L’obiettivo è farsi comprendere.
5
www.instagram.com/fattoincasadabenedetta/reels/, www.tiktok.com/@fattoincasadabenedetta?lang=it-IT, consultati il
10/05/2023.
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I piatti realizzati sono semplici, la cucina è casalinga, pratica. In questo scenario narrativo, la ricetta finisce
per costituirsi come un vero oggetto di valore che lega i due soggetti coinvolti: cuoca e spettatore.
Fig. 2.1. – Benedetta mostra il piatto Fig. 2.2. – In sovrimpressione appare il
finito come copertina del video. testo che rafforza la descrizione orale.
Ma la ricetta, anche nella sua veste pedagogica, all’interno del variegato mondo social, scavalca i propri
confini predefiniti, linguistici e spaziali. Finisce, per esempio, per abbandonare lo spazio utopico della
cucina, e approdare fuori, nel balcone di casa. È l’idea che ha avuto lo chef romano Ruben Bondi nel
corso del lungo lockdown del 2020. Grazie ai video del suo canale, Cucina con Ruben6, è diventato
uno dei primi food creator di successo in Italia su Tik Tok, seguito oggi da 1.4 milioni follower. Dal suo
balcone, con fornelli d’accomodo e utensili casalinghi, ha iniziato a dispensare ricette succulenti a un
pubblico costretto a stare a casa, demotivato, ma certamente affamato (Fig. 3.1.). Ruben è il protagonista,
nonché il soggetto operatore, di un racconto corale, in cui sembra essere coinvolto in modo attivo il
destinante, ovvero l’utente da casa, a cui lo chef si rivolge costantemente e per il quale si mette all’opera.
Al termine di ogni ricetta ricorda al suo pubblico di segnalargli la prossima ricetta che vogliono vedere
realizzata (“Fatemi sapere quale ricetta volete vedere nella prossima ricetta!”). Il pubblico si configura,
da un lato come destinante manipolatore, poiché indica al cuoco la prossima ricetta da realizzare, mentre
dall’altro lato come destinante giudicatore, poiché, rispondendo a tale richiesta, dimostra apprezzamento
per quanto ha appena visto. Partecipano, inoltre, al siparietto culinario molti altri attori, con ruoli
narrativi precisi. Si alternano dirimpettai, fratelli, amici, sorelle, zie e, di recente, anche personaggi più
conosciuti. Questi attori nella parte iniziale dei video vengono chiamati in causa da Ruben (“Ehi, Luca!
Che te vò magnà oggi?!”), a cui rispondono con la richiesta di uno specifico piatto, imponendo così al
soggetto un dover-fare e fungendo, quindi, da destinanti iscritti nel testo. Nel corso della preparazione,
fra i vari intermezzi in cui il giovane chef regala consigli tecnici e batture ai suoi follower (“Con questo
piatto la fai innamorare!”), accade spesso che il fratello o l’amico di turno partecipi alla realizzazione
della ricetta, diventando un aiutante. Al termine della preparazione sia Ruben che l’assistente addentano
voracemente la pietanza e ovviamente la giudicano, trasformandosi entrambi in dei destinanti
sanzionatori a livello narrativo (Figg. 3.2.-3.3.). Lo spettatore viene dunque iscritto all’interno
dell’enunciato stesso. L’utente da casa, infatti, si identifica con la figura dell’amico di Ruben. Cucina
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www.tiktok.com/@cucinaconruben, consultato il 10/05/2023.
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con Ruben si configura come un racconto famigliare e d’amicizia, in cui ogni singolo attore coinvolto
manifesta il proprio entusiasmo, la gioia di stare insieme e il gusto di mangiare un buon piatto in
compagnia dell’amico-chef. A marcare questo effetto complessivo è anche il nome del canale, Cucina
con Ruben, che sembra riferirsi sia alla relazione fra il cuoco e lo spettatore da casa, sia alla messa in
scena culinaria, in cui Ruben cucina con gli altri attori. Le riprese alternano, con ritmo accelerato,
inquadrature frontali dei personaggi e riprese dall’alto su fuochi da campeggio, padelle, taglieri e piatti
da portata. Il risultato è un prodotto audiovisivo dinamico e giovanile. Accresce, inoltre, l’effetto di realtà
casalinga e quotidiana il dialetto romanesco di Ruben e compagni, ricco di esclamazioni (“Dajè!”,
“Bona!”), che manifesta in modo esplicito il patto comunicativo amichevole, informale, alla pari. Un
effetto di senso che richiama la cucina più autentica, quella domestica, d’arrangio, all’interno di una
cornice visiva a tratti grezza e rudimentale, ma al contempo genuina.
Fig. 3.2. – L’amica di Ruben si Fig. 3.3. – Ruben e l’amica
unisce alla preparazione. assaggiano il piatto appena
preparato insieme.
Un’estetica del goffo che risponde, opponendosi, all’estetica del bello e della perfezione, a cui l’alta cucina
e social come Instagram ci hanno abituati negli anni d’oro della gastromania. E ancora, si assiste all’avvento
di un nuovo modo di raccontare il fare culinario, più teso verso l’esaltazione della convivialità, della
chiacchera, del piacere d’assaporare un succulento manicaretto appena tolto dal fuoco.
Cosa accade, invece, quando i saperi della ricetta vengono trasmessi al pubblico da un format video
che è un mix di differenti linguaggi che evocano insieme gli show televisivi, i classici tutorial e gli odierni
social media? Arriva sui nostri touch screen la produzione audiovisiva dello Chef Max Mariola7 (Fig.
4.1.), una star di Tik Tok con 4.4 milioni di follower. Fra un’indicazione di cottura e un commento sul
gusto di un piatto, lo chef si rivolge direttamente alla camera e con sguardo complice, intimo e malizioso
sussurra all’orecchio dello spettatore consigli spassionati da navigato seduttore (“Cena romantica a casa
tua o a casa mia?”, “Hai passato una notte fantastica e lei sta ancora dentro al letto mò ti faccio vedè
che colazione gliè devi fa!”). Max è l’amico esperto di cucina e d’amore, è il confidente, di lui ci si può
fidare. Per lui il cibo è passione, seduzione, sapore intenso della vita, armonia, buona compagnia e
allegria. Ma soprattutto è suono, “the sound of love”, come recita una delle sue massime più gettonate,
7
www.tiktok.com/@chefmaxmariola, consultato il 10/05/2023.
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con la quale accompagna ogni sfrigolio di cipolla o effetto crunch del pane tostato. La bontà del piatto
si sente, e in modo sinestetico richiama il senso del gusto e dell’olfatto. La dimensione sensoriale e
corporea sembra essere cruciale in queste video-ricette; lo chef esalta attraverso i suoi movimenti, le sue
espressioni facciali e la sua voce dal tono appetitoso, le caratteristiche delle pietanze, alternando giudizi
che rimandando ora al gustoso, ora al saporito8. Infine, Max è un affezionato del saltapasta, del bancone
da cucina (Fig. 4.2.), che altro non è che il suo personale palcoscenico, allestito in uno spazio esterno
che sembra essere un terrazzo, e da cui anima la sua performance culinaria con l’ausilio di diversi
aiutanti non umani: dagli ingredienti, presentati in modo dettagliato nella parte introduttiva dei video,
ai coltelli, ai taglieri, alle pentole e padelle (Mangano 2013).
Fig. 4.1. – Lo chef assaggia il Fig. 4.2. – La terrazza-cucina
piatto appena realizzato. dello chef.
5.3. Ricetta performativa
Entriamo adesso dentro tutta quella ampia fetta di materiale audiovisivo social, in cui il testo della ricetta
perde quasi del tutto il suo carattere istruttorio, diventando un pretesto per esaltare ora la personalità di
uno chef, ora la dimensione ludica, ora quella estetica e sensoriale, ora passionale. I soggetti operatori
delle video-ricette che andremo a vedere mettono tutti in scena un fare culinario che tende alla
spettacolarizzazione. Essi sembrano infatti presuppore come enunciatario un soggetto mosso dal
desiderio di voler-guardare e assistere a una esibizione gastronomica, che richiama maggiormente il
genere dell’intrattenimento e assume forme e sfumature sempre più fantasiose e teatrali. Vediamo
qualche esempio.
Maestria culinaria e personalità sfrontata, sicura e spavalda caratterizzano lo spettacolo del giovane
cuciniere del canale Tik Tok e Instagram Notorious_foodie9. Un ragazzo londinese a cui piace cucinare
(“I like to cook”, enunciano le sue biografie social), di cui viene celato il nome, e di cui si conosce poco
il volto. Solo in tratti precisi e salienti della performance mostra allo spettatore viso e corpo. Di contro,
8 Il gustoso e il saporito sono due linguaggi specifici del gusto. Il gustoso è quel sistema di senso che si istaura
grazie al riconoscimento sensoriale delle figure del mondo già note; il saporito è il luogo della sensorialità, in cui
emergono le qualità sensibili delle sostanze gastronomiche (Marrone 2022).
9
www.tiktok.com/@notorious_foodie, consultato il 10/05/2023.
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l’osservatore conosce perfettamente l’abilità tecnica delle sue mani (Fig. 5.1.). Le sue video-ricette
evocano le esecuzioni musicali. Le sue sono le mani di un pianista intento a mettere alla luce la sua
opera, con un ritmo incalzato, accelerato, che toglie il fiato, stordisce e affascina, cattura.
Le riprese avvengono nella cucina di casa, le inquadrature mostrano spazi angusti, ristretti, dove attrezzi
e taglieri professionali sembrano non trovare respiro. Il montaggio serrato delle azioni svolte innesca un
movimento agogico incalzante. Le fasi delle preparazioni sono tante, e così anche gli stacchi della
camera. Siamo all’interno di una cucina casalinga, ma le pietanze realizzate sono elaborate, degne di un
ristorante di medio-alto livello. Come detto, all’osservatore in preda al delirio visivo ed emotivo, viene
negato, per la maggior parte della durata del video l’accesso al volto del soggetto in azione, sono le
mani a rappresentarlo per sineddoche. Sono loro le protagoniste della scena, è il loro saper-fare che
viene messo in mostra, non per istruire, ma semplicemente per il gusto di esibirsi, dimostrando il proprio
valore, il proprio sapere cognitivo al mondo, o forse all’alta-cucina, un possibile anti-soggetto di questa
storia. Il corpo e il volto del cuoco appaiono solo nella parte finale dei video, al momento dell’assaggio
(Fig. 5.2.), in cui lui, vestendo i panni del destinante giudicatore, valuta la propria creazione. Con fare
solenne, mangia l’opera succulenta che le sue mani hanno creato e gusta con piacere. Ma non finisce
qui. A dispetto di chi guarda dall’altra parte dello schermo e non può provare questo piacere estesico,
decide di lanciare un canovaccio bianco sull’obiettivo della camera. Una firma irriverente che impedisce
definitivamente l’accesso visivo dell’osservatore (Figg. 5.3.-5.4.).
Fig. 5.2. – Il cuoco mangia Fig. 5.4. – Infine, lancia il
il suo piatto. canovaccio alla camera.
Enfatizza l’effetto drammatico e spettacolare della messinscena culinaria lo sfondo sonoro: brani classici
strumentali, in cui Vivaldi e il suo tempo impetuoso fanno da padrone. Nel corso dei brevi video,
nessuna voce o sovrimpressione fornisce spiegazioni sulla preparazione. A parlare sono le inquadrature,
il sound musicale e il suono del cibo, il rumore degli attrezzi, il tonfo dei tocchi di carne lanciati sul
tagliere, lo sfrigolio dell’aglio in padella, la potenza della mannaia, il crunch della baguette abbrustolita.
Ancora una volta, come nelle video-ricette di Chef Max Mariola, il cibo scuote l’udito dell’ascoltatore,
e in modo sinestetico ci comunica il suo gusto. Vedremo a breve come questo aspetto sensoriale, plastico
del linguaggio del cibo, risulti cruciale in particolari forme testuali della ricetta.
Se le video-ricette di Notorious_foodie stordiscono e provocano tensione, sul piano passionale, quelle
di Men with the pot10 rilassano, cullano dolcemente lo spettatore, ricongiungendolo con il proprio “io”
10
www.tiktok.com/@menwiththepot, consultato il 10/05/2023.
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sensibile e la dimensione naturale. Perché limitarsi a cucinare piatti complessi all’interno dei propri
templi casalinghi se si può dare vita a pietanze eccellenti e prelibate all’aperto, in montagna, circondati
dal verde, fra una scalata e una lunga sessione di trekking? È quello a cui hanno pensato Slawek Kalkraut
e Krzysztof Szymanski, due amici polacchi, residenti in Irlanda, creator del profilo Tik Tok Men with
the pot, seguito da più di 12 milioni di persone. Nei loro video provano a mettere in relazione la passione
che nutrono per la cucina, insieme a quella per la vita rurale, ponendo in evidenza una configurazione
valoriale profonda, che oppone natura a cultura. Lo scorrere lento del tempo, la tranquillità dello spazio,
il suono della foresta vengono, tuttavia, interrotti, a intervalli puntuali, da una civiltà primitiva ma
affascinante, messa in risalto dal tonfo di una mannaia in azione. Le qualità tecniche di questo speciale
coltello vengono ampiamente enfatizzate, finendo per configurala come un possibile oggetto di valore
da raggiungere per un potenziale consumatore-spettatore che ne rimane ammaliato. La mannaia con
eccellente maestria, infatti, tronca, taglia, sminuzza ferocemente e velocemente tutto ciò che incontra:
cipolla, carni, patate, prezzemolo, pane tostato, pizza, legnetti. Si nota, inoltre che dalla cucina di casa,
fuori campo, sopraggiungono altri attori non umani, come padelle, coperchi, casseruole, taglieri, ma
anche sale, farina, spezie, pomodori, salsicce, lattuga (Figg. 6.1.-6.4.). Dalla civiltà, insomma, non si può
del tutto fare a meno, soprattutto se si vuole cucinare un piatto elaborato, fortemente culturalizzato.
Non basta, infatti, trasformare due pezzetti di legno in posate, gettare il pesce nel fiume per pulirlo,
accendere il fuoco o sollevare una graticola con le pietre. La messa in scena di un’estetica naturale,
rudimentale, d’accomodo, che contribuisce a innescare, a livello del contenuto, l’effetto natura-wild, si
scontra quindi con tutta una serie di attori che richiamano inevitabilmente luoghi altri da cui
provengono, quello della città, dei supermercati, della cucina di casa.
Fig. 6.1. – La mannaia Fig. 6.2. – Sempre la Fig. 6.3. – Padella e Fig. 6.4. – Una ciotola in
sminuzza il prezzemolo. mannaia, affetta la carne. cucchiaio di legno. legno con diverse spezie.
Si osserva quindi come l’effetto di natura selvaggia che si coglie a prima vista, in realtà pone in risalto
una natura negata, una non-natura, che finisce inevitabilmente per tendere, in molti momenti del
racconto culinario, verso il polo della cultura che si vuole silenziare.
I video di Men with the pot – dicevamo – hanno una particolare effetto: rilassano. Grazie alle note
ancestrali della natura, al fruscio delle foglie, ma anche ai suoni del cibo, che stride o arde sulla piastra,
o ai rumori dell’azione culinaria, che taglia, spreme, monda, e infine, al mormorio dell’atto gustativo.
Quando i creator masticano, lo spettatore lo sente, e partecipa all’esperienza in modo sinestetico. Questa
sinfonia sensoriale, che fonde i sussurri della natura a quelli dell’azione gastronomica, in questo specifico
testo mediale, come in tantissimi altri della medesima tipologia, risulta particolarmente enfatizzata tanto
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da farlo rientrare nella categoria ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) 11 . Video che
stimolano a livello visivo e soprattutto uditivo lo spettatore, suscitando una gradevole sensazione di relax
che parte dalla testa e scende fino alle spalle, finendo per rilassare del tutto il corpo. Quello che molti
descrivono online come “orgasmo cerebrale”, che prevede la sollecitazione di tutti i sensi mediante
meccanismi sinestetici. Dal punto di vista semiotico si può affermare che si assiste alla messa in scena
delle qualità sensibili degli ingredienti stimolando vista e soprattutto udito. Si enfatizza la percezione,
per esempio, della croccantezza della pancetta soffritta o la sofficità di una pagnotta, ma anche il calore
dell’olio bollente, il crunch del pane tostato. Ne deriva una performance culinaria che si fonda sul regime
estesico tipico del linguaggio saporito, sistema basato su ragionamenti percettivi e polisensoriali, “dove
si opera tramite processi percettivi non più legati a schemi cognitivi dati ma a una presa in carico diretta
delle qualità sensibili proprie alle sostanze gastronomiche – in rapporto fra loro per contrasti sintagmatici
o per rinvii paradigmatici, e in relazione a contenuti specifici grazie a sistemi semisimbolici ad hoc”
(Marrone 2022, p. 105).
Se Men with the pot riesce a rilassare lo spettatore proiettandolo in un ambiente naturale, il profilo
Instagram di Turkuaz Kitchen12 , gestito dalla fotografa e food creator Betul Tunc, ha il potere di
incantare e distendere il corpo dell’osservatore grazie alla visione di un fare culinario che pone in risalto
l’aspetto estetico del cibo, la sua bellezza esteriore, all’interno di una cornice vintage-country dai toni
cromatici caldi e dalle linee morbide e avvolgenti. L’inquadratura dall’alto mostra infatti un piccolo set
allestito in ogni dettaglio. Si distingue il legno antico del tavolo che funge da base, si notano i fogli di
giornale d’epoca che sostituiscono panni da cucina e carta da forno, ma anche i frullini a manovella, i
setacci di ferro, i piatti e le ciotole. L’isotopia del vintage (Panosetti, Pozzato 2013) agreste viene inoltre
enfatizzata dall’abbigliamento rustico della cuoca, della quale si conosce solo la parte centrale del corpo,
di cui spiccano le mani, riprese nell’atto di esprimere il loro sapere (Figg. 7.1-7.2).
Fig. 7.1. – La cuoca utilizza foto e Fig. 7.2. – La cuoca utilizza uno
giornali vintage come sfondo per la strumento antico per spremere i limoni.
preparazione.
11
www.wikipedia.org/wiki/Autonomous_sensory_meridian_response, consultato il 10/05/2023.
12
www.instagram.com/turkuazkitchen/reels/, consultato il 10/05/2023.
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Ad accompagnare questa messinscena teatrale, non vi è alcuna voce umana e non vi sono sottotitoli che
istruiscono sulla ricetta. Conducono lo spettatore a livello sonoro brani strumentali, classici e non,
dall’andamento alterno, lento o rapido, insieme a una serie di suoni tecnici, emanati da ingredienti e
utensili, che sembrando voler far sentire all’ascoltatore estasiato la loro di voce, il loro linguaggio
culinario, fatto di contrasti sensoriali.
In questi ultimi due casi, emerge uno scenario dominato dall’estesia, in cui prevale la componente
plastica del linguaggio, e dove sembra di assistere a vere messinscene teatrali. Lo spazio riservato alla
ricetta scritta, sia su Instagram che su Tik Tok, è la caption dei post. Uno spazio “altro”, didascalico,
percepito dall’utente come marginale e secondario in relazione ai prodotti audiovisivi. I piatti realizzati
sono spesso elaborati, le preparazioni sono complesse, richiedono diversi passaggi, sovente celati e dati
per impliciti. Tutto questo contribuisce a far emergere la figura di un cuoco competente, ripreso nell’atto
di un’esibizione culinaria, e nell’esaltazione dei suoi valori identitari, del suo stile di vita, ora green e
wild, ora vintage e country. Contenuti digitali che si possono definire come espressioni di forme di vita,
rotture delle strutture narrative e discorsive predefinite, dove a essere valorizzata è solamente l’estetica
del comportamento, della pratica messa in risalto, del gesto esibito (Marrone 2007). L’enunciatario
presupposto, in questi casi, è un soggetto alla ricerca di una sensazione euforica, piacevole, ipnotica, in
cui proiettarsi per qualche minuto, abbandonando il proprio corpo e i propri sensi a un’esperienza
polisensoriale e sinestetica, costruita dal testo come un oggetto di valore a cui ambire.
Come si può dedurre, la trasformazione del testo gastronomico della ricetta in un “fare esibizionista”
appare come una tendenza molto diffusa nei social network, ma i patti comunicativi che si riscontrano
fra enunciatori ed enunciatari sono sempre differenti. In alcuni casi prevale un rapporto dialettico critico
e arrogante (come per Notorious_foodie), in altri amichevole (come per Cucina con Ruben e per Chef
Max Mariola), in altri ancora ironico e divertente, in cui la valorizzazione ludica della performance
culinaria appare esplicita e fortemente marcata. Quest’ultima dimensione la ritroviamo, per esempio,
nei contenuti audiovisivi dei profili Tik Tok e Instagram di Man can cook13 e di 2men1kitchen14. Nel
primo, assistiamo agli spettacoli esilaranti di Daniel Rankin, un food creator e coach sportivo dal fisico
palestrato, accompagnato dal suo fedele amico a quattro zampe, un carlino paziente, immobile, dallo
sguardo sovente spaesato, il cui unico compito è osservare l’agire danzante del suo padrone/cuoco sex-
symbol, accrescendo, sul piano del contenuto, l’effetto di senso stravagante della messinscena culinaria.
A ballare non è solo Daniel, ma ruotano e saltano con lui anche fruste, scope, frullini, sbattitori in un
susseguirsi di inquadrature ammiccanti di muscoli, volti e cibo (Figg. 8.1-8.3). Esaltazione visiva del
gusto, come fattore estetico, umano e culinario. Uno spettacolo eccentrico, che mira a far emergere le
qualità ipersensibili del cibo come del cuoco, mediante riprese ravvicinate, spezzate, di pietanze e corpi
strabordanti, in un processo di richiamo continuo e identificazione reciproca. Man can cook innesca
un’estrema spettacolarizzazione, che si manifesta con la quasi totale scomparsa dell’attenzione verso le
fasi di preparazione dei piatti. Queste si confondono, fra balli e travestimenti vari, annullando del tutto
l’intento istruttorio. Se si vuole comprendere i passaggi della ricetta bisogna uscire fuori dalla cornice
del video, leggere la descrizione del post o cercare all’interno del sito web. Nel secondo caso preso in
esame, 2men1kitchen, i due protagonisti della performance gastronomica, con fare ironico e divertito,
mettono in scena opere di camouflage sempre più ambiziose, svelandone al contempo il retroscena e
tutto il lungo processo che le ha portate alla ribalta. Si è di fronte a un attante duale (Greimas 1976), la
coppia di amici, entrambi agenti di un unico programma d’azione, esibire la loro capacità di produrre
magie culinarie, svelandone i meccanismi celati e, di conseguenza, la loro competenza tecnica.
I piatti che vengono realizzati giocano sui regimi di veridizione, sui giochi di finzione, quindi
sull’opposizione semantica fra essere e apparire. Per esempio, ciò che, a livello dell’espressione,
appare come un arrosticino di carne, a livello gustativo risulta essere una torta al cioccolato (Figg.
13
www.tiktok.com/@mancancooknz, consultato il 10/05/2023.
14
www.tiktok.com/@2men1kitchen, consultato il 10/05/2023.
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9.1.-9.2.). Si innescano, così, dei cortocircuiti percettivi, che attirano lo spettatore e lo spingono a voler
scoprire l’inganno. Il soggetto enunciatore, dal canto suo, vuole sorprendere, vuol far-vedere,
all’enunciatario, che si presuppore essere incredulo, tutti quei meccanismi segreti che consentono la
realizzazione del camuffamento.
Fig. 8.1. – Daniel presenta la sua Fig. 8.2. – Daniel mentre cucina canta Fig. 8.3. – Daniel affronta la ricetta
ricetta in modo seducente davanti e utilizza la frusta come microfono. con un travestimento da saldatore.
a un camino.
Fig. 9.2. – Si mostra il
Fig. 9.1. – Questi arrosticini si procedimento, l’utilizzo di
rilevano essere una torta Sacher. utensili da cucina e di dosi
precise.
328
5.4. Ricetta cerimoniale
Il destinante giudicatore nella stragrande maggioranza delle video-ricette prese in esame appare iscritto
nel testo stesso. Solitamente chi cucina, al termine della preparazione, assaggia il proprio piatto,
sanzionando positivamente, attraverso sguardi compiaciuti, esclamazioni colorite e pollici all’insù,
l’ottima riuscita della ricetta. Negli ultimi anni, tuttavia, spopolano su Tik Tok i cosiddetti duetti, video
in cui il soggetto operatore, che realizza il piatto, e il soggetto giudicatore, che lo valuta, si scindono, e
in cui a prevalere è la figura del giudice. Lo spettatore assiste alla visione contemporanea di due
esibizioni. Lo schermo appare diviso in due parti: da un lato, vi è la ripresa, solitamente frontale,
dell’autore del duetto, intento a guardare, commentare e giudicare il video riportato a fianco. Sembra
che l’autore del duetto, assuma su di sé anche il ruolo di attante informatore, poiché commentando il
video, fornisce indicazioni e indirizza lo sguardo dell’osservatore. Questi video, soprattutto nel settore
food, hanno spesso una natura polemica, conflittuale, critica, a volte parodica. Tendono a screditare il
fare culinario altrui, giudicandolo negativamente. È ciò che accade in profili come ilmori15, in cui viene
messo in mostra lo scontro fra un expertise, quella del chimico gastronomico, e un’altra, quella dei food
creator più popolari. Il “tiktoker” Guido Mori si diletta nella demolizione della competenza degli altri,
sottolineando gli errori commessi e spiegando le ragioni tecniche e chimiche delle sue osservazioni (Fig.
10.1.). Dal punto di vista dell’enunciazione, si può presuppore come enunciatario del testo, un soggetto
diffidente nei confronti dei fenomeni del web, alla ricerca di una attendibilità scientifica, “vera”, forse
anche un po’ complottista. Fra i commenti dei follower che supportano il chimico Mori, si leggono frasi
come “Maestro ci faccia la ricetta vera”, “Mi viene da piangere, la gente che ha soldi spesso non rispetta
la cucina e non pensa a cosa c’è dietro un prodotto”, “L'avevo sospettato che fosse un impostore... Tu
me lo confermi”, “a parte il discorso economico, credo che sia una mancanza di rispetto verso l’essere
vivente che è stato ucciso per fare questa m°°°data immonda”. Oltre ai sostenitori, fra i commenti, si
trovano anche coloro che criticano l’azione demistificatrice del Mori, accrescendo l’effetto polemico che
caratterizza il tipo di contenuto (“Sai che puoi criticare senza essere spocchioso e maleducato?”, “Caro
Mori sembri la parodia di te stesso… fai ridere già solo per questo…”, “Qualcuno ha mai visto un video
dove cucina di questo personaggio oppure sa solo criticare”, “Sei sgradevole”).
Indagando a fondo sugli audiovisivi di questa tipologia, ci si è resi conto che, in effetti, esistono differenti
casi in cui lo scopo del duetto non è denigratorio, ma opposto: di esaltazione, magnificazione e di
piacevole visione. È ciò che si ritrova in molti video di Tik Tok del celebre Gordon Ramsay16 (Fig.
11.1.), in cui lo chef-commentatore vive la visione della video-ricetta con trepido interesse, culminando
con esclamazioni di ammirazione ed entusiasmo (“Gorgeous!”, “Very beautiful!”) Non fornisce
informazioni e dettagli aggiuntivi, si limita a mostrare allo spettatore la sua esperienza di osservazione,
iscrivendo nel testo un tipo di reazione ideale, quella che lo spettatore potrebbe avere da casa guardando
la medesima ricetta. Il destinante giudicatore, in questi casi, si configura infatti come un attante
osservatore, imita il fare dello spettatore, un enunciatario ideale giovane che utilizza i social per divertirsi
e cedere all’intrattenimento spassionato.
Emerge, quindi, come questo genere testuale ponga al centro gli aspetti legati alla sanzione
gastronomica, che appare articolata mediante un discorso di tipo passionale, euforico o disforico, in
continua oscillazione fra la patemizzazione e l’emozione, che lo spettatore avverte. Il chimico Mori, per
esempio, appare quasi sempre arrabbiato e irritato, in uno stato passionale disforico, al contrario lo chef
Ramsay risulta assoggettato a una passione euforica, preso da gioia, entusiasmo e gola.
15www.tiktok.com/@ilmori?lang=it-IT(profilo),
www.tiktok.com/@ilmori/video/7198933155187821829?lang=it-IT (duetto).
16
www.tiktok.com/@gordonramsayofficial?lang=it-IT (profilo), consultato il 10/05/2023.
www.tiktok.com/@gordonramsayofficial/video/7231662442361670939?lang=it-IT (duetto), consultato il 10/05/2023.
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Fig. 10.1. – Duetto di Guido Mori. Fig. 11.1. – Duetto Gordon Ramsay.
6. Conclusioni
Proviamo adesso a tirare le fila di questo percorso, focalizzando l’attenzione sugli aspetti che
maggiormente caratterizzano il genere testuale della ricetta nei social media. Come in ogni fenomeno
di traduzione intersemiotica, anche in questo caso, vi sono degli elementi invarianti e sopravvissuti al
processo di trasposizione, come ad esempio la relazione fra enunciatore dotato di un saper fare ed
enunciatario poco competente, ma vi sono anche dei tratti varianti, inediti, che ricorrono nei diversi
video sottoposti ad analisi, i quali risultano portatori di cambiamenti significativi.
Una prima considerazione riguarda il ruolo tematico del cuoco, la cui personalità, nelle video-ricette
osservate, risulta essere elemento indispensabile per l’affermazione della popolarità del content creator
e, di conseguenza, della validità delle ricette proposte. Sembra che sui social il ruolo tematico del cuoco
si dia in concomitanza ad altri ruoli tematici: ci sarà così il cuoco-amico, il cuoco-confidente, il cuoco-
sex symbol, il cuoco-palestrato, il cuoco-amante della natura, il cuoco-ex concorrente di Masterchef, il
cuoco-chimico, il cuoco-giudice, il cuoco-fotografo, il cuoco-prestigiatore. Tale combinazione influenza
fortemente lo stile culinario delle video-ricette nonché i patti comunicativi. Il cuoco-sex symbol (Man
can cook), in modo ironico e divertente, mette in scena uno spettacolo gastronomico, saltando, ballando
e ammiccando alla camera; il cuoco-amico (Cucina con Ruben), cucina con piacere insieme ai suoi
convitati; il cuoco-wild (Men with the pot) si avventura in lunghe preparazioni in mezzo alla natura, ai
suoi suoni, con utensili d’accomodo e non; e ancora, il cuoco-prestigiatore (2men1kitchen), si diverte a
svelare i suoi trucchi, e quindi le sue abilità di camouflage, al pubblico. Affiora, così, contrariamente a
quanto accade in molti ricettari tradizionali, una forte componente autoriale. Lo stile delle ricette di
Bendetta Rossi è ben riconoscibile, come anche quello dello Chef Max Mariola, di Notorious_foodie,
di Turkuaz Kitchen.
Questa ampollosità mediatica della personalità dei food creator, ci porta a riflettere sull’obiettivo che
costituisce lo sfondo della maggior parte delle video-ricette social, ovvero quello di attrarre lo spettatore,
istallando un rapporto di fiducia duraturo che porti il follower fidelizzato a seguire il proprio beniamino
ovunque, dentro e fuori la rete. Un tipo di comunicazione che, recuperando quanto formulato da
Landowski (1989) in merito al discorso pubblicitario, segue la logica del contratto più che quella
dell’acquisto, poiché, ponendo in primo piano i desideri e non i bisogni degli spettatori, la sfera
soggettiva dei food creator e la relazione intersoggettiva con i propri follower, lascia sullo sfondo la
trasmissione del valore istruttorio della ricetta.
330
Una seconda considerazione è legata all’estesia, alla forte sollecitazione sensoriale che permea la
stragrande maggioranza delle ricette social, nonché alla relazione fra corpo, sensi e cibo messa in scena.
Foto, inquadrature e suoni mettono sotto i riflettori le qualità sensibili degli ingredienti e della pratica
gastronomica, dando maggiore enfasi alla dimensione plastica del linguaggio. Si susseguono immagini
contrastanti, materiche, che istallano nell’osservatore un tipo di sguardo aptico, “cioè tattile,
sinesteticamente capace di far emergere, grazie all’ipertrofia della visione, la materia supposta ‘pura’ del
cibo” (Marrone 2016, p. 233), tipico del food porn. Rispetto al passato, oggi sembra avere un ruolo
determinante la componente sonora, focalizzata molto spesso sulla riproduzione del suono del cibo
(pane abbrustolito, cipolla croccante), delle tecniche di cottura (arrostire, bollire, friggere), delle azioni
messe in atto (tagliare, tritate), ma anche degli ambienti che accolto la performance culinaria (cucina,
montagna, balcone). Nell’universo social, non si mangia più solo con gli occhi. L’udito diventa un senso
privilegiato, forse ancor più della vista, per sollecitare, in modo sinestetico, il senso del gusto e
comunicare il fare culinario.
Riassumiamo nella tabella di seguito (Tab. 1) le differenze fra tutte le video-ricette analizzate.
331
Tabella 1
Tabella comparativa delle video-ricette social
Valore
Ruolo del
Spazio Agogia Spettatore istruttorio Valori culinari
cuoco
ricetta
Angoli
Vuole
Ricetta della Cuoca- Non Tradizione e
Valeria Raciti Rilassato ascoltare e
virtuale cucina di narratrice presente famiglia
guardare
casa
Condivisione
Fatto in casa da Cucina di Cuoca- Vuole Fortement
Lento di saperi
Benedetta casa insegnante sapere e presente
culinari
Ricetta Amicizia,
potenziale Cucina con Balcone di Vuole convivialità,
Rapido Cuoco-amico Presente
Ruben casa sapere arte di
arrangiarsi
Chef Max Fluido e Cuoco- Vuole Amore e
Terrazzo Presente
Mariola rilassato confidente sapere passione
Spazi
ristretti Veloce,
Cuoco-artista Vuole
Notorious_foodie della fortement Assente Arte culinaria
misterioso guardare
cucina e scandito
di casa
Cuoco-wild Vuole
Men with the Lento e
Montagna (amante della guardare e Assente Relax e natura
pot rilassato
natura) ascoltare
Cuoca-
Bellezza
Ricetta Turkuaz Sezione di Lento e fotografa Vuole
Assente estetica
performativa Kitchen un tavolo rilassato (appassionata guardare
vintage)
Cucina di Cuoco-sex Vuole Divertimento e
Man can cook Rapido Assente
casa symbol guardare gioco
Sezione di
Rapido e Cuoco- Vuole
2men1kitchen un Assente Sorpresa, gioco
fluido prestigiatore guardare
bancone
Spazi Cuoco- Professionalità
Vuole
ilmori interni o Fluido giudice Assente e sapere
guardare
esterni negativo scientifico
Ricetta
cerimoniale Spazi Cuoco-
Vuole
Gordon Ramsay interni o Rapido giudice Assente Gioco
guardare
esterni positivo
332
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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334
| null |
ec | https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3117 | [
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] | Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario
Lucio Spaziante
Abstract. The paper deals with a semiotic analysis of the literary text, focusing on Richard Yates’ novel
Revolutionary Road (1961): a dramatic mid-twentieth-century portrait of social appearances and their negative
impact on personal identities. The analysis was carried out by a group of students as part of a seminar at the
University of Bologna, in the master’s degree program in Semiotics, and constitutes the outcome of an experiment
that led to a research product through a didactic process. In the first phase, the novel was analyzed in each
individual chapter; then, through didactic coordination, a few macro-themes (spatiality, temporality, corporeity,
gender) emerged which the subgroups proceeded to a specific in-depth study. Among the results, it appeared how
spatiality is a relevant feature not in itself, but in relation to the sense effects it produces: such as the opposition
between public and private, and the relationship between social appearances and intimate dimensions. The
temporal dimension was also considered relevant: a back-and-forth between past and future related to the
characters’ nostalgia for a future they never realized. Finally, the analysis showed the relevance, within the novel,
of the correlation between corporeality, gender and passions, not only functional to describe the characters, but to
define their status as social bodies, which in the fictional story possessed a higher value than natural bodies.
1. Introduzione. Un esperimento metodologico
L’articolo è il risultato di un esperimento che intendeva incrociare la didattica con la ricerca, e assieme
ragionare sulla metodologia di analisi semiotica del testo, in special modo quello letterario. Si tratta di
un’analisi del romanzo Revolutionary Road di Richard Yates (1961), libro che ha vissuto di una
rinnovata notorietà grazie all’omonimo adattamento cinematografico 1 , diretto e prodotto da Sam
Mendes (USA 2008), con protagonisti Kate Winslet e Leonardo Di Caprio.
L’analisi è stata portata avanti da un gruppo2 di studentesse e studenti del corso di laurea magistrale in
Semiotica dell’Università di Bologna, da me coordinato, all’interno di un seminario extra-curriculare legato
all’insegnamento di Metodologia di analisi II. L’idea era quella di provare ad analizzare un corpus di taglia
ampia, quale è un romanzo, grazie alle forze collettive di un gruppo composto da una decina di persone.
Di fronte ad un corpus simile, si pongono anzitutto problemi di articolazione e selezione del testo,
nonché l’ardua decisione di quali criteri analitici adoperare. Se si fosse trattato di un convegno, si
sarebbe data ampia scelta agli studiosi di approcciare l’analisi secondo le rispettive peculiarità, con il
1
Il piano di lavoro prevede anche una seconda fase successiva da dedicare all’analisi del film Revolutionary Road,
sempre con una chiave laboratoriale, con una comparazione tra i due testi e un approfondimento sul tema della
traduzione intersemiotica tra letteratura e audiovisivi.
2
Il gruppo di ricerca coordinato da Lucio Spaziante è composto da: Stefano Acquisti, Delia Cabrelli, Nicolas
Chiappucci, Federico de Filippis, Elena Evangelista, Lucia Lorusso, Adele Piovani, Lorenzo Ravizza Maritano,
Alessandro Rugiati, Rachele Vanucci. In nota ai titoli dei singoli paragrafi sono indicati specifici riferimenti ad autrici
e autori, ma la stesura è stata operata mediante un confronto continuo tra i diversi paragrafi, operato collettivamente.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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risultato di una pluralità di voci, e con un focus molto mirato. Trattandosi di un progetto didattico, la
scelta è invece ricaduta su una sorta di screening totale del testo.
Il romanzo possiede una propria suddivisione interna in tre parti, per una complessiva articolazione in
ventidue capitoli. Ognuno dei dieci componenti del gruppo, dunque, ha ricevuto un numero equo di
capitoli da analizzare, senza una articolazione precostituita: ciò ha significato “mettersi davanti al testo”,
e procedere a fare emergere ciò che le salienze indicavano.
Sin dall’inizio questo lavoro “grezzo” è stato accompagnato da incontri e scambi di idee, nonché dall’uso
di una piattaforma online di condivisione, dove poter leggere i rispettivi lavori in corso. Gli incontri
nelle aule universitarie sono iniziati nel dicembre 2022, a margine delle lezioni del corso. Sono poi
proseguiti durante l’intero anno successivo, compreso il periodo delle vacanze estive, grazie all’ausilio
di piattaforme online.
Un passaggio importante è stato quello di armonizzare secondo un modello condiviso le analisi dei
capitoli che venivano portate avanti, con i loro approcci individuali, da singole studentesse e studenti.
A questa fase di confronto, ho contribuito cercando di fare emergere le tematiche prevalenti nel romanzo
e nelle analisi (spazio, tempo, corporeità e genere) attorno alle quali si sono poi costituiti quattro
sottogruppi, ognuno dei quali ha realizzato la stesura collettiva di un paragrafo. Il mio compito successivo
è stato quello di: unificare le parti, compiere una revisione con richiesta di ulteriori interventi di modifica,
e realizzare un controllo editoriale complessivo, senza però modificare nella sostanza i contenuti originali.
La stesura finale di questo articolo si è conclusa nel settembre del 2023.
1.1. Breve sinossi
Per apprezzare l’analisi sarebbe naturalmente utile conoscere il romanzo, ma per facilitare la lettura
dell’articolo è comunque possibile fornire alcune minime informazioni sulla trama.
Frank e April Wheeler sono una giovane coppia – un impiegato e una casalinga con due bambini – che
negli anni Cinquanta prende casa in un quartiere residenziale nel Connecticut, sotto la guida dell’agente
immobiliare, Mrs. Givings. Il loro apparente quieto benessere borghese nasconde la frustrazione di due
giovani di belle speranze che anelavano, o almeno lo credevano, ad una vita avventurosa da artisti in
Europa. La nascita dei bambini li costringerà a rinunciare ai loro progetti, rinfacciandosi la reciproca
infelicità. I tentativi di affrancarsi dalla normale routine quotidiana risulteranno vani e aggraveranno
ulteriormente la loro situazione iniziale.
Attraverso i protagonisti, e alcune figure di contorno altrettanto efficaci nei loro ruoli, come la famiglia
Givings o i vicini di casa Campbell, il romanzo presenta un efficace e drammatico affresco di metà
Novecento sulle apparenze sociali e la loro ricaduta negativa sulle identità personali.
2. Spazialità e interiorità: i luoghi della finzione e della sincerità3
In questo paragrafo ci concentreremo innanzitutto sulla spazialità, concetto cardine dell’intera opera, a
causa della rilevanza dei diversi luoghi nella narrazione, in base alla quale si possono avanzare varie
riflessioni sulle opposizioni isotopiche a essi associate.
In primo luogo, si possono notare due opposizioni principali:
1. pubblico/privato: si riferisce ai luoghi fisici, e agli ambienti in cui si muovono i personaggi;
3
A cura di Elena Evangelista e Lucia Lorusso.
336
2. esteriore/interiore: non riguarda luoghi concreti, ma quelli legati alla corporeità. Cioè, da un lato il
modo con il quale i personaggi si mostrano all’ esterno e le azioni che compiono (dimensione del
fare); dall’altro quello che i personaggi pensano e provano (dimensione dell’ essere e del sentire).
Ma queste opposizioni spaziali non restano mai isolate: i luoghi, fisici o corporei, si associano
sistematicamente ad un’altra coppia di isotopie, cioè quella di finzione/sincerità. Nel corso del romanzo
vedremo quanto tali opposizioni siano intrecciate tra loro e varino per la coppia protagonista, April e
Frank Wheeler, in base a quanta affinità c’è tra di loro, creando un vero e proprio semisimbolismo
figurativo tra pubblico/privato ed esteriore/interiore e la coppia finzione/sincerità4. Si può notare da
subito, inoltre, un’ulteriore isotopia che, alla fine, si rivelerà centrale, quella della malattia: uno stato
interno e corporeo che influenza e sconvolge le opposizioni spaziali fino ad annullarle.
2.1. Una continua messa in scena
Il romanzo si apre con uno spettacolo teatrale, mostrando con ciò la centralità della dimensione
finzionale e assieme fornendo da subito una possibile chiave interpretativa: una traccia cooperativa (cfr.
Eco 1979) che nello sviluppo della lettura diventa una caratteristica comune ai vari personaggi. Lo
spettacolo è destinato al fallimento per la malattia di uno degli attori che dovevano andare in scena: una
malattia, cioè uno stato interno, che conduce però a un cambiamento negativo nel mondo esterno.
Qui April e Frank Wheeler vengono introdotti nella narrazione: la delusione per lo spettacolo porterà
ad un loro litigio che andrà ad occupare l’intera prima parte del romanzo, rendendoli uno l’Anti-
Soggetto dell’altro, fino a quando non emergerà quel comune Oggetto di Valore – il trasferimento a
Parigi – che definirà un Programma Narrativo (PN) condiviso.
È possibile individuare un ulteriore criterio di suddivisione degli spazi, relativamente alla prima parte:
1. privato, quando un personaggio è da solo o in luoghi di passaggio;
2. pubblico, quando un personaggio è con altri.
Tale divisione è motivata dal fatto che i due personaggi, a causa della lite, si trovano molto spesso da
soli con i loro pensieri e cambiano radicalmente atteggiamento quando sono in compagnia di altri. La
cosa appare evidente, ad esempio, nella sequenza in cui Frank percorre il corridoio per andare nel
camerino di April, sino a quando ne esce per disdire l’appuntamento con i Campbell: egli passa da uno
stato angoscioso (quando è nel privato), ad una simulazione (quando è in pubblico con April), fino ad
una totale messa in scena, quando è con gli amici (RR5, pp. 52-56).
Questa associazione tra spazi e finzione/sincerità non è esclusiva di April e Frank, ma è presente anche
negli altri personaggi, sebbene in modo diverso. Mentre tra i due protagonisti l’intreccio tra le
opposizioni evolve e varia in base al loro rapporto, nelle diverse parti del romanzo (come vedremo nei
prossimi paragrafi), questo non accade a tutti gli altri personaggi, per i quali l’associazione rimane la
medesima. Lo dimostrano, ad esempio, il vicino di casa Shep Campbell nel capitolo 2 della seconda
parte o l’agente immobiliare, la signora Givings, nel capitolo 3 della seconda parte.
Tutto ciò che è esterno e pubblico è generalmente associato con l’isotopia della simulazione. È come se
gli attori ricoprissero un ruolo tematico da loro scelto o a loro associato, ma sempre caratterizzato da
una dimensione finzionale: “il buon collega”, “il marito” o “l’intellettuale”. Lo si può notare, ad esempio,
quando i Campbell vanno a cena dai Wheeler, e Frank Wheeler inizia un monologo su un tema di
portata universale che occupa un’intera pagina: “È di decadenza che parlo […]” (RR, p. 115).
4 Il semisimbolismo figurativo nel testo letterario, cui questa analisi fa riferimento, si può trovare in Lancioni (2009),
in particolare in relazione all’esempio di Pinocchio.
5
Le citazioni dal romanzo Revolutionary Road (Yates 1961) verranno d’ora in poi sempre indicate con RR.
337
L’interno, dall’altra parte, è il luogo della sincerità. Nel corso delle pagine, infatti, esplorando
principalmente il personaggio di Frank, notiamo che nel privato, nonostante lui cerchi di autoconvincersi
delle sue azioni, in realtà si tradisca e lasci andare tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, facendo
emergere uno stato passionale caratterizzato dall’ansia.
Tutto questo permette di rilevare, fin da subito, un semisimbolismo che si articola sull’asse valoriale e
su quello modale (Lancioni 2009, p. 70). La correlazione reggerà l’intero romanzo fino all’emergere
della malattia come isotopia centrale:
Pubblico ed esteriore Privato e interiore
Valoriale Finzione Sincerità
Modale Sembrar-essere Essere
2.2. Il sogno bohémienne
La seconda parte del romanzo si apre con un equilibrio ristabilito: Frank e April non sono più in
contrasto, ma condividono lo stesso PN principale – cioè la comunicazione della loro partenza –
composto a sua volta dai tanti PN d’uso.
Qui l’opposizione precedente si modifica: il privato diventa il luogo della coppia e della sincerità. I due
riescono a parlarsi e a comprendersi senza la necessità di recitare. Luoghi come la casa, passano da
disforici a euforici e, apparentemente, ciò che prima avveniva in solitudine, adesso contempla sempre
anche il partner.
Il pubblico è legato a tutti i luoghi in cui Frank e April, assieme o da soli, interagiscono con altri nel
comunicare la loro partenza. Per esempio, il comportamento dei Campbell a casa loro è cosparso di
finto perbenismo e falsa felicità per la loro scelta di partire, mentre Frank e April recitano il ruolo di
improvvisati “avventurieri” (finzione): “Abbiamo deciso di trasferirci in Europa. A Parigi. Una volta per
tutte! […] Oh, una o due settimane fa… […] non ricordo esattamente. So solo che ad un certo punto
abbiamo deciso di andarcene, ecco tutto” (RR, p. 215).
L’opposizione interiore/esteriore, quindi, si annulla nel privato, cioè quando Frank e April non fingono
l’uno di fronte all’altro, dicendo finalmente ciò che pensano e provano. Resta invece valida nel pubblico,
come nella prima parte del romanzo.
Un altro tema ad emergere in questi capitoli è quello della malattia, incarnata principalmente da John
Givings, figlio della signora Givings (l’agente immobiliare), e da tempo in cura per patologie
psichiatriche. Egli si comporta in modo brutalmente schietto, creando così un’associazione valoriale tra
malattia e sincerità. Ad esempio, esprime un punto di vista rivelatorio su ciò che ha portato Frank a fare
un lavoro che non lo soddisfa: “[…] se uno vuole mettere su una casa molto carina, molto deliziosa, deve
accettare un lavoro che non gli piace. Semplice” (RR, p. 261). Tra il suo personaggio e i Wheeler si
creerà una sorta di connessione proprio nel momento in cui questi ultimi diventano sinceri tra di loro.
Ciò diventerà evidente al termine della passeggiata nel bosco, ovvero l’unico luogo pubblico in cui
prevale la sincerità. April dice a Frank riferendosi a John: “È la prima persona che dà sul serio
l’impressione di capire quello che diciamo” (RR, p. 267).
In questo apparente climax di felicità ed euforia, dove i protagonisti si sentono finalmente connessi ai
loro progetti bohémienne, April rimane incinta. Questo sarà l’elemento che innescherà la crisi e la
seguente rottura della stabilità di coppia. Dal punto di vista di April, anche la gravidanza indesiderata
può essere intesa come una malattia. E ciò porterà al ripetersi della situazione descritta all’inizio della
prima parte: un cambiamento interno, porta alla rottura dell’equilibrio esterno.
338
2.3. La malattia che annulla le opposizioni
La terza parte del romanzo è caratterizzata, dunque, dal caos più totale e dal capovolgimento delle
dinamiche di coppia: si ritorna al punto di partenza, ma con un netto peggioramento.
La gravidanza inattesa porta uno sconvolgimento, con Frank e April che, collocati su due PN opposti,
ritornano ad essere l’uno l’Anti-Soggetto dell’altro: lui vuole tenere il bambino e sospendere il viaggio; lei
vuole abortire e non ha alcuna intenzione di rinunciare a Parigi. La novità emerge nel personaggio di
April, che qui cade in depressione (malattia), iniziando a non curarsi più del luogo e delle persone, e
abbattendo anche il velo di finzione. Ella è finalmente sé stessa, mostrando ciò che pensa: sia in casa – per
esempio dicendo a Frank: “[…] io non ti amo […] e non ti ho davvero mai amato” (RR, p. 370); sia nella
Capannina, il locale in cui si trovano con i Campbell, togliendosi la maschera della “brava moglie”.
“April appariva remota ed enigmatica, distaccata da chi le stava attorno come non era mai stata neppure
nei suoi momenti peggiori, ma con la differenza che ora Frank rifiutava di preoccuparsene” (RR, p. 335).
Quando April comunica a Frank la fine del suo amore, avviene un punto di rottura significativo: da lì
in poi tutti luoghi sono contraddistinti dalla sincerità. Quando i due litigano tra di loro o con i Givings,
sono sempre sinceri.
Il romanzo [spoiler] si conclude con l’aborto pianificato da April, che la condurrà dapprima al ricovero
in ospedale e poi alla morte. L’ospedale sarà caratterizzato allo stesso tempo dalla malattia e dalla
massima sincerità: qui finalmente tutti i personaggi si lasciano andare e agiscono senza pensare a
indossare alcuna maschera. Frank dirà: “Gesù, Shep non sono riuscito a capire neppure metà delle cose
che mi ha raccontato” (RR, p. 417), mostrandosi vulnerabile per la prima volta.
Ciò dimostra quello che fin dall’inizio il romanzo ha suggerito al lettore, che cioè la malattia è l’unica
isotopia che annulla il semisimbolismo creatosi all’inizio e, quindi, la rilevanza dei diversi luoghi e della
finzione, permettendo alla sincerità di primeggiare.
3. Il valore del tempo6
In relazione al discorso sulla temporalità, la scelta è stata innanzitutto quella di concentrarsi sulle diverse
valorizzazioni (cfr. Pezzini 1998) che i Wheeler assegnano ad alcuni periodi della loro vita, e su come
tali differenze assiologiche costituiscano il nucleo polemico (in senso semiotico)7 della vicenda.
Partendo dalla suddivisione in passato, presente e futuro, riscontrabile anche nei meccanismi di prolessi
e analessi (cfr. Genette 1972; Eco 1994) che abbondano nel romanzo, abbiamo operato ulteriori
suddivisioni che ci permettono di rendere conto dei rapporti tra i vari personaggi. Il risultato ha assunto
la forma di una struttura a cinque termini verso i quali April e Frank mostrano passioni, desideri, e
valorizzazioni differenti: passato remoto / passato prossimo / presente / futuro / futuro anteriore.
3.1. L’organizzazione a cinque termini del tempo
Il punto di partenza della nostra analisi è il presente, in quanto la sua centralità si riscontra soprattutto
nella funzione di rendere intellegibili i rapporti che la gran parte dei personaggi intrattiene con gli altri
tempi: non solo i coniugi Wheeler ma anche i coniugi Campbell, così come John Givings e sua madre.
6
A cura di Delia Cabrelli, Federico de Filippis e Alessandro Rugiati.
7
Cfr. Greimas, Courtés (1979, voce “contratto”, p. 53, e voce “polemico”, p. 245).
339
Passato remoto Passato Prossimo Presente Futuro Futuro anteriore
Euforico per Frank Tempo dei rimpianti Disforico per entrambi Tempo dei progetti Euforico per April
“Che razza di vita era mai quella? Quale in nome di Dio, era il succo o il significato o lo scopo di una
vita del genere?” (RR, p. 104). Questo è uno dei tanti pensieri che i personaggi – in questo caso Frank
– rivolgono al presente8 (ossia l’anno 1955, ovvero il T0 della narrazione) nella prima parte del romanzo.
La valorizzazione della situazione odierna è percepita come disforica dai Wheeler, specie in due
momenti consecutivi della narrazione.
Nel primo (RR, cap. 4), Frank, conversando in salotto con i Campbell, rivolge parole di scherno verso certe
abitudini borghesi, non rendendosi conto di come siano proprio quelle che caratterizzano la sua quotidianità.
In un secondo momento (RR, cap. 7), più precisamente durante la notte del compleanno di Frank, April
sottolinea come la loro vita coniugale non sia altro che una “oscena illusione” (RR, p. 170) che soffoca
le loro vere essenze.
Emblematico, in questo senso, è il personaggio di John Givings, ostracizzato e biasimato da tutti per il
suo disagio psichiatrico, e che, come abbiamo già visto, è caratterizzato come l’unico personaggio (fatta
eccezione per April) capace di vivere il presente per quello che effettivamente è: egli infatti, costretto a
vivere la sua vita giorno per giorno, a causa della malattia che gli impedisce di avere ogni tipo di
progettualità, possiede una visione estremamente cinica e disillusa della realtà. Ne è un esempio la
discussione che intrattiene con Frank e April, nel quinto capitolo della terza parte, nella quale egli rivela
a tutti la cruda realtà ipocrita della loro relazione e il reale motivo per cui non sono mai partiti:
«Grand’uomo si è presa, April» [...] «Bravo capofamiglia, solido cittadino. Mi dispiace per lei. O
forse siete degni l’uno dell’altra. Anzi, stando all’aria che lei ha adesso, comincio a dispiacermi anche
per lui. Voglio dire, a ben pensarci deve avergli dato ben poche soddisfazioni, se fare dei figli è
l’unica maniera che ha per dimostrare che possiede un paio di coglioni» (RR, p. 381).
Il presente è una gabbia che, da un punto di vista passionale, genera repulsione e frustrazione e che fa
sì che nei due personaggi si manifestino due atteggiamenti opposti. Frank viene caratterizzato come
qualcuno per il quale “non c’era mai stato posto per il peso e l’urto della realtà” (RR, p. 51). Egli, infatti,
mostra la tendenza a rifugiarsi in mondi possibili 9, da lui stesso creati per evitare di confrontarsi con il
presente. Questo atteggiamento tiene ancorato Frank a una concezione di sé ormai anacronistica,
appartenente al suo passato remoto10: egli si considera ancora quel ragazzo che appariva intelligente agli
occhi di tutti coloro che lo incontravano. Come possiamo notare in molti flashback, Frank connota
positivamente quel periodo.
Queste analessi, oltre a servire allo scopo di riempire i vuoti lasciati nel passato, sono interessanti perché
ibride a livello enunciativo, come se le soggettività del narratore e del personaggio si sovrapponessero
nello stesso luogo. Infatti, se è il narratore che introduce il flashback (non siamo in presenza di un
8
Consideriamo come appartenenti al presente, le sequenze temporali che, a partire dal T0 della narrazione,
proseguono in maniera lineare. Pertanto le prolessi e le analessi non rientrano in questa parte dell’analisi.
9
Il concetto di mondo possibile, mutuato dalla logica modale, viene teorizzato in chiave semiotica da Eco (1979),
per renderlo uno strumento di analisi testuale. Con questo termine faremo riferimento a un qualsiasi corso degli
eventi (sia esso un flashback o un agire predittivo-progettuale verso il futuro) sostenuto dagli atteggiamenti
proposizionali (credere, volere, ricordare, pensare etc.) di uno dei personaggi. Per motivi di spazio abbiamo scelto
di non eseguire un’analisi dettagliata come negli esempi proposti da Eco, quindi di tralasciare le proprietà S-
necessarie et similia. Quello che ci interessa è mettere in rilievo la presenza di mondi alternativi rispetto al mondo
di partenza del romanzo, che si manifestano nell’interiorità dei personaggi.
10 Da un punto di vista della fabula, consideriamo il passato remoto quel periodo della vita dei personaggi che
termina con il trasferimento nella casa di Revolutionary Road. Questo include tutte le sequenze che riguardano
l’infanzia e le sequenze che raccontano della loro vita giovanile nel Greenwich Village, a Bethune Street.
340
débrayage enunciazionale), e ciò porta ad assumere la veridicità dei fatti narrati, da un punto di vista
passionale e percettivo, invece, sembra che l’ultima parola sia lasciata ai personaggi stessi, in una sorta
di débrayage passionale: “L’odore della scuola nel buio – matite e mele e colla per rilegature – fece
salire agli occhi di Frank una dolce, dolorosa nostalgia” (RR, p. 57, corsivo nostro). C’è quindi una
revisione emotiva da parte del personaggio rispetto al tempo presente11.
A un passato remoto memorabile – almeno per Frank – fa da contraltare un passato prossimo che si
configura come l’origine dei mali del presente. Se a livello cronologico i due tempi in questione sono
piuttosto vicini, da un punto di vista assiologico il passato prossimo è molto più vicino al presente, come
evidenziato da April stessa: “È stato così che noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione” (RR,
p. 170). Infatti, la prima gravidanza, avvenuta sette anni prima del T0, ha segnato una cesura tra una
gioventù spensierata e quella fase della vita in cui le necessità prendono il posto dei sogni. A causa di
una tragica infanzia e di una solitaria adolescenza (“Ti pareva ancora che stessi perdendo il meglio della
vita?” “In un certo senso, sì. [...] Ero una specie di brutto anatroccolo tra i cigni”, RR, p. 346), April è
portata a non avere un atteggiamento euforico nei confronti del passato e dimostra più volte, al contrario
di Frank, di avere contezza del presente. Sono varie le interazioni tra i due dove April sembra assumere
il ruolo della realtà, opponendosi ai mondi ideali di Frank: “L’unico vero errore, l’unica cosa falsa e
disonesta, era stata semmai quella di aver scambiato Frank per qualcosa di molto più importante. Oh,
per un mese o due, tanto per divertirsi un po’, poteva anche andar benissimo un giochetto del genere
con un ragazzo; ma tutti quegli anni!” (RR, pp. 400-401).
Queste caratteristiche portano April ad avere un atteggiamento opposto a quello del marito: data
la consapevolezza della loro situazione, ella progetta allora il trasferimento in Europa. Un mondo
futuro che permetta loro di uscire dal loro presente disforico e che, trattandosi di un sogno di
gioventù, abbiamo definito come futuro anteriore (“Era un nuovo, complicato piano per trasferirsi
in Europa”, RR, p. 165).
L’atteggiamento dei due personaggi è opposto, inoltre, anche per quanto riguarda l’aspettualizzazione.
In entrambi c’è la volontà di rendere iterativo qualcosa, ma c’è una profonda differenza riguardo alla
natura di questo oggetto: Frank si protende verso l’iterazione di qualcosa di terminativo (il passato
remoto), mentre April lo fa verso qualcosa che non è mai andato oltre lo stato incoativo (la loro
intenzione di andare in Europa, rimasta solo un progetto).
A questo punto entra in gioco la questione del futuro, cioè il tempo delle proiezioni. Dal primo capitolo
della terza parte in poi, infatti, April e Frank sviluppano due programmi narrativi (PN) oppositivi proprio
a partire dalle due rispettive aspettualizzazioni (passato remoto per Frank e futuro anteriore per April).
I due attori ricoprono gli stessi ruoli attanziali: sono entrambi due Soggetti che si rinfacciano a vicenda di
essere l’uno il Destinante negativo dell’altro, rendendosi due Anti-Soggetti speculari. Il raggiungimento
dell’Oggetto di valore per uno, corrisponde all’allontanamento dall’Oggetto di valore per l’altro. I due PN
sono quindi mutualmente esclusivi, e per questo la vicenda assume la forma di uno scontro.
Come sottolinea Guido Ferraro:
nei casi più interessanti lo scontro fra i Soggetti è scontro fra concezioni del mondo, e dunque
fra criteri alternativi per l’investimento di valori: in tal caso, Soggetto e Anti-Soggetto non
potranno, per definizione, competere per qualcosa che sia allo stesso modo Oggetto di valore
per entrambi (2012, p. 45).
E questo è il nostro caso. Il futuro per April è andare in Europa (futuro anteriore), mentre il futuro per
Frank è restare in America (passato remoto) ed entrambi gli Oggetti di valore sono dipendenti dal
verificarsi o meno della gravidanza. Frank è quindi l’ostacolo al PN di April e viceversa e, nonostante
11
Da questo tipo di analessi si differenziano, ad esempio, quelle messe in scena nell’ultimo capitolo, in cui il
débrayage è completo, e sia la narrazione degli eventi sia la ricezione passionale sono lasciate ai personaggi.
341
questo, entrambi hanno bisogno dell’altro per il raggiungimento dell’Oggetto di valore. Per questo
motivo il controllo del tempo è valorizzato euforicamente (vi sono continui riferimenti all’osservazione
di calendari e orologi, soprattutto nel momento di decidere in merito alla gravidanza) in una illusione
di controllo sugli eventi futuri, poiché chi perde il controllo perde l’Oggetto di valore. Entrambi i
Soggetti portano a compimento il loro PN attraverso l’unica tragica soluzione alla quale sono destinati,
ovvero separarsi: Frank proseguirà con la sua vita lavorativa e April interromperà la gravidanza, pur
con tragiche conseguenze, perché “se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero,
alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli” (RR, p. 409).
4. Il controllo dei corpi12
La logica del sentire tensivo, nel romanzo, ha a che vedere con gli sviluppi figurativi di tematiche relative
alla corporeità e alla sensorialità. La descrizione della sfera emotiva non è esplicita, ma piuttosto passa per
la corporeità, ed il lettore percepisce i sentimenti attraverso gli effetti somatici delle passioni. È il corpo ad
esprimere il groviglio di emozioni, mentre i giudizi, indirettamente, passano per la conformazione plastica
quotidiana dei corpi. Il linguaggio corporeo, nella sua apparente naturalità, “connota” e si sostituisce al
puro parlato dei personaggi, divenendo atto di significazione (Greimas 1976, p. 231).
A seguito della lite con April, che apre drammaticamente la vicenda, ci vengono mostrate l’impotenza
e la frustrazione di Frank la mattina seguente, a partire dalla descrizione delle sue mani: gonfie e pallide,
con unghie smangiate (RR, p. 78). La configurazione corporea rende conto di un indiretto /non-poter-
fare/ da parte del Soggetto, una disposizione d’animo in un atteggiamento di distacco dal quotidiano;
un sentore di insoddisfazione che si mostra come aspetto terminativo di un precedente PN vanificato,
ossia il litigio con la moglie.
Persino l’interazione tra soggetti passa per indirette delucidazioni offerte dal corpo: la signora Givings
coglie la disposizione emotiva di Frank a partire dalla sua “contrazione dei muscoli” (RR, p. 230), che
ella avverte a livello somatico come “un colpo al petto”. Le contrazioni muscolari, generalmente
impercettibili, divengono qui erogatori delle strutture timiche profonde. I Wheeler spesso tradiscono
l’apparenza sociale attraverso il corpo: di conseguenza la distinzione tra somatico e mentale, nel
quotidiano, viene meno. La salvaguardia delle apparenze viene tradita dai movimenti e dalle reazioni
dei corpi, che esprimono e realizzano le vere emozioni dei soggetti. Ed è mentre i corpi mostrano i
particolari stati emotivi dei personaggi che il loro pensiero viene costantemente rilevato ed esposto.
4.1. La percezione della malattia
Nel corso della narrazione, i personaggi nascondono le loro vere intenzioni attraverso abitudini e
quotidianità, sostenuti dalle loro reti sociali. Chi rifiuta il consenso si trova in un complesso rapporto
disgiunto dal reale e viene immediatamente bollato come “malato”. Non solo chi lo è davvero, ma anche
chi – nella narrazione – esce dalla conformità, come si nota sin dai primi capitoli, quando Frank durante
un litigio asserisce: “Sai che cosa sei quando fai così? Sei malata, sei. E dico sul serio” (RR, p. 64).
In ogni visita dai Wheeler, i figli di April e Frank vengono portati dai Campbell, onde evitare
l’“infezione” da parte di un personaggio malato come John Givings. Costui agisce in modo contorto e
destabilizzante rispetto a quei canoni di normalità vigenti che il narratore presenta nei capitoli precedenti
(ad esempio, con la visita della signora Givings). Durante il primo incontro con i Wheeler, John beve
un drink in modo sconveniente, appoggia il cappello su uno scaffale, indossa abiti ospedalieri, ed al
12
A cura di Nicolas Chiappucci, Stefano Acquisti e Adele Piovani.
342
contempo sanziona negativamente l’operato della madre, a causa del suo essere completamente
modalizzata verso il /sembrar-essere/ agli occhi degli altri (cfr. infra, par. 2.1.). Inoltre, le discussioni
avviate da John oltrepassano ampiamente le consuetudini conversazionali: egli è il solo personaggio
capace di utilizzare il linguaggio ironico, riferendosi a quelle strutture sociali predeterminate, e
attualizzandone la dimensione tragica. Eccone un esempio: “è proprio un bel granaio antico, mamma”.
“E quella dei Wheeler è una bella notizia, e tu sei tanto carina. Non è vero, papà, che è tanto carina?”
(RR, p. 376). Inoltre, John si pone come destinante sanzionatore del mancato conseguimento del PN di
April e Frank, rispetto al loro voler andare oltreoceano. Egli critica la rinuncia di entrambi alla
realizzazione personale, dovuta al loro incorporare ruoli tematici stereotipici: riconosce Frank come
“capofamiglia” e “solido cittadino” (RR, p. 325), oppure April come semplice donna di casa. È attraverso
le esternazioni di John che i coniugi Wheeler raggiungono la piena consapevolezza del loro stato, sia
personale che matrimoniale. Egli è fuori dalla società: una non-conformità attestata del resto dal suo
modo di esprimersi. John è in grado di vedere oltre quell’illusione di normalità che permea la società
civile e ne mette in luce tutte le contraddizioni: rifiutando le regole previste, egli riesce a far luce sulle
maschere degli altri personaggi. D’altra parte, il suo PN, teso verso una sorta di performanza
sanzionatoria nei confronti della coppia, come tutti i “baccelli reazionari” della società (come anche
April) non si conclude con una sanzione positiva. La madre ne definisce l’operato in modo negativo e
deleterio, invitando il medico a non concedergli alcun contatto con persone esterne. Mentre John viene
segregato in una maniera ancor più oppressiva, venendo escluso dalla conformità felice e funzionale, la
vita della signora Givings, dei Campbell e dell’intera Revolutionary Road riprende, relegando ad un
puro pettegolezzo (unica fonte di verità per la società qui descritta) i tristi accadimenti della vicenda.
4.2. Controllo: la rete e l’alcol
Lungo l’intero romanzo, emerge anche un percorso tematico del controllo, caricato di investimenti tematici
parziali e di atti di figurativizzazione dei contenuti. Attori, tempi e spazi risultano continuamente sottoposti
ad una rete di decisioni, prese dalla società nel suo essere collettivo, che influenzano i ritmi e le direzioni
della narrazione. Lo si osserva, ad esempio, attraverso il tema dell’alienazione sociale: la casa dei Wheeler
o l’ufficio di Frank, sono descritti nella loro conformazione eidetica sempre secondo una regolare e
spigolosa perfezione geometrica, veicolando un distacco, sia spaziale che temporale, rispetto a ciò che si
trova al di fuori. Frank entra come un automa nell’azienda Knox: una struttura nella quale i piani
“sembravano tutti uguali” ed in cui “aveva scoperto solo lievi differenze sensoriali tra questo (il suo) e gli
altri piani dell’ufficio” (RR, p. 132). La descrizione dell’ufficio in questo senso è esemplare, con i tratti
semantici di staticità ed angustia rilevati attraverso una efficace metafora collegata al tema dell’acqua:
L’effetto generale, agli occhi di chi, uscito dall’ascensore, contemplasse il panorama dello
stanzone, era quello di un ampio lago chiuso tra mura, in cui si muovessero vicino e lontano dei
nuotatori, alcuni intenti ad avanzare, altri immobili nell’acqua, altri ancora sorpresi nell’atto di
emergere o affondare, e molti immersi, i volti dissolti in tremolanti macchie rosa, mentre
annegavano alle rispettive scrivanie (ibid.)
Se il controllo funziona per abitudine, ecco come nel lavoro di Frank l’aspettualizzazione temporale
sottolinei una certa iteratività quotidiana: si ripete nelle mansioni e nei tempi con le medesime
caratteristiche del giorno precedente. Alle cinque del pomeriggio, Frank porta avanti la consuetudine
di lasciare il lavoro in vista dell’appuntamento quotidiano con l’amante (RR, p. 128). La ricerca della
promozione, l’immobilità del lavoro ed i tradimenti giornalieri sono forme di controllo che seguono
Frank per l’intera giornata. Maureen Grube, la segretaria con cui Frank avrà una relazione, è parte di
quell’ingranaggio di rinnovata iteratività giornaliera. Non è un caso, del resto, che il romanzo si apra
343
con la vicenda della Compagnia dell’Alloro (cfr. infra, par. 2.1.), una filodrammatica di attori dilettanti
che, con il suo conseguente fallimento, rinvia immediatamente April ad un piano de-realizzato di sé
stessa e della sua possibile fuga dalla quotidianità13.
Eppure, l’omologazione del comportamento nella società, in cui vivono individui intrisi di sentimenti
come l’appartenenza e la realizzazione, si scontra con un certo /voler-essere/; ciò si nota bene attraverso
i sintomi passionali, generati durante le situazioni delicate che i personaggi si trovano ad affrontare.
Infine, l’alcol: durante la narrazione, i personaggi non fanno che bere, nelle situazioni più disparate.
L’uso e l’abuso della sostanza e la sua capillarità descrivono l’ambiente in cui i personaggi si collocano.
I soggetti sono dominati dalla paura e dall’ansia di essere equiparati agli altri, e l’alcol funziona come
una medicina, una via di fuga dal senso di inadeguatezza. Ciò accade poiché, rispetto a tematiche che
restano nascoste, l’alcol è sotto gli occhi di tutti e liberamente usufruibile: i soggetti sono consci che,
senza alcol, non sarebbero in grado di gestire le situazioni. Sono così consapevoli di questa necessità
che spesso fingono addirittura di essere più ubriachi di quello che sono. Anche dal punto di vista
narrativo, questo è un ottimo escamotage: i personaggi si comportano in un modo non previsto dalle
rigide imposizioni sociali, perché sono, oppure fingono di essere, ubriachi. Nella diegesi del romanzo
l’alcol viene somministrato anche in modo manipolativo, per fare in modo che i personaggi si sciolgano
e dimentichino a poco a poco le briglie dei ruoli sociali pre-imposti: “in ufficio, Frank, che non era poi
così ubriaco come voleva far credere, aveva sospinto Maureen Grube contro uno schedario e l’aveva
baciata a lungo, violentemente, sulla bocca” (RR, p. 102). La manipolazione tramite l’alcol viene espressa
chiaramente all’interno del romanzo, e diventa quasi l’adiuvante narrativo per compiere il proprio PN.
5. Corpi e valori14
Come è già emerso nei paragrafi precedenti, il corpo dei personaggi funge da dispositivo mediatore del
rapporto dei soggetti con l’ambiente facendosi filtro della percezione e assieme terreno di emersione e
strumento di regolazione delle passioni. Oltre a queste funzioni attanziali però, i corpi, in quanto figure
appartenenti alla macrosemiotica del mondo naturale, partecipano all’interno del testo anche alla
articolazione e messa in forma del livello discorsivo del romanzo. Il corpo è in grado di determinare
l’articolazione dei linguaggi in sostanze significanti, fungendo da base per la formazione di categorie
semantiche, per poi in seguito installarsi sul piano del contenuto come elemento figurativo che
concretizza i temi astratti del testo. In questo paragrafo ci si concentrerà quindi sui processi di
figurativizzazione dei corpi dei personaggi, cercando di mostrare come la produzione di diverse
immagini della corporeità faccia da supporto per il dispiegamento dell’universo valoriale che investe i
corpi stessi (cfr. Marrone 2005). Lo spazio del corpo, diventa così il territorio di articolazione di diverse
opposizioni semantiche (sociale/naturale, vita/morte, salute/malattia), che come vedremo sono
strettamente connesse l’una all’altra e organizzate secondo una logica di incassamento isotopico
(Marsciani, Zinna 1991).
5.1. Corpo sociale e corpo naturale
La principale opposizione rilevabile, sulla quale si sviluppano le altre, organizza i corpi in due ordini:
quello del corpo sociale e quello del corpo naturale.
13 È il primo contratto offerto dall’enunciatore al lettore ed ai personaggi del testo. Un contratto di veridicità che
non assumerà su di sé alcun piano che non sia quello reale.
14
A cura di Lorenzo Fabrizio Ravizza Maritano e Rachele Vanucci.
344
Il corpo sociale, composto da atteggiamenti, azioni e comportamenti, è il terreno di mediazione
intersoggettiva dei personaggi, ed è laddove viene valorizzata la modalità performativa basata sul
“fare”, soprattutto nella sua specificazione manipolatoria del /far-fare/. Il corpo sociale, che è teso
all’ottenimento di riconoscimento da parte dell’altro, si manifesta tramite azioni e comportamenti che
evidenziano la competenza del soggetto, valorizzata positivamente in prospettiva dell’ottenimento di
una sanzione positiva da parte di un Destinante extra-individuale. Il corpo sociale installa, inoltre, una
isotopia della teatralità, in cui il corpo viene impiegato strategicamente e coscienziosamente come
strumento di esibizione performativa nei PN dei personaggi: “A volte c’era una punta di ironia in
questi abbracci scambiati solo con gli occhi: so che sto dando spettacolo, sembravano dire, ma anche
tu lo fai, e ti amo” (RR, p. 188).
Il corpo naturale è invece il corpo fisico, centro di costituzione dell’identità degli attori tramite i processi
percettivi e passionali. Come notato nel paragrafo precedente, i sintomi passionali dei personaggi
contraddicono ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, facendosi rivelatori di una sorta di
dimensione passionale autentica. In ciò si può ritrovare una relazione tra l’opposizione sociale/naturale
e l’opposizione essere/sembrare, alla base del quadrato di veridizione (Greimas, Courtés 1979).
Rifuggendo il controllo e scontrandosi con le norme imposte dall’orizzonte sociale, inoltre, il corpo
naturale convoca anche le opposizioni semantiche individuale/intersoggettivo e privato/pubblico.
Per spiegare meglio come queste opposizioni vengano attualizzate nel testo, prendiamo come esempio
due tra le prime descrizioni che introducono i personaggi principali, cominciando con Frank:
Nonostante la mancanza di vistose particolarità fisiche, Franklin aveva un volto straordinariamente
mobile, capace di suggerire una sequela di personalità del tutto diverse a ogni minimo mutamento
d’espressione. Se sorrideva, era un uomo perfettamente consapevole che il fiasco di una
rappresentazione filodrammatica non era cosa di cui si dovesse preoccupare troppo, un uomo
gentile, dotato di umorismo, il quale avrebbe trovato proprio le parole che ci volevano per
confortare dietro le quinte la moglie; ma negli intervalli tra un sorriso e l’altro, mentre a colpi di
spalle si incuneava nella folla, e nei suoi occhi si scorgeva una lieve, cronica febbre di perplessità, si
sarebbe detto che anche lui avesse bisogno di conforto (RR, pp. 50-51).
Da subito il volto è descritto come uno strumento del /poter-fare/ di Frank: egli è consapevole di essere
pienamente in grado di sfruttarlo per mettere in scena un certo stato d’animo, per autodeterminarsi in
quanto soggetto sociale e attribuirsi un ruolo tematico strategicamente scelto. Di contro, la realtà delle
sue emozioni traspare nei momenti in cui abbassa la guardia, e nel resto della scena tutte le figure del
corpo fisico propongono uno stato disforico del soggetto: “piedi indolenziti”, “odore acidulo”, “nocche
arrossate”. In Frank viene così incorporata la tensione causata dalla mediazione tra una corporeità
mediata dalla ragione e una non mediata e incontrollata. La dimensione somatica diviene per Frank
luogo di conflitto in cui esperienze presoggettive ed istanze intersoggettive competono nella
caratterizzazione della sua soggettività.
È importante precisare che queste due categorie non sono indipendenti l’una dall’altra: come ricorda
Marrone, il corpo in quanto dispositivo semiotico “si concretizza ora nei processi sensoriali e fisiologici
di una dimensione somatica prettamente soggettiva, ora negli investimenti sociali che riceve dalle
istituzioni sociali e politiche, ora nei processi di passaggio dagli uni agli altri e viceversa” (Marrone 2005,
p. 80). All’interno del testo però, come abbiamo appena visto, questi due ordini della corporeità
costruiscono due diverse immagini di corpi inserite in una assiologia che valorizza la dimensione
intersoggettiva a discapito di quello individuale. La presa in carico di questa opposizione sul piano
narrativo (da una organizzazione polemica della narrazione) e sul piano discorsivo (dalle diverse
manifestazioni della corporeità nei personaggi di April e Frank) produce all’interno del testo una
dialettica tra due punti di vista ideologici.
345
5.2. Padronanza del corpo e mascolinità
Sul piano narrativo questa assiologia si incarna in una organizzazione ideologica (Greimas, Courtés
1979) per la quale i PN dei Soggetti presentano Destinanti intersoggettivi, incarnati di volta in volta nei
vicini, nei conoscenti della coppia e – nella parte finale – nel capo dell’azienda. Nel caso di Frank, che
partecipa pienamente a questa ideologia, ciò si trasforma sul livello discorsivo in percorsi figurativi che
tematizzano anche una “padronanza” del corpo fisico, intesa come sussunzione della materia fisica sotto
il controllo della ragione e della volontà del soggetto. Un esempio molto denso lo si trova nel terzo
capitolo, figurativizzato nella descrizione delle mani del padre di Frank, investite di un nostalgico valore
euforico per “[…] la loro sicurezza e sensibilità” e per “l’aria di padronanza che donavano a tutto ciò di
cui Earl Wheeler si serviva” (RR, p. 79).
Questo ricordo introduce anche un’altra isotopia rilevante nel testo, cioè quella della mascolinità, qui
costruita come immagine euforica della realizzazione del Soggetto in seguito ad una sanzione positiva.
Oltre all’immagine di fisicità, la mascolinità gioca un ruolo fondamentale nell’universo di valori di Frank:
a costituire la desiderabilità dello spazio utopico dell’Europa, su cui fa leva la proposta di April, è la
possibilità di riconoscersi in uno dei “grandi uomini” (RR, p. 63). Nella terza parte del romanzo sono,
inoltre, prettamente maschili gli spazi aziendali in cui Frank si ritrova riconosciuto come soggetto dotato
di valore. In uno dei primi litigi, invece, è proprio la sua mascolinità che viene messa in dubbio da April:
“Guardati e dimmi se con tutta la buona volontà del mondo […] puoi definirti un uomo” (RR, pp. 69-70).
5.3. Corpi malati e corpi sessuali
L’ideologia del controllo del corpo sociale ha effetti significativi anche sulle valorizzazioni del corpo
naturale, che viene connotato come “malato” nel momento in cui vi è una discrasia tra le tensioni dei
due protagonisti, ovvero quando la passionalità disforica del corpo naturale tradisce la pretesa di
controllo di quello sociale. La malattia, che colpisce tanto il fisico quanto la mente – caso in cui compare
come sottoclasse la “follia” – è incarnata nella prima parte del romanzo e soprattutto dal personaggio di
April. Fin dalle prime descrizioni della protagonista, la malattia viene collegata al fallimento sociale: se
nel primo capitolo la bellezza di April sul palco teatrale bastava “perché la parola «carina» volasse in
un sussurro da un capo all’altro della platea” (RR, p. 44), in seguito al disastro dello spettacolo il suo
corpo diventa prefigurazione di morte sotto lo sguardo di Frank, a cui appare “una creatura sgraziata e
sofferente la cui esistenza egli tentava di negare ogni giorno della sua vita” (RR, p. 52). Il fatto che il
romanzo sia in gran parte costruito nella prospettiva di Frank, porta all’attribuzione della malattia
soprattutto nei litigi di coppia, durante i quali April viene accusata dal marito di essere “malata” (RR,
p. 69) (cfr. infra, par. 4.1.) e “pazza” (RR, p. 384).
Nei casi, invece, in cui vi è un equilibrio tra corpo sociale e corpo naturale, quest’ultimo viene allora
valorizzato in quanto “sessuale”, diventando oggetto di investimento erotico e di una passionalità
euforica. Il corpo sessuale si ritrova nelle sequenze di maggiore passione amorosa tra i protagonisti,
quando costoro condividono PN e Oggetto di valore. Inoltre, il corpo sessuale – sia in quanto territorio
di incontro fisico tra due soggetti, sia oggetto dello sguardo erotico – è sempre uno spazio di
intersoggettività tra due attanti: in questo modo non vi è tanto una neutralizzazione dell’assiologia
sociale/naturale, quanto una configurazione nella quale è il corpo naturale a farsi oggetto. Esempio di
ciò sono le scene del primo incontro di April e Frank e del loro innamoramento, dove il corpo della
donna appare come uno strumento sotto il controllo dell’uomo: “coscia tesa e calda sotto il tocco della
sua mano”, “schiena che si muoveva perfettamente sotto la sua mano” (RR, p. 65). In altri casi, invece,
il corpo sessuale diventa un oggetto di scambio simbolico, nel momento in cui la sua presenza segna la
sanzione positiva del corpo sociale: nella sequenza del primo incontro tra i due protagonisti, April, prima
346
ancora di venire avvicinata da Frank, viene definita una “donna di prima qualità” che poteva dargli “un
senso di puro trionfo” (RR, p. 63).
5.4. Fuga dal sociale
Se, come abbiamo visto in precedenza (cfr. infra, par. 4.1.), il controllo sociale del corpo malato di John
Givings comporta il suo isolamento dalla società e la reclusione nella clinica psichiatrica, l’uscita di April
dallo spazio sociale avviene invece tramite un ribaltamento dell’ordine assiologico. Dopo l’ennesimo
litigio, April, dopo essersi resa conto della insincerità dei propri sentimenti per Frank, decide di praticare
su di sé l’aborto. Nel relativo percorso narrativo, assieme ad una rivoluzione dell’ordine di veridizione
(quello che era vero, in realtà è falso), vi è una trasformazione nella valenza dei valori in gioco; ovvero,
nel “valore attribuito ad un valore” (Bertrand 2000, p. 208), socialmente condiviso e alla base delle
strutture assiologiche. April, che riscopre un ordine di verità situato nel suo corpo naturale, ribalta la
predominanza del sociale e riesce così ad uscire dalle maglie ideologiche in cui invece soccombe Frank.
Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo, quello che né i suoi genitori
né zia Claire né Frank né chiunque altro avevano mai dovuto insegnarle: che se si vuol fare
qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che
va fatta da soli (RR, p. 409).
Parallelamente, questa inversione di valenza investe anche il corpo di Frank, che dopo la morte della
moglie sembra aver perso la brillantezza e agilità sociale che lo avevano caratterizzato nei capitoli
precedenti l’incidente. Nell’ultimo capitolo del romanzo, Frank non solo è “diventato terribilmente
noioso” (RR, p. 432), dimostrando così di aver perso la sua competenza sociale, ma perfino il suo corpo
naturale perde ogni spinta vitale, finendo nello stato adiaforico del “non-morto”, incapace di sentire ed
esprimere emozioni, come emerge dai giudizi di Shep Campbell: “Così gli era apparso Frank […] un
cadavere che camminava, parlava sorrideva. […] Era impossibile immaginarselo sul serio nell’atto di
ridere o piangere o sudare o mangiare o entusiasmarsi” (RR, p. 431).
6. Conclusioni
La metodologia di analisi collettiva ha consentito una lettura completa di Revolutionary Road, attraverso
un confronto di differenti punti di vista individuali che hanno permesso anche di far affiorare le
ricorrenze che emergevano dalle diverse parti.
La spazialità, ad esempio, è emersa come caratteristica rilevante non in sé, ma in relazione agli effetti di
senso che ad essa si legavano. Il diverso comportamento dei personaggi nel romanzo, a seconda dei
luoghi, ha consentito di evidenziare la pregnanza delle opposizioni tra pubblico e privato, ovvero
l’individuazione di un sistema di apparenze sociali che condizionava anche la dimensione intima. Da
questo stesso sistema, scaturiscono in modo conseguente i tratti della simulazione e della finzione che
caratterizzano i singoli personaggi, e dunque l’intera rete sociale nella quale essi sono immersi. Se la
simulazione risulta essere la condizione “normale”, ciò che ne fuoriesce diventa caratterizzato dall’
“anormalità”, ovvero dalla patologia. Sarà infatti la malattia a divenire, e sempre di più, un elemento di
rivelazione della verità.
Ma il romanzo si caratterizza anche per una sapiente articolazione della dimensione temporale, e per
un’efficace costruzione di un andirivieni temporale tra passato e futuro. Frank e April vivono con
nostalgia le loro passate proiezioni verso un futuro non realizzato. Dunque se c’è un tempo da loro
vissuto in modo particolarmente disforico, quello è proprio il presente, per il suo aspetto scevro da
347
illusioni e per essere irraggiungibile dai loro mondi immaginari. Saranno le loro rispettive proiezioni, a
loro modo egoistiche, a rompere ogni possibile alleanza e a determinare una loro crisi irreparabile.
Una ulteriore caratteristica rilevante nel romanzo è la correlazione tra corporeità e sentire passionale.
Gli attori manifestano elementi euforici o disforici attraverso una manifestazione corporea, la quale non
si limita a “descrivere” gli stati dei singoli personaggi, ma è funzionale a fare emergere il loro status di
corpi sociali. Ad esempio attraverso forme di controllo o, viceversa, di disinibizione attraverso l’uso di
bevande alcoliche. Se i corpi sociali in Revolutionary Road sono corpi teatrali, la passionalità dei
personaggi contraddice invece ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, rivelando una sorta di
passionalità autentica, e instaurando una gerarchia assiologica che valorizza il corpo sociale a discapito
di quello naturale.
Tutto il romanzo, infine, è sostanzialmente la lettura del mondo condotta attraverso la prospettiva
“controllata” del protagonista maschile, cioè Frank Wheeler. Ad essa si oppone April, la quale fa
emergere la verità attraverso il proprio corpo naturale, affrancandosi dal predominio del sociale e dalle
costrizioni nelle quali è imbrigliato Frank.
In conclusione, l’esperimento metodologico può ritenersi riuscito, il che non evita che questa analisi possa
essere considerata oggetto di osservazioni critiche, o non debba essere ulteriormente approfondita e integrata.
348
Bibliografia
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349
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] | Rivista dell’Associazione Direttore responsabile
Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone
mimesisjournals.com
Anno XVII, n. 38 - 2023
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
Il discorso dei materiali
Senso e significazione – vol. I
n.38 EC
a cura di Maria Cristina Addis, Giorgia Costanzo, Dario Mangano, Elisa Sanzeri
contributi di:
Karina Astrid Abdala Moreira Giulia Ceriani Francesco Pelusi
Maria Cristina Addis Pierluigi Cervelli Francesco Piluso
Daria Arkhipova Giorgia Costanzo Davide Puca
Giuditta Bassano Emanuele Fadda Ramon Rispoli
Paolo Bertetti Giacomo Festi Maddalena Sanfilippo
Denis Bertrand Maria Giulia Franco Elisa Sanzeri
Giorgio Borrelli Francesco Galofaro Lucio Spaziante
Gianluca Burgio Alice Giannitrapani Mirco Vannoni
Carlo Campailla Luigi Lobaccaro Anna Varalli
Valentina Carrubba Enrico Mariani
EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici
mimesisjournals.com
Direttore responsabile
Gianfranco Marrone (Università di Palermo)
Vicedirezione
Alice Giannitrapani (Università di Palermo)
Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo)
Comitato Scientifico
Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité)
Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia)
Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2)
Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis)
Lucia Corrain (Università di Bologna)
Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia)
Jacques Fontanille (Université de Limoges)
Manar Hammad (Université Paris III)
Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos)
Tarcisio Lancioni (Università di Siena)
Massimo Leone (Università di Torino)
Anna Maria Lorusso (Università di Bologna)
Dario Mangano (Università di Palermo)
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Claudio Paolucci (Università di Bologna)
Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki)
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Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid)
Stefano Traini (Università di Teramo)
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Comitato editoriale
Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli
Metodi e criteri di valutazione
La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione
paritaria e anonima (double blind peer-review).
Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005
Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
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ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
ISBN: 9788857598321
Fotografia in copertina di Gianfranco Marrone
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EIC - n. 38
Il discorso dei materiali
Senso e significazione – vol. I
a cura di Maria Cristina Addis, Giorgia Costanzo, Dario Mangano, Elisa Sanzeri
INDICE
Introduzione
Le ragioni dei materiali. Sguardo semiotico e mondo delle cose.............................................................................................................................. pp. 1-7
Maria Cristina Addis
1. Narrazioni e ideologie
Du ballast, de la traverse et du rail, ou : l’immobilité dure au service de la mobilité douce. Pour une sémiotique de la matérialité..........................pp. 8-21
Denis Bertrand
Retoriche e politiche dei materiali: dall’efficacia simbolica alla semiosi ermetica.................................................................................................pp. 22-32
Pierluigi Cervelli
“Questa è l’acqua”. Semiotizzare il mare.............................................................................................................................................................. pp. 33-44
Emanuele Fadda
Iste ego sum. Specchi, materialità ed enunciazione............................................................................................................................................... pp. 45-55
Luigi Lobaccaro
Le crociate per le materie prime. Circolazione e valorizzazione dei materiali nel discorso storico........................................................................ pp. 56-68
Carlo Campailla
La materia nel discorso vinicolo: semiotica del terroir Etna DOC..........................................................................................................................pp. 79-85
Davide Puca
Forma, trasformazioni materiali e sostanza nella teoria marxiana della merce. Proposte per una lettura semiotica................................................ pp. 86-99
Giorgio Borrelli
2. Pratiche e trasformazioni
Mixology e creazioni elementali. Trasformazioni semiotiche della materia liquida...............................................................................................pp. 100-113
Alice Giannitrapani
Il marmo oltre la vena. Per una semiotica alternativa dei materiali.....................................................................................................................pp. 114-124
Giacomo Festi
Il diagramma nascosto. La materia della carta nella pratica degli origami......................................................................................................... pp. 125-135
Valentina Carrubba
Spazialità e materialità urbane: incontri e dialoghi per un’analisi topologica delle nuove risemantizzazioni post-pandemiche..........................pp. 136-146
Maria Giulia Franco
Osservare, immergersi, produrre. Immagini del borgo e forme di valorizzazione nelle aree interne italiane:
il caso di Castelluccio di Norcia.........................................................................................................................................................................pp. 147-162
Enrico Mariani
EIC - n. 38
3. Poetiche e immaginari
Figura, immagine, materia. L’immaginazione materiale di Gaston Bachelard..................................................................................................... pp. 163-167
Paolo Bertetti
Sulle tracce della polvere. Brevi note sul potere materiale del quasi-niente....................................................................................................... pp. 168-178
Gianluca Burgio
Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze.................................................................................................................................................... pp. 179-196
Giuditta Bassano
Porte, ripostigli, soffitte e scantinati. L’architettura e la partizione del sensibile..................................................................................................pp. 197-204
Ramon Rispoli
Schiume, polveri, saponi: i materiali dell’igiene nell’immaginario pubblicitario.................................................................................................pp. 205-222
Giorgia Costanzo
4. Contrasti e traduzioni
Materialità immateriali: il paradosso delle skin.................................................................................................................................................pp. 223-229
Giulia Ceriani
La materia dello spirito: ontologia o semiotica?...............................................................................................................................................pp. 230-243
Francesco Galofaro
Bodies of the Future. Il farsi senso della materia...............................................................................................................................................pp. 244-257
Francesco Piluso, Francesco Pelusi
Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente...................................................................................................pp. 258-273
Anna Varalli
Colmi elementali. Sulla smaniera contemporanea di Nicola Samorì.................................................................................................................. pp. 274-285
Mirco Vannoni
Livelli di materialità del gusto e dell’intelligenza artificiale...............................................................................................................................pp. 286-295
Karina Astrid Abdala Moreira
Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale degli utenti.................................................................... pp. 296-304
Daria Arkhipova
Conclusione
In materia di materiali...................................................................................................................................................................................... pp. 305-313
Elisa Sanzeri
Miscellanea
Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok......................................................................................................................... pp. 314-334
Maddalena Sanfilippo
Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario............................................................................................................................... pp. 335-349
Lucio Spaziante
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] | Le ragioni dei materiali. Sguardo semiotico e mondo delle cose
Maria Cristina Addis
1. Face à Gaïa: l’orizzonte materiale contemporaneo
Il Discorso dei materiali esplora l’universo degli artefatti, delle sostanze e degli elementi alla ricerca delle
loro ragioni: dei progetti e programmi che dischiudono, delle operazioni tecniche che li coinvolgono, dei
ragionamenti costruiti tramite le loro proprietà, delle retoriche, poetiche e ideologie di cui sono a vario
titolo “materia” e degli ordini discorsivi responsabili, di volta in volta, del loro senso.
Come osservano in termini non dissimili Michel Serres (1980) e Bruno Latour (1991, 2015), le tradizionali
differenze ontologiche tramite cui abbiamo teorizzato, studiato e gestito “il contesto fisico” collassano di
fronte al grado di complessità e interrelazione degli ambienti entro cui si svolge l’umana esistenza sul
Pianeta. Osserva Latour nell’incipit di Face à Gaïa (2015):
[…] il contesto fisico, che i moderni avevano dato per scontato, il terreno su cui la loro storia si era
sempre dispiegata, è divenuto instabile. Come se lo scenario avesse calcato la ribalta per condividere
la trama con gli attori. A partire da questo momento, tutto cambia nel modo di raccontare storie, al
punto da far entrare in politica tutto ciò che, fino a poco prima, apparteneva ancora alla natura – figura
che di riflesso, diviene un enigma ogni giorno più indecifrabile (Latour 2015, p. 11).
L’era dell’Antropocene – e più ancora la repentina attenzione politica e mediatica, a partire dalla fine del
secolo scorso, di un concetto nato centocinquanta anni fa – definirebbe secondo Latour il compiuto
collasso della separazione “costituzionale” fra natura e società e con essa delle categorie tramite cui la
società occidentale si è pensata per differenza rispetto ai propri antenati e per omologia rispetto ai propri
vicini, le culture non occidentali1.
Come gestire e prima ancora pensare la “realtà fisica”, oggi, se le pratiche di depurazione messe a punto
dai moderni per conservare separati gli ambiti della scienza e della politica collassano miseramente di
fronte a una distopica ecologia globale, il Nuovo regime climatico, in cui tutto reagisce a tutto e crisi
1 Com’è noto, l’archeologia dell’episteme moderna proposta da Latour individua a fondamento della modernità la
separazione artificiale di natura e società come dominii ontologicamente distinti e ambiti di legalità parimenti separati,
l’uno della scienza e l’altro della politica. Come riassume Federico Silvestri: “[...] alla scienza spetta di conoscere
l’ordine naturale per poter giungere alla definizione della verità, alla politica spetta il compito di costruire, in base a
tale definizione, le condizioni utili a regolare il giusto funzionamento dell’ordine sociale. Il sapere della modernità
risulta così concepito come un’esplorazione diretta delle forme naturali, necessarie ed universali attraverso cui poter
realizzare un modello universalizzabile di umanità. [...]” (Silvestri 2012, p. 154). La “Grande Divisione” dicotomica
tra modernità e tradizione che separa i moderni dal loro passato e dai popoli non occidentali, assimilati ai premoderni,
richiede di essere costantemente costruita tramite opposte pratiche di ibridazione e depurazione: da un lato la
modernità produce continuamente mescolanze sempre più complesse di natura e cultura, dall’altro rimuove le
proprie operazioni di assemblaggio dal discorso sull’una e sull’altra, distinguendo “per legge” il mondo degli umani
e il mondo dei non umani. Cfr. in particolare Latour (1991, 2015, 2021).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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ecologiche, guerre, pandemie, flussi migratori, processi di globalizzazione vi si annodano in un ibrido non
ulteriormente riducibile, il Cosmocolosso, chimera “metà uragano e metà Leviatano” (Latour 2015, p. 10),
né conoscibile né governabile?
Che farne, oggi, di modelli di mondo e di società fondati sulla distinzione ontologica fra “scenario” e
“attori”, laddove l’oggetto delle scienze esatte varia a velocità maggiore delle culture e persino i dati un
tempo fra i più stabili e certi – la morfologia terrestre, i profili delle coste e dei ghiacciai, il livello del mare
– sono divenuti variabile di un’azione umana le cui politiche si mostrano molto più restie al cambiamento?
Se da tempo l’epistemologia e la sociologia della scienza denunciano la sterilità degli approcci atomistici e
isolati ai fenomeni di natura e a quelli di cultura, numerose voci dell’antropologia e la paleontologia hanno
costantemente richiamato l'attenzione sulla necessità di integrare la cultura materiale e la dimensione
vivente nello studio della cultura, sviluppando modelli in grado di apprezzare la complessità cognitiva e
culturale delle azioni strumentali e tecniche degli esseri umani, all'interno delle quali nessuna delle
componenti – linguaggi, tecniche, pratiche, simbolizzazioni – può essere pensata in modo isolato.
La crisi dei sistemi di categorizzazione del mondo e della società non è del resto una semplice
preoccupazione accademica. Prendiamo ad esempio la definizione di patrimonio mondiale offerta
dall’UNESCO nella Convezione di Parigi del 1972, che stabilisce cosa è da considerarsi rispettivamente
“patrimonio culturale” e “patrimonio naturale”, e le successive estensioni e specificazioni di cui è stato in
seguito oggetto. La progressiva inclusione di nuove “specie” e “sotto-specie” – paesaggistico, integrato,
patrimonio culturale mobile e immobile, patrimonio culturale subacqueo, patrimonio immateriale,
patrimonio di comunità – mostra l’ingresso di nuovi “attori” (l’ambiente, le conoscenze, le persone) nella
definizione Outstanding Universal Value (valore eccezionale universale per l’umanità) e dei beni meritevoli
di tale titolo, in un tentativo mai del tutto riuscito di “depurazione”.
La netta distinzione fra “prodotti dell’uomo” e “prodotti della Natura” promessa dai due termini della
dicitura si sfalda di fronte all’elenco dei beni supposti appartenere all’uno o all’altro: fra i monumenti
troviamo riunite sotto la stessa voce “opere architettoniche” e “grotte”, fra i siti “opere coniugate dell’uomo
e della natura”, così come il patrimonio naturale è tale “per ragioni di interesse scientifico, [...] conservativo,
[...] estetico naturale”, quello paesaggistico è in sé esito del rapporto fra uomo e natura e il patrimonio
integrato include nella propria definizione l’indiscernibilità dei due poli2.
La stessa scelta di pensarli insieme, come le due facce di una medesima “cosa”, e la descrizione simmetrica
che ne propone la Convenzione, inaugura un sempre più intenso tentativo di pensare e gestire la
complessità dei loro rapporti, sfociante nella definizione di approccio olistico. Il termine indica un metodo
di studio e di governo del patrimonio in grado di cogliere i rapporti che ogni attore intrattiene con gli altri
e rispetto all’insieme, nel quadro di reti relazionali sempre più fitte ed eterogenee. La conservazione e lo
studio del “patrimonio culturale subacqueo”, per esempio, necessitano delle scienze fisiche, chimiche e
biologiche quanto della storia e dell’archeologi; le pratiche che comportano sono parimenti soggette alle
istituzioni scientifiche e politico-giuridiche e condizionate a ogni stadio dalle tecnologie informatiche; il
reperimento dei reperti implica pari attenzione all’obiettivo di sottrazione al deperimento di un bene
culturale e di conservazione degli ecosistemi marini di cui nel frattempo esso è divenuto parte integrante;
le letture che ne offrono chimici e biologici sono cruciali nei processi di interpretazione storico-artistica e
antropologica dell’artefatto o insediamento scoperto, così come i suoi materiali e le sue fatture costituiscono
habitat di svariate forme di vita e partecipano della composizione geologica del fondo marino. Le stesse
pratiche conservative e conoscitive rispettose e del bene culturale e del bene naturale potrebbero
comunque entrare in conflitto, ad esempio, con attività produttive come la pesca o il turismo, così come
queste stesse pratiche sono inscindibili da quelle di visualizzazione e rappresentazione visiva di dati e
oggetti, che riannodano a un altro livello le ragioni della scienza e quelle dell’estetica.
2UNESCO, Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage, accessibile online
sul sito https://whc.unesco.org (ultimo accesso 15 ottobre 2023).
2
Il Discorso dei materiali si situa allo snodo fra un progetto di critica della cultura di cui Bruno Latour è
una delle principali voci contemporanee e la densità discorsiva delle “cose”, di cui il caso del patrimonio
e del suo governo può costituire un buon esempio. Paradossalmente (in apparenza), è proprio la vocazione
all’immanenza, la scelta di eleggere a oggetto di studio le relazioni responsabili del senso assunto dalle
“cose” piuttosto che le cose in sé, a permettere alla semiotica di nutrire proficuamente un dibattito
contemporaneo sui materiali, attingendo a una cassetta degli attrezzi ormai ben nutrita e stringendo nuove
alleanze interdisciplinari di fronte a fenomeni in parte anch’essi nuovi.
2. Percetti e concetti: la svolta semiotica
In generale, la concezione differenziale e relativa della significazione che fonda l’epistemologia semiotica
e orienta i suoi strumenti teorici e obiettivi euristici trova la disciplina “preparata” a gestire la complessità
dell’orizzonte materiale additata da Latour e l’eterogeneità delle sostanze che lo compongono, degli attori
che vi interagiscono e con cui interagisce, dei sistemi di valori e campi di legalità che vi si intrecciano.
“Non è più vero che il significante è percettivo e il significato è concettuale: ogni percettivo può diventare
concettuale per una nuova espressione percepibile, e ogni contenuto concettuale può diventare espressione
per un nuovo contenuto” (Fabbri 1998, p. 212). La svolta semiotica segnalata da Paolo Fabbri descrive
uno strutturalismo topologico efficace in quanto vuoto: condizione necessaria della significazione è la
correlazione di almeno due piani (o serie, nella terminologia deleuziana ripresa da Fabbri), un’espressione
e un contenuto, sollevati da assunti sostanziali e predefiniti. La stessa significazione, a monte di ogni
realizzazione specifica, non ha altra “essenza” che quella di un processo dinamico e differenziale di
strutturazione animato da un principio traduttivo, “trasposizione di un piano di linguaggio in un altro, di
un linguaggio in un linguaggio diverso” (Greimas 1970, p. 13). Quali “scarti differenziali” organizzino quali
materie, quali sostanze fungeranno da espressione e quali da contenuto è variabile dei singoli testi e dei
criteri di pertinenza con cui li costruiamo. Come scrive Giulia Ceriani nel saggio qui pubblicato:
[…] tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di
costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del
tutto antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben
prima degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce ‘oggetti di valore’,
pure posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di
discorso (Ceriani infra, p. 226)
Distinzioni fra umano e non umano, naturale e artificiale, vivente e inerme e tutte le altre ripartizioni
operate dai saperi costituiti o dal senso comune, perfino quelle all’apparenza più solide e indiscutibili, sono
sub specie semiotica altrettanti effetti di discorso, categorizzazioni e valorizzazioni più o meno implicite o
naturalizzate – quelle che Michel Foucault definisce “le continuità irriflesse con cui si organizza in anticipo
il discorso che si vuole analizzare” (1969, p. 33) – che lo sguardo semiotico, come quello dell’archeologo
del sapere, è tenuto a mettere fra parentesi per indagarne semmai i modi di costruzione.
La mobilità di sguardo con cui la semiotica avvicina i fenomeni di significazione è la stessa che intesse il
dialogo – costante, fitto, costitutivo della disciplina – con le altre scienze dell’uomo. A proposito del lavoro
di Bruno Latour, e in particolare di uno dei concetti-chiave che ricorre sistematicamente nei saggi qui
raccolti, ibrido, osserva Gianfranco Marrone:
Per usare una nota distinzione, potremmo dire che dei quattro livelli della semiotica – empirico,
metodologico, teorico, epistemologico – Latour considera più che altro il primo e l’ultimo. Da una
parte, molto spesso, le sue indagini prendono avvio da concreti case studies, [...] che funzionano
dunque [...] come altrettanti esperimenti di pensiero: non exempla finta su cui fantasticare
3
metafisicamente ma corpora discorsivi esplicitamente costruiti per lavorare un’ipotesi speculative, o se
si vuole oggetti teorici, testi da cui dis-implicare una teoria. D’altra parte, [...] Latour sembra interessato
a ragionare su grandi problematiche epistemologiche [...]. Quel che si crea è allora una specie di effetto
tunnel, un passaggio diretto dall’empiria all’epistemologia che salta, di fatto, l’elaborazione di una
metodologia e un suo concomitante controllo teorico. Da questo punto di vista la semiotica può
contribuire attivamente a evitare quest’effetto tunnel (Marrone 2023, p. 52).
La semiotica beneficia doppiamente dei concetti latouriani, come di quelli di affordance (Gibson 1979) e
material engagement (Malafouris 2019), per citare solo alcuni dei riferimenti che ricorrono negli studi qui
raccolti. A livello epistemologico, in quanto invitata a esercitare un “pensiero relazionista” all’interno di un
comune progetto di critica del senso comune. A livello empirico, in quanto fornita di preziose indicazioni
di lettura riguardo fenomeni e oggetti di senso insieme singolari e paradigmatici, talmente pregnanti da
incarnare una teoria o mettere in crisi tassonomie e assiologie ben radicate.
Allo stesso tempo, il suo contributo attivo al dibattito consiste nell’intessere, appunto, relazioni fra questi e
gli altri livelli, nel cogliere la sfida all’intelligibilità o la pregnanza teoretica espressa da oggetti che è spesso
il paleontologo, il filosofo, l’antropologo, lo scienziato a pre-costruire, nella consapevolezza che ogni testo
implica una sua propria epistemologia, estetica, ergonomia, una sua teoria del mondo, del corpo e della
società. Riassumendo trivialmente la “svolta semiotica” descritta da Fabbri, possiamo dire che pensare la
complessità significa, per la semiotica, rendere conto della singolarità dei testi, che comporta metodi di
“parafrasi artificiale” della significazione teoricamente adeguati.
La specificità del contributo alla riflessione sui materiali proposta in questa sede consiste nello spazio che
aprono fra “livello empirico” e “livello epistemologico”, lavorando ad evitare l’effetto tunnel segnalato da
Marrone fra oggetti e fenomeni la cui pregnanza è quasi auto-evidente (basti pensare all’Intelligenza
Artificiale) e concetti esplicativi che illuminano fenomeni anche molto complessi ma non esimono dal
lavoro di ricostruzione locale delle forme del discorso che li realizzano.
3. Ratio semiotica e antropologia simmetrica: la cassetta degli attrezzi
La riflessione sui materiali convoca alcune tradizioni di studio che proprio tramite la frequentazione di testi
resistenti al metodo hanno incrementato l’accesso alla descrivibilità di fenomeni un tempo collocati “al di
qua” della soglia della semiotica.
La prima è quella che si dipana attorno al concetto di figuratività. A partire dalla celebre riformulazione
greimasiana del rapporto di referenza fra lingua e mondo in termini di traduzione reciproca fra macro-
semiotiche (Greimas 1970), le ricerche sul livello figurativo dei testi hanno progressivamente messo in luce
una densità significante irriducibile all’effetto di realtà e mera specificazione di un tema più astratto. Come
nel caso della parabola analizzata da Greimas (1983) e Geninasca (1997), le figure e le proprietà del mondo
fisico supportano la costruzione di ragionamenti e strategie veridittive anche molto complessi che, così
definiti, non preesistono alla parabola stessa.
Le tattiche di descrizione e articolazione del livello figurativo e figurale della significazione, maturate
prevalentemente in seno al testo letterario e poetico e nell’analisi delle arti visive, offrono in questa sede
altrettanti strumenti di descrizione della manifestazione sensibile del “mondo non linguistico della
significazione” e delle forme di ragionamento dischiuse dalle sue figure. È tramite l’attenzione alle
articolazioni del sensibile e ai percorsi figurativi che istruisce che Denis Bertrand, nel saggio che apre la
raccolta, ricostruisce le retoriche e ideologie dischiuse dal micro-universo materiale delle ferrovie,
imperniato sui rapporti fra pietra, legno e metallo.
Questa stessa attenzione alle forme di conoscenza e di efficacia prodotte dall’organizzazione figurativa e
figurale del mondo fonda l’“antropologia simmetrica” della semiotica nei confronti del discorso scientifico
4
ed estetico, riconducibili ad altrettante forme di razionalità molto meno distinte di quanto preveda la
concezione moderna.
Scrive Lévi-Strauss in uno dei passaggi de Il pensiero selvaggio più celebri fra i semiologi:
La chimica moderna riconduce la varietà dei sapori e dei profumi alla diversa combinazione di cinque
elementi: carbonio, idrogeno, ossigeno, zolfo e azoto. Attraverso la compilazione di tavole delle
presenze e delle assenze e la valutazione di dosaggi e di soglie, la chimica riesce a spiegare certe
differenze e certe rassomiglianze tra qualità che una volta avrebbe escluso dal suo ambito perché
“secondarie”. Ma questi accostamenti e queste distinzioni non colgono alla sprovvista il sentimento
estetico […]; il fumo del tabacco risulta, per una logica della sensazione, dall’intersezione di due gruppi,
uno comprendente tra l’altro la carne in graticola e la crosta scura del pane (anch’essi composti
d’azoto), l’altro di cui fanno parte il formaggio, la birra e il miele, a causa della presenza di diacetile.
[...] Tuttavia non bisogna vedere in questo soltanto di una frenesia associativa, a volte destinata al
successo per un semplice gioco delle probabilità. […] l’esigenza di organizzazione è una necessità
comune all’arte e alla scienza e quindi, come logica conseguenza, la tassonomia, che è criterio
ordinativo per eccellenza, possiede un eminente valore estetico […]. Dopo di che ci si meraviglierà
meno che il senso estetico, con le sue sole risorse, possa aprire la strada alla tassonomia e anzi
anticiparne in parte i risultati (Lévi-Strauss 1962, pp. 25-26).
Le tassonomie della scienza e quelle dell’arte e del pensiero mitico, mostra uno dei padri dello
strutturalismo, sono altrettanti modi del conoscere, accomunati dal tentativo di introdurre un principio
d’ordine nel mondo dell’esperienza che sottragga l’uomo e la società alle doppie spinte dell’insensatezza,
eterogeneità in cui niente è in relazione con niente, e dell’insignificanza, in cui niente si distingue da niente
(Landowski 2006): la scienza pura “ha il solo scopo di portare al suo punto più alto e più cosciente la
riduzione di quel modo caotico di percepire [...] alle origini stesse della vita” (Levi-Strauss, ibidem).
Il ragionamento figurativo non è peraltro una peculiarità dei testi estetici o mitici. Come mostra Tarcisio
Lancioni (2009) nell’analisi delle organizzazioni semi-simboliche che sovra-articolano i resoconti di Charles
Darwin in The Voyage of the Beagle, la descrizione scientifica cede il posto all’invenzione figurativa quanto
si pone un problema conoscitivo, ovvero l’esigenza di esprimere qualcosa per cui la lingua non offre
soluzioni pre-codificate. Più in generale, diverse voci della sociologia delle scienze e della storia e teoria
delle arti e delle immagini hanno mostrato come il discorso scientifico non sia affatto indifferente e
indipendente dalle forme sensibili che ne visualizzano i concetti. Horst Bredekamp (2005), sempre a
proposito di Darwin e del ruolo conoscitivo svolto dall’immagine del corallo all’interno della teoria
dell’evoluzione, osserva che “in nessun altro momento della storia della scienza la forma del modello e
stata discussa così intensamente come negli anni compresi tra il 1835 e il 1860, quando vennero formulati
i diversi avvii della teoria evoluzionistica” (Bredekamp 2005, p. 92): albero, catena, scala, rete sono figure
del mondo che fungono da diagrammi illustrativi delle diverse tesi naturaliste, a partire da percorsi
figurativi e complesse configurazioni discorsive cui i biologi coinvolti nel dibattito si appellano per
supportare la propria tesi o confutare quella altrui. Le qualità sensibili di alcune figure sembrano costituire
simultaneamente, all'interno del discorso scientifico, un mezzo strutturante per le nascenti posizioni
teoriche, un potente strumento retorico e un insieme di vincoli e restrizioni che imbricano strettamente la
dimensione semantica e valoriale e quella espressiva.
Lo studio del sensibile e del potere costruttivo dei linguaggi si intreccia a più livelli con lo sviluppo di un
approccio semiotico alle passioni (Greimas 1987; Greimas e Fontanille 1991) e alla corporeità (Marrone
2001, Fontanille 2004), che ha superato già in tempi non sospetti la distinzione fra corpo e mente, ego e
mondo, individuo e società, a favore di metodi sempre più raffinati di descrizione delle modulazioni
discorsive e modalizzazioni narrative che istruiscono i due poli a volte come radicalmente dicotomici, a
volte come indiscernibili.
5
Questa stessa confidenza con la “manifestazione sensibile del mondo” nutre ad altro livello la capacità di
descrizione narrativa delle operazioni tecniche e delle funzioni di mediazione svolte dagli artefatti nel
nostro rapporto con il mondo. Sul primo versante, il lavoro in particolare di Françoise Bastide (1987) sugli
stati della materia affina lo sguardo verso la memoria sintattica dei materiali e la dimensione processuale,
temporale e tensiva costitutiva delle categorizzazioni che ne fa la scienza, l’estetica o il senso comune. Sul
secondo, la sociosemiotica ed etnosemiotica hanno a lungo lavorato sulle funzioni attanziali suscettibili di
essere prese in carico dai “non umani”. La poltrona del dentista (Marsciani 1999), il telefonino (Marrone
2004), l’I-Pod (Mangano 2009) sono a tal proposito solo alcuni degli oggetti teorici a partire dai quali la
ricerca semiotica ha dis-implicato i regimi discorsivi e i modelli narrativi che co-istituiscono diversamente
soggettività e oggettività in seno alla “società degli ibridi”.
4. Né parole né cose: il discorso dei materiali
Forti di una densa e stratificata cassetta degli attrezzi, di cui abbiamo ripercorso solo alcuni degli aspetti
principali, i saggi qui raccolti affrontano materie, sostanze, materiali, artefatti e ambienti in quanto pieghe
del discorso, nodi singolari fra forme della sensibilità, forme della conoscenza e forme dell’agire intrecciati
di volta in volta da testi dal taglio e genere fra i più vari, dal quasi-niente della polvere a una formazione
discorsiva complessa come la mobilità ferroviaria francese.
Da questo punto di vista, la semiotica del sensibile proposta da Denis Bertrand è di fatto variamente
costruita e sviluppata trasversalmente da ognuno dei contributi.
Un primo filone riguarda le forme di concettualizzazione e rappresentazione mobilitate da materie
“critiche” e resistenti alla presa conoscitiva, come la “polvere ordinaria” (cfr. i saggi di Giuditta Bassano e
Gianluca Burgio), l’acqua e la correlata figura del mare (cfr. il saggio di Emanuele Fadda), i liquidi alcolici
(cfr. il lavoro semiotico di differenziazione sotteso alla pratica di costruzione dei cocktail messo in luce da
Alice Giannitrapani), bolle e schiume di sapone, di cui il discorso pubblicitario, mostra Giorgia Costanzo,
sfrutta la narratività in nuce ai fini strategici.
Un secondo concerne l’efficacia simbolica, avvicinata a partire dagli effetti di credenza e veridizione cui
concorrono nel discorso politico (cfr. oltre al già citato Bertrand, il saggio di Pierluigi Cervelli), storico
(cfr. il saggio di Carlo Campailla), enologico (cfr. il saggio di Davide Puca), mistico (cfr. il saggio di
Francesco Galofaro).
Un terzo verte su artefatti e ambienti, analizzando le forme di emergenza del senso nel quadro di pratiche
professionali e ludico-estetiche di trattamento dei materiali (cfr. rispettivamente il saggio di Giacomo Festi,
dedicato al marmo, e a quello di Valentina Carrubba, sull’origami), la costruzione dell’esperienza sensibile
via intelligenza artificiale (cfr. i saggi di Karina Astrid Abdala Moreira e Daria Arkhipova), i principi
d’ordine e programmi d’azione che definiscono il nostro rapporto con gli ambienti domestici (cfr. il saggio
di Ramon Rispoli), orientano le pratiche di risemantizzazione degli spazi urbani (cfr. il saggio di Maria
Giulia Franco) e dei borghi (cfr. il saggio di Enrico Mariani).
Il quarto riguarda la logica del sensibile elaborata dalle arti visive a livello iconografico (cfr. i saggi di
Francesco Piluso e Francesco Pelusi, e quello di Anna Varalli) e materico (cfr. il saggio di Mirco Vannoni)
o tramite l’articolazione sinestesica del visibile, responsabile di effetti di materialità digitali e della loro
agency (cfr. il saggio di Giulia Ceriani).
Nutrono infine la riflessione collettiva gli affondi teorici di Paolo Bertetti e Luigi Lobaccaro, dedicati
rispettivamente al rapporto fra la teorizzazione greimasiana del figurativo e l’opera di Bachelard e alle
forme di soggettività e intersoggettività implicate da una materia anomala come lo specchio.
Assemblaggi di corpora eterogenei e ibridi concettuali intessono qui il tentativo corale di mappare il
discorso contemporaneo dei materiali e nel migliore dei casi introdurvi un po’ d’ordine, praticando
l’interstizio fra estetica e antropologia culturale in cui si colloca, secondo Jean-Marie Floch, il fare semiotico.
6
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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7
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douce. Pour une sémiotique de la matérialité
Denis Bertrand
Abstract. Because of its low ecological impact, the train is a favoured means of mobility. We focus on the materials
that justify this. This technical field calls for some introductory definitions and opens up the general problem: the
semiotics of the sensible and the figurative paths of meaning. After tracing the theoretical history of this field and
highlighting its topicality, we focus on the substance of expression: the materiality of the objects from which we
draw meaning. We then move on to the study of the mineral world (ballast), woody matter (sleepers) and the
metallic world (rails), from both a paradigmatic and syntagmatic point of view. We’ll be looking at how these
expressive substances harbour, in their materiality, a universe of content: what forces are they subject to? What
tensions and resistances determine their form of existence? What are the paths of matter that drive them? To
conclude, what is at stake in a tribological semiotics of materiality.
À Didier Pesteil
Travailleur de la traverse et du rail
Le fer est plus dur que le granit.
À l’extrémité de la rêverie dure règne le fer
Gaston Bachelard, Le cosmos du fer
Le train a le vent en poupe. En ces temps de mobilité contrariée par le désastre planétaire qu’elle
contribue à engendrer, le train bénéficie d’un crédit d’innocence. Son empreinte sur le climat est faible,
le voyageur qui l’utilise émet peu de dioxyde de carbone. Il est léger sur la terre. Mais le vent ? et de
plus, en poupe, c’est à dire poussé sans effort par un vent arrière ? Serait-il devenu voilier, comme les
cargos du futur, éoliens ? Non, “avoir le vent en poupe” est une métaphore figée en français qui signifie
“avoir de la chance”, “être favorisé par les circonstances”. Ici, c’est le mode d’adhérence du train à la
voie qui fait son mérite et sa légèreté. Et sur ce socle, loin de la plasticité marine ou de la voltige aérienne
des planeurs, on est dans le dur : de la pierre, du fer et du bois. De la matière lourde. La dureté de ces
matériaux conditionne la douceur de la mobilité. C’est à eux que je vais m’intéresser, et à ce rapport
“énergétique” singulier qu’ils engendrent. La clef de ce paradoxe des chemins de fer se trouve donc
dans la traverse, qui est cette pièce transversale en bois ou en béton, perpendiculaire aux rails, assurant
leur rigidité et leur bonne assise sur le ballast, le matelas de pierres.
Sans perdre de vue la question qui est posée dans le texte d’orientation de ce dossier, concernant la
matérialité et sa “capacité de produire des articulations spécifiques de signification”, je choisis de traiter
cet ensemble de matériaux dans la perspective d’une nouvelle approche de la figurativité, portant sur
les matières et substances d’expression que la sémiotique a faiblement étudiées. On pourrait le faire en
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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relation, sur le plan du contenu, avec les imaginaires du “chemin de fer”, si foisonnants dans le roman,
comme La bête humaine de Zola, dans la peinture, comme chez Manet, Monet, Delvaux..., dans le
cinéma, comme dans La bataille du rail de René Clément et dans une myriade d’autres œuvres, si
grande a été et est toujours la fascination du train. Mais mon investigation portera davantage ici sur la
relation sémiotique que ces matériaux entretiennent avec les problématiques, décisives aujourd’hui, de
l’énergie et de la mobilité. On aperçoit alors les disciplines qui se profilent à l’horizon : physique des
matériaux, ingénierie et transformation industrielle, sociologie de la mobilité, écologie et science
politique enfin... Autour de la matérialité, la sémiotique voit se réactiver une de ses préoccupations les
plus tenaces, celle des relations interdisciplinaires que la nouvelle donne climatique, affectant tout le
vivant sur la planète, rend plus que jamais impérieuse.
Fig. 1 – Ballast, traverses, rail
(Biars-Bretenoux).
Voici donc le programme que je me propose de suivre. Nous trouvant dans un domaine technique, même
s’il est apparemment simple, je commencerai par quelques définitions liminaires de termes avant de présenter
la problématique générale dans laquelle cette étude s’inscrit : celle de la sémiotique du sensible, mobilisant
les voies figuratives du sens. Après avoir parcouru, rapidement, l’histoire théorique de ce domaine en
sémiotique, et surtout ouvert la réflexion aux orientations actuelles, je focaliserai mon attention sur la
substance d’expression, domaine assez négligé de la sémiotique : celui de la matérialité des choses du monde,
celui des objets en eux-mêmes dans lesquels on puise le sens. On passera alors à l’univers minéral de la
pierre avec le ballast, à la matière ligneuse du bois avec la traverse et au monde métallique du fer avec le
rail : on s’intéressera au sens de ces matériaux, paradigme de base du “chemin de fer”. Et enfin, nous
examinerons comment ces substances d’expression abritent aussi, dans leur matérialité elle-même, un univers
de contenu : à quelles forces sont-elles soumises ? Quelles tensions et résistances déterminent leur forme
d’existence ? Quels parcours syntagmatiques de la matière les animent ?
Dans le contexte actuel du changement climatique, on l’a vu, le chemin de fer apparaît, après la marche,
le vélo, le voilier et le char à voiles, comme le plus vertueux des instruments de la mobilité : celui dont
l’empreinte carbone est la plus faible. La SNCF, Société Nationale des Chemins de fer Français, déclare
ainsi qu’un voyage en TGV équivaudrait à “12 fois moins de CO2 émis qu’en voiture électrique, 26 fois
moins de CO2 émis qu’en voiture thermique, et 65 fois moins de CO2 émis qu’en avion”1. Chiffres
discutables et discutés, variables selon les paramètres retenus, mais globalement partagés : “Selon les
1
“Avion, train, voiture... Quel moyen de transport pollue le plus ?”, par Caroline Quevrain et Samira El Gadir,
TF1 Info, (en ligne) publié le 6 février 2023.
9
calculs de l’ADEME, l’Agence officielle de la Transition écologique, voyager en train pollue 32 fois
moins que circuler en voiture, et 23 fois moins que voyager par les airs.”2 Cette prouesse écologique,
c’est au rail, aux traverses et au ballast, d’une rigidité et d’une immobilité parfaites, que le train la doit !
Car le lourd convoi ferroviaire, transportant une masse de monde en un trajet (1032 personnes pour un
double TGV Dupleix), limite considérablement les frottements en raison de la zone de contact très
réduite de la roue en fer sur le rail en fer (environ 1,5 cm2, ce qui est très peu au regard de leurs tailles
respectives). Claire Nicodème, docteure de l’École des Mines (Paris), a traité dans sa thèse le problème
de l’évaluation en continu des variations de l’adhérence roue-rail. Elle écrit :
L’avantage du train depuis sa création est sa faible résistance à l’avancement du fait du contact fer-
fer de la roue sur le rail conduisant à une adhérence réduite. A charge équivalente, le train
consomme beaucoup moins d’énergie que les autres modes de transports (Nicodème 2018, p. 9).
Fig. 2 – Extrait de Claire Nicodème, L’évaluation de l’adhérence au contact roue-rail par
l’analyse d’images spectrales (2018, p. 21).
C’est ce phénomène qui permet de dire que l’immobilité dure est au service de la mobilité douce. Mon
objet ici est d’analyser, non pas techniquement mais sémiotiquement, cette fonction ancillaire et d’en
tirer quelques conséquences. De ce point de vue, cette étude s’inscrit dans la problématique générale
de la Sémiotique du sensible.
1. Éléments de tribologie
Voici, extraites du dictionnaire Petit Robert, les définitions de nos trois mots-clefs, auxquels on a ajouté
ici le “tirefond”, élément essentiel de jonction entre les matériaux transformés.
Ballast, n. m. – Pierres dures concassées qu’on met sous les traverses d’une voie ferrée. Ballaster, v.
tr., répartir du ballast sur une voie de chemin de fer. Granulat. Lit de cailloux qui supporte une voie
de chemin de fer.
Traverse, n. f. – Pièce de bois, d’acier ou de béton placée en travers de la voie pour maintenir les
rails et transmettre les charges du rail au ballast.
2 Information Greenly. Institute. ADEME (Agence De l’Environnement et de la Maîtrise de l’Énergie),
établissement public créé en 1991, connue également sous le nom d’Agence de la Transition Écologique. Elle est
placée sous la tutelle du Ministère de l’Enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et du Ministère
de la Transition écologique et solidaire.
10
Rail, n. m. – Chacune des barres d’acier profilées, mises bout à bout sur deux lignes parallèles et
posées sur des traverses pour constituer une voie ferrée ; chacune des deux bandes continues ainsi
formées.
Tirefond ou tire-fond, n.m. – Grosse vis à bois ou longue tige filetée à tête de forme variable selon
l’utilisation (carrée, hexagonale, en anneau etc.) ; sert en particulier à la fixation des rails sur les
traverses en bois.
Mon propos n’est pas ici d’analyser l’écriture définitionnelle. Observons seulement que l’énoncé se
focalise d’abord sur l’identification de la matière (pierre, bois, acier) et se poursuit immédiatement par
les opérations effectuées sur elle (concassage des pierres, disposition des bois, profilage et alignement
des barres d’acier, utilisation de la vis etc.). Cette matière n’existe que par ce qu’on en fait, que par ce
en quoi elle est transformée et vouée à une destination : définition fonctionnelle qui efface en quelque
sorte la matérialité inerte de la chose pour n’en retenir que la syntaxe qui l’actantialise. De son côté, le
sujet du faire est en lui-même, occulté (participe passé, “on”) : il est l’un des pôles du programme
transformateur et se suffit lui aussi comme pure actantialité présupposée. Notons encore que les
opérations retenues sont évidemment très partielles, chacun des matériaux étant en réalité, à partir de
son état brut initial, l’objet de très nombreuses manipulations techniques ici occultées. L’élision
définitionnelle ne vise donc qu’à retenir les traits permettant d’assurer, a minima, l’identification de
l’objet par sa fonction.
Tout commence donc par le ballast – posé sur un sol préparé, nivelé, égalisé. Il est en pierre de basalte
concassée, réduite en cailloux aux formes aléatoires mais à angles aigus, de 3 à 5 cm d’épaisseur. On
en met 2000 tonnes par km, sur une épaisseur de 20 à 30 cm. Ces cailloux ont pour fonction de supporter
la pression et d’amortir les vibrations au passage du train : l’onde de choc est absorbée par ce matelas
qui la diffuse de caillou en caillou et empêche qu’elle soit répercutée et perçue dans le voisinage. De
plus, ce dispositif est perméable et favorise le ruissellement de l’eau en empêchant toute stagnation. Ce
ballast a globalement une durée de vie déterminée (40 ans), modulée par les efforts qu’il endure, son
mode de tassement, son usure (les cailloux de surface sont changés tous les 7 ans environ). Ses traits
principaux sont donc : compacité et perméabilité, absorption des ondes de choc.
Le ballast enchâsse les traverses, assure leur immobilité et garantit leur résistance. Celles-ci, en forme de
parallélépipède allongé, sont disposées avec rigoureuse régularité (une tous les 60 cm, soit 1666
traverses/km). Elles ont pour mission de maintenir l’écartement des rails, ainsi que leur légère inclinaison
vers l’intérieur (au 1/20e à la SNCF) afin que l’effort des roues soit bien maintenu dans l’axe vertical du
rail. Elles transmettent au ballast la charge du train. Elles sont traditionnellement en bois dur, en chêne
notamment, imprégné de créosote de goudron de houille – produit hautement toxique qui les rend
imputrescibles et leur garantit une vingtaine d’années de vie. Aujourd’hui, les traverses sont le plus
souvent en béton (plus durable (50 ans), non putrescible et moins cher. L’article de Wikipédia apporte
d’autres précisions :
Leurs dimensions sont généralement, à la SNCF, de 2,6 m de long, 25 cm de large et 15 cm
d’épaisseur (les bois d’appareils ont des longueurs variant de 2,60 à 6,00 m.). Elles sont entaillées
pour permettre l’appui des rails. La zone d'appui, dite “table de sabotage”, est délimitée de manière
à déterminer l'écartement des rails et leur inclinaison. Une traverse pèse environ 80 kg.
Voici donc posés les acteurs de la tribologie : “La tribologie est la science qui étudie l’interaction de
deux objets en contact, en particulier les frottements” (Nicodème 2018, p. 15)3 . On comprend les
contraintes tensives qui déterminent les conditions tribologiques entre la roue et le rail : il faut le moins
d’adhérence possible pour limiter la dépense énergétique ; mais il faut assez d’adhérence, c’est-à-dire
3
“Tribologie ( grec tribein = frotter) – Partie de la mécanique traitant du frottement et de ses effets” (Petit Robert).
11
des frottements suffisants pour, d’un côté, amorcer le mouvement, permettre l’accélération et assurer le
maintien de ce mouvement, mais aussi, d’un autre côté, permettre le ralentissement et l’arrêt du matériel
roulant : qu’il s’agisse de traction ou de freinage, l’adhérence est l’enjeu fondamental.
Restons un instant sur ce point pour montrer que le sensible se trouve aussi dans la relation entre les choses
mêmes. Et, précisément, entre des exigences contraires qu’implique par exemple le contact fer-fer entre la
roue et le rail. Ces choses, comme en toute relation mécanique – et plus largement –, réclament un
ajustement entre leurs dynamiques réciproques, elles demandent un point de justesse (Bertrand 1993, p.
37-51) qui définira l’optimalité de ce contact, de cette adhérence dans le contact, et de la fiabilité qui en
résultera. On comprend qu’il faille une thèse pour “estimer le coefficient d’adhérence au contact roue-
rail”, avec des instruments d’analyse très élaborés (ici “images spectrales”), cette adhérence étant
confrontée à des “contaminants” qui la contrarient tels que l’eau, les corps gras, les feuilles mortes, les
poussières polluantes... Ce contact roue-rail, qualifié de “complexe et imparfait” (Nicodème 2018, p. 21),
repose donc sur une acception particulière du terme “sensibilité”, rapportée à l’univers des objets
techniques, et comprise comme “aptitude à détecter et à amplifier de faibles variations d’une grandeur, ou
à réagir rapidement à un contact” (Petit Robert, entrée “Sensibilité”).
Il convient d’évoquer ici l’importante contribution de Jean-François Bordron à la sémiotique des
matières à travers son “esquisse d’ontologie matérielle” dans l’étude des processus méréologiques sous
le titre “Les objets en parties” (Bordron 1991, pp. 51-65). Il y analyse les différents types de relations
entre les parties et les totalités qu’elles viennent ainsi à constituer, et il en construit une minutieuse
typologie : il distingue les “compositions”, les “configurations”, les “architectures”, les “agglomérations”,
les “chaînes” et les “fusions”. Les désignations sont assez suggestives pour donner une idée des modes
de combinaison sans qu’il soit nécessaire de s‘y arrêter. Car pour nous l’essentiel n’est pas là. Que les
parties soient serrées et soudées comme le granit, ou qu’elles soient relativement lâches et dilatables
comme dans un vol d’oiseaux, le problème des zones de contact se pose, que l’étude ici citée ne traite
pas. Or cette question semble essentielle dès qu’un ensemble de parties s’ajuste à d’autres parties, en
une totalité (ou non), par le moyen d’un mouvement : les frottements, la friction, les froissements, les
glissements, le grattage, le grippage, le fricativité etc., avec leurs manifestations transformatrices, entre la
résistance, l’usure, la fêlure et la rupture, deviennent autant de motifs tribologiques, pourvus de leurs
logiques propres, de leur sensibilité et de leurs effets réciproques. Ainsi la tribologie peut être considérée
comme une partie de la méréologie, et le chantier en est ouvert4.
2. Problématique générale de la Sémiotique du sensible
Ces dernières observations justifient qu’on situe donc la présente étude dans le cadre plus général d’une
sémiotique du sensible. Eu égard à notre objet, et à son ancrage dans l’épaisseur du réel, deux mises au
point préalables me semblent ici nécessaires.
4
La sémiotique tribologique – sémiotique des interactions entre les matériaux –, pose d’importants problèmes
théoriques à une analyse de la signification: qu’est-ce qu’une “interaction mécanique”? Quel est le statut du concept
central de transformation dans le contexte proprement matériel (usure, cassure, fonte, vaporisation etc.) en relation
avec sa fonction d’opérateur de la narrativité? Comment cette phénoménalité peut-elle être décrite hors de la
présupposition d’un observateur (cfr. J. Fontanille)? Comment appréhender enfin cette propension de l’interaction
des matériaux à “prendre la valence d’une parabole”, sous la houlette d’un observateur justement, générant des fables
de l’usure, de la résistance, de l’explosion etc.? (Merci au relecteur qui a suggéré cette question).
12
2.1. Les deux voies du sensible
Notre excursion du côté de la sensibilité au sens technique, celle qui concerne les matériaux, nous
amène à catégoriser à grands traits cet espace signifiant. Ce qu’on appelle en phénoménologie le “monde
sensible” (Merleau-Ponty) est mobilisable, actualisable, accessible et “éprouvable”, en suivant deux
grandes voies : la voie directe par l’expérience de nos sens, et la voie indirecte par la médiation d’un
langage (quel qu’il soit, verbal ou non verbal) qui restitue cette expérience, d’une manière ou d’une
autre, jusqu’à nous la faire “revivre”.
Par la voie directe, ce qui permet la relation entre sujet et monde sensible, c’est donc l’expérience des
cinq sens, de leur syncrétisme poly-sensoriel et de leur sensori-motricité. Je renvoie ici aux innombrables
travaux sur le sujet – en psychologie (Straus 1935), en phénoménologie (Merleau-Ponty 1945), en
sémiotique (Fontanille 2011). Et il y a aussi la sensibilité intra-objectale, celle que j’évoquais il y a un
instant, sensibilité des instruments (comme celle d’un thermomètre) et des machines (comme l’analyse
spectrale des conditions tribologiques de frottement).
Par la voie d’accès indirecte, et donc médiée par les langages, le concept-phare qui permet d’en rendre
compte est à mes yeux celui de figurativité. Greimas l’a proposé pour nommer la manière dont certains
textes, certaines images, certaines musiques même, nous restituait l’expérience “vécue”. C’est
évidemment l’espace immense du discours documentaire et de la fiction romanesque, filmique et autre
qui s’ouvre ici. Et je retiens que les codifications de la figurativité font l’objet d’affinements spécifiques
aux cultures, qui vont rhétoriquement s’amplifier en registres de discours et en genres textuels.
Un des chantiers de la sémiotique aujourd’hui, surtout depuis la grande transformation épistémique de
la discipline due à son “tournant phénoménologique”, est précisément d’articuler l’accès dit “direct” et
l’accès “indirect”, de décrire les deux d’un seul tenant, en somme de tenir ensemble les deux
expériences du sensible, ce que Jean-Claude Coquet appelle la phusis et le logos. Je renvoie ici au
numéro de la revue Littérature intitulé “Comment dire le sensible ? Recherches sémiotiques”, dirigé par
Jean-Claude Coquet et moi-même (Bertrand, Coquet 2011), dont le but était précisément de faire face
à cette double direction, et même cette double rection, du sensible.
Car nous devons retenir aussi les corrélations entre les deux versants du “sensible” condensés dans le
même lexème en français, que ce soit dans l’une ou dans l’autre voie d’accès : le versant perceptif (ou
sensoriel) et le versant pathémique (ou passionnel). On peut s’émouvoir à la vue d’un paysage ou d’un
accident, comme on peut s’émouvoir en lisant un roman ou en regardant un film. Cette première mise
au point, pour être élémentaire, n’en recouvre pas moins de redoutables problèmes d’analyse, qui ont
été et sont au cœur de bien des débats en sémiotique, en pragmatique et en théorie littéraire.
2.2. Evolution du concept de figurativité en sémiotique
La seconde mise au point croise, à bien des égards, la problématique précédente : la figurativité me
semble un marqueur des états de la discipline au fil de son évolution. Il me faut là aussi être extrêmement
synthétique, car mon objectif n’est pas de retracer l’histoire d’un concept au sein de notre discipline –
un concept du reste relativement tombé en désuétude chez beaucoup de sémioticiens. Je n’oublie pas
que notre affaire c’est le ballast, la traverse et le rail ! Mais il s’agira plutôt de montrer une limite de cette
conceptualisation, et d’expliquer comment, d’une certaine façon, la figurativité sémiotique nous barre
le chemin de la traverse et du rail.
Je rappelle donc que la première définition de la figurativité est admirablement structurale – comme
l’est, de par son origine théorique, la sémiotique elle-même. L’effet “figuratif” du sens résulte du mode
de combinaison différentielle des sèmes qui aboutissent à la signification des mots – les fameux
“sémèmes”. Il résulte d’un phénomène de “densité sémique” : si un terme admet très peu de
13
combinaisons sémiques, donc peu de contextes d’emploi, il sera porteur d’un sens très spécifique, le
plus souvent concret, et il sera qualifié de haute densité sémique. C’est le cas par exemple avec “ballast”.
Ce mot a, à ma connaissance, deux domaines d’acceptions en français : celui du chemin de fer, comme
on l’a vu, les cailloux concassés qui font le matelas de la voie ferrée ; et celui de la marine où il désigne
un compartiment qu’on peut remplir ou vider d’eau pour alourdir ou alléger une embarcation (un sous-
marin par exemple). Il serait évidemment possible d’élargir le champ des contextes (en élargissant du
même coup la combinatoire sémique) si on cherchait à faire un emploi métaphorique du mot “ballast”,
et il faut reconnaître que c’est un bon candidat à la métaphore. Quoi qu’il en soit, la haute densité
sémique définit la figurativité en sémantique. Alors que si on envisage, à l’inverse, des lexèmes tels que
“beauté”, ou “concept”, ou “tableau”, on voit tout de suite que ces mots sont de faible densité sémique
car ils sont utilisables dans une multitude de contextes différents. Cette faible densité sémique définit les
termes abstraits, non-figuratifs.
Une deuxième étape de la définition de la figurativité vient avec le développement de la théorie
générative en sémiotique, la formulation du parcours génératif de la signification. Ce modèle, bien
connu mais assez faiblement exploité et soumis à de rudes critiques, conçoit donc la formation du sens
selon un parcours qui va du plus général et du plus abstrait, vers le plus particulier et le plus concret.
Ainsi, au plus profond on a les catégories qui structurent un univers de sens, susceptibles de s’organiser
en un carré sémiotique de relations fondamentales. Celles-ci se spécifient au niveau des structures
narratives, dont les chevilles ouvrières sont les actants, sujets qui se conjoignent aux objets de valeur ou
s’en disjoignent. Leurs agencements formant la grande nappe narrative stéréotypée du “schéma narratif”.
Et ces actants, à un troisième niveau, se thématisent – les “sujets” deviennent professeur, gendarme ou
voleur – cette thématisation indiquant leur mode d’insertion dans l’actant collectif. Et enfin, ils se
figurativisent : ce gendarme est roux, il a des yeux bleus, il a un uniforme noir, il est très poilu, il tire
avec son Manurhin X1/357 Magnum sur le manifestant qui s’enfuit etc. La personne, l’espace et le temps
sont les trois grands domaines de la figurativité. C’est par elle que les langages nous restituent une
expérience du sens, sinon analogue, du moins comparable à celle que nous vivons ou pouvons ou
pourrions vivre dans la réalité (cf. la peinture hyperréaliste).
Cela nous mène au troisième âge de la figurativité, celui de sa définition phénoménologique. Elle est
alors rapportée à la perception elle-même, et à ses conditions d’exercice que les philosophes (de Husserl
à Merleau-Ponty, et de Pradines à Maldiney) ont si admirablement décrites : la suspension
phénoménologique des croyances et des savoirs qui enveloppent la perception (l’épochè), la saisie
inévitablement fragmentaire du monde sensible (les esquisses) qui rendent inaccessible le “quoi” des
choses perçues, le “monde naturel” compris comme un “logos à l’état naissant” (Merleau-Ponty), c’est-
à-dire comme une “sémiotique naturelle” dit Greimas, bref, l’objet – même mis en discours, que ce soit
par un Zola, une Sarraute ou un Beckett – ne peut être séparé du sujet qui perçoit. Le phénomène est
tout entier dans leur interaction, et la figurativité est le résultat de la sémiose perceptive. Jean-François
Bordron (2011), en a décrit l’architecture en distinguant trois phases dans cet avènement du sens sensible
– ou figuratif : la phase indicielle du “il y a quelque chose qui me fait signe”, la phase iconique du “ce
quelque chose me rappelle quelque chose” qui me permet de l’identifier, et la phase symbolique, lorsque
ce quelque chose devient la chose que je reconnais entièrement, inscrite dans un contexte d’usage, en
vertu des règles qui lui confèrent son statut. Pour lui, la figurativité greimassienne correspondrait à ce
stade symbolique. Et la matière dans sa forme brute, immédiatement donnée aux sens, correspondrait
au mieux au stade indiciel de la sémiose perceptive, lorsqu’on pressent qu’il y a quelque sens qui
cherche à se dire ou qu’on cherche à éveiller, mais qui reste dans l’épaisseur insondable de la matérialité.
Ainsi donc, à travers ces trois grands moments analytiques, la figurativité s’enrichit de perspectives
nouvelles – qui ne s’annulent pas du reste, et se potentialisent plutôt. Mais elle reste pour l’essentiel un
concept descriptif centré sur la “forme du contenu” de la sémiose : le sens qu’elle délivre et non la
14
matière à travers laquelle elle se manifeste, le recours à l’expérience du monde sensible en tant qu’il fait
sens, mais non la texture du monde au sein duquel nous sommes nous-mêmes enfouis.
2.3. La sémiose (Hjelmslev) enrichie
Eclairons l’expression “forme du contenu”, bien connue des sémioticiens. Elle vient comme on sait du
célèbre schéma hjelmslévien de la semiosis, fondé sur la soudure des deux plans de tout langage, le
plan de l’expression et le plan du contenu, le signifiant et le signifié, une matérialité génératrice d’une
représentation mentale. Tout cela est familier : c’est ce qu’on apprend en première année de formation
en linguistique.
Mais on peut, me semble-t-il, ajouter deux observations à ce dispositif. Premièrement, la distinction entre
substance et forme – substance et forme de l’expression, substance et forme du contenu – n’est pas
toujours très claire : et pour cause. Cette distinction a été d’une certaine manière limitée par l’univers
strictement linguistique auquel elle a été initialement appliquée. Alors, pour l’illustrer, on disait – c’est
ce qu’on trouve dans le dictionnaire de Greimas-Courtés (1979) – que la substance de l’expression, c’est
la phonétique : les sons produits dans notre bouche, ce qui sort de notre physiologie corporelle, de notre
appareil phonatoire ; et que la forme de l’expression c’est la phonologie, c’est-à-dire non plus les sons mais
les phonèmes, les modulations sonores de la langue en tant qu’elles s’interdéfinissent par différence et
opposition pour faire sens, en tant qu’elles deviennent par là des signifiants dans tel ou tel idiome selon
son propre système différentiel. Même chose pour la substance du contenu – les universaux chromatiques,
les universaux de parenté etc. – articulés différemment en formes du contenu selon les cultures. Ces deux
substances sont devenues plus ou moins marginales, laissées en friche, et la sémiotique s’est bâtie “de
forme à forme”, dans la relation exclusive entre forme d’expression et forme du contenu.
Or aujourd’hui on s’intéresse aux matériaux, aux objets du monde, à leur texture, à leur dureté ou à
leur mollesse, à leur présence, charnelle ou autre, opaque et résistante, à notre relation de sujets avec
eux, dans et par la perception. Cet intérêt renouvelé n’est ni gratuit ni le fait d’un hasard épistémique.
Il est nécessaire et même décisif : car le changement climatique a fait remonter à la surface de notre
attention la température de l’air et celle de l’eau, les changements de matières comme les glaciers qui
fondent, la forme de la pluie comme ces grêlons qui, gros comme des balles de tennis, bombardent les
toitures et font éclater les tuiles. Alors il devient urgent de se tourner vers les substances d’expression
qui sortent de l’inertie et de l’imperceptibilité où l’usage les avait reléguées.
Ma seconde remarque sur le modèle classique concerne ce qui apparaît à gauche sur le schéma de la
sémiose présenté ci-dessous, et qui est absent de sa version formelle, structurale. Rapportée au sujet de
la perception comme au sujet de l’énonciation et à leurs diverses instances, la relation entre les deux
plans ne peut être acceptée en elle-même, comme une simple idéalité, un concept platonicien, une pure
forme. Quelles que soient leur manifestation, quelle que soit leur inscription dans un langage (plastique,
musical ou verbal, ou autre) ou plus immédiatement encore dans la perception du monde, la relation
ainsi isolée est soumise à une contrainte inhérente à notre nature terrestre, et propre à notre espèce,
définitoire de notre Umwelt, qui est la contrainte de perspective. Pas de sens, dans le monde animé,
sans perspective. Pas de vu sans non vu, pas de su sans non su, pas d’entendu sans non entendu, pas de
senti sans non senti. Cette idée, au moins depuis Uexkull (1934), est banale, chaque espèce est dans son
monde, s’en contente et même s’en satisfait. Qu’est-ce que ça fait d’être dans la peau d’une vache, ou
d’une fourmi, ou d’un cachalot... ? Ces questions hantent la littérature5.
5La question de savoir comment, par quelles sélections, par quelles occultations, par quelle motricité s’est forgé
au cours de l’évolution l’univers perspectif à travers les modalisations perceptives pour telle ou telle espèce est
d’ordre ontologique et, pour passionnante qu’elle soit, se situe à mes yeux hors du champ proprement sémiotique.
15
C’est pourquoi il me semble que le modèle de la sémiose devrait intégrer le paramètre de la perspective,
à même hauteur (ou profondeur, ou généralité) conceptuelle et théorique que la relation réciproquement
fondatrice entre les deux plans. Et j’ajoute : la perspective augmentée de ses deux branches, qui en
encadrent et en spécifient la portée : le point de vue, pour le sujet qui perçoit, la focalisation pour l’objet
qui est perçu... en aménageant évidemment tous les allers et retours possibles, les entrecroisements, les
réciprocités et les confusions entre ces deux opérations qui font advenir à nos sens, le sens.
Fig. 3 – Le modèle de la sémiose enrichie.
Enfin, avant de nous focaliser sur le ballast, la traverse et le rail, revenons in instant sur la substance de
l’expression et son rapport avec la matérialité elle-même.
3. Matérialité et substance de l’expression
Voici la définition sémiotique classique : “On entend par substance la “matière” dans la mesure où elle
est prise en charge par la forme sémiotique en vue de la signification.” J’en ai librement adapté la
formulation à partir de celle d’A. J. Greimas et J. Courtés dans le dictionnaire de sémiotique (1979, p.
368). Elle montre une transformation graduelle entre trois termes : 1. Matière, 2. Substance, 3.
Signification. C’est ce parcours, entièrement pris dans l’enveloppe de la perspective, c’est-à-dire du sujet
énonçant et simultanément percevant, qui montre le passage du matériau brut, ce que Paul Valéry
appellera dans un instant “l’informe”, à la forme de l’expression qui se collera, comme par un adhésif
double face, à la forme du contenu.
La substance est donc, à mi-parcours de ce matériau et de la forme d’expression, cette matière en tant
qu’elle est déjà informée de langage, prête à se mouler dans une relation de forme à forme, d’expression
à contenu, prête à signifier. Cet état est celui qui me semble admirablement décrit dans le texte de Paul
Valéry , “Du sol et de l’informe”, un des chapitres de Degas Danse Dessin, ouvrage d’analyses et de
réflexions sur le peintre qu’il admirait, sur le dessin, sur la création. Il y écrit (1938, p. 102) : “Il y a des
choses, des taches, des masses, des contours [...] qui n’ont qu’une existence de fait : elles ne sont que
perçues par nous et non sues”. Et il ajoute plus loin : “Dire que ce sont des choses informes, c’est dire, non
qu’elles n’ont point de formes, mais que leurs formes ne trouvent en nous rien qui permette de les
remplacer par un acte de tracement ou de reconnaissance nets”. Pas de geste d’iconisation – pour
reprendre la sémiose perceptive de Bordron. Paul Valéry inventait ainsi la suspension phénoménologique,
l’épochè évoquée tout à l’heure. La forme informe précède le jugement d’identification, soumis à
l’habitude de voir. Et de reconnaître. Si elle ne nous laisse pas immergés dans la matière, elle nous tire
vers la substance d’expression. Ainsi en va-t-il du ballast : si on le regarde de près – comme tout matériau
du reste, et en dehors d’un regard scientifique – on est dans la forme de l’informe.
Or ce qui compte aussi, dans l’examen de ces matériaux, c’est l’ordre et le mouvement de leur relation.
De quoi donc est fait cet ordre, par delà la pure fonctionnalité des choses ?
16
4. La pierre, le bois, le fer : de l’informe à la ligne
Les trois matériaux retenus forment un paradigme des matières : la pierre, le bois, le fer. Et leur état de
choses, disposées en contiguïté comme elles le sont, se prête à cette lecture paradigmatique. On peut
observer alors une gradation de leur état. Quand on passe du ballast à la traverse et de la traverse au
rail, une série d’“événements de matière” se produisent, qu’on interprétera comme une transformation
qualitative, une réduction quantitative, et une augmentation fonctionnelle – on pourrait même la dire
axiologique. Dans la hiérarchie de choses, c’est le rail qui occupe le premier rang, la plus noble fonction :
la traverse et le ballast sont, littéralement, à son service.
Mais, si l’on s’en tient à la description formelle des propriétés de ces matériaux, on peut dire que
l’ensemble, régi par la catégorie élémentaire continu vs discontinu, passe progressivement du plus
discontinu au plus continu. Cette catégorie “profonde” sous-tend une série de différenciations
catégorielles des matériaux que l’on peut décliner comme suit :
1. Sur le plan qualitatif, on passe du plus informe au plus formé et (trans-)formé ;
2. Sur le plan quantitatif, on passe du plus multiple au plus unique ;
3. Sur le plan du faire (des programmes d’action que leur réalisation présupposent), on passe du plus
brut au plus travaillé ;
4. Sur le plan des états enfin, on passe du plus inerte au plus mouvant (la dilatation du rail).
Examinons de plus près ces matières et le chemin par lequel elles deviennent substances d’expression.
1. Les cailloux du ballast tout d’abord : une pluralité sans ordre. Voici une matière naturelle à l’état brut,
minérale, géologique (le basalte), retenue pour sa dureté et ses cassures nettes. Cette matière détachée
de la terre pour y revenir est le produit d’une transformation élémentaire aléatoire, le concassage. Elle
se présente comme un agrégat de parties aux arêtes aigües, sans formes définies, indifférenciées,
grossièrement (et aléatoirement encore) réunies en tas pour donner l’impression d’une forme grossière
comme la base d’une sorte de pyramide. Ce qui caractérise cet ensemble, c’est doncle pluralisé, le
fragmenté, le dispersable (chercher à dessiner un tas de ballast serait faire, comme le suggère Paul
Valéry, un “exercice par l’informe”). Néanmoins, dans son inertie même, ce tas de pierre exerce, du
fait de son état, plusieurs fonctions élémentaires, comme “primaires” : une fonction de socle :
immobiliser, assurer la stabilité de l’ensemble ; une fonction d’éponge : amortir les vibrations, briser
l’onde de choc en la répartissant sur les cailloux, atténuer le bruit, absorber les eaux de pluie ; et une
fonction de régulation : contenir les traverses, leur transmettre l’immobilité.
2. Les traverses (en bois) : la série. Voici une matière naturelle, bois de chêne ou de hêtre, mais
transformée, objet de nombreuses opérations : séchage, découpe, pose de colliers de fer pour éviter
l’éclatement des fibres (frettage et soudure), injection de créosote de goudron de houilles pour
l’imputrescibilité, découpe de la “table de sabotage” pour l’appui du patin du rail et son inclinaison
vers l’intérieur (1/20e). Tout cela afin de réaliser une série ordonnée de parallélépipèdes identiques,
innombrables, chacune des traverses dotée de quatre “tirefonds” et d’autant de “crocs” pour fixer le
rail, présente ainsi forme matérielle régie par des paramètres physiques quantifiés et constants
(dimensions, poids, type etc.). Lorsqu’elles supportent des aiguillages elles sont plus longues, jusqu’à
6 m, et on les appelle “longrine”. Enfin, ces traverses de bois, souples mais mortelles, ont des
concurrentes plus durables : le fer et le béton (elles-mêmes objet de plusieurs variantes), qui tendent
aujourd’hui, quoique partiellement, à s’y substituer.
3. Le rail : l’unité duelle. Les traverses se présentent comme une sorte d’état de matière intermédiaire
entre le ballast et le rail. Celui-ci est caractérisé par l’unité, une unité duelle. Matériau transformé,
usiné, unifié, aux formes élaborées entre son champignon, son âme et son patin, il appartient à
une famille de formes. Il est le matériau-agent, au contact de la roue, fer sur fer, faisant alors
apparaître une zone brillante et argentée de l’acier frotté. Son inclinaison sur la traverse (1/20 e)
permet la bonne transmission de l’effort, dans l’axe de l’âme du rail. Le rail se définit par sa
17
gémellité, il est duel, au parallélisme rigoureux et intangible. À eux deux, les rails dessinent une
double ligne continue, à l’infini.
Passage du discontinu désordonné du ballast et ordonné des traverses au continu du rail ? Non, pas tout-
à-fait, car le rail vit, se dilate et se rétracte selon les variations de la température. C’est un matériau mouvant:
les joints de dilatation rompent la continuité et transmettent leur effet vibratoire et sonore au voyageur.
Cette expérience sensorielle est même devenue l’emblème du voyage en train : “tac-tac, tac-tac, tac-tac”.
Pourtant, au terme de ce processus de réduction de l’agrégat pluralisé et informe en série géométriquement
ordonnée, puis de la série à l’unité duelle, le rail incarne, pourrait-on dire, l’essence de la ligne.
Dans Logique du sens, sous le titre “Zola et la fêlure”, Gilles Deleuze observe que, dans tous les romans
des Rougon-Macquart, “il y a un énorme objet phantasmé, qui est aussi bien le lieu, le témoin et l’agent”
(Deleuze 1969, p. 383). Il reconnaît dans la locomotive de La Bête humaine, La Lison, cette fonction
syncrétique, où se répercutent et se rejoignent, par une sorte de congruence, les thèmes, les valeurs et
les figures éparses par ailleurs dans le roman. On pourrait selon moi attribuer aussi, et surtout, ce statut
à la ligne, celle qui assure le va-et-vient entre Paris-Saint-Lazare et Le Havre, et sur laquelle se produisent
et se concentrent tous les événements majeurs du roman : les assassinats, suicide, catastrophe... Ligne
du rail, sur laquelle se trouve également, rompant la continuité, la fêlure du joint de dilatation, emblème
de toutes les fêlures psychiques de l’univers zolien.
Fig. 4 – Ballast, traverses, rail : joint de dilatation
(Biars-Bretenoux). Photo de l’auteur.
Plus généralement, dans l’imaginaire de la praxis énonciative, et sans doute par un effet de son
parallélisme rigoureux, la ligne de chemin de fer incarne aussi la ligne droite, avec ses effets axiologiques
convenus de rectitude, que l’on retrouve dans plusieurs métaphores figées : “être sur de bons rails”,
“sortir des rails”, “vous déraillez mon ami !”. On le voit, au sommet de la composition matérielle qu’elle
a en partage avec le ballast et les traverses, la ligne du rail élève pour ainsi dire le débat6 : son statut fait
qu’elle accueille la figurativité abstraite des axiologies et se transcende ainsi, alors que ses deux
partenaires – ballast et traverse – restent inexorablement engoncés dans leur statut de matérialité.
Cette dernière observation nous mène directement au dernier point que nous ne pouvons ici qu’évoquer
succinctement : l’approche syntagmatique des matériaux.
6
Voir, pour une réflexion plus étendue sur la problématique de la ligne, mon essai “La ligne et le son” (Bertrand
2018, pp. 71-80).
18
5. Approche syntagmatique : les interactions matérielles
Au sein de la matière, si on la considère dans l’épaisseur de ses formants et en amont de la substance
d’expression, un problème sémiotique se pose : comment appréhender les relations signifiantes qu’elle
entretient avec elle-même et avec les autres matériaux de son environnement ? Une “physique du sens”
ne s’impose-t-elle pas, en amont des simulacres sémantiques, énonciatifs, symboliques, narratifs et
passionnels dont, de l’extérieur, nous les affectons ? On revient ici aux conditions tribologiques de la
signification matérielle : les tensions, les frottements, les contrariétés internes aux choses comme les
fluidités, les graisses etc. Un vaste domaine de parcours signifiants, qu’on n’ose appeler “narratifs” par
crainte d’un anthropocentrisme naïf mais qu’atteste pourtant ces mouvements naturels, parfois caressants
comme une brise, souvent violents et brutaux comme un séisme, au sein des matières. Ils se déroulent
indépendamment de notre perception et ne sont pour autant pas sans effet sur elle. On pourrait les
identifier comme des configurations dynamiques, au tempo varié, susceptibles d’une approche tensive,
et générant de véritables motifs (au sens sémiotique), motifs qui émergent et jaillissent des choses, en les
transcendant parce qu’elle les donnent à lire et à interpréter.
Dans le domaine étroit que nous avons parcouru ici, celui des relations matérielles entre le ballast, la
traverse et le rail, on a déjà identifié des relations paradigmatiques. Un pas de plus nous permet
maintenant de reconnaître des configurations syntagmatiques dont je me contente ici d’esquisser un
inventaire partiel et provisoire.
1. Motif de l’usure : il affecte tous les matériaux dans leur devenir, selon des temporalités différentes
de la dégradation liées à leur texture, à leur dureté, à leur enveloppe. L’usure est essentiellement une
affaire de tempo et appelle une sémiotique de l’échelle et de la mesure. Les dégradations
infinitésimales d’un côté, les détériorations foudroyantes de l’autre.
2. Motif de la résistance : il prolonge le précédent, comme un de ses programmes d’usage, la résistance
déterminant le tempo de l’usure. Mais elle s’en différence également, faisant apparaître des traits
spatio-temporels qui lui sont propres. Ainsi, en qui concerne la résistance des traverses, celle-ci peut
être affectée de degrés différents selon qu’elles sont soumises à la seule force linéaire en ligne droite,
ou que vient s’ajouter la force centrifuge en courbe, étirant les matières vers l’extérieur d’elles-mêmes,
affectant les tirefonds dans la texture du bois et suscitant des énergies obscures au sein des fibres.
3. Motif de la hiérarchie : on peut parler d’une relation de “service” entre les matériaux : la pierre au
service du bois, le bois au service du fer (le fer au service du train). Indépendamment de leur affectation
– au sens administratif – à ces fonctions, s’exercent néanmoins les effets d’une hiérarchie interne traduite
en tensions, en blocages, en assouplissements, et autres configurations tribologiques.
4. Motif de la solidarité : il concerne les différents modes d’interaction et de jonction au sein des matériaux.
La solidarité peut aussi se présenter selon divers degrés de proximité, allant du contact jointif, par
serrage ou emboîtement par exemple, jusqu’à la fusion (par soudure naturelle) qui s’exerce au foyer le
plus intime des matières. Par elle se réalise l’unité de l’hétérogène, l’alliage et même l’alliance. Ce motif
est également soumis à la contrariété des déchirures, des ruptures, des explosions.
La liste n’est pas close, bien sûr, et une grammaire syntagmatique des matières, qui reste à construire,
serait à coup sûr, riche d’enseignements. En définitive, que devons-nous comprendre ? La leçon des
choses ? Le dialogue des matières ? L’harmonie ? La catastrophe ? Dans tous les cas, nous nous dirigeons
vers l’expression d’un contenu propre au plan de l’expression, en amont même ce qu’on nomme
“substance d’expression”7.
7Je renvoie ici à l’étude réalisée conjointement par Denis Bertrand et Verónica Estay Stange, sur la charpente
déictique élémentaire révélée par les propriétés tensives, aspectuelles et rythmiques du sensible. L’article invite à
une plongée dans le sensible afin d’explorer son substrat déictique et par là, sa signifiance inhérente (Bertrand,
Estay Stange 2021, pp. 69-81).
19
6. Conclusion
Une des premières conclusions de l’analyse qu’on vient de présenter, me paraît être le bien fondé d’une
sémiotique de la matérialité. Celle-ci réclame l’autonomie de la substance d’expression – que l’on sait
informée de langage, donc de sens potentiel – mais en suspendant, en retenant en quelque sorte, ce
passage de la matière à la substance. Loin d’être un simple complément théorique, comme un champ
particulier qui viendrait élargir un domaine académique et le compléter, cette sémiotique de la
matérialité reçoit du monde contemporain une justification majeure : le changement climatique fait
remonter sous nos yeux et à tous nos sens les impératifs d’une matérialité que l’usage et les habitudes
culturelles avaient désémantisée sous la forme de simples supports silencieux de nos vies. Voici qu’ils
surgissent en signifiants nouveaux dont il nous revient d’interroger la matière même.
À partir de l’exemple simple de la pierre, du bois et du fer, exprimés en ballast, en traverses et en rails,
on a pu ainsi dégager, par une lecture paradigmatique, le dispositif hiérarchisé des matières assemblées :
il en résultait une taxinomie orientée. De manière complémentaire, une lecture syntagmatique s’est
imposée. Elle faisait apparaître les parcours dynamiques transformateurs, qu’ils soient intra-matériels,
inter-matériels ou extra-matériels, les critères auxquels ils sont ou doivent être soumis – tempo, échelle,
mesure –, les motifs à travers lesquels ils prennent forme sur la base du projet plus ambitieux d’une
syntaxe générale des matières.
Ainsi, dans le cas qui nous a occupé, le ballast, la traverse et le rail présentent un statut “actoriel”
complexe, qu’on ne peut hélas nommer que de manière anthropomorphe. Statut ancillaire tout d’abord,
de qui se contente de faire son job en se faisant oublier : dans ce domaine comme dans celui de la santé,
le silence des choses, à l’instar de celui des organes, est la marque de la perfection. Statut autoritaire
ensuite, cette modalisation concernant aussi bien les relations internes entre matériaux que la visée
même du service auquel ils contribuent : imposer un chemin unique, sur les rails, et sous peine de
“déraillement”. Statut en définitive idéologique et même, en l’occurrence, politique dans la mesure où
cette composition matérielle se présente aujourd’hui, à titre de modeste programme d’usage, comme
une contribution à la sobriété écologique.
Pour finir, le message de cette étude pourrait être celui d’une sémiotique au plus près des choses, sachant
qu’au plus près des choses se découvre une sémiotique au plus près des Sujets. Elle s’exprime dans la
quadruple valence du sensible : le sensible dans le rapport sujet objet ; dans le rapport objet sujet ;
dans le rapport objet objet ; dans le rapport sujet sujet (cfr. la susceptibilité). C’est ainsi que, de
même que la structure peut être au service d’une meilleure connaissance des modulations subjectives,
l’immobilité dure se révèle être au service de la mobilité douce.
Fig. 5 – Machine de déraillement (Biars-Bretenoux).
20
Références bibliographiques
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Pierluigi Cervelli
Abstract. This article aims to reflect on the political use of materials, on the models of semiosis underlying such
strategies, and on the effects they can have from the point of view of belief, starting from Louis Marin thinking about
the portrait of the king. Then the article thematizes the theoretical question of the relationship between matter and
materials in relation to two theoretical reflections related to belief: that of Eco on hermetic semiosis and that of Fabbri
and Marrone on symbolic efficacy. Finally, the article considers italian fascist regime as a case study from the
perspective of political strategies of materials uses, which can be traced back to a hermetic semiosis, in order to
emphasize the limits of intersemiotic translation when diversity in the matter of expression arises.
1. Introduzione: materiali e potere, fra efficacia, potenza e somiglianza
Nella sua ricerca sul ritratto del re, Louis Marin afferma che l’essenza del potere risiede nella sua
rappresentazione. Ma con “rappresentazione” Marin non intende la produzione di un segno sostitutivo
o descrittivo di una realtà esterna ad esso, cui sarebbe referenzialmente legato. La rappresentazione che
interessa Marin ha piuttosto una funzione di “valore pragmatico, istruzione cognitiva e prescrizione
normativa” (Marin 1980, p. 18, trad. mia) e può infatti essere espressa, indifferentemente, attraverso
un’immagine o un discorso verbale, agiografico. La sua funzione semiotica, secondo Marin, non è quella
di mostrarne l’effigie ma la “forza” in quanto condizione di possibilità stessa del potere: la sua capacità
costante di passare all’atto anche quando non si è ancora manifestata, il suo essere sempre attuale anche
quando non si è ancora realizzata.
Il concetto di a rappresentazione slitta perciò, nel corso della riflessione sulla “storia metallica di Luigi
XIV”, quasi impercettibilmente, nel concetto di ri-presentazione: la storia del fare del re è tradotta da
“l’avvenimento dell’atto reale da traccia in marca e da marca in segno” (Marin 1980, 18 trad. mia) e così
trasformata in memoria collettiva, resa presente e praticata attraverso la sua iscrizione materiale in una
medaglia-moneta, di cui non si può fare a meno. La ri-presentazione si compie infatti solo attraverso la
sua iscrizione materiale, in quelle “vere e perfette medaglie” dotate per questo di una “potenza efficace”,
definita da Marin come la capacità di “far credere irresistibilmente alla verità e all’autenticità” del
rappresentato (Marin 1980, p. 9 trad. mia). Essa si basa su una “doppia autorità” indissolubile che solo
l’iscrizione materiale, “storia metallica” nelle parole di Marin, esprimono assieme: quella della “figura
privata” del principe – in una faccia – e quella dell’“uso pubblico” che se ne fa, dall’altra, nella sua
circolazione. (ib., trad. mia).
L’ipotesi che intendo dimostrare è che i materiali, intesi come sostanze formate, hanno, durante il regime
fascista, la stessa funzione che ha la medaglia-moneta di Luigi XIV analizzato da Marin: quella di
produrre memoria credibile, rendere possibile un uso pubblico di essa – la sua circolazione nella società
– e infine creare un noi collettivo che si relaziona al potere stesso.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Certo, con alcune differenze evidenti fra cui due fondamentali: la prima è che i materiali inediti che il
potere fascista privilegia, come il travertino, non sono usati per rappresentare l’effigie del soggetto del
potere, o non solo, ma comunicano questi valori anche solo di per sé, in quanto sostanza semiotica,
materia dell’espressione formata, con cui si “pietrifica”, rivestendola, la città santa dei Papi e quella
monarchica dei Savoia. La seconda è che occorre domandarsi quanto sia stato efficace l’uso dei materiali
durante il regime fascista e se abbia raggiunto, cosa che non credo, l’efficacia simbolica dell’immagine
trasformata in storia e modello su cui verte la riflessione acutissima di Marin. Mi sembra centrale invece,
anche nel caso del fascismo, che questa traduzione del potere, politico o reale, in un’altra sostanza
espressiva, e questo è chiarissimo per Marin, non ha niente a che fare con la somiglianza:
Quale sarebbe, in questo rituale di ricognizione, il ruolo della somiglianza, di una mimesi che, come
nel caso di Alessandro e Apelle, sarebbe portata alla perfezione? Leggendo il testo, si vedrà che non
si tratta di una questione di somiglianza, e questo per una semplice ragione: il re è inimitabile, sia
attraverso la scrittura che attraverso l’immagine (Marin 1988, p. 211, trad. mia).
Per Marin non si tratta di produrre una somiglianza perché il re è imparagonabile – e infatti egli è
sempre rappresentato di profilo, come qualcuno che non è mai un interlocutore di chi lo osserva – ma
di presentarlo come modello (il tipo del semidio, afferma Marin), ossia di tradurre in diverse sostanze
espressive – dal racconto verbale delle imprese all’iscrizione del volto nella sostanza metallica della
moneta-medaglia – la sua specifica forza, che è infatti espressa verbalmente nella sua specificità e unicità
concreta dall’uso dei dimostrativi.
Sono convinto che ogni potere possa essere efficace solo traducendosi nel numero più ampio e diverso
possibile di discorsi e sostanze, ma quali sono i limiti della traduzione materiale del potere? Come accade
che la sua iscrizione in sostanze diverse non diminuisca l’informazione trasmessa ma anzi aumenti l’efficacia
del senso trasposto? Se Marin ha descritto perfettamente l’efficacia di questo processo di traduzione
intersemiotica, Umberto Eco ne ha messo in luce i limiti.
2. I limiti della traduzione intersemiotica e la deriva materiale della semiosi ermetica
L’adeguatezza della traduzione intersemiotica si trova per Eco in una dialettica fra materia
dell’espressione e forma del contenuto espresso. Nella sua riflessione sulla traduzione (Eco 2003) egli
considera casi concreti di traduzione intersemiotica (che preferisce definire trasmutazione) che pongono
il problema teorico delle “costrizioni” imposte dalla specificità delle diverse materie dell’espressione all’
universalità delle forme del contenuto al momento della manifestazione testuale. “c’è un limite della
traduzione, quando si ha ‘diversità nella materia dell’espressione’” (Eco 2003, p. 228).
Il passaggio da una materia espressiva ad un’altra impone infatti, secondo Eco, di dover esplicitare, nella
traduzione, quello che in un altro linguaggio poteva restare implicito:
se il testo originale proponeva qualcosa come inferenza implicita, nel renderla esplicita si è
certamente interpretato il testo, portandolo a fare ‘allo scoperto’ qualcosa che originalmente esso
intendeva mantenere implicito. Né la forma né la sostanza dell’espressione verbale possono essere
mappate una a una su altra materia. Nel passaggio da un linguaggio verbale a un linguaggio,
poniamo, visivo, si confrontano due forme dell’espressione le cui ‘equivalenze’ non sono
determinabili così come si poteva dire che il settenario doppio italiano è metricamente equivalente
all’alessandrino francese (Eco 2003, p. 321).
Le diverse materie espressive non sono più concepite come indefinibili, come nell’ipotesi
hielmsleviana, a cui si impone una forma definente ma diventano il luogo di manifestazione, su scala
23
testuale, della ipotesi teorica echiana delle linee di resistenza dell’essere (Eco 1997): anche se non
impongono nulla di specifico, impediscono una traducibilità totale. Questo perché nella
manifestazione in altra sostanza espressiva del contenuto tradotto l’equivalenza fra i piani
dell’espressione di partenza e di arrivo non è mai completa: essi non sono “mappabili” punto a punto.
Mi pare interessante che quando Eco deve individuare un criterio di adeguatezza della traduzione
tale da superare i limiti della materia espressiva, deve far intervenire un criterio di efficacia semantico-
pragmatica. Per poter accettare una espressione in altra sostanza di un contenuto già espresso come
equivalente (o quasi-equivalente) all’espressione originale una traduzione deve produrre
“l’impressione che il testo originale voleva produrre sul lettore” (Eco 2003, p. 139). E questo criterio
semantico prevale su ogni criterio referenziale: una traduzione efficace può infatti per Eco anche
violare il riferimento referenziale.
Mi pare che il caso di studio del fascismo possa aiutarci a riflettere sul duplice ruolo possibile delle
sostanze dell’espressione: quello di ostacolo alla traducibilità, come sostiene Eco, e quello, opposto,
di veicolo della sua efficacia semantica, secondo Marin.
Il ruolo della materia espressiva è in relazione col tipo di semiosi attivata: il passaggio da espressione
a espressione può originare secondo Eco una abduzione innovativa se il passaggio è regolato e
circoscritto dalla mediazione del contenuto (Eco 1989, p. 428), che limita e orienta la semiosi illimitata.
Esiste però anche una semiosi patologica in cui la differenza di materia espressiva non può esprimere
nessuna resistenza alla deriva interpretativa: quando il rinvio da segno a segno non è mediato da
nessun contenuto ma avviene solo “per simpatia”: per analogia espressiva o somiglianza materiale.
Eco definisce patologica questa forma di semiosi e la riferisce alla “semiosi ermetica”, rinvenibile per
la prima volta storicamente nello gnosticismo del II secolo dopo Cristo. Secondo Eco il discorso
ermetico è la forma storicamente determinata e originaria di “deriva della semiosi illimitata” (Eco
1989) perché in esso la differenza espressiva non si correla ad alcuna differenza di contenuto e tutte
le materie possibili dell’espressione sono considerate “materia prima” in quanto oggetto
dell’operazione alchemica. Qualunque sostanza può essere perciò “materia prima” e per questo tutto
può rimandare a tutto. Questo tipo di ragionamento non è limitato al fenomeno storico dell’ermetismo
classico o rinascimentale: Eco riunisce sotto il modello della semiosi ermetica anche teorie
superomistiche, razziste e complottiste, accomunate dal non rispettare i limiti dell’interpretazione per
ritrovare e intensificare lo stesso contenuto in espressioni senza legami semantici (che si confermano
così a vicenda). In questo caso nè la forma né la materia della sostanza pongono alcun limite al
contenuto che si può enunciare, e non vi è né incremento di conoscenza né l’efficacia (di far-credere)
nel passaggio da una sostanza espressiva all’altra.
Il discorso ermetico origina così un lettore modello paranoico, impegnato a interpretare in
continuazione contro il senso comune, adottando la somiglianza espressiva o materiale, come criterio
unico per produrre una serie potenzialmente infinita di rimandi da una espressione all’altra. In questo
modello in cui la forma espressiva non stabilisce più nessuna differenza, perché il rapporto fra forma,
materia e sostanza non è più di interdefinizione o presupposizione reciproca. Ognuna di esse invece
è separata, o separabile, dalle altre nel processo di semiosi e per questo la nominazione,
manipolazione e trasformazione delle sostanze del mondo contano solo per il gioco di rinvii che si
proiettano nelle loro trasformazioni. Possono così diventare così motore di interpretazioni sempre più
antieconomiche ed essere usati al fine di far credere che ci sia un segreto da scoprire e allo stesso
tempo del suo differimento: rivelare un segreto serve solo a produrne uno nuovo, posto sempre più
al fondo delle pieghe del discorso alchemico. Occorre concludere da questo che la materialità delle
sostanze costituisca un ostacolo alla trasmissione del senso a meno di non ignorarne ogni specificità?
La semiotica di impostazione strutturale e generativa ha indicato un’altra strada possibile.
24
3. Materia, sostanze e credenza: l’efficacia simbolica
La materialità dei linguaggi era secondo Greimas un fattore fondamentale del credere vero. L’esempio di
Greimas (1984, p. 105) era relativo al “[...] fenomeno della distorsione ritmica che si ritrova in contesti
culturali molto diversi e lontani [...] la sovrapposizione, all’accentuazione normale, di uno schema ritmico
secondo che deforma e distorce la prosodia della lingua naturale [...] L’uso della materialità del significante
per segnalare la verità del significato sarebbe così uno dei modi della connotazione veridittiva”.
La materialità dell’espressione linguistica è centrale in quanto selezionata dal contenuto espresso, e da
questo deriva la credibilità/verità del contenuto espresso. Si tratta di quella rimotivazione dell’arbitrario
linguistico a partire dalla co-selezione di espressione e contenuto, generalizzata da Greimas (1972) oltre
il linguaggio verbale ai linguaggi plastici.
Questo principio di poeticità generalizzata si basa sul presupposto di una plasticità totale della materia
espressiva, articolabile senza limite per far balzare in primo piano una distorsione contestuale dei
significanti. Riprendendo la riflessione di Lévi-Strauss, la riflessione semiotica sull’efficacia simbolica
(Fabbri 2000, 2017; Marrone 2001) ha mostrato come la rimotivazione dell’arbitrario possa andare oltre
la materia espressiva delle lingue naturali, cui si limita l’esempio di Greimas, ma come l’efficacia
simbolica si possa realizzare coinvolgendo le sostanze materiali del mondo naturale, superando così, a
mio parere, le critiche radicali dell’antropologia. Il racconto del percorso nella caverna dello sciamano
era per Lévi-Strauss una metafora di taglia narrativa dell’allargamento del corpo per permettere il parto:
attraverso il racconto di una storia la paziente poteva riconoscere e padroneggiare il suo dolore senza
esito. Si tratta del problema del rapporto fra antropologia e psicanalisi, posto in un modo che riguarda
direttamente il tema della materia del mondo naturale e del corpo come sua parte: collegare quello che
Lévi-Strauss (1966, p. 200) definisce “il funzionamento bio-chimico dell’organismo” – ossia dal punto di
vista semiotico la strutturazione della materialità del corpo in sostanza – e la stratificazione simbolica
dell’inconscio? É possibile cioè, pensare che esista un livello culturale della psiche individuale in cui il
discorso può operare narrativamente, attraverso “il modo di agire delle rappresentazioni inconsce come
comunicanti [...] con le patologie somatiche?” (Severi 2000, p. 76)?
Il pilastro della riflessione del maestro dell’antropologia strutturale – l’interpretazione semiotica della
relazione fra corpo e racconto, intesa saussurianamente come una relazione linguistica fra significante
e significato, ne costituiva per Severi una fragilità ineludibile. Severi infatti afferma di essersi subito
reso conto – attraverso un periodo di etnografia presso i Cuna – di come la donna non potesse
comprendere la lingua iniziatica dei rituali sciamanici: “una lingua speciale, il cui apprendimento
richiede una lunga iniziazione, e che nessun paziente, tanto più in stato di intensa sofferenza, può
comprendere” (Severi 2000, p. 76).
Per Severi questo costituiva uno scacco insuperabile rispetto alla spiegazione narrativa fornita
dall’antropologo francese “interamente postulata su una comprensione del testo” (Severi 2000, p. 76). Il
motore della trasformazione non causalistica ma simbolica della carne intima, della materia del corpo
proprio che porta al parto, non poteva risiedere nella mediazione simbolica del racconto.
All’interno di una riflessione di estrema finezza, Severi formula una ipotesi secondo cui la possibilità
di iscrizione dell’esperienza individuale nel rituale avviene proprio a causa della sua vaghezza e
parziale incomprensibilità in cui si svolge il rituale, affermando però che la donna ha probabilmente
afferrato qualche parola del canto cerimoniale. Questa spiegazione a mio parere presenta una
contraddizione: riafferma infatti la centralità, almeno parziale, del linguaggio verbale proprio in quella
componente rappresentativa che metteva giustamente in discussione. Se la lingua non era così oscura
come si può falsificare con tanta radicalità l’ipotesi levistraussiana? La sua interpretazione non tiene in
conto inoltre, a differenza di quella di Sherzer (Sherzer e Urban 1986), della forma dell’espressione
verbale e della relazione dell’efficacia simbolica con le sostanze sensibili che lo stesso Lévi-Strauss non
mancava di sottolineare: “L’efficacia simbolica consisterebbe appunto in questa «proprietà induttrice»
25
di cui, le une rispetto alle altre, sarebbero dotate strutture formalmente omologhe, edificabili, con
materie prime differenti, ai differenti stadi del mondo vivente: processi organici, psichismo inconscio,
pensiero riflesso” (Lévi-Strauss 1966, p. 200, corsivo mio). Ed è proprio a mio parere sottolineando il
ruolo delle sostanze, dei materiali del mondo, che Fabbri e Marrone hanno proposto una diversa
riflessione sull’efficacia somatica del rito assumendo interamente la critica etnografica ma ipotizzando
che la trasformazione simbolica deve essere avvenuta per l’azione dei materiali del mondo che si
trasformano nel rituale sulla materia del corpo, la carne che si trasforma e palpita nel parto. Scrive con
estrema chiarezza Marrone:
La comunicazione che si svolge tra lo sciamano e la partoriente non è legata alla trasmissione del
contenuto semantico del canto [...] Il linguaggio che rende efficace la cura, pertanto, è d’altra natura:
da un lato fa ricorso a logiche di tipo sensoriale, agisce per “contagio” sul piano uditivo, adeguando
i ritmi somatici a quelli del canto (lentissimi all’inizio e alla fine, sempre più rapidi al centro)
(Marrone 2001, p. XXXIV).
Mi sembra fondamentale come Marrone affermi la centralità delle materie del mondo sensibile in
traduzione reciproca – in isomorfismo categoriale, e in intensificazione sintagmatica del significato
(l’aumento dell’efficacia cui faceva riferimento Marin) – nel processo rituale: il ritmo del canto, il tono
della voce, gli abbozzi di schemi prosodici e di sequenze fonemiche che si ripetono, ma anche le
qualità sensibili delle fumigazioni, la forma della luce e del buio (“ondulato tremolio” lo definisce
Severi), i gesti e la grana della voce dello sciamano nel canto. Per Fabbri e Marrone la relazione è
sempre di significazione ma nella loro rilettura del saggio – secondo Severi uno dei più complessi,
ambiziosi e meno esplorati della produzione levistraussiana – mi pare si operi un passaggio
fondamentale dalla relazione saussuriana significante/significato a quella hielmsleviana fra forma,
sostanza e materia. Questo passaggio permette, ed è questa l’innovazione centrale, di mettere in primo
piano le sostanze formate e la loro traducibilità e così di formulare una spiegazione che può fare a meno
della centralità della dimensione figurativa del linguaggio verbale: un modello dinamico di significazione
in cui i linguaggi ricontrattano “in situazione” i reciproci spazi di pertinenza e permettono ad ogni
enunciato (o segno equivalente) di giocare il ruolo di “sistema” locale per gli altri che lo seguono1.
Nel corso del rituale infatti il corpo della donna partoriente, sfinito fino al rischio di diventare massa
amorfa cadaverica, agisce come materia che si adegua alle forme delle sostanze sensibili trasformate
nel corso della pratica rituale.
Il ritmo di questa trasformazione produce una forma fatta di intensità (prosodiche) e ripetizioni
(ritmiche), adeguandosi alla quale la donna fa sì che il suo stesso corpo divenga sostanza espressiva
motivata dal ritmo sintagmatico del processo rituale.
A questo non è necessariamente estranea la dimensione rappresentativo/metaforica ma per
comprenderne appieno la dinamica occorre a mio parere riprendere e raddoppiare specularmente
l’idea di Greimas sul rapporto fra lingua naturale e mondo naturale 2. Greimas (1968) avanzava l’ipotesi
che le figure del piano dell’espressione del mondo naturale siano rinvenibili come figure del piano
del contenuto delle lingue naturali. Alla luce della riflessione semiotica sull’efficacia simbolica
potremmo forse pensare che le forme del contenuto del corpo che si trasforma – in quanto parte del
mondo naturale – siano isomorfe alle forme dell’espressione della lingua naturale, evidenti nella
prosodia poetica e musicale dei riti curativi Cuna: sincopi, intensificazioni, distorsioni capaci di
produrre inglobamenti sintagmatici, estensioni fonematiche, ripetizioni ritmiche, vibrazioni
1 Su questo specifico tema si veda la riflessione ricca pertinente e innovativa svolta da Jacoviello (2012). Si tratta, a
mia conoscenza, dell’unico studio di caso di traduzione intersemiotica fra musica e pittura, peraltro di estremo
rigore teorico e grande finezza analitica, mai svolto nell’ambito delle discipline semiotiche.
2
Devo questa indicazione a Francesco Marsciani (conversazione privata), che ringrazio.
26
rallentamenti e accelerazioni. Tutto il campo dunque delle “resistenze e spinte” di cui parlava Lévi-
Strauss (1966, p. 219): allargamenti, restrizioni, intensificazioni e distensioni attraverso cui il corpo
della partoriente può assumere la funzione di “grande traduttore” del semantico nel somatico
(Marsciani 1999). Si tratta, e questo pare particolarmente importante, delle stesse identiche forme
proprie della distorsione ritmica ed espressiva del canto rituale Cuna che Sherzer aveva messo in
evidenza in una meticolosa descrizione di un canto di cura per il morso dei serpenti:
Il discorso fa uso di vari processi poetici e strategie retoriche quali [...] volume e delicatezza [della voce
N.d.A.], velocità e rallentamento del discorso, modulazione del tono, schemi di pausa, e due
caratteristici sistemi espressivi propriamente Kuna, la distensione della voce e la vibrazione della voce
(Sherzer 1986, p. 175, trad. mia, corsivo mio).
Si tratta, in una chiave sensibile, di quella trasformabilità generale delle sostanze espressive nel quadro
di una efficacia della correlazione di forme (del contenuto e dell’espressione) che Greimas (1972)
presentava (in modo antitetico all’ipotesi di Eco delle “linee di resistenza” della materia nella
traduzione intersemiotica) come una “co-selezione reciproca” del contenuto e dell’espressione.
E proprio questo aspetto indica credo la differenza di fondo fra efficacia simbolica e semiosi ermetica:
nell’efficacia simbolica la forma del contenuto cambia forma sostanziale alla materia del mondo (del
corpo, nel caso specifico), mentre per la semiosi ermetica la forma o la materia dell’espressione
manifestano una rete di influenze (intese come relazioni di causa-effetto) presupposte fra materie del
mondo, indifferenti fra loro al contenuto espresso.
4. Credere: usi e abusi politici dei materiali
Secondo Marrone un problema centrale poco considerato da Lévi-Strauss era quello della variabilità
credenza: “Se tra i Cuna il credere ai rituali e ai miti è dato per scontato, nella nostra cultura uno dei
problemi sociocomunicativi più delicati è proprio quello della costruzione delle credenze” (Marrone
2001, p. XXXV). Mi sembra perciò interessante leggere l’uso politico delle sostanze, materiali del
mondo in rapporto alla costruzione di una credenza collettiva.
La trasformazione di Roma in capitale del fascismo si basa sull’uso politico dei materiali attraverso
cui il fascismo cerca di usare la città come un’arma di costruzione di credenza di massa, prima di tutto
per fini interni, ma anche per impressionare i leader politici e le opinioni pubbliche mondiali. I leader
dei partiti fascisti europei, tutti invitati da Mussolini a Roma, ne furono profondamente colpiti. Kallis
(2014) dedica un capitolo del suo libro su Roma fascista alle reazioni commosse dei leader fascisti
europei alla visione di Roma: “Anche Oswald Mosley, leader del BUF, sembrò per un periodo attratto
dalla forza magnetica della capitale fascista [...] Mosley organizzò un viaggio di ‘studio’ a Roma nel
gennaio del 1932” (Kallis 2014, p. 238, trad. mia), e i leader fascisti romeni definirono la loro visita a
Roma nel 1938 un “pellegrinaggio di devozione alla ‘madre Roma’” (ib., trad. mia). Essi affermarono
apertamente dunque di credere alla verità del fascismo a causa della materialità della città, in cui lo
strato romano è palcoscenico delle adunate del regime ma anche “il luogo dove queste credenze
vengono negoziate tra i vari attori sociali” (Marrone 2001, p. XXXV) proprio perché permette una
forma di “immediatezza” nel contatto diretto col fascismo.
Sulla base delle testimonianze citate la trasformazione sembra efficace per gli storici, ma a mio parere
il fascismo italiano rappresenta un caso emblematico in cui il tentativo di uso dei materiali per far
credere si risolve nella semiosi della simpatia ermetica.
27
5. L’inefficacia simbolica della semiosi fascista
Passando dal mondo antico all’attualità dell’ermetismo, Eco ne identifica alcuni elementi nel pensiero
fascista e razzista di Julius Evola: “Come esempio di affabulazione alchemica contemporanea, in cui
si mescolano farneticazioni operative e farneticazioni simboliche nel quadro di un superomismo
razzistico, si veda La tradizione ermetica di Julius Evola” (Eco 1989, p. 99). Credo che non si tratti di
una eccezione estremistica ma che durante il regime fascista italiano si sia affermata una semiosi
ermetica patologica generalizzata, che ha investito i materiali (di costruzione) ma anche il corpo in
quanto materia formata 3 . Riguardo ai materiali, nel discorso fascista si evidenzia sin dall’inizio del
regime una semiosi ermetica relativa al rapporto fra la trasformazione di Roma ed il riferimento
all’essenzializzazione e astrazione della identità imperiale cui il fascismo si riferisce esplicitamente,
espressa dal termine “romanità”, il cui uso si diffonde nel discorso politico all’inizio del regime. L’uso
dei simboli della Roma imperiale, e in particolare del periodo augusteo, non ha tuttavia nessuna
relazione di significazione col contenuto espresso ma funziona esclusivamente per relazione di
somiglianza espressiva. A detta degli stessi pseudo-intellettuali del regime questi simboli sono infatti
pensati agire per una relazione di causalità, legata alla loro natura di sostanze. Dato che sono riprodotti
in forme identiche rispetto al modello romano, si afferma infatti che l’effetto che producono sia una
sorta di riproduzione dello “spirito di Roma”, di cui resta vago e misterioso il senso e inspiegabile il
funzionamento. Riferendosi ai “segni distintivi della romanità” (i simboli imperiali replicati dal fascismo)
Cecchelli scrive infatti che “[alla] coscienza di Roma contribuisce, oltre [...] alla eredità di tendenze
proprie della razza [...] una serie di elementi d’origine culturale che è difficile, talvolta impossibile,
individuare” (1925, p. 422). E aggiunge poco dopo che “l’azione di questi sul nostro aggregato sociale
può paragonarsi a quella fisica e fisiologica del cibo, o del farmaco sul corpo dell’individuo. Vi è perciò
una rielaborazione interna che svela l’esistenza di un ‘io’ immutabile ed onnipresente” (ibid., p. 422).
Come si può facilmente vedere questa spiegazione non spiega nulla ma sposta la causa nelle pieghe del
discorso e risolvendosi in una pretesa di riproduzione dell’identico attraverso l’identico: che cosa
significa infatti “rielaborazione interna”? Interna a che cosa, svolta da chi e in quale modo?
Per questo a mio parere l’attribuzione di senso è tautologica e avviene per “simpatia”, nella versione
semplificata e immediatamente accessibile del segno ottenuto per replica della forma espressiva.
Restando misterioso il processo di azione della materialità della pietra, l’effetto è quello della produzione
di un senso abbastanza vago da permettere quella “sinonimia generalizzata” che è propria della semiosi
ermetica, cui contribuiscono l’uso pubblico della materialità della lingua latina 4 . Per una direttiva
ministeriale del 1926 sulle facciate di tutti gli edifici di nuova costruzione diventa obbligatorio indicare
l’anno di edificazione in numeri romani, a partire dall’inizio della “Era fascista” (come Mussolini inizia
a fare dal 1923) ed è frequente l’apparizione di frasi e motti in latino. Ma il loro senso non ha relazioni
precise con la lingua (perché non esprimerlo in italiano?) e inoltre il latino usato, spesso scorretto, non
è certo il latino classico colto (Cervelli 2020). Esso non conta per il contenuto trasmesso ma solo per la
3
Per ragione di spazio non posso approfondire in questa sede il tentativo di far credere attraverso il trattamento e
l’iscrizione dei valori collettivi nei “corpi sociali”, che ha a mio parere un ruolo fondamentale nel regime fascista.
Altrove ho mostrato (Cervelli 2020) come per il fascismo il corpo sia fondamentale per far credere alla verità dei
valori politici. Per questo il corpo dei bambini nel regime è ascrivibile a una materia che deve essere formata fin
dall’infanzia secondo precise condizioni fisiologiche ed estetiche, all’interno di una isotopia della guerra che verte
sul concetto di gerarchia. In questo quadro la descrizione delle famiglie marginali è emblematica: verte su una
generalizzata semiosi ermetica, operante per somiglianza fra forme “difettose” del corpo dei bambini, forme della
casa e forme di vita, supposte immorali, dei genitori.
4
Questo processo era generalizzato: si pensi all’uso di parole latineggianti nel linguaggio politico e comune (come
figli della lupa, quadrumviri, centurie, duce etc.).
28
materialità espressiva della lingua latina: un’altra forma della “simpatia” ermetica. Anche al travertino e
al mattoncino era attribuito un valore di “verità identitaria” per somiglianza espressiva. Sulla rivista
ufficiale del Governatorato di Roma, Capitolium si legge che il Ponte delle milizie si sarebbe dovuto
costruire con
la più severa semplicità, intonata alla maestosa tipica purezza di linea delle opere romane, in cui la
decorazione è data [...] dall’opportuno ed equilibrato impiego del materiale (travertino e cortina di
mattoni) [e] […] per quest’ultimo si adopereranno mattoni speciali aventi le caratteristiche dimensioni
dei mattoni romani del periodo ‘Augusteo’ in modo che lo stesso paramento laterizio rievochi nel
suo aspetto le gloriose forme dell’architettura ‘Romana’ [...] (Bianchi 1925, pp. 281-283).
Nell’articolo è dato per scontato che un processo di produzione segnica per replica delle sostanze
espressive5 produca la creazione ex novo dello “spirito di Roma” purché realizzato con il massimo
dell’aderenza figurativa. Il ragionamento analogizzante svolto serve all’“l’apprendimento progressivo di
simboli [...] che permettono l’entrata nel gruppo” (Fabbri cit. in Padoan 2021, p. 76 6 ), cioè
all’acquisizione della nuova identità politica del regime, ma le sostanze del mondo sono convocate e
messe in forma per pura somiglianza espressiva: l’autodefinizione identitaria (il contenuto che si
vorrebbe esprimere) si basa sull’uso costante e diffuso di materiali all’apparenza identici a quelli usati
nelle costruzioni romane antiche. Alla base di tutto questo un evidente paralogismo, ancora riferibile a
mio parere alla semiosi ermetica: formare le sostanze espressive (anche linguistiche) significa
meccanicamente e misteriosamente – dal punto di vista del contenuto – rappresentare davvero la
riapparizione contemporanea dell’impero romano7.
Il problema espressivo da risolvere è quello di esprimere una solidità e superiorità bellica dello stato
fascista, che diventa, nella sua espressione architettonica, la ricerca di un effetto generalizzato di
monumentalità. Nonostante l’indubbio valore estetico di molti edifici dell’epoca, attraverso il
rivestimento in travertino si valorizza infatti la componente “massa” e non “superficie” degli edifici. Essi
non si presentano più, come nell’architettura precedente (neoclassica) come insiemi stratificati di livelli
sovrapposti la cui separazione è visibile attraverso la presenza di linee-contorno (ad esempio attorno alle
finestre o attraverso le linee marcapiano che seguono l’andamento dei solai) ma come masse unitarie, il
che produce l’impressione che gli edifici siano un blocco unico, con un effetto di senso di omogeneità,
solidità e dunque monumentalità. Questi effetti sono dati dalla presenza attorno alle aperture, al posto
delle linee contorno, di linee-spessore. Come ha dimostrato Floch (1995) analizzando la differenza fra
logo IBM e Apple, gli ispessimenti delle linee producono l’annullamento della distinguibilità, per un
osservatore, fra primo piano e sfondo, cui contribuisce l’omogeneità dei rivestimenti, presentando le
facciate e gli edifici come un blocco unico. Il rivestimento generalizzato in travertino totale o parziale degli
edifici contribuisce a questo effetto di senso simulando, anche quando gli edifici non ne sono interamente
rivestiti (ma solo fino al primo o secondo piano, di solito) la presenza di uno zoccolo come quelli su cui
sono poste le statue nei musei, un basamento materiale che produce un effetto di monumentalità di tutti
gli edifici, anche quelli destinati ad abitazione o ca fini commerciali.
5
È un processo di simbolizzazione selettivo, metonimico perché non si riguarda altri materiali tipici della città,
come l’intonaco color ocra rossa e gialla e il tufo (Segarra Lagunes, Vittorini, a cura, 2002).
6 Padoan si riferisce al corso Codici esoterici: per una semiotica delle Massonerie svolto da P. Fabbri in
collaborazione con T. Migliore, afferente all’insegnamento Letteratura artistica del CdL in Arti Visive e dello
Spettacolo dello IUAV di Venezia nel 2008.
7
Di questo fenomeno fanno a mio parere parte anche le “feste romane” descritte da Kallis (2014), in cui al Circo
Massimo si radunano per alcuni giorni all’anno un migliaio di persone vestite da antichi romani. L’effetto non
doveva essere molto diverso dalla visione dei figuranti vestiti da centurioni oggi visibili presso il Colosseo, tuttavia
per il regime erano parte della “riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma”, per dirla con le parole di
Mussolini, di cui il travertino era altra parte integrante.
29
L’uso del travertino inoltre, a seconda di quanto materiale è utilizzato, definisce una gerarchia di tipo
elementare e simbolico: il travertino copre completamente gli edifici pubblici del centro storico ed i più
importanti del regime sparsi nella città, arriva ai primi due piani negli edifici residenziali dei quartieri
nuovi, destinati alla borghesia impiegatizia (una classe media che il regime si sforza in ogni modo di
creare) ma è ridotto a circa mezzo metro nelle borgate migliori, fino ad essere completamente assente
nelle aree destinate alla popolazione più marginale. Se questi “ragionamenti plastici” possono
argomentare una traduzione in spazio costruito della cosiddetta “era fascista”, e la sua graduazione
simbolica nell’intero spazio urbano, l’intera operazione è tale da produrre la ripetizione infinita – che
diventa celebrazione – di un significato unico: l’identificazione del regime fascista con l’impero romano
del secolo d’oro.
Gli edifici interamente rivestiti di travertino costituiscono inoltre, a mio parere, un particolare caso di
invenzione di memoria collettiva di cui si impone l’uso pubblico semplicemente abitando la città. Questo
aspetto ne rende l’uso simile a quanto teorizzato da Marin a proposito della medaglia-moneta, ma esso
funziona ancora solo per somiglianza espressiva. Non si riproduce infatti l’apparire attuale delle rovine
romane ma un loro presunto essere immanente: il modo in cui dovevano essere quando l’impero
romano era al massimo della sua espansione. Altrettanto falsa è la scelta di selezionare, sempre per
simpatia (rispetto al modello di autodefinizione culturale imposta, l’immagine “modellizzante” che il
fascismo vuol dare di sé nel presente) i resti dell’antico da rendere visibili per riprodurre in forma
analogica nel presente “l’impero romano”. La somiglianza col presente è fondamentale per selezionare
arbitrariamente i resti archeologici da mantenere o magnificare, per cui non c’è nessun recupero
filologico del passato ma piuttosto la sua umiliazione. Quando infatti gli stessi resti romani testimoniamo
la degenerazione ed il crollo dell’impero vengono distrutti senza pudore, anzi rivendicando
orgogliosamente un falso archeologico: è il caso dei resti di tabernae tardo-romane trovate in largo
Argentina dopo la distruzione del convento medievale di San Nicola dei Cesarini nel 19288. Dato che
ostruivano parzialmente la vista del tempio di Ercole, vengono distrutti. Ma quello che colpisce è il
modo in cui ne parla l’allora sovrintendente alle belle arti, Antonio Muñoz: “[...] qualche cosa fu invece
tolto e sfrondato. C’erano a ridosso dei quattro vetusti templi antichi, muracci di tabernae elevate in
epoca romana tarda, con poco rispetto agli edifici venerandi, di cui ostruivano la vista, e se potevano
formare la delizia di qualche archeologo, davano all’area sacra l’aspetto di una zona terremotata. Quei
muri furono perciò ridotti e abbassati in modo che i quattro templi arcaici potessero grandeggiare nella
necessaria imponenza” (Muñoz 1935, p. 153).
6. Conclusioni
Il tentativo fascista di manipolazione dei segni e delle sostanze espressive è a mio parere affine a quello
che Fabbri attribuisce al rituale di iniziazione massonico: “strutturare l’esperienza dello spettatore in un
certo modo [...] simbolico – dunque pluri-isotopico, figurale, riflessivo e perciò auto-costitutivo, allusivo
ed efficace a livello enunciazionale” (Fabbri cit. in Padoan 2021, p. 75 9 ). Nonostante il modo di
significare vago e allusivo del regime fascista, resta il fatto che questi tentativi costituiscono una forma
8 La demolizione del convento medievale in Largo Argentina era stata decisa per costruire al suo posto un albergo.
Muñoz racconta che Mussolini abbia scorto da uno dei balconi di abitazioni private addossate al tempio una
porzione di colonna romana e abbia per questo bloccato il progetto imponendo che il convento fosse demolito
ma solo per rimettere in visibilità i resti romani sottostanti. Al momento dell’inaugurazione dell’area restaurata, nel
1929, Mussolini annuncia alle personalità presenti che, di fronte a tanta magnificenza rinvenuta, avrebbe voluto
vedere presenti coloro che si erano opposti alla sua decisione “per farli fucilare” (sic.). L’episodio è raccontato
interamente da Antonio Muñoz (1935).
9
Anche qui, Padoan si riferisce al corso Codici esoterici: per una semiotica delle Massonerie del 2008.
30
di ripetizione ossessiva con qualche eccezione di effettiva rimotivazione creativa dell’arbitrario (come
per esempio, in ambito architettonico, i lavori di Terragni) e per questo non sono credibili, proprio
come i significati sociali che tentano di magnificare. Quando questi limiti non vengono superati
attraverso una forma inedita di rimotivazione dell’arbitrario capace di produrre efficacia simbolica
(come non avviene praticamente mai nel caso del fascismo se non, con significative eccezioni, nel campo
delle avanguardie artistiche e in particolare della pittura e della poesia futurista) o quando il contenuto
da trasmettere forzatamente è falso, troppo povero e ripetitivo, l’uso semiotico dei materiali si risolve
alla significazione per simpatia propria della semiosi ermetica. Il tentativo fascista si configura così in un
abuso simbolico dei materiali che oscilla fra la distruzione arbitraria e la finzione, e che, come
sottolineava Padoan (2021) riprendendo una riflessione di Lotman e Uspenskij, riguarda in gran parte
“l’aspetto esteriore” del segno. Anche se alcuni architetti dell’epoca hanno inventato in modo creativo
nuovi modi di espressione, il progetto di credere cui il fascismo mira si risolve in un processo,
metonimico e forzato, di falsa analogia. Il discorso fascista cerca di navigare in vista dell’efficacia
simbolica ma si infrange sugli scogli aguzzi della semiosi ermetica.
31
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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32
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Emanuele Fadda
Abstract How to describe the sea? How to tell about it? One of the most universal experiences – soaking in
seawater – is also one of the most individual, whose characters are defined over time through habit, associations,
readings and character evolution. Yet the need to talk about the sea, to semiotize it, is fundamental, in contexts of
literature, marketing, or others. In this paper I will aim the (hopeless?) undertaking of describing, defining and
classifying the sea (and beaches), reasoning about the respective roles of cognition and experience, and about the
relationship between sea and musement. My conclusions will deal with the role of the sea as a challenge for the
expressive power of languages.
Ognuno ha la sensazione di aver qualcosa da dire
del mare e del suo aspetto
e che si tratti di una cosa effettivamente importante
Predrag Matvejević
1. Introduzione: il mare è tutto (e il suo contrario)
Il mare ha sempre avuto un legame forte con la filosofia (e con la semiotica). Simbolo enantiosemico1,
può connotare di volta in volta la familiarità così assoluta da essere invisibile (“cos’è la filosofia?
Insegnare al pesce cos’è l’acqua…!”)2 o, al contrario, l’estraneità più inattingibile (troppo vasta, troppo
profonda per essere toccata). I problemi divengono poi ancora maggiori quando non si tratta più di
parlare per metafore, o per simboli (casi nei quali vi è almeno la risorsa della generalità), ma di
descrivere letteralmente il mare – non il mare in generale, ma quello che di volta in volta è l’oggetto
della nostra esperienza, del nostro desiderio, del nostro ricordo o delle nostre aspettative.
Ovviamente dei parametri “oggettivi” ci sono, ma in molti casi sembrano avere un’importanza molto
relativa (a partire dal riferimento cromatico al blu/azzurro – una categoria che l’antichità non conosceva
come la intendiamo noi). Una delle esperienze più universali – quella del bagnarsi nell’acqua marina –
è anche una delle più individuali, i cui caratteri si definiscono nel corso del tempo attraverso l’abitudine,
le associazioni, le letture e l’evoluzione del carattere.
1 Come nota Bachelard a proposito dell’acqua in generale, è proprio questo carattere che soddisfa “le manichéisme
de la rêverie” (Bachelard 1942, p. 19), che vuole che ogni elemento o materia originale debba essere insieme
desiderabile e temibile, estatico e spaventoso.
2
In un discorso assai noto (e da cui traggo il titolo di questo testo), pronunciato durante una cerimonia di laurea,
David Forster Wallace (2017, pp. 140-152) assegna questo compito – insieme cognitivo ed esistenziale – non alla
filosofia, ma agli studi umanistici nel loro insieme.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Alla dimensione individuale dell’esperienza fa da complemento (e, talvolta, da contraltare) la dimensione
più propriamente comunicativa. Per ragioni di marketing turistico, culturale o semplicemente di gestione
dell’immagine pubblica di un territorio si ha la necessità di raccontare, semantizzare e assiologizzare
l’acqua del mare, che invece sfugge per molti versi alla semiotizzazione, ed è anzi spesso citata
paradigmaticamente ad evocare i territori dell’ineffabile (e le esperienze paniche e quasi-mistiche).
Da un lato troviamo dunque le caratterizzazioni generali del mare (mai troppo loquaci e articolate, se
non per ciò che concerne aspetti tecnici legati alla navigazione, alla pesca etc.), dall’altro uno sforzo
continuo di dire-questo-mare-adesso. Come si fa, dunque, a parlare dell’esperienza del mare? A
raccontare e descrivere il mare?
Nel tentativo di dare determinatezza all’indeterminato per eccellenza, assumerò come riferimento
principale (almeno per i primi passi) l’unico autore che conosco che abbia preso sul serio l’idea di una
“filologia del mare” (Magris 2004, pp. 7-12): Predrag Matvejević3. Prendere come guida lo scrittore
croato significa fare delle scelte, a partire da quella di privilegiare il Mediterraneo, che è, come già il
nome ci indica, mare “fra le terre” – non mare-deserto, ma mare-strada). È un mare in cui, in qualche
misura, possiamo avere un’idea di ciò che c’è dall’altra parte: qualcuno con cui condividiamo, almeno
in maniera molto generale, una parte importante di esperienza4. Per chi abita una delle periferie del
Mediterraneo, esso è “a un tempo un mondo a sé e il centro del mondo” (Matvejević 1987, p. 23),
qualcosa che è accessibile da ogni luogo ma non coincide con nessuno di essi. Il mare è dunque l’accesso
al mare: non il centro, ma ciò che al centro si connette.
L’altra scelta principale che assumerò con Matvejević è quella di non fornire un’immagine del mare
riduttiva o riduzionista, ma ampia e sfaccettata: il mare non è l’acqua, ma è tutto ciò che ha a che fare
col mare, e dunque un campionario di contesti e situazioni, collegati a comportamenti da tenere in
queste situazioni (parzialmente codificati, per esempio, da proverbi). In questo senso il mare – e il
Mediterraneo in particolare – non è tanto un oggetto, quanto un sistema di segni, conosciuto in qualche
misura da tutti coloro che vi hanno a che fare, e con una tradizione millenaria. Matvejević non è il solo,
né il primo, a insistere su questo aspetto: su un piano strettamente semiotico, Ferruccio Rossi-Landi
(1968) si era posto il problema della effettiva consistenza e della natura di un tale sistema, a partire dal
confronto con quelli linguistici5.
2. La descrizione del mare: il colore e gli altri aspetti
Torniamo ora alla descrizione del mare. Come già accennato, sembra difficilissimo compierla senza fare
riferimento all’esperienza, alle prassi, all’ambiente che il mare contribuisce a definire. Ma vediamo fin
dove potremmo arrivare. Iniziamo da quella che dovrebbe essere la caratterizzazione principale: il
3
La prima edizione croata del Breviario mediterraneo è del 1987, e la prima traduzione italiana del 1991. Io mi
riferirò qui all’edizione ampliata del 2006.
4
Questa esperienza si concreta linguisticamente in due elementi principali. Il primo è un lessico composito.
Matvejević mostra come una delle caratteristiche dell’identità mediterranea è quella di conoscere parole derivate
dalle fonti più disparate (ma che denotano oggetti più o meno conosciuti da tutti), e il suo traduttore italiano
testimonia la sua richiesta espressa di lasciare tutti questi termini con una trascrizione il più possibile fedele alla
pronuncia in lingua originale (cfr. Matvejević 1987, p. 318). Il secondo è la costituzione di lingue franche, spesso
a base genovese, la cui funzione non si esaurisce nell’aspetto mercantile. Su questi idiomi, fondamentale è il lavoro
di Fiorenzo Toso, purtroppo scomparso prima di aver potuto fornire una sistematizzazione (ma una summa delle
sue ricerche si trova in Toso 2020).
5 Diverso è il caso dei codici internazionali istituiti per la navigazione, come quello che utilizza le bandierine,
analizzato da Prieto (1966) per illustrare le nozioni di funzioni ed economia nella semiotica della comunicazione.
Il padre di Prieto (come quello di Barthes, che morì durante la prima guerra mondiale) fu un militare di marina.
34
colore. Nel libro di Matvejević, lo spazio dedicato al colore del mare è sorprendentemente scarso, e in
qualche modo non fa che esprimere lo scacco della semantica rispetto alla realtà infinitamente cangiante
che resiste a ogni tentativo di essere “catturata”, quasi come se fosse un mistero, o il nome di un dio che
si cela dietro mille altri nomi.
È difficile indovinare il vero colore del mare – ce ne sono tanti, vari, irraggiungibili. Lo definiscono
solitamente azzurro, ma non lo è sempre. Sotto le nuvole è grigio, nell’oscurità nero, al sorgere e al
tramontare del sole dorato, talvolta, sul far della sera, roseo o perfino rosso, nel momento in cui si
orla di spuma diventa bianco ed effervescente, nelle intemperie è plumbeo, dov’è poco profondo
risulta verde, qui trasparente e là torbido (Matvejević 1987, p. 25).
Il mare viene visto da terra con colori diversi, in tutte le sfumature dell’azzurro e del verde, come
argento e oro sotto la luna o sotto il solte, di notte, di giorno, come olio e sale, terso come il cielo nelle
metafore virgiliane (caeruleum mare), scuro come il vino negli epiteti omerici (oinops) (ivi, p. 222).
Alcune precisazioni ulteriori sono riservate al colore dell’acqua nelle grotte marine, che ha caratteri particolari:
Delle grotte marine [… c]e ne sono alcune facilmente accessibili, altre in cui si entra con difficoltà.
[...] Hanno colori diversi o almeno questa è l’impressione che ne abbiamo: l’azzurro, l’azzurro scuro
e il verde, forse, sono più densi. La luce, dove c’è, sembra essere liquida (ivi, p. 52).
Le descrizioni di Matvejević ci illustrano non come il mare è, ma come lo vediamo. Del resto “il
colore del mare” non è il colore del mare : il cielo, il fondo e la profondità, le condizioni di luminosità
e quelle metereologiche, il riflesso delle rocce – mille altri elementi esterni determinano la nostra
esperienza 6. Inoltre, tutti i fattori cui abbiamo già accennato sopravanzano di gran lunga l’elemento
propriamente percettivo 7:
Se abbiamo creduto che si trattasse soltanto di colori o di immagini, bisogna riconoscere che talvolta
si trattava invece di connotati pratici: delle direzioni e dei punti cardinali del mondo. L’influsso delle
nostre rappresentazioni o illusioni non può per questo essere escluso: esse hanno contribuito,
nonostante tutto, al fatto che le singole denominazioni sopravvivessero e venissero adottate (ivi, p. 222).
Insomma, per esprimerci nei termini di Eco (1997, cap. 3), è estremamente difficile delineare un tipo
cognitivo dell’acqua marina, ed è senz’altro impossibile (perfino se si dispone della prosa di
Matvejević) fornirne un contenuto nucleare. Ma cosa dire invece della definizione come oggetto di
una porzione di mare – per esempio di una spiaggia 8?
Per definire cos’è un oggetto materiale, possiamo adottare la strategia di Prieto (2021), e distinguere
tre tipi di oggetti:
1. oggetto spaziale (dunque insieme di tratti spaziali pertinenti, prescindendo dal tempo);
2. oggetto spazio-temporale (insieme di tratti spaziali e temporali pertinenti – dunque, un evento );
6
Ancora diversa è l’esperienza della crociera, in cui il mare è cornice o sfondo, laddove la figura – per così dire
– è la nave e quello che vi accade. Cfr. il contributo di Giannitrapani (2022, p. 9), che insiste sulla “progressiva
focalizzazione dell’esperienza vacanziera verso l’interno” sicché “il mare v[ie]n[e] espunto dal viaggio” per quanto
resti “presente sullo sfondo di tantissime attività, inquadrato come elemento pittoresco da cui trarre godimento
estetico” Si potrebbe dire, in questo caso, che il mare è una sorta di analogo dello scontornamento delle figure nei
meme: serve a isolare ciò che si vuole pertinentizzare (o almeno focalizzare).
7 Questo, del resto, accade perfino per le immagini scientifiche, come ha mostrato egregiamente Françoise Bastide
(2001, pp. 139-214) – e, prima di lei, con argomenti non semiotici, Ludwig Fleck (2019, pp. 133-154, 251-274).
8
Per una caratterizzazione articolata della spiaggia come soglia terra-mare cfr. Bassano (2022), in cui alcuni aspetti
che qui mi limito ad accennare sono ampiamente sviluppati, e ve ne sono inoltre vari altri che qui sono assenti.
35
3. oggetto temporale (decorso temporale di uno stimolo pertinente – normalmente, sonoro – a
prescindere dalle coordinate spaziali in cui questo è avvertito).
La spiaggia come oggetto spaziale sarebbe dunque costituita da una certa porzione di sabbia (o di
sassi), più un tratto di mare, più il paesaggio retrostante; la spiaggia come oggetto temporale sarebbe
“una giornata al mare” (o anche un tempo più ristretto. In molti, per fortuna, abbiamo ricordi come
questo, che ci rendono meno noiose le ore passate a crogiolarsi al sole senza far niente); infine, la
spiaggia come oggetto temporale sarebbe il rumore del mare (ma anche, eventualmente, il vociare
degli altri bagnanti) avvertito nel dormiveglia o durante l’immersione e il nuoto.
Di fatto, però, la caratterizzazione e la stessa identità delle spiagge sembra più dipendente da quelle
che Prieto chiamava “funzioni predicative di relazione”: qualcosa che non fa parte della spiaggia
stessa, ma che la definisce. Non solo – come accennavo sopra – un ricordo personale, ma il legame
con eventi, situazioni o testi di varia natura. Per esempio, la spiaggia di Cala Luna, nella costa di
Baunei 9, trae molto del suo fascino (a prescindere da quanto sia bella – ed è bellissima…!) dal fatto
che sia l’ambientazione del film Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina
Wertmuller (1974), così come la spiaggia ragusana di Punta secca è ormai per tutti (o quasi) “la
spiaggia dove nuota Montalbano”, ed è denotata da molti con la denominazione (fittizia) di
“Marinella”, che riceve nella fiction 10.
Strategie di identificazione come queste sono fondamentali in diversi campi, a partire dal marketing
turistico, ma non sono le uniche, come vedremo.
3. Il quadrato del mare
Dopo avere visto i modi (sostanzialmente poco efficaci) in cui il mare può essere caratterizzato come
oggetto, poniamoci il problema di un’articolazione semantica interna della categoria. Una strategia
che appare produttiva è quella di provare a generalizzare l’opposizione tra gustoso e saporito che
Gianfranco Marrone ha costruito per parlare della gastronomia. Riprendiamone i termini,
espungendo i riferimenti troppo espliciti al cibo.
Una cosa è la percezione legata alla dimensione del gustoso (che dalla sensorialità va verso il
riconoscimento cognitivo […], al sapere, alla cultura, un’altra è invece [quella] legata al saporito
(sensorialità – anch’essa culturalmente determinata – che mira piuttosto a rilevare parallelismi e
inversioni fra le qualità sensibili […], senza nominarle, senza dar loro una dimensione linguistica)
(Marrone 2022, pp. 9-10).
Quale è la pertinenza di questa opposizione? Naturalmente, non si introduce il mare nell’organismo
(al massimo, lo si “beve” con gli occhi), ma semmai si introduce il corpo nel mare. E però l’esperienza
dell’immergersi nel mare corrisponde con quella del mangiare almeno per le dimensioni sensoriali
visiva, tattile e olfattiva (c’è anche quella uditiva, che è più importante per il mare che per il cibo).
9 L’espressione “costa di Baunei” potrà apparire strana al lettore, perché Baunei è un paese in montagna. D’altra
parte, è difficile definirla in altro modo, giacché si tratta di un litorale roccioso (che va da S. Maria Navarrese a Orosei,
nella parte orientale della Sardegna, tra le province di Ogliastra e di Nuoro) in cui si aprono alcune spiagge, bellissime
ma difficilmente accessibili (vi si arriva solo via mare, o attraverso ore di trekking, e le presenze sono contingentate).
In questo stesso tratto di costa si trovano anche Cala Goloritzé e Cala Mariolu, cui mi riferirò in seguito.
10 Sulla costruzione dell’universo marino nella fiction (e nei libri) su Montalbano tornerò nel §4, ma solo
brevemente. Per informazioni più ampie e prospettive differenti (su questo come su altri aspetti della vasta galassia
montalbaniana), cfr. Marrone (2018) e Sturiale, Traina e Zignale (2019).
36
Questo seleziona un nucleo che mi sembra importante: vi è un percorso (“gustoso”) in cui la
cognizione precede (e orienta) l’esperienza, e un altro (“saporito”) in cui l’esperienza precede (e
orienta) la cognizione. Ma avere una coppia di opposti, come sappiamo, vuol dire avere la chiave per
realizzare un quadrato semiotico, che potremmo costruire così 11:
(spiaggia “da cartolina”) (“da sotto”, “da dentro”)
CONOSCENZA ESPERIENZA
ESPERIENZA NEGATA CONOSCENZA NEGATA
(mare “da fuori”) (mare esotico)
Il quadrato si applica non solo e non tanto al mare in sé, quanto alle spiagge 12, che sono a un tempo
oggetto di conoscenza ed esperienza (effettive o desiderate) e oggetto di marketing (e in questa sede,
non mi riferirò separatamente a quest’ultimo aspetto, se non in pochi casi).
Il primo termine è quello del mare conosciuto (che potremmo chiamare scherzosamente mare
nostrum): si tratta di spiagge “da cartolina”, che presentano un’immagine riconoscibile (o un numero
relativamente ridotto di immagini riconoscibili), le quali vengono costantemente replicate.
Spesso è un elemento “esterno” (per esempio una roccia o una formazione montuosa con una figura
particolare) che ci permette di identificare quella spiaggia e di consolidarne l’immagine condivisa. Le
Figg. 1a-1b mostrano quattro esempi di spiagge che sono definite anzitutto dalle rocce (o dalle colline)
che ne chiudono il perimetro, e che l’occhio cerca istintivamente come riferimento. Questi elementi
funzionano insieme come marche indicali (un po’ come la torre di Pisa o il Colosseo) e come formanti
plastici che consentono una “chiusura” testuale della spiaggia nella sua apparenza visiva.
a. b. c. d.
Spiaggia del Poetto Cala Goloritzé (costa di Spiaggia di S. Vito Lo Tropea (VV): paese, spiaggia
(CA) con profilo della Baunei, OG). Capo (TP). e faraglione con la basilica.
sella del diavolo.
Fig. 1
11 In questo schema, “cognizione” è un modo abbreviato per dire “percorso dalla cognizione all’esperienza”, ed
“esperienza” è un modo abbreviato per dire “percorso dall’esperienza alla cognizione”.
12
Sulle spiagge vedi ora l’importante contributo di Bassano (2022), che prende in esame diversi aspetti che qui io
non posso nemmeno accennare (né, del resto, avrei saputo sviluppare allo stesso modo).
37
La spiaggia cittadina del Poetto (Fig. 1a) viene chiusa da una collina detta “Sella del diavolo” per il suo
profilo particolare13, che segna in qualche modo l’inizio della spiaggia, ma anche la fine della città (e la
separazione tra spiaggia e porto); Cala Goloritzé (Fig. 1b) è caratterizzata soprattutto da una roccia a
punta, che rompe la simmetria (e la prospettiva) di chi si avvicina via mare; San Vito Lo Capo (Fig. 1c)
è quasi “sorvegliata” da una collina con una parete a picco sul mare; la spiaggia di Tropea (Fig. 1d),
infine, è in qualche modo “schiacciata” tra le rocce-bastioni su cui è edificata la cittadina e il gigantesco
faraglione su cui sorge la chiesa di S. Maria dell’Isola.
Passiamo ora al secondo termine, il mare “esperito”. Densità, salinità, temperatura, odore (e altri) sono
invece elementi che non entrano nella descrizione visiva (e non solo): bisogna esperirli per poi
eventualmente arrivare a una categorizzazione. In questo caso un’apprensione complessiva, “esterna”,
del luogo fatto ha poco senso (per varie ragioni): più rappresentativo (o più efficace a livello di
marketing) risulta riprodurre in qualche modo le condizioni dello stare nell’acqua, sia presentando
immagini che rappresentino la prospettiva del soggetto sia rappresentando il soggetto stesso nel contesto.
Un buon esempio può essere la spiaggia di Cala Mariolu. A differenza di altre spiagge della costa di
Baunei, essa non ha un profilo particolarmente riconoscibile, ma – oltre al colore dell’acqua (dato dai
sassolini bianchi sul fondo che riflettono la luce del sole, e che accentuano l’effetto di trasparenza) – ha
un’altra caratteristica ben nota: una colonia di pesci “addomesticati”, per così dire, che restano sulla riva,
sono abituati alla presenza degli umani, e si fanno nutrire di buon grado. Dunque sono proprio questi
pesci i protagonisti delle immagini che definiscono la spiaggia (e la sua esperienza), tanto dal punto di vista
di chi la compie (Fig. 2a) che includendo il soggetto come elemento dell’esperienza (Figg. 2b, 2c)14.
a. b. c.
Fig. 2 – Pesci a Cala Mariolu (Costa di Baunei, OG).
Il terzo termine – l’esperienza del mare negata – non necessita (quasi per definizione) di immagini
esplicative. In quel caso, abbiamo con il mare il rapporto che tutti abbiamo con certe persone: ci
stiamo benissimo, ma a una certa distanza. Questa figura può declinarsi di volta in volta come:
1. un’impossibilità soggettiva (gli esempi sono innumerevoli, a partire da Falsetto di Montale (1984,
p. 15), che guarda Esterina tuffarsi “tra le braccia del tuo divino amico”, e conclude ascrivendosi
alla “razza di noi che rimaniamo a terra”)
2. un’impossibilità oggettiva (è il vasto territorio del sublime dinamico kantiano, ma anche il fascino
perenne del mare d’inverno, che è bello soprattutto perché non ci si può entrare )
13
La denominazione è legata alla leggenda per cui, in seguito a uno scontro tra S. Michele Arcangelo e il diavolo
stesso, quest’ultimo sarebbe precipitato sulla collina, causando l’affossamento che ne caratterizza il profilo.
14 Naturalmente, si tratta di un’arma a doppio taglio. Sono segnalati casi in cui immagini dei pesci nella spiaggia
di Cala Mariolu sono state utilizzate per pubblicizzare il mare di altri luoghi (per esempio, della Grecia:
www.vistanet.it/cagliari/2019/08/08/cala-mariolu-finisce-in-grecia-la-spiaggia-gioiello-della-sardegna-usata-come-
pubblicita-per-corfu-ma-non-e-la-prima-volta/)
38
3. il rifiuto esplicito del mare come ambientazione, in contesti dove pure il mare è vicino e
incombente (che si trova come costante – a prima vista sorprendente – in tanta narrativa di autori
insulari, da Deledda a Sciascia a Niffoi).
Il quarto termine – la cognizione negata – definisce il mare esotico . Per qualificare in questo modo la
spiaggia e il mare, è essenziale che lo si pensi (e lo si mostri) come qualcosa che non si sa dove
comincia e dove finisce . Chi provi a compiere l’esperimento di digitare “mare esotico” su Google
immagini sarà posto di fronte a una serie di immagini come quelle della Fig. 3, in cui abbiamo una
semplice costruzione plastica di quattro elementi (cielo, sabbia, mare, vegetazione) che non
concorrono a costruire una forma (o una forma particolare), ma vivono solo dei loro rapporti
cromatici, topologici ed eidetici (e anzitutto della loro compresenza). Se figurativo ci sarà, sarà ridotto
al minimo (una palma-esempio, come in Fig. 3a); negli altri casi, ciò che conta sarà la costruzione
orizzontale (Fig. 3a, 3d) o verticale (Fig. 3b, 3c), con possibilità di variazione minima (come
l’esclusione della vegetazione e l’inclusione del profilo costiero sullo sfondo, come nella Fig. 3d). Il
mare così definito è anzitutto un’eterotopia: non questo o quel luogo, ma un altrove con una
consistenza quasi onirica.
a. b. c. d.
Fig. 3 – Immagini di spiagge esotiche.
Non ho qui lo spazio (né le capacità) di mostrare la pertinenza o la capacità euristica di questa
classificazione per ragionare sui modi di vedere il mare nella letteratura e nelle arti15; mi limiterò a
una precisazione, forse superflua, ma comunque importante.
L’appartenenza di una spiaggia/mare a una delle quattro categorie non dipende solo dalle sue
caratteristiche intrinseche (che comprendono la localizzazione geografica) non è data per sempre e
anzi, in certi casi, può essere utile (anche a livello di marketing, quando si tratti di “vendere il mare”)
variare rispetto alle aspettative. La Fig. 4 illustra due esempi di questa strategia di “inversione”:
1. nell’esempio 4a (la copertina di un numero recente di una rivista di ambiente e turismo) si adotta
una politica fin troppo sfruttata per pubblicizzare le spiagge sarde: l’idea di avere un mare esotico
(fotografato conseguentemente), ma “sotto casa” 16;
2. nell’esempio 4b, la politica è opposta: la spiaggia di Maya Bay è una spiaggia davvero esotica (il
cui profilo è però riconoscibile perché è l’ambientazione del film The Beach , di Danny Boyle del
15
Vorrei però fare almeno un accenno all’ambito (apparentemente) più effimero e più superficiale, ma che proprio
per questo è ricco di spunti e indizi per una caratterizzazione dell’immaginario sulle spiagge e sul mare: la musica
leggera. Una rapida ricognizione nella memoria di ciascuno basterà a trovare esempi ascrivibili chiaramente ai quattro
termini del quadrato. Per il mare cognito è fin troppo facile citare Stessa spiaggia, stesso mare (1963), resa celebre da
Mina e Eduardo Vianello; per il mare esperito, Dolcenera (1996) di Fabrizio de André (che descrive l’esondazione
di un torrente – ma è un torrente che rende la terra come il mare); per l’esperienza negata, Il mare d’inverno (1983)
di Enrico Ruggeri; per il mare esotico, In qualche parte del mondo (1967) di Luigi Tenco o Poster (1975) di Claudio
Baglioni. Ma gli esempi, naturalmente, sono innumerevoli (e il lettore ne saprà trovare di migliori).
16 Questo modo di presentare la Sardegna è però particolarmente irritante per chi conosce i costi e i disagi dello
spostarsi spesso dall’isola al continente, e viceversa (e sa che spiagge davvero esotiche sono a volte,
paradossalmente, più abbordabili dei luoghi in cui si vive, o in cui si è nati).
39
2000, con protagonista Leonardo di Caprio), ma è presentata come mare cognito (con i turisti e le
imbarcazioni) proprio per significare l’accessibilità di un luogo pure fisicamente tanto lontano.
a. b.
Fig. 4 – Esempi di “inversione” delle categorie del quadrato del mare.
4. Un mare per (non) pensare: mare e musement
Prima di arrivare alle mie conclusioni, vorrei sviluppare un aspetto legato a una delle diagonali del
quadrato, quella che oppone l’esperienza del mare alla negazione di quella stessa esperienza. Questa
opposizione si dimostra particolarmente pertinente in relazione a un tema rilevante per il marketing
turistico, ma ancor più (e primariamente) per la letteratura, la filosofia e la scienza. Si tratta del
musement, ovvero il particolare esercizio di rilassamento mentale che prelude a una prestazione
intellettuale e avvicina all’idea di una dimensione divina. Sotto quest’aspetto, come si sa, l’aveva
presentato Peirce (1908), mentre gli studi successivi – a partire da Eco e Sebeok (1983) – hanno insistito
sul valore strumentale del musement per il lavoro del medico, e soprattutto del detective, che hanno
necessità di “ripulire” la mente dalle ipotesi preconcette, per permettere a quelle “giuste” di affacciarsi
spontaneamente alla soglia della coscienza, e in fretta. Per questo, una parte importante di ciò che
genericamente chiamiamo “creatività” consiste nel prendersi cura della propria mente (senza
dimenticarsi che non siamo cervelli disincarnati) e metterla nelle condizioni di lavorare al meglio.
Vorrei dunque proporre un esempio, mettendo in opposizione due produzioni televisive italiane
recenti, di valore ineguale 17: la lunga serie di episodi (1999-2021), con protagonista Luca Zingaretti,
tratti dai libri di Andrea Camilleri su Montalbano, prodotti dalla Palomar e messi in onda sui canali
Rai, e la serie “L’isola di Pietro”, con protagonista Gianni Morandi, prodotta da RTI e Lux Vide e
trasmessa sulle reti Mediaset per tre stagioni (2017-2019). Le due produzioni – entrambe legate a una
commissione pubblica a fini di promozione turistica – si oppongono però per tanti motivi: nella prima
un’ambientazione fittizia (“costruita” e “montata” mettendo insieme vari luoghi della provincia di
Ragusa e di quella di Siracusa) viene creata per corrispondere a un’ambientazione letteraria diversa 18,
ma “lasca” quanto basta per non essere stridente rispetto a quella architettata per la fiction; nel
secondo caso, non vi è alcun testo preesistente, ma la sceneggiatura è costruita per corrispondere a
un’ambientazione definita, cui manca solo il nome (che è comunque richiamato nel titolo) 19 per
arrivare a una situazione di realismo assoluto.
17
Sviluppo qui un esempio già abbozzato in Fadda (2019, pp. 177-178).
18 Nella serie dei romanzi editi da Sellerio, Vigata corrisponde pressappoco a Porto Empedocle (paese natale di
Camilleri), e Montelusa ad Agrigento.
19
Il luogo di ambientazione della fiction è l’isola di S. Pietro, nel sud-ovest della Sardegna (con Carloforte come
unico centro abitato). Non viene nominata, ma vi sono riferimenti espliciti ai centri abitati di Carbonia e Cagliari.
40
Ma l’aspetto su cui vorrei concentrarmi è quello della diversa modalità di musement marittimo esibita
dai due protagonisti (e che costituisce un pilastro della strategia di marketing turistico messa in atto)20.
Come si è detto sopra, esso si snoda sull’asse che oppone l’esperienza all’esperienza negata, e i due poli
sono esemplificati dalle pratiche messe in atto dai personaggi (ed esemplificate dagli attori): di fatto
Zingaretti/Montalbano per pensare nuota, mentre Morandi/Pietro per pensare corre – vicino al mare,
sopra il mare, ma (ovviamente), non nel mare.
In entrambi i casi questo sembra frutto di una scelta precisa. Vediamo perché, iniziando dal caso di
Montalbano. Sappiamo che il protagonista dei libri di Camilleri ha una fisicità diversa rispetto a Luca
Zingaretti: è più alto (con i capelli e i baffi), ma forse meno prestante, e quando ha bisogno di pensare
fa lunghe passeggiate sul molo21. Zingaretti ha invece un fisico più compatto, adatto al nuoto, e questo
permette di realizzare determinate inquadrature e movimenti di macchina che valorizzano la spiaggia e
il mare dove nuota (Fig. 5a). Nel caso di Morandi, la scelta sembra dettata da esigenze almeno
parzialmente differenti22: dunque si è scelto un attore che, sebbene abbia un fisico abbastanza minuto,
ha doti podistiche (conosciute dal pubblico, che lo ha visto, per esempio, cimentarsi in diverse
maratone), e può dunque prestarsi a una rappresentazione del territorio ben diversa (e sostanzialmente
corretta: l’isola di S. Pietro è un dedalo di sentieri naturalistici che sembrano fatti apposta per gli amanti
del trekking), in cui l’acqua rimane, per così dire, sullo sfondo (Fig. 5b).
a. b.
Fotogramma dal teaser sui nuovi episodi Fotogramma dalla sigla della seconda stagione de
della serie su Montalbano (2018)23. “L’isola di Pietro”.
Fig. 5
Si tratta, dunque, di una strategia di posizionamento rispettivo come quelle analizzate a suo tempo da
Floch (1995). Ma ciò che in questa sede ci interessa di più è ciò che questa strategia mette in evidenza:
la qualità del musement (il che non vuol dire l’efficacia, naturalmente) cambia molto da una situazione
all’altra. Nel primo caso, si tratta di un musement immersivo, panico per così dire, e il corpo nell’atto di
fendere l’acqua è immagine di una discontinuità che viene tracciata nel continuo (dunque, l’immagine
20
In opposizione al musement marittimo, possiamo immaginare anzitutto un musement montano, dove l’ampiezza
degli spazi e degli orizzonti la fa da padrona, ma le condizioni climatiche e metereologiche sarebbero ben diverse
– e soprattutto, mancherebbe il mare. All’estremo opposto, vi sono forme di musement urbano, da praticare in
spazi angusti, in perfetta solitudine o inghiottiti dalla folla.
21
A porto Empedocle, in effetti, vi è un lungo molo (mentre raramente i moli vengono inquadrati nella fiction), e
in paese è visibile anche una statua dedicata a Montalbano, ritratto con le fattezze che ha nei libri.
22 Non è possibile dire quanto questo tipo di posizionamento sia il frutto di una scelta di contrapposizione esplicita,
e quanto invece sia frutto di necessità dettate dalla committenza. Ai fini dell’analisi, l’opposizione rimane indicativa.
23
Il teaser completo (in cui si vede Zingaretti/Montalbano nuotare, prima di fermarsi a fare il morto a galla) è
disponibile qui: www.facebook.com/watch/?v=1667919026580474.
41
stessa, per Peirce, di un qualche livello di cognizione)24; nel secondo, il ruolo del corpo è più attivo (il
che è reso ulteriormente evidente dal cane che segue), ma si muove attraverso percorsi in qualche
misura tracciati, e il caos/mare (affascinante ma pericoloso) viene lasciato sullo sfondo25.
5. Conclusione: il mare e l’onniformatività
Alla luce di quanto detto finora, possiamo ritornare ancora una volta – l’ultima – alla prosa di Matvejević,
e riprendere per esteso il passo la cui conclusione ho scelto come exergo.
Le immagini del mare e tutto ciò che si trova lungo la sua distesa, i suoi stati, i riflessi del cielo, del
sole e delle nuvole su di esso, i colori che assume il fondo degli abissi e i luoghi dove invece l’acqua
è bassa, la pietra, la sabbia e le alghe sul fondo, i punti scuri e trasparenti lungo la costa o lontano
da essa, i paesaggi intermedi, il mare del mattino e quello della sera, quello diurno e quello notturno,
quotidiano ed eterno (si potrebbero aggiungere molti aggettivi che di solito vengono adoperati –
ahimè – per simili descrizioni) ognuno ha la sensazione di aver qualcosa da dire del mare e del suo
aspetto e che si tratti di una cosa effettivamente importante (Matvejević 2004, p. 59).
Le parole dello scrittore croato appaiono come un inno alla voglia di dire e all’impossibilità di dire (o
almeno di dire tutto). Quest’esigenza riporta al dibattito sulla cosiddetta (soprattutto in seno alla
tradizione italiana) “onniformatività”, ovvero la capacità delle lingue storico-naturali di far fronte in
qualche modo – o, secondo alcuni, di esprimere senz’altro in maniera compiuta – a ogni contenuto di
coscienza26. Se nella tradizione strutturalista di area francese questa idea è stata spesso trattata alla stregua
di un dogma, enunciato una volta per tutte e da non mettere in discussione, nella semiotica italiana degli
anni 60 e 70 (caratterizzata da un proficuo dialogo con l’estetica, e memore, tra gli altri, della lezione di
Pagliaro: cfr. Fadda 2017) è stata oggetto di un dibattito concluso (o almeno sintetizzato) da Tullio De
Mauro (1982, pp. 135-136). Il linguista di Torre Annunziata ha notato come, se da una parte sarebbe
ingenuo ragionare su un’idea di effabilità totale, dall’altra non possiamo mai, a priori, porre limiti al
campo dell’effabile. Inoltre, questo campo non è dato una volta per tutte, e se non lo possiamo mappare
è perché siamo capaci di ampliarlo in maniera – se non infinita – indefinita. Anzi, questo è una sorta di
compito etico che la lingua – “prodotto sociale” di tutti e di nessuno: cfr. Saussure (1922, p. 19) – ci
assegna nella nostra qualità di parlanti:
Una lingua, per dir così, ci costringe o, perlomeno, ci sospinge sempre a essere adeguati alle situazioni.
Ci sospinge sempre a riscoprirci esseri umani tra gli altri, non più sapienti degli altri perché tutti
indefinitamente capaci di accrescere, nella lingua e con la lingua, il nostro sapere. Il fatto è che non
siamo in grado di indicare qual è il tipo, qual è la qualità di un piano d’esperienza che non possa
trovare posto tra i contenuti dicibili con le parole e frasi di una lingua (De Mauro 1982, p. 136).
Proprio il mare rappresenta, in questo senso, una sfida forte, ben colta da Matvejević: vogliamo dire,
pensiamo che ci sia qualcosa di importante da dire, e però arriviamo sempre fino a un certo punto. Ma
è davvero un male? Nel testo che abbiamo visto sopra, dopo una breve elencazione di antonimi –
secondo il modulo “bachelardiano” che abbiamo introdotto all’inizio – c’è una parola apparentemente
24
È impossibile qui perfino accennare alla questione della continuità matematica nella filosofia di Peirce, e ai suoi risvolti
logici, semiotici e metafisici. Rimando dunque il lettore a Fadda (2013), dove si trova anche una bibliografia specifica.
25 La contrapposizione tra queste due forme di musement e di rapporto col mare rende ancora più emblematica la fine
dello scrittore Sergio Atzeni (1952-1995), sbattuto dalle acque sulla scogliera della Conca, proprio nell’isola di S. Pietro.
26
Come è noto, il termine deriva dall’affermazione, presente nei Fondamenti di Hjelmslev, per cui la lingua ha la
capacità di “formare qualunque materia” (Hjelmslev 1943, p. 117).
42
fuori luogo, un’interiezione che non ci aspetteremmo: “ahimè”. L’autore insinua dunque (neanche tanto
velatamente) che seppellire la realtà esperita del mare sotto una catasta di aggettivi non renda un gran
servizio al mare stesso, che forse di tutte quelle parole non sa che farsene.
Ma allora il mare è un simbolo enantiosemico anche, per così dire, al livello meta- dell’onniformatività:
se da una parte ci fa urlare il bisogno di pertinenze nascoste ma fondamentali, dall’altra ci inchioda
all’ultima proposizione del Tractatus – o, più modestamente, al De André che consigliava di “non
spalancare le labbra ad un ingorgo di parole” – e ci ricorda che il silenzio ben inteso fa parte del dire,
e talvolta ne è la parte più importante27.
27È quasi superfluo osservare come questa duplicità riprenda quella sviluppata sopra: la spinta alla verbalizzazione
corrisponde alla modalità “gustosa” del mare (quella in cui è la cognizione a orientare l’esperienza), mentre la
spinta al silenzio – o alla reticenza – è la modalità “saporita”, che invita a godere i vari aspetti dell’esperienza
“senza dar loro una dimensione linguistica” (Marrone 2022, p. 19).
43
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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44
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Luigi Lobaccaro
Abstract. Starting from Eco’s and Fabbri’s theories on mirror image status, this paper aims to construct a theoretical
framework that redefines the intricate relationship between subjectivity, enunciation, and mirror prosthetic status.
If we consider the mirror in its material characteristics, it will be possible to state how its first function is space
reduplication. This function is possible because the mirror does something to the observing subject, bringing forth
possible worlds through the material agency (Malafouris, Koukouti 2022). In this framework, self-image recognition
is only one of the possible enunciative relations that mirrors shape and facilitate (Lobaccaro, Bacaro 2021). I will
argue that the possibility of recognising one’s own image, is the result of a form of impersonal enunciation that the
mirror image opens through its material attributes (Paolucci 2020). The engagement with the reflective surface
distributes simulacra that serve as enunciative instances of different kinds: the self, me, you, and the other
interchange within the mirror, concealing the catoptric nature of the phenomenon.
1. Introduzione
Questo articolo affronterà due temi centrali nel dibattito della semiotica contemporanea quali la
materialità e l’enunciazione, mostrando i possibili legami tra queste due dimensioni attraverso un
oggetto, una materia, che accompagna homo sapiens da almeno ottomila anni (Pendergast 2003), che
ossessiona la cultura occidentale da sempre, almeno a partire dai miti greci di Medusa e di Narciso, e
che ha interessato la semiotica sin dai dibatti sull’iconismo degli anni 70 (Eco 1975): lo specchio.
Sullo specchio e sullo statuto semiotico dell’immagine speculare si è molto discusso e numerose sono le
posizioni emerse che hanno cercato di individuare nello specchio un punto centrale e dirimente per
evidenziare il legame che unisce semiosi, percezione e soggettività. Tuttavia, non è mai stato riscontrato
un accordo generale sulle modalità attraverso cui lo specchio esibisce i rapporti tra queste dimensioni,
rendendo l’oggetto un campo di conflitto teorico e il terreno di prova per i diversi approcci e modelli
semiotici che si sono di volta in volta cimentati nel tentativo di rintracciare le logiche attraverso cui il
senso si articola e si manifesta. In queste pagine tenteremo di fornire una integrazione di due delle
posizioni semiotiche per noi più interessanti sul rapporto tra specchio e semiosi, quelle di Eco e Fabbri,
evidenziando come solo un’attenta riflessione sullo statuto materiale dello specchio e uno studio delle
modalità cognitivo-percettive attraverso cui esso è capace di generare i suoi effetti di senso possano
permetterci un avanzamento nella comprensione del più misterioso degli artefatti.
2. Lo specchio come fenomeno-soglia
La più nota teoria semiotica circa lo statuto dell’immagine speculare è certamente quella di Umberto
Eco, che del tema si è occupato sin dal Trattato di semiotica generale (1975) fino all’ultima formulazione
in Kant e l’ornitorinco (1997).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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La tesi di Eco, riassunta brevemente, è che l’immagine speculare abbia uno statuto pre-semiotico, in
quanto essa si manifesta sempre in presenza del suo referente (che è causa necessaria dell’immagine),
ed è strettamente dipendente dalla superficie riflettente (Eco 1984). Più che essere un segno vero e
proprio, l’immagine speculare si configura come una sorta di doppio, di “icona assoluta” legata al fatto
che lo specchio non traduce ma registra ciò che lo colpisce, restituendolo in una forma veridica. Proprio
per questa ragione ci fidiamo degli specchi e li utilizziamo come delle protesi affidabili, essi fungono
cioè da “apparecchio che estende il raggio di azione di un organo” (Eco 1997, p. 380). Lo specchio dice
la verità: esso è un canale protesico, può creare illusioni, certo, ma solo illusioni percettive e non
semiotiche, in quanto si può mentire sugli specchi, attraverso gli specchi, o circa gli specchi, ma
l’immagine speculare in sé non è in grado di mentire, proprio perché impossibilitata a permanere in
assenza del suo referente.
La proposta di uno statuto pre-semiotico dell’immagine speculare è stato oggetto di un dibattito acceso
nella semiotica cognitiva, che ha visto oppositori come Sonesson (2003), il quale ha tentato di ribaltare
le argomentazioni di Eco modificando la nozione di segno verso una direzione fenomenologica, e
sostenitori come Brandt (2017), il quale invece ha sostenuto che il requisito necessario per parlare di
semiosi è la presenza dell’intento di veicolare un contenuto attraverso una determinata espressione da
parte di un produttore. È possibile notare come entrambi gli autori approfittino del dibattito sullo statuto
dell’immagine speculare per modificare la nozione di segno e semiosi, l’uno in una direzione psicologica
e fenomenologica, e l’altro in direzione di una pragmatica legata alla situazione di discorso comunicativo
tra due soggetti. Allo stesso tempo, è da sottolineare come questo dibattito “cognitivo” abbia portato a
una estrema semplificazione della teoria echiana sullo specchio riducendola a una sterile posizione sulla
tipologia dei segni. In realtà la riflessione di Eco nasce sì dalla stranezza dell’immagine speculare, ma la
usa come base per una più profonda e radicale riflessione sul segno e la semiosi.
Per Eco, infatti, l’immagine speculare non è semplicemente un fenomeno pre-semiotico, ma un
fenomeno del tutto particolare che funge da crocevia strutturale per la semiosi:
Che l’immagine speculare sia, tra i casi di doppi, il più singolare, ed esibisca caratteri di unicità, spiega
appunto perché gli specchi abbiano ispirato tanta letteratura: questa virtuale duplicazione degli stimoli
(che talora funziona come se ci fosse una duplicazione e del mio corpo oggetto, e del mio corpo
soggetto che si sdoppia e si pone di fronte a sé stesso), questo furto di immagine, questa tentazione
continua di ritenermi un altro, tutto ciò fa dell’esperienza speculare una esperienza assolutamente
singolare, sulla soglia tra percezione e significazione. È proprio da questa esperienza di iconismo
assoluto che nasce il sogno di un segno che abbia le stesse caratteristiche (Eco 1985, p. 24).
L’immagine speculare rappresenta il “sogno di un segno” (ibidem) perché presenta in maniera assoluta
i tratti che tutti i segni recano in modo minore e ai quali in un certo modo aspirano. Lo specchio non
interpreta, riproduce il campo stimolante senza ribaltarlo; è un doppio, una icona assoluta, che è
indistricabilmente legata al suo referente, tale da essere un designatore rigido assoluto o un nome
proprio assoluto, o un pronome assoluto.
Per Eco, quindi, lo specchio non è solo non semiotico, ma è trans-semiotico, è un fenomeno-soglia che
si situa tra percezione e significazione. La riflessione che rende particolarmente evidente questa
caratteristica di crocevia strutturale dello specchio è, secondo Eco, la teoria di Lacan (1966) sullo stadio
dello specchio del bambino:
Che l’uomo sia animale semiosico pare assodato, ma il dirlo non esclude che esso lo sia proprio in
virtù di una ancestrale esperienza speculare. Certo il mito di Narciso sembra mettere in scena un
animale già parlante, ma quanto ci si può fidare dei miti? […] Da un lato siamo incerti se la semiosi
fondi la percezione o la percezione la semiosi (e quindi se la semiosi fondi il pensiero o viceversa).
Le riflessioni di Lacan sullo stadio dello specchio ci suggeriscono che percezione (o almeno
percezione del proprio corpo come di una unità non frammentata) ed esperienza speculare vadano
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di pari passo. Ed ecco che percezione, pensiero, coscienza della propria soggettività, esperienza
speculare, semiosi, appaiono come momenti di uno nodo abbastanza inestricabile, come punti di
una circonferenza a cui sembra arduo assegnare un punto di inizio (Eco 1985, p. 12).
Stando a Eco, quindi, lo specchio emerge come fenomeno-soglia per almeno due ragioni, che non
vengono però connesse all’interno di una teoria unificata: 1) lo specchio permette il passaggio da uno
stato pre-semiotico ad uno semiotico della soggettività e 2) lo specchio è fenomeno che si colloca tra
percezione e significazione.
Cercheremo allora di mostrare come, se si vuole approfondire lo statuto di soglia dell’immagine
speculare è necessario approfondire esattamente cosa accade nel momento in cui il bambino sviluppa
l’immagine speculare. Si tratta, infatti, del punto in cui la dimensione della soggettività, della semiosi e
della percezione si fondono, ed è proprio in questo stadio che sarà possibile rintracciare il forte legame
tra materialità ed enunciazione. Prima sarà però necessario analizzare come queste due dimensioni siano
profondamente connesse già nella riflessione di Paolo Fabbri sugli specchi.
3. Giochi di specchi: istanza dell’enunciazione, istanza di sostanza e statuto protesico.
Il tema dello specchio è affrontato da Fabbri in un contributo del 1999, poi confluito nel volume Eco in
fabula (Musarra et al. 2002), proprio a partire dalle idee di Eco sullo statuto dell’immagine speculare.
In questo intervento Fabbri dimostra di essere uno dei pochissimi ad aver compreso fino in fondo lo
spirito della riflessione echiana sullo specchio come “sogno di un segno” e come fenomeno-soglia di
accesso alla semiosi. È chiaro per il semiologo che sullo specchio non si gioca una semplice battaglia
sulla tipologia dei segni, ma l’intera riflessione semiotica sul rapporto tra realtà, percezione e semiosi
(Fabbri 2002). L’idea che lo specchio sia in qualche modo una forma pura di semiosi, talmente pura da
non essere un segno, affascina Fabbri, il quale ritiene che lo specchio rappresenti molto più di un’icona
assoluta o di un nome proprio assoluto, come in Eco, ma che esso possa essere assunto come il prototipo
assoluto di ogni sistema pronominale:
A mon avis, le miroir est un pronom, et je dirais même plus : il est le prototype du mécanisme de
l’énonciation elle-même. Nous nous retrouvons devant le miroir à une sorte de degré zéro minimal
du mécanisme d’énonciation. Nous sommes devant quelque chose qui est un tu, qui nous dit tu.
Dès lors, notre rapport avec le miroir prend la forme d’une relation je-tu (Fabbri 2002, p. 49).
Davanti allo specchio, quindi, noi ritroviamo il grado zero del meccanismo di enunciazione. Per Fabbri
siamo di fronte a un qualche cosa che è un tu, che ci dice tu.
Dunque, per testare l’ipotesi di uno statuto pronominale assoluto Fabbri indaga come l’istanza
dell’enunciazione si manifesta di fronte allo specchio operando una serie di esperimenti mentali a partire
da quello fatto da Eco del soggetto che si rade la barba la mattina, in cui il soggetto assume perfettamente
attraverso un embrayage l’immagine speculare, passando per tutti quei casi in cui vi sono giochi di
débrayage ed désembrayage, da Proust a Van Eyk, da Alice nel Paese delle meraviglie agli esperimenti
sull’autoriconoscimento allo specchio delle scimmie. A partire dallo specchio è insomma possibile
individuare in diverse occorrenze testuali tutti quei rapporti tra istanza dell’enunciazione e oggetto e i
tipi di soggettività che essi possono co-articolare.
Un’altra dimensione che bisogna considerare è quella dell’istanza della sostanza. Fabbri fa infatti notare
come Eco consideri lo specchio come un fenomeno puramente visivo, quando le caratteristiche materiali
dell’artefatto sono ugualmente importanti per la comprensione dei fenomeni di senso che può produrre:
esso è fragile, è duro, si rompe, si frammenta in diverse direzioni. Tale inattenzione nei confronti della
materialità dello specchio riflette anche una forma di ingenuità sulla funzione cognitiva del percepire.
Infatti, citando gli studi a lui contemporanei sulla percezione (Gregory 1997), Fabbri mostra come la
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percezione sia lontana dall’essere un’attività passiva che ci colpisce, ma sia una forma di attività che
coinvolge la sensomotricità e la palpazione, per cui lo specchio non è semplicemente un oggetto che
riflette una immagine che noi subiamo, come sembra invece suggerire Eco, ma è un oggetto che ci
costringe a costruire un’immagine.
Lo statuto protesico dello specchio consiste allora proprio nella sua forma di agency che ci costringe a
proiettarci nel mondo che esso riproduce attraverso l’istanza di sostanza e alla modalità attraverso cui si
articola il suo rapporto con l’istanza dell’enunciazione. A seconda dei rapporti che il soggetto nel suo
sforzo percettivo è in grado di articolare con lo strumento protesico, allora, avremo la produzione di
determinati rapporti enunciativi da esaminare: si può inglobare la protesi o rigettarla. In questa
prospettiva, Fabbri propone di utilizzare la nozione di enunciazione per pensare lo specchio in
particolare e le protesi in generale.
Proprio a partire da queste riflessioni che pongono in profonda relazione la soggettività, cioè l’istanza
della enunciazione, la materia, cioè l’istanza della sostanza, e lo statuto protesico dello specchio credo
sia possibile fare un passo avanti nella riflessione.
Nei saggi di Eco è evidente come, di fronte allo specchio, il soggetto sia l’unico responsabile della
semiosi e che l’immagine speculare sia poco più che un elemento del mondo che colpisce il suo sistema
percettivo. In Fabbri, invece, nonostante l’istanza di sostanza abbia un suo ruolo, è l’istanza
dell’enunciazione a essere responsabile del tipo di articolazione che determina tanto i rapporti soggettivi
quanto lo statuto protesico dell’oggetto. Ma cosa accadrebbe se ribaltassimo o rivalutassimo il rapporto
che lega fra loro questi termini? Se fossero la protesi e l’istanza di sostanza il punto di partenza per
leggere l’enunciazione e la soggettività, e non l’enunciazione e la sua istanza il punto di partenza per
comprendere lo statuto della protesi?
Questa strada può essere intrapresa guardando al material turn nella semiotica contemporanea
(Dondero 2020), a una semiotica cognitiva fondata sulle 4E Cognition (Paolucci 2021) e a una teoria
semiotica dell’enunciazione evenemenziale (Paolucci 2020).
4. Protesi, 4E cognition e Material Engagement
Proprio come hanno fatto sia Eco che Fabbri a loro tempo, è il caso di dare uno sguardo alle scienze
cognitive contemporanee per vedere come il rapporto tra percezione, cognizione e protesi viene pensato
oggi. Nelle 4E cognition (embodied, embedded, enactive, extended) si è da tempo mostrato come la
cognizione sia un fenomeno distribuito tra il cervello, il corpo, l’ambiente e la nicchia socioculturale. Si
pensi alle analisi di Hutchins (1994) che affrontano i casi di cognizione distribuita sulle navi militari e
nelle cabine di pilotaggio degli aerei: l’idea in questo caso è estremamente latouriana, la cognizione è il
risultato di una rete di attori umani e non umani che contribuiscono alla riuscita di un tipo di compito
complesso. Continuamente la cognizione è scaricata su segni esterni dell’ambiente, che fungono da
materiale protesico o implementativo che fa qualcosa per noi e a noi: questa è l’idea della mente estesa
di Andy Clark (2008). Gli oggetti esterni con cui entriamo quotidianamente in contatto non solo possono
sostituire le nostre funzioni cognitive (in questo senso siamo vicini alla nozione di protesi di Eco), ma
possono fungere da elementi complementari che spingono la cognizione oltre i suoi limiti imposti dai
vincoli dell’organismo e del cervello.
A partire dalle idee della mente estesa, e della cognizione enattiva (Varela et al. 1991) che vede la
cognizione come un processo di sense-making generato dalla circolarità dinamica delle interazioni tra
corpo, cervello e mondo, Lambros Malafouris (2013) ha sviluppato la sua idea di material engagement.
La teoria di Malafouris tenta di mostrare come la cultura materiale ha un ruolo fondamentale nel
plasmare la nostra cognizione e nel generare processi di sense-making. L’artefatto materiale non è un
oggetto semplicemente utilizzato dal soggetto, ma è una parte di un processo cognitivo che attraverso
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una agentività materiale è capace di generare una forma di intenzionalità dinamica con l’individuo che
lo manipola, manipolandolo a sua volta e guidandolo nell’interazione. Da questo incontro tra la
materialità e la corporeità si genera una modalità di pensiero che è definita thinging e una forma di
semiosi enattiva, in cui la materialità degli artefatti è in grado di generare e allo stesso tempo istanziare
un concetto generato nel corso dell’interazione.
In due saggi fondamentali per noi, Malafouris (2008a, 2008b) ha spiegato come il material engagement
sia profondamente coinvolto anche nelle forme di cognizione e di semiosi legate alla soggettività:
prendendo come casi esemplari reperti archeologici come le conchiglie di Blombos o l’anello e la spada
micenea, è possibile ricostruire come questi oggetti personali non costituiscano solo il segno di una
raggiunta forma di soggettività, ma come essi siano stati degli agenti attivi nel favorire il raggiungimento
di forme di soggettività e identità (2008b).
Questo tipo di ricognizione mostra come al momento le scienze cognitive stiano virando verso una
profonda riconcettualizzazione del rapporto tra mente e strumenti, evidenziando come l’intera nicchia
ambientale nel quale gli individui sono inseriti sia in grado di intervenire attivamente nei processi
cognitivi plasmandoli e arricchendoli. Tutto ciò è ancor più rilevante se si pensa che attraverso concetti
come quello di sense-making (Paolucci 2021), le scienze cognitive contemporanee si avvicinino a una
sensibilità semiotica riconoscendo come l’intera cognizione umana, a partire dalla sensomotricità fino
ad arrivare alle forme di riflessività che caratterizzano lo sviluppo dell’autocoscienza, sia il risultato di
processi di produzione e trasformazione di senso (Fusaroli, Paolucci 2011; Lobaccaro 2022).
5. Protesi speculari e tecnologie del sé
Torniamo allora alla questione aperta da Fabbri sul rapporto tra protesi ed enunciazione alla luce di
questi studi contemporanei. Se è certamente vero che in una prospettiva testualista è possibile vedere
come l’istanza dell’enunciazione sia in relazione con le protesi attraverso processi di incorporamento o
di rigetto, da un punto di vista connesso alla semiosi in atto e ai processi di sense-making è invece
possibile indagare lo statuto dell’enunciazione a partire dagli effetti generati proprio dalla protesi. Infatti,
seguendo Malafouris, è la materialità della protesi a generare i modi di darsi del soggetto e non le
operazioni di débrayage e désembrayage dell’istanza dell’enunciazione a gestire lo statuto della protesi.
Non è quindi un caso che nel loro ultimo libro dedicato agli specchi Koukouti e Malafouris sviluppino
una riflessione proprio a partire dalle caratteristiche materiali della protesi speculare, mostrando come
queste permettano allo specchio di fungere da “powerful attractor within a dynamic semiotic field of
subjectification and self-identification” (Koukouti, Malafouris 2021, p. 104).
Proprio grazie a questa ipotesi è possibile oggi indagare la relazione tra specchio, percezione, semiosi e
soggettività durante lo stadio infantile del riconoscimento allo specchio, strada che Eco a suo tempo
aveva ritenuto impervia.
Le teorie contemporanee della psicologia dello sviluppo (Rochat 2009) presentano lo stato dello
specchio come un processo graduale che passa per diverse fasi dai sei ai ventiquattro mesi: una prima
fase dell’ignoranza dello specchio, in cui l’immagine dello specchio è assunta come un “tu”, come un
altro soggetto, che passa da una fase di disaccoppiamento dal tu (che vede il bambino indagare lo
specchio come un gioco legato alle proprie contingenze sensorimotorie) fino ad arrivare alle forme di
identificazione e della permanenza dell’immagine corporea. A partire da questi dati, è stata
recentemente fornita una lettura semiotico cognitiva dello stadio dello specchio infantile (Lobaccaro,
Bacaro 2021) dove facendo appello alle riflessioni di Merleau-Ponty (1964) e Zazzo (1993), si è mostrato
come il passaggio tra i diversi livelli di consapevolezza dell’immagine speculare sono legati proprio
all’esplorazione fisica delle caratteristiche materiali dello specchio e all’esplorazione sensorimotoria delle
caratteristiche di quella che Fabbri chiama istanza della sostanza: la sua durezza, la sua bidimensionalità,
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la sua freddezza. Nei primi mesi di vita il bambino si interfaccia con lo strumento girandogli attorno,
toccando, abbracciando invano, leccando e baciando l’immagine speculare. In questa serie di operazioni
lo specchio agisce attivamente sul bambino: l’illusione di un prolungamento spaziale del mondo si perde
per effetto della materialità dello strumento (del resto è quello che accade ogni volta agli adulti che
corrono in una casa degli specchi: è proprio il contatto con la superficie solida del vetro a smascherare
l’illusione di un prolungamento spaziale). L’immagine speculare diviene dunque per il bambino uno
strano oggetto, una materia magica da cui si dipartono infinite e alternate dinamiche di significazione
con sentimenti inquietanti legati a quello che è chiamato il me-but-not-me paradox. In questa fase il
bambino è preda dello specchio, non riesce a capire perché quell’immagine inquietante è un “io” che
non è un “io”, si tratta di una fase di indistinzione in cui ognuno dei due attori sembra volersi appropriare
dell’altro: il bambino sente che la sua immagine non dovrebbe trovarsi altrove e che se quell’immagine
lo osserva allora non può trattarsi di sé stesso. In questo rimando tra dimensione egocentrica e
dimensione allocentrica, elementi come la coordinazione visuo-motoria, il ruolo dei caregiver 1 e
soprattutto l’esplorazione tattile (oltre all’impossibilità di passare dall’altra parte dello schermo, lusso non
concesso a Narciso e Alice) permettono al bambino di comprendere quale sia la sua immagine corporea
vista dall’esterno2.
6. Il qui-altrove: lo specchio come grado zero dell’enunciazione impersonale
Il caso del riconoscimento allo specchio del bambino ci pare quindi confermare completamente la tesi
di Fabbri, cioè l’idea che lo specchio sia in qualche modo la forma di un grado zero di enunciazione in
quanto esibisce esattamente i rapporti che permettono a un “io” di riconoscersi in un “tu” che dice “io”.
Allo stesso tempo, il ruolo dei caregivers e della materialità in questo processo ci porta a dubitare che essa
sia la forma di enunciazione per come classicamente pensata dalla semiotica, cioè come la forma di
débrayage dalla situazione di comunicazione io-tu all’egli, ma di una forma di enunciazione come forma
di passaggio, di invio, come allestimento di un campo che alloca posti tanto di soggetto quanto di oggetto.
Ci pare insomma che sarebbe meglio inquadrare il rapporto tra la materialità dello specchio e
l’enunciazione non appoggiandoci alla teoria classica benvenistiana che vede l’atto di enunciazione
come una produzione di un enunciato da parte di un soggetto localizzato in un dato contesto pragmatico
(Benveniste 1966). Al contrario, dovremmo intendere l’atto di enunciazione per come è stato
recentemente modellizzato da Paolucci (2020), cioè come un evento, un atto impersonale legato a un
concatenamento di istanze eterogenee che apre posizioni che i singoli individui possono occupare
identificandosi come istanze dell’enunciazione e soggetti.
1
È importante sottolineare le riflessioni psicologiche sullo stadio dello specchio abbiano spesso sottolineato l’importanza
dell’intersoggettività come guida nella fase dello specchio (Rochat 2009), cosa quasi completamente dimenticata dalle
riflessioni semiotiche. Questo dato risulta ancora più rilevante se si tiene conto di come già Lacan, autore fondamentale
per lo sviluppo della riflessione semiotica sugli specchi, in una riflessione del Seminario X tematizzi il ruolo del
movimento del bambino e dell’interazione con il caregiver per l’acquisizione dell’immagine speculare (Lacan 2004; cfr.
anche Cimatti 2016). Seguire la riflessione lacaniana su questo punto permetterebbe di raffinare ulteriormente una
comprensione semiotica dell’acquisizione dell’immagine speculare. Ci ripromettiamo di farlo in futuro, ringraziando il
reviewer che ci ha fornito questo spunto di riflessione.
2
Non è un caso che quando la coordinazione sensorimotoria, la dimensione intersoggettiva e di conseguenza
l’engagement con lo strumento sono profondamente inficiati come in alcuni casi di disturbi psichiatrici si verificano
fenomeni molto simili alla fase del me-but-not-me paradox. Ad esempio, alcuni pazienti schizofrenici colpiti da deliri di
transizione non vogliono specchiarsi per paura di essere rapiti dalla propria immagine speculare e finire intrappolati
nella superficie riflettente (cfr. Parnas 2003).
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La teoria dell’enunciazione di Paolucci (2020) ha una posizione antitetica rispetto a quella sostenuta da
Benveniste: dove per il linguista francese l’io linguistico è il motore del meccanismo di enunciazione,
per Paolucci è il meccanismo di enunciazione a produrre l’ io linguistico. Infatti, l’enunciazione è una
caratteristica propria dei sistemi semiolinguistici e consiste nella “proprietà dei linguaggi di allestire delle
posizioni di soggetto che stabiliscono i ruoli per chi, fuori dai linguaggi, viene di volta in volta a
occupare” (Paolucci 2020, p. 13). In altre parole, la posizione di soggetto non è aperta dal pronome “io”
che può in seguito proiettarsi in un “egli”; al contrario, la posizione di soggetto è già sempre un “egli”
impersonale che può essere variamente occupata da io, tu ed egli. Questo può accadere perché sono
gli stessi sistemi semiotici a prevedere una topologia di relazioni volte alla loro trasformazione e non
necessitano di operatori incarnati per la costruzione di tali topologie. L’utilità degli attori è quella di
prendere posizione in un campo attanziale definito a monte dalle strutture semiotiche.
Questo vuol dire che non ci sono nella lingua delle categorie specialissime, come lo sono i pronomi io
tu per Benveniste, tali da permettere l’ancoramento in prima e seconda persona del discorso, ma ci sono
solo posizioni virtuali allestite dalle strutture semiolinguistiche, che costituiscono un’alterità rispetto
all’attore concreto di discorso e che il parlante dovrà imparare a occupare. Tant’è che nella sua teoria
Paolucci propone, nel caso dei sistemi semiotici fondati sull’audiovisivo, di sostituire la categoria di
embrayeur e quindi dei pronomi “io”, “qui” e “ora” (che rimane perfettamente valida per i sistemi
fondati sul linguaggio) con la categoria di protesi.
Quando parliamo di una struttura protesica e non simulacrale dell’enunciazione intendiamo
esattamente questo: nell’enunciato non ci sono i simulacri dell’enunciazione, ma ci sono elementi
che, senza essere parti dell’enunciazione, si sostituiscono a essa, prolungandola, completandola o
garantendo nuove funzioni (posso vedere cose che non vedevo prima, posso sapere di più etc.).
Inoltre, senza essere davvero fatte a immagine dell’enunciazione (per questo nell’audiovisivo non ci
sono simulacri dell’enunciazione nell’enunciato), le protesi posseggono una certa autonomia tecnica,
modale e morfologica. Si pensi per esempio ai punti percettivi diffusi dentro a un film o agli avatar
del giocatore in un videogioco: il loro statuto tecnologico non è pressoché mai a immagine di un
soggetto esterno di cui rappresenterebbe il simulacro, ma è dell’ordine di una protesi tecnologica
che ne aumenta o ne diminuisce le capacità (Paolucci 2020, p. 333).
L’enunciazione è insomma un atto impersonale attraverso cui si installano diversi elementi (forme e
posti) che possono permettere vari ingressi all’interno del mondo semiotico per gli individui in carne e
ossa. L’enunciazione è una modalità di passaggio contenuta nel sistema semiotico stesso per riprodursi
dinamicamente, una realtà pre-individuale fatta solo di differenze e relazioni in cui diverse grandezze
prendono posto, e concatenandosi aprono lo spazio che può essere occupato dal soggetto attraverso una
mediazione tra il proprio punto di vista e quello degli altri. In altre parole, in un atto di enunciazione non
vi è la sola istanza dell’enunciazione costituita dal soggetto che prende in carico solipsisticamente il sistema
semiolinguistico, al contrario vi è una polifonia di voci, una serie diverse di istanze enuncianti fatte da
istituzioni, leggi, artefatti, tecnologie etc. che permettono agli individui di concatenare la propria voce alla
loro e di poter prendere parola e dire io come una “voce in un’assemblea” (Paolucci 2020, p. 254).
È insomma la forma impersonale della terza persona, dell’illeità che abita il sistema semiotico, che
garantisce al soggetto di agganciarsi all’interno del sistema e guardarsi dall’esterno potendo modulare il
proprio punto di vista con quello di un altro. Ma non è forse quello che accade nello specchio?
Se guardiamo allo statuto protesico con gli occhi della Material Engagement Theory, possiamo ancora
concordare con Eco sul fatto che l’immagine speculare non sia un segno, ma dobbiamo anche
considerare come essa sia un elemento che permette grazie alla sua agency materiale di produrre
segni 3 : l’immagine fornita dallo specchio diviene un agente capace di entrare in una forma di
3
Per approfondire lo statuto semiotico dell’immagine speculare per una semiotica cognitiva che si fonda sul material
engagement si consulti il commento “Ridentem dicere verum: quid vetat?” in Koukouti et al. (2022, pp. 239-244).
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assemblaggio con noi e fornirci un punto di vista privilegiato da cui guardarci come se fossimo altri,
creando allo stesso tempo un punto di fuga capace di reduplicare i piani di realtà e immaginare mondi
possibili (Koukouti, Malafouris 2021).
Si può quindi dire che l’istanza di sostanza, che Fabbri ha individuato, è anche, a questo punto, una
delle grandezze che pulsa nell’enunciazione allo specchio, anzi è il motore principale di tale forma di
enunciazione e permette tanto all’immagine di fungere da tecnologia del sé (Koukouti, Malafouris 2021)
e allo specchio di essere protesi della soggettività (Paolucci 2017, 2020) quanto di aprire lo spazio per il
magico, per il doppleganger, per regni delle ombre, e per stimolare l’immaginazione. In pratica, non è
affatto l’istanza dell’enunciazione a gestire i débrayage e i désembrayage che determinano lo statuto
protesico, si tratta piuttosto del contrario, è l’engagement con l’istanza della sostanza a determinare le
modalità attraverso cui la protesi assiste e partecipa agli atti di enunciazione.
Possiamo quindi tranquillamente dire, grazie agli studi sullo stadio dello specchio, che lo specchio molto
prima di lavorare come un “tu” che dice “io” (cioè prima di arrivare allo stadio di auto-riconoscimento
speculare che si è sinora indebitamente eletta a funzione principe dello specchio) funziona come un
pronome impersonale, un terzo che permette all’io, al tu e all’egli di posizionarsi e strutturarsi
relazionalmente. Se assumiamo questa prospettiva, lo specchio perde completamente la forma dell’io-
tu, e diventa la forma stessa dell’illeità dell’enunciazione, dell’evento che permette l’allocazione di posti.
Per prendere coscienza della propria immagine corporea, il bambino è costretto a una serie di passaggi
enunciativi che consistono proprio nella sospensione della forma di percezione immediata di fronte allo
specchio. L’incontro tra la propria corporeità e la materia (guidata anche dal ruolo del caregiver)
allontana il bambino dalla percezione immediata di un “tu” e lo proietta in un gioco, un gioco semiotico,
che assumerà le sue fattezze definitive dopo una lunga storia di interazioni, in un processo di rinvii e di
deleghe in cui hanno un ruolo fondamentale anche le strutture socioculturali che gestiscono e
implementano tali pratiche di interazione. In questo sdoppiamento, in questo sganciarsi dal piano
percettivo per favorire un nuovo ordine di relazioni, nella disillusione dalle costrizioni percettive, lo
specchio funge da supporto e spinge attivamente verso quella dimensione semiotica che Basso Fossali
(2009) definisce il fittivo: il primo ingresso guidato dal piano percettivo a quell’illeità che è la forma dei
giochi semiotici.
Non si può quindi non essere d’accordo con Fabbri quando dice che lo specchio è “le lieu privilégié de
la manifestation sémiotique” (2002, p. 50) in cui possono darsi tutti gli altrove, gli altri e gli allora,
aggiungendo però che esso è anche il luogo in cui possono apparire tutti i qui, tutti gli ora e tutti gli io,
come dice Eco. Solo così possiamo spiegare tutti gli effetti di senso che lo specchio è in grado di creare,
non perché un soggetto può embrayarsi o desèembrayarsi a suo piacimento, ma perché la struttura della
relazione con lo strumento è costitutivamente impersonale e capace di aprire a un’infinità di giochi
semiotici, da quello che dice “io” di Eco, agli innumerevoli Gedankexperiment presi in considerazione
da Fabbri. Forse non v’è termine migliore di quello utilizzato da Michel Serres proprio parlando
dell’enunciazione strutturale per descrivere il grado 0 dell’enunciazione rintracciabile nello specchio: un
“luogo qui-altrove” (Serres 1972, p. 150).
7. Conclusione
Diventiamo animali catottrici, come afferma Eco, non perché assoggettiamo lo specchio, ma perché
impariamo ad interagire con esso, a farci guidare in uno dei tanti percorsi enunciativi che propone grazie
alle sue proprietà materiali. Ci riconosciamo nello specchio solo in quanto lo specchio ci permette di
riconoscerci allestendo una posizione di soggetto che può essere o meno occupata. Le posizioni di Eco
e Fabbri sullo statuto dell’immagine speculare e una loro integrazione con una teoria dell’enunciazione
impersonale e con le scienze cognitive contemporanee ci hanno quindi permesso di mettere in luce il
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ruolo della materialità dello specchio nel generare e favorire la proiezione nel dominio del fittivo e dei
giochi semiotici. Ma in fondo una tale proposta non si configura certo come una novità, chiare
indicazioni le aveva già fornite Ovidio nelle Metamorfosi, quando nel narrare il mito di Narciso, racconta
come siano le lacrime del giovane cacciatore che infrangono lo specchio d’acqua a generare l’inquietante
consapevolezza di un non-tu, di un indistinto, che infine diventa io. Lo specchio non è il tu che ci dice
io, è il questo a partire dal quale nasce la consapevolezza di sé. “Iste ego sum” (Ov. Met. v.463), pensa
Narciso mentre affoga nello specchio d’acqua, “questo son io” pronuncia il bambino dopo aver poggiato
il viso contro il più misterioso degli artefatti.
53
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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] | Le crociate per le materie prime.
Circolazione e valorizzazione dei materiali nel discorso storico
Carlo Campailla
Abstract. This paper aims to investigate the relationship between materials and historical discourse, through the
semiotic analysis of a corpus of historical texts on raw materials and their history. This paper will focus on the role
and the values that raw materials has had in relation to the social structure of each époque. According to the texts,
the circulation of raw materials, new materials introduction or scarcity are crucial factors that determine fractures
and remodulations of the whole social and historical context. However, this kind of description is deeply influenced
by the theoretical viewpoint and the discoursive strategies that each text enacts.
1. Introduzione
Questo lavoro si propone di esplorare il rapporto tra materiali e discorso storico, indagando a quali
condizioni semiotiche un determinato materiale, con le sue proprietà, può diventare oggetto di
trattazione storica. A partire dai testi considerati, questo scritto verificherà l’ipotesi per cui i materiali, e
i valori di cui sono investiti, ricoprano un ruolo centrale nelle trasformazioni strutturali osservabili nella
storia. Concentrandoci inoltre sul punto di vista adottato nel corpus esaminato rispetto alla temporalità,
si proporrà in conclusione una riflessione sul tipo di intelligibilità che i testi considerati conferiscono al
tempo storico.
L’utilizzo dei materiali e delle materie prime, sia in quanto documento che in veste di “soggetto” della
storia è d’altra parte cosa nota. Basti citare, da un lato, Febvre (1952) il quale affermava che, in assenza
di documenti scritti, l’ingegno dello storico può “fare storia” con tutto ciò tramite cui si è dato l’operato
dell’uomo. Dall’altro lato Foucault, nell’Archeologia del sapere (1969), parla di quelle che lui chiama
“delle storie quasi immobili allo sguardo, delle storie a pendenza lieve: storia delle vie marittime, del
grano o delle miniere d’oro, storia della siccità e dell’irrigazione” (p. 6). Compito dello storico sarebbe
quello di “isolare, raggruppare, rendere pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi” (p. 11)
quegli elementi da lui stesso selezionati. Cosa che, ovviamente, pone le basi per nuovi tipi possibili di
testi storici, laddove la messa in serie genera “il moltiplicarsi degli strati, il loro disarticolarsi, la specificità
del tempo e delle cronologie loro proprie” (p. 6). Da cui la scelta di quali discontinuità, di quali eventi
porre come determinanti all’interno del testo, delle periodizzazioni più opportune, delle durate da
mettere in risalto. Del resto, come scrive anche Pomian, non può esistere oggi storia generale che non
sia storia di qualche cosa (cfr. Pomian 1984).
Una lunga tradizione di storici ha inoltre messo in luce quale ruolo i materiali abbiano svolto nello
sviluppo delle strutture sociali nel corso della storia, basti ricordare i lavori di Bloch (1959) e Braudel
(1967), che hanno dimostrato come lo sviluppo sociale sia stato da sempre connesso a come l’uomo si
è rapportato con i materiali, soprattutto attraverso la tecnica. La letteratura storica che ha come oggetto
le materie prime è dunque molto vasta, si pensi ancora al ruolo dell’energia nello sviluppo industriale,
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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agli usi del legno lungo il corso della storia, o alle superfici che hanno permesso lo sviluppo della
scrittura (ad esempio, Clayton 2013; Ennos 2021; Pagnotta 2020).
Il corpus di cui ci occupiamo in questa sede è costituito da diversi aneddoti storici, di carattere
divulgativo, che hanno come oggetto la circolazione delle materie prime nel corso della storia, i conflitti
causati dal desiderio di appropriarsene e i commerci che ne hanno diffuso l’utilizzo (contenuti
rispettivamente in Cipolla 1988; Giraudo 2015, 2017a, 2017b). Questo corpus è stato scelto sulla base
del punto di vista adottato, nei testi che lo compongono, rispetto al rapporto tra storia e materiali.
Vedremo come, in questi testi, le materie prime circolino lungo il globo modificando equilibri
economici, permettendo la crescita delle diverse strutture storiche e favorendo espansioni, crisi, scoperte.
I materiali dunque “fanno la storia” non solo attraverso i valori di cui sono investiti e la domanda che
di essi fanno i soggetti che si alternano nel tempo, ma anche attraverso le loro trasformazioni ed
evoluzioni storiche. La mancanza di specifici materiali, dovuta al loro esaurimento, può causare la
ricerca di questi in altre zone del pianeta, mentre i produttori possono arricchirsi con scambi ed
esportazioni, con le conseguenti fluttuazioni dei prezzi, legati alla disponibilità di materiali. Come scrive
Giraudo “le materie prime hanno influenzato l’intera storia umana e continuano ad avere un ruolo
centrale negli equilibri tra le placche tettoniche dell’economia mondiale. In passato era il pepe, oggi è
l’energia” (Giraudo 2017a, p. 14).
A partire da quanto detto, possiamo iniziare a delineare quali specificità assuma il concetto di materiale
per il discorso storico e per i testi considerati in questa ricerca. È nota la distinzione di Floch tra materie
e materiali. Se il concetto di materia fa riferimento a qualcosa ancora in attesa di ricevere un significato,
nel nostro caso parliamo piuttosto di materiali come elementi già culturalizzati, la cui forma dipende
dall’uso che se ne fa. Parafrasando Floch, potremmo dire che il materiale è la materia informata dalla
cultura (cfr. Floch 1984; Ceriani 2008). Riflettere sul ruolo delle materie prime nel discorso storico,
quindi, significherebbe riflettere sui significati che queste hanno ricevuto per l’uomo nel tempo, su come
queste hanno “fatto” non solo la storia, ma anche l’umanità stessa. Infine, prendere in esame la storia
dei materiali significa riflettere sulle connotazioni ideologiche che questo tipo di trattazione storica porta
con sé, nella misura in cui si tratta di una storia che presuppone necessariamente una determinata idea
di natura, già culturalizzata e, come vedremo, messa a valore dall’essere umano1.
2. Le dimensioni della storia e il posto dei materiali
Facendo riferimento ai lavori di Bloch e Braudel, e accennando al corpus analizzato per questa ricerca,
abbiamo detto che i materiali entrano in rapporto con diverse “strutture” storiche. Prima di procedere
con la presentazione dell’oggetto d’analisi, è necessario chiarire questo concetto, che può costituire fonte
di dialogo tra semiotica e storiografia. Secondo l’ormai classica definizione di Fernand Braudel,
possiamo distinguere tre livelli in base ai quali ordinare il tempo della storia: un livello evenemenziale,
dominato dalle durate brevi e punteggiato da un’infinità di avvenimenti, che rappresenta il riferimento
della storiografia classica nonché “la più capricciosa, la più ingannevole delle durate” (Braudel 1969, p.
41). Vi sarebbe poi un livello strutturale, dominato da oscillazioni di media durata, che sarebbe il tempo
dell’economia, della politica, delle fluttuazioni demografiche, caratterizzato da un tempo
“congiunturale”; livello, questo, costituito da una molteplicità di eventi ricorsivi, da ripetizioni che ne
determinano l’andamento ciclico e ondulatorio. Infine, un tempo lunghissimo, “di ampiezza secolare”
(ibidem), quasi immobile e stazionario, che nei lavori dello storico francese coinvolge i movimenti delle
strutture, come accade ad esempio nel campo della cultura. Dunque, tre tipi di durata, a cui
1 Sarebbe utile approfondire a questo proposito il contributo che scienze come la geologia hanno dato ai recenti
sviluppi della disciplina storica, modificando la concezione stessa di tempo storico attraverso l’annessione di tempi
lunghissimi come quello della Terra. Su questo si vedano, tra gli altri, Hartog (2022), Pomian (1984), Serres (2015).
57
corrispondono anche tre forme di cambiamento: il primo di tipo puntuale, una “novità rumorosa” (ivi,
p. 40) che può essere espressione di moti più profondi, quelli delle strutture, il secondo di tipo
congiunturale, calcolabile sulla base di un ritmo oscillatorio e ciclico costituito da fatti ripetitivi, e il terzo
di tipo quasi impercettibile. Evidente la vicinanza tra questa concezione del tempo storico e quella di
un teorico come Koselleck, la cui idea di tempo guarda al livello strutturale come qualcosa di irriducibile
agli eventi, seppur legato indissolubilmente ad essi. Scrive l’autore che “i due livelli, degli eventi e delle
strutture, si riferiscono l’uno all’altro, senza che l’uno si risolva nell’altro”, per cui “l’evento diventa il
presupposto di asserzioni strutturali. D’altra parte strutture durevoli o meno durevoli, comunque di
scadenza protratta, sono condizioni di possibili eventi” (Koselleck 1979, p. 127). Le strutture sono per
Koselleck antecedenti agli eventi, ne costituiscono le condizioni di possibilità, e in un movimento
circolare di condizionamento reciproco, sono da questi modificate. È da sottolineare il fatto che per lo
storico tedesco “il carattere processuale della storia moderna può essere colto in un unico modo: con la
spiegazione degli eventi mediante le strutture, e viceversa” (Koselleck 1979, p. 129).
Il dialogo tra queste due prospettive storiche e la semiotica greimasiana è senz’altro fecondo. Greimas,
rifacendosi proprio alla scuola delle Annales, propone una definizione delle dimensioni storiche in
continuità con quanto esposto precedentemente, assumendo l’esistenza di un livello superficiale, dove
la storicità si rende manifesta, costellato da una infinità di microeventi impossibili da descrivere
esaustivamente. A questo si oppone una dimensione fondamentale, “luogo di organizzazioni
tassonomiche e di trasformazioni strutturali dei fenomeni sociali” (Greimas 1976, p. 159). Nel mezzo,
una dimensione evenemenziale costituita da quegli eventi che, selezionati dalla dimensione superficiale
e disposti in successione, formano le serie di avvenimenti che vengono integrate nel discorso storico2.
Anche il concetto di evento viene in questo modo ad assumere una diversa colorazione, da intendersi
quindi come una discontinuità, “manifestazione visibile di una rottura dell’equilibrio o del suo
ristabilimento” (Lozano 1990, p. 150). Avvenimenti che, quindi, acquistano significato in base alla
posizione che occupano all’interno del testo e alle strutture che gli sono logicamente anteriori3. Dunque,
per Greimas la storia assume una dimensione “a pasta sfoglia”, da cui consegue che le strutture storiche
per il semiologo sono ordinate secondo livelli di profondità. Potrebbe essere utile guardare alla
sistemazione di questi livelli strutturali e alla gerarchia che essi assumono all’interno dei testi in relazione
all’effetto di senso che se ne trae in sede d’analisi. La priorità di una struttura sull’altra potrebbe infatti
contribuire a determinare il connotato ideologico del discorso storico. Ci torneremo.
La relazione tra le strutture e le serie evenemenziali può inoltre verificarsi nello stesso tempo tra ogni
evento e più livelli strutturali. Nelle parole di Greimas:
Ammesso che esistano più strutture convergenti per produrre uno stesso oggetto evenemenziale, si
possono manifestare talune incompatibilità tra di loro: esse possono escludersi vicendevolmente;
alcuni elementi possono escluderne altri; ma si possono presentare vasti spazi di compatibilità. Ed è
appunto in queste zone di confrontabilità strutturale che pare collocarsi la libertà storica degli
uomini; è qui che vengono a manifestarsi le scelte originali della storia (Greimas 1976, p. 162).
Da ciò deriva l’idea che le strutture rispondano ad una grammatica della storia, le cui regole
limiterebbero le possibilità di manifestazione del discorso storico. Come sappiamo infatti, nell’ottica di
Greimas la storia si configura non tanto come uno spazio d’apertura su infinite possibilità di
manifestazione, quanto piuttosto come la chiusura, la limitazione di una serie di virtualità strutturali (cfr.
Greimas 1970).
Bisogna infine sottolineare, per il discorso che seguirà, che a questi livelli strutturali di cui si compone il
discorso storico, possono corrispondere i soggetti collettivi che dominano il panorama della storia. Stati,
2
È interessante notare qui la vicinanza tra il pensiero di Greimas e il passo di Foucault citato in sede di introduzione.
3
Sul concetto di evento nel discorso storico, si vedano anche Ricoeur (1983), Veyne (1973).
58
folle, eserciti si costituiscono, come vedremo, “attraverso l’integrazione del voler-fare condiviso da tutti
e tramite la realizzazione di un poter-fare collettivo” (Greimas 1976, p. 166). Come dice sempre Greimas
“la definizione di questi soggetti collettivi […] è di natura tassonomica e si riporta, in definitiva, alla
struttura sociale e alla sua tipologia” (ivi, p. 167). Data questa struttura della storia, nei paragrafi che
seguiranno metteremo a verifica l’ipotesi che ognuno di questi attanti collettivi, dotato di proprie
modalità e di un proprio programma narrativo, possa entrare in una determinata relazione con i
materiali, con la possibilità di programmi narrativi antitetici e di conflitti sulla valenza dei materiali.
Sappiamo infatti che il concetto semiotico di valenza fa riferimento al valore dei valori, dunque al
metavalore che consente di stabilire che tipi di valore hanno le cose, permettendo di operare una scelta
tra più oggetti/valore in ragione di questo metavalore (cfr. Fabbri 1991). Diremo quindi che, ponendo
una gerarchia assiologica, la valenza dipende da un’assiologia superiore, i valori da assiologie inferiori.
Il concetto di valenza e la sua differenza rispetto al valore permette quindi di spiegare come vengano
applicate delle meta-valorizzazioni agli oggetti e in questo caso ai materiali, ad esempio considerandoli
secondo il loro valore di scambio piuttosto che d’uso (cfr. Marrone 1994). Inoltre se, come abbiamo detto,
è una certa struttura che determina il valore di un certo materiale, allora nella storia si daranno conflitti
sulla valenza di un certo materiale da un lato, e un mutamento di valenze osservabile in termini diacronici
dall’altro. I casi, di cui parleremo a breve, del pepe (cfr. Cipolla 1988) o dei conflitti consumatisi tra più
soggetti (Stato, industria bellica e navale, manifattura del quotidiano, mercato) sul valore del legno (cfr.
Giraudo 2015, 2017a) possono essere esemplificativi.
3. Oggetto d’analisi
3.1. Allegro ma non troppo
Il primo testo considerato, scritto dallo storico italiano Carlo M. Cipolla, è un breve racconto della storia
del Medioevo, alla luce del ruolo che pepe, vino e lana hanno avuto lungo l’intera parabola medievale.
Ad aprire e chiudere la vicenda tre crisi, ovvero la caduta di Roma, la peste del 1300, la Guerra dei
Cent’anni. In mezzo, le due crociate. Se queste sono causate dal desiderio di pepe, la Guerra dei
Cent’anni lo è da quello di vino. Come scrive l’autore, “in tutte le forme di migrazione umana, vi sono
forze di attrazione e di spinta. Il pepe fu certamente la forza di attrazione; il vino fu la forza di spinta”
(Cipolla 1988, p. 20). Per l’autore, lo stato di disgiunzione dal pepe è la manque da cui hanno inizio le
Crociate. Scarsità di tipo sì quantitativo e sostanziale, ma che nel testo di Cipolla viene risemantizzata e
omologata ad una scarsità esistenziale. Il pepe assume per Cipolla il ruolo di “motore della storia” (p.
34): Pietro l’Eremita, amante dei cibi pepati, agisce da “catalizzatore” (p. 18) ovvero da Destinante,
promuovendo le Crociate per le quali i miliziani ebbri di vino, loro Aiutante, partono per Gerusalemme.
Se l’esercito si realizza congiungendosi col proprio oggetto di valore, ovvero l’oro, i commercianti
veneziani “si impadronirono del commercio traendone profitti notevoli” (Cipolla 1988, p. 24), poiché
“di Pietri in Occidente ve n’erano decine di migliaia” (ibidem). Dunque, per questi il pepe viene
utilizzato secondo il suo valore di scambio. Per la popolazione, come per Pietro l’Eremita, è invece
afrodisiaco e fonte di energia, e determina una trasformazione patemica ed esistenziale del soggetto che
vi si congiunge:
Da luogo tetro e triste qual era, l’Europa occidentale si trasformò d’incanto in una terra traboccante
di vitalità, energia e ottimismo. L’aumento del consumo del pepe incrementò l’esuberanza degli
uomini che, con tante belle donne d’attorno chiuse nelle loro cinture di castità, provarono un
improvviso grande interesse per la lavorazione del ferro; molti si trasformarono in fabbri e quasi
tutti si diedero a produrre chiavi (Cipolla 1988, p. 25).
59
In questo passaggio vediamo come la suddetta mancanza sia poi colmata da un’abbondanza anch’essa
sostanziale ed esistenziale a un tempo, che non produce soltanto un abbassamento del prezzo, ma
genera piuttosto una euforia diffusa su tutti gli strati della società, producendo sul livello discorsivo
nuovi temi e figure.
La circolazione del pepe, da un momento di euforia iniziale produce successivamente esiti disforici, con
la sovrappopolazione delle città, data secondo l’autore dalla ricerca di pepe e dall’aumento demografico
dovuto al suo consumo, e la comparsa dell’Anti-Soggetto peste. Diminuendo la popolazione,
aumentarono i salari e “ceti sempre più grandi poterono permettersi il pepe” (p. 39), da cui conseguì
“una pesante scarsità di pepe sul mercato e un aumento iperbolico del suo prezzo” (ibidem). Ritorna,
quindi, lo stato di disforia generale dato da una scarsità al contempo quantitativa e qualitativa, a cui
seguirà la comparsa di un nuovo Soggetto – i Portoghesi –, dotato di un programma narrativo che
prevede l’appropriazione da un soggetto di stato – l’Africa –. Individuiamo, rispettivamente nella
crociata e nella peste, due congiunture che modificano le dimensioni profonde della storia,
determinando un andamento ciclico del decorso storico, su cui torneremo in conclusione. Come per il
pepe, il culto del vino, e la sua contemporanea scarsità presso gli inglesi, fece sì che “sorgesse una grave
disputa per il controllo delle zone viticole francesi. L’infausto risultato di questo litigio fu una guerra che
va sotto il nome di Guerra dei Cent’Anni” (ivi, p. 35), che rovinò l’economia di entrambi i paesi.
È interessante notare sin da subito come in questo racconto il pepe ricopra diversi ruoli attanziali e venga
valorizzato diversamente dai vari soggetti collettivi che si alternano nelle vicende narrate – in quanto
moneta per i mercanti, in quanto fonte di energia per le migliaia di “Pietri” sparsi per l’Europa –: si tratta,
in breve, di un conflitto sulla valenza del materiale, sul valore dei valori. Dall’altro lato, come già accennato,
vediamo come tra i diversi attori collettivi che si alternano in questa vicenda – gli eserciti, la popolazione,
la Chiesa, i “mercatanti italiani” –, il mercato sia quello determinante, per cui la scarsità di un bene sul
mercato, o viceversa la sua abbondanza, si riverberano dalle strutture economiche sulle altre dimensioni
della storia, producendo identità, passioni, valori socio-culturali. Riprendendo quanto già accennato a
proposito della valenza dei materiali (cfr. supra §2), il valore che in questo testo determina i valori è di
tipo economico, e si assiste ad una omologazione di scarsità quantitativa e qualitativa. Questo passaggio
dalla scarsità all’abbondanza produce quindi euforie collettive, rende esuberanti, è causa di
riorganizzazioni strutturali, dell’ingresso di nuovi valori e modi di pensare, segnalati nel testo dalla nuova
configurazione discorsiva chiamata in causa dalle materie prime.
3.2. Storie straordinarie delle materie prime
Gli altri testi presi in esame per la presente ricerca sono tratti da una serie di piccoli aneddoti presenti
in tre raccolte di racconti, scritti dallo storico ed economista Alessandro Giraudo (2015, 2017a, 2017b).
Si tratta, in breve, di aneddoti divulgativi sulla storia economica mondiale, guardata attraverso la
circolazione delle materie prime, l’oscillazione dei prezzi e la caduta o la nascita di periodi storici o
centri del potere. Nello specifico, e in linea con il testo precedentemente esposto, ho preso in
considerazione gli aneddoti riguardo quei materiali il cui rapporto con le diverse strutture storiche è
segnato da momenti di crisi, di rotture e riorganizzazioni sistemiche, quali ad esempio il legno, il
carbone, alcuni colori come il rosso e il blu, metalli come il bronzo e il ferro. In maniera simile a quanto
accadeva per il pepe in Cipolla, anche per Giraudo le materie prime vengono valorizzate in maniera
diversa da soggetti diversi, spesso con esigenze incompatibili quando non direttamente in reciproco
conflitto. Come per Cipolla, inoltre, l’ingresso o la scomparsa di un nuovo materiale porta ad una
generale risistemazione delle strutture sociali e dei loro valori. Guardiamo qualche esempio dai testi.
Un buon punto di partenza può essere un aneddoto che ha come oggetto il passaggio dall’Età del Bronzo
a quella del Ferro (cfr. Giraudo 2015). Nella prima di queste due epoche il ferro era considerato un
60
materiale sacro per la sua origine meteoritica, dunque un bene raro e prezioso, utilizzato da autorità
religiose e militari, e in parte per oggetti decorativi e di alto valore, mentre le esigenze del quotidiano
erano soddisfatte principalmente dall’uso del bronzo. Con il cosiddetto “collasso delle civiltà”4, si ha
una penuria di stagno e quindi un forte impatto sulla produzione di bronzo, di cui lo stagno era
ingrediente principale, ponendo fine all’Età del Bronzo. Con l’arrivo dell’Età del Ferro si ha una
riorganizzazione strutturale, per cui il legno, precedentemente molto costoso, diviene largamente
utilizzato per lo sviluppo della manifattura del fuoco, e il ferro diventa il materiale prediletto dai fabbri,
che “cominciarono a cercare miniere poco profonde e grandi quantità di legname per lavorare sempre
più ferro” (cfr. Giraudo 2015, p. 19). Il crollo del prezzo del ferro quindi modificò la manifattura degli
strumenti quotidiani, le tecniche militari e le strutture economiche (cfr. Giraudo 2015, pp. 15-19, 29-34).
Cambiando la struttura descritta, cambia dunque il valore del materiale e il suo rapporto con le diverse
dimensioni storiche, in questo caso attraverso il miglioramento tecnico degli eserciti e del commercio.
Come nel caso già visto di Cipolla, vediamo come il passaggio dalla scarsità all’abbondanza di materiale
chiami in causa una ristrutturazione sistemica e, a livello discorsivo, produca temi e figure diverse. Lo
stesso materiale può inoltre ricevere valorizzazioni diverse in epoche storiche successive, a partire dal
crollo del suo prezzo; il ferro, prima materiale sacro, diventa materiale di uso comune, e la sua abbondanza
determina il soddisfacimento dei bisogni esistenziali di ogni soggetto collettivo. Notiamo di passaggio, per
poi tornarvi in conclusione, che all’andamento ciclico menzionato anche in precedenza si affianca un’idea
di sviluppo della società, di tipo sostanzialmente progressivo e lineare. Scrive infatti Giraudo:
Il passaggio da un’era tecnologica a quella successiva è sempre violento, perché l’uomo è un
‘animale’ che cerca stabilità. Ci sono state sollevazioni contro la prima rivoluzione industriale, la
nascita della ferrovia ha suscitato sermoni infiammati del mondo religioso, l’introduzione della
robotica nelle fabbriche ha scatenato lunghi scioperi, ma il rullo compressore del progresso non si
ferma (Giraudo 2015, p. 34).
Facciamo un altro esempio. Il colore blu, derivato dal guado, aveva un valore essenzialmente disforico
in Occidente. Il passaggio ad una valorizzazione euforica da parte della Chiesa instaura un voler-fare
negli altri soggetti – la politica, l’esercito, il mondo dell’arte –, e quindi la mobilitazione da parte del
mercato, che in esso vede un mezzo di scambio, l’opportunità del profitto. Il blu acquista quindi un
nuovo valore sociale legato al sacro e alla sfera celeste, e alla prosperità economica portata dal
commercio di guado – l’espressione “Paese di Cuccagna” secondo l’autore deriva proprio dal nome
francese delle palle di guado da cui si ricavava il colore –. Determina, in breve, anche una trasformazione
estetica della società, che cambierà nuovamente nel momento in cui la stessa forma sarà ritagliata da
una nuova sostanza, in questo caso l’indaco (cfr. Giraudo 2017a, pp. 80-84).
Ancora una volta, con l’ingresso di nuovi materiali nella storia, e con il passaggio dalla scarsità
all’abbondanza, si dà omologazione del legame tra abbondanza sostanziale e soddisfazione dei bisogni
esistenziali, determinando un cambiamento delle strutture sociali, un nuovo immaginario e nuovi
valori in gioco.
3.3. Conquiste e perdite delle materie prime
Da questa breve panoramica del corpus esaminato, emerge come la mancanza o viceversa l’abbondanza
delle materie prime regoli i grandi movimenti della storia. Nei testi presi in considerazione, le diverse
strutture che animano il panorama storico possono ricondursi a soggetti collettivi – stati, classi sociali,
4
Per approfondimenti in merito, si veda anche Cline (2015).
61
eserciti, mercati – dotati rispettivamente delle proprie modalizzazioni e dei propri programmi narrativi che,
come abbiamo visto, possono valorizzare diversamente i materiali.
La storia delle materie prime sembra quindi poter essere vista come la storia dei valori che queste
assumono per i diversi attori storici. Queste possono servire per portare a termine un programma d’uso
– come il guado in quanto mezzo di scambio –, o come oggetto del desiderio per un programma di
base – come il pepe per Pietro l’Eremita –. Può anche darsi che l’oggetto di valore sia un sapere sulla
lavorazione di un materiale: in Giraudo, le tecniche di lavorazione del legno per l’industria navale, e la
sericoltura per la produzione di seta, quindi un certo saper-fare, diventano oggetto di valore delle spie
che cercano di appropriarsene (cfr. Giraudo 2017a). I programmi narrativi innescati dalla ricerca di un
materiale possono portare a diversi tipi di congiunzione o disgiunzione con l’oggetto di valore: nel caso di
Cipolla si parla di un’appropriazione, nel caso del bronzo in Giraudo di una spoliazione. Potremmo
collocare la relazione che lega ciascun attore con un determinato materiale utilizzando la categoria
elementare della giunzione, da cui uno schema di questo tipo, leggibile sia in senso statico che dinamico5:
Articolando in questo modo la relazione di ogni soggetto con uno specifico materiale, e tenendo conto
della struttura polemica della significazione, possiamo anche rendere conto dei programmi dei diversi
soggetti collettivi che entrano in relazioni di conflitto, compatibilità o incompatibilità, come nel caso
delle guerre per appropriarsi di determinate risorse: così ad esempio il caso già accennato dei vigneti
francesi, la disputa per il monopolio dei quali fu causa, per Cipolla, della Guerra dei Cent’anni. Un altro
caso interessante è quello del legno per cui, a una fase di perdita del materiale – attraverso la
deforestazione – per via del suo utilizzo da parte di due soggetti – l’industria bellica e siderurgica –, il
prezzo aumentò drasticamente con un impatto negativo sul commercio. Il re Edoardo VI vietò dunque
qualsiasi utilizzo del legno che non fosse destinato alla produzione di carbone, privilegiando l’industria
energetica con la conseguente disgiunzione degli altri soggetti dal materiale. Da ciò, ebbe origine la
ricerca delle miniere di carbone minerale da parte degli imprenditori inglesi (cfr. Giraudo 2015). In
questi casi si dà, come abbiamo visto, incompatibilità tra i programmi narrativi dei diversi soggetti, che
quindi possono entrare in conflitto rispetto alla valenza del materiale.
Può essere utile mettere in relazione l’alternarsi di questa pluralità di soggetti e di programmi narrativi
con quanto detto precedentemente a proposito delle dimensioni storiche e della loro possibile
gerarchizzazione (cfr. supra §2). Abbiamo infatti visto come i diversi soggetti collettivi possano essere
ricondotti alla tipologia della struttura sociale descritta, e ai diversi livelli strutturali riscontrabili nei testi.
Ciò che origina la ricerca di materie prime, come s’è detto, è una manque esistenziale da parte di un
soggetto (per esempio Pietro l’Eremita per il pepe in Cipolla, la Chiesa nel caso del colore blu e gli
5
Il quadrato di riferimento è preso da Greimas (1983).
62
intellettuali per il caffè in Giraudo) il cui soddisfacimento è dato dall’abbondanza di materiali, a sua
volta assicurata dal mercato. Questo, misurando il valore dei suddetti materiali secondo una prospettiva
strumentale, dipendente da un valore gerarchicamente superiore, quello del denaro (cfr. Fabbri 1991),
dunque utilizzando le materie prime in ragione di un programma d’uso, ne assicura la circolazione tra
i diversi soggetti. È quindi il progredire del commercio a favorire un meccanismo di domanda e offerta
allo stesso tempo quantitativo e qualitativo. Come abbiamo visto soprattutto a proposito del pepe per
Cipolla, in cui lo zelo dei mercanti veneziani garantì il fiorire dell’Europa, l’opposizione tra scarsità e
abbondanza per le strutture economiche, determinando il valore di scambio del materiale e la sua
circolazione, viene così posta ad un livello di profondità maggiore rispetto al valore che le materie prime
assumono per gli altri attori della storia. Il volere del mercato viene omologato nei testi al volere degli
Stati, degli eserciti, della Chiesa, e la dicotomia tra scarsità e abbondanza sostanziale di materiale viene
in questo modo ad assumere una posizione gerarchicamente superiore, facendosi valore esistenziale per
tutte le dimensioni storiche e i soggetti che vi si riconducono.
4. Modi di esistenza dei materiali nella storia
Per esplorare la relazione che nei testi considerati lega i soggetti storici e i materiali, è necessario avanzare
adesso una riflessione sul loro modo di esistenza semiotica, direttamente chiamato in causa dal quadrato
presentato nel paragrafo precedente. Come leggiamo infatti nel Dizionario alla voce “Esistenza
semiotica”, questa viene “determinata dalla relazione transitiva che la lega, in quanto oggetto di sapere,
al soggetto cognitivo” (Greimas e Courtés 1979, voce “Esistenza semiotica”). Come sappiamo, in
semiotica si riconoscono un’esistenza di tipo virtuale, in absentia, legata all’asse paradigmatico del
linguaggio, e un’esistenza di tipo attuale, in praesentia, che rende conto del passaggio all’asse
sintagmatico, per cui si definisce attualizzazione un passaggio dal sistema al processo prevedibile ma
non ancora verificatosi. Abbiamo poi un’esistenza realizzata, ovvero direttamente percepibile nel
discorso, e infine un modo di esistenza potenziale, corrispondente alla messa “tra parentesi” di una
grandezza precedentemente realizzata, ma comunque sempre disponibile a essere chiamata in causa6
(cfr. Fontanille e Zilberberg 1998; Marrone 2007). Come scrive Marrone (2007) “nel discorso ci sono
sempre un primo piano e uno sfondo che, grazie alla prassi enunciativa possono scambiarsi i ruoli nel
corso del tempo” (p. 236). Si dirà inoltre, dell’attante soggetto, che esso esiste nella misura in cui entra
in relazione con un oggetto di valore, e sarà la relazione di giunzione che li lega a determinare il modo
di esistenza del soggetto, per cui esso sarà considerato come virtuale prima della giunzione, per poi
attualizzarsi una volta disgiunto dall’oggetto, e infine realizzarsi una volta portato a termine il proprio
programma narrativo. Dunque declineremo, ad esempio, l’appropriazione e la spoliazione
precedentemente citate (cfr. supra § 3.3.) come due diverse forme di attualizzazione (cfr. Greimas e
Courtés 1979; Greimas 1983).
Prendendo come esempio il testo di Cipolla, vediamo facilmente il momento di attualizzazione di Pietro
l’Eremita, il quale “soffriva in silenzio e pregava costantemente la Divina Provvidenza per un po’ di
pepe” (p. 18). Da cui l’instaurazione della disgiunzione che segna l’inizio del suo programma narrativo,
il suo “grande disegno” (p. 19): del resto, come scrive l’autore, “è incredibile come un’idea possa
trasformare un uomo” (ibidem). Allo stesso modo, quando il commercio del pepe entra in una “fase
secolare di eccezionale espansione” (p. 24), questo si realizza sia per i mercanti veneziani che di esso
fanno una moneta, sia per le migliaia di “Pietri” sparsi per l’Europa, per i quali è afrodisiaco e fonte di
6 Inoltre, com’è noto, il passaggio da un modo di esistenza all’altro può essere articolato secondo il “campo tensivo
delle modalizzazioni esistenziali”. Riprendendo la formulazione di Fontanille e Zilberberg (1998), ripresa anche da
Marrone (2007), definiamo il passaggio da un modo di esistenza all’altro in termini di emergenza (da virtuale ad
attuale), apparizione (da attuale a realizzato), declino (da realizzato a potenziale), scomparsa (da potenziale a virtuale).
63
energia. Questa forma di circolazione dei materiali può essere facilmente riscontrabile anche nei testi di
Giraudo, in cui possono verificarsi casi di declino di una materia prima, come nell’esempio già
accennato della crisi del bronzo o del parziale esaurirsi del legno, associate all’apparizione di un
materiale che sostituisca il primo, rispettivamente il ferro e il carbon fossile. In questi casi la fine del
commercio di un materiale e la successiva sostituzione con un altro, determinano cambiamenti che si
riverberano su tutte le dimensioni storiche e che preludono a una riorganizzazione sistemica. Il caso già
citato del guado è esemplare dell’emergenza del materiale, con la Chiesa che “rilancia” il colore blu –
in quanto colore associato alla sfera del sacro – dopo le Crociate, per passare poi all’utilizzo realizzato
del materiale, in quanto moneta secondo il suo valore di scambio, e in quanto colorante utilizzato da
artisti e industria tessile, da cui una trasformazione estetica della società nel suo complesso (cfr. Giraudo
2017a, pp. 81-83). Nel caso del caffè, si segue il movimento che va dall’attualizzazione – con le lettere di
Pietro della Valle che fanno conoscere la bevanda tra gli italiani – alla realizzazione – con la conquista
della produzione o il monopolio del commercio –, a sua volta vettore della trasformazione culturale dei
centri di produzione e commercio dell’ambita bevanda (ivi, p. 167-173).
Attraverso questi esempi, vediamo come l’apparizione o il declino di un materiale possano avere effetti
esplosivi che si riverberano sui diversi ambiti della semiosfera (cfr. Lotman 1992). Riprendendo quanto
detto nei paragrafi precedenti, vediamo anche come la già menzionata risemantizzazione della manque
originaria, e dunque la dicotomia tra scarsità e abbondanza, assumendo carattere non solo sostanziale
ma altresì esistenziale, convochi nuove configurazioni discorsive, il cui mutamento si accompagna
all’ingresso e alla scomparsa delle materie prime lungo la storia.
Ora, prima di andare verso la conclusione, può essere di particolare interesse guardare quanto detto
sino ad ora alla luce della dicotomia tra materie e materiali secondo Floch (cfr. supra §1), che sembra
essere legata ai modi d’esistenza esplorati in questo paragrafo. Abbiamo già segnalato come il materiale
sia un elemento già culturalizzato, che dipende nella sua forma dall’utilizzo che ne viene fatto. Esso
pertanto si fa testimone dei suoi usi culturali e di tutto ciò che con esso è stato realizzato (cfr. Floch
1984). Diremo quindi che la materia, una volta culturalizzata, può essere analizzata in quanto linguaggio,
e quindi come oggetto di sapere dotato delle proprie articolazioni interne. L’ingresso della materia nel
“linguaggio” materiale, in un dato momento storico, si dà dunque attraverso i ritagli che la cultura opera
su di essa caricandola di senso, quindi attraverso l’utilizzo che ne viene fatto in seno a una cultura la
quale viene a sua volta trasformata dall’utilizzo dei materiali. Nel caso del pepe o del blu ad esempio,
abbiamo visto chiaramente come il materiale e il suo utilizzo una volta realizzato chiamino in causa una
determinata configurazione discorsiva con specifici ruoli tematici. Dunque, se il passaggio da materia a
materiale obbedisce al passaggio da un modo di esistenza all’altro, questo passaggio diviene
naturalmente condizione di possibilità dell’instaurazione della manque, di cui l’attualizzazione del
materiale diventa presupposto necessario.
5. Conclusione. I materiali e la ciclicità delle crisi
Per concludere il ragionamento, che resta comunque in una fase preliminare e necessiterebbe di
integrazioni successive, rimane da mettere in luce quale punto di vista rispetto al tempo storico si possa
trarre dai testi presi in esame. Pomian, parlando della storia demografica dell’Europa Occidentale dal
X al XVIII secolo, definisce le fluttuazioni strutturali susseguitesi fino alla “rivoluzione” demografica del
XVIII secolo in termini di mutamenti reversibili e irreversibili, questi ultimi generalmente chiamati
“rivoluzioni”. Secondo lo storico polacco, queste investono le strutture in momenti diversi, per cui si
può parlare di rivoluzioni economiche, politiche etc. Quindi, quando si vuole indicare un determinato
cambiamento, bisogna necessariamente precisare il livello strutturale in cui ci si colloca, ponendo al
64
contempo la necessità di indagare i rapporti sincronici tra più strutture e il rapporto delle loro successioni
diacroniche (Cfr. Pomian 1984, Greimas 1976). Ora, per Greimas
i mutamenti che autorizzano a parlare di successione tra due stati sono trasformazioni di strutture e
non estensioni d’uso: infatti, per definizione, si può dare rottura nel corso della storia solo se il
modello già esistente non rende più conto dei nuovi avvenimenti che si manifestano, per i quali si
dovrà postulare un nuovo modello. Le categorie della significazione su cui operano tali
trasformazioni non sono necessariamente quelle che si trovano già realizzate nello stato a quo, come
non sono le stesse negli usi che si succedono (1970, p. 118).
Dunque per il semiologo il passaggio da una struttura alla sua trasformazione diacronica equivale a
considerare due diverse strutture, due diversi modelli storici7. Possiamo ora provare ad avanzare delle
conclusioni rispetto a come nel corpus esaminato si dia intelligibilità al cambiamento storico, e quindi
come si dia passaggio da una struttura all’altra e come i materiali vi risultino implicati. Abbiamo visto
come la riorganizzazione di una determinata struttura finisca per coinvolgere anche le altre,
determinando soprattutto in alcuni casi una riorganizzazione generale di tutte le dimensioni della storia
e quindi la nascita di un nuovo periodo storico, una nuova struttura. I casi esaminati sono quindi
esemplari di come la nuova configurazione discorsiva chiamata in causa dal materiale possa essere
utilizzata come elemento periodizzante. L’arrivo del blu in Occidente, così come quello del pepe,
determinano inoltre non solo una riorganizzazione dei vari strati sociali, ma un nuovo immaginario che
si riverbera sulle differenti dimensioni storiche. In questo senso, la storia dei materiali può essere anche
la storia dei modi di pensare di una società, di come queste due dimensioni siano indissolubilmente
legate: del resto, abbiamo sottolineato come il pepe rendesse esuberanti, il vino garantisse un certo
fervore, e come il blu abbia portato in Occidente un nuovo immaginario e una nuova estetica.
Ciò che nei testi considerati costituisce una costante, e su cui si propone di valutare il punto di vista
rispetto alla temporalità nel presente corpus, è il movimento ondulatorio delle dimensioni storiche, le
quali entrano in periodi di prosperità se in possesso di determinate materie prime, per entrare in periodi
di crisi per la loro perdita o per la loro sovrabbondanza. La mancanza di materiale, o viceversa un suo
eccesso, e quindi il movimento oscillatorio dei prezzi, preludono alla crisi che vedrà la sostituzione di
una struttura con quella che le seguirà. Come scrive lo stesso Giraudo “la storia delle materie prime è
la storia dell’umanità stessa attraverso i profumi, i fetori, le fragranze, i gusti, i sapori”, e l’uomo ha spesso
dovuto il suo benessere a queste materie prime “valorizzandone alcune e riducendone altre a mero
ricordo, il tutto in un’infuocata sarabanda di prezzi” (ivi, pp. 14-15). Sarabanda che investe la stessa
dimensione esistenziale degli attori della storia: da un prezzo quantitativo ad uno qualitativo. A livello
narrativo, questa costante è il percorso che va dalla disgiunzione al congiungimento con l’oggetto di
valore, cui segue costantemente una successiva disgiunzione e un momento di ristrutturazione sistemica.
Scrive Cipolla che, per il mercato, quello che conta è “il desiderio così come viene espresso” (Cipolla
1974, p. 19). Come abbiamo già ripetuto, nei testi questa manque, data dalla scarsità di materiale e
dunque di profitto per il mercato, viene risemantizzata e omologata alla manque esistenziale degli altri
soggetti della storia. La scarsità o l’abbondanza, in breve, si fanno valore e determinano identità socio-
culturali, passioni e valori collettivi. Il valore che in questo caso determina i valori, lo si è detto, è di tipo
economico. È il bisogno di arricchirsi, con la conseguente messa in circolazione delle materie prime ad
assicurare la soddisfazione dei bisogni esistenziali dei soggetti storici. In questo modo, una visione
economica della storia si fa letteratura.
Da questa prospettiva storica, deriva una concezione del tempo per la quale troviamo, sullo sfondo
lineare del “progresso” e dello “sviluppo”, un movimento iterativo di crisi e prosperità, di domanda
sociale e sua soddisfazione da parte delle strutture economiche, in cui si susseguono costantemente
7
Da cui anche la possibilità di analisi di tipo comparativo tra strutture che pertengono a diversi momenti storici.
65
nuovi tipi di rapporto tra uomo e materie prime8. Nei testi analizzati, il fatto che venga proposta una
gerarchia delle strutture storiche che vede l’economia situata ad un livello di profondità maggiore
rispetto alle altre, e soprattutto il fatto che il ritmo congiunturale di questa venga omologato a quello
delle altre dimensioni della storia, può essere ricondotto a un modello storico di natura essenzialmente
determinista e materialista, che formula periodi di ascesa e declino dell’economia sulla base dei quali
spiegare il mutamento sociale e culturale9. Materialismo che, nei casi considerati si applica, spingendosi
sino alle sue estreme conseguenze, sul piano sociale, da cui anche l’ironia di Cipolla. Pertanto vediamo
l’applicazione, su più momenti storici, dello stesso modello 10 che, proiettandosi su uno “spazio di
esperienza” molto vasto è in grado di produrre un certo “orizzonte di aspettativa”, una determinata idea
di futuro formata sulla base di questo spazio esperienziale11 (cfr. Koselleck 1979, 1983). Come del resto
scrive lo stesso Giraudo “la saga delle materie prime dura da oltre diecimila anni. E non è ancora pronta
a fermarsi; sono gli ingredienti che cambiano” (Giraudo 2017b, p. 255).
8
Come scrive Jean-Marc Daniel, Giraudo “ha preso la strada del passato per farci capire meglio il presente e,
incidentalmente, farci prevedere le sfide del nostro futuro” (Giraudo 2015, p. 287).
9
Potrebbe essere interessante esplorare il legame tra questo modo di spiegare il cambiamento storico e la teoria di
Hayden White. Nello specifico, l’applicazione in forma narrativa di un determinato modello storico viene definito da
White come un modo “meccanicistico”, che “‘studia’ la storia per individuare le leggi che effettivamente governano
le sue operazioni e ‘scrive’ storia per mostrare in forma narrativa gli effetti di quelle leggi” (White 1973, p. 66).
10
Sulla capacità esplicativa dei modelli economici nella storiografia di tipo scientifico, e il loro rapporto con la
durata storica si veda anche, fra gli altri, W. Kula (1960).
11 Scrive Koselleck che esperienza e aspettativa “instaurano una distinzione temporale nell’oggi, nello stesso
presente, in quanto intrecciano l’uno nell’altro il passato e il futuro in modo diseguale. Coscientemente o
incoscientemente, la connessione cui danno luogo ogni volta in modo diverso ha essa stessa una struttura
prognostica” (1979, pp. 308-309).
66
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"Description": "This work discusses the relationship between wine, matter and terroir. In the first part of the essay, I explore the themes of wine and terroir with the aim of moving beyond a naturalist and exclusively chemical-physical vision of wine. To do so, I propose to approach the wine field through the semiotic definition of “wine discourse”, as a transversal field that brings together, alongside wine, countless different cultural objects such as landscape, packaging, cartography and architecture. The terroir can be seen as an isotopic device that, as a red thread, allows a number of cultural objects to be constructed and experienced within the wine discourse. I will test this hypothesis with the semiotic analysis of a particular case, the Etna production area, and some of its objects such as terroir maps and architectures.",
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] | La materia nel discorso vinicolo: semiotica del terroir Etna DOC
Davide Puca
Abstract This work discusses the relationship between wine, matter and terroir. In the first part of the essay, I
explore the themes of wine and terroir with the aim of moving beyond a naturalist and exclusively chemical-
physical vision of wine. To do so, I propose to approach the wine field through the semiotic definition of “wine
discourse”, as a transversal field that brings together, alongside wine, countless different cultural objects such as
landscape, packaging, cartography and architecture. The terroir can be seen as an isotopic device that, as a red
thread, allows a number of cultural objects to be constructed and experienced within the wine discourse. I will test
this hypothesis with the semiotic analysis of a particular case, the Etna production area, and some of its objects
such as terroir maps and architectures.
1. Introduzione: la materia e il discorso
Se vi è mai capitato di imbattervi in una discussione tra appassionati di vino o, più semplicemente, di
ruotare una bottiglia sullo scaffale del supermercato e leggere la retroetichetta, avrete con buona
probabilità vagato tra suoli calcarei, argillosi e vulcanici, fecce nobili e barrique di quercia, palpando
texture morbide, setose, ruvide, levigate o cerose – l’elenco potrebbe proseguire a lungo.
Nel loro incedere, i testi del vino ricongiungono bevanda e territorio centellinando consistenze, elementi,
stati fisici, pesi, volumi, formati, architetture. Le modalità con le quali la degustazione tenta di tradurre
la materia enologica su un piano verbale è stato affrontato più volte dalla semiotica1. Tuttavia, in questa
circostanza non intendiamo soffermarci sulle complesse pratiche somatiche e linguistiche che regolano
la degustazione del vino, quale percorso di traduzione dal sensibile all’intelligibile (Moutat 2015), ma
sulla materia come costrutto semiotico e culturale. Accanto alla materia del vino, il liquido enologico
inteso come luogo pre-semiotico e disponibile ad essere perlustrato e segmentato dall’esperienza di
consumo, vi è la materia come effetto di senso, continuamente scambiata e manipolata dai testi, dalle
loro relazioni reciproche e col mondo esterno.
Superare l’ambito dei meta-linguaggi professionali stricto sensu, ci permetterà, inoltre, di affrontare il
tema allargato del discorso del vino, come luogo di incontro tra testi e società, di traduzione e
compresenza tra linguaggi molteplici2. Così facendo, vogliamo estendere al vino una nota definizione-
manifesto che Roland Barthes diede alla gastronomia, inaugurando un filone di studi semiotici sul tema:
“non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso
tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di
1
Solo per citare alcuni dei casi di analisi dei metalinguaggi di degustazione professionali: Moutat (2015), Basso
Fossali (2009) e Grignaffini (1997).
2 Ci accostiamo al percorso di ricerca sulla gastronomia delineato da Marrone (2022), in particolare nell’intento di
riportare il vissuto alimentare in un quadro di reciprocità tra espressione e contenuto.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
comportamenti” (Barthes 1961, p. 49). Questo era lo spirito col quale lo stesso Barthes (1957) aveva già
azzardato un’originale – quanto memorabile – lettura culturale del vino e del suo negativo, il latte, miti
della Francia e degli Stati Uniti, quanto metafore della loro incolmabile distanza.
Se accettiamo l’idea, oramai mainstream, che anche il vino è cultura, dovremo prendere altrettanto sul
serio una prospettiva strutturale che riveda in modo non accidentale, bensì vivo e dialogico, l’intreccio
tra tutte quelle singole entità enologiche, che in semiotica chiamiamo testi, e il tutto della semiosfera
(Lotman 1984). La cultura del vino è, in questo senso, non una attribuzione retorica e ornamentale,
pensata per aumentare il valore merceologico di questa o quella etichetta, ma un sistema di relazioni
che conferisce senso a oggetti disparati e apparentemente distanti, oggetti che vanno ben oltre la bottiglia
e il calice. Possiamo allora considerare come testi enologici, lo vedremo in questa circostanza, oggetti
d’analisi inconsueti come le cartografie e le architetture delle cantine.
Tuttavia, una indagine sulla materia nel discorso vinicolo non può prescindere dalla problematizzazione
del rapporto tra vino e territorio, chiave di volta dell’intero settore eppure, al tempo stesso, relazione
ambigua e al centro di un dibattito oramai pluridicennale.
2. Per una semiotica del terroir
La posizione teorica che abbiamo appena proposto potrà forse apparire scontata in questa circostanza.
Tuttavia, una prospettiva semiotica sulla materia si rivela decisamente polemica quando ci affacciamo
sulla filiera del vino e sulle sue professioni, sulle rigide categorie empiriche e sui presupposti epistemici
che ne determinano la legittimità. Un esempio è la rigida gerarchia reputazionale dei brand e delle zone
produttive, sempre giustificate dagli attori interni al settore facendo ricorso a condizioni qualitative a
priori, condizioni che in realtà si reggono su complesse reti di legittimazione sociale (Origgi 2018;
Demossier 2011).
Da un lato un’ideologia romantica del terroir – dai tratti totemisti (Marrone 2016) – presidiata per lo più
dalla cerchia dei cosiddetti vini naturali3. Andando un po’ oltre l’analogia letterale tra i vini naturali e le
(sempre supposte) ragioni di madre natura, ciò che balza agli occhi nel confronto tra vini naturali e la
loro antitesi, i famigerati vini convenzionali, è piuttosto l’opposizione tra vignaiolo artigiano VS industria,
unicità individuale VS grigia serialità. Paradossalmente, può darsi che il vino naturale costituisca
piuttosto il polo della società, per dirla alla Latour (1999), dell’ontologia naturalista su cui tutto
l’occidente – anche vinicolo – si regge. Le piccole cantine cosiddette naturali necessitano di un garante
umano che sancisca il tramutarsi del terroir in vino, senza immissioni né adulterazioni. Per queste non
c’è certificazione che tenga. Di là c’è il polo delle cose: le cantine convenzionali ripetono che la fedeltà
tra terroir e vino vada garantita dalla pratica enologica rigorosa e dai suoi protocolli scientificamente
validati. Vini convenzionali e naturali, riletti alla Latour, vivono sì da separati in casa, ma entrambi nella
casa dell’ontologia naturalista. Da un lato gli artigiani della vigna, dall’altro i sostenitori dell’oggettività
del gusto e delle scienze enologiche. Li separa uno specchio, si guardano l’un l’altro ricevendo
un’immagine rafforzata dei propri pregiudizi reciproci. Eppure, così facendo, si interdefiniscono e si
rendono reciprocamente indispensabili.
3 In questa circostanza sintetizziamo una questione ben più articolata e che meriterebbe decisamente più spazio.
La definizione “vino naturale” si è consolidata negli ultimi due decenni e indica una categoria di vini ottenuti con
uve solitamente biologiche o biodinamiche e col minimo ricorso possibile ad adiuvanti enologici in fase di
vinificazione. Nonostante il successo di mercato dei vini naturali e la grande diffusione di questa problematica
etichetta, non esistono in Italia normative o discipline ufficiali e che consentano di stabilire in modo condiviso a
quali condizioni un vino possa dirsi naturale. Oltre al già citato Marrone (2016, pp. 129-138), per approfondire la
definizione v. il testo dell’opinion leader italiano Sangiorgi (2011 e una panoramica sulle associazioni di categoria
italiane e sulle rispettive definizioni in Corbo, Lamastra e Capri (2014).
70
Ma cosa intendiamo con naturalismo rispetto al vino, rimanendo sul senso latouriano, e dunque
antropologico e semiotico della parola? Per rispondere, giungiamo alle fondamenta della casa comune,
cioè a quello che le due fazioni (per quanto grossolanamente delineate) tendono a condividere. Sotto ai
piedi di produttori naturali e convenzionali c’è un terroir irriducibilmente materiale, geologia talvolta
condita di saper fare genericamente umani che contribuiscono ad estrarre dalla terra le sue verità. Ci
riferiamo al paradigma dominante che concepisce il vino, alla base di tutto, come quel percorso di
costruzione oggettuale e orientato che parte dal suolo, attraversa le radici e la vite fino ad arrivare ai
grappoli e agli acini. Qui incontra successivamente l’uomo, che mette in condizione la natura, attraverso
la pratica enologica più o meno spinta, di esprimersi nella bottiglia e, infine, nel calice. Per poter
restituire, nel momento di consumo, le stesse forme percettive di cui il terroir è fatto. Il cosiddetto buon
intenditore soppeserà infine le parole, così da cogliere le fattezze chimiche del vino e la loro (auspicata)
corrispondenza con l’origine. La tipicità del vino è quel dispositivo narrativo che permette, dal qui e ora
del consumo, un percorso a ritroso, una ricongiunzione tra il prodotto finale e l’ambiente fisico
originario. Linguaggio, vino e territorio, in questa visione dominante, sono isomorfi4. La materia è fisica.
Essa attraversa, tramutandosi, un’intera filiera. Sarà grazie questa narrativa di fondo che, diversamente
da tutti gli altri alimenti, il vino è venduto senza gli ingredienti in etichetta?
Da una prospettiva semiotica, una narrativa del terroir come quella di matrice naturalista e poi
referenzialista che abbiamo appena delineato è quantomeno problematica5. Accanto alla materia del vino,
esito di un processo di depurazione scientifica, vi è il continuo e quotidiano lavorio di mediazione culturale
svolto dall’esperienza sia professionale che disinteressata di consumo. Il terroir è, innanzitutto, un ibrido e
un principio di articolazione mitica dei rapporti tra esseri umani e non-umani. Benché reclami, in ultima
istanza, una presenza chimica e oggettuale nel vino. L’esistenza di caratteristiche organolettiche territoriali,
pur quando riscontrate nel maggior grado di oggettualità e oggettività possibile, portano con sé strutture
soggiacenti eterogeneee, complessi sistemi sociali di gusto e valutazione, competenze trasversali sul mondo
del vino che superano di gran lunga le semplici molecole del liquido odoroso (Shapin 2012; Perullo 2021).
Se così non fosse, per parlare di vino basterebbero un’analisi chimica e un vocabolario, e non la
frequentazione di produttori, enoteche, ristoranti, eventi di settore.
“Per parlare di vino – citiamo una fortunata affermazione del produttore Angelo Gaja – bisogna
raccontare ciò che accade fuori del bicchiere”.
Accanto alle fattezze chimico-fisiche del vino, vi sono quindi il vino e la sua materialità come oggetti di
senso, parte integrante dell’esperienza sociale che del vino facciamo. Proprio per questo, lo ripetiamo,
affianchiamo la parola vino al discorso: il vino non in quanto bevanda isolata, ma colto nella sua
esistenza sociale (Marrone 2001 e 2022). Il terroir è uno dei principali fili rossi che permette agli attori
sociali di abitare e attraversare in modo trasversale i tanti oggetti diversi che popolano questo spazio di
senso. Il corpo del vino, dunque, vive non nelle molecole come fatto a sé stante, ma trasversalmente
nelle etichette e nei pack (Ventura Bordenca 2022); nella ricca produzione culturale e cinematografia a
tema vino (Mangiapane 2021); nelle forme e nell’interazione con bicchieri, bottiglie, tappi e cavatappi
(Galofaro 2005; Marsciani 1998); nello statuto sociale dei critici e nelle loro note di degustazione
(Grignaffini 1997); nel branding dei consorzi di tutela (Polidoro 2019); nell’architettura sempre più
ricercata delle cantine dove il vino è ottenuto e visitato; nel design dell’esperienza enoturistica; nei
trionfali stand fieristici di cantine e consorzi; nella fotografia d’autore che ha oramai dato adito a un vero
e proprio genere – e potremmo proseguire ancora a lungo.
In un lavoro sul paesaggio e il terroir, Fontanille (2005) ha già osservato come l’universo concettuale e
semiotico del vino sia costituito da una serie numerosa di semiotiche oggettuali, tra cui annoveriamo quelle
appena elencate. A queste, lo stesso si aggiunge il ruolo delle semiotiche del mondo naturale (Greimas
4
Per una definizione ampiamente condivisa di terroir vinicolo, v. il testo degli enologi Van Leeuwen e Seguin (2006).
5
Su questo tema, tra i tanti lavori critici, raccomandiamo l’analisi di matrice latouriana svolta da Teil (2012).
71
1968), ossia tutto l’universo che ci circonda e si propone a noi attraverso le sue qualità sensibili: lo stesso
vino nel calice, così come il paesaggio agricolo e vitivinicolo. Dietro la sua apparente immediatezza, anche
il mondo naturale è un “mondo parlato” esistente grazie all’articolazione semiotica che ne facciamo.
Ragione per cui, è facile intuirlo, il percepito del vino sarà diverso in luoghi diversi del pianeta, o tra
bevitori esperti e non. Ma anche il cosiddetto mondo naturale, come tutte le altre semiotiche, vive nel
discorso del vino in stretta interrelazione con i testi che lo traducono, lo rievocano, lo manipolano. Il
paesaggio, per esempio, è un linguaggio suscettibile di infinite traduzioni e riarticolazioni successive: si
pensi a come la comunicazione enogastronomica riesce a creare connessioni tra il paesaggio e le qualità
sensoriali di cibo e vino, o a come la consacrazione di terroir vitivinicoli in qualità di patrimonio UNESCO
possa incidere sul valore estetico dell’area, dapprima enfatizzandone le pertinenze enologiche, per esempio
contribuendo a identificare il luogo col vigneto, a lungo termine finendo per plasmare il paesaggio e il
tessuto socio-economico dell’area in modo sostanziale6. Non siti, ma appunto paesaggi, dove una certa
forma di vita estetica assume un peso tutt’altro che scontato nell’identità del luogo.
Tutte le semiotiche elencate formano dunque una rete strutturata, organizzata in modo non accidentale:
il passaggio da una semiotica all’altra è regolato dagli usi degli attori sociali, o può essere addirittura
predisposto da uno sforzo di progettazione e interdefinizione. Aggiungiamo: il marketing e la
comunicazione vitivinicola si muovono proprio con questo obiettivo, plasmando reciprocamente
l’identità del vino e quella del luogo con fare strategico, creando sistemi di branding territoriale dai
connotati olistici7. Nella pratica, è grazie ai processi di traduzione intersemiotica che possiamo sconfinare
continuamente dallo château ai tannini, dall’affusolata forma della bottiglia renana alla freschezza
tagliente dei Riesling alsaziani che contiene, dalla primazia storica e qualitativa della viticoltura di Langa
piemontese al classicismo austero che caratterizza il layout dei suoi grandi vini rossi.
Il terroir è, in termini semiotici, l’effetto di senso che deriva da questa rete di relazioni sincretiche. Di
conseguenza, l’origine non è tanto un punto di partenza fisica, quanto un punto di arrivo. Il discorso del vino
usa il terroir per distribuire su innumerevoli supporti le competenze semiotiche e i simulacri referenziali che
ci porranno in condizione di assaporare l’identità territoriale. È così che, accanto a un movimento che
procede dal sensibile all’intelligibile, ve n’è uno forse più importante – specie per una pratica intellettualizzata
come il consumo di vino (Grignaffini 1997) – che procede dall’intelligibile al sensibile.
Fontanille (2005) illustra come, alla base delle traduzioni intersemiotiche che costituiscono il simulacro del
terroir, insistano dei meccanismi di sintassi figurativa che consentono una tenuta del senso complessiva.
Sono gli stessi meccanismi che rendono la metonimia e la sinestesia circostanze tanto comuni nella
significazione. Riprendiamo, per spiegarci meglio, uno dei nostri esempi. La valuta che consente lo
scambio di valore tra la forma della bottiglia renana e la dimensione organolettica del Riesling alsaziano è
una valuta semiotica e formale. Verticalità, sottigliezza, slancio, freddezza – in contrapposizione al modello
standard di bottiglia e ai cliché organolettici più grassi dei vini bianchi longevi8.
Cambiano le sostanze in gioco, le modalità di espressione e i canali di ricezione, ma si ritrovano le stesse
relazioni formali (e le stesse interazioni tra materia ed energia, per dirla nei termini di Fontanille). Più la
6
La letteratura scientifica sul tema della patrimonializzazione e sui suoi impatti a breve e lungo termine è molto
ampia. Per una lettura antropologica di un caso di patrimonializzazione UNESCO nella Sicilia orientale v., tra i
tanti, Palumbo (2003).
7 Una interessante case history di approccio trasversale al branding vitivinicolo, alimentare e turistico, e quello
dell’Alto-Adige/Südtirol (Puca 2021), ben coordinato dall’uso di lungo corso di un marchio ombrello collettivo,
detenuto dalla stessa provincia autonoma. Si veda www.idm-suedtirol.com/it/il-nostro-lavoro/marchio-alto-adige,
ultimo accesso giugno 2023.
8 Va da sé che anche la sintassi figurativa, come tutte le relazioni semiotiche, implica un sistema di opposizioni strutturali
che permettono l’esistenza di valori tipici: è tanto più facile da capire se pensiamo a come la zonazione produca una
competizione di valore tra aree produttive diverse, senza segmentazione non vi è valore (Puca 2021). La bottiglia renana,
in pratica, ha valore nella misura in cui esistono le più tozze e robuste bottiglie borgognone e albeise.
72
disseminazione di queste relazioni formali è coerente, tanto più il processo di iconizzazione risulterà
efficace: il terroir sintetizza in sé tutte quelle varie figure “nomadi” che messe in rete possono diventare,
di fronte a nuove manifestazioni testuali, indizi, segni motivatori, tracce dell’origine. Tante figure, non
più singolari, che intratterranno tra loro un rapporto di identità anche sensoriale (Floch 1995). Un
terreno, un paesaggio, una voce, una texture, possono essere rocciosi. Al contempo, la materia olfattiva
del vino può essere riconfigurata come rocciosa, al momento della degustazione, sulla base di un
principio di coerenza formale con l’areale produttivo in quanto icona9.
Come i grandi brand, anche il terroir è un’icona culturale solo nella misura in cui questo processo di
disseminazione formale su ordini diversi – somatico, figurativo, figurale, tematico, timico, passionale –
agisce e reagisce sotto traccia anche di fronte all’introduzione di nuovi oggetti. Come può essere
l’apertura di una nuova cantina in un’area vinicola consolidata, o l’introduzione nelle tipologie
produttive consentite dal disciplinare di produzione di un’inedita versione del vino (spumante, rosato,
classico etc.). C’è di più: nella nostra epoca sono i prodotti a raccontare il brand, più che il contrario
(Marrone 2007; Ventura Bordenca 2022).
Accanto al ben noto meccanismo della traduzione intersemiotica vi è un altro tipo di relazione traduttiva,
tanto feconda quanto sottovalutata: la traduzione interdiscorsiva (Marrone 1998). Il discorso del vino è
un punto di snodo non solo tra sostanze diverse, ma anche tra discorsi sociali di statuto diverso. La
vicenda del terroir vitivinicolo è, sin dalla ribalta del termine nell’Ottocento (Trubek 2008; Demossier
2010; Parker 2015), una storia di mobilitazione di domini preesistenti o in fase di costituzione: l’enorme
lavoro compiuto dal discorso giudirico per concepire e istituire una nuova forma di proprietà
intellettuale legata al territorio, il processo di zonizzazione territoriale proveniente dall’urbanistica
dell’epoca, la geografia umana che giustifica i caratteri antropologici del terroir, la geologia che a poco
a poco ne legittima i fondamenti pedologici, l’agronomia, la bio-chimica e la genetica che spingono un
imponente sviluppo enologico. Tutti questi discorsi di stampo moderno – solo per limitarci al tardo
Ottocento – hanno ceduto al discorso del vino le proprie condizioni epistemiche, un certo modo di
concepire i suoi oggetti e di parlarne: mappe cartografiche, toponomastica, testi legali e disciplinari di
produzione, campionamenti, composti aromatici e altro ancora.
3. Il terroir come simbolo
Giungiamo a un ultimo punto più generale, prima di accingerci all’analisi di un caso specifico. Pronunciare
il nome dei mostri sacri del vino – lo Champagne, la Borgogna, le Langhe o, come approfondiremo più
avanti, l’Etna – vale a evocare veri e propri simboli del vino. Associare al terroir le parole simbolo e icona,
tuttavia, chiama in causa ulteriori ambiguità teoriche, riaffrontate di recente dalla semiotica10.
Senza ripercorrere l’intero dibattito sul simbolo, e ponendoci in continuità con quanto abbiamo appena
detto sulla degustazione dei vini di terroir, possiamo aggiungere che il terroir, come tutti i simboli, è
innanzitutto un potente dispositivo di rimotivazione (Sedda 2021). Intendiamo quella capacità di “sfruttare
l’apertura della relazione fra espressione e contenuto per ‘ritrovare’ nel simbolo motivi che risultano essere
pertinenti ed efficaci rispetto a motivazioni contingenti” (ibidem, p. 24). Incasellare i profumi del vino
ricorrendo al simbolo della sua origine fisica, il terroir, è non molto distante dallo spiegare le parole
risalendo alle etimologie originarie: “la lingua evolve proprio attraverso un sistematico conflitto contro la
sua arbitrarietà […] Il linguaggio scopre ‘poeticamente’ somiglianze interne di forma e contenuto, inventa
9
Il terroir differisce, in questo modo, dal semplice paesaggio. Ne articola nel discorso dei tratti formali identificanti,
ma li riconfigura in una rete eteroclita.
10 Ci riferiamo a una serie di discussioni annuali sul tema che si sono svolte nel Cento Internazionale di Scienze
Semiotiche di Urbino. I primi interventi sono confluiti in Contaminazioni simboliche (Marrone, a cura, 2021),
primo volume pubblicato nella nuova collana degli Annali del centro internazionale di Scienze semiotiche.
73
etimi, cioè verità etimologicamente verosimili” (Fabbri 2000, p. 77). Il simbolo, insomma, è un dispositivo
performativo, che allude sempre con anticipo ai motivi che vi ritroviamo. Tutta una serie di serie di “oggetti
simbolici” secondari (Turner 1967), sono trattenuti dai simboli grazie a questa azione performativa. Gli
oggetti che assumono lo statuto sociale di simboli sono quindi, in realtà, un esito dei modi simbolici di
generazione del senso soggiacenti: i simboli sono dei “modi” più che delle cose (Eco 1984).
Questa performatività è stata affrontata a più riprese da Marrone (2001, 2005), il quale si rifà al concetto
di “efficacia simbolica” dell’antropologo Levi-Strauss (1958) per evidenziare un rapporto stretto e
biunivoco tra la dimensione somatica e la dinamica di significazione. Proprio a questo proposito, Levi-
Strauss utilizzò l’espressione “efficacia simbolica” in una nota analisi del rituale del parto nella comunità
centroamericana dei Cuna. In estrema sintesi, alla comparsa delle doglie, la partoriente veniva affidata
a uno stregone che emette canti, gesti e figure mitiche tradizionali: l’antropologo osservava come questo
rito fosse in grado di produrre una corrispondenza simbolica tra gli atti dello stregone e la sfera somatica
della partoriente, stimolando una dilatazione necessaria allo svolgersi del parto e risolvendo una
condizione iniziale di squilibrio per via narrativa. L’efficacia del rituale, ricorda Marrone, non è di natura
causale, bensì semiotica: si dà luogo a un linguaggio che traduce, sul piano dell’espressione corporea, i
contenuti del rituale messo in scena dallo stregone.
L’opposizione tra causalità e significazione ci permette di aggiungere un altro tassello alla percezione
organolettica del terroir. Come abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente, i grandi terroir tengono
a sé serie di forme pre-articolate dal discorso. Queste forme del contenuto possono essere proiettate, al
momento della degustazione, sulla materia del vino, permettendoci di ritrovare le pertinenze territoriali
opportune, e validando l’aderenza di un vino a una data aspettativa sul territorio. O, molto più spesso,
ponderando lo scarto tra questo stereotipo percettivo e il singolo vino in questione, così da delineare
una specifica espressione del territorio, come sempre si dice, magari manipolata dallo stile della cantina
e del vignaiolo. L’efficacia simbolica del terroir sta anche nell’elasticità e nell’apertura enunciazionale
che caratterizza i simboli: non una immagine prototipica del territorio, basata su un unico tratto
dominante, ma un costrutto condiviso, sempre in espansione e cambiamento, un luogo di negoziazione,
incontro e scontro tra gli attori del discorso (Teil 2012): si pensi alle innumerevoli letture del terroir che
ne fanno i suoi enunciatari (i consumatori e degustatori, che ritrovano motivi di territorialità diversi e
talvolta discordanti), così come i suoi enunciatori (le cantine, che immettono sul mercato una propria
espressione del terroir). Per comprendere l’annosa questione del gusto del terroir, insomma, la semiotica
può ricollocare il tema delle determinanti chimico-fisiche dei sapori in un quadro estetico più olistico,
che non consideri il vissuto individuale e collettivo come un bias, ma come una condizione strutturante.
3. L’Etna: “l’isola nell’Isola”
Come ben testimoniato dall’editoria di settore e da alcune campagne di comunicazione recenti, una
delle più interessanti categorie enologiche venute negli ultimi anni alla ribalta è quella dei “vini
vulcanici”. La crasi, oramai di uso corrente, sta ad indicare, ovviamente, i vini provenienti da aree
produttive con suoli di origine vulcanica.
Passando in rassegna i vari vini vulcanici notiamo che la fortunata categoria ombrello racchiude al suo
interno paesaggi di matrice molto diversa tra loro11. A un livello superficiale, una grande differenza è data
dai paesaggi marcati, anche nel senso comune, come vulcanici e da quelli che non lo sono e che il discorso
vinicolo sta contribuendo a riposizionare come tali. Un esempio di questi ultimi è l’area di Soave in Veneto,
capitale dei vini bianchi italiani, così come tante altre zone in Toscana, Campania, Lazio e Basilicata.
11
Per una rassegna più esaustiva sui terroir vulcanici v. i due volumi di Szabo (2016) e Frankel (2019).
74
Tra i vari areali vulcanici l’Etna gode di uno status particolarmente favorevole. L’affermazione di una
nota critica di settore, nel corso di un reportage sui vini vulcanici italiani, ben riassume questa
supremazia quando dice “Nessuna menzione delle regioni vinicole vulcaniche sarebbe completa senza
l’Etna […]. I vini incontaminati dell'Etna dovrebbero mettere a tacere qualsiasi discussione sul fatto che
la mineralità percepibile sia un mito” (O’Keefe 2018, trad. mia).
Con un’altezza di più di 3.300 mslm, in costante crescita, e ben 212 km di perimetro basale, l’Etna
costituisce il vulcano attivo più grande d’Europa12. Questa prominenza fisica, unita alla sua costante e
visibile attività eruttiva, ha reso il profilo del vulcano un’icona della Sicilia orientale. Nel 1987 è stato
istituito il “Parco naturale dell’Etna” al quale, in alcuni punti, si sovrappone l’estesissimo vigneto che
caratterizza l’attività agricola. Ulteriore notorietà turistica è stata data dall’iscrizione dell’area, nel 2013,
nella Lista dei Patrimoni Mondiali UNESCO.
Il paesaggio del vulcano (Fig. 1) è solcato da numerose valli coltivabili e delimitato da corsi d’acqua
(l’Alcantara e il Simeto). La sua enorme superficie coltivabile lo pone ai vertici, anche quantitativi, delle
aree vinicole che sorgono su pendici vulcaniche: oggi l’Etna conta quasi 400 aziende vinicole e quasi
1.200 ettari coltivati di vigneto iscritti nella DOC, entrambi pressoché raddoppiati nel giro di un
decennio13. Se l’area dell’Etna DOC viene comunemente definita “un’isola nell’Isola” è per rimarcare
una differenza non solo rispetto agli altri vini italiani ma, al contempo siciliani. Una partizione spaziale
e valoriale che è già ben riconosciuta dal mercato, considerando la quotazione ben diversa dei vini del
vulcano rispetto alla media degli altri vini della regione14 – oltre che l’attenzione entusiastica dei pubblici
di opinione del settore.
Fig. 1 – Un paesaggio etneo del versante nord con vigneti, muretti
a secco e la cima del vulcano sullo sfondo. Foto di repertorio del
Consorzio Etna DOC.
In figura 2 riportiamo il logo dei vini dell’Etna. La C rovesciata nel pittogramma corrisponde, a ben
vedere, all’area produttiva designata dalla denominazione di origine. Questa stessa forma è protagonista
12
Enciclopedia Treccani, ad vocem: “Etna”.
13
Dati relativi all’’imbottigliamento nel 2021, provenienti dal Consorzio di tutela dei vini Etna DOC.
14 Delle stime aggregate sono state date dall’economista Sebastiano Torcivia nella relazione “Il valore commerciale
dei vini etnei” tenuta ad aprile 2023 in occasione della XIV edizione de Le Contrade dell Etna. Si veda
www.winingpress.it/il-valore-commerciale-dei-vini-etnei-una-ricerca-inedita-delluniversita-di-palermo-prova-a-
rispondere-nellambito-dellevento-le-contrade-delletna (ultimo accesso giugno 2023).
75
della mappa ufficiale dell’area produttiva Etna DOC (v. Fig. 3), rilasciata di recente dal Consorzio per
presentare la zonazione delle 142 “Contrade”15. L’area vitivinicola designata è una fascia continua che
si estende dal versante nord al versante sud del vulcano, coprendo una serie di comuni in successione
lineare, e un territorio su una quota altimetrica compresa grossomodo tra i 400 e i 1000 mslm
(leggermente inferiore a nord). Altitudini elevatissime rispetto alle medie consuete, consentite dalla
posizione meridionale della Sicilia, addirittura infrante dalla presenza di vigneti oltre i mille metri (e
dunque fuori dall’area DOC).
Fig. 2 – Il brand del Consorzio di tutela dei vini Etna DOC.
Fig. 3 – La mappa ufficiale dell’area di produzione dei vini Etna DOC con le 142 “Contrade”.
15 Le “Contrade” sono sottozone produttive riconosciute dal disciplinare di produzione. Equivalgono legalmente
alle “menzioni geografiche aggiuntive” che i produttori possono utilizzare in etichetta come complemento
all’indicazione geografica “Etna DOC”.
76
Il versante a nord, si intuisce a occhio dalla concentrazione di piccole e numerose Contrade, è quello
enologicamente più attivo; il versante est si affaccia direttamente sul mare ed è il più condizionato dalla
sua influenza; mentre nei versanti sud-est e sud-ovest il clima diventa via via più caldo e asciutto e il
numero di produttori diminuisce. La natura del terreno è strettamente legata alla sua matrice vulcanica:
può essere formato dal progressivo sgretolamento delle colate di lava di diverse età, da lapilli, ceneri e
sabbie (Foti 2020, p. 79). L’ostacolo della lava, le piccole superfici coltivabili, le notevoli pendenze a cui
si è risposto con fitti terrazzamenti, l’impossibilità di praticare un’agricoltura meccanizzata e di larga
scala, sono tutte circostanze che rendono il lavoro dei viticoltori arduo e dispendioso (North Spencer
2020). Per tutte queste ragioni, la viticoltura etnea è spesso rapportata a quella di numerose aree alpine
caratterizzate da condizioni simili. Al loro pari, viene definita una “viticoltura eroica”.
4. Un simbolo ideale
La cartografia ufficiale della Denominazione sarebbe di per sé sufficiente a trasmettere la straordinaria
identificazione tra la viticoltura etnea e il vulcano in quanto simbolo, tanto distintivo quanto
culturalmente denso, polisemico, portatore di innumerevoli stereotipie culturali disponibili a successive
traduzioni e ibridazioni discorsive. L’adesione tra viticoltura e vulcano rende il terroir etneo, per quanto
complesso, un caso studio di grande interesse per l’analisi semiotica.
La semplice cartografia dell’area DOC è, per iniziare, una prima traduzione intersemiotica le cui
implicazioni in termini di significato sono troppo spesso sottovalutate. La mappa, lo sappiamo, è cosa
ben diversa dallo spazio: ne rappresenta un suo simulacro, basato un dispositivo moderno e geometrico-
euclideo di traduzione e che porta con sé una serie di impliciti culturali non da poco16.
Un diffuso riduzionismo tenderebbe a dare alla mappa una funzione puramente referenziale, ovverosia
legata alla sua rappresentazione topologica del mondo reale. Invece, considerare la cartografia del terroir
come un testo del discorso vinicolo permette di intravedere tutta una serie di significazioni ulteriori e
soggiacenti che la mappa stessa, in quanto oggetto di senso, attiva e contribuisce a mettere in circolo.
Sulla superficie planare della mappa, l’Etna si sviluppa in larghezza, assumendo una forma orizzontale e
circolare antitetica (per quanto ne sia una trasposizione) al cliché paesaggistico del vulcano, una forma
triangolare e tesa in verticale, verso l’alto. L’area DOC assume la forma di un semi-anello caratterizzato da
una topologia continua17, uniforme, isotropica (vale a dire che tutta la superficie è rivolta armonicamente
verso il centro). Sono qualità formali invidiabili, che fanno della mappa di Etna DOC, in sé, un’oggetto
semplice e memorabile e, al tempo stesso, la mettono in diretta reciprocità con la figura del vulcano,
favorendone l’iconizzazione e la simbiosi col terroir produttivo vitivinicolo. Ciò è possibile grazie ai processi
intertestuali e intersemiotici che la mappa di per sé attiva, richiamando altre grandezze, linguaggi e
supporti: la forma conica del vulcano, l’altitudine che cresce procedendo verso il centro della mappa,
la storia geologica e le colate laviche che seguono una direzione fisica inversa, l’adesione costante alla
superficie del cono.
Dai punti di vista figurativo, figurale e tematico, il vulcano incarna una serie di opposti altrettanto potenti.
L’alto e il basso innanzitutto, una doppia protensione verso il cielo e le viscere del pianeta. Ne deriva una
compresenza tra due accezioni diverse della terra che, rifacendoci alla cultura ellenica, possiamo definire
come Gaia e Ctòn: “la prima si riferisce alla Terra come qualcosa di evidente cioè chiaro, superficiale,
16
Sul paradigma cartografico nella geografia moderna e contemporanea v. Farinelli (2003, 2009). In semiotica,
sulla rappresentazione cartografica e il suo potere deontico v. in part. Marin (1994) e Pezzini (2006). Sulle mappe
e la contrapposizione tra spazio oggettivato e soggettivato, o spazio globale e locale, v. Cavicchioli (2002).
17
Circostanza non scontata dal momento che, nel resto dell’Italia e del mondo, sono comunissime le zonazioni
vinicole frammentate, frastagliate e discontinue.
77
disposto secondo l’andamento orizzontale; la seconda, all’opposto, implica l’invisibilità cioè l’oscurità,
l’interno e non l’esterno, la profondità e la verticalità e non l’orizzontalità” (Farinelli 2003, par. 2).
E, omologa alla precedente, l’opposizione tra vita e morte, a cui fanno eco le grandi narrazioni
mitologiche18. Sulla superficie aerea del vulcano, la terra è feconda e la natura è florida. Nei propri
abissi, la terra sviluppa (e presentifica nel discorso) una forza mortifera, turbolenta, distruttiva. Fanno il
paio, con queste, altre coppie semantiche quali la leggerezza aerea e la pesantezza della roccia, la
materialità del vulcano e la immaterialità scaturita dalla sua tensione verso l’alto e l’altro. Non stupisce
che il vulcano, simbolo della potenza e solidità terrestre, abbia al contempo ispirato poeti e artisti dal
carattere spirituale, incorporea ed eterea, uno su tutti Franco Battiato, il più noto cittadino di Milo. La
capacità di ricomprendere simbolicamente il cielo e il mare attorno a sé rende l’Etna, inoltre, una fusione
perfetta dei quattro elementi materici fondamentali: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco.
I numerosi contrari paradigmatici che il vulcano trattiene a sé danno luogo non solo a una grande
complementarietà semantica ma anche, più in sintesi, a un generale effetto di senso che è tipicamente
simbolico: la completezza. Complementarietà e completezza si ritrovano, puntualmente, sulle
caratteristiche degli stessi vini del vulcano: meridionali e settentrionali, montani e marini, profondi ed
esili, caldi e freschi, lavici e salini, solidi ed elettrici.
Già nel 1968, lo scrittore Mario Soldati, apre il suo celebre viaggio per i “vini genuini” d’Italia con l’Etna,
dove sembra cogliere e al tempo stesso subire il fascino di questa duplicità:
È Sicilia, e mi pare Piemonte […] Lo confesso ora: ieri sera la squisitezza, la raffinatezza del bianco
di Villagrande mi aveva stupito: a momenti, quasi vi sospettavo un artificio. E adesso mi spiego tutto.
È un vino di Sicilia, sì, ma è anche vino di montagna: e quale montagna! Come il Gattinara sembra
che attinga la sua forza più segreta al vento che passa sui ghiacciai del Rosa pochi minuti prima di
soffiare tra le vigne; come il Rossese cresce tra il mistral e lo scirocco, tra i riflessi, egualmente vicini,
del Mar Ligure e del Clapier: così l’Etna Bianco raccoglie e fonde, nel suo pallore e nel suo aroma,
nella sua freschezza e nella sua vena nascosta di affumicato, le nevi perenni della vetta e il fuoco del
vulcano. Quassù, insomma, tutta quella secchezza e quella freschezza che facevano pensare
addirittura a un vino nordico, e che potevano anche, a momenti, insospettire, sembrare un trucco
di lavorazione, non stupiscono più (Soldati 2017, pp. 35-37).
Il testo di Soldati offre un esempio concreto del fenomeno di efficacia simbolica del terroir, negli stessi
termini in cui lo abbiamo delineato nei paragrafi precedenti. Da un lato, circostanza comune nel discorso
vinicolo, il terroir agisce nel discorso come un vero e proprio dispositivo di mediazione, permettendo
di ritradurre nel vino gli stereotipi discorsivi di un ambiente, un paesaggio, una popolazione. Questa
traduzione può agire a ritroso al momento della degustazione, innescando una vera e propria narrativa
di rimotivazione che risale dal bicchiere sino al luogo d’origine. Si ritrova il senso delle caratteristiche
organolettiche nella complessa progenie vulcanica, negli agenti che hanno forgiato narrativamente odori
e sapori (i venti, le nevi, il fuoco etc.), nelle parziali analogie con i paesaggi nordici. Nel caso di Soldati,
la cui ricerca letteraria è mossa da un desiderio di genuinità, la rimotivazione è parallela a un percorso
di stupore e svelamento veridittivo: qualità che inizialmente sembrerebbero frutto di un artificio o di
un’adulterazione testimoniano in realtà le nobili e sincere origini del vino.
Mentre stabilisce un rapporto intertestuale con il paesaggio etneo, il vino ne eredita quindi il mitismo,
ossia la stessa tendenza a mediare narrativamente tra una serie di opposti inconciliabili: nord e sud,
caldo e freddo, neve e fumo. La potenza comunicativa dei vini etnei sta anche nella loro capacità di
18Lo storico Braudel ne riporta proprio questo aspetto: “Ed ecco il re delle fucine, l’Etna (3313 metri), che si erge,
sempre attivo, sulla meravigliosa piana di Catania. Luogo di leggende, l’Etna: i Ciclopi, fabbricanti delle folgori
celesti, vi manovravano, nelle forge di Vulcano, i loro enormi mantici di pelle di toro; il filosofo Empedocle si
sarebbe gettato nel suo cratere, che ne restituì, si dice, soltanto un sandalo” (Braudel 1985, p. 13).
78
prendere parte alle ambivalenze costitutive del territorio, diventando parte di un certo modo di
produzione simbolica che lo caratterizza.
5. L’Etna e le sue architetture contemporanee
Giungiamo a un ambito specifico di manifestazione discorsiva del terroir: l’architettura delle cantine,
uno dei più sofisticati strumenti odierni di marketing vinicolo e territoriale.
La cantina è certamente luogo funzionale, di trasformazione e affinamento dei vini e di svolgimento
delle attività ricettive, commerciali ed enoturistiche. Queste funzioni, tuttavia, sono prese in carico ed
espletate dall’architettura e dal design in un orizzonte di senso, nel quale anche l’estetica rientra
(Hammad 2003; Mangano 2008).
Gli interventi architettonici nel settore enologico sono oggi un importante tema di esplorazione – anche
teorica – per architetti e designer (Bosi e Chiorino 2022). L’ambizione delle cantine contemporanee è,
sempre più spesso, quella di ergersi a veri e propri “musei della natura” 19 , instaurando relazioni
intersemiotiche complesse col paesaggio.
Che la cantina sia uno strumento di branding cruciale lo dimostrano, d’altronde, gli ingenti investimenti
del settore in nuove costruzioni avveniristiche. Anche su questo fronte, l’Etna ha contribuito a
posizionare la Sicilia sulla scia di regioni storicamente più sviluppate, in particolare l’Alto Adige e la
Toscana (ibidem). Pur non potendo affrontare il tema dell’architettura vinicola con la giusta ampiezza
che meriterebbe, desideriamo mostrare due casi recenti e significativi.
In primo luogo, come dicevamo, la cantina consente al brand di abitare anche fisicamente il paesaggio
e l’areale produttivo. In altre parole, di congiungere narrativamente il brand vinicolo al territorio: un
placement che attiva un primo trasferimento di valore, dallo spazio di senso del terroir alla marca, e
potenzia quindi l’identificazione della marca stessa con un ambiente geografico. Contemporaneamente,
tuttavia, la costruzione di una nuova cantina introduce una nuova grandezza semiotica nel paesaggio
vinicolo, mutandolo: anche la cantina, a sua volta, trasferisce quindi valore al territorio, e così facendo
lo riconfigura tanto nella sua patina visibile quanto nei significati. Non è un caso che sul rapporto tra
cantina e territorio si discuta sempre più spesso in termini di landmark (ibidem) e che gli interventi
architettonici sulle cantine pongano problemi che rientrano nell’ordine del design paesaggistico. Il
rapporto tra la cantina e lo spazio in cui si situa, in altre parole, è un rapporto reciproco tra locale e
globale, testo e semiosfera. Quando sorge una nuova cantina, in uno spazio denso e interconnesso come
quello del terroir, cambia il senso del terroir nel suo complesso e, al contempo, persino il senso delle
altre costruzioni architettoniche è destinato ad evolversi. Questo perché esiste un rapporto orizzontale e
diretto anche tra testi e testi, un po’ come accade tra etichette di diverse cantine che provengono dalla
medesima area produttiva.
Riassumendo, e rifacendoci alle nostre premesse iniziali, possiamo dire che l’architettura della cantina
contribuisca, assieme a tutti gli altri testi vinicoli, a nutrire quella rete trasversale di ridondanze formali
che, nei primi paragrafi, abbiamo visto costituire le tessiture semiotiche del terroir.
Il primo caso che trattiamo è “Feudo di Mezzo” una tenuta inaugurata nel 2013 dal brand vinicolo
Planeta nell’omonima contrada (Passopisciaro). Il complesso, progettato dagli architetti Santi Albanese
e Gaetano Gulino, sorge “all'interno di una colata lavica del 1566, come un giardino di pietra” 20.
19Cito una concisa definizione data dall’architetto e amico Diego Emanuele in una conversazione sul tema.
20
V. il sito web ufficiale della cantina e, in part., il comunicato stampa di presentazione: www.planeta.it/wp-
content/uploads/2013/03/Nasce_la_quinta_cantina_PLANETA_1063.pdf (Ultimo accesso giugno 2023).
79
Fig. 4 – Planeta “Feudo di Mezzo” (2013). L’edificio principale (di
fronte) e la barricaia (a destra).
La cantina è in verità un complesso di due corpi separati (Fig. 4): una costruzione principale, composta
da una sorta di parete di cinta in pietra e un parallelepipedo centrale in cemento e una barricaia
parzialmente ipogea, rivestita da un muro di pietra lavica a secco. Come appare evidente, lo scarto
materiale e aptico tra una superficie e l’altra svolge una funzione cruciale che è non solo estetica, ma
narrativa. La roccia è via via trasformata in una successione che procede, nell’ordine, dai grossolani
blocchi della barricaia (“pensata come una pietraia”), passando per il muro di cinta dove la pietra è
saldata dal cemento, sino all’unità più compatta in cemento levigato che si erge sulla precedente. Le tre
unità si innalzano progressivamente e sono in evidente dialogo. Tra le tre, scorre una sintassi narrativa
che rimanda a stati della materia che si rinsaldano – procedendo dal basso verso l’alto – da totalità di
parti a unità, dal discreto al compatto, dal discontinuo al continuo. Questa progressione è al tempo
stesso una inversione poetica, ad opera antropica, rispetto al corso naturale (e plurisecolare) di
disfacimento della lava: dal compatto delle colate più recenti al discreto delle pietre e infine della sabbia.
Il cemento è la roccia dell’uomo.
Fig. 5 – Planeta “Feudo di Mezzo” (2013).
L’edificio e il paesaggio.
80
Mantenendo un punto di vista esteriore – e dunque inevitabilmente parziale – sull’architettura,
osserviamo ora il profilo di “Feudo di Mezzo” con un campo più largo, immerso nel paesaggio
circostante (Fig. 5). L’estremo minimalismo eidetico, cromatico e topologico della struttura aiuta il suo
formato a prendere il sopravvento. La cantina si staglia così sull’intorno come un puro volume, una
massa quadrangolare in rapporto diretto, ovviamente, con l’enorme vulcano situato sullo sfondo. C’è di
più: la nettezza del profilo fa sì che il corpo diventi complementare al vuoto che vi è attorno,
inglobandolo, proprio come il profilo del vulcano fa con il paesaggio aereo attorno a sé21.
Possiamo confrontare questo primo caso con un altro intervento sul versante nord del brand Alta Mora,
su progetto dello studio Ruffinoassociati. La struttura si chiama “Verzella” (Fig. 6) ed è sita nell’omonima
contrada (Castiglione di Sicilia). Stavolta si tratta di un edificio rivestito esternamente non in pietra,
com’è usuale nella zona, bensì in cor-ten, una pregiata lega metallica il cui aspetto vira nel tempo verso
un tono ruggine che, in questa circostanza, vuole richiamare un divenire cromatico (e semantico) della
materia vulcanica:
In un territorio reso unico dalla colata lavica che lo avvolse e stravolse nel lontano 1879, la cantina
secondo un progetto ecologico e all’avanguardia è realizzata fondendo i materiali del luogo con il
cor-ten che il tempo sta trasformando e variando nel colore, così come il magma che da distruttore
si trasforma e diventa presto fertile, nel pieno rispetto della natura22.
Ci troviamo di fronte a due strategie narrative opposte. Mentre Planeta “Feudo di Mezzo” inscenava
una sintassi di stati della materia che mutavano in modo sintagmatico, ovverosia nel passaggio tra unità
compresenti nel complesso, la costruzione di Alta Mora mette sì in atto una sintassi di stati della materia
vulcanica ma che, in questo caso, si avvicendano in modo diacronico, cioè mutando in successione con
l’avanzare del tempo.
Fig. 6 – Alta Mora “Verzella” (2013).
A questa sintassi si sovrappone una temporalizzazione più complessiva: se entrambe le costruzioni
emanano un’aura di eternità, questo dipende dal loro tempo doppio (Sedda 2021). Il tempo arcaico dei
richiami materici e ancestrali al vulcano, da un lato, e il tempo futuribile dell’architettura avveniristica,
21 Questa dialettica richiama un’altra asserzione teorica importante: l’architettura è progettazione del vuoto, prima
ancora che del costruito (Hammad 2003).
22
Cit. dal sito web della cantina: www.altamora.it/it/verzella (ultimo accesso giugno 2023).
81
dall’altro, generano nello stesso oggetto una tensione durativa indefinita, protesa contemporaneamente
verso l’anteriore e il posteriore.
Come anticipavamo poc’anzi, l’architettura può contribuire a instaurare nuove relazioni semiotiche
orizzontali tra i brand vinicoli presenti sul territorio. Nello specifico, il breve confronto abbozzato tra le
due costruzioni presagisce lo sviluppo, in corso, di uno stile contemporaneo e locale caratterizzato da
costanti espressive facilmente riconoscibili23.
In tutti i casi il rapporto mimetico tra l’architettura e l’Etna è tale che, come emerge in modo più forte
dalla fig. 5, queste costruzioni si ergono come veri e propri totem del vulcano.
Si noti anche la vigorosa messa a terra delle due cantine: due prismi monolitici completamente adesi al
suolo, una scelta non scontata nel linguaggio architettonico odierno. Entrambe le costruzioni stabiliscono
un rapporto di emulazione con l’esteriorità del vulcano, è evidente, ma lo fanno sulla base di strategie
discorsive precise. L’enfasi su volumi architettonici netti e quadrangolari mira a traslare ed enfatizzare,
sul piano semantico, quei tratti di solidità, rigidità, forza, inamovibilità, pesantezza e mascolinità del
vulcano che ci sono familiari.
Tuttavia, come in tutte le traduzioni qualcosa si perde, a vantaggio di altro: la scelta progettuale di
puntare sulla forma quadrangolare, anziché triangolare e apicale che ci aspetteremmo, produce una
rarefazione del piano espressivo e risponde proprio al tentativo di imperniare la mimesi sul piano
semantico e, nello specifico, attraverso quei tratti di contenuto appena elencati 24 . All’emulazione
speculare del vulcano nella sua esteriorità, si antepone un’emulazione – iperbolica – del suo valore.
Proprio come in un simbolo, i contenuti dell’architettura esorbitano così il suo piano dell’espressione:
una scelta poetica e strategica che finisce per conferire alle due costruzioni un’aura metafisica25, in virtù
della loro esasperata fisicità semantica.
Siamo così per l’ennesima volta posti di fronte a un’ambivalenza mitica tra materiale e metafisico, le due
facce complementari del vulcano.
6. Conclusioni
In questo lavoro abbiamo affrontato il tema della materia nel discorso vinicolo e, in particolare, il
concetto di terroir, con l’obiettivo di mettere in discussione una visione sostanzialista e ontologizzante
del vino e del suo valore che tende a prevalere tra esperti e appassionati.
Innanzitutto, una rilettura semiotica del terroir ci spinge a concepire la vita materiale del vino in modo
inseparabile dalla fitta e densa rete intersemiotica occupata da discorsi, pratiche e testi quantomai
eterogenei: il branding e il packaging, l’architettura, le estetiche di consumo e degustazione, le fiere e
gli eventi, l’editoria, i luoghi di distribuzione, gli eventi, il cinema e i media, le cartografie, e molto altro
ancora. Tutto ciò non è ornamentale, ma costituisce il discorso del vino, e mette il vino in condizione
di significare e, quindi, di essere vissuto e apprezzato.
Nel settore si tenta usualmente una oggettivazione di quelle componenti chimiche che, a ritroso,
dovrebbero far aderire il vino a una origine geografica precisa e a dei fattori ambientali e produttivi
determinanti (Teil 2012). Il terroir, in questo senso dominante, permette una connessione materiale e
causale tra i fattori pedo-climatici del luogo produttivo e le caratteristiche organolettiche apprezzabili nel
prodotto finale. Da un punto di vista semiotico questa visione risulta assai limitante.
23
Un filone che potrebbe essere approfondito con l’ulteriore analisi di altri interventi architettonici ma che qui,
per ragioni di spazio, lasciamo in secondo piano.
24 Si pensi, per abbozzare una prova di commutazione, al diverso effetto di senso che una emulazione iperrealista
avrebbe prodotto, per esempio con la costruzione di un corpo conico o piramidale.
25
Anche nel senso semiotico e letterale del termine, dal momento che la fisica del vulcano è ricompresa meta-
semioticamente sul piano del contenuto nel testo architettonico.
82
Il terroir, lo abbiamo visto, può essere riletto mediante gli strumenti della sintassi figurativa (Fontanille
2005) e della semiotica del discorso (Marrone 2022) come un fascio isotopico che, attraversando
configurazioni testuali e linguaggi diversi, crea ridondanze formali e effetti di iconizzazione. Il vino stesso,
come tutti gli oggetti semiotici, va collocato in questa rete di senso e ne è un’abitante tra tanti. È grazie
a questa rete che possiamo ritrovare, a ritroso, le qualità organolettiche del vino in termini di origine
geografica. Se il terroir, insomma, diviene spesso un simbolo, ciò dipende in primis dalla convivenza tra
eterogeneità dei supporti e coerenza trasversale.
Nella seconda parte del lavoro abbiamo infine affrontato un caso di particolare di terroir vulcanico, oggi
di grande successo: l’Etna. Un successo che può essere spiegato in termini semiotici con l’analisi dei
rapporti formali che intercorrono tra l’iconografia del vulcano, le sue innumerevoli trasposizioni e gli
oggetti di comunicazione più disparati. Elementi troppo spesso considerati accidentali o secondari, quali
la cartografia e l’architettura, rivelano l’essenza del terroir quanto il vino stesso, grazie al sistema di
relazioni formali in cui si situano. Abbiamo osservato, a questo proposito, come la cartografia e le nuove
architetture etnee contribuiscano ad alimentare una duplicità mitica che caratterizza, sin da tempi non
sospetti, il simbolo del vulcano. Un’architettura semioticamente funzionale, in questi termini, entra in
rapporto col sistema di relazioni formali consolidato, stabilisce in che modo inserirvisi, contribuendo
così a determinare il valore vino, la sua unicità e al tempo stesso i modi di aderire al territorio. Grazie a
questo processo di disseminazione, inoltre, il vino stesso trarrà vantaggio in termini di accessibilità e
significatività. Il marketing vinicolo e territoriale possono contribuire, utilizzando un approccio
progettuale, alla produzione di nuovi oggetti di comunicazione efficaci. La semiotica, da parte sua, può
stimolare la comprensione di questi meccanismi e, con un po’ di ambizione, la diffusione tra addetti ai
lavori di una cultura del vino che sia propriamente tale, dotando la parola cultura di buona consistenza
e un proprio territorio, come il vino.
83
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] | Forma, trasformazioni materiali e sostanza nella teoria marxiana della merce.
Proposte per una lettura semiotica
Giorgio Borrelli
Abstract. This contribution intends to outline a semiotic reading of the Marxian categories of “Form”, “Matter”
and “Substance”. More specifically, an attempt will be made to show how “Substance of Value” – as defined by
Marx – is the result of a process of transformation – or translation -- of different materials through certain Forms.
To do this, it is proposed to read the Marxian theory of the commodity as a “scientific discourse” – understood in
a Greimasian sense –, identifying its transformations on both the logical-semantic level (deep level) and the
narrative level (surface level). Finally, an attempt will be made to show how, in Marxian theory, the relationship
between “Form”, “Matter” and “Substance” generates a specific “meaning effect”.
1. Introduzione
In questo contributo proverò a inquadrare in una prospettiva semiotica le categorie marxiane di “forma”,
“materia” e “sostanza”. Per fare ciò procederò con due ipotesi di ricerca strettamente collegate.
In primo luogo proporrò di leggere la teoria della Forma Merce – tematizzata ne Il Capitale (Marx 1867)
– come un discorso scientifico in senso greimasiano (cf. Greimas 1976): cioè, come un discorso che trova
il proprio fondamento in una struttura costituita da opposizioni, contraddizioni e implicazioni; una forma
(cf. Greimas, Courtés 1979, p. 148) a partire dalla quale si generano strutture logiche più complesse in
grado di determinare la struttura di partenza – cioè, di articolarne il senso. Più specificamente, questa
proposta di lettura trova un punto di appoggio in ciò che Marx chiama “metodo di esposizione
[Darstellungsmethode]” (Marx 1867, p. 19) o “modo di esposizione [Darstellungsweise]” (ivi, p. 21); due
espressioni che indicano – appunto – il metodo o modo attraverso cui la logica del modo di produzione
capitalistico può essere spiegata e compresa. Partendo da questo ordine di considerazioni e facendo
riferimento al quadro categoriale greimasiano, cercherò di mostrare il carattere elementale (cf. la voce
“Elemento” in Greimas, Courtés 1979, pp. 118-119) della Forma Merce; più specificamente proverò a
mostrare perché la Forma Merce possa intendersi come una “unità elementare prima” (ivi, p. 119).
In secondo luogo, proporrò di leggere la teoria della Merce come una semiotica in cui si espongono dei
processi di trasformazione della materia attraverso Forme che originano una Sostanza – la Sostanza di
valore [Wertsubstanz]. In linea con il concetto greimasiano di “trasformazione” (cf. Greimas, Courtés,
1979, p. 368), cercherò di mostrare come questi processi siano leggibili sia sul piano logico-semantico
(livello profondo) che sul piano narrativo (livello superficiale). Attraverso questa analisi proverò a
mostrare come – coerentemente con una prospettiva semiotica – la materialità – intesa in senso Marxiano
– non sia una proprietà ontologica ma una proprietà relazionale:1 cioè, il risultato delle interazioni tra
1
L’idea secondo cui la materia – o, se si preferisce, il carattere di “materiale” – sia una proprietà relazionale trova
una particolare esposizione nella semiotica di Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985). Chiaramente, questo assunto ha
il proprio fondamento nel modello della semiosi di Charles Morris (1938). Secondo Morris, infatti, ciascun
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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gli elementi di un determinato sistema. Più specificamente, proverò a mostrare come – nella teoria
marxiana della Merce – il lavoro umano possegga una materialità anteriore e una materialità posteriore al
suo processo di informazione (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 148): il lavoro, anteriormente all’“impronta”
(Bellofiore 2013, p. 21) della Forma di valore, è una materialità allo “stato fluido” (Marx 1867, p. 61);
successivamente diventa una “gelatina [Gallerte]” (ivi, p. 48) – coincidente con la Sostanza di Valore.
2. La Forma Merce come relazione elementare
Per leggere la teoria della Forma Merce come un discorso scientifico, sarà necessario considerare il
discorso marxiano come una semiotica, cioè “un insieme significante che possiede un’organizzazione,
un’articolazione interna autonoma” (Greimas, Courtés 1979, p. 314). Questo insieme costituirà l’oggetto
di analisi, la semiotica-oggetto (cf. ibidem)2; inoltre, occorrerà considerare questa semiotica-oggetto come
una semiotica scientifica (cf. ivi, p. 311); più specificamente, come un discorso scientifico (cf. ivi, p. 312).
Di conseguenza, le categorie della semiotica geimasiana che adotterò per descrivere la teoria marxiana
della Forma Merce – cioè, la semiotica oggetto – costituiranno gli strumenti analitici di una meta-
semiotica scientifica (cf. ibidem).
Di fatto, Marx fa riferimento al concetto di “segno” [Zeichen] per spiegare come il Valore – inteso in
senso economico – si manifesti. Innanzitutto, Marx pone l’assunto secondo cui “ogni merce sarebbe un
segno [Zeichen] perché come valore esse sono involucri cosali [sachliche Hülle] del lavoro umano speso
in esse” (1867, p. 103). Tuttavia, Marx non struttura una teoria generale del processo di significazione,
né un linguaggio per descrivere tale processo – cioè quello che Greimas e Courtes chiamano appunto
“linguaggio di descrizione” (1979, p. 318). Pertanto, restando in una prospettiva greimasiana, potremmo
considerare l’analisi marxiana della merce come un metalinguaggio non scientifico (cf. ivi, p. 212); una
scelta teorica e terminologica che non esclude la possibilità di considerare l’analisi della Forma Merce
come un discorso scientifico.
Secondo Greimas, il discorso scientifico – come ogni tipo di discorso – implica un “attante sintattico”
(1976, p. 4), cioè il soggetto inteso come “produttore del discorso” (ivi, p. 5). Il soggetto del discorso
scientifico istituisce “il primo livello del suo discorso, non con un linguaggio-oggetto, ma attraverso un
elemento del processo di semiosi (veicolo segnico, designatum, interpretante, denotatum, interprete) non è ciò che
è per una sua supposta proprietà ontologica, ma per il tipo di relazione che intrattiene con gli altri elementi.
Articolando la sua lettura semiotica della teoria marxiana, Rossi-Landi sembra leggere il concetto marxiano di
“processo lavorativo” [Arbeitprozeß] attraverso questa idea di Morris. Per Marx, il processo lavorativo si compone
di quattro elementi o momenti: “l’attività conforme a scopo [zweckmäßige Tätigkeit], ovvero il lavoro stesso [Arbeit
selbst], il suo oggetto [Gegenstand] ed il suo mezzo [Mittel]” (Marx 1867, p. 198). Il “prodotto [Produkt]” (ivi, p.
200) costituisce il momento finale del processo.
La convergenza tra Morris e Marx viene a configurarsi nel momento in cui Rossi-Landi osserva che “il carattere
di materiale non è […] inerente all’oggetto da cui si parte, sul quale si comincia a lavorare. Il materiale è tale solo
in quanto venga assunto in un ciclo lavorativo, cioè solo in quanto ci si lavori sopra” (Rossi-Landi 1985, p. 14).
L’idea secondo cui i materiali possano essere letti come effetti relazionali è stata delineata nell’ambito dell’Actor-
Network Theory dalla semiotica materiale di John Law e Annemarie Mol (1995).
2 Anche a questo proposito, occorre citare la ricerca pionieristica di Rossi-Landi. Infatti, secondo Rossi-Landi,
“Marx, ex abundantia cerebri, aveva quasi fondato una semiotica del non-verbale” (Rossi-Landi 1985, p. 241). In
particolare, la critica marxiana dell’economia si configurerebbe come una semiotica per aver mostrato la possibilità
di considerare la Forma merce come un tipo particolare di messaggio non verbale (cf. Rossi-Landi 1968, pp. 115-
120). Come è noto (cf. Bankov 2019, pp. 339-340), il lavoro di Rossi-Landi è stato successivamente approfondito
da Augusto Ponzio e dalla Scuola semiotica di Bari. Per un approfondimento sulla semiotica di Rossi-Landi e della
Scuola di Bari si vedano: Rossi-Landi (1968, 1972, 1975, 1977, 1985, 2016); Petrilli (1987, 2004); Ponzio (1988,
2008); Borrelli (2020).
87
‘linguaggio degli oggetti’” (ivi, p. 8). Questo linguaggio coincide con una tassonomia specifica, cioè con
un insieme di “oggetti semiotici (elementi, unità, gerarchie)” (Greiams, Courtés 1979, p. 354) che il
soggetto costruisce “con l’aiuto delle identità e delle alterità riscontrate” (ibidem). Pertanto, il discorso
scientifico è “il luogo di un fare tassonomico” (Greimas 1976, p. 8) e l’universo semantico esplorato dal
discorso scientifico consiste nel “progetto scientifico di questo fare” (ibidem). Più specificamente, questo
progetto costituirà il referente del discorso scientifico e “il percorso genealogico di una data scienza si
giustificata solo se riesce a produrre – e a istituire, come discorso referenziale – un algoritmo di carattere
generativo della scienza in questione” (ivi, p. 21).
Come è noto, l’algoritmo è “la prescrizione di un ordine determinato nell’esecuzione di un insieme di
istruzioni esplicite in vista della soluzione di un certo tipo di problema dato” (Greimas, Courtés 1979, p.
29). Secondo Greimas e Courtés, la metasemiotica ha il compito di “rappresentare il funzionamento di
un sistema semiotico sotto forma di sistema di regole” (ibidem). In questa prospettiva, “l’algoritmo
corrisponde ad una conoscenza sintagmatica che può programmare, sotto forma di istruzioni,
l’applicazione di regole appropriate” (ibidem).
Partendo da queste definizioni, è possibile individuare un algoritmo nell’analisi marxiana della Forma
Merce che sia rappresentabile da un algoritmo metasemiotico? A mio modo di vedere, questo
interrogativo può avere una risposta positiva: tale algoritmo coincide con ciò che Marx stesso definisce
“metodo di esposizione [Darstellungsmethode]” (1867, p. 19) o “modo di esposizione
[Darstellungsweise]” (ivi, p. 21); come accennato nel paragrafo introduttivo, con il termine Darstellung
– appunto, “esposizione” – Marx vuole indicare il metodo o il modo attraverso cui spiegare e
comprendere la logica del modo di produzione capitalistico. Questa esposizione – o presentazione (cf.
Bellofiore 2013, p.19) – consiste in una “progressione sistematica delle categorie” (ivi p. 7) che consente di
“apprendere domini-oggetti di complessità crescente” (ibidem); una progressione che si fonda sull’assunto
secondo cui “ogni categoria analizzata risulta […] deficitaria in termini di determinazione rispetto alla
successiva” (ibidem). Questo deficit di senso, da un lato, costituisce il “il limite delle categorie ad ogni
stadio della progressione concettuale” (ibidem); dall’altro, “dà l’impulso a una ‘transizione’, a una
determinazione successiva di categorie, in una sequenza di ‘arricchimento’ di ogni categoria” (ibidem).
Restando nel quadro concettuale greimasiano, può essere interessante rilevare come questo processo di
esposizione – inteso come semiotica-oggetto – abbia il proprio referente in una semiosi (cf. Greimas,
Courtés 1979, p. 313) costituita da determinati movimenti di espressione [Ausdruck]. Più precisamente,
la Darstellung può essere intesa come la semiotica che descrive “un movimento che dall’interno (come
realtà ‘latente’ o ‘potenziale’) va verso l’esterno (la forma ‘oggettualizzata’)” (Bellofiore 2013, p. 19).
L’Ausdruck – dunque – può essere intesa come il “processo “genetico” che “costituisce” la Darstellung”
(ibidem). Ai fini dell’argomentazione che sto cercando di costruire, è possibile individuare questa
corrispondenza tra espressione ed esposizione – intesa, appunto, come progressione sistematica delle
categorie – in due passaggi fondamentali dell’analisi marxiana.
1. Il primo passaggio riguarda uno degli assunti di partenza del discorso marxiano: “la ricchezza delle
società in cui domina il modo di produzione capitalistico si manifesta fenomenicamente come una
‘immane raccolta di merci’, la merce singola come sua forma elementare. La nostra indagine comincia
perciò con l’analisi della merce” (Marx 1867, p. 45). Sono queste le parole con cui si apre il “Capitolo
primo” del Primo Libro del Capitale; la merce è posta esplicitamente come categoria iniziale del
discorso. Per Marx, inoltre, “il punto cruciale [Springpunkt] attorno al quale ruota la comprensione
dell’economia politica” (ivi, p. 52) è il doppio carattere del lavoro contenuto [enthaltenen] nella merce
(v. ivi, p. 51). L’opposizione interna della merce – cioè, l’opposizione tra valore d’uso e valore – deriva
da questa “duplice natura” (ibidem) del lavoro, che si esprime [Ausdrückt] (v. ibidem) come “lavoro
utile concreto [konkrete nützliche Arbeit]” (ivi, p. 57) e come “lavoro astrattamente umano [abstrakt
menschliche Arbeit]” (ibidem). Il lavoro utile concreto è il lavoro che produce valori d’uso per la
soddisfazione di determinati bisogni umani; il lavoro astrattamente umano coincide con il tempo di
88
lavoro socialmente necessario, cioè con “il tempo di lavoro richiesto per produrre un qualsivoglia valore
d’uso con le date condizioni di produzione socialmente normali e con un grado medio d’intensità e
qualifica del lavoro” (ivi, p. 49). Questo tipo di lavoro costituisce la Sostanza di valore [Wertsubstanz],
una proprietà [Eigenschaft] comune a tutte le merci. Marx attribuisce alla Sostanza di valore due
attributi: a) essa possiede una “spettrale oggettualità” [gespenstige Gegenständlichkeit]” (ivi, p. 48); b)
essa è “una mera gelatina [Gallerte] di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza-lavoro umana
senza riguardo alla forma del suo dispendio” (ibidem). Nel paragrafo 3 mostrerò come il “modo
d’esistenza ‘fantasmatico’” (Bellofiore 2013, p. 11) della Sostanza, la sua spettrale oggettualità, implichi
– nell’argomentazione Marxiana – che essa debba necessariamente manifestarsi attraverso una forma –
una relazione – e che debba “‘prendere possesso’” (Bellofiore 2013, p. 25) del corpo di un’altra merce:
più specificamente, del corpo della merce che assume il ruolo di Denaro – cioè, di merce in grado di
esprimere il valore di tutte le altre merci. Il corpo del Denaro sarà costituito da un materiale specifico:
l’oro; e il processo attraverso cui la Sostanza di valore si esprimerà nella Forma Denaro sarà definito
Materiatura [Materiatur]; questo processo di espressione richiede che il materiale – in cui la Sostanza
sarà incorporata [verkörperter] – possegga delle qualità peculiari. Nei paragrafi 4 e 5 mostrerò, invece,
come l’attributo materiale della Sostanza di valore – il suo carattere “gelatinoso” – sia il risultato di un
processo operato dalla Forma di valore che – coerentemente con l’impostazione greimasiana –
“‘informa’ [la materia] mentre ‘forma’ l’oggetto conoscibile” (Greimas, Courtés 1979, p. 148). Queste
argomentazioni conducono al secondo passaggio.
2. La duplice natura del lavoro esposto nella merce pone la merce stessa come una categoria fondata
su un’“opposizione immanente [immanenten Gegensatz]” (Marx 1867, p. 117): appunto, l’opposizione
“tra valore d’uso e valore” (ibidem, corsivo mio). La merce “si espone [darstellt] come questo doppio
che essa è, non appena il suo valore possiede una propria forma fenomenica [Erscheinungsform] diversa
dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio” (ivi, p. 71, corsivo mio). Pertanto, il valore di
una merce può apparire [Erscheinen] solo in una forma diversa dalla forma corporea della stessa merce
– cioè, dal suo valore d’uso. Inoltre, la merce il cui valore deve esporsi “non possiede mai questa forma
considerata isolatamente, bensì sempre solo nel rapporto di valore, ovvero di scambio, con una seconda
merce di genere diverso” (ibidem). Dunque, “l’espressione di valore [Wertausdruck]” (ivi, p. 63) può
avvenire solo attraverso l’equiparazione di due merci.
Quando una merce viene scambiata con un’altra, l’opposizione interna [innere Gegensatz] a ciascuna
di esse si sviluppa [entwickelt] in una “opposizione esterna [aüßeren Gegensatz]” (ivi, p. 72). Il rapporto
di scambio tra due merci coincide con il valore di scambio, cioè con la Forma di valore: la forma senza
la quale il valore – inteso come Sostanza – non può manifestarsi. Per Marx, “lo sviluppo della forma di
merce coincide con lo sviluppo della forma di valore” (ibidem). Di conseguenza, questo sviluppo
[Entwicklung] può essere inteso come il processo attraverso il quale la Sostanza di valore si espone in
determinate relazioni, cioè attraverso Forme diverse e progressivamente determinate: dalla Forma
Semplice di Valore – cioè, il più elementare rapporto di scambio tra due merci – alla Forma Denaro –
e al Denaro come capitale. Per definire l’atto attraverso cui avviene questo processo, Marx utilizza il
concetto di “Darstellung”: la opposizione interna della forma di merce è presentata o esposta – cioè,
determinata a un livello concettuale più complesso – da un’opposizione esterna. Infatti, “il valore di una
merce è espresso [ausgedrückt] in modo autonomo attraverso la sua esposizione [Darstellung] come
‘valore di scambio’” (ivi, p. 71, corsivo mio)3.
Queste considerazioni permettono di chiarire la progressiva determinazione categoriale su cui si fonda
il metodo marxiano: il dominio-oggetto “merce” – il punto di partenza dell’indagine – si determina in
primo luogo attraverso l’esposizione della relazione oppositiva tra valore d’uso e valore; tuttavia, dice
3
In questo passaggio si nota la continuità tra il verbo ausdrücken – designante i processi di semiosi – e il verbo darstellen
– designante i processi della semiotica scientifica, intesa come la semiotica-oggetto di cui mostrare le regole.
89
Marx, “al valore non sta scritto in fronte che cosa esso sia” (Marx 1867, p. 85). Infatti, il “valore” è un
concetto complesso e, da un punto di vista logico, di esso non si può esporre nulla anteriormente alla
sua manifestazione [Erscheinung] in determinate Forme [Formen]. Una prospettiva che presenta delle
assonanze con l’assunto greimasiano secondo il quale, “anteriormente alle sue manifestazioni sotto forma
di significazione articolata, nulla si può dire del senso” (Greimas, Courtés 1979, p. 320).
Il valore – da un punto di vista marxiano – è sia Forma che Sostanza; e come Sostanza, il valore non può
esistere separatamente dalla sua Forma (v. Fineschi 2001, p. 79). Ciò vuol dire che il senso della categoria
di “Merce” si è maggiormente articolato grazie all’individuazione del rapporto oppositivo tra altre due
categorie: Valore d’uso e Valore; che questa opposizione si espone attraverso la relazione con un’altra
merce caratterizzata da un’omologa relazione oppositiva; e che la relazione tra le due merci viene a sua
volta determinata dalla relazione dialettica tra altre due categorie: la Forma e la Sostanza di valore.
Partendo da queste premesse generali, penso che sia possibile definire la Forma Merce ricorrendo alla
voce “Elemento” del Dizionario (1979) di Greimas e Courtés; più specificamente, la merce si può
identificare come una “unità elementare prima” (Greimas, Courtés 1979, p. 118), un “reticolo
relazionale” (ibidem) articolante la “categoria” (ibidem) di “Merce” attraverso relazioni di contrarietà,
contraddizione e implicazione. In questa prospettiva, la Forma Merce può configurarsi come una
“struttura” (ivi, p. 34) ed essere rappresentata da un quadrato semiotico4.
4
Mi permetto di rimandare a Borrelli (2020) per un’analisi approfondita del quadrato semiotico della Forma Merce.
90
3. Il quadrato semiotico della Forma Merce
Fig. 1 – Quadrato semiotico della Forma Merce.
Il quadrato semiotico illustra un rapporto di scambio tra due merci: La Merce 1 è di proprietà del
Produttore 1; questi, scambiando la sua Merce 1, vuole ottenere la Merce 2 (di proprietà del Produttore
2). Per quanto riguarda il Produttore 2 – ovviamente – vale il contrario. In una prospettiva greimasiana,
si potrebbe affermare che il microuniverso semantico della merce sia in realtà costituito dal rapporto tra
due merci, perché – secondo Marx – “il rapporto con le altre merci […] è immanente al concetto stesso
di merce” (Fineschi 2006, p. 147, corsivo mio); ciò implica che, per essere una merce, ogni merce deve
essere in rapporto con altre merci; altrimenti, “non è una merce” (ibidem).
In linea con le argomentazioni di Marx, l’asse dei contrari espone il fatto che i valori d’uso di due merci
siano incommensurabili: esponendo un differente lavoro utile concreto e soddisfacendo un differente
tipo di bisogno, ogni valore d’uso è differente dal punto di vista qualitativo – e, di conseguenza,
incommensurabile. Dunque, la categoria dell’Incommensurabilità pone la prima opposizione
fondamentale del quadrato. L’asse dei sub-contrari, di converso, espone il fatto che i valori di due merci
91
siano non-incommensurabili e perciò siano commensurabili da un punto di vista quantitativo. Più
precisamente, secondo Marx è possibile comparare il valore di due merci perché sono riducibili quel
“qualcosa di comune” (Marx 1867, p. 47) costituito dalla Sostanza di valore. Dunque, l’asse dei
subcontrari esprimerà la relazione che nega l’incommensurabilità dei valori d’uso: la relazione di Non-
Incommensurabilità o Commensurabilità.
Gli schemi – cioè, le relazioni di contraddizione (v. Greimas, Courtés 1979, p. 79) – collegano i contrari
con i sub-contrari. Nel quadrato semiotico della Forma Merce gli schemi rappresentano la Forma di
valore intesa come rapporto tra due merci: una merce in Forma Relativa e una merce in Forma
d’equivalente. Per Marx, la merce in Forma relativa non può esprimere il proprio valore attraverso il
suo “corpo” o la sua “pelle naturale [Naturalhaut]” (Marx 1867, p. 67) – cioè, attraverso il proprio valore
d’uso; per fare ciò, questa merce avrà necessariamente bisogno del corpo – cioè, del valore d’uso – della
merce in Forma d’equivalente, che dovrà fungere da materiale per l’espressione del valore della merce
in Forma relativa.
Si arriva così alla questione della Materiatura. Come detto, la Sostanza di valore è un fantasma che, per
manifestarsi in una Forma, deve “‘prendere possesso’” (Bellofiore 2013, p. 25) del corpo di un’altra
merce, cioè del suo valore d’uso; questa presa di possesso – corrispondente all’espressione del valore
[Wertausdruck] – può essere letta come un passaggio dell’algoritmo di trasformazione del discorso
scientifico di Marx; più specificamente, penso che l’algoritmo di trasformazione marxiano possa essere
letto come un algoritmo dialettico (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 30). Secondo Greimas e Courtés,
“quando un algoritmo comporta delle istruzioni che prevedono il passaggio, sul quadrato semiotico, da
un termine primitivo (s1) al suo contraddittorio [n](s1), e da questo, per implicazione, al contrario del
primo (s2), può essere detto dialettico” (ibidem). Mi sembra che questo tipo di passaggio possa essere
riscontrato anche sul quadrato semiotico della merce, consentendo di impostare una lettura semiotica
del rapporto tra le categorie marxiane di forma, sostanza e materia.
Fig. 2 – La Forma Denaro attribuisce la funzione di Wertkörper all’oro.
92
Consideriamo la forma corporea della Merce 1 – cioè, il suo valore d’uso (Vdu1) – come il termine
primitivo (s1). La Merce 1 può esprimere il suo valore (V1) – cioè il termine contraddittorio (ns1) del
termine primitivo (s1) – solo attraverso il contrario del suo valore d’uso (Vd1), cioè attraverso il termine
(s2). Si può quindi affermare che il termine contraddittorio V1/ns1 implichi necessariamente il termine
Vdu2/s2. Questo livello di analisi, tuttavia, suppone che l’universo semantico della Forma merce sia
maggiormente determinato; pertanto, il ruolo della Merce 1 sarà svolto da una merce generica (ad
esempio la tela) e il ruolo della Merce 2 sarà svolto da una merce particolare: l’oro; questa
rappresentazione sul quadrato mira a mostrare perché la Forma di valore – nel suo sviluppo di Forma
Denaro – implichi l’oro come propria “materialità conforme” (Fineschi 2001, p. 109).
Secondo Marx, considerato nella sua semplice dimensione materiale, l’oro non ha un valore intrinseco;
l’oro in sé non è denaro: l’oro serve ad esempio “per otturare denti cariati, come materia prima per
articoli di lusso, ecc.” (Marx 167, p. 102). È la Forma di valore – cioè il rapporto di scambio tra una
merce in Forma Relativa e un’altra merce in Forma d’Equivalente – che designa l’oro come materialità
appropriata della Forma Denaro; dunque, all’interno della dialettica della Forma di valore, la funzione
del denaro è quella di “servire da forma fenomenica [Erscheinungsform] del valore delle merci, vale a
dire da materiale in cui le grandezze di valore delle merci si esprimono [ausdrücken] socialmente”
(ibidem). L’oro diventa così un corpo di valore [Wertkörper].
Pertanto, “forma fenomenica adeguata di valore, o materiatura [Materiatur] di lavoro umano astratto e
perciò uguale, può esserlo solo una materia [Materie] tutti gli esemplari della quale posseggano la stessa
qualità uniforme” (ibidem). Inoltre, “poiché la distinzione delle grandezze di valore è puramente
quantitativa, la merce-denaro deve essere capace di distinzioni puramente quantitative, deve dunque
essere divisibile ad arbitrio e di nuovo ricomponibile dalle sue parti. Ma oro ed argento posseggono
queste proprietà per natura” (ibidem). Dunque,
La prima funzione dell’oro consiste nel fornire al mondo delle merci il materiale della sua
espressione di valore, vale a dire nell’esporre il valore delle merci come grandezze uniformi,
qualitativamente uguali e quantitativamente comparabili. Così esso funziona da misura universale
dei valori e solo attraverso questa funzione l’oro, la specifica merce equivalente, diviene in primo
luogo denaro (ivi, p. 107).
Quindi, è la dialettica della Forma di valore che attribuisce all’oro questa specifica funzione sociale:
cioè, essere il materiale attraverso cui misurare le grandezze di valore delle merci. La deissi del quadrato
semiotico può illustrare questo concetto; in particolare, è possibile affermare che il Denaro – inteso come
“progresso” (ivi, p. 81) della Forma Universale d’Equivalente – implica l’oro come valore d’uso
specifico. 5 Attraverso la Forma di valore, l’oro “riceve un valore d’uso formale che sorge dalle sue
specifiche funzioni sociali” (ivi, p. 101). Quest’ultimo assunto consente di chiarire le relazioni logico-
semantiche del quadrato semiotico della merce. Marx sottolinea che non è la merce in Forma di
Equivalente “ad esprimere il proprio valore” (ivi, p. 59); in effetti, la Forma di Equivalente “fornisce
solamente il materiale all’espressione di valore di un’altra merce” (ibid.). Questo concetto può essere
illustrato dagli schemi del quadrato: La Merce 2 (con il suo specifico valore d’uso Vdu2) costituisce il
materiale attraverso cui può essere espresso il valore della Merce 1 (NVdu1, cioè V1). Ovviamente, è il
contrario se la Merce 1 è considerata come Forma di Equivalente. Tuttavia, attraverso i diversi passaggi
che dalla Forma semplice di valore portano alla Forma Denaro questa reciprocità è esclusa: perché è solo
la Merce 2 – in quanto Merce-Denaro – a garantire l’espressione di valore di qualsiasi altra merce.
5“Il progresso consiste solo nel fatto, che la forma di immediata scambiabilità universale, ovvero la forma
universale di equivalente , si è adesso definitivamente unita, grazie alla consuetudine sociale, alla specifica forma
naturale della merce oro” (Marx 1867, p. 81).
93
4. Dal livello profondo al livello superficiale: attanti e attori
Partendo da queste considerazioni, diviene possibile comprendere perché la teoria marxiana della
Merce possa essere intesa come una semiotica in cui si espongono dei processi di trasformazione della
materia attraverso Forme che originano una Sostanza – appunto, la Sostanza di valore [Wertsubstanz].
Per comprendere ulteriormente questo punto è opportuno procedere con alcune specificazioni.
Si è detto che il valore – inteso come Sostanza – non può esistere separatamente dalla sua Forma. A ciò
va aggiunto che, in linea con il quadro categoriale hegeliano (cf. Ehrbar 2010, p. 29), Marx pone la
Sostanza come una grandezza [Größe] che deve essere misurata – e, di conseguenza, determinata. In
quanto grandezza, la Sostanza deve essere determinata come misura [Maß], cioè come “giusta quantità
per una data qualità” (ibidem, trad. mia). Per essere determinata quantitativamente – cioè per essere
misurata – la sostanza di valore deve manifestarsi [Erscheinen] in una Forma specifica, appunto la Forma
di valore costituita dal rapporto di scambio tra due merci – cioè, dal valore di scambio6. Ciò significa
che la Sostanza di valore può essere misurata solo attraverso la sua Forma (cioè, il valore di scambio) e
dunque che può essere determinata quantitativamente solo nel rapporto di scambio.
L’elemento che permette questa determinazione quantitativa è il Denaro. Come visto, Marx definisce il
lavoro astrattamente umano – la Sostanza di valore – come una “grandezza misurata in unità di tempo
[…] secondo una qualche media sociale” (Bellofiore 2013, p. 20): il tempo di lavoro socialmente
necessario. Tuttavia, se il tempo di lavoro sia o meno socialmente necessario lo decide “lo stomaco del
mercato” (Marx 1867, p. 120): se il mercato non sarà in grado di assorbire una certa quantità di merci
prodotte, vorrà dire che nella produzione di quella quantità di merci sarà stata spesa “una parte troppo
grossa del lavoro sociale complessivo” (ibidem), e dunque che quelle merci conterranno “tempo di
lavoro speso in modo superfluo” (ibidem). Il Denaro è il misuratore (cf. Fineschi 2001, p. 59) attraverso
cui determinare se il tempo di lavoro da dedicare alla produzione di una certa quantità di merci sia
stato superfluo o necessario.
Ma come avviene in realtà questa misurazione? Secondo Bellofiore (2009), per rispondere a questa
domanda è necessario considerare il mercato del lavoro, dove la “compera della forza-lavoro […]
permette all’imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione immediata” (ivi, p. 158); un acquisto
che avviene “in cambio di un salario monetario da spendere nell’acquisto dei beni salario” (ivi, p. 173).
Più specificamente, il salario monetario corrisponde al “tempo di lavoro (produttore di merci) richiesto
alla riproduzione della capacità di lavoro [degli operai]” (ivi, p. 175); Marx definisce questo tempo come
“lavoro necessario”, corrispondente al tempo di lavoro impiegato per produrre quei beni salario. In
cambio del salario, i capitalisti ricevono una quantità di “pluslavoro” che supera il tempo di lavoro
necessario e – di conseguenza – i costi pagati per la riproduzione dei lavoratori.
D’altro canto, questo atto di apertura presuppone – a sua volta – una fase precedente. Infatti, prima di
iniziare con la produzione effettiva di merci, i capitalisti stimano il valore ipotetico della forza lavoro –
cioè, quanto dovrebbero spendere per la riproduzione dei lavoratori – e, sulla base di questa stima,
chiedono un credito alle banche; è questa la fase in cui le imprese stabiliscono il loro “monte salari
monetario” (ivi, p. 174). Dunque, alla luce di questi presupposti, è possibile affermare che l’atto di
misurazione avvenga prima dell’inizio della produzione effettiva; inoltre, questa “ante-validazione
monetaria” (ivi, p. 182) coincide con il momento in cui inizia l’“astrazione” del lavoro. Tuttavia, questa
è solo una “valorizzazione potenziale” (ivi, p. 175) e, in questa fase, il lavoro astrattamente umano si
presenta in uno stato “latente” (ivi, p. 193). È possibile misurare il tempo di lavoro socialmente necessario
solo nel momento in cui avviene un ulteriore atto di misurazione: cioè, quando le merci vengono
effettivamente scambiate sul mercato con il denaro – il misuratore del valore; grazie a questo scambio,
6
Questa sinonimia è stabilita dallo stesso Marx. Il paragrafo 1.3. del Primo Libro del Capitale è in realtà intitolato
“La forma di valore ovvero il valore di scambio” (Marx 1867, p. 57).
94
l’astrazione del lavoro diventa effettiva e il lavoro astrattamente umano “viene ad esistere” (ivi, p. 196)
come Sostanza di valore.
Il risultato finale di questo processo è il seguente: l’espressione monetaria del tempo di lavoro
socialmente necessario – cioè, la misura determinata attraverso il misuratore “denaro” – coincide con il
“valore aggiunto” (ivi, p. 160) che le imprese conseguono vendendo le proprie merci; questo plusvalore
deriva dal pluslavoro, cioè dalla “differenza positiva tra, da una parte, tutto il lavoro vivo speso nella
produzione del prodotto netto del capitale, e, dall’altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla
riproduzione dei salari, che Marx chiama lavoro necessario” (ibidem). È così che avviene il processo di
costituzione del valore nel modo di produzione capitalistico: “nel capitalismo c’è ‘creazione’ di valore
solo in quanto c’è ‘creazione’ di plusvalore, ossia valorizzazione” (ivi, p. 175). Da tutte queste
argomentazioni si dovrebbe facilmente comprendere come – in una prospettiva marxiana –
l’“astrazione” del lavoro sia il risultato di determinati processi economici. Dunque, la dialettica tra Forma
e Sostanza di valore espone – cioè, spiega la logica di – una determinata pratica, una pratica che si
articola tra il mercato delle merci e quello del lavoro; la teoria marxiana della Forma Merce – con tutte
le sue determinazioni categoriali – può essere quindi considerata la semiotica oggetto che descrive questi
processi pratico-semiosici.
Queste ulteriori specificazioni categoriali potrebbero consentire di delineare una riformulazione verticale
(cf. Greimas, Courtés 1979, p. 368) dalla struttura profonda – costituita dal quadrato semiotico della
merce – a un livello superficiale costituito da strutture semiotiche e narrative. In linea con la teoria
greimasiana, va sottolineato che questo livello è caratterizzato da una sintassi antropomorfa che
“sostituisce alle operazioni logiche i soggetti di fare e definisce i soggetti di stato attraverso la loro
giunzione con oggetti suscettibili di essere investiti di valori che li determinano” (ivi, p. 33). È possibile
individuare un omologo procedimento di conversione (cf. ivi, pp. 81-82) nelle modalità in cui Marx
struttura la propria teoria? Ritengo che si possa rispondere in maniera positiva; in particolare, questa
risposta si basa sulla possibilità di considerare i valori d’uso posti sull’asse dei contrari come oggetti di
valore a cui un certo attore sociale è congiunto o da cui è disgiunto. Concentriamoci sulle
argomentazioni di Marx.
Per ciascun possessore, la propria merce non ha
alcun valore d’uso immediato. Altrimenti non la porterebbe al mercato. Essa ha valore d’uso per altri.
Per lui essa ha solo il valore d’uso di essere portatrice di valore di scambio e, dunque, mezzo di
scambio. Perciò egli la vuole alienare per una merce il cui valore d’uso lo soddisfi. Tutte le merci sono
non-valore d’uso per i loro possessori, valore d’uso per i loro non-possessori (Marx 1867, p. 98).
In questo passaggio, Marx illustra una situazione astratta in cui ogni soggetto considera la propria merce
come un mezzo di scambio per ottenere – cioè per congiungersi con – la merce di un altro soggetto. Gli
attori sociali si oppongono come proprietari o non proprietari di certi oggetti di valore. A mio modo di
vedere, è interessante sottolineare che questa opposizione, secondo Marx, risiede in quella che potrebbe
essere considerata la “struttura profonda” del percorso generativo della sua teoria economica: la Forma
Merce (schematizzata nel quadrato semiotico); a livello superficiale questa opposizione prende la forma
di un “contratto” (ivi, p. 97) tra “possessori di merci” (ivi, p. 98). A questo proposito, è interessante
osservare che Marx descriva i possessori di merci coinvolti in questa relazione superficiale come
maschere di carattere [Charaktermasken]: queste “maschere [di carattere] economiche delle persone
sono solo le personificazioni [Personifikationen] dei rapporti economici” (ibid., trad. leggermente
modificata da me).
Quest’ultimo punto richiede un chiarimento categoriale e teorico. Il concetto di “personificazione”
[Personifikation], cui fa riferimento Marx, non va confuso con la “personificazione” [Personnification]
come definita da Greimas e Courtés; in realtà, Marx non si riferisce qui a “un procedimento narrativo
che consiste nell’attribuire a un oggetto (una cosa, un’entità astratta, o un essere non umano) delle
95
proprietà che permettono di essere considerarlo come un soggetto” (Greimas, Courtés 1986, p. 252);
piuttosto, le “maschere di carattere” possono essere considerate gli attanti di una relazione di superficie:
il contratto, appunto. Come sottolinea Ehrbar, “la maschera di carattere è una relazione superficiale:
essa consiste nei ruoli sociali che le persone svolgono nelle loro interazioni. Questi ruoli non sono una
creazione degli individui stessi, ma una conseguenza delle relazioni economiche in cui questi individui
si trovano” (Ehrbar 2010, p. 589, trad. mia).
Secondo Ehrbar, Marx prende in prestito il concetto di “maschera di carattere” “dal teatro greco, dove
gli attori indossavano maschere rappresentanti i personaggi che impersonavano” (ivi, pp. 588-589).
Partendo da questa considerazione, si può ipotizzare un parallelo tra il concetto di “maschera di
carattere” e la “dramatis persona”, la categoria da cui deriva il concetto di “attante” (cf. Greimas, Courtés
1979, p. 40); più specificamente, mi sembra possibile stabilire il seguente parallelo: gli attanti possono
essere considerati come funzioni che operano sulla struttura di superficie, proprio come le “maschere di
carattere” (i possessori delle merci) sono elementi che operano – come direbbe Marx – “sulla superficie
[die Oberfläche] della società borghese” (Marx a Engels 2 Aprile 1858, cit. in Ehrbar 2010, p. 589, trad.
mia). Proprio come gli attanti, i soggetti sociali – in quanto possessori di merci – possono essere
considerati come emanazioni di “operazioni più profonde [tiefern Operationen]” (ibid.). Queste
operazioni più profonde sono costituite – appunto – dalle relazioni articolate sul quadrato semiotico
della Forma Merce.
Le “maschere di carattere” dei possessori delle merci – intesi come loro venditori e acquirenti –
riceveranno il loro contenuto semantico nel momento in cui Marx introdurrà l’opposizione tra le due
soggettività fondamentali del modo di produzione capitalistico: cioè l’opposizione tra capitalisti e
lavoratori. Da questa prospettiva, la mia ipotesi è che gli attori della “narrazione” marxiana siano
costituiti dalla classe dei proprietari dei mezzi di produzione (lavoro morto) e dalla classe dei proprietari
della forza lavoro (lavoro vivo).
Fig. 3 – Quadrato semiotico dello scambio (disuguale) tra lavoratori e capitalisti.
96
5. Conclusioni
In queste pagine, ho provato a mostrare come la dialettica della Forma di valore possa essere considerata
l’algoritmo che genera un processo continuo di dematerializzazioni e rimaterializzazioni. A eventuale –
ulteriore – supporto di questa proposta, propongo di leggere il capitolo terzo del Libro primo del
Capitale – intitolato “Il denaro ovvero la circolazione delle merci” – come un testo in cui vengono
presentate efficacemente delle traduzioni intersemiotiche.
Come visto, la dialettica della Forma di valore designa l’oro come materialità appropriata della Forma
Denaro: l’oro diviene merce-denaro grazie alla sua proprietà materiale di essere “scomponibile e ad
arbitrio di nuovo ricomponibile” (Marx 1867, p. 102); una qualità che rende l’oro – e gli altri metalli
preziosi – in grado di svolgere la funzione di misuratori del valore, cioè di consentire la distinzione
puramente quantitativa dei valori delle merci. Ed è a questo punto che Marx pone una traduzione
intersemiotica; la distinzione quantitativa dei valori viene rappresentata attraverso un’altra distinzione
quantitativa: la scala [Maßstab] del peso dell’oro e degli altri metalli preziosi7.
Questo processo traduttivo ha come punto di partenza la prassi sociale che fissa una quantità d’oro
corrispondente a una determinata misura di peso – p.es. la libbra, da cui il nome monetario “lira” – e
fraziona questa misura in altre misure di peso – p.es. le once. Queste denominazioni delle misure di
peso dei metalli preziosi – principalmente oro e argento – diventano denominazioni del denaro e, di
conseguenza, denominazioni della scala dei prezzi. Il prezzo è quindi una “denominazione monetaria
[Münzname]” (ivi, p. 81); un nome numerico che traduce un determinato peso d’oro; dunque, un’altra
quantità, un altro nome numerico. Una traduzione da un’unità di misura a un’altra unità di misura, da
un numero a un altro numero.
Come figura [Gestalt] della Forma Denaro, la moneta [Die Münze] – definita da Marx “segno di valore
[Das Wertzeichen]” (ivi, p. 138) – è un pezzo d’oro avente lo stesso nome [gleichnamig] del peso dell’oro.
Tuttavia questa omonimia si interrompe nel momento in cui, passando di mano in mano, le monete
d’oro si consumano, perdono il proprio peso: letteralmente, si dematerializzano.
Il corpo deperibile dell’oro non assolve più la sua funzione di denaro in maniera efficiente. E così, a
partire dal medioevo, si afferma la tendenza a trasformare l’essere d’oro della moneta [das Goldsein der
Münze] in una parvenza d’oro [Goldschein], una parvenza che può essere assunta da simboli [Symbole];
cioè, una parvenza che può essere assunta prima da monete di altro materiale – p.es., di argento o di
rame – e successivamente da “cose relativamente prive di valore, cedole di carta” (ivi, p. 140) il cui
carattere puramente simbolico è ancora più evidente (cf. ibidem). Si afferma in questo modo il “denaro
cartaceo statale con corso forzoso” (ibidem). Dunque, dice Marx,
il denaro cartaceo è segno d’oro, ossia segno di denaro. Il suo rapporto coi valori delle merci consiste
solo nel fatto che essi sono espressi idealmente negli stessi quanta d’oro, che vengono esposti
simbolicamente ai sensi dalla carta. Solo nella misura in cui è rappresentante di quanta d’oro, che,
come tutti gli altri quanta di merce, sono anche quanta di valore, il denaro cartaceo è segno di valore
(ivi, p. 141).
L’essere divenuto segno di valore implica che l’esserci materiale [materiell] del denaro è stato
assorbito 8 dal suo esserci funzionale [funktionell Dasein]. Il denaro può così ridursi a mera funzione
priva di corpo metallico.
Con questa breve ricostruzione dell’esposizione marxiana della Forma Denaro ho provato a mostrare
come, in un processo di manifestazione attraverso forme differenti, il valore abbia preso corpo in materie
7 Dice, a questo proposito, Marx: “pima di diventare denaro, oro, argento e rame posseggono già tali scale nei
loro pesi metallici” (ivi, p. 110).
8
Marx usa il verbo absorbieren.
97
differenti: dapprima si è materializzato nell’oro; ma la dematerializzazione dell’oro ha reso necessaria
l’istituzione sociale di un segno di valore – il denaro cartaceo – e, con esso, la designazione di una nuova
materia adeguata allo sviluppo della forma di valore – la carta, appunto. Questa ricostruzione potrebbe
supportare quanto affermato da Rossi-Landi a proposito del carattere tipicamente semiotico (cf. Rossi-
Landi 1968, p. 119) della critica marxiana dell’economia politica. Attraverso l’esposizione della Forma di
valore, Marx mostra il carattere segnico-comunicativo delle complesse relazioni che si stabiliscono tra le
proprietà di determinati materiali e le funzioni sociali che quegli stessi materiali sono chiamati ad assolvere.
Questo tentativo di lettura semiotica dei rapporti tra le categorie di Forma, Sostanza e Materia(/e) si
conclude con alcune considerazioni sulla metafora utilizzata da Marx -- con un tono tra l’allegorico e il
satirico (cf. Sutherland 2008, p. 9) – per identificare la Sostanza di valore: la gelatina [Gallerte].
Precedentemente, ho accennato al fatto che l’attributo materiale della Sostanza di valore – il suo carattere
“gelatinoso” – sia il risultato di un processo operato dalla Forma di valore; in questa prospettiva – e
coerentemente con l’impostazione greimasiana – la Forma di valore “‘informa’ [la materia] mentre
‘forma’ l’oggetto conoscibile” (Greimas, Courtés 1979, p. 148) – lo stesso principio della Darstellung.
Verrebbe da chiedersi perché Marx abbia scelto proprio questo materiale – la gelatina [Gallerte] – per
parlare della Sostanza. Una scelta casuale? Ovviamente no. Si potrebbe dire che, connotando la Sostanza
di valore come una gelatina, Marx abbia voluto provocare uno specifico effetto di senso (cf. Greimas,
Courtés 1979, p. 117).
Secondo Keston Sutherland, raffigurando il lavoro astrattamente umano come una gelatina, “Marx non
ha voluto semplicemente dare un’informazione ai lettori, ma disgustarli” (2008, p. 7, trad. mia). Citando
la voce “Gallerte” della Meyers Konversations-Lexicon – un’enciclopedia molto nota all’epoca di Marx
-- Sutherland mostra come il termine sia un esplicito riferimento alla gelatina animale: una “massa
semisolida e tremula, ottenuta raffreddando una concentrato di soluzione collosa” (ivi, p. 8). Un
concentrato colloso che si può ottenere facendo bollire – e raffreddare – le più svariate materie di origine
animale: “carne, ossa, tessuto connettivo, colla di pesce, corna di cervo, ecc.” (ibidem, trad. mia).
Secondo Sutherland, il paragone con il lavoro umano è chiaro: prima di essere erogata in cambio di un
salario, la forza lavoro umana – il “dispendio produttivo di cervello, muscoli, nervi, mani ecc. umani”
(Marx 1867, p. 54) – si trova in uno “stato fluido” (ivi, p. 61). Il lavoro vivo si coagula in una gelatina di
lavoro umano indistinto nel momento in cui viene erogato – cioè, sfruttato oltre il tempo di lavoro
necessario – in cambio del salario – la forma monetaria dei beni che consentono la riproduzione dei
lavoratori – e le merci prodotte vengono scambiate sul mercato – realizzando un plusvalore. Il Denaro
come capitale – stadio finale della Forma di valore – ha trasformato una materia fluida e vivente in una
gelatina esanime: “le mani, i cervelli, i muscoli e i nervi viventi dei lavoratori sono solo mere ‘sostanze
animali’, ingredienti al banchetto del capitalista” (Southerland 2008, p. 8, trad. mia).
In questa prospettiva, si può dire che la metafora della “gelatina” sia un punto di arrivo – a mio modo
di vedere – semioticamente interessante. La Sostanza di valore è il risultato di una serie di trasformazioni
– e traduzioni – in cui entrano in gioco materiali differenti (i corpi delle merci, i corpi dei lavoratori,
l’oro) e pratiche sociali semiosiche (la produzione e lo scambio di merci). Queste trasformazioni non
potrebbero avvenire senza un determinato rapporto formale, di cui è possibile ricostruire – almeno in
parte – il funzionamento.
Vorrei concludere sottolineando che il mio tentativo di inquadramento semiotico della teoria marxiana
è ben lontano dall’essere esaustivo, e il risultato che ho provato a raggiungere in questo lavoro non è
che un’ipotesi da sviluppare attraverso ricerche future.
98
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99
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Alice Giannitrapani
Abstract. This paper focuses on the art of mixology, taking into consideration the transformations of matter that
ingredients go through in their preparation, on the basis of an analysis of the recipe books dedicated to the topic.
We will begin by questioning the meaning of the term cocktail and will continue by identifying the elementary
composition of a drink to then focus on four aspects: 1) operations on the ingredients: the creation of a cocktail
involves the execution of actions that can be described according to the terminology used by Bastide (1987); 2)
material characteristics of the drink: different mixing techniques produce different effects in terms of colourations,
consistencies, kinds of drinks produced; 3) intersubjectivity/interobjectivity: from production to tasting, several
subjects and objects intervene and they are linked to each other in chains of relations definable in attantial terms;
4) enunciational subjects: the mixologist and the taster are required to master specific gestural syntagmas that
produce further materiality effects.
1. Introduzione
Il mondo del cocktail incrocia aspetti sociali e tecnici, salutisti ed edonistici e, nella sua complessità, si
presta a essere studiato da diversi punti di vista. Se ne può tracciare una storia, se ne possono prevedere
tendenze, si può analizzare il valore – relazionale – che ciascun drink assume sulla base di ciò che lo
accompagna e/o dell’occasione di consumo. Affronteremo qui, tra i tanti tagli possibili, quello del
discorso sulla materia. Faremo questo sulla base di quanto emerge da alcuni manuali sui cocktail1 (le
pubblicazioni – più o meno specialistiche – sull’argomento sono tantissime), prendendo dunque in
considerazione il dover essere e il dover fare (di bevande, bartender e degustatori) e tralasciando tutto
l’ampio e pur interessantissimo ambito relativo all’etnografia del bere, ovvero agli usi concreti che dei
drink si fanno.
Le origini dei cocktail sembra siano legate alla necessità di ingentilire il sapore di alcune sostanze
medicalizzanti, da cui Bitter curativi, mixati con acqua, zucchero e distillati da utilizzare come cura
contro i morsi di serpente (Jerry Thomas Project 2019). Tra fine 700 e inizi 800, la miscela di liquidi
edibili transita dal discorso medico a quello gastronomico (caso non inedito nel campo alimentare, se si
pensa che un simile excursus è toccato alla Coca-Cola; cfr. Mangano 2014), istituzionalizzando il cocktail
come bibita da gustare – ludicamente – per puro piacere e non – in termini pratici – a fini di cura.
Secondo sorti alterne, che, come sempre, hanno intrecciato congiunture storiche, economiche, sociali
(si pensi al proibizionismo, che provocò la diffusione dei cosiddetti speakeasy, bar segreti in cui si poteva
consumare alcool), la moda dei drink mixati arriva fino a noi, imponendosi in nuovi generi di pasto
(l’aperitivo, l’apericena, l’happy hour) e affermando nuovi luoghi della commensalità (lounge bar,
concept bar, fino alle iperspecializzate ginerie o gintonicherie contemporanee).
1Si farà riferimento in particolare a Baiguera e Caselli (2021); Jerry Thomas Project (2019); Mastellari (2021);
Mastellari e Ceccarelli (2018), che costituiscono il corpus di questo lavoro.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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Grande impatto hanno avuto poi sulla storia dei cocktail i discorsi mediatici, che, andando a legare
indissolubilmente bevande e personaggi, hanno contribuito, contemporaneamente, alla mitizzazione di
entrambi. Da Hemingway, noto consumatore che ha dato il nome a uno dei cocktail ufficialmente
riconosciuti dall’IBA (International Bartender Association), a 007 e il suo Vesper Martini –
rigorosamente mescolato e non shakerato –, passando per il Latte+ venduto al Korova Milk bar con cui
si apre Arancia meccanica (“Il Korova Milk Bar vende lattepiù, cioè diciamo latte rinforzato con qualche
droguccia mescalina, che è quel che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto e disposto all’esercizio
dell’amata ultraviolenza”; Kubrick 1971) e naturalmente a Cocktail (Donaldson 1988) con Tom Cruise,
che tanto diffuse la moda del flairtending su cui ritorneremo. Solo per citarne alcuni ovviamente.
2. Il termine cocktail
Per iniziare ad addentrarci in questo composito mondo, partiamo dalla definizione dizionariale:
‹kòkteil› s. ingl. [propr. «coda (tail) di gallo (cock)», ma la formazione della parola non è certa; tra
le varie etimologie proposte, la più probabile e più accolta è quella che ritiene la voce una riduzione
dell’angloamer. cocktailed (horse) «cavallo cui è stata parzialmente tagliata la coda, che si raddrizza
come quella di un gallo», da cui «cavallo bastardo» (in quanto tale operazione non veniva fatta su
cavalli di razza), e per estens. «uomo imbastardito», e infine (inizio sec. 19°) «bevanda bastarda»
preparata cioè con un miscuglio di varî ingredienti] (pl. cocktails ‹kòkteil∫›), usato in ital. al masch.
– 1. Bevanda alcolica costituita in genere da una miscela di vermut o vini da dessert, a volte anche
di champagne, oppure succhi di frutta, con liquori forti, dolci oppure secchi (whisky, gin, cognac,
vodka etc.), talora con l’aggiunta di aromi o liquori amari, preparata in proporzioni assai variabili al
momento dell’uso e sbattuta o mescolata, per lo più con ghiaccio in frantumi, in un recipiente chiuso
(detto shaker) o in apposito bicchiere. 2. Lo stesso che cocktail-party (v.). 3. a. estens. Come termine
generico, preparazione gastronomica formata con vari ingredienti; particolarm. noto e diffuso il c.
di scampi (o di gamberetti, o anche d’aragosta), raffinato antipasto ottenuto con code di questi
crostacei lessate e, se necessario (come nel caso dell’aragosta), tagliate a pezzetti, presentate in una
coppa di cristallo sopra foglie di lattuga e ricoperte con una sorta di maionese leggera e vellutata,
preparata sbattendo insieme tuorlo d’uovo sodo schiacciato, senape, olio, succo di limone, sale,
pepe, salse aromatiche, cognac o brandy e panna liquida. b. fig. Miscuglio di più cose o elementi
(cfr. l’uso simile di macedonia): un profumo ottenuto con un c. di varie essenze orientali; un c. di
canzoni; un c. di razze; un cocktail di farmaci2.
Cocktail indica innanzi tutto una bevanda “alcolica”, dice il dizionario. Non a caso, i mix analcolici,
peraltro oggi di moda, sono chiamati mocktail – cocktail finti – poiché appunto non alcolici. La presenza
dell’alcol è in altri termini ciò che fa di un mix edibile di liquidi, un cocktail.
Altro tratto definitorio è proprio l’essere un miscuglio di sostanze, di più cose diverse tra loro, in
un’accezione che tende sempre ad avere un senso negativo, a tratti dispregiativo. L’idea di miscuglio,
tratto semantico identitario della bevanda, permane anche nella traduzione futurista italianizzata del
termine. Marinetti & co. parlavano infatti di polibibite, sottolineando grazie al prefisso la compresenza
congiunta di più sostanze.
La ricetta di un cocktail è dunque sintetizzabile in un’operazione di affermazione che consente di passare
da ingredienti dotati di una propria individualità (ingredienti intesi come totalità integrale) a un
composto che si presenta come unità integrale. Questo passaggio è reso possibile da una metaoperazione
sulla materia – “meta” in quanto, come vedremo, ne prevede altre inglobate al suo interno – di
2
È la definizione che ne dà il Treccani online, www.treccani.it/vocabolario/cocktail/ (consultato il 20 maggio 2023).
101
miscelazione, ovvero quell’operazione che nei termini di Bastide (1987) consente di passare da uno stato
semplice a uno composto.
Diversi studi hanno messo in luce come la sensibilità culturale alimentare si sia mossa nel tempo da una
cucina sintetica a una analitica, da una in cui ingredienti e sapori sono fusi fino a divenire inconfondibili
a una in cui prevale invece la discontinuità, la giustapposizione di gusti e ingredienti, riconoscibili nella
loro singolarità (Montanari 2004). Due tendenze che presuppongono patti comunicativi diversi con
l’enunciatario (cfr. Marrone 2022 e infra par. 6). Di simili argomenti ha parlato anche Rykwert (1982),
sottolineando come la cucina sia passata dalla valorizzazione di un’estetica del liscio, in cui prevaleva
l’amalgama indifferenziato (pensiamo – dice l’autore – alla maionese o alla besciamelle, come emblema
di salse di quel tipo di cucina), a quella di una estetica del grezzo, in cui gli alimenti sono riconoscibili.
Il carattere materico del grezzo rimanda sul piano del contenuto alla valorizzazione dell’imperfezione,
che a sua volta si lega all’artigianalità contrapposta al liscio perfetto tipico dei prodotti industriali. Non
è un caso che questa estetica materica del grezzo costituisca una moda trasversale rispetto a diversi
discorsi – pensiamo alla valorizzazione del grezzo nell’ambito della moda (dove spesso le etichette
sottolineano come la presenza di eventuali imperfezioni nella texture dei tessuti non sia un difetto ma
garanzia di produzione artigianale) o in quello alimentare (dove vanno di moda biscotti, fette biscottate,
paste dalla texture bitorzoluta).
Il cocktail è in questo senso una bevanda demodé: fa del liscio, del barocco, del sintetico il suo baluardo
identitario. Sebbene vada sottolineata l’emergenza, anche in questo ambito, di tendenze alla
separazione. Basti per tutti l’esempio di cocktail stratificati, ottenuti con la tecnica del layering, che ha
come esito una bevanda in cui la cui coesistenza di materie è resa immediatamente visibile sul piano
topologico e cromatico (Fig. 1).
Fig. 1 – Cocktail stratificato, preparato con la tecnica del layering.
Tornando al dizionario, il mix cui si riferisce il termine cocktail ha la caratteristica di essere
indeterminato: nella definizione 1 colpisce la ricorrenza di termini come “in genere”, “per lo più”, “in
proporzioni variabili” e il gran numero di “o” e “oppure” che indicano tutte possibili virtuali variazioni
paradigmatiche la cui realizzazione non fa venir meno l’idea di cocktail. Il cocktail è insomma un mix,
non si sa bene di cosa, né in che termini.
Per sineddoche (definizione 2) “cocktail” indica un genere di ricevimento caratterizzato da una certa
forma di socialità e da una specifica sequenza alimentare. Di seguito la definizione che il Treccani online
dà di cocktail-party:
102
‹kòkteil pàati› locuz. ingl. [comp. di cocktail e party] (pl. cocktail-parties ‹… pàati∫›), usata in ital.
come s. m. (e comunem. pronunciata ‹kòkteil pàrti›). – Ricevimento, di solito del tardo pomeriggio,
in cui si servono bevande alcoliche, bibite, sandwich e sim.: essere invitato a un c.-p.; abito da c.-p.,
abito elegante da tardo pomeriggio3.
Si tratta dunque di una festa elegante ma allo stesso tempo poco strutturata, in cui si degustano bocconi
leggeri e bevande alcoliche (i cocktail, appunto) e che riesce addirittura a dar vita a un preciso genere
di abbigliamento (l’abito da cocktail, sobrio ed elegante, ma non troppo).
La definizione 3a tiene fermo il motivo del miscuglio, allargando il campo semantico dal mondo delle
bevande al più generale discorso alimentare, indicando preparazioni allo stato solido ma che ancora
una volta producono un amalgama confuso, in cui tendono a perdersi le distinzioni tra ingredienti.
Infine (definizione 3b), il motivo del miscuglio si estende al di là del discorso gastronomico, e l’estensione
corre in parallelo a una ancor più esplicita disforia associata al termine. Il cocktail indica qualcosa di
imbastardito, sia esso un prodotto alimentare, sonoro, olfattivo etc. L’essenza “bastarda” è presente in
una delle possibili origini del termine, riportata nel Treccani online in apertura, ma anche in tutte le
pubblicazioni che parlano di cocktail, riferendosi alla coda che veniva mozzata ai cavalli non di razza e
che la faceva somigliare a quella di un gallo.
Dalla lettura del dizionario emergono insomma alcune proprietà identitarie dei cocktail riassumibili in:
miscuglio, indeterminatezza, ampia varietà, mancanza di purezza. I cocktail sarebbero dunque per
definizione bevande ibride (cfr. Marrone 2023), perché ambigue, difficilmente definibili, risultanti di
assemblaggi di elementi precedenti dotati di una propria identità, destinata in qualche modo a perdersi
con la miscelazione.
3. Componenti
Come è noto, la ricetta è un testo programmatore che fornisce all’enunciatario un saper fare, calibrando,
sulla base della competenza presupposta del lettore, ciò che può rimanere implicito e ciò che invece va
esplicitato (Greimas 1983; Marrone 2016). La ricetta mette in scena un vero e proprio racconto che, a livello
narrativo, prevede l’esecuzione di programmi e sottoprogrammi, in cui umani e non umani sono chiamati a
coordinarsi per la riuscita del piatto (nel nostro caso, della bevanda). A leggere i libri sui cocktail e le relative
ricette, si apprende che la struttura profonda della bevanda è composta da tre categorie di elementi:
1. Base (solitamente un distillato, ma anche un liquore o un succo di frutta): in termini attanziali, lo possiamo
definire come il soggetto del cocktail, quello che gli fornisce il tratto caratteriale fondamentale;
2. Coadiuvante (può essere un Vermouth, uno spumante, un succo etc.): è l’aiutante della struttura
interna del cocktail, ciò che gli attribuisce una specifica funzione (per es. un Vermouth rende il drink
un pre-dinner; un succo può servire a diminuire il tenore alcolico della bevanda etc.);
3. Correttore (un succo, uno sciroppo, una scorza di agrume etc.): è una sorta di aiutante secondario
che agisce non come il precedente in termini categoriali, conferendo una precisa direzione alla
ricetta, ma aggiungendo sfumature e generando trasformazioni spesso descritte in termini di “note”
plastiche: note di colore, sentori di profumo etc.
Vale, trattandosi di struttura profonda dell’enunciato-cocktail, il principio attanti/attori: il ruolo ricoperto
da ogni singolo componente non dipende dalla specificità dell’ingrediente ma dalle relazioni che esso
intrattiene con gli altri (tale per cui un succo può, a seconda dei casi e degli abbinamenti, essere una
base, un coadiuvante o un correttore).
3
www.treccani.it/vocabolario/cocktail-party (consultato il 20 maggio 2023).
103
3.1. Il ghiaccio
Uno statuto peculiare in questa struttura occupa il ghiaccio, ingrediente/non ingrediente che trasforma
il cocktail ma che è a sua volta una materia trasformata. Da cui tutta una serie di questioni propedeutiche
a esso relative: da dove proviene? L’acqua di cui è composto è pura o impura? E, cosa non meno
importante di cui gli esperti tengono conto, che odori ha assorbito nel processo di congelamento (odori
che potrebbero a loro volta riversarsi nel drink contaminandolo)?
Questa fondamentale componente dota il cocktail di una matericità interna in evoluzione: le
preparazioni con ghiaccio si trasformano infatti al trascorrere del tempo (si vanno diluendo), cosa di cui
i dosaggi previsti nella ricetta devono tener conto a monte. Se mal utilizzato, questo ingrediente può
rivelarsi un temibile antisoggetto in grado di mandare a monte l’intera preparazione. Il punto di
equilibrio si raggiunge con una giusta misura: il ghiaccio deve diluire – smorzando anche la forza alcolica
di preparazioni a elevata gradazione – ma non troppo; deve sciogliersi – e così trasmettere la sua
temperatura agli ingredienti –, ma non annacquare. La ricetta deve cioè strategicamente prevedere la
capacità di diluizione dei cubetti e il tempo di degustazione. Ne consegue, con riguardo a quest’ultimo
aspetto, che la bevanda va bevuta senza troppa fretta ma neanche con eccessiva lentezza, ovvero che
c’è una “giusta” temporalità e un corretto ritmo del bere inscritti nel cocktail stesso e nella sua ricetta.
Per questo i ricettari si affannano a fornire suggerimenti su come calibrare il ghiaccio in termini di
quantità, forma e presenza nella bevanda: se i prodotti sono ben freddi, ad esempio, sarà sufficiente un
blocco unico, che, avendo minore superficie di contatto con il composto, diminuirà la diluizione; per lo
shaker meglio utilizzare i cubetti, ma non fino a riempire il contenitore; con la tecnica del blend il
ghiaccio, frullato, serve a garantire una giusta consistenza – morbida – al drink; etc. (Mastellari 2021).
Tutti i manuali dedicano all’uso del ghiaccio grande spazio, anche perché si rivela un’interfaccia
mediatrice rilevante: esso deve adattarsi alla forma del contenitore per la preparazione (shaker, mixing
glass, blender), a quella del bicchiere che ospita la bevanda finita e, allo stesso tempo, alle caratteristiche
della composizione del drink.
L’ossessione per il raffreddamento senza annacquamento prevede poi tutta una serie di pre-operazioni
sulla materia che, nei termini di Bastide (1987), possiamo indicare come selezioni: tra gli oggetti del
bartender, per esempio, il secchiello deputato a contenere il ghiaccio ha una base filtrante che consente
di raccogliere separatamente l’acqua che via via si va formando; allo stesso modo, nel bicchiere e nello
shaker, prima di introdurre gli ingredienti, si devono far ruotare per un po’ dei cubetti nel contenitore,
al fine di raffreddarlo, e poi filtrare con lo strainer (il colino del bartender) in modo da eliminare l’acqua
in eccesso e lasciare la parte solida. La selezione si rivela una preliminare operazione che tende a una
purificazione del ghiaccio e, con esso, dell’intera bevanda (Bastide 1987). Ancora, in alcune
preparazioni, il ghiaccio è bandito: utilizzato come elemento di raffreddamento iniziale del bicchiere,
viene poi del tutto eliminato. Anzi, per alcuni puristi, i cocktail migliori sono proprio quelli privi di
cubetti e serviti invece in bicchieri ben refrigerati.
In generale, questo ingrediente/non-ingrediente ha uno statuto ambiguo nella composizione del drink.
Non apporta un sapore ma trasforma quello degli altri e allo stesso tempo ha una forte personalità: è un
soggetto operatore delegato in grado di provocare trasformazioni sulle materie (raffredda, diluisce,
trasforma consistenze).
104
4. Classificazioni
Nei discorsi più o meno tecnici che circolano sui cocktail, capita di imbattersi in varie tipologie che
seguono differenti criteri di catalogazione delle bevande.
C’è innanzi tutto una classificazione riconosciuta dagli addetti del settore, promossa dall’International
Bartender Association (IBA), che incanala i novanta cocktail “ufficiali” in tre categorie, distinte sulla base
di quella che è la permanenza del drink nella memoria collettiva: si identificano così gli unforgettable, i
cocktail storici, tanto da essere definiti come indimenticabili; i classici contemporanei, tradizionali ma di
più recente ideazione; e i new era drinks, legati alla contemporaneità. Assimilabili alle tre storie teorizzate
da Braudel (1949), i primi si troverebbero in linea con la storia di lunga durata, permanenti e quasi
immobili; i secondi con una storia intermedia, radicata ma più superficiale; gli ultimi con una storia di
breve durata, che cattura avvenimenti non si sa quanto destinanti ad avere effetti sistemici.
Va sottolineato come attraverso la classificazione IBA (inaugurata nel 1961 e periodicamente rinnovata) si
istituisca una vera e propria langue del bartending, nel senso che si definiscono preparazioni ufficiali e
ricette standard, istituzionalizzando allo stesso tempo alcuni cocktail (e, di converso, facendone cadere nel
dimenticatoio altri, gli esclusi). Le preparazioni entrano nella langue per prassi enunciativa, che tiene conto
delle ripetizioni di atti, di stabilizzazioni di usi, di creazioni di norme e, in ultimo, di definizioni di schemi.
Quotidianamente nuovi cocktail vengono inventati da barman più o meno affermati, ma poche creazioni
vengono riprese, diffuse e rilanciate e possono ambire a ricevere questo riconoscimento ufficiale; altre,
invece, nel tempo non vengono più “parlate”, riprodotte e reiterate e fuoriescono progressivamente dalla
gastrosfera di riferimento. Ne consegue una topografia cangiante, variabile nello spazio e nel tempo.
I cocktail oscillano sempre tra un dover essere posto come assoluto nella ricetta e tanti poter essere cui le
continue variazioni nella realizzazione danno vita (e che di fatto rimettono in discussione lo statuto
definitivo del testo programmatore). Dinamica magistralmente esemplificata in Come si fa un Maritini4,
dove bartender, aiuti bar e avventori per caso riuniti di fronte a un bancone disquisiscono in più punti
sulla “vera” composizione del cocktail Martini, sulle dosi di vermouth e gin e sul loro “corretto” equilibrio
da raggiungere. E ciascuno dei presenti, certo di possedere l’autentica ricetta, contraddice l’altro e legittima
la propria posizione in virtù di una presunta verità che imputa a un qualche istanza di destinazione
superiore (Hemingway, il manuale sui cocktail, l’Harris bar etc.) detentrice del valore di verità.
Proponendo ricette “ufficiali” l’IBA sancisce altresì l’importanza della replicabilità del cocktail. La
serialità che ne deriva fa della mixology un’arte allografa (Goodman 1968), quasi una scienza esatta, in
linea nei suoi principi più con la pasticceria (in cui la precisione di dosi è la regola da seguire per la
garanzia del risultato) che con la più generale arte culinaria (in cui i q.b., i pizzichi e gli “aggiustamenti”
sono la norma; cfr. Marrone 2016). Chiaramente, dato il type, il token è in mano al mixologist e agli
ingredienti. La qualità di questi ultimi è unanimemente promossa come una delle caratteristiche
fondamentali per la riuscita della ricetta; da cui l’enorme attenzione per i prodotti da parte dei bartender.
Una cura che non si limita ai distillati, ma si estende alle componenti analcoliche, come la tonica o i
succhi, i cui brand – specie se artigianali e di nicchia – vengono sempre più spesso snocciolati nei locali
à la page per costruire un effetto di specializzazione e di expertise in ambito mixology.
L’ossessione per la precisione e la replicabilità della ricetta emerge anche da alcune strumentazioni del
bartender. Il jigger, ovvero il misurino a doppio imbuto (Fig. 2), per esempio, consente di dosare
velocemente – la velocità sempre richiesta al bartender – la quantità dell’ingrediente utilizzato,
scientificizzando il lavoro del preparatore. Così come, in termini ancor più prescrittivi perché delegati
sull’oggetto (Latour 1993), intervengono i tappi dosatori, che predefiniscono esatte quantità di liquido
in uscita (il tappo da 20, inserito nella bottiglia, farà sì che per ogni versamento fuoriusciranno 20ml di
4
Si tratta di un racconto contenuto in Come i delfini di Marina Mizzau (1988), da cui è stato tratto l’omonimo film
(Stella 2001).
105
quell’ingrediente, Fig. 3). Esistono anche, a dire il vero, dei cosiddetti tappi versatori, dotati di un
beccuccio che incanala il flusso in uscita ma lascia in mano al mixologist la competenza del dosaggio.
In tutte le pubblicazioni sui cocktail vengono proposte le ricette IBA (oltre a ricette di altri cocktail
classici ma esclusi dalla lista ufficiale, per tutti, caso in Italia eclatante, il Gin Tonic). Accanto a esse,
però, compaiono spesso proposte di variazioni sul tema, i cosiddetti twist o twist on classic, tocchi che
personalizzano la norma, quando non ricette di nuove creazioni. Tentativi di autorializzazione
provenienti da parte di bartender affermati, che, solo in quanto tali, esperti e competenti, possono
permettersi di distaccarsi dallo schema condiviso e di innovarlo. Talvolta c’è una vera e propria
artificazione del cocktail, con bartender-star che propongono nuove creazioni a partire da stravolgimenti
operati sulla materia. Si pensi ai cocktail solidi, in cui l’alterazione dello stato, modifica una delle
proprietà semantiche necessarie del drink: la sua liquidità. Del cocktail definito dal dizionario, in altri
termini, rimane solo l’idea di mix.
Fig. 2 – Jigger. Fig. 3 – Tappo dosatore.
Altre classificazioni dei cocktail (Baiguera, Caselli 2021) si focalizzano su:
1. quantità di liquido previsto: si possono distinguere così short, medium e long drink. È una tipologia
che si basa su caratteristiche quantitative delle bevande, dunque ha come focus l’oggetto di gusto.
2. momento del consumo, che rileva la scansione aspettuale del drink rispetto al più ampio sintagma-
pasto in cui si inserisce: avremo così i pre-dinner o aperitivi (con funzione incoativa), gli after dinner
o digestivi (con funzione terminativa), gli all day drink, spesso coincidenti con i long drink o dissetanti
(caratterizzati da una aspettualità iterativa). Questa tipologia si focalizza sulla degustazione, dunque
ha come focus l’enunciatario presupposto dalla bevanda.
3. tecnica di preparazione, che prende in considerazione il modo in cui gli ingredienti sono assemblati
tra loro: ci saranno i cocktail realizzati con la tecnica build, con lo strain, con lo stir etc. Si tratta di
una classificazione che si focalizza sul lavoro del barman, dunque sulla figura dell’enunciatore.
Essendo la tipologia che più si ricollega alle trasformazioni operate sulla materia, sarà quella su cui
ci soffermeremo nel prosieguo.
5. Tecniche di costruzione
Le tecniche di costruzione si legano a precisi luoghi utopici di trasformazione della materia (Greimas
1983) e prevedono una serie di processi traducibili in quelle che Bastide (1987) chiama operazioni
elementari (ed elementali, potremmo dire), accoppiate a due a due. A due a due perché la fabbricazione
di un oggetto, che la studiosa intende come pratica di bricolage, prevede l’alterazione di alcune
caratteristiche delle componenti di partenza (una negazione o trasformazione del loro valore) finalizzata
106
alla produzione di un nuovo oggetto (e all’affermazione, di conseguenza, di un nuovo valore). Di seguito
una breve ricognizione delle principali tecniche di preparazione dei cocktail.
5.1. Build (e pestati)
Con il build l’operazione di miscelazione avviene nel bicchiere da servizio (in questa tecnica cioè il
luogo utopico della preparazione coincide con quello della degustazione). Una preliminare operazione
richiesta è quella che riguarda il raffreddamento del contenitore: il ghiaccio va inserito nel bicchiere,
mescolato, e scolato con un cucchiaio forato per separare il ghiaccio dall’acqua in eccesso
(un’operazione di selezione, nei termini di Bastide 1987, cfr. par. 3.1).
La composizione del cocktail è semplice poiché prevede la miscelazione degli ingredienti con un bar
spoon – il tipico cucchiaio dal manico lungo del bartender. Unica accortezza, la direzionalità del gesto:
si mescola dal basso verso l’alto, in modo da amalgamare le sostanze più pesanti, che tendono ad andare
verso il fondo, con quelle più leggere (in superficie). In ultimo, si aggiunge la guarnizione, che a sua
volta prevede una serie di programmi aggiuntivi rispetto a quello principale (Greimas 1983): si tratterà
per esempio di tagliare la scorza di limone (un’operazione di apertura, che consente il passaggio dal
compatto al discreto), di intingere una spezia (operazione di espansione dell’aroma della spezia nel
liquido) etc.
Questa tecnica di costruzione è semplice e si utilizza con ingredienti non troppo alcolici e che dunque
non necessitano di essere diluiti con il ghiaccio. La riuscita della ricetta si lega al corretto dosaggio di
ingredienti e la miscelazione è blanda, poco intensa. In questo modo vengono ad esempio realizzati il
Cuba Libre o il Moscow Mule.
Una variante del build è quella che dà vita ai pestati (Mojito, Caipirinha etc.) e prevede, prima
dell’introduzione degli ingredienti liquidi, di schiacciare con un pestello – detto muddler – alcuni
ingredienti solidi (tipicamente agrumi e aromi, quali possono essere lo zucchero e il lime per la Caipirinha
oppure la menta, lo zucchero e il succo di lime per il Mojito). Si aggiunge cioè alla sequenza precedente
un’intermedia operazione di apertura, grazie alla quale gli aromi si diffondono poi nel composto.
5.2. Stir
Con la tecnica stir, il luogo utopico della trasformazione è il mixing glass, un boccale (solitamente in
vetro, più raramente in acciaio) dotato di un beccuccio che agevola il travaso nel bicchiere da servizio.
Anche in questo caso la miscelazione è poco intensa, poiché provoca trasformazioni minime: la finalità
è semplicemente quella di mescolare sostanze con densità simile (Baiguera, Caselli 2021) e dunque non
difficili da unificare e da far reciprocamente compenetrare.
Le operazioni sulla materia prevedono per prima cosa il raffreddamento del mixing glass con il ghiaccio
(un’operazione di selezione, identica a quella che avveniva con il build direttamente nel bicchiere e descritta
al paragrafo precedente). In secondo luogo, vengono introdotti gli ingredienti, a loro volta mescolati insieme
al ghiaccio con il bar spoon (operazione di miscelazione). Contrariamente a quanto avviene con il build, qui
il movimento richiesto al bartender è rotatorio (e non va dal basso verso l’alto), in modo non solo da
raffreddare ma anche da attivare il ruolo diluente del ghiaccio. Il composto viene dunque filtrato grazie allo
strainer e versato nel bicchiere da servizio (operazione di selezione). Infine, si completa con la guarnizione
che, come nel caso della tecnica precedente, può prevedere operazioni di espansione, apertura etc.
Cocktail preparati con questa tecnica sono il Negroni (il cocktail più bevuto al mondo) e il Bloody Mary.
107
5.3. Shake
Con lo shake (o shake and strain), il luogo utopico della trasformazione è lo shaker, interfaccia
mediatrice tra oggetto di valore (cocktail) e soggetto operatore (barman).
La sequenza di base di questa tecnica prevede dapprima il raffreddamento del contenitore: il ghiaccio
va inserito nello shaker, mescolato e filtrato (operazione di selezione). Dopo si aggiungono gli
ingredienti, che vanno agitati (operazione di miscelazione). Il contenuto va poi filtrato e separato dal
ghiaccio, grazie allo strainer (nuova selezione). Infine, nel bicchiere vanno aggiunte eventuali guarnizioni
(operazioni di apertura e/o di espansione).
A questa sequenza di base possono aggiungersi programmi narrativi paralleli, come per esempio, nel
caso del Margarita, la preparazione del bordo del bicchiere con il sale: si crea in questo caso uno strato
di materia all’interno della coppa, traducibile come un’operazione di chiusura, ovvero quella che
consente di passare dal discreto al compatto. Bevendo, poi, il liquido passerà attraverso il sale, che in
esso si espanderà prima di raggiungere il cavo orale (apertura).
In generale, con questa tecnica l’operazione di miscelazione è intensa poiché consente non solo di
congiungere gli ingredienti, ma anche di alterarne la consistenza di partenza, favorendo, grazie al veloce
movimento del liquido, la dispersione di aria (cfr. Mastellari 2021). Il mixaggio è deciso, in grado di
amalgamare sostanze anche molto diverse tra loro, fino a farle compenetrare in termini quasi mitici. La
preparazione presuppone inoltre precisi sintagmi gestuali (un saper fare da parte di chi utilizza lo shaker)
e una logica di aggiustamento (Landowski 2005) rispetto alla materia: la cosiddetta “danza del barman”
deve infatti terminare quando si avverte, dicono i manuali, una netta sensazione di freddo e quando lo
shaker – spesso antropomorfizzato nelle descrizioni – “canta ad voce alta” (Baiguera, Caselli 2021, p. 99).
5.4. Blend
Infine, la tecnica del blend, ovvero quella in cui lo spazio utopico della preparazione è il blender, un
frullatore “potente” in grado di tritare il ghiaccio e di utilizzarlo non solo per diluire e raffreddare, ma
per alterare radicalmente la consistenza della bevanda, conferendo al cocktail una certa “morbidezza”,
tipica dei cosiddetti frozen drink. Con questa tecnica si dà la maggiore intensità di trasformazione della
materia: il cocktail tende quasi a divenire granita e ad approssimarsi dunque allo stato solido.
In questo caso i ruoli attanziali risultano quasi invertiti: il vero soggetto operatore (che provoca le
trasformazioni) è il frullatore, mentre il bartender diventa un semplice aiutante che si limita a inserire gli
ingredienti. È significativo allora notare come questo genere di preparazioni sia quasi del tutto assente
dai cocktail IBA (limitato a Pina colada e Zombie): come se tale svalutazione del ruolo del mixologist
svilisse allo stesso tempo il prodotto delle sue azioni.
La sequenza tipo di questa tecnica prevede l’inserimento degli ingredienti nel blender, l’aggiunta del
ghiaccio e l’azione del frullare che, nel loro insieme, si caratterizzano come un’operazione di
miscelazione. Alcuni manuali suggeriscono di eseguire questa operazione secondo un preciso ritmo
dall’andamento parabolico che procede per intensificazione e decremento di intensità in modo da far
adattare progressivamente le materie alla trasformazione. Si aggiunge infine la guarnizione, che, come
sempre, prevede operazioni di apertura e/o di espansione.
Interessante citare un passaggio di uno dei manuali consultati (Baiguera, Caselli 2021): “[…] guarnite e
aggiungete le cannucce. Se il frozen è riuscito le cannucce tuffate nel drink restano immobili, sorrette
dallo spessore finissimo del ghiaccio tritato” (p. 102). Ancora una volta, sembra che con questa tecnica
l’attore umano scompaia, in favore di una totale delega agli oggetti: qui sono le cannucce che sanzionano
la corretta consistenza del drink, vero punto critico di questo genere di cocktail.
108
6. Bartender e degustatori
Se il cocktail è l’enunciato, rimane da verificare la catena enunciativa in cui esso si inscrive, ovvero
individuare l’enunciatore (simulacro testuale del barman – sia esso mixologist, flairtender etc.) e
l’enunciatario (simulacro testuale del degustatore, caratterizzato a sua volta da diversi gradi di expertise
e abilitato a più o meno liberi interventi sulla materia).
Il bartender è colui che mette in forma l’enunciato, facendolo diventare sostanza. Colui che, come in
qualsiasi catena enunciativa, trasforma la langue in parole, realizzando la sua creazione. A livello narrativo
è un soggetto operatore, che, per svolgere il proprio lavoro, deve prima rendersi competente, cosa che
può fare non solo frequentando corsi e scuole di specializzazione (che, anche in questo campo, sono
numerose), ma anche allenandosi. Basti questo stralcio: “Per agire in breve con destrezza è sufficiente un
periodo di esercizio pratico sotto lo sguardo vigile di un barman o esercitandosi con spirito critico allo
specchio, attenti a correggere le posture errate e i gesti scoordinati” (Baiguera, Caselli 2021, p. 96). A essere
rilevante, infatti, nella pratica è, come in parte emerso, la gestualità. Una gestualità che i ricettari
difficilmente riescono a spiegare e che è più semplice trasmettere per contatto diretto. Una sorta di palestra
fa sì che i sintagmi gestuali divengano una danza coordinata introiettata come automatisimo, che si traduce
a sua volta in velocità, destrezza, disinvoltura nella realizzazione di drink – caratteristiche identitarie di un
bravo bartender. In fondo è proprio questa la traiettoria di Tom Cruise nel già citato Cocktail.
Ma al barman è richiesto anche un saper fare di tipo sociale, relazionale, sottolineato nei manuali come
qualità altrettanto fondamentale. Il perfetto mixologist deve essere discreto ma allo stesso tempo saper
entrare in relazione con il proprio interlocutore, deve essere in grado di ascoltare ma anche di capire
quando non farlo. L’aggiustamento che deve saper mettere in atto rispetto agli ingredienti delle ricette
è cioè valido anche per la materia umana, dal momento che gli è richiesto di comprendere con grande
intuizione l’interlocutore e di adeguarsi di conseguenza. Un vero e proprio fare strategico, che prevede,
in quanto tale, di programmare le proprie azioni anche sulla base del simulacro costruito dell’altro e di
intervenire, tatticamente, con riprogrammazioni, nel caso in cui si renda conto di una mancanza di
allineamento tra idea costruita e consumatore empirico.
Il ruolo tematico di mixologist, però, non è unitario, perché è scomponibile in almeno ulteriori due
figure, distinte sulla base dello stile di miscelazione preferito. Avremo da un lato il bartender
tradizionale, discreto e silenzioso, che prepara le ricette nella parte bassa – nascosta – del bancone;
dall’altro il flairtender, caratterizzato da un fare rumoroso e dall’ostentazione delle proprie competenze,
che prepara le ricette sulla parte alta del bancone, a servizio di un osservatore/cliente che trae godimento
non solo dalla degustazione, ma anche dalla performance che gli si propone di fronte 5 . Anche
l’organizzazione degli spazi del bancone, al pari delle articolazioni di cucina a vista o nascosta nei
ristoranti (Giannitrapani 2014), presuppone differenti utenti: uno – quello del barman tradizionale –
proteso verso la sorpresa di una creazione che gli si propina di fronte nel suo stadio finale; l’altro –
quello del flairtender – affascinato dallo spettacolo della preparazione. Scendendo ancor più nel
dettaglio, si scopre che il flair può seguire a sua volta due diverse scuole: il working flair, in cui il fare
ostentativo si pone a servizio della riuscita del cocktail, e l’exhibition flair, tutto sbilanciato sullo show,
in cui il gesto prevale sul prodotto, fino a fargli perdere consistenza e valore. Uno show comunque
sinestetico in cui ha un ruolo la musicalità e il ritmo prodotto dalla gestualità del flairtender in
associazione con gli strumenti che utilizza, in quella che diviene una musicalità della trasformazione
della materia (“Si dice che il mestiere del barman sia musicale: il ghiaccio canta nello shaker e il barspoon
5
Che i due ruoli siano ben distinti lo testimoniano anche le competizioni ufficiali promosse dall’IBA, che dedicano
alle due figure challenge differenti.
109
suona a ritmo mentre mescola i prodotti nel mixing glass; i fiotti di liquidi densi e zuccherini gorgogliano
mentre i distillati scorrono come acqua leggera che si ode appena”, Baiguera e Caselli 2021, p. 104).
Il grado zero dell’enunciatario è quello che degusta, come dicevamo, il drink nei tempi “giusti”: né
troppo velocemente (non deve trangugiare ma assaporare), né troppo lentamente (pena il rischio di un
drink annacquato). Ma il cocktail, in quanto preparazione sintetica in cui si fondono sapori e consistenze,
prevede, come accennavamo, un preciso patto comunicativo: l’enunciatario, infatti, dopo aver riposto
fiducia nel preparatore e nella sua abilità a ricreare nuovi sapori a partire da singoli elementi, è in un
certo senso sfidato a posteriori a riconoscere e ad apprezzare le differenti componenti, le tecniche
utilizzate, le sfumature e le note disseminate nella bevanda (Marrone 2022). In altri termini, più il cocktail
si presenta come sintetico, più si delega al degustatore la capacità di discernere, da cui diversi tipi di
consumatori, più o meno esperti in questo processo di riconoscimento. Laddove il barman con la
preparazione afferma una unità integrale a partire dalla totalità integrale delle componenti (cfr. par. 2),
al cliente è richiesta la competenza di risalire ai presupposti della composizione.
In alcuni casi, seguendo una più ampia tendenza culinaria, l’enunciatario è presupposto proseguire il
lavoro del mixologist, personalizzando la bevanda, aggiustandola secondo i suoi personali gusti. A volte
si tratta di dosare a proprio piacimento la tonica nel gin, definendo e calibrando il tasso alcolico del
cocktail (l’operazione principale – di miscelazione – diviene propria dell’enunciatario). Altre di scegliere
se aggiungere anice stellato o rosmarino da un potenziale ventaglio di aromi che si attualizzano sotto il
suo sguardo (nelle mani del bevitore, dunque, l’operazione di espansione). Le trasformazioni sulla
materia che il degustatore provoca presuppongono ancora una volta una competenza, nonché un patto
seduttivo con il bartender, che lascia incompiuto il lavoro proprio perché consapevole del (e fiducioso
nel) saper fare dell’interlocutore. A tali principi si ispira per esempio Dario Comini, star della mixology
italiana, proprietario del Nottingham Forest a Milano, che traspone i principi della cucina molecolare
nell’arte della mixology, creando cocktail obliqui 6 : drink che negano il loro essere cocktail e che
richiedono un lavoro interpretativo (e spesso anche pragmatico) da parte dell’utente per la riuscita della
degustazione. Come accade con il Green Lantern, un cocktail fluorescente, che va completato a tavola
aggiungendo una vodka infusa con il Butterfly Pea e del carbonato di calcio servito in una provetta. Alla
gestualità richiesta al bartender si aggiunge insomma quella richiesta al cliente.
Al consumatore che sta al suo posto e si accontenta di degustare si affianca così quello che vuole
proseguire l’opera di creazione fino al limite a sostituirsi al creatore. Da cui il fiorire di scatole e
abbinamenti più o meno commerciali che consentono di ricevere a casa propria con cadenza regolare
bottiglie di gin, toniche ricercate e stuzzichini, in modo da attrezzare un angolo privato professionalizzato
dedicato all’aperitivo. Distillati recapitati tra le mura domestiche e manco a dirlo prodotti
artigianalmente: perché dopo le birre si è diffusa la moda dei craft spirits, produzioni home made e
lontane dall’industriale, con tutto l’effetto di senso di naturalità, genuinità e tradizionalità che si estende
così dal campo dei biscotti, delle verdure, del pane a quello dei superalcolici. C’è addirittura la
possibilità in pochi click di creare una propria linea di gin, personalizzando sentori ed etichetta e
ricevendo a casa la propria creazione. All’estremo opposto, in direzione di un’opera seriale, mera
esecuzione sempre uguale a sé stessa c’è NIO, un produttore di cocktail prêt-à-porter, che offre i drink
più noti in buste di plastica sigillata, sempre pronte all’uso e da consumare dove si vuole (Fig. 4).
6Il riferimento va a Floch e alle sue analisi sui generi pubblicitari (1990). Il genere obliquo, in particolare,
negazione del referenziale, richiede un lavoro interpretativo da parte dell’enunciatario, posto di fronte a un testo
che esprime il suo messaggio in maniera indiretta.
110
Fig. 4 – NIO, i cocktail in busta già miscelati.
7. Conclusione
Possiamo tentare in conclusione di tradurre la definizione di cocktail fornita dai manuali nei termini
delle operazioni sulla materia descritte da Bastide (1987): il cocktail è il risultato di un’operazione di
miscelazione, eventualmente preceduta e seguita da operazioni di selezione relative al trattamento del
ghiaccio e che solitamente si conclude con operazioni di apertura e/o espansione. In generale il cocktail
è quello che consente a ingredienti semplici, che compaiono in uno stato strutturato e concentrato, di
passare a un prodotto composto, amorfo ed espanso 7 . La traduzione semiotica delle tecniche di
miscelazione consente insomma di andare al di là della superficie variabile descritta nei ricettari con
riferimento alle singole bevande, evidenziando la struttura profonda della conformazione di un drink.
Sintetizzando le trasformazioni elementali previste dalle diverse tecniche di preparazione, si avrà uno
schema di questo tipo:
Sequenza di operazioni di base
Build Selezione miscelazione apertura o espansione
Pestati Selezione apertura miscelazione apertura o espansione
Stir Selezione miscelazione selezione apertura o espansione
Shake Selezione miscelazione selezione apertura o espansione
Blend miscelazione apertura o espansione
L’operazione di miscelazione – che ricordiamo essere quella che consente di passare dal semplice al
composto – non è una trasformazione di tipo categoriale, ma graduale: a seconda dell’intensità con cui
è compiuta, come abbiamo visto, essa pone in ballo diversi semi relativi a diluizione, raffreddamento,
7Ricordiamo che nei termini di Bastide (1987) l’operazione di miscelazione è quella che consente la trasformazione
dal semplice al composto, la destrutturazione prevede il passaggio dallo strutturato all’amorfo, l’espansione dal
concentrato all’espanso.
111
trasformazioni di consistenza, passaggi di stato. E sulla base di queste caratteristiche i manuali
distinguono le diverse tecniche di miscelazione e le classificazioni dei drink:
Diluzione Raffreddamento Trasformazione Passaggi di stato
di consistenza
Build - + - -
Pestati - + - -
Stir + + - -
Shake + + + -
Blend + + + +
Nell’immaginario collettivo sembrerebbe che la minore intensità di miscelazione possa legarsi a una
maggiore autenticità del cocktail, come se la sintesi degli ingredienti appena accennata, tendendo
all’analitico, possa far apprezzare le singole componenti senza stravolgerle. Ne sono un esempio le
mitizzazioni di personaggi noti abbinati alla mixology: è il caso del già citato Martini mescolato e non
shakerato di 007 o del Maritini cocktail di Hemingway, che in alcuni racconti leggendari si vuole
preparato semplicemente avvicinando la bottiglia di vermouth al bicchiere (senza miscelare il Martini
con il gin). Si ritorna così alla definizione dizionariale da cui siamo partiti e allo statuto ambiguo, tendente
al disforico, del motivo del miscuglio.
Il bartender, per portare a termine le sue creazioni, deve riuscire a “sentire” gli ingredienti e le loro
trasformazioni. Durante la preparazione, il regime di programmazione (che prevede ricette molto
dettagliate e relativamente poche varianti, nonché una rigida preparazione dell’angolo bar) man mano
piega verso uno di aggiustamento, basato sulla conoscenza di sintagmi gestuali specifici (Giard 1980) e
sempre mediato da qualche strumento che si rivela in grado di trasmettere un’estesia transitiva.
Emblematico il caso dello shaker, che, attraverso l’acciaio, riesce, come abbiamo visto, a comunicare
l’avvenuta trasformazione della materia. Il barman è, soprattutto in questa tecnica, in primo luogo un
corpo e la competenza che gli è richiesta è di tipo estesico.
Diventa di conseguenza fondamentale quella che possiamo chiamare intermatericità: per la riuscita del
cocktail conta il materiale di cui gli oggetti – spesso legati in catene interoggettive – sono fatti, ovvero il
modo in cui le materie, interagendo tra loro, provocano trasformazioni. Così, in generale, l’acciaio è
preferibile per la semplicità di lavaggio e per il suo essere buon conduttore. O, altro esempio, si pensi
alle varianti dello shaker: uno, detto continentale, chiuso e già dotato di filtro integrato; l’altro, detto
Boston shaker, formato da una parte in acciaio e una in vetro – posta a servizio di un osservatore che
guarda ipnoticamente la trasformazione della materia e che, grazie al vetro, riceve promessa della
prossima degustazione (Hammad 2003). Se con il continentale l’operazione di filtraggio è integrata
nell’oggetto, con il boston si presuppone l’entrata in gioco di un altro strumento – lo strainer, un filtro
flessibile, che, grazie a una molla, si adatta alla bocca dello shaker e consente il filtraggio. O, per finire,
si pensi al muddler in legno, sconsigliato da alcuni manuali (Baiguera, Caselli 2021), in favore di un
pestello in acciaio o in policarbonato, più facilmente lavabile e meno intriso di odori. Il problema,
proseguendo in una antropomorfizzazione degli oggetti deputati al contatto con le materie, è qui quello
di una memoria delle precedenti preparazioni che potrebbe alterare la ricetta da realizzare.
E in termini di interoggettività conta ovviamente molto anche il bicchiere, che, con la sua forma, anticipa
e prefigura alcune caratteristiche del drink (e del bevitore; cfr. Galofaro 2005): le coppe martini saranno
in genere deputate a ospitare cocktail privi di ghiaccio; i tumbler alti conterranno long drink o fizz,
ovvero bevande poco alcoliche e con molto ghiaccio; viceversa il tumbler basso accoglierà cocktail
molto alcolici, da diluire con ghiaccio. Il materiale e la conformazione degli oggetti che sono a monte e
a valle del drink rientrano dunque a pieno titolo nella ritualità della preparazione e della degustazione
e contribuiscono alla conformazione materica del cocktail stesso.
112
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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113
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"Description": "The research presented here starts from an experience of collaboration with the company of Lasa Marmo in Val Venosta, within the framework of a didactic/experimental project of the University of Bolzano, in the design area. Lasa Marmo covers the entire production chain of marble, from quarrying, to processing, to the production of slabs to be placed on the market, mainly addressed to the world of architects, i.e. a further trajectory of processing aimed at site-specific installations. Against this design background, the research grafts a reconsideration of the status of the semiotics of materials. Semiotics has looked at them through the main filter of aesthetics, without forgetting metaphorical convocations, in a more epistemological key. Marble is a striking example of this, starting with its veins, conceived as lines of resistance of the being to be grasped (negatively) from an operability of the materials themselves (the cut). The contribution relocates the semiotics of materials within the framework of a dialogue with design practices on the one hand (Material Driven Design in particular) and with material historians on the other (Bensaude-Vincent), in order to renew the semiotic scientific project. Characterising marble then means not only showing its possible plastic qualities, but also highlighting its paradoxes on an ecosystemic level, between perenniality and instability, sustainability and extraction, iconodulia and iconoclasm. Sustainability, in particular, will become the thematic pivot of a targeted study, linked to the projects of some students throughout the semester. The marble is going to reveal itself as the quintessential material for semioticians, given its unpredictable richness of semiotic possibilities.",
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] | Il marmo oltre la vena. Per una semiotica alternativa dei materiali
Giacomo Festi
Abstract. The research presented here starts from an experience of collaboration with the company of Lasa Marmo
in Val Venosta, within the framework of a didactic/experimental project of the University of Bolzano, in the design
area. Lasa Marmo covers the entire production chain of marble, from quarrying, to processing, to the production
of slabs to be placed on the market, mainly addressed to the world of architects, i.e. a further trajectory of
processing aimed at site-specific installations. Against this design background, the research grafts a reconsideration
of the status of the semiotics of materials. Semiotics has looked at them through the main filter of aesthetics, without
forgetting metaphorical convocations, in a more epistemological key. Marble is a striking example of this, starting
with its veins, conceived as lines of resistance of the being to be grasped (negatively) from an operability of the
materials themselves (the cut). The contribution relocates the semiotics of materials within the framework of a
dialogue with design practices on the one hand (Material Driven Design in particular) and with material historians
on the other (Bensaude-Vincent), in order to renew the semiotic scientific project. Characterising marble then
means not only showing its possible plastic qualities, but also highlighting its paradoxes on an ecosystemic level,
between perenniality and instability, sustainability and extraction, iconodulia and iconoclasm. Sustainability, in
particular, will become the thematic pivot of a targeted study, linked to the projects of some students throughout
the semester. The marble is going to reveal itself as the quintessential material for semioticians, given its
unpredictable richness of semiotic possibilities.
“Ils ne comprennent pas que je ne peux pas
penser autrement qu’en contes.
Le sculpteur ne cherche pas à traduire en marbre
sa pensée; il pense en marbre, directement”
André Gide Oscar Wilde. In Memoriam (Souvenirs)
L’esergo di Gide può essere preso a mo’ di monito per il semiotico, che si è spesso pensato, à la Barthes,
come un prolungamento naturale dello scrittore: occuparsi di significazione, in quel caso, implica il
ragionare per storie, è noto. Lo stesso semiotico saprà tuttavia pensare “in marmo” e il marmo, come lo
scultore? Una semiotica dei materiali non può eludere tale questione e per circoscriverla proponiamo
un percorso scandito in tre tappe. Innanzitutto, avanzeremo una discussione più teorica relativa allo
statuto di una semiotica dei materiali, statuto malcerto non tanto a livello epistemologico, quanto rispetto
ad affondi interpretativi o analitici e, conseguentemente, a progetti e programmi di ricerca. In un
secondo tempo introdurremo una semiotica del marmo, così apparentemente compromessa con la storia
dell’architettura e della scultura, alla ricerca di una propria specificità. Infine, approfondiremo
ulteriormente alcuni aspetti della connessione tra marmo e sostenibilità, a partire da un’esperienza di
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
progettazione didattica svolta presso l’Università di Bolzano, all’interno della Facoltà di Design, in
ambito di prodotto e in collaborazione con l’azienda Lasa Marmo, di Lasa, in Val Venosta1.
1. Che cos’è una semiotica dei materiali?
Qualunque tentativo di inquadramento teorico volto a trovare un posto ad una semiotica dei materiali,
dovrebbe plausibilmente avere uno sguardo bifocale. Una prima direzione di interesse si calerebbe,
evidentemente, nella storia disciplinare, quindi in una zona del tutto interna alla semiotica, per rinvenire
i luoghi in cui materia e materiali sono stati già pensati in un paradigma più canonicamente orientato
all’immaterialità del senso. Una seconda direzione di sguardo, invece, punterebbe verso un confronto
con altre letterature non propriamente semiotiche ma all’avanguardia rispetto alla definizione e alla
caratterizzazione dei materiali, ovvero invece alla loro implementazione in prodotti che entrano in
circolo nella vita culturale. Queste letterature “altre”, o dal potenziale divergente, finiranno per portarci,
come vedremo, verso uno spazio teorico allargato, quello dei collettivi, termine volutamente latouriano
che tiene assieme umani e non umani nella ricomprensione delle “forme dell’insieme”2.
Il primo snodo ci pone di fronte a una domanda piuttosto generica: esiste o è esistita una semiotica dei
materiali nella storia disciplinare? Ricordiamo che l’impostazione glossematica della semiotica sia
strutturalista, sia interpretativa, ha posto la materia (al singolare generale) come un “fuori” rispetto alla
pertinenza semiotica3, come spazio inarticolato dei possibili, in attesa di una presa formale che trasformi
quindi materia in sostanza, in relativa continuità con i fondamenti dell’impostazione saussuriana. È vero
altresì che Eco è tornato in più occasioni sullo “zoccolo duro” dell’essere (ad esempio Eco 1997, 2004),
rappresentato non a caso attraverso le venature del marmo, linee di resistenza del referente, morfologie
già offerte dalla materia ai vari “tagli” della cultura. In quel senso, Eco sembrava aprire le porte a una
caratterizzazione anche fenomenologica dei materiali. Purtuttavia, l’esempio ricorrente del marmo non
ha mai generato a mia conoscenza un prolungamento che uscisse dall’alveo della discussione meramente
epistemologica. Peraltro, il mirabile sonetto michelangiolesco4, che Eco usava come perno per discutere
teorie della creatività anti-crociane, avvalora in realtà una mistica dell’artista che riuscirebbe
magicamente a vedere “attraverso” il blocco di marmo, spazialmente e temporalmente, ponendo il
proprio agire come già iscritto in potenza nella materia (Eco stesso, però, lo attribuisce lui per primo
all’“amor d’iperbole” di Michelangelo…). È proprio quest’altra forma di idealismo materiale che
vorremmo neutralizzare qui, trattando semmai la dichiarazione poetica dello scultore come testo
semiotico ulteriore che informa le pratiche, al pari di altri modi di approcciare il materiale, più
indifferenti rispetto a presunte affordance morfologiche o, se non altro, in grado di rigiocarsele in
indefiniti altri modi.
Quella parte della semiotica interessata al mondo plurale del design non pare aver dato un contributo
davvero significativo alla riflessione sui diversi materiali del design, se non localmente, all’interno di
1 Ringrazio per l’ideazione del progetto e il confronto continuo il responsabile dell’atelier, il designer Klaus Hackl;
estendo il ringraziamento all’esperto di tecnologie e materiali, Camilo Ayala Garcia, così come agli studenti del
corso, veri protagonisti della progettazione.
2
Cfr. il dibattito sul rinnovo di un’antroposemiotica, a seguito di Fontanille (2021).
3 Per una discussione teorica più recente del concetto di materia, cfr. Caputo (2010) con un rilancio, rispetto
all’integrazione tra posizioni peirciane e glossematiche, in Galofaro (2010).
4
“Non ha l’ottimo artista alcun concetto / che un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo a
quello arriva / la mano che ubbidisce all’intelletto” (Buonarroti 1960, p. 151).
115
analisi mirate5. Vale la pena invece riconsiderare due riferimenti ulteriori, pubblicati in anni più recenti,
votati alla ricostruzione di una storia della disciplina sul tema dei materiali e a un rilancio della ricerca.
Il primo è il contributo di Beyaert-Geslin (2008), dedicato ad approfondire il peso dei materiali nelle
pratiche artistiche, da Dubuffet a Beuys. Soprattutto a quest’ultimo, con feltro e grassi naturali (tipo la
margarina), è dedicata un’analisi in cerca di modelli che superino l’idea classica di texture, elaborata in
primis dal Gruppo μ (1992), come spazio categoriale interno a una prensione plastica che apriva, di
fatto, una riflessione sul ruolo della matericità nella pittura. Beyaert-Geslin inizia a immaginare un
processo di attanzializzazione e attorializzazione della materia, abitata da tensioni in divenire, assunte
ovviamente dalla pratica artistica. Ecco che:
[C]es premiers résultats tendent à révéler une autre acception de la matière qui, loin de se limiter à
un statut de matériau non finalisé et inorganisé, renvoyant seulement à un point de vue
épistémologique situé en amont des pratiques, s’impose comme une instance de renouvellement de
la semiosis (Beyaert-Geslin 2008, p. 104).
I materiali come istanze che premono, all’interno delle configurazioni empiriche che li ospitano, a favore
di un rinnovo della semiosi, certo offrendo, echianamente, le loro tensioni interne (il carattere
microscopicamente caotico e destrutturato delle fibre nel feltro, ad esempio, cruciale per comprendere
il lavoro di Beuys). In continuità parziale con Beyaert-Geslin si pone la voce “Materia” dei Vissuti di
significazione di Basso (2008). L’autore è recentemente intervento al convegno AISS 20226 con un
prolungamento dei concetti teorici principali già elaborati in precedenza, a conferma della densità di
quell’esplorazione seminale. In sintesi, si procede verso un’osservazione dei modi in cui la matericità
dei materiali dell’arte emerge come luogo estremo di recalcitranza al principio formativo. Basso ci dice
che “[L]a materia acquista un pieno protagonismo sulla scena semiotica quando è proiettata in uno
spettro di fungibilità, ossia è colta come materiale interno a uno svolgimento di senso gestito da
specifiche pratiche” (Basso 2008, p. 27). Dalla materia teorica alla pluralità dei materiali e aggiungo
infine, dai materiali ai processi di rimaterializzazione in cui le pratiche d’uso, di ri-appropriazione,
rispetto ai possibili, alle aperture plastiche dei materiali diventano una posta in gioco dei collettivi, in
una dimensione fin da subito politica ed etica7. La materia rimarrebbe un’inattingibile semiotico, ma i
processi di rimaterializzazione come dimensione costitutiva dei collettivi sono approcciabili da una
semiotica delle pratiche e, appunto, dei collettivi. Il tema è quindi, fin da subito, a quali materiali dare
cittadinanza, cosa rendere parte attiva delle reti plurali di relazioni che alimentano il rigenerarsi di un
collettivo, diverso da un aggregato proprio per la qualità delle relazioni interidentitarie. Tale
politicizzazione dei materiali è uno dei modi in cui intendere la provocazione del sottotitolo, “per una
semiotica alternativa dei materiali”. Per un verso vorremmo resistere alle tentazioni ipnotiche della
poetica della materia e dei materiali verso cui spesso corre la sensibilità semiotica. C’è una sottile vena
rossa che lega assieme, attorno al marmo, Bachelard e Caillois, cantori di una lirica materiale in uno
spazio discorsivo para-barthesiano. Nel suo testo dedicato all’immaginazione della terra, Bachelard
(1948) cita Pierre-Jean Fabre, alchimista del XVII secolo, a supporto di un’idea di impeto estetico
dell’onirismo. In tale citazione compare la natura come artista ante litteram: nascoste in alcune pietre
5 Floch (1995), tra gli altri, mostra benissimo come il tweed come materiale per il fashion designer venisse
ridestinato da Chanel a un uso diverso, non più centrato sulle qualità tattili, quanto su quelle visibili, dipendenti
dal modo in cui il tweed assorbiva e prendeva il controllo della circolazione luministica.
6
Comunicazione dal titolo “Ecologia semiotica e materia simbolica: dove la materia si piega, dove essa spiega”, 1
dicembre 2022, Palermo.
7 Cfr. sulla rimaterializzazione Keane (2003), mentre la politicizzazione della materia, a partire da una sua
riabilitazione simil-animista, trova fertile terreno nel dibattito intellettuale seguito alla pubblicazione del testo di
Bennett (2010).
116
come il marmo ci sono immagini naturali, non fatte da mano d’uomo, con un loro potere figurativo, in
grado di rappresentare paesaggi e personaggi. È nell’interiorità intima e opaca della roccia che si riscopre
l’esito ultimo e alto della creatività umana. Quasi a prolungamento di Bachelard, Caillois (1985), nel suo
testo sulle pietre, torna sul motivo della natura anticipatrice dell’arte con la “spontanea bellezza” delle
immagini iscritte causalmente al loro interno. Se il marmo contiene paesaggi e figurazioni, altre pietre
come la Septaria, anticipano l’arte a suo tempo contemporanea, più astratta. Ma rimaniamo sul marmo:
[W]e have now pinpointed the oddity around which the rest of the interpretation has organized itself:
the ferns, the palace, the birds, and the lightning, this last just an ordinary veining that might be
found in any piece of marble. Here is neither miracle nor mystery, just an extraordinary combination
of signs which have no meaning but which are swiftly given a meaning that the ensnared imagination
finds it hard to withhold (Caillois 1985, p. 95).
Coazione alla significazione, irresistibile attrazione di una distribuzione casualmente integrata di segni,
a ricostruire non solo rassomiglianza locale (iconizzazione), quanto una forma di paesaggio
(naturalizzazione 8 ). Le pietre raccolte e finemente analizzate da Caillois, con una sensibilità simil-
semiotica verso il loro linguaggio plastico, alimentano quindi la fascinazione verso una scrittura o una
pittura già presente nella durezza imperitura della roccia.
Volendo resistere a tale pulsione artistico-rappresentativa o alla dominante estetica nella lettura dei
materiali, spostiamo il focus del discorso sul design e sui designer, verso una dimensione potenzialmente
più etnografica, votata alla caratterizzazione del range di pratiche di trattamento dei materiali. Dei diversi
materiali, infatti, la semiotica potrebbe iniziare a offrire dei ritratti, ripercorrendo le traiettorie di senso
date dall’intersezione tra materiali e collettivi. E veniamo infatti alla seconda direzione di sguardo che
evocavamo a inizio capitolo. Se uno scienziato dei materiali leggesse il programma del convegno AISS
2022 dedicato alla materia e ai materiali, noterebbe probabilmente l’assenza di ricerche e quindi di
comunicazioni su alcuni luoghi di interesse, di tendenza, di frontiera e persino di dibattito pubblico
allargato nel suo campo di pertinenza. Non è difficile indicarne alcuni: i biomateriali9, i nanomateriali10
e alcuni materiali monstre del momento, come litio11 o grafene12. Ci interessa qui sottolineare come vi
siano almeno due dialoghi mancati che testimoniano forse e per ora, un ruolo di rincalzo della semiotica
sulle tematiche materiali rispetto ad altri terreni d’indagine più consolidati della disciplina.
Un primo confronto mancato è con i lavori di Bernadette Bensaude-Vincent, storica della chimica e dei
materiali, che propone metodologicamente un’ontografia 13 , una scrittura dei modi di esistenza dei
materiali nei collettivi. Tra i suoi contributi, vale la pena richiamare qui un suo testo post-foucaultiano
di ricostruzione della nascita e dello sviluppo delle scienze dei materiali negli States (Bensaude-Vincent
2001), in ambito ingegneristico, come esempio emblematico della costruzione di una tecnoscienza
ibrida, in cui la produzione di conoscenza e di esistenza di materiali finiscono per sovrapporsi. Risulta
quindi impossibile e improduttivo mantenere la distinzione classica tra soggettività del ricercatore e
oggettivazione dei materiali, dipendente da processi di innovazione degli strumenti di lavorazione. È
nella moltiplicazione dei legami che vengono contemporaneamente ad esistere “qualcosa come un
8 La distinzione tra iconizzazione e naturalizzazione è ripresa da Fontanille (1998), in un saggio di analisi
dell’iconografia dei vasi berberi.
9
Cfr. ad esempio Chen e Thouas (2015).
10
Cfr. ad esempio Bensaude-Vincent (2006).
11 Cfr. ad esempio Barandiarán (2019).
12 Cfr. ad esempio Alvial-Palavicino (2015).
13
Il suo testo sul carbonio (Bensaude-Vincent e Sacha Loeve 2018) è un esempio insuperabile di ontografia di una
sostanza così pervasiva, dibattuta e polimorfa, nelle sue forme materiali di manifestazione.
117
materiale” e la rete socio-tecnica di supporto, un collettivo che lo rende possibile. Le scienze dei materiali
si pongono quindi come luogo-laboratorio, terreno di sperimentazione multilaterale delle identità.
Un secondo terreno di confronto invitante per la semiotica particolarmente interessata alla progettazione
è quello che vede protagonista il Material Driven Design, un approccio sviluppato nell’ultimo decennio
in alcune università europee, tra cui il Politecnico di Milano (Karana et alii 2015). Tale metodologia
progettuale, costantemente alimentata da un’elaborazione teorica di base, bypassa al momento un
confronto diretto con la semiotica, preferendo integrare nei suoi modelli una prospettiva più chiaramente
fenomenologica sui materiali. Il MDD, come vuole il nome stesso, innesca processi di design a partire
dalla complessità dei materiali considerati come elemento d’innesco, al posto di un approccio che
prende il via dalle astrazioni di un concept, magari marketing oriented. Il MDD perviene così a una
proposta di metodo che distingue più fasi, una sorta di schema canonico centrato su una prima tappa
di intimizzazione con i materiali e una loro manipolazione aperta, non immediatamente finalizzata, da
cui far emergere ciò che possiamo reinterpretare, semioticamente, come dei pattern figurali trasponibili.
Queste strutture diagrammatiche più astratte saranno quindi in grado di informare un concept di design,
il quale possa poi essere sviluppato ulteriormente in una direzione plausibile rispetto a uno scenario di
trend culturali e di mercato. In sostanza, il MDD combina: 1) un’avveduta archeologia produttiva dei
materiali (come si rigenerano? Come si lavorano?); 2) un’esplorazione dell’interattanzialità (dimensione
interattiva dei materiali), ovvero delle proprietà tipicamente studiate da fisica e chimica; 3) un
approfondimento sperimentale dei modi di relazione sensibile col materiale, in un corpo a corpo
polisensoriale. È da questa triplice istanziazione dei materiali, produttiva, interattiva, sensoriale, che si
riconoscono forme di rimotivazione tra caratterizzazioni processuali dei materiali e valori di progetto.
2. Il marmo e i suoi paradossi
Come si caratterizza, allora e più concretamente, un materiale dal punto di vista semiotico? È qualcosa
di più o di diverso rispetto al pensarlo come un fascio di tratti plastici attualizzabili nel contesto di
pratiche specifiche? Torneremo sulle qualità plastiche attribuibili al marmo, ma se prendessimo come
riferimento di base i collettivi, composizioni eterogenee di uomini e cose o, in questo caso, pietre,
possiamo inizialmente cogliere alcuni paradossi ecologici del marmo stesso come pietra ambiziosamente
“naturale”. La pietra assunta come segno di permanenza imperitura, il “duro come il marmo”14 , è
contemporaneamente il materiale più malleabile nel variegato mondo delle pietre scultoree e
architettoniche, ampiamente riutilizzato e quindi instabile nella storia politico-culturale dell’architettura,
di cui le spolia ne rappresentano l’istituzionalizzazione15 . In secondo luogo, il marmo come risorsa
limitata che può entrare in circolo nello spazio culturale solo grazie a pratiche estrattive altamente
invasive verso il territorio16 e quindi per definizione non sostenibili, ovvero di consumo intransitivo di
una risorsa, diventa il centro di nuovi discorsi e di nuove pratiche creative di sostenibilità. Durante il
salone del marmo, il Marmomac 2022, è stata presentata ad esempio “Etica litica”, variante di
reinterpretazione del sostenibile come sfida per i designer: essi dovevano progettare e comporre usando
il massimo di materiale da un’unica lastra, minimizzando i residui, ovviamente con un sistema oculato
di tagli. Una terza tensione paradossale del marmo ce la indica Dario Gamboni (2021) in un saggio
recente, di stampo latouriano, cruciale per approcciare l’estetica del marmo in una chiave storico-
comparativa. Gamboni mostra benissimo come il marmo oscilli, nelle forme di riappropriazione dei
suoi giochi superficiali, tra due polarità opposte. Da un lato il marmo esemplifica, come già visto (cfr.
14 Nella canzone di Leopardi Bruto minore (1824), la rabbia di Bruto si dirige verso i “marmorei numi”, dall’animo
duro come il marmo, quindi insensibili alle ragioni dell’umano.
15
Cfr. ad esempio Brenk (1987).
16
Cfr. ad esempio Piccini et alii (2019).
118
supra), una possibilità di iconizzazione naturale, iscritta nella pietra, e in quanto tale figurazione perfetta
per iconoduli pronti a mettere in valore una traccia iscrittiva di intenzionalità non umane
(sacralizzazione). Per un altro verso, il marmo alimenta una spinta aniconica adatta per pulsioni
iconoclaste. Si ritrova qui il tema modernista di Adolf Loos, autore che criminalizzava l’ornamento con
un uso massivo di marmo venato17. Infine, il marmo è da un lato un prototipo di tipo di superficie
(battezzata come “marmorizzato”) che esso stesso, come occorrenza concreta (“quel marmo lì”), non
sempre riesce a manifestare. Il termine “marmorizzato” indica infatti un effetto di texture pregiato e
quindi palesemente imitato da altri materiali artificiali, laddove il marmo stesso non sempre lo incarna,
dato che, in fondo, il marmo esiste nella singolarità dei luoghi di estrazione. Per il marmo si palesa infatti
la centralità indessicale della provenienza. Il marmo è quindi coglibile più che mai come una famiglia
di trasformazioni: non esiste “un” marmo, ma sempre il “marmo di”, che sia Carrara o altro luogo
estrattivo. Nel caso di Lasa, ad esempio, l’azienda unica estrattrice, la Lasa Marmo, ha progressivamente
definito, caratterizzato e commercializzato due macro famiglie di marmo, il Bianco (il famoso statuario,
come quello di Carrara, che deve il nome alla prefigurazione dell’uso), il quale può essere però
“nuvolato”, e il Venato, in cui varia la determinabilità eidetica della vena, generalmente più definita
rispetto all’effetto nuvola. Ogni famiglia ha poi 5 o 6 sottotipi, ognuno ben differenziato dagli altri, e
infatti, dal punto di vista corporate, ogni tipo di marmo è un tipo di prodotto e viene brandizzato nella
sua specificità riconoscibile. Lasa ha recentemente lanciato la linea Individuale in cui cerca di valorizzare
le singolarità fuori-norma di alcune lastre, ad esempio per un eccesso di venatura. Tali configurazioni
tendono ad amplificare le proprie qualità auto-espressive, a far transitare la vena da sfondo a figura che
si impone percettivamente. Lasa propone delle scannerizzazioni ad alta definizione delle singole lastre
per consentire, attraverso la mediazione digitale (valorizzazione autografica 18 ), una messa in posa
virtuale, ovvero un rendering realistico, incrementando il controllo delle venature in fase progettuale
per l’interior designer o l’architetto. Sul sito web di Lasa o nei cataloghi promozionali è possibile ritrovare
esempi specifici di styling, di messa in posa, volti a dimostrare la capacità di arredamento estetico di tale
linea. La disposizione controllata delle lastre consente infatti di ricostruire una continuità eidetica della
vena tra i pannelli disposti orizzontalmente (in un caso, in cucina), con l’emersione di un effetto-
paesaggio (sorta di linea d’orizzonte che rinvia a un profilo simil-montuoso). A questo proposito vale la
pensa di riprendere Gamboni (2021) per ripensare assieme effetto-paesaggio ed effetto-corpo. L’autore
recupera la proposizione di Rorshach di una “scrittura” delle macchie (klecksography), enfatizzata
dalla posa “a libro” delle lastre, storicamente praticata in architettura. L’idea di Gamboni, volendo
tradurla semioticamente, è che la disposizione a libro generi una simmetria tipicamente verticale e
questa, accompagnata alla dissimmetria locale dei profili, istituisca una pressione analogizzante
(prensione iconica 19 ) per proiezione dello schema corporeo di base: una simmetria verticale
imperfetta. La reincorporazione della macchia diventa quindi caso limite di antropomorfizzazione e
di antropizzazione del naturale.
Il marmo come materiale fungibile per design e architettura articola infine, da canone semiotico, un
fascio di proprietà plastiche che l’antropologa Leitch (1996, 2010), a seguito di un’etnografia nelle cave
di Carrara, ci restituisce. Le valenze plastiche in gioco si espliciterebbero in: bianchezza, traslucenza,
durezza, permeabilità, mutabilità, peso/densità e venatura. Il marmo di Lasa, ad esempio, avendo subito
due metamorfosi geologiche e non una come la maggior parte dei marmi, incluso Carrara, risulta più
duro e più resistente, adatto per installazioni in esterno20 rispetto al marmo carrarino che invece si usura
17
Si veda anche Flood (2016) sulle connessioni più o meno velate tra modernismo e tradizione aniconica.
18
Sull’opposizione tra autografia e allografia nelle arti, cfr. Goodman (1968).
19 Sulla rilettura husserliana di una semiotica della corporeità, cfr. Fontanille (2004).
20 Tra gli usi del marmo di Lasa vale la pena segnalare da un lato la stazione della metropolitana newyorkese di
Calatrava, la Oculus, adiacente al World Trade Center, dall’altro le croci di marmo dei caduti di guerra americani,
in rigoroso statuario bianco.
119
più facilmente se lasciato all’azione delle intemperie. Rispetto a queste proprietà magnificabili o
narcotizzabili, ci interessa tuttavia ragionare in termini di rimaterializzazione del marmo come tentativo
di negare o di risignificare il suo necessario offrirsi come attore-corpo a tutti gli effetti, come filtro,
medium. L’opposizione di base tra i due grandi formati in cui si offre il marmo, la lastra e il blocco, ben
esemplifica la tensione tra una “superficializzazione” del marmo, un suo farsi rivestimento, pelle,
involucro con iscrizioni o come pura texture, in contrapposizione a una sua rimaterializzazione come
corpo-limbo, corpo in potenza, in attesa di un Michelangelo che ne estragga la forma scultorea. Il blocco
attende sblocchi di immaginazione del suo dentro imperscrutabile. Tra le forme di rimaterializzazione,
va considerata senz’altro anche quella, indagatrice, dello sguardo geologico che trasforma il marmo in
un corpo incavo, in cui leggere le tracce di una diegesi cosmologica, indici di un racconto di interazioni
tra pressioni, forze ed energie che vi rimangono scolpite. È interessante notare infatti due grandi tipi di
racconti geologici. Da un lato il carbonato di calcio si pone come risultato di un deposito di elementi
che originariamente facevano da guscio a corpi organici (origine organogena), prima della metamorfosi.
È il trapassato remoto del marmo (“così era stato”), puramente presupposto dalla composizione
attraverso la conoscenza dei processi necessari a generarlo. Invece i segni visibili, le vene, le screziature,
indicano tutti eventi, accidenti puntuali, imputabili a uno spazio-tempo del passato remoto (“questo fu”).
Il marmo è quindi interpretabile come patchwork di materia-tempo, contenente un dispiegamento di
figure del tempo21. La promessa imperitura vi si iscrive culturalmente così come il “fuori dal tempo” del
discorso del lusso, che lo elegge a elemento di longevità. Un caso recente, piuttosto emblematico, è
quello del brand svizzero di lusso La Prairie, che propone un oggetto di marmo, la Nocturnal Massage
Stone, per un trattamento skincare votato a costruire una figura dell’oltre-tempo22.
3. Il peso della sostenibilità
Come anticipato (cfr. supra), il marmo si trova a fare i conti con la sostenibilità, a fronte di una costitutiva
e ineliminabile insostenibilità estrattiva. Processi di deposito millenari, singolari eventi metamorfici nel
cuore di alcune rocce, vengono accostati giocoforza a rapide estrazioni, traslazioni del materiale in ogni
angolo del pianeta e forme di consumo, ancora principalmente legate all’esclusività spesso pacchiana
del lusso23. I tentativi di reintrodurre un’affermazione di sostenibilità spostano costantemente il suo stesso
orizzonte definizionale. Sarà più sostenibile il trasporto dalla cava agli stabilimenti di lavorazione; sarà
più sostenibile la vigilanza delle falde acquifere contaminate dalle polveri del marmo di cava o deviate
nei propri percorsi; sarà più sostenibile la rete logistica di movimentazione del materiale
commercializzato; sarà più sostenibile la riduzione dei resti nel taglio e nella lavorazione. E queste sono
solo alcune direzioni che prendono i discorsi sulla sostenibilità del marmo. Un caso ben studiato
(Carretero-Gomez e Piedra-Munoz 2021) è quello delle cave di Macael, in Spagna, in cui
l’amministrazione locale ha coinvolto diversi attori sociali del territorio, a partire dalle compagnie
estrattive, invitandole a sostituire il marmo con percentuali crescenti di surrogati, con la conseguente
21
Cfr. su questo tema Bensaude-Vincent (2021).
22
Si veda ad esempio la campagna video 2022 “Pure Gold Radiance Noctural Balm Ceremony”, accessibile qui:
www.youtube.com/watch?v=ar3dYPjzXt4&t=28s>. La pietra per massaggi ha una doppia sagomatura, concava e
convessa, progettata per seguire i contorni del viso. Il ragionamento è interamente di tipo analogico: la pelle farà
propria la proprietà marmorea di ciò con cui entrerà in contatto. La promessa d’eternità diventa più di un laico
rituale notturno: è promossa a cerimonia, da prendere alla lettera nel tentativo di celebrare il carattere simil-sacro
della pelle. Aggiungiamo che gli spot del brand mostrano spesso interni impreziositi dal marmo posto un po’
ovunque, a pavimento e a parete, con superfici luminose e riflettenti, a risignificare il codice persistente del lusso.
23
Questa dimensione estetica del lusso kitsch è ben testimoniata, ad esempio, al Marmomac, la fiera mondiale del
marmo di Verona, visitata nel settembre 2022.
120
necessità di implementare innovazione tecnologica per migliorare la qualità del marmo estratto,
riducendone la quantità. Le compagnie estrattive imparavano strada facendo a riutilizzare gli scarti
generando una moltiplicazione di altre micro-attività imprenditoriali, infine ricostruendo una comunità
più consapevole della natura limitata della risorsa e votata a re-inventare il modo di intrecciare il proprio
destino a quello del materiale.
Vorrei accennare in coda a come molti tra gli studenti dell’esperienza bolzanina si siano cimentati con
i residui, i resti dei processi di estrazione, presenti sotto vari formati: cilindri di carotaggio preliminari
allo scavo, pezzi di lastra di varie dimensioni, sassi di marmo, sassolini e polveri, con diametri diversi.
Fig. 1 – Presentazione dei progetti degli studenti Fig. 2 – Presentazione dei progetti studenteschi
in Unibz (foto dell’autore). in Unibz (foto dell’autore).
Fig. 3 – Presentazioni dei progetti studenteschi in
Unibz (foto dell’autore).
Il problema progettuale trasversale è quello di come impedire il processo di trasformazione del marmo
in detrito abbandonato ma ricomprendere tale pulviscolare eterogeneità di formati materiali, in una
logica di circolarità, reimmettendoli all’interno di un mondo di materiali spendibili socialmente. Il
marmo torna ad essere in quel caso persino sostanza, mera estensione chimica, carbonato di calcio con
proprietà interessanti per il mondo organico, come mangime, fertilizzante di terreno e pronto a seconda
vita una volta disindividuato e asperso. Si pone a quel punto, ribadiamolo, il problema di un’etica della
rimaterializzazione, laddove essa sia colta come parte delle dinamiche di collettivi che problematizzano
l’ingombro materiale, la coesistenza tra umani e non umani in uno spazio di materiali in divenire.
Il marmo è materiel trouvé, oro bianco, che chiede in fase di estrazione la supervisione del geologo per
seguire la vena dentro la montagna, prima ancora della vena nel taglio del blocco. La sua fungibilità
semiotica, rispetto all’oro o ad altri materiali preziosi, dipende dal fatto che contiene già, come abbiamo
121
visto, sia scrittura, sia immagine in potenza, sia purezza risplendente, da cui i diversi trattamenti. Barthes
(1959) diceva che l’oro è il segno per eccellenza, proprio perché principio generalizzato della
convertibilità. Il marmo potrebbe sembrare a questo proposito un memento segnico, nel suo prefigurare
tutta la complessità dei giochi di linguaggio, verbale o visivo, continuamente richiamando
quell’eccedenza materiale che al contempo sfugge ai tentativi di imbrigliarne la significazione in
linguaggio. Il marmo non è affatto il segno per eccellenza, ma è semmai il materiale per eccellenza,
come fungibile semiotico generalizzato sull’intero arco delle produzioni di senso culturalmente
attestabili. La semiosi marmorea, tutt’altro che imperitura, sgorga dentro impensate vene di senso.
122
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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] | Il diagramma nascosto. La materia della carta nella pratica degli origami
Valentina Carrubba
Abstract. A destination reserved for paper, origami makes it an incommutable material: only paper can hold so
many folds, it’s an irreplaceable element, a kind of principle. This special feature of paper, of generative order
(materia mater), more than in the realised artwork, is expressed in the artistic practice, in the relationship between
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Already starting with the origami frame, the Zen spirit animating the art reveals the contrast between a discipline
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in the gap between the programme and the execution, this intervention intends to explore the ways in which, through
a practice variously attested and first-person experienced, the sense of the material is expressed and managed.
1. Materia e pratica
Questo intervento si propone di indagare un materiale attraverso l’intelligenza che può offrirne la pratica.
L’idea è che il materiale si comprenda meglio nella dimensione del fare, nell’imprescindibile corporeità
di un’azione che non si è ancora consegnata all’enunciazione che fu.
D’altra parte, la scelta di trattare dell’origami e della carta dipende dal fatto che in questa pratica non si
può sostituire l’identità del materiale – l’elemento cartaceo è imprescindibile. Sicuramente si possono
fare modelli semplici di origami con la stoffa, o magari anche con fogli sottili di metallo. Ma in senso
stretto, nei diagrammi più complessi, l’origami corrisponde alla carta, e dipende in maniera così decisiva
dal materiale che può esigere un tipo particolare di carta, con tipi particolari di cellulosa, magari
provenienti da una città particolare del Giappone.
Alta individuazione sul versante del materiale, insomma, e bassa sul versante del soggetto, perché, come
mostreremo, la pratica dell’origami, con fare zen, estromette per più versi la soggettività; non ne è interessata.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Il nostro percorso di indagine comincerà con una piccola genealogia, in cui mostreremo il vario
inquadramento dell’origami nelle pratiche, tra i vari destini e destinazioni del materiale, per poi focalizzarci
sull’analisi di quell’arte di piegare la carta che ha preso la direzione ludica che conosciamo meglio.
Segmenteremo la pratica in una fase, progettuale, di disegno e una fase, esecutiva, di piegatura. In
entrambi i casi tratteremo del rapporto che la pratica intrattiene con il materiale e con la materialità del
corpo, nella convinzione che la mano e il gesto abbiano una parte rilevante in questa storia e che, sotto
la soglia delle nostre lessicalizzazioni, si muova una dialettica di autoascrizioni e imputazioni talvolta
difficile da sceverare nella coppia di soggetto e oggetto, come in quella di materia e forma.
In parte l’intervento approfitta degli studi di una semiotica delle pratiche, in parte si avvale di strumenti
dell’indagine fenomenologica, proponendosi di indagare quei vissuti di significazione che animano la
dimensione pratica.
2. Genealogie
Origami è una parola che in giapponese si compone di due parti: ori, parte verbale, che significa piegare,
e kami, che indica la carta: “piegare la carta”. Ma kami significa anche, più generalmente, “ciò che sta
sopra”, ovvero le divinità.
Questa relazione tra la carta e le divinità, cui la parola allude, si spiega anzitutto nella demiurgia del
materiale: la fibra (cellulosa di origine vegetale o animale), dopo essere stata ridotta in frammenti e
buttata nell’acqua, galleggia; come gli dei è “ciò che sta sopra”.
In secondo luogo, e sempre ad uno sguardo genetico, il termine ci porta sulla genealogia dell’origami,
che trova una prima attestazione nell’ambito di pratiche rituali religiose e cerimoniali.
L’origine degli origami si lega alla religione shintoista: pezzi di carta piegati (go-hei) si mettevano davanti
al tempio, in funzione protettiva, oltre che per ricordarne la permanente caducità. Servivano anche,
originariamente, a tutelare il luogo in cui si fabbricavano le spade e potevano essere, durante l’epoca
Muromachi, il premio del vincitore di una lotta di sumo, ma anche l’incartamento dei doni cerimoniali
che si facevano ai samurai, l’elemento di decoro dell’etichetta sociale (e l’etichetta prevedeva origami
con pieghe specifiche e codifiche, i girei origami).
Fintanto che la carta era un bene di lusso, l’origami si faceva popolare solo in occasioni importanti,
come il matrimonio, in una funzione di augurio e buon auspicio che ancora oggi mantiene una tradizione
figurativa (dalle farfalle del matrimonio alle bambole del giorno delle bambine, alla rana, che propizia
il ritorno del viaggiatore, alla gru che promette lunga vita e prospera); attuale resta anche la funzione di
incartamento, nelle varietà dei tato (buste, involucri di varia foggia), che danno vesti rituali agli scambi
di messaggi o doni.
La pratica di piegare la carta ha a che fare con il segreto, non solo perché il diagramma resta nascosto
nella figura realizzata, e nemmeno per il mistero con cui si trasforma un pezzo di carta in un oggetto
tridimensionale (e in effetti è sotto il rispetto di qualcosa di “magico” che gli origami sono stati
inizialmente importati), ma anche perché alcuni diagrammi di origami sono gelosamente custoditi da
élite sociali (di carattere religioso, ma anche afferenti a una determinata realtà urbana-territoriale) che
hanno il compito di presidiare una tradizione: tra l’allografia del diagramma e l’autografia
dell’esecuzione, il materiale, la carta, che non dura, impone la ripetizione.
Nella cornice tradizionale dell’origami, tra i diversi esiti della pratica, è interessante il caso degli Hidden
senbazuru orikata (Fig. 1). Si tratta di 49 disegni/diagrammi, dichiarati “proprietà culturale intangibile di
Kuwana”, che si sviluppano a partire dalla figura della gru, con cui si auspica una lunga vita (e la
leggenda vuole che piegare, o regalare, molte gru allunghi la vita).
I diagrammi, che prevedono il taglio e un solo foglio di carta, sono la mutevole composizione di gruppi
di gru, di diverse grandezze, unite nei più vari modi: ora c’è una piccola gru sulla coda di una gru più
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grande, ora c’è una composizione ordinata di tre gru della stessa dimensione attaccate per le ali, oppure
sono una decina di gru che paiono sfumare verso l’alto come una voluta di fumo, fino ad arrivare alle
famose cento gru che si raccolgono nella forma di un fiore (www.orizuru49.com/en/). I gruppi di gru sono
realizzati su carte tradizionali giapponesi, con decori geometrici e floreali, e la pratica, esclusiva di
Kuwana, è appannaggio di maestri della piega (come nel caso di Yurami Otsuka, definita Preserver of
“Kuwana-no Senbazuru”skills designated by Kuwana city).
Fig. 1 – Hidden senbazuru orikata (© Yurami Otsuka).
In questo esito della tradizione, la gru è figura che ora mantiene ora perde una propria riconoscibilità,
in un discorso, a taglie diverse, sul rapporto tra il tutto e le parti. Come la decorazione, inscritta sulla
carta, mette in questione la riconoscibilità figurativa della gru (di cui si mantiene una sagoma) così si
comporta la composizione delle gru, che diventa sagoma, formante figurativo che rende evanescenti le
parti di cui si assomma. Si ragiona sul tutto e sulle parti, sulla figura e sull’individuazione, sul ritmo di
un collettivo, sull’equilibrio e lo squilibrio compositivo, sull’organizzazione e su forme più armoniche di
comunità. E in questo esito si esplora la carta come archè della pelle, principio originario delle cose:
involucro, forma che individua, e superficie di iscrizione, ornamento che accora.
Al di là della tradizione, la pratica dell’origami ha percorso la direzione ludico-ricreativa che meglio
conosciamo e si è diffusa nel mondo in ambito prima educativo, a partire dall’opera di Yoshizawa, che
la usava per insegnare la geometria, e poi puramente estetico-ludico. Nella genealogia degli origami si
definisce la differenza tra l’origami vero e proprio, che non prevede il taglio, ma soltanto la piega, e
preferibilmente a partire da un foglio quadrato, e altre pratiche similari, come quella degli orikata o dei
kirigami (che prevedono anche il taglio).
È di questo origami, fuori dalla tradizione e rigorosamente senza taglio, che ci occuperemo da qui in
avanti. Questa breve introduzione, che descrive la destinazione pratica del materiale, illumina alcuni
aspetti del suo arché, come analogon di un corpo-involucro (Fontanille 2004, pp. 191-235): involucro,
che ora protegge, ora decora, ora individua, supporto (necessariamente) caduco della tradizione,
materiale memore, che ricorda e tiene le pieghe del diagramma, elemento e principio di una pratica
disciplinata quando non esoterica.
3. Attestazioni
La pratica si attesta in diversi terreni mediazionali: dalla rivista specializzata, cartacea (Origami
Tanteidan Magazine, Noa magazine, The British Origami magazine, per citare le riviste più importanti)
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o online, ai libri che, tra elaborazione teorica e istruzioni per la piega, si rivolgono a un pubblico più o
meno esperto, fino alle raccolte di diagrammi delle diverse Convention e agli svariati video e siti che si
trovano in rete, da YouTube a Instagram.
Il linguaggio dei diagrammi e il disegno delle diverse pieghe e operazioni sul materiale, a partire da
Yoshizawa, è stato progressivamente codificato e ha trovato infine una sistemazione convenzionale ad
opera di Robert Lang (langorigami.com/article/origami-diagramming-conventions/) nell’elaborazione del
giusto compromesso tra la fedeltà del disegno e la sua esplicatività in termini operativi (non ci
soffermeremo, qui, sul modo in cui le diverse soluzioni grafiche, succedutesi nel tempo, gestiscono il
senso delle istruzioni di montaggio).
In generale, a parte nel caso dei video, perlopiù tutorial che mostrano, piega dopo piega, come costruire
la figura, quello che si trova nelle diverse pubblicazioni comprende: il disegno del diagramma sul foglio
(prevalentemente quadrato), un disegno o una fotografia dell’origami realizzato e, ma non
necessariamente, le istruzioni per la piega (Fig. 2).
Fig. 2 – Samurai helmet beetle, realizzazione e diagramma (© Google images).
Ma la pratica non comprende soltanto la realizzazione del diagramma e le pubblicazioni possono
riguardare i metodi per progettarlo. Sempre Lang, che di formazione è un fisico, ha elaborato anche un
programma, e diversi algoritmi in grado di disegnare diagrammi altamente complessi.
La pratica, poi, vive di diverse conventions, in cui gli origamisti provenienti da diverse parti del mondo
mostrano la propria opera, fatta del diagramma e della piega. Le sculture di carta trovano posto anche
nel dominio delle arti, dall’atelier dell’origamista all’esposizione museale.
La nostra analisi, in linea con le attestazioni, analizzerà la pratica in due parti: quella che riguarda la
progettazione del disegno e quella che comprende l’esecuzione delle pieghe. In entrambi i casi si tratterà
di indagare il modo in cui la pratica si incontra e scontra con la materialità della carta.
4. Il diagramma e la progettazione
Gli origami che normalmente si conoscono sono figure semplici, spesso figure di base: dalla barchetta che
ci si è presentata nell’infanzia, magari alla gru, fino all’unicorno di Bladerunner, perlopiù si tratta di
rappresentazioni molto stilizzate, in cui è tangibile un’opera di estrema geometrizzazione della realtà. Sul
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versante dell’iconismo, però, l’arte degli origami è in grado di eseguire riproduzioni molto fedeli della
realtà, e tanto più la figura è fedele quanto più l’architettura diventa un mistero (matematico) insondabile.
Ci sono poi, in direzioni più astratte, tecniche di origami poco note, come la tesselation (Fig. 2), che
rende possibile creare pattern ripetitivi e complessi su un piano piegando un solo foglio di carta, e
tecniche di lavorazione della carta in cui si compongono moduli elementari, così che diverse tecniche
possono partecipare alla costruzione di un origami (tartarughe e pesci, ad esempio, possono
comprendere una tesselation per la riproduzione delle squame o della corazza).
La pratica di progettazione dell’origami parte dal disegno della figura che si vuole realizzare. Si disegna
la figura e si contano le estremità che la compongono, per poi metterle sul foglio: nel caso della gru
tradizionale, ad esempio, abbiamo le due ali, la testa e la coda. Ogni estremità richiede una certa
quantità di carta, a seconda di dove viene posizionata: se messa nel centro chiede l’intero angolo giro,
mentre sul lato e sull’angolo prende rispettivamente metà e un quarto dell’angolo giro. Uno dei metodi
più semplici per disegnare il diagramma è quello di posizionare questi cerchi e semicerchi, e poi
scomporli nella forma base del diamante (si tratta di pieghe che permettono l’estrusione dell’estremità),
come si vede in figura 3.
Fig. 3 – Foto tratte da Origamix, Tetsuya Gotani, 2019.
Se l’obiettivo della pratica, sul versante tattico, è quello di realizzare la figura desiderata, va detto che
una stessa figura può essere realizzata in diversi modi, con diagrammi più o meno efficienti dal punto
di vista del risparmio della carta. Il disegno, infatti, mira all’ottimizzazione del foglio (ed è per questo
che spesso, nelle pubblicazioni, si mostra la proporzione tra il diagramma e l’oggetto realizzato), oltre
che alla resa della figura.
Altri principi regolatori si trovano nella complessità delle pieghe da eseguire: il disegno può svilupparsi
a partire da una figura di base nota e con pieghe conosciute, ma può anche tentare soluzioni senza
nome, al di là dei protocolli consolidati.
Infine abbiamo il vincolo del foglio di partenza: se negli anni 70, discostandosi dalla tradizione, si
facevano diagrammi su fogli di varia forma quadrangolare, si è progressivamente tornati a rispettare il
vincolo del formato quadrato iniziale; una condizione che complica notevolmente l’origami e che, d’altra
parte, dimostra quanto, in quest’arte, non valga semplicemente il risultato: ciò che conta il rapporto tra
la fermezza e unicità del principio (in principio deve essere il quadrato) e la varietà dei risultati.
Il modo in cui viene generato il diagramma ci porterebbe su un discorso di ordine matematico: si tratta
di ragionamenti geometrici e di euristiche della soluzione che mostrano qualità come l’eleganza,
esattamente come quando, in gergo tecnico, si parla dell’eleganza di una dimostrazione. La pratica,
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purificata da ogni contaminazione materiale, ci porta infatti su una branca della geometria, la geometria
dell’origami, messa a punto da Humiaki Huzita e Koshiro Hatori in 7 assiomi e che trova applicazione
in diversi campi del sapere, dalla cibernetica allo studio del dna.
Dal punto di vista del problema dei fondamenti della matematica, la geometria dell’origami offre
l’esempio, husserliano, di quello scorporamento dal mondo sensibile che mette in questione l’esistenza
di giudizi sintetici a priori, giudizi puri e forme pure. E non solo: la geometria dell’origami, di origini
umili, empiriche, è in grado di risolvere problemi irrisolvibili con gli strumenti della geometria euclidea,
come la trisezione di un angolo o la costruzione di un cubo di volume doppio rispetto al cubo iniziale.
Conoscere qualcosa, avrebbe detto Platone, significa conoscerne la legge di costruzione: conosco il
triangolo perché so costruirlo, riesco a fare una dimostrazione perché ho costruito delle figure sul
disegno iniziale, capaci di rivelare dei rapporti. Rispetto al sistema di Euclide, la geometria dell’origami
offre quell’insight che esce dai confini del problema per trovarne la soluzione: scorpora la pratica dal
foglio di carta per farla lavorare in astratto, così che il gesto, invisibile, diventa principio di costruzione
alternativo in cui si possono sovrapporre e allineare dei punti. Dal materiale, che si presta
immediatamente alla piega (l’operazione più primitiva che possiamo compiere sul foglio), che è in grado
di sovrapporsi più volte, viene l’elemento, il principio, di una costruzione ideale.
Il disegno, d’altra parte, più è complesso, più chiede alla carta di assottigliarsi (ci sono carte da 30/40
grammi), più pretende che sappia tener traccia, che abbia memoria. Accanto allo sviluppo dei diagrammi
c’è lo sviluppo del materiale, nella sua componente più strettamente hyletica, in una direzione che al limite
la trasforma in un piano, capace di piegarsi innumerevoli volte, e di aver memoria senza patire il tempo e
l’usura, una memoria che pare il controcanto della caducità di tutto quel che è sensibile.
Il diagramma tende a un idealismo allografico in cui non ci sono margini di autografia, né da parte
dell’esecutore né da parte del materiale - quello che conta, di una figura, è il rapporto, la proporzione,
in una leibniziana indifferenza all’estensione. Non è un caso che l’origami abbia percorso, nei suoi esiti
creativi, direzioni che esplorano dimensioni-limite, come nel caso dell’opera di Naoki Onogawa, che
realizza gru di carta (Fig. 4) che stanno (larghe) sulla punta di un dito (destinate, peraltro, alla
composizione di bonsai di carta) - la materia della carta tiene, nella sua inconsistenza, nella sua essenza
fibrosa, tanto alla tensione all’infinitamente piccolo, quanto alla complessità di diagrammi che tracciano,
per centinaia di pieghe, i rapporti più realistici.
Fig. 4 – La gru di Naoki Onogawa (© Google images).
5. Realizzazione e categorizzazione
Passiamo quindi alla seconda parte della pratica dell’origami: la parte in cui si eseguono le pieghe, più
strettamente operativa. In questa scena predicativa gli attori sono le mani, le loro possibili protesi, la
carta e il gesto che li rapporta, il piano/tavolo che sostiene il tutto.
130
Cominciando con il fare, con il gesto, ogni divulgazione dell’origami comprenderà in primo luogo la
descrizione di una serie di pieghe che hanno trovato una lessicalizzazione (mountain/valley fold; rabbit
fold; spread sink etc.) e che descrivono una procedura.
Rispetto alla procedura, sempre restando sulle attestazioni lessicali, possiamo trovare indicazioni intorno
alla delicatezza/decisione del gesto che deve compiere la piega (ci sono pieghe che chiedono di essere
risoluti e pieghe che, al contrario, richiedono delicatezza). L’aggiustamento del movimento e la sua
modulazione, d’altra parte, rilevano anche dalla risposta del materiale, che obbedisce più o meno alle
intenzioni del gesto.
D’altra parte, la lessicalizzazione non copre tutte le possibili pieghe dell’origami, che spesso si escogitano
sul momento, potendosi svolgere in diverse maniere, specialmente quando si tratta di eseguire un
collapse (piegare in una volta sola l’intera figura). È un problema di soglie e demarcazioni, che pure si
producono nel corso della pratica, ma che restano al di sotto di una salienza categoriale.
Per quanto riguarda la temporalizzazione del processo, abbiamo casi in cui l’origami si ottiene facendo
una piega alla volta, e la struttura si ottiene cumulando delle pieghe, così che la modifica della figura (il
foglio, che assume forme diverse) si sviluppa parallelamente a quella del tempo, in aspettualizzazione
durativa, e casi in cui, invece, il foglio viene prepiegato inizialmente, senza che se ne modifichi la forma
(si piega e si ridistende la piega), per poi essere piegato al termine, tutto in una volta.
Ma il tempo non riguarda solo l’esecuzione, perché, come si è più volte detto, nella pratica dell’origami
è in gioco la memoria del materiale. Non si tratta della memoria di una superficie di iscrizione, come
un quaderno, o della memoria del supporto su cui si ispessisce la pittura: la memoria della carta è una
memoria-azione, è la capacità, insediata nella carta, di replicare una determinata posizione.
La creazione di una nuova piega, per esempio, può far perdere alla carta la memoria immediata della
precedente, così che bisogna ravvivarla, ci sono pieghe che verranno immediatamente sfruttate e pieghe
che verranno utili in seguito, e quando ci sono molte pieghe pretracciate si tratta spesso di doverle
attualizzare, in modo che ogni piega abbia la stessa forza dell’altra; il gesto va dosato, in base a quanto
è distante, nel tempo, la sua traccia. Ma il gesto può anche creare nella carta delle linee di forza che la
portano in conflitto con se stessa, ciò che spesso accade quando si devono ribaltare le pieghe
precedentemente eseguite. E qui si deve percepire la tensione limite oltre alla quale il materiale si spezza.
Ed è a questo punto che la scena pratica si apre su fattori di indeterminazione, perché l’incontro sensibile
e tattile con il materiale mette in gioco la dialettica tra assimilazione e dissimilazione, imputazione e
autoascrizione. La carta può assorbire l’umidità delle mani e perdere, in parte, memoria delle pieghe
oppure può richiedere una pressione maggiore perché la piega si tracci; così pure può doversi decidere
se lo spessore della carta ripiegata è un difetto di pressione o rileva del tipo di materiale; o ancora,
questa indecisione di confini, tra ciò che rileva da me e ciò che rileva dal materiale, si può mostrare a
partire dall’esecuzione di una singola piega: si decide dove la piega comincia, si regola la
sovrapposizione del foglio e si comincia a piegare, ma da un certo punto in avanti – e quando, di
preciso? – è la carta che sa dove andare e non c’è più bisogno di monitorare l’andamento della piega.
6. Reazioni e imputazioni
L’identità del materiale, sintesi distintiva del gesto, si esprime, nell’origami, attraverso la varietà delle
pieghe che possiamo eseguire. Momento preliminare alla pratica di piegatura, rispetto a un certo
diagramma, è la scelta della carta. Sebbene l’origamista conosca, generalmente, le varietà di carta su cui
lavorare, può rendersi necessaria un’opera di assaggio del materiale ed è sempre necessaria quando si
lavora su carte che impongono una direzione precisa. La fibra, infatti, si dispone generalmente in una
direzione, così che certe pieghe seguiranno, in armonia, la direzione delle fibre, mentre altre dovranno
spezzarle. L’incurvamento della carta dimostra la direzione della fibra: il materiale tende a curvarsi in
131
maniera più stretta lungo le fibre, mentre invece farà fatica a curvarsi in perpendicolare. Alcune carte,
come la carta kinumomi, impongono una direzione stringente e le pieghe perpendicolari alle fibre
rischiano di indebolire la struttura. Curvando il foglio, o sovrapponendo i suoi lembi emergerà anche
la qualità elastica del materiale (in asse di contrarietà con la rigidezza, il cui contraddittorio sarà il
malleabile o il duttile).
Lo strappo ci potrà dare una indicazione sulla lunghezza delle fibre, laddove nell’origami è bene lavorare
con fibre lunghe (il foglio A4 che normalmente si usa per stampare, di solito, ha fibre molto corte e si
può usare solo per origami semplici).
Producendo invece una semplice piega sul foglio, potremo ascrivere al materiale qualità come il nitore
della piega, oltre che la malleabilità e la flessibilità (carte composte da fibre di cotone, piegate,
risulteranno meno nitide, e la flessibilità verrà sacrificata a favore della malleabilità).
Qualità diverse dimostra l’inversione della piega (componente essenziale di diverse pieghe, rabbit fold,
petal fold etc.) che rileva difetti o eccessi di memoria da parte del materiale, individua la presenza di
alluminio (la carta tissue foil, che assembla carta velina e alluminio, ad esempio, in virtù del metallo, ha
una grande memoria, ma tiene la piega rigidamente, così che diventa difficile invertirla, trasformarla da
montagna a valle), e dimostra la forza di coesione della carta.
La grana del materiale, assieme alla sua elasticità e duttilità, si dà a vedere in pieghe a ri-orientamento,
come la spread sink (Fig. 6).
Fig. 5 – Tessellation, fasi della pratica, emergenza del materiale.
In figura 5, oltre alla direzione della fibra (la piega perpendicolare, nella spread sink, non è nitida) si
può osservare anche come il punto d’intersezione di diverse pieghe, girate più volte, si sia slabbrato: la
piega, ribaltata, rende conto della resistenza del materiale ma rivela anche, nel caso delle carte colorate,
come si è svolto il processo di tintura (nella carta tant, ad esempio, le fibre vengono colorate prima della
preparazione dei fogli, così che non si perde colore iterando la piega; d’altra parte è una carta piuttosto
debole, che tende facilmente a slabbrarsi).
Ciò che più rende conto della capacità della carta di tenere memoria è il collapse, che si esegue, come
si è accennato, prepiegando l’intero foglio e poi facendolo collassare, da piatto in figura tridimensionale,
in una volta sola. È qui che si apprezza la quantità e la qualità della memoria della carta, la tenuta nel
tempo delle pieghe e la capacità di mantenerle distinte, specialmente nei punti in cui si intersecano (la
carta di gelso, ad esempio, non ha memoria).
132
Ma la memoria non riguarda solo la capacità di ricordare la traccia, perché ci porta su una reminiscenza
hyletica: alcuni origami, il cui sviluppo coinvolge anche la scienza dei materiali, reinizializzano il potere
strutturante della fibra, in pieghe che formano lo scheletro di alcune forme geometriche. Un cilindro
reticolato, ad esempio, fatto da un semplice foglio A4, è in grado di reggere un dizionario.
Dissimilata dal gesto e dalla piega, l’identità del materiale si spiega su un sensorium che raccoglie il
contributo di diverse percezioni. Alcune qualità della carta, sperimentate dal gesto e sentite sul piano
estesico, si danno poi ad intendere, per ripetuta associazione, ad altri sensi. In particolare è l’udito a
manifestare una particolare intelligenza della carta, e si affina nei generi della croccantezza (la carta
resistente è croccante). Le qualità tattili della carta, dal canto loro, come quelle visive, possono
testimoniare della grana, o rilevare la presenza e consistenza delle fibre, mentre il tatto è centrale nella
lavorazione a umido della carta, che, colta con un reagente, dimostrerà in prima istanza la propria
qualità di coesione e la presenza di colle.
7. Autoascrizioni
In questo discorso, che riguarda imputazioni e le autoascrizioni nella relazione con la carta,
considereremo ora quello che è l’effetto del materiale, il modo in cui il materiale stesso, attraverso la
pratica, esplora la nostra soggettività, a cominciare da un corpo a corpo.
In questo corpo a corpo è centrale, come in tante altre arti, la mano e la maniera in cui la pratica opera
una rigerarchizzazione delle sue parti. Da un punto di vista strutturale l’origami elegge, in modo
privilegiato, l’unghia, con cui si percorre la piega e che è in grado di appiattirsi e di scorrere, tra il piano
e il foglio. Si trovano valorizzate la rigidità, la liscezza, la non porosità e l’insensibilità dell’unghia, assieme
alla sua capacità, in coppia, di farsi protesi restrittiva e funzionare da pinzetta per estrarre lembi di carta.
D’altra parte, gli strumenti dell’origamista sono tutte protesi dell’unghia, dalla pinzetta alle diverse
spatole per la piega, alle mollette con cui si tiene la forma.
L’origami è una pratica in punta di dita, e diventa centrale il ruolo del polpastrello, capace di fare grip
sulla carta e indispensabile nel caso di carte molto lisce. Del polpastrello, però, come del resto della
mano, come si è accennato, diventa centrale l’umidità: avere le mani con una giusta umidità garantisce
la presa ed è un requisito fondamentale per l’origamista. La carta rigetta mani troppo secche o troppo
umide e domanda una giusta misura.
È poi importante che le dita sappiano essere forti, oltre che delicate: si richiede estensione, sul piano
dell’intensità della forza, per poter sovrapporre diverse pieghe una sull’altra, in contrasto con l’elasticità
e lo spessore della carta.
Nel corso della pratica, l’elezione di queste pertinenze del corpo rende insensibili a qualità come la
decorazione del foglio o la sua liscezza, caratteristiche che si apprezzeranno solo sul piano dell’esito, a
origami concluso.
Ma la materialità della carta, al di là del piano corporeo, ha una direzione figurale: è retta, è rettitudine.
Nella pratica dell’origami c’è una costante tensione tra l’aggiustamento (si sovrappone la carta, si
prendono misure) e la risoluzione del gesto: a livello aspettuale il monitoraggio lento della misura si
oppone alla decisività dell’azione - l’errore è fatale e comporta il rifacimento di tutto il lavoro.
La pratica è ponderata, spassionata, è un costante esercizio della ratio, del rapporto, dell’allineamento,
porta in primo piano qualità come l’attenzione, la concentrazione, la presenza. Non si può pensare ad
altro, non si può sentire troppo.
Non c’è una dimensione evenemenziale - una componente casuale che parteciperà del risultato.
Tantomeno, come si accennava sopra, una soggettività, dal momento che nella parte più strettamente
esecutiva dell’origami l’identità dell'esecutore è sospesa: la piega non ha uno stile, è impeccabile oppure
no. Al centro è la ripetizione, piega dopo piega, la costanza, la pazienza, che, iterate, estromettono il
133
soggetto. All’origamista resta, al massimo, la parte dello spettatore che apprezza la precisione della piega,
l’aderenza matematica al diagramma.
Nel vivo della pratica, nella realizzazione del disegno, l’origami è una téchne che non ha la vanità e i
trionfi dell’arte. È piuttosto una metis, un sapere pratico, una manipolazione che non prende la direzione
dell’inganno (la metis di Ulisse), ma la via della disciplina, nell’idea che la formazione cominci dalla
dimensione corporea: è il gesto iterato che sedimenta nell’abitudine e l’abitudine che sedimenta nel
carattere. Ma l’origami, se da una parte forma il soggetto, via concentrazione, verso la costruzione di
una tenuta identitaria, d’altra parte volge questa tenuta all’accettazione dell’evanescenza di ogni opera,
decostruendo il mito egoico dei percorsi d’individuazione. Nel diagramma quel che si (s)piega è il
disegno nascosto del mondo: geometrico e imperturbato, anonimo e allografico.
134
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135
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nuove risemantizzazioni post- pandemiche
Maria Giulia Franco
Abstract. During the pandemic, urban spatiality has been involved in new constitutive dynamics responsible for
acting on its identity and semantic value, as it is implicated in new and inevitable processes of resemantization.
The historical period in which we live therefore recalls the need to rethink spaces today as the product of new
translations, born to reshape the link between city and nature, to enhance new relationships between humans and
non-humans, between citizens and external space; the latter thought of as less polluted, closer and for this reason
promoter of a specific effect of nature, through the inclusion of new objects made eco-sustainable by their very
materiality (as in the case of wood).
Through the analysis of three new spaces in the city of Palermo, the aim of this study will therefore be to investigate
semiotically how today's forms of urban materiality set in motion a series of processes that will act in the identity
constitution of the new post-pandemic urban imaginary.
1. Introduzione
Questo studio è incentrato sull’osservazione diretta e sull’analisi semiotica ed etnosemiotica1 del modo
in cui oggi le nuove forme di materialità urbana, istaurando una relazione con lo spazio e con i soggetti,
mettono in moto una serie di processi che agiscono nella costituzione identitaria del nuovo immaginario
urbano post pandemico.
Facendo una breve premessa, per comprendere il senso della nuova dialettica tra gli spazi e i soggetti,
considero significativo il ribaltamento valoriale vissuto durante il periodo di confinamento pandemico;
ribaltamento dato dalla sostituzione degli spazi pubblici, resi impraticabili e dunque negati, con quelli
privati. Questi sono stati risemantizzati in qualità di nuovi delegati di ogni possibile scambio sociale in
una forma di spazialità indiretta e virtuale.
La pandemia e gli effetti provocati dal confinamento pandemico hanno dimostrato l’ipersemiotizzazione
della dimensione spaziale, su cui oggi agiscono pratiche di riappropriazione e riconsiderazione di
specifiche aree2, quelle precedentemente negate.
Il periodo storico che stiamo vivendo avvia così un processo urbano già in atto prima della pandemia
ma accelerato da quest’ultima; processo caratterizzato da un nuovo punto di vista che predilige un
modello di spazio pubblico e sociale più vivibile in cui ritrovare un potenziale legame tra città e natura.
Si pensa alla possibilità di vivere e praticare maggiormente le aree esterne, meno inquinate, più prossime
1
La metodologia etnosemiotica individua nel processo osservativo le basi garanti per comprendere gli spazi
analizzati, migliorandone la descrizione. “Un’etnosemiotica costruisce le proprie analisi a partire dall’osservazione
diretta, ricostruendone il senso rispetto a ciò che si è visto” (Marsciani 2007, p. 10).
2 In relazione a uno studio approfondito sui molteplici progetti di riconsiderazione e re-design dello spazio pubblico
cfr. Clemente (2017).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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e per questo promotrici di uno specifico effetto di natura3; ciò anche mediante l'inclusione di oggetti4,
ritenuti ecosostenibili dalla loro stessa materialità.
Si tratta di interventi di piccola e grande scala, in grado di innescare processi virtuosi di
appropriazione dello spazio urbano, operando sul grado zero dell’architettura. Lo sfondo della città
assume, in tal senso, un ruolo da protagonista, portatore di una nuova dimensione immateriale,
capace di generare nuovi contesti per il collettivo urbano (Clemente 2017, p. 7).
Alla luce di ciò, riporto un’analisi di tre microcasi di spazialità5, ritenuti pertinenti per la questione
affrontata, in quanto in essi vi si trovano specifici oggetti che agiscono nella loro destinazione d’uso,
determinando nei fruitori nuovi comportamenti.
I primi due casi riguardano differenti aree esterne dell’Università di Palermo e l’ultimo ha come oggetto
l’area divenuta pedonale, confinante con il liceo palermitano “Finocchiaro Aprile”; il primo spazio è
quello in prossimità della facoltà di Scienze della Formazione, risemantizzato da un nuovo uso, quello
della didattica all’esterno, il secondo è un’area verde, punto di raccolta per molteplici universitari,
rivalorizzata e riarticolata da nuovi arredi urbani. Nel terzo caso poi, sono stati gli stessi studenti a
trasformare parte della strada confinante con la scuola in un nuovo spazio sociale, mediante l'uso di
arredi in pallet e legno.
Uno degli obiettivi dell’analisi sarà far emergere le logiche e le modalità secondo le quali i casi affrontati
attualizzano il senso e il valore di specifici materiali agenti come attanti della passione, “la reattività della
materia non è per niente passiva ma partecipativa e non solo a livello pragmatico. Non si può negare,
infatti, che le sostanze materiche siano anche attanti della passione” (Ventura Bordenca 2009, p. 14).
Oggetti, materialità che assumendo sempre più il ruolo di soggetti e in particolare il ruolo di Destinanti
(Marrone 2013), conferiscono la possibilità di instaurare nuove relazioni sociali, espressioni di un nuovo
modo di percepire e di abitare lo spazio urbano6.
In questa analisi tenterò di dimostrare la funzione di specifiche materialità nel conferire allo spazio una
differenza, innescando determinate procedure valorizzanti che inducono i fruitori a prendere possesso
del luogo rivalorizzandolo come proprio e dunque come bene comune. Emergerà dall’analisi la natura
degli oggetti che in qualità di attori non umani, vengono qualificati come mediatori, “masse mancanti”
(Latour 1992), responsabili di regolare i nostri comportamenti e di influenzare il nostro stato d’animo.
Inoltre, metterò in luce le procedure semiotiche del processo per cui le nuove aree esterne acquisiscono
una rinnovata efficacia simbolica, grazie all’interazione con le nuove materialità urbane.
2. Ripensare la potenzialità degli spazi oggi: analisi del primo caso di materialità urbana
Alla luce delle conseguenze provocate dalla didattica a distanza, emergono nuove forme di
sperimentazione spaziale riguardanti sia la comunità universitaria sia quella scolastica; collettività
interessate a risemantizzare specifiche aree esterne, prive di una destinazione d’uso sociale ma riscoperte
come nuove potenzialità esperienziali.
3
“La natura come effetto di senso, come ciò che appare tale, per una serie di processi sociali e culturali che hanno
generato tali abitudini, costumi e codici” (Marrone 2012, p. 20).
4
Si faccia riferimento a Landowski (1989).
5 Per un approfondimento di analisi di testi spaziali cfr. Pezzini, Finocchi (2020), Marrone, Pezzini (2006).
6 Si fa riferimento anche ai criteri che orientano a una maggiore vivibilità e vitalità dello spazio pubblico; come il
suo grado di liveliness responsabile di influenzarne la percezione individuale e sociale anche in termini di affettività,
Cfr. Lynch (1990).
137
In riferimento alla questione della risemantizzazione urbana è determinante considerare che per tutti e
tre i casi studio analizzati, essa si realizza mediante l’inserimento di arredi urbani responsabili di
trasformare l’identità e l’uso di specifiche aree. Analizzo infatti quelle pratiche di risemantizzazione
collettiva che dimostrano la necessità di sfruttare l’efficacia di micro-spazi già esistenti al fine di farne un
riuso e trasformarli in possibili soluzioni abitative, mediante iniziative e interventi “dal basso”7. È questo
uno dei modi che permette ai soggetti di valorizzare e riconsiderare gli spazi esterni a partire da strategie
per viverli in maniera sociale, sostenibile8 e condivisibile (Migliore, Bertolotti 2019).
I nuovi progetti infatti mirano a trasformare i luoghi in nuovi aggregatori sociali e a renderli promotori
di iniziative diverse, come nel caso del primo oggetto di studio riguardante uno degli spazi esterni
dell’Università di Palermo.
Prima della pandemia, questo spazio era privo di un particolare segno di riconoscimento, in quanto
solitamente utilizzato dagli studenti come zona libera e di passaggio. Oggi diviene luogo di
sperimentazione di una nuova pratica, quella della didattica all’esterno. Osservando i comportamenti
agenti in essa in differenti in periodi dell’anno accademico, ho potuto costatare che la nuova fruizione
dell’area esterna si è resa volàno di nuove modalità di apprendimento, rienunciando una forma nuova
di “fare lezione” incentrata su uno studio più comunitario e partecipativo.
Come mostra l’immagine (Fig. 1), la disposizione plastica dell’aula e degli oggetti non cambia, i banchi
e le sedie vengono posti o di fronte alla cattedra o a cerchio ricreando lo spazio dell’insegnamento e
inducendo gli studenti a uno specifico uso. L’aula una volta dislocata e sconfinata all’esterno, non
presenta più il medesimo confinamento fisico: vengono meno le porte, limiti (Giannitrapani 2013) che
abitualmente le strutturano e le delimitano, differenziandole le une dalle altre.
Viene percepito dagli studenti come uno spazio ibrido, prodotto dall’integrazione di spazialità differenti:
l’area da aperta priva di una funzione stabile, diviene non chiusa, ben diversificata dal suo al di là
contestuale. A differenza dell’interno però, gli oggetti sistemati su due file ben distanziate, fanno
emergere un effetto di continuità dello spazio e una sua maggiore dinamicità che orienta a una nuova
socialità fra i gruppi.
L’area esterna viene così articolata da nuove soglie, oggetti che in qualità di attori non umani, ricreano
uno specifico contesto dotandolo di una nuova identità, il cui ruolo e funzione si riconoscono come
socialmente rilevanti. La nuova spazialità, infatti, acquisisce una particolare efficacia9, in quanto provoca
trasformazioni sia nelle pratiche e nei comportamenti che negli stili di vita dei suoi fruitori. Una volta
sospesa l’opposizione tra uso interno ed esterno, il fenomeno analizzato non solo funge da caso empirico
di dispersione dello spazio di insegnamento, ma anche attualizza una nuova dialettica sintagmatica tra i
soggetti e le materialità; la convenzionalità del rapporto che legava gli oggetti al proprio ambiente, l’aula
interna, viene dunque sospeso.
Dall’analisi viene alla luce la duplice natura degli oggetti, quella funzionale attribuibile alla didattica e
quella puramente semiotica, in quanto coinvolgendo anche la sfera affettiva dei soggetti, vengono
promosse nuove esperienze, nuovi stili di vita e di abitabilità facenti riferimento a nuovi valori, come quelli
etici o identitari. Si tratta del fenomeno di prassi enunciazionale10, in quanto l’uso concreto dello spazio
7
In riferimento alla partecipazione di singole comunità agli interventi di progettazione, si ricorda il tema del
placemaking, cfr. Dusp Mit (2013); Celestini (2018); Granata (2021).
8
In riferimento alle politiche e ai progetti di sostenibilità urbana: l’European Environmental Agency (EEA) associa
all’idea di sostenibilità la creazione di aree esterne attrezzate al fine di favorire un “addomesticamento” del
paesaggio pubblico.
9
Facendo riferimento alla teoria di Lévi-Strauss (1958), nel nostro caso l’efficacia simbolica si afferma quando “Il
significato dello spazio sta nell’azione efficace che esso provoca sui soggetti che entrano in contatto con esso e che
seppur tentano di modificarlo ne risultano essi stessi trasformati” (Marrone 2001, p. 323). Cfr. Fontanille (1994).
10
“Una sorta di ricaduta delle tradizioni interpretative e degli usi concreti dei testi nei testi stessi, al fine di adeguarli
alle sopravvenute esigenze culturali e sociali della ricezione” (Marrone 2001, p. 322).
138
non risponde più a quello originario: la nuova spazialità induce i soggetti a una nuova modalità di fruizione
in cui si affermano rinnovate relazioni interoggettive (agenti nell’articolazione spaziale) e tra spazi-oggetti.
Fig. 1 – Primo caso di materialità urbana e di sperimentazione didattica.
3. Il sistema simbolico dei materiali: il legno
“Il legno è ricercato oggi per nostalgia affettiva: perché trae vita dalla terra, vive, respira, lavora: il legno
è un essere” (Baudrillard 1968, p. 34).
L’analisi del secondo case study ha l’obiettivo di dimostrare la diffusione delle nuove priorità urbane e
sociali rese possibili anche grazie a rinnovate relazioni tra gli spazi e specifici oggetti, selezionati rispetto
al valore di economicità sostenibile (Clemente 2017), coerente con il risparmio di risorse e lo scarso
impatto sul territorio. È questo, infatti, uno dei casi rappresentativi che fa emergere la portata valoriale
e simbolica dei materiali, espressione di rinnovati sensi e linguaggi.
Analizzo un altro spazio esterno dell’Università di Palermo, uno dei punti di incontro per la comunità
studentesca, in quanto si trova in prossimità di uno dei bar maggiormente frequentati.
Prima della pandemia era ritenuto un luogo vuoto, privo di una destinazione d’uso ufficiale, ma
unicamente praticato come zona di passaggio, di vicinanza e di espansione per la consumazione
improvvisata di cibi e bevande; appariva come area neutra, di frontiera che rendeva possibile una
convivenza paritetica delle pratiche (Hammad 2003). Lo spazio, durante gli ultimi anni, è stato riacquisito
e rivalorizzato dalla stessa comunità di studenti, la quale ha risemantizzato l’area trasformandola in modo
creativo in ritrovo sociale, orientato alla partecipazione, alla conoscenza e all’inclusione.
Come mostra l’immagine (Fig. 2), l’area viene riarticolata mediante l'inclusione di tavoli in pallet11 e di
tronchi in legno che, lasciati alla loro forma originaria e al loro colore naturale12, specifico della loro
identità, vengono risemantizzati in sedili e dunque rinvestiti di un’altra funzione, quella pratica; emerge
così il valore riconosciuto all’identità semantica del legno, le cui dimensioni pragmatica e mitica si fanno
portatrici di uno specifico significato e discorso collettivo. Il nuovo processo di risemantizzazione
dimostra infatti la forza espressiva di specifiche materialità, le quali agiscono nel promuovere nuove
esperienze che contribuiscono a migliorare gli stili di vita universitari e a fornire maggiori opportunità
per rendere vivibile ogni spazio.
11Sulla trasformazione della materia si veda Bastide (1987).
12
In riferimento allo studio sulla simbologia del colore dei materiali, cfr. Baudrillard (1968, p. 29): “il colore
assume senso fuori da se stesso: è metafora di significazioni culturali obbligate”.
139
Osservando più da vicino la nuova funzione fornita ai tronchi, è determinante riconoscere come essi
vengano reinterpretati, resi significanti in un nuovo contesto, acquisendo un’identità e un uso culturale.
Le loro dimensioni materica, patemica e socio-simbolica divengono espressione di un nuovo modo di
vivere e di valorizzare gli spazi sociali in modo più ecologico, spazi in cui ritrovare una possibile idea di
naturalità. Infatti, riconoscendo un’astrazione, in riferimento a Latour, si verifica un processo di
spostamento 13 , dato da ciò che la sua stessa materialità rappresenta nell’immaginario collettivo.
L’identità del legno è infatti espressione di uno specifico sistema simbolico, caratterizzato da un’ideologia
sostenibile, reso così espressione di uno stile di vita universitario. I tronchi fungono da destinanti di un
discorso ambientale, naturale caratterizzato da un rinnovato sistema di valori, di ideologie e di
narrazioni14 da condividere. Grazie a essi, infatti, i soggetti istaurano una nuova relazione con l’ambiente
esterno, percependo lo spazio secondo un grado di prossimità più immediato che garantirà l’emergere
di nuove pratiche spontanee (Marrone 2010).
“L’osservatore non si introduce soltanto nella catena degli usi di un oggetto, ma entra a far parte di una
vera e propria forma di vita” (Peverini 2019, p. 72); forme di vita, di abitabilità dalle quali emergono
nuove procedure valorizzanti15 che qualificano lo spazio come bene comune da salvaguardare.
Durante le varie fasi di una ordinaria giornata universitaria, osservo le modalità e le pratiche secondo le
quali gli studenti si adattano a una idea di spazio fruibile per molteplici usi, come l’incontro, lo studio o
i lavori di gruppo; condizione sicuramente favorita dalla tipologia di arredamento e di
“addomesticamento” dell’area che ricrea una spazialità ibrida, priva di una funzionalità rigida e per
questo soggetta a molteplici proiezioni di significati. Nascono nuovi legami relazionali poiché l’area
diviene meta di pratiche “dal basso”, pratiche quotidiane spontanee, per le quali il senso e l’identità
dello spazio si riaffermano continuamente.
L’area è pensabile come un caso di spazio semi-determinato (Hall 1966), in quanto strutturato secondo
una logica improvvisata che non si impone nel territorio e per questo in sintonia con un progetto
ecosostenibile in cui i soggetti si pongono in relazione con l’ambiente esterno.
“Il legno come sostanza familiare e poetica che lascia in una continuità di contatto con l’albero; può
durare a lungo e modificare a poco a poco i rapporti con l’oggetto e la mano” (Barthes 1957, p. 52).
Fig. 2 – Secondo caso di materialità urbana, area esterna Università di Palermo.
13 Latour (1999a) sostiene che in ogni fase della trasformazione scientifica si realizzi una trasformazione degli
elementi coinvolti, precisamente un passaggio dalla dimensione concreta della materialità a quella astratta della
sua rappresentazione. Questo tipo di passaggio da cosa a segno viene definito debrayage di affissione (Peverini
2019, p. 78). Cfr. Peverini (2023).
14 Cfr. Lévi-Strauss (1978).
15 Si fa riferimento al sistema meta-semiotico di procedure valorizzanti (Floch1990), di cui fa parte la socializzazione
utopica che mira alla costituzione di soggettività individuali e collettive, cfr. Marrone (2010, p. 69).
140
4. Analisi del terzo caso di materialità urbana: il pallet come Destinante affettivo e pragmatico
L’analisi del terzo case study ha l’obiettivo di far emergere il ruolo che le materialità in qualità di
mediatori urbani (Landowski, Marrone 2002) assumono nel trasformare l’identità e la destinazione di
uno spazio pubblico, favorendo nuove associazioni tra umani e non umani (Latour 2005).
A dimostrazione di quanto lo spazio sia un continuo risultato del riarticolarsi di materialità eterogenee,
analizzo una particolare caso di risemantizzazione urbana: l’area pedonale realizzata a Palermo
confinante con l’Istituto “Finocchiaro Aprile”.
L’ area è stata ideata dal corpo studentesco grazie a un intervento di co-progettazione partecipativa che
ha indotto non solo gli studenti ma anche potenziali pedoni a prendere parte al nuovo spazio secondo
usi coerenti con i valori di sostenibilità urbana e benessere del cittadino. Infatti, il materiale utilizzato
per la sua articolazione è il pallet, oggetto ecosostenibile ricavabile dal legno; quest’ultimo solitamente
adoperato per il trasporto delle merci, questa volta viene risemantizzato e investito di un’altra funzione
mediante un atto che riprende la classica definizione lévistraussiana della pratica del bricolage (Lévi-
Strauss 1958)16. In riferimento a ciò, è determinante sottolineare come sia il senso connotativo (Eco 1968,
pp. 191-249) attribuibile al materiale a far emergere e ad attivare specifici effetti di senso, divenendo
manifestazione17 di un modello di vivibilità sostenibile.
Come mostra l’immagine (Fig. 3), gli studenti restituiscono una identità all’area posta in prossimità
dell’ingresso della scuola, ricreando una forma di spazialità sociale e complementare a quella interna,
in quanto questa viene personalizzata e risemantizzata in area condivisibile, familiare, in cui ritrovarsi
anche all’esterno dell’istituto scolastico. Ciò avviene mediante la creazione di tavoli e sedili in pallet, che
una volta dipinti (a differenza dei tronchi all’Università), agiscono in qualità di soglie nel ricreare un
luogo autogestito e d’incontro che pone in continuità l’interno della scuola con l’esterno della strada.
La pratica creativa di realizzazione di oggetti a partire da una materia già esistente e riciclabile richiama
il tema del recycling, coerente con le tematiche trattate ed efficace in termini di progettualità urbana e
di singoli interventi dal “basso”.
“Riciclare presuppone guardare alle cose cercando un loro possibile capovolgimento e lo svelamento
di un valore insito in esse, materiale e sociale” (Bocchi, Marini 2015, p. 16).
Si tratta infatti di una tecnica architettonica creativa di rimpiego di materiali in un’ottica green al fine di
riattivare “cicli di vita” rinnovabili nel tempo 18; pratica sempre più diffusa nel settore dell’edilizia ma
non solo, che ha l’obiettivo di rivalorizzare e riprogettare spazi aperti, vuoti e privi di una destinazione
sociale facendo ricorso a una continuità temporale.
In riferimento al caso di risemantizzazione trattato, la strategia di valorizzazione e di riuso del materiale
agisce nel conferire all’area una differenza, riqualificandola come luogo sociale, di sosta e di incontro.
Infatti, lo spazio reso pluridirezionale può essere fruito dagli stessi studenti o da eventuali passanti; per
questi ultimi funge da possibile tappa improvvisata di un percorso interrotto, o punto di arrivo per la
fruizione di uno spazio sempre accessibile, caratteristica ulteriormente motivante per un uso aperto
16
In riferimento alla teoria di Lévi-Strauss, la definizione di bricolage spiega come “la totalità dei mezzi disponibili
debba essere implicitamente inventariata o immaginata perché possa definirsi un risultato che d’altronde
rappresenterà sempre un compromesso tra la struttura dell’insieme strumentale e quella del progetto” (1958, p. 34).
17
In riferimento a un approccio relativo al linguaggio dei materiali, cfr. Floch (1995).
18
In quest’accezione agiscono le logiche di un design architettonico improvvisato orientate a un riavvicinamento
al mondo naturale, in cui prevale l’ottica del riutilizzo di materiali e di aree urbane in termini di riscatto rispetto
alle assenze di progettazione pubblica; per un maggiore approfondimento sul tema si veda: Braungart,
McDonough (2003).
141
anche al pubblico. Inoltre, l’area resa ibrida da una convivenza di pratiche e usi si colloca nel tratto
della non apertura per gli automobilisti in quanto isolata dal traffico e in quello della non chiusura per
il pedone, tratto definito da un sistema di confinamento non rigido. Questa zona è infatti, sempre
accessibile e utilizzabile in ogni momento della giornata divenendo un microcosmo urbano a misura
d’uomo, dialogante e in continuità con il resto della strada19 confinante.
Il materiale, i colori utilizzati, e l’inserimento di vasi di piante e fiori sono tutti elementi costitutivi della
nuova spazialità, in quanto parlano di essa come di un nuovo spazio comunitario, il cui senso finale è
dato unicamente dalla relazione con i soggetti che prendono possesso di esso20. Così, la negazione del
confine di ciò che distingue uno spazio anonimo, pubblico, come la strada, da uno sociale, come un
giardino, un parco o una piazza diviene sempre più netta; i suoi fruitori divengono promotori di nuove
forme di comportamento in un luogo di incontro in cui le pratiche attribuibili unicamente a “passare”
vengono distinte dallo “stare”.
L’intervento di risemantizzazione ha agito nel conferire una nuova identità allo Streetscape 21di quella
che era unicamente una strada, promuovendo nuove forme di addomesticamento sociale che
ridisegnano il limite tra l’interno e l’esterno, tra il pubblico e il privato (Hammad 1989). L’area diviene
un nuovo spazio-cerniera , “luogo di ricomposizione tra il discorso pubblico e il discorso privato”
(Bertetti 2008, p. 4).
A tal proposito sono auspicabili interventi di cura e manutenzione agenti nel nuovo spazio sociale,
determinanti per mantenerlo vivo, autonomo e protetto, prevedendo la salvaguardia delle materialità in
essa presenti, facilmente soggette ad atti di degrado; ciò incoraggia anche a un particolare sentire
comune che produce il piacere di fruire uno spazio urbano più intimo, in grado di attivare un processo
passionale positivo, legato a valori affettivi, individuali e collettivi (Denis, Pontille 2022).
“La verità degli oggetti, e del loro senso, sta nella loro materialità, nella loro tangibilità, nella
manifestazione in entità del mondo con le quali abbiamo una qualche relazione fisica, d’uso o di
contemplazione che sia” (Ventura Bordenca 2009, p. 3).
Fig. 3 – Terzo caso di materialità urbana, arredi urbani
nell’area scolastica “Finocchiaro Aprile”.
19
“La strada è uno spazio vissuto, praticato, per cui al suo interno si ritrovano molteplici relazioni sia interoggettive
che intersoggettive” (Barone 2019, p. 91 in Pezzini, Bertolotti 2019).
20 Cfr. Giannitrapani (2006).
21 Si fa riferimento al concetto di Streetscape per indicare tutti gli elementi che, come gli arredi urbani,
caratterizzano l’identità di una particolare area favorendo un maggior confort ambientale. Per un approfondimento
sul tema cfr. Scheerlinck (2015).
142
Alla luce di ciò che è emerso dall’azione delle materialità negli spazi analizzati, individuo alcune
opposizioni tematiche che articolano gli effetti di senso provocati da due differenti modi di utilizzare e
di costruire l’identità del legno; il legno del tronco nel primo caso, figura del mondo che per sineddoche
rappresenta un immediato riferimento al mondo naturale, nel secondo invece il legno del pallet, artefatto
trasformato in arredo urbano.
Ciò farà emergere come il senso e la simbolicità della materialità del legno si realizzino solo in relazione
alla forma che assumono e di conseguenza ai significati di cui divengono espressione nei nuovi spazi;
questo è dunque il caso che dimostra come uno stesso materiale, in qualità di attante pragmatico e
passionale22, può attualizzare specifiche pertinenze e narcotizzarne altre rispetto al tipo di narrazione in
cui viene inserito.
Tronco Pallet
Natura Cultura
Originario Derivato
Risemantizzazione Trasformazione
Tradizione Innovazione
Disforia colore Euforia colore
Valorizzazione utopica Valorizzazione pratica
5. I materiali: propulsori di una sostenibilità urbana
“Il 2020 è stato l’anno del test planetario. Con la pandemia le città di tutto il mondo hanno cominciato,
per necessità e non per virtù, a rimettere mano alle strade, alle piazze, agli spazi pubblici” (Granata
2021, p. 63).
Così tornando al punto dal quale l’analisi era partita e alla luce dei risultati riscontrati, E. Granata riflette
su un fenomeno in crescita, la cui origine è individuabile nel processo di accelerazione provocato dalla
pandemia e rivolto al modo di abitare e percepire gli spazi sociali e pubblici.
Il fenomeno, come si cerca di far emergere dai casi analizzati, riguarda la nuova tendenza progettuale,
finalizzata alla promozione di interventi di disurbanizzazione rivolti soprattutto a quelle aree considerate
vuote, prive di un riconoscimento identitario e come si è visto, di una destinazione d’uso precisa.
A partire da una osservazione diretta delle aree, riconosco come le nuove relazioni tra gli spazi e gli
specifici oggetti agiscano insieme ad altre iniziative per incentivare la sostenibilità ambientale23 e il public
design anche nei luoghi didattici. Infatti, in riferimento a un pensiero ecologico sempre più dominante
nelle città contemporanee, l’efficacia simbolica e la potenzialità semiotica di tutti e tre i micro-casi emerge
in relazione alle nuove forme di vivibilità e agli stili di vita delle aree esterne, coerenti con una “nature
based solution” (Granata 2021). È questa la tendenza progettuale che identifica come prioritaria la
costituzione di più spazi sostenibili, la cui abitabilità, percorribilità e fruibilità rendono conto
dell’integrazione e della partecipazione di una possibile natura urbana24.
22
Pertinente è il riferimento allo schema delle passioni, Fontanille (1993).
23
Si fa riferimento al vasto tema della sostenibilità ambientale in relazione alle pratiche di progetto che negli ultimi
anni hanno diffuso l’importanza della vegetazione all’interno della città, al fine di rendere sostenibile il futuro dello
sviluppo urbano.
24 Pertinente è ritornare sull’instabilità del concetto di natura - visto nel primo riferimento (Marrone 2012) -
riprendendo le parole di Latour (1999b, p. 52) “la società stessa, quando distingue l’umano dalla natura, appartiene
sempre alla natura”.
143
Volendo appunto confrontare tutti e tre i casi, ciò che emerge è il prevalere dell’isotopia euforizzante di
una naturalità da ritrovare in specifiche materialità urbane. Si riflette così sull’importanza del significato
e dell’uso di determinati materiali, la cui pertinenza simbolica è data dal loro essere portatori di uno
specifico valore connotativo che condiziona l’assetto valoriale dei soggetti, evocando una dimensione
euforica o disforica dello spazio abitabile. Gli oggetti si riconoscono dunque, come potenziali soggetti
semiotici che donando una nuova identità agli spazi, fungono da destinanti non umani nel promuovere
forme di ripertinentizzazione del naturale. Ciò si afferma come l’effetto della traduzione materiale, che
attinge a un rinnovato sistema di valori di base e di forme di vita.
5. Conclusioni
L’analisi dei casi di spazialità ha fatto emergere come il senso e l’efficacia di specifiche materialità vada
oltre la loro funzione unicamente pratica. Un fenomeno ben trattato da Barthes, che dichiara che “c’è
sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto” (1957, p. 40); infatti, come abbiamo visto, secondo
logiche differenti per ogni spazialità, l’identità dei materiali veicola l’immaterialità di un particolare
significato facente riferimento a un universo assiologico che va oltre il loro stesso uso e la loro funzione
concreta. Rifletto così su una prospettiva di ricerca rivolta a un fenomeno generale, orientato alla
negazione della pura descrizione fisica degli oggetti, pensati non come artificiosi ma più umani, al fine
di valorizzarne la dimensione simbolica25 e mitica.
Pertinente è dunque il riferimento a Cosimo Caputo, il quale affrontando la semiotica hjelmsleviana e
in particolare i concetti di simbolo e segno afferma: “le metafore risultano radicate nella materialità del
vivere” (Caputo 2010, p. 167). Approfondendo tale questione, emerge come i casi riportati dimostrino
l’acquisizione e la risemantizzazione del loro senso solo all’interno di una determinata spazialità, nella
quale divengono espressione di una specifica struttura tematico narrativa. Si fa ricorso “alla loro capacità
estetica di evocare la forma di vita corrispondente e i valori a essi sottesi” (Fontanille 1995, p. 57).
Ciò che emerge è la portata semiotica di ogni “corpo-attante”26 (Fontanille 2002, p. 72), dimostrata non
solo nell’atto di rivalorizzazione di specifiche aree urbane ma anche nel modo di condizionare i soggetti
al livello sia cognitivo che passionale. Come dichiara Fontanille, “l’interoggettività è di tipo sincronico:
è la prova di un modo di vita, di un effetto di identità” (Fontanille 2002, p. 82).
L’analisi si propone inoltre di sviluppare futuri approfondimenti teorici su un fenomeno in continua
evoluzione e trasformazione, in cui il senso degli oggetti si disperde in differenti forme significanti che
daranno vita a nuove relazioni urbane e sociali. In relazione a ciò, rifletto sul possibile incontro tra due
discipline: la semiotica e l’architettura. Si tratta di prospettive e campi d’indagine differenti ma che
riconoscono entrambi la forza espressiva e la dimensione simbolica di specifiche materialità urbane,
soggetti agenti nel fare emergere nuovi effetti di senso orientati a una percezione più sostenibile,
comunitaria e partecipativa dello spazio pubblico.
25
“Il contenuto semantico di tale valore non è quasi mai una caratteristica intrinseca dell’oggetto cercato; è
piuttosto un valore per il soggetto, un qualcosa che serve alla realizzazione di quest’ultimo, alla costituzione e al ri-
conoscimento della sua identità” (Marrone 2002, p. 16).
26
Fontanille (2002) si riferisce ai processi mediante i quali gli oggetti possono essere percepiti come attanti al pari
dei corpi dei soggetti.
144
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] | Osservare, immergersi, produrre. Immagini del borgo e forme di valorizzazione
nelle aree interne italiane: il caso di Castelluccio di Norcia
Enrico Mariani
Abstract. The debate on living in Italy’s inner areas during the pandemic underwent an unexpected acceleration,
partly due to the unease and congestion felt among the middle-class urban workers, who projected an idyllic and
stereotypical vision of inner areas. The term “borgo” itself has started to indicate these aestheticizing visions, where
material and territorial realities are romanticized. Through the case study of Castelluccio di Norcia, located in the
central Apennines affected by the 2016 and 2017 earthquakes, this article focuses on how hamlets are represented
in public discourse. The ethnosemiotic gaze succeeds in articulating different perspectives on the relations between
images of the hamlets, forms of valorization, and the underlying axiologies of practices and processes, which
significantly impact the transformation of the territory.
1. Introduzione
Il presente contributo intende mettere a fuoco, attraverso una prospettiva semiotica, diversi punti di vista
sulle forme di valorizzazione che caratterizzano il discorso contemporaneo intorno ai borghi italiani. Il
borgo è, ad oggi, qualcosa di immediato e intuitivo, qualcosa che si sa, su cui si è d’accordo non appena
lo si vede comparire: arroccato su un’altura, sullo sfondo di valli e colline, le case in pietra con le tegole
(i tradizionali “coppi”) sui tetti, il colore uniforme, stradine che si incrociano e sbucano su piazzette a
misura d’uomo, giardini ben curati, portici, balconi e sedute diffuse, porte di casa decorate da colorate
fioriere, ristorantini e negozi di prodotti tipici. Nel significato originario diffuso in Francia e Germania
settentrionale a partire dal X secolo, il borgo si definiva come aggregato o centro fortificato, in
opposizione ai sobborghi o alle aree rurali e coltivate che si trovavano al suo esterno, mentre a partire
dal XII secolo ad essere indicato come borgo, in Italia è “il villaggio fortificato il gruppo delle abitazioni
del popolo”, luogo dove si radicheranno mestieri, corporazioni e poteri locali, contrapposto e distinto
tanto al “castrum”, inteso come dimora del signore, quanto alla “villa” del contado (Treccani)1. Secondo
l’ipotesi che tenteremo in questo contributo di articolare, il borgo contemporaneo è definito da una serie
di discorsi ascrivibili ad una certa articolazione stereotipica della materia, una “reificazione estetizzante”
che affonda le sue radici nel processo di riscoperta e valorizzazione dell’Italia dei borghi, “dove sovente
il significato figurativo acquisisce autonomia e vita propria rispetto al significato originario dell’oggetto”
(De Rossi, Mascino 2022, p. 66). Tale articolazione stereotipica produce una serie di testi, immagini e
pratiche accomunate dal condividere, riformulare e scambiarsi certe immagini-tipo dei borghi. In questo
senso il borgo potrebbe essere proficuamente analizzato attraverso la formulazione del corpo-immagine
(Marsciani 2007°) come addensamento valoriale che si attualizza propriamente nella dimensione del
discorso. La dimensione del discorso permette di cogliere tanto la “capacità di produrre immagini, vale
1
Voce “Borgo” nell’enciclopedia online Treccani (consultato il 6 aprile 2023).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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a dire di addensare tratti, di farli risuonare, di montare elementi in configurazioni complesse, di delineare
scenari, di convocare altri corpi e di stratificarli”, quanto l’inevitabile e necessaria presa di posizione
rispetto al discorso di tale capacità di produrre immagini, che avviene sempre “in funzione di un punto
di vista, di un’istanza di valorizzazione” (ivi, p. 140). L’obiettivo di questo contributo è quindi quello di
mappare le pratiche di messa in discorso dei borghi, tramite un corpus di testi raccolti nell’ambito di
un’etnografia prolungata nelle aree dell’Appennino centrale colpite dai terremoti del 2016. L’ipotesi è
che attraverso l’etnosemiotica si riesca a rendere conto in modo privilegiato tanto di come il corpo dei
borghi, la loro materialità, venga resa in immagine nel discorso contemporaneo, quanto dei
posizionamenti valoriali sottesi a tale discorso. L’analisi dei processi di discorsivizzazione, che coinvolge
la messa “in forma” di certi elementi e materie (paesaggi, prodotti tipici, tradizioni, caratteri e modi di
fare locali…), è in grado di illuminare gli schemi valoriali sottesi alle pratiche che, nel contemporaneo,
determinano processi con impatti molto rilevanti sulla trasformazione dei territori.
2. La riscoperta (pandemica) dei borghi italiani
Per comprendere gli aspetti specifici che interessano i borghi dell’Appennino centrale, è necessario
inquadrare il contesto delle cosiddette aree interne italiane. La categoria che vede recentemente
rivendicare alle aree interne2 spopolate e povere una nuova centralità, rievoca la stessa tensione tra
interno ed esterno con cui Manlio Rossi Doria (1958) si riferiva a “polpa e osso” per analizzare e
denunciare le diseguaglianze che si andava amplificando tra il paesaggio produttivo delle pianure
costiere e quello, aspro, che caratterizzava i territori interni del Meridione. Negli anni Cinquanta i
processi di marginalizzazione – pauperizzazione e crisi del welfare territoriale, abbandono delle risorse,
trasformazione socioeconomica e antropologica – che in seguito investiranno anche le aree rurali,
appenniniche e montane di tutto il Paese erano già ben avviati. Molti autori hanno storicizzato, in forme
diverse, le faglie storiche, culturali e politiche di questo processo di “scivolamento a valle” (Sereni 1979)
dei paesi. Parlare di spopolamento e impoverimento delle aree interne significa confrontarsi con una
serie di scelte politiche e di modelli di sviluppo territoriali: un nodo che intreccia questioni
interdipendenti, legate agli effetti socio-spaziali dell’industrializzazione del dopo-guerra e che incide sulla
condizione abitativa di “circa un milione di italiani che non sono liberi di continuare a vivere dove sono
nati, a causa delle condizioni di marginalità e isolamento che limitano di fatto i loro diritti di cittadinanza”
(Pazzagli 2021, p. 42). Il dibattito sui borghi ha conosciuto un’inattesa accelerazione durante la
pandemia, in particolare in seguito ad un’intervista rilasciata dall’architetto Stefano Boeri al quotidiano
La Repubblica, nel quale, tra le altre cose, si proponeva di “adottare i piccoli borghi” (De Cunto et al.
2021, La Repubblica 2020). Un ruolo rilevante era giocato, in quel periodo, dalla sensazione di disagio
e congestionamento della classe media di lavoratori urbani, che proiettavano sulle aree interne una
visione idilliaca e stereotipata (Bindi 2021). L’alterità spaziale e temporale nei confronti dell’urbano,
comunemente associata a remotezza, isolamento, diseguaglianze e arretramento, viene riconfigurata e
valorizzata positivamente nell’ambito di una generale fascinazione per la dimensione del borgo: piccolo,
sano, rurale e all’aperto (outdoor). La densità urbana è opposta agli ampi spazi aperti, l’inquinamento
all’aria pulita, la qualità delle materie prime al cibo dei supermercati, l’anonimato della vita urbana a
relazioni sociali sane. L’iperproduzione e in generale l’insostenibilità sociale e ambientale della vita
2
La categoria di “aree interne” viene istituzionalizzata nel 2013 con una politica nazionale di sviluppo e coesione
territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico, la Strategia Nazionale
per le Aree Interne (SNAI). In base al criterio di remoteness, ovvero di distanza dai servizi essenziali (ospedalieri,
scolastici, trasporti pubblici) la SNAI individua 72 aree interne. La distanza media da questi poli definisce una
tipologia: poli di attrazione urbani, poli di attrazione intercomunali, aree di cintura, aree intermedie, aree
periferiche, aree ultra-periferiche (Barca, Casavola, Lucatelli 2014).
148
urbana sono opposte alle storie di chi decide di trasferirsi nelle aree interne, come esempi della
possibilità di fare esperienza di ciò che in città è, per definizione, negato (Olmo 2022). Se la posta in
gioco nel discorso può essere identificata come una delle questioni centrali del contemporaneo – come
vivere in relazione all’ambiente, alle risorse, alle relazioni e all’accessibilità dei servizi –, l’uso della parola
“borgo” inizia, durante la pandemia a farsi spia di quelle visioni dicotomiche, “urbane” ed estetizzanti,
in cui le circostanze materiali, in particolare quelle relative all’abitare in rapporto alle disuguaglianze e
le vulnerabilità socio-spaziali, sono narcotizzate.
3. L’immagine ideale del borgo italiano
Per individuare le radici dell’immagine del borgo contemporanea è necessario interrogare i processi di
trasformazione delle aree interne in sfondo per le vacanze, che si vorrebbe allo stesso tempo puro,
idilliaco, incontaminato e capillarmente dotato di servizi e infrastrutture turistiche. Le aree oggetto di
studio di questo contributo, quelle dell’Appennino centrale colpite dai terremoti del 2016-2017 (Emidio
di Treviri 2018), sono coinvolte in un processo di brandizzazione esemplificativo per le aree interne,
dove alcuni vettori rendono possibile individuare il conferimento acritico dei caratteri di autenticità,
genuinità e spirito contadino al centro Italia rurale (Sabatini 2020). Tale processo coinvolge il territorio
nel suo insieme, se consideriamo che, nella zona dei Monti Sibillini, alla perdita di 19.566 residenti avuta
nel trentennio 1951-1981 (una diminuzione media della popolazione del 30,5% per decennio) fa da
contraltare un aumento medio dell’edificato del 280,2%. Il binario che vede correre parallele da un lato
desertificazione sociale, e dall’altro infrastrutturazione, si configura come punto di emergenza
contemporanea del processo di abbandono, e parallela brandizzazione di alcune specifiche
caratteristiche delle aree rurali e montane (Mariani 2022; Olori, Mariani 2022). L’inselvatichimento
presente intorno all’infrastrutturazione dei borghi, legato all’idea di wilderness e alla domanda di natural
experience, viene convocato in questi immaginari come un valore positivo, di cui viene esaltata
l’autenticità, in contrasto – oppure in un rapporto compensativo – con il modello urbano in crisi (Brevini
2013). Dal progressivo disgregamento di forme abitative basate su relazioni di reciprocità ed equilibrio
con le risorse ambientali, derivano in realtà gravi fenomeni di degrado territoriale: il territorio
abbandonato non è semplicemente un territorio improduttivo o senza abitanti, ma è un territorio in cui
si perde biodiversità (Carrosio, De Renzis 2021). Più che angolo dimenticato da cui ammirare le rovine,
l’abbandono allora
è risvolto costitutivo di un modello di sviluppo orientato alla concentrazione e intensificazione
produttiva e generatore di marginalità. L’abbandono e lo scarto sono estremi territoriali
consustanziali al modello industriale, che fa della produzione di scarti (siano essi produttivi, sociali,
umani) la base del proprio funzionamento (Varotto 2020, p. 61).
Il confezionamento di immagini idilliache dei borghi si configura come ritaglio particolare, teso alla
costruzione di luoghi utopici (Addis 2016):
né qui, né altrove […] nello scarto fra il luogo e la scena, fra un territorio informato della cultura e
la memoria di coloro che lo abitano e lo spettacolo colto da un osservatore fuori-campo, per il quale
cose, persone e azioni sono indifferentemente emergenze di una scena edenica da cui sono espunti
l’Altro e la Storia, il conflitto e la gerarchia, il bisogno e la mancanza, il lavoro e una qualunque
azione trasformatrice (ivi, p. 60).
La patrimonializzazione del borgo, la sua riduzione ad oggetto estetico opera attraverso estrazione di
ritagli localizzati dal territorio, estrazione dell’oggetto dal contesto che produce una “miniaturizzazione
149
totalizzante” (ivi p. 69): l’immagine del borgo diventa autonoma rispetto alla rete delle attività, dalle
infrastrutture, dalla vita quotidiana, dal paesaggio produttivo delle aree interne italiane. Paesaggio che
Lanzani (2003) definisce “scomposto”, con urbanizzazioni decontestualizzate, aree e servizi turistici
sovradimensionati rispetto al numero dei residenti, frane e interventi emergenziali che tamponano, ma
non riparano il disgregamento. Secondo De Rossi e Mascino (2022) l’immaginario figurativo propone i
borghi come “opere d’arte totali”, attraverso movimenti “metasegnici e metonimici” in cui le qualità
sensibili dello spazio (“natura e tipo di materiali tipici e tradizionali, configurazioni integrali dello spazio”)
vengono estratte e riproposte in modo incrementale e cumulativo (ivi, p. 68). A perdere di importanza
è il territorio, a favore di un effetto di autenticità incarnato dall’adesione a un canone iconografico e
figurativo: “separata dai contesti reali e dal fluire della storia, inscritta in una cornice resa idealtipica, la
natura stratificata e incrementale dei paesi si capovolge in carattere borghigiano: la patina, la tortuosità,
l’irregolarità, lo sviluppo altimetrico e rugoso diventano tratto estetico” (ivi, p 70). L’interesse per l’analisi
delle forme di valorizzazione dei borghi si configura allora come percorso di ricerca che insiste su quelle
configurazioni culturali che veicolano e producono determinati concezioni e pratiche della natura
(Marrone 2011).
Fig. 1 – Civita di Bagnoregio, una delle forme
architettoniche che meglio esemplifica l’idea di corpo-
immagine dei borghi italiani.
4. Domande di ricerca e metodologia
L’analisi delle modalità specifiche di messa in forma della materialità dei borghi può rappresentare una
porta d’accesso utile alla comprensione di quelle configurazioni socio-culturali che riguardano il
rapporto con le concezioni di natura prevalenti nel contemporaneo. Tale analisi si pone in dialogo con
la focalizzazione semiotica dei fenomeni turistici (Pezzini, Virgolin, a cura, 2020), in particolare con i
contributi che si sono dimostrati in grado di evidenziare la rilevanza dell’analisi semiotica
nell’individuazione delle relazioni tra immaginari, dispositivi di potere e dinamiche di valorizzazione
spaziale (Addis 2016, 2020; Sedda, Sorrentino 2020; Virgolin 2022). Se le immagini dei borghi sembrano
ricondurre a forme figurative che riducono al bidimensionale la complessità delle relazioni ecologiche,
sarà necessario definire i diversi punti di vista sulle esperienze e sulle valorizzazioni del fare turistico
(Finocchi 2013, 2020) attraverso uno sguardo etnosemiotico (Marsciani 2007b). Se, infatti, le
figurativizzazioni dei borghi possono essere lette con gli strumenti della semiotica del testo, dall’altro
lato la semiotica discorsiva si offre come luogo di ripensamento e messa in discussione degli assunti
iniziali della ricerca, mettendo in gioco il corpo – l’implicazione dell’osservatore nell’ambiente che
osserva e nella pertinentizzazione dei fenomeni – come strumento del conoscere, a partire dalle
150
particolari condizioni che si danno durante la pratica di osservazione etnosemiotica. Nella prima parte
dell’analisi si passeranno in rassegna alcune testualità, tentando di comprendere in che modo queste
propongono determinati modi di conoscere, di entrare in contatto sensoriale con la materialità dei
borghi nelle aree interne italiane. L’analisi delle forme discorsive pone, già in questa fase, problemi di
punti di vista e relativa individuazione delle istanze di valorizzazione, a cui si tenterà di rispondere
tramite una modellizzazione che mette in relazione immagine del borgo, pratiche e schemi attanziali. Se
già in questa fase dell’analisi appare evidente la necessità di includere una pluralità di punti di vista sui
fenomeni di discorsivizzazione dei borghi, nel resoconto etnografico riportato di seguito emergerà tutta
la problematicità di osservare ed essere osservati in quanto attori agenti che producono movimenti e
tracciati pratici, il cui senso dipende solo in parte dal punto di vista di un soggetto razionale e presente
a sé stesso. Le modalità di fruizione (prensione) dei borghi verranno dunque messe in costante relazione
con l’ipotesi iniziale del corpo-immagine, inteso come posizionamento valoriale che produce un certo
tipo di discorsi sui borghi e sulle loro materie distintive. Per riassumere, l’analisi si muove a partire da
una prospettiva etnosemiotica, che intende problematizzare: 1) la pluralità di punti di vista e delle
possibili interpretazioni implicate nell’osservazione etnografica, compresi i punti di vista dell’osservatore;
2) le forme di valorizzazione sottese a questi punti di vista; 3) le configurazioni sottese alle pratiche e alle
forme di valorizzazione.
5. Pasolini e la forma di Orte
In una delle scene iniziali di un documentario intitolato Pasolini e la forma della città3, prodotto nel
1973 e andato in onda del 1974 sulla Rai, si vede proprio lo scrittore e regista ripreso mentre è impegnato
nel regolare lo zoom della cinepresa per inquadrare il profilo del borgo di Orte. Rivolgendosi a Ninetto
Davoli, comincia a spiegare:
ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è
rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo. Quella casa che si vede là a sinistra, ecco, la vedi?
Ecco, questo qui è un problema, di cui io parlo con te […] che mi hai seguito in tutto il mio lavoro
e mi hai visto molto volte alle prese con questo problema […] di filmare una città nella sua interezza.
E quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare, perché questo disegno, questa purezza
assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, che non c’entrava.
Fig. 2 – Una sequenza del documentario “Pasolini e la
forma della città”, in cui il regista si rivolge a Ninetto Davoli.
3
Pasolini e la forma della città, diretto da Paolo Brunatto, Produzione RAI, 1973, disponibile al link
www.youtube.com/watch?v=NLgpg1LbiU4&ab_channel=ErmannoPeciarolo
151
In questo frammento è abbastanza facile rilevare l’eco della critica di Pasolini verso i processi di
modernizzazione, che investono gli ambienti urbani e i loro abitanti. L’idea di mutazione antropologica
può essere vista infatti come storicizzazione degli effetti del consumismo e della massificazione della
società industriale, a cui viene contrapposta la società contadina e la sua cultura materiale come polo di
saperi culturale e territoriale. Nella critica di Pasolini, la forma estetica di Orte è un oggetto a sé,
armonico, chiuso e coerente: una “forma perfetta e assoluta” caratterizzata da “perfezione stilistica” che
viene rovinata, deturpata da un edificio appena costruito “qualche cosa di moderno, da qualche corpo
estraneo che non c’entrava”. Il discorso sembrerebbe a questo punto scivolare sul terreno di una critica
superficiale, ma invece proseguendo nel video possiamo avere l’impressione che Pasolini colga
perfettamente la dimensione più profonda del problema, quando afferma che, in realtà, ciò che lo
interessa è: “il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il
problema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico”.
Fig. 3 – Il borgo di Orte ripresa da Pasolini con l’edificio
alla sua sinistra che, leggermente distaccato dall’insieme,
ne rovina la “forma pura”.
6. Tre istanze di valorizzazione per Castelluccio di Norcia
Il formante plastico, la forma esteriore e paesaggistica, rimane uno degli aspetti più importanti nel definire
l’immagine tipo dei borghi contemporanei4, ma non l’unico. Per tentare di articolare una serie di punti di
vista sulle forme contemporanee di valorizzazione dei borghi italiani, prenderemo in considerazione il
video pubblicitario di lancio di Tablò #RinascitaCastelluccio5, campagna pubblicitaria del Brand Perugina
dedicata a raccogliere fondi per la costruzione di una struttura commerciale emergenziale (fortemente
critica e osteggiata, in ragione del suo impatto ambientale), denominata Deltaplano, a Castelluccio di
Norcia. Il borgo di Castelluccio, situato su un’altura all’interno di un altopiano carsico a quota 1400 mt.,
possiede una particolare potenza figurativa (Aime, Papotti 2012): il contrasto tra la Piana e la parete della
montagna più alta dell’Appennino centrale, il Monte Vettore; lo spettacolare cromatismo della fioritura di
4
Basti pensare, ad esempio, che per essere incluso nel Circuito dei Borghi più Belli d’Italia, è richiesto al borgo
di presentare una serie di dati quantitativi, tra cui la “prevalenza degli edifici storici rispetto a quelli costruiti dopo
il 1939 in percentuale” e altri aspetti come “armonia e omogeneità dei materiali delle facciate e dei tetti; armonia
e omogeneità dei colori delle facciate e dei tetti”. Il regolamento è disponibile al link
www.borghipiubelliditalia.it/wp-content/uploads/2017/02/regolamento-borghi.pdf.
5
Video pubblicitario di Perugina Tablò per Rinascita Castelluccio, disponibile al link
www.youtube.com/watch?v=n6uLnq2Ptso&ab_channel=Perugina.
152
giugno, durante la quale la Piana si riempie di colori; la ruvidezza di un altopiano a 1400 metri, impervio
e difficile da vivere, eppure faticosamente antropizzato nel corso dei secoli.
Fig. 4 – La Piana di Castelluccio e il borgo durante la fioritura.
Nel breve video pubblicitario di Tablò #RinascitaCastelluccio si vede una ragazza con un pennello in
mano, di spalle davanti a una tela bianca. Il montaggio la segue mentre, con aria ispirata, spezza una
tavoletta Tablò Perugina, la morde, e intorno a lei si alzano delle onde di colore che la avvolgono e la
trasportano, immediatamente, dentro alla tela del quadro che non ha ancora iniziato a dipingere.
Accompagnata dalla voce narrante, che afferma “Un’esperienza completamente nuova, Tablò è
cioccolato Perugina, e la sua forma unica, la vita è un’esplosione di gusto”, la ragazza mordendo la
tavoletta di cioccolato accede (modalizzazione secondo il potere) alla Piana di Castelluccio con un
pennello in mano. Il montaggio la vede muoversi felice in una dimensione trasfigurata, dove tutto le si
trasforma attorno (persino la sua corporeità, che assume gli stessi formanti figurativi del dipinto in cui è
immersa), mentre lei conserva e accresce non solo ciò che può fare (ha un pennello in mano e dipinge
il paesaggio con aria sognante, con gesti disimpegnati) ma anche ciò che può sentire, diventando attore
partecipe del paesaggio nel suo farsi.
Fig. 5 – La ragazza, di spalle, è dentro il quadro e osserva la “forma
pura” del borgo di Castelluccio.
Se è abbastanza ovvia la rima tra paesaggio e opera d’arte (in questo caso un quadro dipinto), ci interessa
in questa sede cogliere l’idea di un attore implicato, interno rispetto a una spazialità che è sia inglobante,
sia incessantemente prodotta da un atto tattile, il dipingere. Lo spazio della Piana di Castelluccio è liscio
in quanto a possibilità di movimento, le striature sono puramente sensibili, relative ad alcuni tratti che
rapiscono l’osservatore e costituiscono ciò che c’è da vedere. Le possibilità di movimento si definiscono
non tanto in base alle proprietà fisiche del paesaggio, quanto in funzione del desiderio percettivo di un
153
soggetto in trasformazione: l’attore può diventare piccolo e farsi travolgere dalla maestosità del paesaggio,
subito dopo impugnare un pennello per disegnare il paesaggio, ma al contempo sovradimensionarsi,
ovvero divenire letteralmente una sorta di gigante che è in grado di sovrastare la Piana e il borgo di
Castelluccio di Norcia, ottenendo un punto di vista inedito, unico. L’attore vede, è immerso, ma allo stesso
tempo si guarda vedere, acquisendo consapevolezza della straordinarietà dell’esperienza.
Fig. 6 – La ragazza affonda le dita nei colori della Piana, diventando
attore partecipe del divenire quadro del paesaggio.
Il vedere diventa poter partecipare alla produzione di un paesaggio sensoriale che non è dato, ma nel
quale l’attore è una delle forze in gioco, preso in una condizione di multistimolazione sensoriale che
conduce ad un effetto di fascinazione estatica. In questo trasporto onirico, il prodotto/merce è il medium
che consente di rompere la vetrina (dietro alla quale si ammira) e di camminare dentro, di muoversi
all’interno. L’attore gigante che osserva dall’alto il borgo e la Piana, quanto quello di dimensioni normali
che vi cammina all’interno, si muovono in una compresenza spazio-temporale: ad un certo punto del
video pubblicitario, il pennello è enorme e rischia di travolgere la ragazza minuscola che si aggira nel
mezzo della Piana. La compresenza attoriale consente una varietà di modi per accedere alle qualità
sensibili del paesaggio: mentre sulle prime la ragazza scorre le sue dita che si immergono nei colori
sgargianti di un paesaggio che è già dipinto, rivelandocene la consistenza fluida e morbida, nella fase
successiva dello spot il pennello è mosso dall’attore ragazza-gigante. Dal punto di vista della ragazza che
cammina all’interno della Piana il pennello è come un treno in corsa, che rischia di travolgerla e traccia
delle striature longitudinali, che corrisponderebbero alle delimitazioni tra i campi coltivati di
Castelluccio: la diversità dei fiori, tra colture e un brulicare di specie spontanee, che conferisce alla Piana
durante la fioritura uno spettacolare effetto multicromatico, è restituita nella pubblicità come
giustapposizione di una serie di pennellate di colore sgargiante.
Fig. 7 – La ragazza rischia di essere travolta dal pennello gigante che
traccia longitudinalmente i colori della Piana.
154
La compresenza di istanze attoriali durante il video pubblicitario permette di alternare una pluralità di
punti di vista della piana e del borgo, che si intrecciano e concorrono a produrre l’immagine finale,
quella del quadro dipinto, compiuto. Mentre la voce narrante recita: “Dal cuore dell’Italia, Perugina, il
cuore del cioccolato italiano” torniamo nel mondo in carne e ossa della ragazza che osserva il risultato
dall’esterno, ottenendo visione d’insieme sull’opera completa. Il risultato tangibile dell’eccezionale
esperienza percettiva della ragazza – dopo aver incarnato simultaneamente due punti di vista, ovvero 1)
quello di chi cammina dentro (e sopra) la fioritura della Piana di Castelluccio, e 2) quello di chi ottiene
non tanto una visione scopica, quanto la possibilità di guardare e muoversi come un gigante, da un
punto di vista quindi inedito e inoccupabile6 – è il quadro che occupa la scena finale del video, il quale
riproduce una delle viste più classiche su Castelluccio durante la fioritura.
Fig. 8 – La ragazza, in “formato gigante”, osserva Castelluccio da un
punto di vista inedito, perché inoccupabile.
A fronte dell’analisi dei punti di vista presenti nello spot Tablò per Rinascita Castelluccio, è possibile
delineare il discorso svolto da quelli che possiamo definire come modi di prensione e delle istanze di
valorizzazione ad esse soggiacenti:
1. Osservare: gli oggetti di valore pertengono alla dimensione plastica delle architetture del borgo, sui
quali si tratterà di ottenere punti di osservazione peculiari, inediti. I movimenti attanziali si legano a
programmi narrativi dove le giunzioni sono soggette a dinamiche di avvicinamento, allontanamento,
più in generale a forme di aspettualizzazione della forma estetica del borgo rispetto al paesaggio
circostante: quella particolare distanza, quel particolare scorcio, quel particolare orario del giorno. Il
paesaggio assume senso in funzione dei formanti plastici che emergono al suo interno, accessibile
rispetto ad una visione già dotata, in partenza, delle competenze per cogliere la pasolinana “forma
estetica pura”. Questa idea era ben rappresentata da altre immagini di accompagnamento della
campagna #RinascitaCastelluccio di Perugina, dove la forma del borgo di Castelluccio veniva fusa,
grazie ad effetti di dissolvenza, con quella del celebre cioccolatino della Perugina, il Bacio,
sottolineandone una identificazione che si muove su più livelli di densità figurativa.
2. Immergersi: se della Piana si sono ormai esaurite le visuali, massicciamente presenti sui social e uguali
a sé stesse, ad essere proposto è un livello di esperienza immersiva del borgo, dove ad essere
protagonista è l’implicazione sensoriale dell’attore in un ambiente. Da questo punto di vista, interno
alla scena, il borgo è inseparabile da, e anzi assume valore proprio in virtù di, una natura che diventa
protagonista di schemi narrativi: è lei che destina e che – per mezzo ad esempio delle competenti
guide e dei percorsi offerti da altri esperti dell’outdoor – orienta i valori in gioco, suggerisce cosa poter
6 Nemmeno con il drone o con l’elicottero (mezzi del resto subordinati a un accesso competente) sarebbe possibile
incarnare la posizione utopico-ludica di un umano alto oltre misura, che può con i propri occhi guardare da vicino
una miniatura, chinarsi, toccare, soffermarsi o passare velocemente sopra.
155
e non-poter fare, legittima l’interesse figurativo e discorsivo di percorsi e tracciati. Questa natura è
interessante e unica proprio perché, essendone circondati, si accede ad una dimensione altra,
eccezionale rispetto al quotidiano. L’istanza di valorizzazione è allora impegnata in movimenti del tipo
compensativo e oppositivo, discorsivizzati attraverso immagini dell’incontro immersivo, oppure
dell’assunzione di sostanze e alimenti che hanno un effetto salvifico e purificante. L’accesso al borgo
è accesso euforizzato di un fruitore che può godere di una dimensione composita, dove naturale
significa buono e dove alcuni elementi specifici e ricorrenti come l’aria buona, il cibo, il piccolo, le
relazioni, lo stile di vita conferiscono benefici e attualizzano un’alternativa tangibile rispetto
all’oppressione della vita urbana.
3. Produrre: se l’esperienza sensoriale da dentro (immergere) può essere letta come tentativo di
avvicinamento rispetto all’osservare, ci sembra di poter definire l’emersione di un terzo modo di
prensione nelle dinamiche di produzione attiva del borgo e del suo paesaggio. In questi casi i
movimenti attanziali vedono compiersi archi trasformativi che dipendono dalle competenze e dalle
condizioni specifiche, mai conoscibili del tutto in partenza, in cui si dà l’esperienza. Mentre il pennello
gigante rischia di travolgere la ragazza, la voce narrante suggerisce il potenziale di novità
dell’esperienza proposta, che è anche al contempo un potenziale di rischio: “Tablò è intenso,
avvolgente, un gusto mai provato prima”. L’esperienza, che in ogni caso sarà trasformatrice, non è
data a priori, né in base al punto di vista sui formanti plastici (osservare), né in base alle possibilità di
accedere ad una natura benefica (immergere), ma si produce a partire da una istanza che accetta il
rischio di avere a che fare con l’imprevedibilità, al fine di raggiungere una qualche trasformazione
non prevedibile in partenza.
Per riassumere, siamo di fronte a 1) una immagine-borgo come formante plastico, a cui si accede tramite
valorizzazione dei regimi della visione; 2) un’immagine-borgo come composizione di materiali sensibili già
dati, a cui si accede tramite valorizzazione dell’alterità; 3) un’immagine-borgo come possibilità di produzione
attiva, valorizzata da istanze che si nutrono della potenzialità di attivare una costante, quanto imprevedibile,
trasformazione. Se ad un primo sguardo il video pubblicitario di Tablò per #RinascitaCastelluccio sembra
proporre una mera caricatura dell’esperienza estetica di Castelluccio, ci sembra che a partire da un’analisi
approfondita di questi pochi secondi di video si possano ricostruire tre delle forme di corpo-immagine
(Marsciani 2007°) del borgo, inteso come posizionamento valoriale in grado di produrre diverse forme di
addensamento discorsivo: borgo come valorizzazione della forma pura, dell’alterità e della trasformazione
rischiosa. Nel prossimo paragrafo tenteremo, attraverso la tecnica dell’osservazione partecipante, di ricostruire
un altro punto di vista sulla fruizione della Piana e del borgo di Castelluccio di Norcia. Basata su un’estesa
esperienza etnografica nelle zone dell’Appennino centrale, la descrizione che segue deriva da una giornata
molto particolare di osservazione: una domenica nel periodo della fioritura.
7. Un giorno a Castelluccio: il pienone
È il 5 luglio 2020 e abbiamo appena superato la curva in salita che costeggia Forca Canepine, accesso umbro
verso la Piana di Castelluccio. Alcuni amici sentiti per messaggio, che stanno provando a passare dall’altro
valico, quello marchigiano di Forca di Presta, dicono che la situazione non è affatto migliore. Sarà la mia
bolla forse, ma su giornali e social non si parla d’altro che delle vacanze di prossimità degli italiani post-
quarantena: moltissimi rinunciano a mete lontane e affollate, riscoprendo le meraviglie che si trovano a pochi
passi da casa. Con il risultato, come sta accadendo oggi, di rendere quelle meraviglie che si trovano a pochi
passi da casa super affollate. Castelluccio di Norcia è stato preso d’assalto già dalla prima settimana di metà
giugno quando è sbocciata la fioritura. Le dichiarazioni dei Sindaci erano state entusiaste: “C’è tanta gente
come non si vedeva da prima del terremoto e questo credo che dipenda da diversi fattori combinati che
sono la fioritura, appunto, la voglia di uscire dopo il lockdown e la sicurezza che la montagna offre con i suoi
156
spazi larghi” (Ansa 2020). Oggi però sembra davvero troppo: un serpentone di macchine, praticamente
ferme, sull’unica strada che taglia in due la Piana per condurre al borgo.
Fig. 9 – La coda di macchine sulla Piana di Castelluccio il 5 luglio
2020 (©Montagna.tv).
“Se penso che per evitare il pienone non siamo andati al mare”, mi dice M. contorcendosi sul sedile
posteriore, invece l’abbiamo trovato qui il pienone, e adesso un bagno ce lo faremmo volentieri visto
che siamo chiusi nell’abitacolo con il sole di mezzogiorno. Se apro i finestrini arriva un venticello fresco,
di montagna (siamo a 1400 mt.) assieme allo smog delle macchine che ci circondano e provano a
dimenarsi, bloccate in entrambe le direzioni del senso di marcia, alternando frizione e freno. Alcuni
sono addirittura scesi dalla macchina, presi dallo sfinimento. Altri suonano il clacson sperando che,
come per magia, si liberi loro la strada davanti. Molto semplicemente: siamo troppi, non c’entriamo
sulla Piana di Castelluccio tutti assieme. Non c’entriamo sia perché c’è un’unica strada, sia perché i
parcheggi non bastano, sia perché i negozi, i bar, le strutture ricettive non sono abbastanza ampie da
accoglierci tutti. In questo momento, vorremmo solo invertire il senso di marcia e tornare indietro, ai
pienoni che conosciamo, dove sappiamo orientarci, dovunque ma non qui, che cosa ci siamo venuti a
fare? Ah, giusto, se però ce ne dobbiamo andare facciamo prima qualche foto. F. scende dalla macchina
dicendo, tanto siamo fermi, mi faccio un giro, guarda quelli là, indicando un gruppetto di ragazzi che si
è appena seduto sul ciglio della strada, qualcuno sta tirando fuori dei teli e sembra che vogliano
bivaccare lì, con le macchine che sgasano affianco. F. si avvia verso il ciglio della strada e poi inizia a
camminare dentro la Piana, avvicinandosi sempre di più a quei colori così vividi, sgargianti, che
abbiamo visto dall’alto. Allontanandoci un po’ da quel gruppetto, un po’ da quella famiglia (“hanno
tutti le mascherine, ma sono pazzi con questo caldo? E poi quassù, all’aria aperta!”) ci addentriamo
nella Piana e siamo quasi soli, tranne una coppia che ci corre incontro, e altri che vedendoci ci stanno
imitando. Facciamo qualche foto da dentro, abbassandoci per cogliere sia i fiori, in primo piano, che
il borgo di Castelluccio che si staglia in alto. La quiete dura poco, allora tentiamo di proseguire, ci
muoviamo per saturazione degli spazi inoltrandoci ancora di più, cercando di evitare gli altri gruppi
per mantenere le distanze. In fondo quelli di prima con la mascherina non è che avessero tutti i torti,
abbiamo sentito anche noi che i contagi stanno riprendono, anche a luglio. Incontriamo un cartello
che ammonisce: NON INTRODURSI NON CALPESTARE. TERRENI SEMINATI A
LENTICCHIA. Ma intende questi terreni, o quelli lì? Non lo so, comunque lì ci stanno già
camminando quelli, quel gruppo, mah, andiamo.
157
Fig. 10 – Durante le domeniche più affollate, i cartelli di divieto
non bastano ad evitare che molti si spingano dentro la Piana e
calpestino i campi coltivati della fioritura (©Emanuele Valeri).
Verso le 15 e 30 arriviamo al Deltaplano, l’area commerciale temporanea inaugurata da un anno e
mezzo subito sotto il borgo di Castelluccio di Norcia, ancora distrutto e in parte inaccessibile (Zona
Rossa), dopo il terremoto del 2016. Troviamo miracolosamente posto, mentre arriviamo, lasciato da una
macchina che se ne sta andando. La struttura del Deltaplano ricava, appunto, dalla forma del Deltaplano
una serie di locali con ampie vetrate protese verso la Piana, vista lato Monte Vettore. Sembra una freccia
che indica quello che c’è da vedere, ma l’attenzione di tutti però non è rivolta allo spettacolo della Piana
in fiore: disposti in coda con le mascherine, mentre tentano invano di evitare assembramenti, i clienti
apprendono i tempi di attesa di ristoranti che cominciano a esaurire non solo i piatti disponibili, ma
anche le forze. La scelta di valorizzare alcuni limiti (tra ristoranti e negozi) e soglie (di ingresso a ciascuno
di essi) è subordinata a capire quali di essi siano i meno affollati. Se la spazialità del Deltaplano garantisce
ad ognuno una porzione di vista sulla Piana, allo stesso tempo omologa e schiaccia le possibilità di
variare e caratterizzare i modi di figurativizzazione della propria idea di gastronomia all’interno di un
contenitore che è allo stesso tempo uguale e in competizione con tutti gli altri. Se quindi in condizioni
normali al Deltaplano possono subentrare competenze e schemi valoriali differenti nei percorsi di
congiungimento (pratiche lente, attente alle provenienze quali IGP e DOP, motivi etici e solidali, ricerca
dell’autentico e dell’altro, …) ad oggi il massimo che si può fare è strappare l’ultimo panino con il
ciauscolo rimasto. Dopo aver incassato un altro rifiuto dal titolare di un ristorante: “no ragazzi, mi
dispiace, per oggi non riusciamo più a prendere nessun altro, ma avete visto quanta gente? Così è
davvero troppo per noi”, decidiamo di proseguire verso il borgo.
Fig. 11 – La struttura commerciale temporanea Deltaplano di
Castelluccio vista dall’alto (render di progetto) (©Architetto
Francesco Cellini).
158
“Sembra di trovarsi sul lungomare di Riccione”, mi dice F. sconsolato. Le poche attività commerciali che
hanno riaperto nel piazzale che si trova all’ingresso del borgo, unica parte ad oggi accessibile di
Castelluccio, sono ovviamente strapiene, non ci sono parcheggi e le macchine continuano a passare senza
potersi fermare. Quando chiediamo alla Municipale dove sia meglio andare, ci dicono che la strada di
accesso è stata chiusa, in questo momento è possibile solamente uscire da Castelluccio. Se proseguite verso
di là, scendete verso Visso, sembrano suggerire di andarsene il prima possibile. In realtà non abbiamo
altra scelta, a meno di non provare a parcheggiare a bordo strada e poi tornare in paese a piedi, come
stanno facendo già in molti intasando anche il tratto di strada successivo. Non sembra una grande idea.
Tornati a casa, apprenderemo che l’Ente Parco Nazionale dei Monti Sibillini ha annunciato che il prossimo
anno, durante i weekend non sarà possibile accedere in auto alla Piana di Castelluccio e sarà previsto un
servizio navetta attivo dai valichi di Forca di Presta e Forca Canepine. Due anni dopo, durante lo stesso
weekend di fioritura, quello di inizio luglio, su Facebook i commercianti di Castelluccio polemizzavano:
sembra di essere in “pieno novembre”, spiegando come “tanta gente non viene perché non ha voglia di
stare alle regole di altre persone, se io voglio venire a Castelluccio e starci 30 minuti, oppure stare fino alla
sera tardi, non vedo il motivo per cui devo aspettare gli orari di una navetta”7.
Fig. 12 – Castelluccio, domenica 2 luglio 2022. Il post su Facebook
recita: “se non fosse per qualche motociclista, sembrerebbe una
domenica di novembre” (© Gilberto Brandimarte).
8. Conclusioni
La ricerca sui territori dell’Appennino centrale si conferma un punto di osservazione privilegiato sulle
dinamiche che interessano nel loro insieme le aree interne italiane. Nello specifico, il presente articolo
costituisce un tentativo di comprensione delle forme di valorizzazione dei borghi contemporanei, che
passa attraverso l’analisi di alcune grammatiche e pratiche discorsive e figurative. L’idea di un corpo-
immagine del borgo era definita, all’inizio dell’articolo, da alcune caratteristiche formali. Secondo De
Rossi e Mascino (2022), queste concorrono a definire un effetto di miniaturizzazione, in cui sono
all’opera tre tendenze intrecciate: 1) spazio miniaturizzato e intellegibile nel suo insieme VS caos urbano;
2) borgo nel suo insieme come internalità dal carattere domestico e rassicurante; 3) sur-caratterizzazione
e sur-tipicizzazione di ogni singolo particolare o elemento, e sua ridondanza e reiterazione costante, a
confermare la verità del luogo. Riscontrare l’effettivo concorrere di questi elementi nel definire un certo
corpo-immagine dei borghi ci ha spinto ad interrogare, in senso etnosemiotico, il rapporto tra
7
www.facebook.com/Castellucciodinorcia1452/posts/7543829072355280
159
discorsivizzazione, forme di valorizzazione e concezioni della natura. Se con l’analisi dello spot di
Perugina riuscivamo cioè a cogliere la relazione tra modi di prensione e istanze di valorizzazione,
l’osservazione partecipante di una giornata di pienone a Castelluccio di Norcia mette in luce le
caratteristiche di un’etnosemiotica che 1) posiziona il suo sguardo rispetto all’individuazione di salienze
e pertinenze; 2) tramite l’osservazione partecipante a scene pratiche in atto, può portare alla luce
articolazioni del senso e del valore altrimenti difficili da cogliere.
La corsa ai borghi delle aree interne italiane vede infatti negli ampi spazi aperti, nella qualità dell’aria,
del cibo e delle relazioni i principali oggetti valorizzati da un Destinante che pone come prioritaria la
discontinuità con tutto ciò che sia urbano. I sapori autentici, gli odori, il contatto tattile con diversi tipi
di superfici lisce ritenute naturali, il contatto visivo con un paesaggio ritenuto bello sono pratiche di
evasione e al contempo di congiungimento con un’idea molto vaga di natura: estetica, sana, accessibile.
Gli episodi descritti mostrano come i tentativi di giunzione con una sorta di alterità trasformativa dei
borghi italiani non siano privi di ostacoli. L’immagine del borgo proposta nello spot di Perugina idealizza
il coinvolgimento multisensoriale e le molteplici possibilità di accesso ad una natura che è sempre a
disposizione del soggetto umano. In realtà solo alcuni possono disporre di esperienze una wilderness
purificante: l’etnografia ci parla di cittadini che, arrivati in massa, si rendono protagonisti del proprio
continuo congestionamento. Se siamo tutti in fuga dall’urbano, la rincorsa verso esperienze ideali nei
borghi nelle aree interne ci conduce a riprodurre l’urbano, come in una sorta di girone dantesco: non
è difficile riconoscere, nell’esperienza etnografica a Castelluccio, l’emergenza disforica di uno dei
capisaldi dei modelli di sviluppo appenninici, il pienone. Spostandoci in massa alla ricerca di punti di
vista ideali, produciamo inurbamenti e congestione, deturpando l’ambiente e le stesse condizioni di
possibilità che dovrebbero permetterci di godere di esperienze trasformative.
A fronte dell’immagine del borgo che risulta dallo spot di Perugina, ovvero uno spazio liscio, in cui è
l’attore umano a definire accessi, immersioni o produzioni di forme di esperienza, il pienone della Piana
e del Deltaplano costringerebbe a fare i conti con i limiti e con la finitezza del territorio e della sua
infrastrutturazione turistica. La complessità delle attività produttive, della manutenzione, della cura e
della gestione delle risorse riaffiora però solo come incidente nei fine settimana del pienone, nel
momento in cui lo spazio topico della performance (a seconda di quale incontro con quale materia: La
Piana, il Deltaplano, …) perde lo statuto di garante della qualità dell’esperienza di immersione. Laddove
immersione – intesa come incontro con materie del mondo pacifiche e già date – e produzione – intesa
come accesso a una natura autentica tramite una trasformazione rischiosa – sono vanificate
dall’affollamento, resta a disposizione l’osservazione come valorizzazione della forma plastica e sua
riproduzione fotografica. Una magra consolazione, se consideriamo che in effetti la nostra presenza sulla
Piana rappresenta un sovraccarico insostenibile non solo dal punto di vista ecologico (il Parco Nazionale
dei Sibillini, infatti, decide di chiudere l’accesso alle auto nel fine-settimana), ma anche da quello
economico (considerando la scala dei flussi che le infrastrutture turistiche dei borghi riescono a gestire).
Gli schemi valoriali soggiacenti ci parlano inoltre della centralità di un soggetto umano rispetto alla
produzione di nature: le può sentire, toccare, ne può godere sensorialmente, può trarre qualsiasi tipo di
beneficio. Può fare molte cose ma non vi abita, non se ne prende cura, non ne conosce le filiere, i cicli
di generazione e rigenerazione, le vulnerabilità, le storicità. La riflessività che sembra affiorare sembra
rivolta non tanto all’impatto tangibile delle pratiche turistiche sul territorio, quanto ad un
disorientamento che coinvolge la relazione tra punti di vista e istanze di valorizzazione del corpo-
immagine del borgo: laddove mancano le condizioni per una sua riproducibilità discorsiva, l’esperienza
diventa deludente e incompleta. Il timbro disforico sul pienone a Castelluccio, emerso durante
l’osservazione etnosemiotica, si configura allora come forma locale di un fare turistico ormai abituato a,
e forse già annoiato di, giocare con le categorie di straordinario/quotidiano, straniero/abitante (Finocchi
2013, 2020). In questo quadro, gli spunti generati da una articolazione dei punti di vista sulle forme di
valorizzazione, potrebbero aiutare a trovare un’alternativa rispetto ad una polarizzazione del dibattito,
160
che da un lato sostiene che l’implementazione dell’infrastrutturazione turistica sia l’unico modo per fare
economia nei borghi e nelle aree interne, dall’altro vede nel turismo slow e sostenibile una panacea in
grado di tamponare i danni, mentre continua a garantire i profitti. Tramite la costruzione di
comparazioni e pertinenze mirate, l’analisi etnosemiotica si è già dimostrata in grado di seguire i processi
di valorizzazione spaziale nel loro muoversi in parallelo tra i centri storici delle città d’arte (Virgolin
2022) e luoghi remoti e incontaminati (Addis 2016), individuando tendenze comuni riguardo alle
discorsivizzazioni, alle pratiche e alle differenze che regolano l’accesso a zone remote e borghi ideali
(Boltanski, Esquerre 2019; Semi 2022). Se i criteri che orientano pratiche e politiche di valorizzazione
urbanistica sono generate e orientate da tendenze sociali e culturali, l’analisi semiotica delle immagini
prevalenti dei borghi contemporanei può contribuire efficacemente all’interno di uno spazio di dibattito
importante per il futuro dei territori, nel quale è necessario il dialogo tra riflessioni sul legame tra forme
abitative, gestione delle risorse e concezioni della natura.
161
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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] | Figura, immagine, materia. L’immaginazione materiale di Gaston Bachelard
Paolo Bertetti
Abstract. Gaston Bachelard is one of the recognized sources of Greimas’ concept of figurativity, whose focus on
the sensitive qualities of matter is still one of the main ways for the semiotic study of matter. According to Bachelard,
there is an essential relationship between poetic image and material reality: matter is both substance and strength
of the image. He uses the term “material imagination” to describe this relationship. However, if the images refer
to the material element in their constitution, this does not mean they originate, or rather describe reality; they do
not reproduce reality but go beyond it. All the more so, reason images are not the result of a cognitive (and
categorizing) activity on reality. Following Bachelard the axes of science and poetry are, in the first instance,
opposites. And all that philosophy can hope for is to make science and poetry complementary, to unite them as
two well-forged opposites. Poetry, that is subjective, is therefore opposed to objective scientific knowledge.
Nel delineare gli orizzonti di una semiotica elementale l’opera di Gaston Bachelard pare ancora oggi
essere centrale. E così l’idea che sotto ai materiali ci sia una materia più profonda pregna di senso. Come
noto, il filosofo francese è una delle fonti riconosciute del concetto di figuratività elaborato da Greimas,
che rimane – con la sua attenzione alle qualità sensibili – una delle vie privilegiate per lo studio semiotico
della materia. Proprio la materia è al centro dei cinque volumi che Bachelard, a partire dalla fine degli
anni 30, dedica all’immaginario elementale, affiancando alle sue riflessioni epistemologiche lo studio
sull’immaginazione poetica: La Psychanalyse du Feu (1938a), L’Eau et le Rêves (1942), L’air et le Songes
(1943) La terre et les Rêveries de la Volonté (1948a), La terre et les Rêveries du Repos (1948b).
E tuttavia, nel riprendere semioticamente le riflessioni bachelardiane, occorre porre una serie di
questioni teoriche, metodologiche ed epistemologiche, delle quali bisogna essere consapevoli.
Secondo Bachelard tra immagine poetica e realtà materiale esiste un preciso e profondo rapporto: vi è
nell’immagine un legame con la materia dal quale l’immaginazione poetica non può prescindere. Il
problema è affrontato in particolare in L’Eau e le Rêves, dove Bachelard introduce il concetto di
“immaginazione materiale, distinguendola da quella che egli chiama “immaginazione formale”. Se
quest’ultima è legata all’apparenza immediata, alla novità, alla varietà delle forme alle forme e di colori,
colti dalla vista, in definitiva alla rappresentazione, la seconda va nel profondo, scava il fondo dell’essere.
Le forze immaginative “vogliono trovar[e nell’essere] ad un tempo il primitivo e l’eterno. Dominano la
stagione e la storia. Nella natura, in noi e fuori di noi, esse producono germi; germi un cui la forma è
inserita in una sostanza, in cui la forma è interna” (Bachelard 1942, p. 7). Le immagini della materia
sono dirette, “la vista le nomina, ma è la mano a conoscerle” (Ibidem); la materia non è solo oggetto
del vedere, l’homo faber agisce su di essa con la propria volontà, le trasforma, la mescola ad altre
materie, oppone la propria forza alla sua resistenza.
L’immaginazione poetica non può fare a meno di tale legame con la materia: “Perché una rêverie abbia
sufficiente continuità per produrre un’opera scritta, perché non sia solo lo svago di un’ora fugace,
occorre che essa trovi la sua materia, che un elemento materiale le dia la propria sostanza, la propria
regola, la sua poetica specifica” (Bachelard 1942, p. 10). In Bachelard la materia è insieme sia sostanza
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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sia forza dell’immagine. E più in là: “L’immaginario non trova le proprie radici profonde e nutritive nelle
immagini; ha innanzitutto bisogno di una presenza più prossima, più avviluppante, più materiale. La realtà
immaginaria evoca sé stessa, prima di descriversi. La poesia è sempre un vocativo” (Bachelard 1942, p.
138). Bachelard, citando Martin Buber, fa l’esempio della luna: “la luna, […] nel regno poetico, è materia
prima di essere forma, è un fluido che penetra il sognatore” (Ibidem). Per il sognatore la luna non
quella che egli vede tutte le notti, e nemmeno l’immagine di un disco luminoso che cammina, ma
l’immagine emotiva del fluido lunare che attraversa il corpo.
Attenzione, dunque, a pensare la materia bachelardiana come una sorta di mening Hjelmsleviano, o di
accostare brutalmente la distinzione materia/forma che delinea il filosofo francese a categorie quali
intensione/estensione, o denotazione/connotazione. Sarebbe troppo facile: in realtà il contesto
epistemologico e la stessa finalità di Bachelard sono molto diversi. Se, infatti, le immagini rinviano
all’elemento materiale nella loro costituzione, non per questo esse hanno origine, o meglio descrivono
la realtà; le immagini sono frutto dell’immaginazione poetica, che si serve dell’elemento materiale come
materiale da costruzione (e si scusi il gioco di parole) per crearle, ma tali immagini non riproducono la
realtà, vanno anzi al di là di essa. A maggior ragione, le immagini non sono il risultato di un’attività
conoscitiva (e categorizzante) sul reale. Afferma Bachelard in La formation de l’esprit scientifique: “Gli assi
della scienza e della poesia sono, in prima istanza, opposti. Tutto ciò che può sperare la filosofia è di
rendere la scienza e la poesia complementari, di unirle come due contrari ben forgiati” (Bachelard 1938b,
p. 126). La poesia, soggettiva, si oppone dunque alla conoscenza scientifica oggettiva, il savant al révoire.
C’è in Bachelard una netta distinzione tra cognizione e immaginazione, e tra momento percettivo e
momento immaginativo. Immagine e concetto sono nettamente distinti: da un lato c’è l’analisi dei
concetti, dall’altro lo studio delle immagini poetiche. Razionalismo e réverie, ragione e immaginazione:
“Immagini e concetti si formano ai due poli opposti dell’attività psichica: l’immaginazione e la ragione.
Tra loro gioca una polarità di esclusione. [...] Tra il concetto e l’immagine niente sintesi” (Bachelard
1960, p. 60). Vi è in questo una prima grossa differenza con la semiotica greimasiana, nella quale le
figure rappresentano proprio una concettualizzazione dell’esperienza sensibile, risultato di una
percezione semiotizzata, linguisticamente e culturalmente organizzata e dotata di senso.
Il rapporto percezione percettivo immaginazione è approfondito da Bachelard in La terre et les rêveries
de la volonté: essai sur l'imagination de la matière (1948a). È infatti con la terra che si pone
maggiormente il rapporto dell’immagine poetica con il reale. L’aria e l’acqua, già studiate da Bachelard
(1942, 1943), erano
delle materie indubbiamente reali, ma mobili e senza consistenza, esse chiedevano di essere
immaginate in profondità, in una intimità della sostanza e della forza. Ma con la sostanza della terra,
la materia porta così tante esperienze positive, la forma è così sorprendente, così evidente, così reale
che è difficile, vedere come si possa dare corpo a delle rêveries che toccano l’intimità della materia
(Bachelard 1948a, p. 9; trad. mia).
Nell’introduzione al volume Bachelard rifiuta la concezione della filosofia realista e della psicologia per
la quale è la percezione delle immagini a determinare il processo di immaginazione. Per Bachelard
l’immagine percepita e l’immagine creata sono due cose assi diverse: occorre infatti distinguere le
“immagini riproduttive” che costellano il linguaggio ordinario e derivano dalla percezione o dalla
memoria, dall’immagine immaginata, per sua natura originale e inventiva, che è il frutto dell’attività
creativa propria dell’immaginazione creatrice (Bachelard 1948a, p. 3; 1960, p. 10), facoltà cui Bachelard
rivendica una totale autonomia – se non preminenza – rispetto alla razionalità che è alla base dei concetti.
“L’immaginazione creatrice ha funzioni del tutto diverse dall’immaginazione riproduttrice. Ad essa
appartiene questa funzione dell’irreale che è psichicamente altrettanto utile che la funzione del reale”
(Bachelard 1948a, p. 10; trad. mia).
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Si osservi, incidentalmente, come sia qui sottesa concezione estetica basata sulla differenziazione tra una
coscienza immaginativa e una conoscenza riproduttrice, che è assai lontana dall’estetica semiotica, la
quale esclude qualsiasi distinzione di natura tra linguaggio ordinario e linguaggio poetico (Marrone
1985); basti pensare a come per Jakobson (1959) quella poetica sia soltanto una funzione tra le altre del
linguaggio, rinvenibile non soltanto dei testi poetici ma di qualsiasi testo.
Come si è detto, per Bachelard l’immagine immaginata non è una riproduzione della realtà; essa è
piuttosto “una sublimazione degli archetipi”, la sua origine è nell’emozione, nel sogno e in particolare
in quel sogno a occhi aperti che è la rêverie. In Bachelard vi è una decisa presa di posizione contro il
radicamento dell’immagine nel sensibile, che costituisce uno dei punti di maggior lontananza rispetto
alla teoria greimasiana della figuratività. Per Greimas e la sua scuola, infatti, le figure costituiscono
proprio l’emergenza del sensibile nel linguaggio. Come scrive il suo allievo e collaboratore Joseph
Courtés: il figurativo è “l’insieme di quei contenuti di una lingua naturale o di un sistema di
rappresentazione aventi un corrispondente percepibile sul piano dell’espressione del mondo naturale”
(Courtés 1986, p. 13). Le figure sono strettamente legate, nella loro origine, al momento percettivo,
sebbene tale momento sia già in partenza culturalizzato, semiotizzato e dotato di senso (Marrone 1995;
Bertetti 2013); di fatto, le figure si contraddistinguono per una duplice natura, intrinsecamente imbricate
di sensibile e culturale.
Per Bachelard invece, l’immagine poetica di cui egli si occupa non ha origine nella percezione (e
nemmeno, egli aggiunge, nella memoria). Essa non è legata al reale, ma lo trascende: non vi è alcun
rapporto causale (almeno necessario) tra immagine poetica e oggetto della realtà: “L’immaginazione
non è, come suggerisce l’etimologia, la facoltà di formare delle immagini della realtà; essa è la facoltà
di formare delle immagini che oltrepassano la realtà, che cantano la realtà. Essa è una facoltà
superumana” (Bachelard 1943, p. 23; trad. mia). Insomma, l’immagine poetica non è determinata dal
sensibile, tanto meno da un sensibile semiotizzato attraverso una griglia di lettura di origine sociale e
culturale (Greimas 1984, p. 199).
Certo, anche in Greimas la figura non è una riproduzione della realtà: contro il referenzialismo, la sua
concezione del Mondo Naturale (espressione che egli riprende da Merleau Ponty, che la usa però in
modo diverso; cfr. Bertetti 2013, pp. 25-29) è invece proprio tesa a sottolineare la natura non riproduttiva
del linguaggio (Marrone 1995). Tale distanziazione dalla realtà accomuna sia la figura greimasiana sia
l’immagine bachelardiana, ed è probabilmente a questo che pensa Greimas quando evoca Bachelard
in relazione alla semiotizzazione del mondo naturale, la quale sarà fondata non assumendo come punto
di partenza gli oggetti del mondo, ma cercando una “visione più profonda, meno evenemenziale, del
mondo” (Greimas 1968, p. 55). Tuttavia, per Greimas tale scarto dal reale si basa su una mediazione di
natura linguistica e culturale mentre per Bachelard l’immagine poetica non ha origine nella percezione,
nel linguaggio o nella cultura. Per Bachelard, “Un’immagine poetica non è preparata da nulla,
soprattutto non dalla cultura, secondo il punto di vista letterario, soprattutto non dalla percezione,
secondo il punto di vista psicologico” (Bachelard 1957, p. 14).
In Greimas la figura ha natura eminentemente linguistica: l’elaborazione delle figure del mondo
naturale, infatti, “si svolge soprattutto grazie alla percezione sensibile delle sue qualità, [...] Che si può
riscontare “a un certo livello di profondità, anche e soprattutto all’interno della forma linguistica”
(Marrone 1995, p. 122); essa “pertiene altresì all’universo semantico delle lingue. Di conseguenza, essa
è pensabile (e analizzabile) anche come una questione eminentemente linguistica” (Ibidem). Bachelard,
dal canto suo, non disgiunge propriamente immagine e linguaggio: per lui l’immagine poetica è
certamente nel linguaggio, e non potrebbe essere altrimenti, dato che è logos tutto quello che è
specificatamente umano (Bachelard 1957, p. 13). E tuttavia tale immagine, che pure è esito del logos,
allo stesso tempo lo trascende, vi si pone al di sopra: essa “appare come un nuovo modo di essere del
linguaggio” (Bachelard 1960, p. 9).
165
L’immagine poetica si manifesta certamente attraverso la parola, ma non vi corrisponde, bensì ha una
sua esistenza ontologica, indipendente (Bertetti 2013). Essa ha una natura profondamente innovatrice:
“per mezzo della sua novità un’immagine poetica mette in moto tutta l’attività linguistica: l’immagine
poetica ci riporta all’origine dell’essere parlante” (Bachelard 1957, p. 13). La parola può suscitare
l’immagine, ma l’immagine bachelardiana, a differenza della figura di Greimas, si pone a un livello
trascendente rispetto al testo che la manifesta; c’è un’anteriorità dell’immagine rispetto alla parola: “Le
psychisme humain se formule primitivement en images.” (Bachelard 1948a). L’immagine bachelardiana
risiede nella psiche e nell’immaginazione del poeta che la crea, nonché del lettore che la ricrea nel
retentissement, vale a dire attraverso l’intima risonanza con il poeta o lo scrittore nel momento della
lettura, in una concezione che conduce a un soggettivismo inaccettabile per la semiotica.
Per concludere: Bachelard ha dato e può ancora dare grandi stimoli alla ricerca semiotica; la sua analisi
dei materiali è affascinante, e davvero rileggendo le sue tassonomie, spesso costruite su opposizioni
qualitative binarie sembra di essere alle soglie dell’analisi semica, come diceva Greimas (1966),
anticipando persino la categoria semi-simbolica. E tuttavia il riutilizzo che ha fatto la semiotica di
Bachelard è sempre stato, utilizzando un’espressione di Umberto Eco (1989), un “uso”, e forse non
poteva non esserlo. In particolare, per Greimas l’opera di Bachelard rimane in definitiva una suggestione
liberamente rielaborata, una fascinazione la cui chiave va forse ricercata soprattutto nella densità
dell’immagine bachelardiana (Bertetti 2017). Come le figure del mondo naturale di cui ci parla Greimas,
infatti, anche le immagini poetiche sono immagini “dense” (Marsciani 2014): esse vanno al di là
dell’evento, dell’estensione dell’oggetto, ma ci dicono su di esso qualcosa di profondo e carico di senso.
Vi è però una differenza non irrilevante: per Greimas tale densità è “genetica”, data dall’accumularsi di
tratti culturali, data dal suo passato. Per Bachelard, invece, l’immagine poetica – che, come abbiamo
visto, è originaria – è densa perché genera altre immagini, e diventa una sorgente di ulteriori
significazioni per qualcuno (Marsciani 1995, p. 86).
166
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
Bachelard, G., 1938a, La Psychanalyse du Feu, Paris, NRF; trad. it. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo 1973.
Bachelard, G., 1938b, La formation de l’esprit scientifique, Paris, Vrin; trad. it. La formazione dello spirito
scientifico, Bari, Laterza 1951.
Bachelard, G., 1942, L’Eau et le Rêves, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi delle acque: purificazione, morte e rinascita,
Como, Red edizioni 1988.
Bachelard, G., 1943, L’air et le Songes, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, Como, Red
edizioni 1988.
Bachelard, G., 1948a, La terre et les Rêveries de la Volonté, Paris, Corti.
Bachelard, G., 1948b, La terre et les Rêveries du Repos, Paris, Corti; trad. it. La terra e il riposo: le immagini
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Bachelard, G., 1957, La poétique de l’espace, Paris, PUF; trad. it. La poetica dello spazio, Bari, Dedalo 1975.
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Bachelard tra epistemologia, sociologia, semiotica, Bologna, Esculapio, pp. 203-216.
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Sensi e discorso. L’estetica nella semiotica, Bologna, Esculapio.
Marsciani, F., 2014, “À propos de quelques questions inactuelles en théorie de la signification”, in Actes
Sémiotiques, n. 117, pp. 1-30.
167
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] | Sulle tracce della polvere. Brevi note sul potere materiale del quasi niente1
Gianluca Burgio
Abstract. Dust is considered a minor matter and has therefore always been placed on the lowest rung of the ladder
of materiality. However, in a change of perspective, the world of neglected things (Puig de la Bellacasa 2011) takes
on ontological relevance; this implies that dust - the main entity of neglected things - is reassembled in the system
of spatial and social relations. In the contemporary world, the small, the fragile, the presque-rien (Dagognet) has
been forgotten, and with it all the complexity of relationships. And yet, this formless and pulviscular mass, as
matter, has an often underestimated power that is worth investigating; in fact, it is capable of enrolling human
collectives, spaces and technical objects that participate together in its removal; its very existence generates
practices of care and maintenance, as can be seen from the ethnographic investigation that is briefly described
within the text.
1. Una materia quasi invisibile
Le entità invisibili o che passano quasi inosservate possono destare una certa forma di curiosità; e tra di
loro, provoca interesse soprattutto quella materia – proveniente da materiali ritornati a una dimensione
quasi originaria – che è considerata scarto, detrito, inutile sottoprodotto delle attività umane. La polvere
è una di esse. Ne parliamo sempre come infimo residuo del quotidiano; essa è un disturbo, o un rumore
(Serres 2022), nel rilucente mondo del ricercato splendore: antiprogramma (Akrich, Latour 2006, p. 407)
perfetto di quel mondo perché si oppone pervicacemente alla ricerca dell’eternità, si oppone
all’aspirazione – tutta umana – di proiettarsi in una dimensione infinita e perenne. Il memento biblico2,
che ha i tratti di una maledizione ai quali gli umani non possono sfuggire, ricorda appunto la finitudine
dell’uomo e delle sue azioni. La polvere è onnipresente testimone di questa realtà e Michael Marder lo
spiega molto bene:
1 Un’indagine sulla polvere apre orizzonti di ricerca amplissimi che vanno dalle questioni materiali e spaziali, alle
tematiche sociosemiotiche, passando per le implicazioni, politiche, filosofiche, simboliche, religiose e così via. In
questo scritto si è scelto di definire alcune delle tematiche possibili puntando l’attenzione sull’aspetto materiale e
performativo della polvere e sulla sua capacità di fare e di organizzare. In queste brevi note, si è preferito far
solamente intravedere la complessità e la magnitudine del tema che potrà essere ulteriormente sviluppato in altre
occasioni. Infine, la locuzione presque rien è presa in prestito da François Dagognet e differisce sostanzialmente
dal quasi niente teorizzato da altri autori quali, per esempio, Vladimir Jankélévitch che si riferisce a un evento
impalpabile: ne è una dimostrazione “[l’]emozione musicale, questo quasi-niente che il passato personale, la
rifrazione morale, l’educazione artistica colorano di imprevedibili sfumature” (Jankélévitch 1987, pp. 33-34).
Dagognet in più occasioni, d’altra parte, dimostra la sua volontà di costruire un’ontologia del quasi niente fisico,
di quella materia considerata infima, inutile o addirittura abietta (Dagognet 1997, 2009).
2
“Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai” (Genesi, 3,19).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
[…] la polvere [di casa] è costituita principalmente dalle tracce materiali della nostra esistenza
corporea, [e] lo sforzo di eliminarla mira, in modo del tutto inconsapevole, a espellere le vestigia di
noi stessi. Panno alla mano, cancelliamo le prove della nostra mortalità e della nostra fusione
postuma con l’ambiente. Con l’inclinazione a mettere in ordine la casa, desiderando riportarla a uno
stato immacolato, spolverare rende i luoghi in cui soggiorniamo un po’ sterili, un po’ morti, tutto in
nome della vita. In un certo senso, questa attività simboleggia la nostra incapacità o non volontà di
affrontare in modo costruttivo le nostre vite, di accettare i loro legami con la finitudine, la morte e
gli altri, archiviati nella polvere (Marder 2016, trad. mia, pp. 6-7).
Ma che tipo di oggetto è la polvere? Un oggetto strano sul quale vale la pena interrogarsi per andare
oltre le definizioni che la relegano in un ambito marginale e secondario dal momento che, una volta
superate queste categorie, penetriamo in un sistema di connessioni e di relazioni molto più complesso
che consente di cambiare prospettiva.
La polvere in quanto parente stretta dello sporco – insieme superiore che la contiene – è vista come
materia fuori posto, secondo la celeberrima definizione di Mary Douglas (1966); ma di che materia
stiamo parlando? Possiamo considerare la polvere come miscela di particelle solide provenienti da
diverse fonti. La Environmental Protection Agency (EPA) degli Stati Uniti fornisce alcune indicazioni3
sulla composizione che, beninteso, può variare moltissimo da ambiente ad ambiente: la polvere
domestica è in genere composta da pelle umana e follicoli piliferi, polline, peli e forfora di animali
domestici, parti di insetti, residui di cottura e riscaldamento e vari inquinanti, provenienti dall’esterno
dell’abitazione, ma anche dalle sostanze chimiche presenti negli oggetti di uso quotidiano. Insomma, di
per sé, la polvere è materia complessa, difficile da classificare. Cogliendo i suggerimenti di Tim Ingold,
forse anziché provare a rappresentarla, costringendola in rigide categorie oggettuali, dovremmo provare
a farla parlare (Ingold 2021) e dovremmo dunque cambiare prospettiva, prestando attenzione “ai flussi
di materiali e delle correnti di coscienza sensoriale all’interno dei quali immagini e oggetti prendono
forma reciprocamente” (Ingold 2019, p. 43).
La polvere non è certo considerata una materia nobile; per lo più, come diceva Gogòl (Orlando 2015,
pp. 33-36), essa è “deiezione dell’utile” e per questa stessa ragione è altamente improbabile che le venga
concessa una seconda possibilità, e che quindi possa accedere a una nuova vita trasformandosi in un
oggetto utile alle necessità umane.
Difficile trovare, dunque, qualche voce che elogi la polvere o ne proponga un’interpretazione
perlomeno positiva: la polvere è associata, soprattutto nelle culture occidentali di matrice giudaico-
cristiana, alla morte, alla povertà, al disinteresse e all’oblio e, non per ultimo, al disordine. Lasciar
ricoprire le cose di polvere, significa decretarne la fine; coperte da un impalpabile velo grigiastro, le
cose si trasformano in ciarpame e robaccia (Orlando 2015, p. 16), perdono consistenza, si tramutano
in oggetti fuori luogo e contribuiscono a creare quella perturbante sensazione di repulsione, che viene
amplificata dal riconoscere nella cosa impolverata alcuni tratti familiari, ma compromessi proprio
dalla polvere. La gradevole consuetudine quotidiana degli oggetti si tramuta, a causa della polvere,
in una forza respingente, Unheimlichkeit come la definisce lo stesso Francesco Orlando, ricorrendo
all’idea freudiana di perturbante.
In un passo del romanzo La porta di Magda Szabó, così viene descritta questa sensazione di morte e
dissoluzione generata dalla stessa presenza della polvere:
Quando battei la mano sulla fodera si alzò una nuvola, la polvere si ridepositò, ma il tessuto, per
effetto del leggero colpetto, si ruppe, si strappò, come se fosse morto di crepacuore per la mia
mancanza di delicatezza. […] La consolle crollò, ma la cosa non accadde con brutale velocità. Iniziò
a disfarsi lentamente, con grazia, finché si dissolse in un cumulo di segatura dorata, le figurine di
3
www.epa.gov/expobox/exposure-assessment-tools-media-soil-and-dust.
169
porcellana e l’orologio caddero a terra, il tavolo, la cornice dello specchio, il cassetto, le gambe,
tutto semplicemente scomparve nel nulla, ogni cosa finì in polvere (Szabó 2005, pp. 251-252).
Tuttavia, se mettiamo da parte l’approccio utilitaristico alle cose e le guardiamo con lo sguardo
dell’alchimista, vedremo cosa fa la polvere e non solo cosa essa sia. Un po’ meno chimici e un po’ più
alchimisti, dice Ingold (2019, pp. 57-59): e dunque cosa fa la polvere? Certamente si mette in relazione
con l’ambiente circostante e con altre entità con cui entra in contatto. Queste relazioni possono portare
a nuove connessioni, significati o influenze reciproche tra la polvere e gli oggetti che la circondano,
creando un ibrido4 (Latour 1991), un entanglement di umano e non-umano, di oggetti e soggetti, un
inestricabile “groviglio” che costituisce il tessuto complesso del nostro mondo. La polvere è di per sé un
ibrido5 , essendo un’entità né completamente organica né inorganica: essa ha un potere abrasivo che
minaccia le cose e ne turba la stabilità chimica alimentando lo sviluppo di organismi potenzialmente
pericolosi attraverso la materia organica (pollini, cellule della pelle, capelli, acari morti) che contiene, ed è
questo il motivo per il quale deve essere eliminata ogni giorno, soprattutto negli ambienti che conservano,
per esempio, oggetti d’arte o di valore storico (Dominguez Rubio 2020, p. 292); ma è un ibrido anche
perché coinvolge (e arruola) direttamente gli umani nella sua storia: l’entanglement tra queste due entità
che co-esistono e co-abitano, da molteplici punti di vista, genera spazi e organizza comunità di umani e
non umani e, dunque, ha un ruolo decisivo nel produrre pratiche materiali e discorsive.
2. Grovigli di polvere
La materia non è inerte, nonostante il paradigma dello human exceptionalism ci abbia indotti a crederlo,
con tutte le conseguenze del caso. La polvere, come abbiamo già avuto modo di dire è considerata
materia infima, e quindi, è stata da sempre collocata nel più basso gradino della scala della materialità.
Tuttavia, nel cambio di prospettiva stimolato dal pensiero di vari pensatori (Barad, Bennett, Ingold,
Malafouris, Puig de la Bellacasa) che mettono in evidenza il potenziale relazionale della materia, anche
le entità fisiche meno visibili (o invisibilizzate) esprimono una loro ontologia per nulla trascurabile. Nella
battaglia moderna, in cui ha prevalso il sublime kantiano (Dagognet 2009, p. 19), il piccolo, l’infimo, il
presque rien è stato dimenticato e con esso tutta la complessità delle relazioni ontologiche. Eppure,
questa massa pulviscolare informe, in quanto materia, ha una sorta di potere spesso sottovalutato e che
Jane Bennett definisce la forza delle cose (The Force of Things): “Thing-power gestures toward the
strange ability of ordinary, man-made items to exceed their status as object and to manifest traces of
independence or aliveness […]” (Bennett 2010, p. XVI).
La polvere esiste ed è fatta di materia, anche se molto spesso, l’unica maniera per renderla “visibile” e
attiva – performativa, direbbe Karen Barad (2017) – è donarle una vita astratta e metaforica: non è
infrequente, infatti, che ci riferiamo non tanto alla realtà fisica della polvere, quanto piuttosto alla sua
metafora, ai suoi significati culturali e alla sua, pur interessantissima, dimensione simbolica. Il passo della
Szabó citato in precedenza ne è un esempio; ma lo è anche l’astrazione della polvere pensata dai
matematici, i quali ne hanno inventato una tutta loro che “vive” nel mondo degli insiemi. Essa è la
cosiddetta polvere di Cantor e non è, con tutta evidenza, una sostanza fisica reale come la polvere
4
Si potrebbe qui parafrasare Bruno Latour riprendendo un suo passo: come classificare la polvere? “Dove mettere questo
ibrido? È umana? Sì, perché è opera nostra. È naturale? Sì, perché non è di nostra fattura” (cfr. Latour 1991, p. 72).
5 “Dust is a powerful unruly agent of entropy that pervades all and evades all. This entropic power derives from the
fact that dust is a hybrid, an in-between entity, neither fully organic or inorganic, that simultaneously abrades things
with small sharp minerals and destabilizes them by feeding their biological growth through the organic matter (pollen,
skin cells, hair, dead mites) it contains. This is why it has to be eliminated every day” (Dominguez 2020, p. 292).
170
ordinaria che si trova nell’ambiente; si tratta, piuttosto, di un’astrazione che rappresenta un particolare
tipo di insieme frattale6.
Ritorniamo alla materia, alle cose che – pur impalpabili – hanno un peso e una consistenza fisica. Pur
nel suo essere scarto o residuo, la polvere può essere considerata materia che “enferme en elle de
nombreuses potentialités, une profonde organisation”, come sosteneva il “materiologo” François
Dagognet (2009, p. 15). Ora, al di là del potenziale metafisico della polvere (Bachelard 1933), ciò che
conta è comprendere davvero cosa essa possa fare e, dunque, come possa generare performances in
quanto in grado di esercitare un potere (Latour 1986).
Pare evidente che l’eventuale performatività della materia in questione non si genera a partire dalla sola
esistenza della polvere e dalla sua rappresentazione in quanto entità definita e limitata. A tal proposito,
Karen Barad riprende l’approccio epistemologico proposto da Niels Bohr che:
[…] rifiuta l’ossessione rappresentazionista per le ‘parole’ e le ‘cose’ e la loro problematica relazione,
a favore di una relazione causale tra le specifiche pratiche esclusorie incarnate in specifiche
configurazioni materiali del mondo (ossia pratiche discorsive/(con)figurazioni al posto di ‘parole’) e
specifici fenomeni materiali (ossia, relazioni al posto di ‘cose’). Questa relazione tra apparati di
produzione corporea e fenomeni prodotti rappresenta una relazione di ‘intra-azione’ agenziale
(Barad 2017, p. 44).
Karen Barad si propone di superare “[i]l rappresentazionismo7 [che] separa il mondo in due campi
ontologici disgiunti, le parole e le cose, senza risolvere il dilemma del loro concatenamento” (Barad
2017, p. 43). In quest’ottica, il concetto di intra-azione è particolarmente utile a definire la dimensione
ontologica della polvere e il suo entanglement relazionale. Intra-azione (intra-action) è un neologismo,
coniato proprio dalla Barad, attraverso il quale si esprime l’idea che nessuna entità può esistere al di
fuori di un processo di relazione:
6
Questo tipo particolarissimo di polvere è costruito a partire da un segmento di retta; questo viene diviso in tre
parti uguali e la parte centrale viene rimossa. Tale processo viene ripetuto all’infinito su ogni segmento rimanente,
creando così un insieme di punti distribuiti in tutto l’intervallo iniziale. La polvere di Cantor è un resto che deriva
da una sottrazione progressiva di “materia” geometrica: ogni segmento è privato reiteratamente della parte centrale
all’infinito, tanto da generare questo insieme di punti. Le operazioni di sottrazione di materia (di natura diversa
rispetto alla frammentazione che genera la polvere) rendono somiglianti le due polveri anche da un punto di vista
metaforico, ma le similitudini si fermano qui. È abbastanza ovvio, infatti, che il pulviscolo geometrico non ha
alcuna relazione diretta con la polvere nel senso tradizionale e fisico del termine; inoltre, mentre la polvere di
Cantor e altri insiemi frattali mostrano un’auto-similarità – il che significa che presentano una struttura simile a se
stessa a diverse scale di ingrandimento – il pulviscolo che trovo sulla mia scrivania mentre sto scrivendo non è per
nulla scalabile. Un granello di polvere reale non possiede la stessa scalabilità di un frattale come l’insieme di
Cantor. La scalabilità di un frattale si riferisce alla proprietà di presentare la stessa organizzazione alle diverse scale.
Ciò significa che si può ingrandire una porzione di un frattale e ottenere una forma simile al frattale completo.
D’altra parte, se si osserva al microscopio un granello di polvere reale, si troveranno elementi eterogenei che lo
compongono e non assimilabili alla struttura organizzativa del granello: siamo, dunque, nella condizione opposta
a quella della scalabilità frattale. Per le ipotesi di Cantor è utile consultare il libro The Fractal Geometry of Nature
di Benoit Mandelbrot (1983) il quale cita il saggio fondamentale del matematico tedesco sul tema Grundlagen
einer allgemeinen Mannigfaltigkeitslehre (Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità) del 1883.
7
Sulla questione della separazione tra parole e cose è intervenuto anche Tim Ingold: L’antropologo britannico
sostiene che le parole devono essere usate per incontrare il mondo: “[l]iberiamoci dalla paura di incontrare il mondo
con le parole. Altre creature incontrano il mondo in modi diversi ma per noi umani la modalità di relazione – come
la nostra supponenza – è stata sempre verbale. Lasciamo però che queste parole siano di augurio e non di scontro;
che siano domande, non interrogatori o udienze; risposte, non rappresentazioni […]” (Ingold 2021, p. 221).
171
[…] la «realtà» dell’universo in ogni suo aspetto viene ad esistere, si «materializza», durante e
attraverso il processo di intra-azione. Barad aggiunge che le entità materializzate non sono
indipendenti l’una dall’altra ma sono «entangled», ossia «aggrovigliate» l’una con l’altra: ciò significa
che ogni entità è simultaneamente diversa, inseparabile, e al contempo resa possibile e agevolante,
limitata e limitante dall’esistenza delle altre entità. Sviluppando un’intuizione elaborata da Bohr […],
Barad suggerisce che specifiche configurazioni, o disposizioni, spazio-temporali della materia fisica
permettono l’esistenza di determinate idee, teorie o, più in generale, di determinati «significati», e
viceversa (Bernardini 2021, p. 164-165).
Secondo Barad, dunque, l’intra-azione implica che le entità non abbiano una sostanza o un’esistenza
stabile al di fuori delle loro relazioni. Le entità sono definite dalle loro pratiche relazionali e dal loro
mutuo coinvolgimento. Ciò significa che la nostra comprensione della realtà dipende dalle pratiche
materiali e discorsive attraverso le quali vengono articolate e che coinvolgono sia gli agenti umani che
non umani. L’intra-azione rompe la dicotomia tra soggetto e oggetto perché enfatizza il fatto che gli
agenti umani e non umani sono coinvolti in un continuo processo di co-emergenza (Barad 2007). Le
entità e le loro proprietà emergono attraverso le loro relazioni e non possono essere considerate
separatamente da queste relazioni8.
La polvere è materia che si accumula come risultato di processi disgregativi causati, per esempio,
dall’erosione, generata dalle attività umane, o dal naturale decadimento della materia. Da un punto di
vista tradizionale, la polvere potrebbe essere considerata come qualcosa di inerte e insignificante, ma se
assumiamo il punto di vista di Karen Barad, la polvere abbandona il suo stato di irrilevanza ontologica
e determina un sistema di relazioni intra-attive che, a loro volta ne determinano l’esistenza.
Il tessuto relazionale “aggrovigliato” nel quale emerge la polvere, insieme ad altre entità che sono
appunto co-emergenti, genera pratiche, origina discorsi e significati, organizza spazi e, non per ultimo,
forma comunità. In questa prospettiva, il mondo delle neglected things di cui parla Maria Puig de la
Bellacasa (2011) assume rilevanza ontologica; la qual cosa implica che la polvere – entità regina delle
cose neglette – viene riassemblata nel sistema di relazioni spaziali e sociali; e non solo: la sua stessa
esistenza genera pratiche di cura e manutenzione di cui si parlerà più avanti.
3. Entità co-emergenti
Ritorniamo per un momento sul concetto di co-emergenza tra umani e non umani di cui parla Karen
Barad: esso si riferisce al fatto che gli esseri umani e il mondo non umano si co-costituiscono attraverso
le loro reciproche relazioni. Secondo questa prospettiva, essi non possono essere considerati
separatamente, ma sono intrinsecamente intrecciati e si influenzano reciprocamente nel loro emergere
e nello svilupparsi. L’idea di co-emergenza sfida le concezioni tradizionali che separano rigidamente gli
esseri umani dal resto del mondo e suggerisce una visione più interconnessa e interdipendente. Ciò
significa che il modo in cui percepiamo, comprendiamo e agiamo nel mondo è influenzato dalle
relazioni e dalle pratiche con gli enti non umani9.
8 Barad utilizza il concetto di intra-azione per sfidare le nozioni tradizionali di oggettività e soggettività, suggerendo
invece una comprensione più complessa e relazionale della realtà. L’intra-azione mette in evidenza l'importanza
delle pratiche materiali e discorsive nel costituire la realtà e invita a una riflessione critica sulle interconnessioni
ontologiche tra gli esseri umani e il mondo che li circonda (Barad 2007, 2017).
9 La co-emergenza implica che le entità umane e non umane si definiscono e si costituiscono a vicenda nel corso
delle loro interazioni e delle loro pratiche materiali e discorsive. Le entità non umane, come oggetti, animali, piante
o fenomeni naturali, sono parte integrante dell’ontologia del mondo e della nostra comprensione della realtà. Allo
stesso modo, gli esseri umani sono coinvolti in relazioni e pratiche che li interconnettono con il mondo non umano.
172
Non si sottraggono a questa logica, a mio avviso, elementi della vita quotidiana che hanno il potere di
condizionare l’organizzazione di intere comunità e gli spazi in cui esse si muovono. La polvere è una di
essi, e come abbiamo avuto modo di intuire, questa materia così sottile, infima e quasi invisibile, è
capace di generare relazioni.
Con chi, con cosa e come intra-agisce la polvere? La frase più ricorrente che viene frequentemente
ripetuta è che la polvere è dappertutto; l’affermazione è quasi banale e purtuttavia corretta: troviamo
polvere negli angoli della casa, negli uffici, sui mobili, in auto, nei luoghi sacri e negli ospedali, nel fondo
delle nostre tasche, sui libri, nelle borse e negli zaini. L’elenco sarebbe infinito, ma non solo è
l’onnipresenza a colpire, quanto piuttosto la persistenza nel tempo: la battaglia con la polvere, per noi
umani, è una battaglia persa: essa si accumula con ostinata persistenza, e per quanto gli umani abbiano
messo a punto strategie e tecnologie per eliminarla, l’unica cosa che sono stati in grado di fare è
semplicemente spostarla. Gli umani ri-muovono la polvere: letteralmente, imponiamo a queste
minuscole particelle di migrare da un’altra parte, più o meno lontana dal luogo che stiamo pulendo;
tuttavia, essa stessa torna in qualche modo sui luoghi sui quali si era depositata (e in qualche modo
anche generata) in un loop infinito che – in modo intermittente – interrompiamo per un breve lasso di
tempo con le cosiddette “pulizie”.
La polvere è il nostro destino. L’umanità fa di tutto e ha fatto di tutto illudendosi di eliminarla, ma non
è riuscita e mai riuscirà in questa impresa che è sovrumana. Quando vogliamo distruggere qualcosa
spesso pensiamo che la soluzione migliore sia quella di bruciarla: ma i resti della combustione sono
inevitabilmente delle polveri. Se pure bruciassimo la polvere, l’unico risultato sarebbe una polvere dalle
caratteristiche chimiche e fisiche diverse da quelle di partenza, ma sempre polvere. Di nuovo: la polvere
è il nostro destino. Ineffabile, come solo essa riesce a essere. La polvere è fatta da noi e dalle cose che
ci circondano, siano esse vicine o lontane: Charles M. Schulz fa dire a Charlie Brown – l’unico che
difende strenuamente l’amico sporco e polveroso – che la polvere di Pig-pen una sorta di archivio della
nostra storia: essa contiene tracce della memoria del passato e come tale va considerato10.
Il lavoro sulla polvere serve, a mio avviso, a decrittare e ad aprire la scatola nera che costituisce il sistema
e la struttura (l’infrastruttura) che la rende in qualche modo invisibile, o ne esige l’invisibilità in quanto
sottoprodotto delle attività umane; in quanto materia inutile e potenzialmente nociva; in quanto simbolo
di degrado sociale ed economico. Insomma, la polvere non è materia stimata, eppure muove cose e
persone, crea dinamiche e genera mondi; in definitiva, essa non possiede un potere, ma piuttosto lo
esercita11 facendo in modo che altri agiscano: in altre parole, volendo usare l’espressione latouriana, la
polvere “arruola” diversi attori, li persuade e li iscrive in uno schema politico, sociale e spaziale. In
definitiva, la polvere arruola interi collettivi che se ne prendono cura.
4. Intra-azioni materiali e conoscenze incarnate
Per questa ragione nel luglio del 2022 – conclusi gli impegni didattici – decisi di realizzare un lavoro
etnografico12 sul campo seguendo una persona che lavorava con la polvere. Così realizzai un breve
10
“Don’t think of it as dust. Just think of it as the dirt and dust of far-off lands blowing over here and settling on
Pig-Pen! It staggers the imagination! He may be carrying the soil that was trod upon by Solomon or
Nebuchadnezzar or Genghis Khan!”.
11
“[…] when an actor simply has power nothing happens and s/he is powerless; when, on the other hand, an actor
exerts power it is others who perform the action” (Latour 1986, p. 264).
12 L’esperienza etnografica condotta sul campo è stata suggerita da Tiziana N. Beltrame, che ha condotto i suoi
studi in ambienti museali seguendo la tecnica dello shadowing (Beltrame 2017, 2022). Per gli aspetti metodologici
di questo tipo di indagine etnografica si è tenuto conto delle ricerche di Marianella Sclavi (2005), da cui deriva
anche il tono espositivo di questo paragrafo.
173
periodo di shadowing, mettendomi sulle tracce della polvere e osservando per circa due settimane le
operazioni svolte da Rosamaria, durante il suo turno di lavoro presso la mia università. Farò qui un
brevissimo riassunto di quell’esperienza che mi permise di toccare con mano la co-emergenza della
polvere e di comunità di persone che “esistono” in certi luoghi proprio per via della polvere. Seguire
chi possiede l’arte di far durare le cose, come direbbero Denis e Pontille (2022), mi apriva verso un
nuovo orizzonte di relazioni simbiotiche.
Rosamaria B. è un’operatrice dell’impresa incaricata delle pulizie presso l’Università “Kore” di Enna. Il
periodo di shadowing fu negoziato – senza nessun ostacolo – sia con Rosamaria che con il proprietario
dell’impresa; piuttosto, entrambi erano sorpresi e incuriositi dal fatto che si potesse pensare di fare
ricerche sulla polvere osservando qualcuno che la rimuovesse. Rosamaria, in particolare, considerava
che era strano che qualcuno potesse interessarsi a una cosa così poco importante e a una persona che,
nella comunità delle persone che ruotano intorno a quei luoghi di lavoro, aveva un ruolo così poco
rilevante. Tuttavia, durante i nostri colloqui e durante le giornate di shadowing, Rosamaria rendeva
visibile la polvere ai suoi occhi – ma anche ai miei – per poterla catturare, e si rendeva conto che in
quella narrazione e in quella azione in qualche modo anche lei usciva dalla sua condizione di invisibilità.
La routine di lavoro che seguivo era abbastanza semplice: le operazioni di pulizia cominciavano alle 15:00
nei laboratori della facoltà di Ingegneria e Architettura, dove le attività a partire da quell’ora cominciavano
a scemare, per continuare a partire dalle 18.00 negli uffici che si andavano svuotando. Rosamaria con il
suo carrello e la sua divisa blu, entravano in azione proprio quando tutti gli altri andavano via, diventando
così quasi invisibili agli occhi di coloro che fin ad allora avevano usato quegli spazi.
Rosamaria arrivava già in divisa e apriva quelle stanze “segrete” nelle quali sono custoditi gli attrezzi di lavoro.
La stessa facoltà cambiava assetto spaziale perché improvvisamente alcuni luoghi – anch’essi invisibili – si
schiudevano entrando in comunicazione con tutti gli altri ambienti della facoltà: stanzini nascosti
“espellevano” carrelli, secchi, scope, macchine lucidatrici e così via, che invadevano uno spazio fatto solo da
elementi utili allo svolgimento del lavoro quotidiano, in cui non c’è posto per quell’attrezzatura. Essa è out-
of-place proprio come la materia – la polvere e lo sporco – che è chiamata a eliminare.
Una volta tirato fuori il carrello dal ripostiglio, Rosamaria e la sua attrezzatura cominciavano un corpo
a corpo con la polvere. Essa è la prima nemica, secondo quanto raccontava Rosamaria: ci sono tracce
di unto, cartacce, resti di cibo e così via, ma la polvere è quella che va rimossa per evitare che la
sensazione di trasandatezza conquisti i luoghi di lavoro. Queste osservazioni mi facevano tornare alla
mente la cosiddetta guerre à la poussière settecentesca a cui si riferisce Michelle Perrot nella sua storia
delle camere (2009). Il corpo a corpo in alcuni casi era reale, dal momento che Rosamaria non delegava
né ai panni, né ai piumini in dotazione, ma rimuoveva la polvere da alcuni angoli impossibili con le sue
stesse mani sulle quali indossava dei guanti.
Rosamaria comprendeva che il suo lavoro significa far parte di un collettivo che rimette indietro le
lancette del tempo: ogni suo passaggio in un ufficio, in un bagno o in un laboratorio, ristabiliva le
condizioni inziali degli oggetti e dello spazio, come se il tempo non fosse trascorso. In questo modo i
diversi collettivi degli utenti di quel luogo potevano tornare a lavorare e a usare gli spazi spolverati da
Rosamaria come se il tempo non fosse passato. L’ibrido costituito da Rosamaria, il suo carrello e la sua
divisa si assumeva il compito di prendersi cura delle cose neglette o considerate di scarsa rilevanza (Puig
de la Bellacasa 2011).
Seppur la routine fosse ogni giorno la stessa, il lavoro di Rosamaria aveva un certo grado di complessità:
il suo modo di procedere, infatti, era regolato da una mappa spaziale “incarnata” che proverò a spiegare.
Rosamaria ingaggiava con la polvere una sorta di complicità strategica: “io so come funzioni, so come
e dove ti accumuli, conosco i tuoi movimenti e riconosco i segni della presenza di coloro che possono
portarti con loro e che quindi possono consentirti di depositarti”. Era questo il ragionamento che faceva
Rosamaria: lei sapeva cosa aveva pulito il giorno prima, conosceva in qualche modo il trigger point
dell’accumulo di polvere, oltre il quale era necessario il suo intervento e, con occhio abituato a
174
riconoscere le tracce, sapeva se qualcuno aveva frequentato quei luoghi. Queste conoscenze le
permettevano di fare operazioni diverse ambiente per ambiente: in quelli frequentati dalle persone o
non spolverati il giorno prima, l’intervento era più profondo; meno intensa e più superficiale l’azione,
invece, in quei luoghi che non erano stati utilizzati, o che erano stati oggetto delle sue attenzioni il giorno
prima. Rosamaria ricostruiva, giorno dopo giorno, una mappatura dei luoghi e delle operazioni svolte
e da svolgere. La polvere la costringeva a pensare e a muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra.
Le dinamiche di Rosamaria mi stimolavano alcune riflessioni: siamo noi a dar forma alla materia, o è
essa stessa che in qualche modo ci plasma, fino a modellare il nostro modo di pensare? Questo
interrogativo, che problematizza il sistema di relazioni e le direzioni che le parti in gioco assumono, in
realtà non è da sottovalutare; anzi, risulta determinante nel momento in cui assumiamo il fatto che le
entità umane non hanno un ruolo centrale ed eccezionale rispetto a tutti gli altri esseri o alle entità non
umane. In quest’ottica, anche la materia “inerte” può svolgere un ruolo agente e dunque realmente
attivo nel determinare persino l’organizzazione spaziale e sociale di collettivi umani e non umani. La
polvere non si sottrae a questa condizione attiva: essa è percorsa, infatti, da linee di flusso, è oggetto di
resistenze e ingaggia, in larga misura, una battaglia continua con gli umani13. Le azioni di Rosamaria, i
suoi movimenti nello spazio, parte del suo pensiero e delle conoscenze che ha acquisito, sono co-generati
dalla polvere. Essa in qualche modo produce una conoscenza e una maniera di leggere il mondo che
deriva dal suo essere ciò che è: in questo senso, Lambros Malafouris (2017) propone una prospettiva
chiamata “material engagement theory” che mette in evidenza come gli oggetti materiali e l’ambiente
fisico siano parte integrante dei processi cognitivi e delle pratiche culturali. Secondo questa prospettiva,
l’interazione tra gli esseri umani e il mondo materiale è fondamentale per la formazione del pensiero e
per la produzione di significato. Malafouris suggerisce che gli oggetti materiali non siano semplici
estensioni passive delle menti umane, ma che abbiano una propria agency e siano coinvolte attivamente
nei processi cognitivi. Ad esempio, strumenti, artefatti culturali e altri oggetti materiali possono fungere
da “catalizzatori cognitivi” che ampliano le capacità cognitive umane e facilitano il pensiero creativo e
l’elaborazione concettuale.
Questa prospettiva mette in discussione l’idea tradizionale che il pensiero sia unicamente un prodotto
del cervello umano, sostenendo invece che il pensiero si sviluppa in relazione alla materialità
dell’ambiente e attraverso l’interazione con gli oggetti fisici. L’ambiente fisico fornisce strumenti, simboli
e contesti che plasmano il modo in cui percepiamo, pensiamo e comprendiamo il mondo.
In sintesi, secondo Malafouris, la materia non è solo un oggetto inerte, ma ha una capacità attiva di
influenzare il pensiero umano. Questa prospettiva amplia la nostra comprensione della relazione tra
mente e materia, mettendo in risalto l’importanza della materia nella formazione delle idee, delle
pratiche e della conoscenza umana.
5. Politiche della polvere
La manutenzione e la cura degli oggetti e degli spazi ha un’evidente dimensione politica alla quale qui
farò solo un breve cenno, partendo da alcune riflessioni che scaturiscono dall’architettura. Joseph Amato
(1999) ricorda che la polvere è stata spinta ai margini della società. L’urbanistica e l’architettura moderna
hanno svolto un ruolo fondamentale, agendo esattamente in questa direzione: da un lato promuovendo
le teorie igieniste della città, dall’altro, allontanando dai centri urbani le industrie e cittadini polverosi e
sporchi alla Pig-pen. L’architettura cosiddetta moderna ha fomentato la costruzione delle periferie
urbane, teoricamente più pulite, più ariose e dunque più sane, stimolando in qualche modo la
13
Si vedano, a tal proposito, le riflessioni di Ingold sul Trattato di nomadologia di Gilles Deleuze e Félix Guattari
(Ingold 2021, p. 53).
175
costituzione di collettivi di umani e di edifici che servivano a tenere lontana la polvere. La rimozione
della polvere serviva, come diceva Bataille (1929), ad allontanare i “fantasmi che spaventano la pulizia
e la logica”: la materialità della polvere è perturbante, unheimilich; essa è l’immagine del ciclo delle
cose e della finitezza nostra e loro. Non vi era posto, dunque, per una materia repulsiva che, per di più,
minacciava le magnifiche sorti e progressive della modernità. La polvere, per coloro che si occupano di
spazio, è rumore 14 , perché disturba con la sua ingerenza la tensione verso l’infinto e l’eterno. Se
osservassimo le cose con gli occhi di un fisico, potremmo dire che la polvere è la materializzazione
dell’entropia del mondo: con essa tocchiamo con mano la seconda legge della termodinamica.
I cosiddetti moderni dell’architettura contemporanea hanno condotto una guerra infinita alla polvere e
allo sporco, tanto che Le Corbusier descriveva così il suo ideale di architettura: “L’architettura è il gioco
sapiente, corretto e magnifico dei volumi raggruppati sotto la luce. […] l’ombra e la luce rivelano queste
forme; […] La loro immagine ci appare netta… E senza ambiguità”. L’aspirazione del nonno
dell’architettura contemporanea era sottrarre al tempo le opere architettoniche e consegnarle all’eternità.
Gli architetti si sono inventati di tutto per tenere la polvere lontana dalle loro aspirazioni, più che dalle
loro architetture. La gestione della polvere è necessaria per mantenere le architetture (Sample 2016) e
le opere d’arte nei musei. Essa è, infatti, una pericolosa nemica perché compromette fortemente il
desiderio di atemporalità degli oggetti che ricopre:
[…] the ecological nexus that generates and sustains the modern imagery of immediacy, transparency,
authenticity, and timelessness in our encounters with the art object. It can do so by inspiring entirely
different figures of imagination, like loss, ruination, carelessness, and nostalgia, and reveal, in so doing,
the futility of the human rebellion against things that the modern museum tries to stage. Dust has to be
eliminated to prevent any of these images from taking hold and to preserve, and legitimate, the idea
of a museum as a place of care, not of abandonment. Just imagine going to a museum in which display
cases and artworks are covered by thick layer of dust. But this is not the only reason. Dust also needs
to be eliminated because it can undo objects (Dominguez 2020, p. 292).
In definitiva, non accettiamo il decadimento e la transitorietà. Proviamo in tutti i modi a ritardarli o a
prevenirli, senza grande successo. Le cose si modificano e si trasformano (Pollard 2004), e quel quasi-
niente che è la polvere è testimonianza di questi processi ineluttabili. Abbiamo persino inventato gli
aspirapolvere, che usano un flusso d’aria invertito (in quanto aspirano) per togliere la polvere. Essi fanno
il lavoro inverso dei flussi d’aria naturali che depositano il pulviscolo sulle superfici.
Lo studio della polvere, le storie che essa narra, gli spazi che genera, gettano una luce sul mondo in cui
viviamo e sul sistema di relazioni che legano insieme gli umani, la polvere stessa e gli oggetti che provano
a eliminarla. Seguire le tracce della polvere aiuta a penetrare un sistema di relazioni complesso in cui la
polvere può essere annoverata tra le “masse mancanti” (Latour 1992) della costruzione sociale e spaziale
dei luoghi in cui viviamo.
14
Sulla polvere come rumore si vedano gli scritti di Beltrame (2017) e di Serres (1980).
176
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178
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] | Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze
Giuditta Bassano
Abstract. This article explores the problem of materials with respect to contemporary semiotic research. The
contribution defines a general problem of including processual aspects in the analysis of materials and artefacts. It
therefore focuses on dust, as a material identified both in a socio-technological sense and focused on by many
contemporary art works. In analyzing dust, a proposed model for the problems posed by materials is outlined, as
including: a figurative dimension, a figural dimension, a thymic dimension, and an aspectual dimension. Some
strengths and weaknesses of this proposal are discussed in the final part of the article.
1. Introduzione
Paul Valéry intitola un capitolo di Degas Danse Dessin “Du sol et de l’informe”, del suolo e dell’informe.
Qui distingue tra oggetti con una “forma nota” – quelli che ci appaiono attraverso la loro “funzione” e che
secondo il poeta “non possiamo più vedere”, come una sedia, un tavolo, una forchetta – e quelli di forma
“sconosciuta”, che Valery definisce “informi”, come per esempio un pezzo di carta accartocciato. Questi
ultimi, privi di ogni sorta di “neutralizzazione” provvista dall’uso, appunto dalle funzioni, secondo Valery
ci costringono a uno sguardo più profondo, e forse più proficuamente ingenuo. Tanto che il poeta
suggerisce un esercizio di allenamento del pensiero “attraverso l’informe” (Valery 1938, pp. 75-76).
Sulla scorta di queste note, pare possibile seguire e forse riaprire i tracciati della riflessione semiotica
sugli artefatti e sulle materie ed elementi1. A costo senza dubbio di una semplificazione2, i lavori condotti
fino ad oggi sembrano concentrati in due indirizzi principali. Da una parte ci sono le ricerche sul senso
degli oggetti, in dialogo con un’antropologia delle tecniche e successivamente con gli studi di design, la
storia delle tecnologie, la filosofia latouriana e il lavoro di Ingold. Dall’altra ci sono quelle dedicate al
campo artistico; luogo d’incontro con la fenomenologia della letteratura, l’estetica, la storia dell’arte.
La divaricazione tra questi terreni d’indagine sembra caratterizzata anche da una progressiva distanza,
più o meno netta, tra approcci. La semiotica degli oggetti mette a fuoco in particolare la dimensione
valoriale e la narratività; si concentra sulle interazioni narrative interoggettive, intraoggettive (Mattozzi,
Sperotto, Poli 2009) e tra artefatti e utilizzatori. Nel caso degli artefatti, da un reattore nucleare a un
muro, passando com’è chiaro per tutti gli “oggetti d’uso quotidiano”, sbattitori, chiavi, spazzolini da
denti, il commercio semiotico è determinato dall’idea dell’uso. Tutti i prodotti di qualche tecnica sono
1
Il modo in cui sono intesi qui i sostantivi “materie” e “sostanze” non ha connessioni con la teoria hjelmsleviana,
che è astratta e a nostro avviso priva di qualsiasi presa analitica sul mondo sensibile. Per “elementi” ci rifacciamo
all’idea del simbolismo classico.
2
È una considerazione che non rende giustizia per esempio agli studi semiotici sul cibo – che non presentano
affatto i tratti della divaricazione analitica individuata di seguito (cfr. per es. Marrone 2016; Marrone e
Giannitrapani, a cura, 2012). Un’altra serie di analisi elusa dalle considerazioni svolte qui è quella di Marsciani
(1995, 2007, 2009, 2012).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
connessi con la fattitività, e l’ANT, all’inizio, ha colto nella semiotica proprio un punto di vista sulla
fattitività. Il che pare valere anche per i materiali, sostanze, elementi. Qui i materiali e le sostanze sono
concepibili come artefatti allo stato virtuale o attuale. Della carta sappiamo che si collega a un “foglio”,
il cemento a un muro, il cotone a indumenti e altri oggetti per tamponare la pelle. Si ha cioè a che fare
perlopiù con percorsi che dipendono da due poli, percorsi che legano materiali da una parte e artefatti
dall’altra, come virtualità e realizzazioni, come parti di un insieme e forme stabilizzabili3. Basta pensare,
per esempio, al concetto di componente tassica nel modello di analisi messo a punto da Floch su Opinel
(1995, pp. 198-230)4, oppure alle considerazioni di Bolchi nella sua celebre analisi di un rasoio femminile
(Semprini 1999, pp. 39-56)5.
Quando invece la disciplina si rivolge all’arte, le dimensioni privilegiate sembrano piuttosto quella
enunciativa e discorsiva. Il lavoro di Omar Calabrese è un riferimento essenziale, e vale, tra molti, uno
studio dedicato ai concetti di figurale e figurativo rispetto alle rappresentazioni pittoriche dell’acqua
(2006); inoltre ci riferiamo a lavori come Deleuze (1981), Marin (1980), Calabrese (1980, 1985), Fabbri
(2020), Corrain (2004, 2016), Lancioni (2012), Migliore (2021), e dell’intera scuola senese (cfr. per es.
Mengoni 2015; Polacci 2012). Nell’arte, e nell’analisi semiotica che vi si dedica, la nozione di materiale
con tutta evidenza si dissolve. I materiali possono essere intesi come ingredienti dei colori pittorici, come
temi o figure di un’installazione, ed emergono infinite “sostanze” – che si tratti di metallo, ossa, diossine,
cenere, cemento 6 etc. – ed elementi (intesi secondo il simbolismo classico) 7 , convocati ora
dall’enunciazione ora dall’enunciato di un’opera, ora da dimensioni intermedie tra le due8. Lo iato tra
queste due direzioni di ricerca appare almeno duplice. Mentre la semiotica degli oggetti ha più o meno
narcotizzato il dialogo con una dimensione estetico-fenomenologica, la semiotica dell’arte ha per parte
sua riflettuto principalmente sulla dimensione estesica del senso. Un altro punto di divergenza riguarda
il ruolo delle questioni legate alla temporalità, oggi forse meno tematizzate nell’analisi degli artefatti9,
ma centrali nell’analisi semiotica del campo artistico. Infatti, liberando sostanze e materie da una
3
Come noto, Barthes aveva riflettuto sulla plastica, dedicandole una sorta di “scomunica sostanziale”: “Più che
una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare,
l’ubiquità resa visibile. […] Più che oggetto essa è traccia di un movimento […]. La sua costituzione è negativa: né
dura né profonda essa deve contentarsi in una qualità sostanziale neutra a dispetto dei suoi vantaggi utilitari: la
resistenza, stato che suppone la semplice sospensione di un abbandono. Nell’ordine poetico delle grandi sostanze
è un materiale sgraziato, sperduto tra l’effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: essa non arriva a
nessun vero prodotto dell’ordine minerale: schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato
la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato” (Barthes
1957, p. 170, corsivi nell’originale). Barthes qui sta pensando a una plastica intesa come materiale. E, forse, Alberto
Burri ha saputo smentirlo liberando nelle proprie opere una “plastica sostanza” con caratteristiche molto diverse.
4
Nonostante Floch stesso (1984) avesse aperto a uno studio degli effetti di senso “fenomenologici” del cemento
impiegato come materiale architettonico.
5 Alcune analisi principali in ambito di semiotica degli oggetti sono in Mangano (2008, 2010); Mattozzi (2006);
Deni (2002); Semprini (1999); Hammad (1989); Marrone e Landowski (2002).
6
Cfr. le opere di Eliseo Mattiacci oggetto di uno studio di Fabbri (2020, pp. 291-303); Balkan Baroque di Marina
Abramovic del 1999; il progetto Yellow Dust: Making Visible Particulate Matter in the Air di Nerea Calvillo, del
2017; i lavori di Daniel Arsham, tra i quali per esempio Fictional Archeology del 2015; Narrow are the Vessels di
Anselm Kiefer del 2012 (tra moltissime opere dell’artista).
7 Rimandiamo a un altro lavoro di Fabbri (2020, pp. 239-254) sull’acqua in Ocean Without a Shore di Bill Viola.
8
Cfr. a questo proposito il lavoro fondamentale di Krauss (1981).
9
Lo si vede con il famoso schema d’analisi derivato dall’analisi di Floch sul coltello Opinel, già citato, il quale
ancora oggi, a dispetto di un aggiornamento proposto da Mattozzi (Mattozzi et al., cit., 2009), è lo schema didattico
più usato. Questo schema fotografa uno stato, provvede una sorta di istantanea dell’uso e del senso degli artefatti.
E in questo sembra simile alle criticità di modelli sviluppati dagli studi di design e progettazione per l’analisi dei
materiali (cfr. Rognoli, Levi 2011, pp. 44-45). Prospettive che cercano qualità degli oggetti in senso aristotelico;
punti di vista che tendono ad eludere la dimensione temporale e processuale.
180
funzione tecnica d’uso, l’arte apre per esse percorsi figurativi illimitati10, percorsi in cui ha rilievo anche
un aspetto nettamente processuale. Basta pensare, per un esempio tra molti, alla serie Ice Watch di Olafur
Eliasson (Fig. 1). Si tratta di un gruppo di installazioni collocate in varie capitali europee tra il 2014 e il
2018; attraverso di esse l’artista islandese ha dato corpo a una riflessione sul tema del cambiamento
climatico. Una serie di blocchi di ghiaccio artico, di diversi metri di diametro ciascuno, era collocata in
cerchio nello spazio pubblico, evocando la configurazione del quadrante di un orologio. I blocchi erano
accessibili ai visitatori, che potevano toccarli, salire su essi, scattare foto, ma la “mostra” aveva una
scadenza cinicamente determinata. Quella connessa allo scioglimento spontaneo dei blocchi, esposti
all’aperto e appoggiati direttamente sulla pavimentazione urbana.
Fig. 1 – Ice Watch, Olafur Eliasson e Minik Rosing, 2018.
Installazione londinese all’esterno di Bloomberg European. Foto
di Charlie Forgham-Bailey (© Olafur Eliasson).
Se i percorsi figurativi attraverso cui il discorso dell’arte fa significare le materie e le sostanze sono fluidi,
imprevedibili, incalcolabili, l’analisi di testi di questo tipo può richiamare l’attenzione dello sguardo
semiotico sul rilievo di una temporalità interna11 inscritta in ogni genere di elementi, sostanze (e artefatti).
Di seguito, questo contributo svolge alcune considerazioni su uno specifico oggetto d’analisi, la polvere
“ordinaria” (Amato 1999, p. 71), tentando di unificare alcuni rilievi degli approcci rapidamente visti.
2. Polvere
La polvere è di difficile definizione12. Non è un elemento nel senso del simbolismo classico – a meno
di non considerarla come unione di terra e aria –, né naturalmente è un materiale, nel senso di “ciò di
cui è fatto qualcosa”. Con la polvere non si fa niente, non si tratta di “carne degli oggetti”, non è “il
corpo di un’opera o di uno strumento” (Fiorani 2000, p. 14). La polvere è una “massa” informe nel
10 Ipotesi abbracciata per esempio da Dagognet (1997, p. 74) e Krauss (cit., pp. 204-206).
11
Semprini (1996, pp. 123) proponeva di pensare agli artefatti come stratificati: “agglomerazioni di strati, intrico di
livelli, sovrapposizione di piani che potrebbe rendere meglio l’idea sia della multidimensionalità virtuale sia del
duplice regime temporale che si applica a ciascuna di queste dimensioni”. Il riferimento a una doppia temporalità
riguarda la proposta di Semprini di pensare a un tempo come corso d’azione, dentro cui gli oggetti si inserirebbero,
e a un tempo come temporalità propria degli oggetti, a sua volta scomponibile in più aspetti.
12
Una stessa vacuità ha interessato il senso delle varie entità connesse al concetto di ombra, cfr. Stoichita (1997);
cfr. anche Dubuffet (1971).
181
senso di Valery, che, in qualche modo, si avvicina all’idea di sostanza. La definizione lessicale articola
questa prossimità: lo Zingarelli ricorda che quando non corrisponde a un materiale, la materia è appunto
un parasinonimo di sostanza. Cioè un “elemento primario di qualcosa” – vaghezza notevole – “di cui
sono esempi i composti chimici”. Per coincidenza con la divaricazione a cui si è accennato sopra,
menzionando una semiotica degli oggetti e gli studi semiotici sull’arte, questa sostanza sui generis è
trattata precipuamente in una storia della tecnologia e delle scienze (Amato 1999; Reynolds 1948;
Beltrame, Houdart, Jungen 2017) e nella critica d’arte (Grazioli 2004; Hennig 2001; cfr. anche Burgio
2011). Amato ricorda una serie di trasformazioni che hanno interessato la polvere da un punto di vista
timico e cognitivo rispetto alle scoperte tecnologiche degli ultimi due secoli:
Un tempo regno inaccessibile, la polvere era al contempo mescolanza e summa di tutte le piccole cose.
Nel Novecento la polvere, analogamente ai contadini dell’ancien régime, è stata sospinta ai margini
della vita. Ha perso il suo ruolo di prima e più comune unità di misura del piccolo. Da normale
compagna di vita è divenuta un insieme di particelle altamente differenziate. E questa differenziazione
della polvere è andata di pari passo con l’indagine scientifica, la produzione industriale e la
regolamentazione della salute pubblica. […] Vulcanologi, meteorologi, geofisici, medici industriali e
igienisti, insieme ad altri specialisti si occuparono ciascuno di un differente particolato. […] Nei
laboratori gli scienziati manipolano l’invisibile. Trasformano i batteri in agenti igienizzanti e fanno
giochi di prestigio con tecnologie in scala molecolare. In questo mondo non c’è più spazio per la
polvere, a meno che non presenti le credenziali di uno specifico particolato. La vecchia polvere mista
e indifferenziata – le gatte sotto il divano – è ora priva di dignità formale. Con così tante conoscenze
sull’invisibile, la polvere ordinaria non ha più diritto al rispetto (Amato 1999, pp. 102-104).
Grazioli scrive alcune righe significative sul rapporto tra polvere e arte:
La polvere in sé non è quasi niente, si disfa sotto le dita, ma anche sotto l’occhio, sotto lo sguardo
che la coglie, eppure è il segno del tempo, del suo trascorrere e insieme del suo restare, deposito
assoluto, presenza in quanto deposito; e insieme immagine, pellicola che rifà nel dettaglio l’oggetto
su cui si deposita, sottile come l’essenza dell’immagine stessa – “infrasottile” – eppure fedele come
un calco (2004, p. 73).
Entrambi gli autori colgono elementi dirimenti di una considerazione della polvere ordinaria in senso
semiotico. Di più, i saggi di Amato e Grazioli aprono a una galleria di discorsi e prospettive analitiche
possibili. Così, traendo da entrambi i lavori alcuni esempi, proveremo a sviluppare un modello che
“sintatticizza” la polvere, cioè la inserisce in sintassi di diverso ordine, in una proposta più generale
relativa all’analisi delle sostanze, discussa oltre, nel § 2.
2.1. Un “tritume”
Quali sono i tratti figurativi di quello che a vario titolo chiamiamo polvere? Come si trasferiscono su
altre sostanze? Gli usi linguistici come “polvere di riso”, “polvere di stelle” ricordano che la polvere è
un composto granulare, discreto – come opposto a compatto nel senso in cui Françoise Bastide (1987,
p. 348) usa questi termini – e spesso aereo. In questo senso le “piogge d’oro” della mitologia greca, il
pepe polverizzato, la farina e la cenere sono tutti parenti stretti della polvere. La contrapposizione tra
polvere e sabbia permette di specificare altri contrasti, quello tra asciutta (la polvere) e bagnata, leggera13
e pesante, ubiqua e localizzata, eterogenea e omogenea, non minerale e minerale.
13
Per Grazioli la leggerezza della polvere è un elemento tipico della sua caratterizzazione in Oriente: “il tema è
importante perché divide chi la vede sospesa e antigravitazionale in forma di pulviscolo volteggiante nei fasci di
182
La polvere si differenzia poi dalla polvere della terra, cioè dal terreno seccato, per il fatto che la prima
è una materia del mondo culturale, la seconda appartiene alla natura – non ha infatti senso parlare di
una polvere lungo il letto di un fiume o su una montagna. Sia chiaro che questa è un’articolazione degli
ultimi due secoli, sia perché prima la polvere per come ne discutiamo qui non esisteva, sia perché la
polvere del terreno può rientrare in un qualsiasi impiego culturale, per esempio in senso bellico quando
segnala l’arrivo di una fila di carrarmati nemici, o in altre epoche di un’armata a cavallo14.
Il che porta presto ai rapporti che rendono la polvere che conosciamo oggi anche una materia inutile e
spontanea, in rapporto con le polveri strumentali e artificiali (powder, poudre, in inglese e in francese,
differenti da dust e poussière). Cioè le polveri della pittura, della chimica e del trucco – phard, ombretti
–, le spezie, i composti farmaceutici e le droghe (Amato, cit., p. 27). Tra queste polveri, al plurale, alcune
evidenziano altri tratti della polvere ordinaria. Rispetto alla polvere da sparo, per esempio, l’essere non
infiammabile e commestibile in senso vago. Rispetto alle micropolveri (o particolato atmosferico) la
minore o totale assenza di nocività, la minor rilevanza rispetto all’elemento di penetrazione nel corpo,
la visibilità, la natura non esclusivamente aerea. Rispetto al polline, una polvere “fecondante” (Grazioli,
cit., p. 233), la sterilità15 e il tratto semantico durativo piuttosto che puntuale (Fig. 2)16.
Fig. 2 – Wolfgang Laib mentre compone Pollen from
Hazelnut, 1992. Installazione al Museum of Contemporary
Art di Los Angeles, 330x370 cm (© Wolfgang Laib).
Amato ricorda che persino gli escrementi, una volta polverizzati, si contrappongono alla polvere
ordinaria per una funzione fertilizzante attiva (Amato, cit., p. 27).
Per parte sua, Grazioli sottolinea l’aspetto veridittivo della polvere ordinaria rispetto all’amido, grande
sovrano del maquillage già cinquecentesco. L’amido in polvere, usato per accordare i capelli al biancore
della carnagione e del volto fa “entrare in gioco la maschera”, un “effetto di finzione, di apparenza, di
luce, o evanescente e fragile al tatto quando depositata, e chi considera che essa finisce pur sempre per cadere e
depositarsi e ricordare allora la pesantezza del tempo e del destino inesorabile” (Grazioli, cit., p. 164). Noi
cercheremo di mantenere aperte tutte e due le valorizzazioni, in una proposta discussa nel § 2.
14
“Se la polvere si solleva alta e definita giungono dei carri; se è bassa e diffusa, giungono soldati a piedi. Fili di
fumo sparsi indicano boscaioli. Relativamente poca polvere che va e viene indica la preparazione di un
accampamento”. Sun Tzu, L’arte della guerra, in esergo in Amato (cit., p. 25).
15
Intendendo una sterilità sessuale transitiva, perché, come accennato poco oltre, la polvere è anche uno spazio
vitale per alcuni organismi che la abitano e si nutrono dei suoi componenti, tanto quanto il polline è nutritivo
per molti insetti.
16 Il riferimento è alle sculture di Wolfgang Laib (Fig. 2) che compone forme con grani di polline da lui raccolti
personalmente in sessioni, come prevedibile, lunghe e ripetute, che sono parte dell’opera. Il polline è qui
concepibile per Grazioli in quanto “polvere che crea vita, che diffonde, sparge, espande, moltiplica, dissemina,
seme, sperma vegetale, custode della forma, polvere che dà forma, in-forma, ri-forma”, ibidem.
183
ornamento”, fino alla “spiritualizzazione” (cit., p. 52). Così il trucco raggiunge la morte per via di purezza,
contrariamente all’impurità della polvere ordinaria: “questo leggero velo di polvere bianca attenua la
nudità, sottraendole i caldi e provocanti colori della vita. La forma si avvicina così alla statuaria, si
spiritualizza e si purifica” (Hennig 2001, p. 51).
Per quanto riguarda il rapporto con le droghe, è stato l’artista Marco Cingolani a mettere in luce un
elemento di non marcatezza della polvere ordinaria, rapportata con il traffico illecito degli stupefacenti.
La sua serie Refurtive (1989) include armi e quadri rubati, accostati a bustine di cocaina, suggerendo
l’idea di un mercato dove queste “polveri” hanno ormai un legame imprescindibile17.
Potremmo poi parlare di tritume nel ruolo di Oggetto o di Destinante. La polvere è infatti un ambiente
vitale per alcuni animali: oltre alle spore dei funghi e a semi minuscoli, ogni grammo di polvere ospita
fino a un migliaio di acari – i più piccoli fra i ragni, che se ne nutrono e le cui deiezioni sono la causa
principale di asma e allergie (Amato, cit., p. 129). Inoltre, è una materia disponibile a essere spostata e
attratta a causa dei fenomeni elettrostatici, in contrapposizione con i caratteri attanziali soggettivi della
polvere biblica, che è un resto identitario – così come lo sono le ceneri delle urne funerarie. Burgio
(2011) ha analizzato un progetto dell’architetto e artista ispano-statunitense Otero-Pailos che fa emergere
per la polvere ordinaria il ruolo attanziale di Destinante. Insieme ad altri artisti come Erwin Wurm18 e
Claudio Parmiggiani (Fig. 3) che lavorano sulla facoltà della polvere di ricalcare i contorni delle cose,
tracciare forme, far vedere, Otero-Pailos ha sfruttato la polvere per ‘generare una copia” di una serie di
palazzi che ha restaurato. Con un metodo sperimentale, un telo di lattice veniva steso e fatto aderire alle
pareti o pavimenti di un edificio; rimuovendolo, vi restava incollata una parte delle sedimentazioni che
la polvere e lo smog avevano prodotto nel tempo sulla superficie. Ricomponendo i teli in strutture
retroilluminate, l’artista ha potuto così esporre dei grandi “delicati, calchi fossili” (Burgio, cit., p. 103) su
cui era impressa la topografia materica dei muri degli edifici. Otero-Pailos ha messo in luce l’aspetto
formante di questo tipo di gesto, dichiarando di voler dare dignità all’azione del tempo e alla polvere
come operatore di un effetto di permanenza19. Ci ritorneremo in § 2.4.
Fig. 3 – (da sinistra) Delocazione, Claudio Parmiggiani, 1970 (© Galleria Civica di Modena); The Ethics of Dust,
Jorg Otero-Pailos, 2008-2016, Old Us Mint, San Francisco 2016, collezione del SFMoMa (© Jorg Otero-Pailos).
17
Cfr. M. Cingolani, “Baby è solo polvere…” (1991).
18
Erwin Wurm, artista svizzero celebre per la sua serie Fat House, è l’autore di una serie di Dust Sculptures, opere
composte da teche e piedistalli su cui è visibile ‘solo’ l’alone di polvere depositata intorno a un oggetto ora assente.
Cfr. www.erwinwurm.at/artworks/dust-sculptures.html. Consultato il 4 giugno 2023.
19
Intervista del 2008 su Radio Papesse, www.radiopapesse.org/it/archivio/interviste/jorge-otero-pailos-the-ethic-of-
dust. Consultato il 6 giugno 2023.
184
2.2. Un residuo
Sotto un altro aspetto la polvere ordinaria è un residuo, un resto che risulta da altre sostanze, e qui
intrattiene due ordini di parentele sintattiche: la prima, più forte, con lo sporco, la seconda con la cenere.
Nella sua storia della polvere Joseph Amato ricorda che la “polvere appartiene alla terra e all’aria
equamente; lo sporco è terreno, è pesante e prende spazio” (cit., p. 13). Rispetto allo sporco, tanto del
corpo quanto dei rifiuti di ogni tipo, la polvere è senza dubbio più neutra, sia perché perlopiù non si
distinguono percettivamente le parti che la compongono, sia perché, più invisibile, effimera e amorfa,
non ha origine e storia, non si conoscono i resti da cui risulta. La polvere è uno sporco che si lega alla
mancanza di tatto, al contrario di quello che si accumula con la manipolazione e l’uso, lo sporco delle
cose vissute, cioè lo strato traslucido che vela il metallo di un mazzo di chiavi, la cover del telefono, le
lenti degli occhiali, lo sporco come grasso cutaneo delle impronte di un polpastrello su un vetro. Tanto
che un artista come Jean Dubuffet (Fig. 4) ha potuto metterne in rilievo il carattere “antiumanistico”
(Grazioli, cit., p. 110): “Mi interessano più degli altri gli elementi che abitualmente si sottraggono ai
nostri sguardi in virtù della loro stessa diffusione. Le voci della polvere, l’anima della polvere, mi
incuriosiscono mille volte più del fiore, dell’albero o del cavallo, giacché li sento più strani. La polvere
è qualcosa di tanto diverso da noi” (Dubuffet 1971, p. 149). Dubuffet usa la polvere come materia
compositiva, in una precisa ricerca sui materiali negletti e di scarto. La serie delle Materiologie
(Texturology) porta a compimento una riflessione che tematizza la polvere come emblema di
un’omogeneità “metafisica”, potremmo dire “antiplatonica”:
Occorre immaginare che agli occhi di esseri diversi da noi l’universo materiale sia continuo e non
presenti punti vuoti; quelli che chiamiamo oggetti rispondono solamente a una condensazione, in
un dato punto, delle vibrazioni che, più o meno dense, brulicano ovunque altrove, solo meno dense
nei luoghi in cui crediamo di vedere dei vuoti. L’universo è continuo e ovunque è fatto della stessa
sostanza (Dubuffet 1971, pp. 37).
Fig. 4 – Texturology LXIII, 1958, Jean Dubuffet (© ADAGP,
Paris and DACS, London 2023).
Per Grazioli, nella poetica di Dubuffet la polvere è l’emblema di un mondo senza l’uomo – titolo peraltro
di una serie di suoi lavori –, liberato della sua “asfissiante cultura”, in cui “l’apparente monotonia,
185
l’apparente mancanza di vita, di figure, di segni, si scoprirà invece altrettanto se non più ricca della
presunta ricchezza del mondo umano” (Grazioli, cit., p. 114)20.
Per quello che riguarda il rapporto con la cenere, altro grande attore di processi e trasformazioni non
direttamente inerenti all’umano, pare di poter dire che la polvere e la cenere si spartiscono i due grandi
ambiti della “morte naturale” e della “morte violenta”. Se è nell’aria la polvere si apparenta al fumo e
ai gas; ma dal fumo e dalla cenere si distingue proprio come resto di operazioni che non coinvolgono il
fuoco. Se la polvere è una materia dinamica, incessantemente disponibile a un flebile movimento, una
volta terminata la combustione la cenere è un resto inerte e più concentrato. La polvere si stacca e si
accumula, si posa e si rialza, arriva su tutto e per tutti, ma con un ritmo flemmatico. La cenere al contrario
è l’esito di un processo intenso e molto più rapido di depurazione brutale, al termine del quale
potremmo dire che “giace”. La polvere è un residuo tanto orizzontale quanto verticale, mentre la cenere
è una conseguenza, un cascame della fiamma, e quindi orientata dall’alto verso il basso. Come residuo,
infine, la polvere è un insieme di frammenti che provengono da qualcos’altro, ormai assente, e così
anche la cenere. Soltanto che se la figura tipica della cenere è un mucchio, un cumulo, una presenza
insomma vivida in termini di quantità e densità, la polvere al contrario è più legata all’assenza, a ciò che
non si vede. Artisti come Urs Fisher (Untitled hole 2007), Eduardo Basualdo (La caída 2021), Lee Bae
(Promenade 2019), il già citato Daniel Arsham (Fictional Archeology 2015), Phoebe Cummings (Flora
2010) hanno lavorato con la cenere – o il carbone, suo parente stretto, sostanza intermedia tra il legno
e la cenere. Sono opere che sottolineano questo aspetto più “violento” e definito della cenere rispetto
alla polvere (ricordando anche la parentela tra carbone e grafite, che riattiva il circuito tra materia e
materiale da disegno)21. Non sorprende, d’altra parte, che l’aspetto di residuo effimero e ‘neutrale” della
polvere ordinaria possa aver avuto ammiratori anche in epoche più lontane. Grazioli vi annovera per
esempio lo scrittore decadente J. K. Huysmans, poeta di un inno alla “buccia dell’abbandono”: “La
polvere è una gran bella cosa. Oltre ad avere un gusto di vecchissimo biscotto e un odore avvizzito di
antichissimo libro, è il velluto fluido delle cose, la pioggia fine e asciutta che rende anemici i colori troppo
forti e i toni violenti. È la buccia dell’abbandono, il velo dell’oblio22. Ma non è meno interessante una
lettura del ruolo della polvere nelle opere di Jean Baptiste-Siméon Chardin, maestro settecentesco della
natura morta, in cui Grazioli (cit., pp. 35-36) intravede una poetica della pace domestica, del piccolo e
dell’inutile. Qui la polvere è una “materia del silenzio”, circonda gli oggetti producendo un’atmosfera
molto particolare, si fa, per Grazioli, addirittura segno di un “rallentamento della pittura”, come se questo
residuo “causasse attrito sulla tela per la stesura del colore, o per lo sguardo che indugia” (ibidem).
20
Sono suggestive e molto chiare le parti in cui Dubuffet si lamenta del ruolo dell’essere nel pensiero occidentale:
tra le nozioni il cui fondamento si trova più gravemente compromesso nel nostro gioco vi è quella di essere […]
cosa distingue un essere da un fatto? Che un uccello, un albero, un ciuffo d’erba, a rigore anche una nuvola – che
pure sono oggetti di breve durata ed aspetto più o meno cangiante – siano degli esseri, nessuno, che io sappia
potrà negarlo. […] Ma che dire dell’essere momentaneo e mobile – l’onda che per un attimo forma il mare al largo:
è un essere? Il vortice che si produce in un punto del torrente, laddove l’acqua è meno profonda, è un essere?
L’ombra del passante è un essere come lo è il passante stesso? (Dubuffet, cit., p. 161).
21
Ringraziamo Gianfranco Marrone per una nota critica, secondo cui la contrapposizione proposta tra polvere e
cenere non funzionerebbe per esempio nel caso di una favola come quella di Cenerentola. Si possono tuttavia
fare due considerazioni. 1) Quella della protagonista della fiaba è una caratterizzazione figurativa che rimanda di
fatto a una vicinanza con il basso e l’insulso – tale per cui per la nostra proposta Cenerentola è un ‘attore della
polvere’ piuttosto che un ‘attore della cenere’, e si potrebbe soprassedere sul nome del personaggio. 2) Ci sono
senza dubbio discorsi – per esempio l’intero lavoro artistico di Anselm Kiefer – dove la contrapposizione tra
polvere e cenere viene meno, perché entrambe le sostanze sono riunite come iponimi della sostanza che compone
il suolo, cioè di una terra come iperonimo.
22
Così recita un passaggio di un romanzo di Huysmans, L’abisso (Là-bas, 1891, pp. 44-45), citato da Grazioli (cit., p. 53).
186
2.3. Un infiltrato
Alle prime due serie classificatorie che abbiamo tentato di costituire, a cui poi dovremo dare un nome,
ne segue una terza di genere ben diverso. Una presa in conto degli aspetti timici, che nel caso della
polvere ordinaria, sono, oggi, in senso comune, nettamente negativi. Il saggio di Amato si occupa del
modo in cui il “nuovo” mondo della microbiologia pasteuriana ha trasformato la polvere, associandola,
molto presto, a qualcosa di contaminante e indesiderato. Agente chiave di questa trasformazione è stata
senza dubbio “una teoria microbica che affermava che tutto, financo la polvere sulla capocchia di uno
spillo, abbondava di microrganismi”, in modo tale da concepire “tutti i tessuti viventi come un
permanente campo di battaglia tra microrganismi, dai parassiti ai batteri ai virus ai fagociti” (Amato, cit.,
p. 95). Lo stesso autore prosegue riflettendo tuttavia su come nuove minacce legate al piccolo e
all’invisibile – la radioattività dopo Chernobyl, le piogge acide, oggi il particolato atmosferico –, la nascita
di svariati fronti ecologisti in Occidente, e il progresso medico e scientifico, abbiano abbassato il livello
di pericolosità della polvere ordinaria. Circa cento anni dopo la scoperta dei germi, la polvere si è
trasformata in un elemento portatore di valori disforici in senso morale, più che medico-igienico. Grazioli
discute il “più che perfetto” della morale borghese23 che si è fatta interprete di queste forme simboliche:
la polvere è ostacolo al perfetto scorrimento delle cose, all’assoluto incastro degli elementi, al perfetto
funzionamento della macchina. Nel frattempo le macchine che eliminano la polvere si sono
moltiplicate e perfezionate, anche perché la polvere stessa si è complicata e modificata diventando
sempre più invisibile e subdola. La storia della pulizia, del sapone, dello shampoo, del lucido da
scarpe, delle macchine per l’igiene, fino al cibo in scatola, è strettamente intrecciata a quella della
polvere (Grazioli, cit., p. 228).
Né, per parte sua, l’arte ha mancato di riflettervi (Fig. 5). In questi due esempi, tra molti altri possibili,
se Bazile lavora ripulendo angoli di percorsi espositivi, fino a farli brillare, Ross gioca a raccogliere in
un cestino sui generis un campione “commovente e patetico” di una polvere legata “all’usura” e
“all’incrostazione”. Una polvere che “ci mette davanti alla materialità in sé stessa in un senso quasi
opposto a ciò che chiamiamo essenza, perché ci rendiamo conto che la pura materia, nelle sue ultime
particelle, ci mostra la sua eterogeneità, la sua pullulazione, le stigmate dei drammi che ha attraversato”24
(Grazioli, cit., p. 246).
Fig. 5 – (da sinistra) Brillance, 1981, Bernard Bazile, Fotografia a colori (© Bernard Bazile); The smallest type
of architechture for the body containing the dust from my bedroom, my studio, my living room, my kitchen,
and my bathroom, 1991, Michael Ross, ditale e polvere (© Musée d’art contemporain, Gand).
23 Ringraziamo Stefano Bartezzaghi per il rilievo sulla “polvere sotto il tappeto”, cioè sulla definizione metaforica
di qualcosa di compromettente che “si insabbia” (cfr. anche Amato, cit., p. 28).
24
Note mutuate da Francois Dagognet, “Pourquoi une art de la poussière?” in Elkar, Latreille (1998, pp. 12-13).
187
In questo suo statuto disforico relativamente nuovo, non potremmo dire che la polvere sia repellente in
senso percettivo. Se si parla di temperatura non è né calda né fredda, è neutra rispetto all’udito e al
gusto, e ha un odore, sì, ma più che una vera identità olfattiva si tratta di un’aria di famiglia, un sentore
vegetale-animale che spesso è già una forma di tatto: infatti la polvere solletica le narici in una
congiunzione vellutata a cui spesso segue uno starnuto. In questa dimensione la polvere è la nemica
dell’aria: contro la permanenza della polvere disforica, sporca, si appronta la circolazione dell’aria pulita.
Rimandiamo per questo agli studi di Alain Corbin sull’aria viziata e sulla fine del XVIII secolo come
momento storico in cui si elaborano norme di aereazione e disinfezione in modo congiunto: “il vascello,
la prigione, la caserma, l’ospedale diventano laboratori di nuove gestualità di “sbattimento, spostamento,
aereazione” che poi diverranno le norme igieniche della società igienista” (Corbin 1982, pp. 241-242).
Come attore che informa, ora, un suo ruolo di Antisoggetto, la polvere è un avversario che si presenta
sotto le vesti di un infiltrato. La polvere appare in silenzio, come ricordano alcuni versi di una poesia di
Lucetta Frisa: “Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/sopra il naso dei mobili su tutta la
pelle della casa/scendere al buio così non si può mandarla indietro./Forse spolverare è un atto duplice
come quando si nasce/e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/secondo i punti di vista” (1999, pp.
24-25). La polvere si avvantaggia della nostra mancanza di attenzione; la sua “sconfitta” corrisponde
spesso al momento stesso in cui la si identifica. La polvere è un attentatore imperituro, come la natura
attenta alle case e alla civiltà nella vita di campagna, a cui non a caso corrisponde spesso un sistema di
valori che considera sporche le piante che lasciano cadere aghi e semi sul patio di casa, e che muove
senza sosta in difesa dello spazio vitale disciplinato dal lavoro degli umani. Ce lo ricorda una celebre
riflessione di George Bataille, che tematizza una vittoria finale a venire, della polvere, su tutte le fatue
contromisure messe in atto.
I novellieri non hanno immaginato che la bella addormentata nel bosco si sarebbe svegliata coperta
da una spessa coltre di polvere; non hanno neanche immaginato le sinistre tele di ragno che al primo
movimento i suoi capelli rossi avrebbero spezzato. Tuttavia tristi strati di polvere invadono senza
fine le abitazioni terrestri e le sporcano uniformemente: come se si trattasse di disporre le soffitte e
le vecchie camere per l’entrata delle ossessioni, dei fantasmi, delle larve che l’odore tarlato della
vecchia polvere sostanzia e inebria. […] Un giorno o l’altro la polvere, che non cede, comincerà
probabilmente ad avere buon gioco sulle serve, invadendo con masse enormi di calcinacci gli edifici
abbandonati, i magazzini deserti: in quella lontana epoca, non ci sarà più niente che salvi dai terrori
notturni, in mancanza dei quali noi siamo diventati dei così perfetti contabili (Bataille 1970, p. 185).
Lavorando sui rifiuti urbani, che sono a loro volta legati a un tratto disforico chiaro e noto a tutti, abbiamo
parlato di valori negativi, di qualcosa con cui ci troviamo congiunti e da cui ci si vuole disgiungere (Bassano
2023, pp. 116-122). Per la polvere vale qualcosa di simile, se non fosse che la polvere non viene
esplicitamente, solo, da noi, e si ingaggia con essa una lotta che in senso retorico è piuttosto quella di
mantenimento dello stato di non-congiunzione. È quindi uno sporco combattibile ed invadente, che si
apparenta, nel sistema dello sporco urbano, con le macchie sui vestiti, i peli dei cani, le briciole degli
alimenti, il fango che si può portare in casa con le scarpe, la forfora sulle giacche – anche per il fatto banale
che di tutti queste cose la polvere è composta – piuttosto che con i rifiuti solidi urbani.
2.4. Una patina, un destino
Una quarta serie di considerazioni, quelle da cui di fatto siamo partiti, riguarda l’aspetto temporale e
le trasformazioni attive e passive iscritte nelle sostanze. Quali sono le trasformazioni della polvere? Se
anziché come punto finale di un processo, un residuo, ne osserviamo le possibilità operative, le azioni
188
che compie e può compiere, ci troviamo allora davanti ad accumuli, inspessimenti, stratificazioni, che
nel tempo trasformano la polvere in sporco. In un senso aspettuale potremmo dire cioè che la polvere
è logicamente una prefigurazione, un’anticipazione lenta e durativa dello sporco. Inoltre la polvere
conosce anche delle trasformazioni interne, morfologiche: può infatti strutturarsi in ammassi
lanuginosi e un po’ più pesanti, quelli che chiamiamo “gatti” di polvere. In senso esterno, e nella
lunga durata, la polvere conferma l’analisi di Jacques Fontanille (2001, 2004) sul rapporto tra superfici
e corpi delle cose: la polvere nasce come patina , cioè si posa e si fa pelle degli oggetti, ma nel tempo
e con l’accumulo si trasforma in corpo essa stessa, si con-fonde, in un altro corpo di qualsiasi tipo, in
una densità compatta e aggregante, disponibile a essere rivestita esteriormente da altre patine.
Attraverso questo passaggio inesorabile è un’istanza che ha a che fare con il destino e parla della
stessa circolarità dei processi di strutturazione e disintegrazione del precetto biblico – polvere eri e
polvere tornerai.
Fig. 6 – Élevage de poussière, Man Ray, 1920 (© Centre
Pompidou, Paris).
La sua particolarità si vede bene se la paragoniamo ad altre patine, la ruggine e tutti i derivati dei
processi di ossidazione, il grasso cutaneo, il cerume, la muffa, il muschio. La ruggine e i processi di
ossidazione sono trasformazioni minerali, mentre le patine della pelle, il muschio e la muffa hanno a
che fare con corpi vegetali e animali, e negli ultimi due casi, muffa e muschio, sono secrezioni vive, che
generano altri esseri viventi. La polvere è curiosamente trasversale ai due casi, perché raccoglie elementi
inerti ma è anche un ambiente vitale, come detto, per una classe di viventi. Mentre per tutte le altre
patine le sostanze in oggetto emergono dall’interno della materia o si stratificano a partire dalla stessa
superficie dove si sono sempre trovate (così le spore della muffa e dei muschi), sono cioè isotrope, la
polvere è allotropa, o meglio allotopica, non appartiene a nessun corpo in particolare, né per contiguità
spaziale né per sviluppo organico. Ma li tocca tutti, nessuno escluso e nessuno più specificamente. La
polvere è una “massa” insieme ubiqua e quasi amorfa, lenta e implacabile.
Tutto il saggio di Grazioli declina, di fatto, questo ultimo aspetto. Un illustre “esponente radicale” di
una lettura filosofica della polvere come destino 25 è Goethe, che nel Faust arriva a descrivere “uno
scrittore fatto di polvere”, condannato, cioè, a un’infelicità data dalla propria natura infima e limitata,
e dall’essere “schiacciato da un accumulo di accumuli”, cioè i libri, l’erudizione, sui quali – mise en
abyme – a sua volta si accumula la polvere. In secondo luogo è messo in gioco un profondo legame
25
Grazioli articola ancora oltre i collegamenti tra polvere e Romanticismo, discutendo separatamente il successo
di un’estetica del pittoresco in cui il decadimento e le cose misere hanno un grande valore (cit., pp. 41-43).
189
tra fotografia e polvere. Come l’attimo, l’istante che la fotografia coglie, passa per sempre e già dopo
la sua fissazione in immagine non esiste più, altrettanto gli oggetti, “i luoghi, le opere della natura e
dell’uomo, che cambiano, si consumano, sono minacciati di sparire per sempre, trovano
nell’immagine fotografica l’ultima risorsa figurativa per essere registrati e tramandati al futuro. Tutto,
si potrebbe in fondo dire, è in questo senso polvere per la fotografia” (Grazioli, cit., p. 44). Ancora, e
più specificamente, nell’esempio clou della Figura 6, nella foto cioè che Man Ray scattò al Grande
vetro di Marcel Duchamp, la polvere è un grande traduttore, simbolo del ready made, in quanto
aperta a tutte le forme , e nello stesso tempo capace di conservare l’impronta di ciò che,
metaforicamente, è stato, senza perdere niente. Come un “immenso deposito o un’immensa matrice
virtuale di ricostruzione” (Barone 1999, p. 296). Tutto, della realtà, anche la polvere, attraverso la
fotografia può diventare ready made (Grazioli, cit., p. 70).
Infine, vale la pena menzionare un ultimo caso, il lavoro di un artista francese, Robert Filliou, che
“chiude” per certi aspetti un cerchio legato al destino. Attraverso il gesto di Robert Filliou, infatti, la
polvere dialoga nel modo forse più didascalico con il senso stesso dell’operazione artistica, con il gesto
dirompente, innovativo, che poi sarà superato, neutralizzato, dimenticato (Fig. 7).
Fig. 7 – Poussière de la poussière, (multiplo di opera in serie),
Robert Filliou, 1977 (© Robert Filliou).
Filliou infatti gioca con il gesto di Duchamp – spolverando lui e molti altri illustri artisti ospitati dalle
collezioni del Louvre e del MOMA – e riponendo poi il panno con la polvere in una scatola di
cartone. La dicitura comune a tutta la serie, oltre a una foto dell’artista nell’atto di pulire la tela, è
questa iscrizione: “The Eternal Network presents: Robert Filliou, Poussière de la poussière, de l’effet”
seguita dal nome dell’autore e dal titolo dell’opera spolverata scritti a mano. In questo gioco, che
Grazioli definisce secondo l’idea dell’“antimuseo”, chiaramente la polvere è simbolo della fine, della
decomposizione e della morte.
La polvere si posa sugli oggetti che non attirano più la curiosità, che restano abbandonati
dall’utilizzo, dal disinteressamento. Di polvere si copre il passato che non stimola più, che è chiuso
in un contenitore, in un archivio, in un’istituzione che lo conserva senza vivificarlo. La polvere
abbonda nelle biblioteche, nelle pinacoteche, nei musei di ogni tipo, sulla cultura pedante, sulla
sterile erudizione, sul capolavoro dimenticato (Grazioli, cit., p. 156).
190
3. Trasformazioni sostanziali e temporalità
Nelle sue specificità – non ne abbiamo menzionate che alcune – la polvere ordinaria è una sostanza
tra altre sostanze. In merito ad esse, in primo luogo, si è tentato di mettere a fuoco il fatto che
assistiamo a trasformazioni e a processi che si svolgono nel tempo, che si tratti di ruggine, sangue,
diossine, ghiaccio, mercurio, o, appunto, polvere. Non soltanto cioè la polvere riguarda il passato e il
futuro, si addensa e stratifica, ma è stato possibile parlare anche di un’“entità” che ci tocca con un suo
modo pruriginoso, che avanza, che appare, che viene rimossa, che si sposta, si alza e si posa, è spostata
e attratta.
Più in generale, è parso plausibile articolare, in senso provvisorio, quattro dimensioni per l’indagine
semiotica del senso delle sostanze. Qui per la polvere:
1. uno statuto differenziale in senso figurativo: la polvere come tritume;
2. uno statuto differenziale in senso figurale: la polvere come residuo;
3. uno statuto timico-passionale: la polvere quale “infiltrato”;
4. uno statuto aspettuale: la polvere come una patina e un destino.
Il che richiede senza dubbio qualche chiarimento. La prima serie di considerazioni sulla polvere come
tritume, che chiamiamo in modo provvisorio “figurativa”, cerca di dialogare con lo schema di Floch
(1995) rispetto alla tassia . Come noto, Floch aveva derivato l’idea di prevedere una categoria analitica
denominata tassica dal “metodo” del Greimas “lessicografo”. Infatti, in Del senso II, Greimas aveva
riflettuto sulla descrizione del termine “automobile” considerando l’oggetto lessema come “insieme
di virtualità” organizzate internamente. Per il semiologo lituano queste virtualità non erano altro che
“valori” a cui l’oggetto offriva uno “spazio in cui fissarsi e riunirsi” (Greimas 1983, pp. 19-20). In
quanto valori, infine, avevano giocoforza uno statuto posizionale e differenziale. In questo senso, la
componente tassica della definizione del termine “automobile” definiva un’assiomatica delle
differenze e delle relazioni, perché permetteva di tracciare catene, o famiglie di oggetti: “una
componente tassica deve rendere conto, attraverso i tratti differenziali, dello statuto di automobile
come oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo” (ibidem ). Lo sviluppo di questa idea da parte di
Floch consiste nel collocare l’Opinel tra gli utensili e le armi a mano, e via via definirne i rapporti con
sciabole e pugnali, con le lame di altri strumenti da taglio, con tipi diversi di gestualità percussive, con
altri coltelli pieghevoli. Floch ha la premura di ammettere che la trattazione non è esaustiva, e che anche
solo limitandosi alla famiglia dei coltellini a molla, l’impresa di ritracciare i loro tratti differenziali in
senso tassico richiederebbe “un’intera opera”. Da un punto di vista filosofico, si tratta con tutta evidenza
di un eufemismo: è la natura categoriale dei concetti stessi, infatti, a prevedere una catena di connessioni
enciclopediche infinitamente percorribile, come Umberto Eco ha saputo insegnare.
Tuttavia, la “messa in moto” delle relazioni tassiche appare un passo imprescindibile anche nel caso
delle sostanze: la serie che abbiamo tratteggiato rispetto al “tritume” si rivolge appunto a percorsi di
flessione enciclopedica di una certa “entità” culturalmente determinata, qui la polvere. Se anziché di
polvere, avessimo cercato di trattare di legno, per esempio, allora si sarebbe trattato di riarticolare le
varianti degli usi della sostanza “legno” attraverso una ricerca su Google, il mercato antiquario, una
visita da Bricoman , le fiabe, la fisica dei materiali etc. Va notato che quest’approccio permetterebbe
di considerare insieme le navi omeriche e Pinocchio, per il legno, o la chirurgia plastica e i polimeri
complessi, se tentassimo, con un altro esempio, la stessa via rispetto alla plastica (cfr. la nota numero
4, supra, p. 1).
Come abbiamo cercato di mostrare, vari tipi di polveri, cioè di tritumi, si legano alla polvere in
un’articolazione di unità sociali apparentate, portatrici di valori strutturanti secondo i tratti semantici
del culturale vs naturale, marcato vs non marcato, omogeneo vs eterogeneo, eccetera.
La seconda dimensione, quella chiamata “figurale” è anche quella su cui persistono più dubbi. Rispetto
al modello di Floch potremmo indicare una corrispondenza in termini di componente funzionale mitica.
191
L’Opinel, concludeva Floch nella sua analisi, è uno strumento identitario, il coltello del bricoleur, nel
senso che il suo proprietario lo usa per “esprimersi e realizzarsi”.
Nel progetto che non realizzerà mai come l’aveva pensato, il suo utilizzatore non può che mettere
qualcosa di sé stesso. In modo parallelo […] questo semplice “coltello pieghevole” di faggio e di
acciaio dimostrerà anche il sapere e la cultura del suo utilizzatore: occorre più savoir fare per
servirsi di un utensile semplice che il contrario, come sottolinea Lévi Strauss (Floch, cit., p. 222).
Sono righe e pagine celebri, che mostrano il modo in cui uno sguardo semiotico può pensare con
grande profondità insieme, in accordo con un’antropologia delle tecniche, innestandovi nel contempo
una riflessione fenomenologica. Tuttavia, quando ci si allontana dal caso di Opinel e si analizzano
oggetti di altro tipo, l’idea di funzione mitica è talvolta problematica.
Da una parte soffre una certa semplicità, che si constata per esempio nel caso di artefatti ipercomplessi.
Quando si è davanti all’automobile da cui partiva Greimas 26, come gerarchizzare la sua importanza
come status symbol, la capacità di un’auto di valere come un luogo che protegge dalle intemperie
negli spostamenti – fino a renderla un quasi-spazio, più che un artefatto – e ancora le “connotazioni
mitiche” legate all’automazione, alla velocità, o al contrario all’abitabilità che suggerisce il sostantivo
abitacolo? Dall’altra parte l’idea di funzione mitica è improduttiva se si giunge alle questioni che
interessano le sostanze, dato che esse, considerate come nodi di relazioni e come insiemi processuali
e temporali, non possono avere alcuna funzione in assoluto, né pratica né mitica.
Per questo motivo, abbiamo preferito, almeno provvisoriamente, il riferimento a una dimensione
“figurale”. L’abbiamo fatto nel solco di alcune considerazioni di Michel Pastoreau sul legno, contenute
in Medioevo simbolico . Qui lo storico ricorda che nell’immaginario europeo tra i secoli XI e XIV il
legno era la “materia prima”, spesso in testa alle enumerazioni dei materiali lavorati dall’uomo. In
latino medievale come nel latino classico il termine materia indicava il legno da costruzione, opposto
a lignum, il legno da riscaldamento. Così, per estensione, “materia” è divenuto in seguito il nome di
qualsiasi materiale, incluso l’iperonimo della “materia in sé”. Da questa linea di discendenza
provengono tanto “materiale” quanto “materialismo”. Ma l’elemento più interessante dello studio di
Pastoreau è la tesi secondo cui l’immaginario del Medioevo avrebbe pensato il legno come “quasi
vivo”, come simile a un animale. Il legno “muore, soffre malattie e difetti, cambia aspetto a seconda
della pezzatura”. Nelle superstizioni medievali che mettevano in scena statue che parlavano, si
spostavano, sanguinavano e versavano lacrime, occorrevano sempre statue in legno, mai in pietra.
Alcuni autori sottolineano il carattere antropomorfo non soltanto dell’albero ma anche del legno,
materiale che come l’uomo possiede vene ed umori, che si anima per l’ascesa della linfa, contiene
una gran quantità d’acqua, vive in stretta relazione con il clima, i luoghi, il ritmo del tempo. Il
legno prevale sulla pietra, anch’essa associata al sacro, ma inerte, rozza, e immutabile.[…]. Poi si
oppone in maniera più violenta al metallo, concepito quest’ultimo sempre con tratti infernali. Il
metallo è strappato alle viscere della terra e poi trattato al fuoco (il grande nemico del legno).
Prodotto dalle tenebre del mondo sotterraneo, il metallo è il risultato di un’operazione di
trasformazione che ha qualcosa a che vedere con la magia (Pastoreau 2004, p. 74, corsivo nostro).
Con una scelta lessicale un po’ azzardata, nella citazione Pastoreau definisce la “vita” del legno come
un suo carattere “antropomorfo”. Non è chiaramente questo l’elemento semiotico in gioco, ma
piuttosto un essere animato del legno, la proprietà di riuscire a esprimere una serie di trasformazioni
interne, timicamente definite. Sembra di poter dire anche che una simile animatezza è ancora oggi un
tratto identitario del legno: si parla del legno di un pavimento a parquet come “materiale caldo”, si
26
Fermo restando il salto “radicale” costituito dall’analisi di Floch, dal momento che Greimas si occupava
dell’automobile lessema, non dell’artefatto veicolo.
192
apprezza il cambiamento nel tempo di un tagliere o di una ciotola in ciliegio, e un armadio di pino
cembro, o cirmolo, può emanare ancora un profumo intenso a trecento anni dalla sua fabbricazione.
Pare abbastanza plausibile, cioè, sostenere che nel legno vi sia una sorta di carattere iperonimo che
lo colloca tra i materiali vivi, e al quale carattere qui ci riferiamo, appunto, con il termine “figurale”.
Questo tipo di determinazione sintetica del “modo di essere” è più astratta di una vera e propria
figura, ma nondimeno generalizzabile al legno come sostanza. In tal senso, se prendessimo per
esempio la plastica analizzata da Barthes e la accostassimo ai modi assai icastici con cui significa nelle
Combustioni di Alberto Burri, potremmo rintracciare questa “sintesi figurale” nel suo essere un
materiale multiforme. Analogamente, potremmo procedere per sostanze come le diossine – a cui è
ascrivibile, crediamo, una generale per quanto astratta velenosità – ed è proprio in questa direzione
che abbiamo provato ad articolare lo statuto “figurale” della polvere ordinaria tra le sostanze residuali.
Sulla terza dimensione, che abbiamo legato a uno statuto “timico-passionale”, l’inquadramento
sembra finalmente meno spinoso. Le sostanze, gli elementi hanno infatti i loro tracciati timici di
significazione, più o meno ampi e variabili, più o meno complessi o semplici. L’idea di poter
ricostruire una serie di valorizzazioni timiche, rispetto alle sostanze, ci ha permesso per esempio in
questa sede di iniziare a esplorare tutto il tema delle valorizzazioni negative, cioè della repulsione
timica che accompagna spesso stati o trasformazioni in cui si realizza una devalorizzazione cognitiva.
La lotta contro la polvere come sottospecie dello sporco è solo un esempio tra molti tipi di “relazioni
disgustose” che intratteniamo quotidianamente e da un punto di vista teoretico avvicinarsi a questi
problemi è forse di particolare urgenza. A nostro parere, infatti, nello sviluppo del metalinguaggio
l’intera sfera della valorizzazione negativa risulta un luogo teorico adombrato, per ragioni ideologiche
e storiche, in favore di una concezione dei valori come positivi.
Permane tuttavia un’incertezza sulla distinzione tra statuto “timico-passionale” e statuto “aspettuale”,
cioè sulla pertinenza di mantenere separate le ultime due dimensioni di cui si è discusso rispetto alla
polvere. Abbiamo trattato in modo autonomo lo statuto di una sostanza che viene percepita come
“infiltrato” – appunto definendola secondo una dimensione timico-passionale, e quello di una sostanza
“patina”, che intrattiene un rapporto cruciale con il passare del tempo e la terminatività.
In effetti, come già detto, siamo partiti proprio dall’ultima dimensione, ovvero dall’urgenza di
collocare la polvere ordinaria rispetto al tempo, e definirla in senso trasformativo e processuale. A
questo scopo, sembra di poter dire che l’idea dell’aspetto come strato della significazione che dipende
da un attante osservatore – nozione ricavata da Greimas dai tempi verbali – resti la più efficace.
Tuttavia, nelle pagine precedenti è emerso in modo chiaro come questo statuto di patina della polvere
ordinaria non sia il solo che coinvolge trasformazioni. Anche descrivendo lo statuto timico-passionale
abbiamo avuto a che fare con trasformazioni narrative a tutti gli effetti: congiunzioni contaminanti,
disgiunzioni purificanti. Tanto che per la polvere si potrebbe parlare di due condizioni incoative e
terminative, cioè del suo “più o meno gradito” e “più o meno concesso” apparire, e del suo destino
inesorabile di progressivo inspessimento e accumulazione. Si potrebbe cioè forse mantenere l’ipotesi
di una dimensione aspettuale da sviluppare meglio in futuro, considerando invece l’aspetto timico
come trasversale a tutti e tre gli altri statuti discussi – secondo l’idea che in senso fenomenologico un
orientamento forico nutra in nuce qualsiasi processo di valorizzazione.
Infine, vorremmo comunque sottolineare la rilevanza di poter pensare, con Semprini, il legame
stringente non solo tra sostanze e tempo, ma anche tra artefatti e tempo, e tra materiali e tempo.
Come visto, in alcuni casi uno “statuto aspettuale” può essere quello deputato a far emergere aspetti
dirimenti della significazione di una sostanza, cosa che avviene se si analizza un esplosivo, la neve, o
appunto la polvere. Ma una volta discusse simili questioni di temporalità in merito alle sostanze –
sostanze “liberate” dalla funzione strumentale – questo approccio analitico può essere esteso a
materiali e artefatti. Si tratta di costituire rispetto ad essi un modello – sicuramente migliorabile, senza
dubbio provvisorio – di possibili “punti di fuga”. Insomma, dire che il senso delle cose è determinato
193
in modo dirimente da una dimensione aspettuale significa tenere insieme problemi di patina, di ciclo
di vita degli artefatti, dinamizzare finalmente una presa analitica che scavalchi l’idea di una “sorta di
istantanea” non solo dello stato di una sostanza ma anche dell’uso di un artefatto, superando nel
contempo l’idea di funzione come descrizione dei qualia in senso aristotelico.
194
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Ramon Rispoli
Abstract. This article delves into the concept of dirt, its management, and its relationship with architectural spaces.
Drawing from anthropologist Mary Douglas’s perspective, dirt is viewed as something inherently “out of place”,
intrinsically connected to the idea of order and its disruption. Accordingly, cleaning is considered a domestic ritual
of purification, serving the purpose of constantly reestablishing an order that remains under threat. The study also
explores how architecture operates as a “technology of partitioning”, delineating the boundaries between what is
visible and invisible, exposed and concealed. It investigates the significance of architectural elements, such as
doors, in shaping the politics of spaces and their organization. Furthermore, the article examines the association
between the notion of dirt and time, shedding light on the role of maintenance practices that often remain
inconspicuous, both within the realm of architecture and art.
“Spazzare via la polvere dal pavimento di una stanza, spargerla in un’altra stanza, così non sarà notata.
Continuare ogni giorno” (Kaprow, cit. in Obrist 1997, p. 87). Queste sono le istruzioni comunicate nel
1995 dal celebre artista nordamericano Allan Kaprow al curatore Hans Ulrich Obrist per mettere in atto
la sua performance, nell’ambito del progetto espositivo itinerante Do it curato proprio da Obrist. Kaprow
sosteneva che in fondo pulire non significa nient’altro che spostare ciò che si considera sporcizia da uno
spazio a un altro, sottraendolo alla vista (Fig. 1); e l’“altra stanza” a cui faceva riferimento è qualsiasi
spazio su cui possa chiudersi una porta: uno sgabuzzino, un ripostiglio, o semplicemente il mobile della
cucina in cui è collocato il contenitore dell’immondizia.
Fig. 1 – Street Cleaner, Banksy.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Come affermava l’antropologa inglese Mary Douglas, infatti, la sporcizia è prima di tutto qualcosa di fuori
posto, il che implica sia l’esistenza di un ordine specifico sia la sua contravvenzione. Quindi, ad esempio,
le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non
è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati
di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie;
mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria
dove normalmente ci sono gli abiti, e così via. In breve, il comportamento che noi seguiamo
riguardo alla contaminazione si fonda su una reazione negativa verso ogni oggetto o idea che può
confondere o contraddire le classificazioni a cui siamo legati (Douglas 1966, pp. 77-78).
Un’idea condivisa anche dall’antropologa italiana Carla Pasquinelli, secondo cui lo spazio domestico è
il “luogo della permanenza e dell’ordine che ci sforziamo di mantenere il più possibile uguale a sé stesso
per proteggerci da un esterno demoniacamente ostile” (Pasquinelli 2004, p. 11). Visto da questa
prospettiva, il pulire è quindi “una sorta di rito domestico di purificazione che riscatta dalla
contaminazione, dovuta a una presenza indesiderata o troppo ravvicinata, comunque sentita come
invasiva” (ivi, p. 47), e che permette la ricostruzione incessante di quell’ordine domestico – una sorta di
kósmos personale – che è oggetto di continue violazioni dall’esterno.
Pulire è quindi un’attività topologica, che riporta fuori ciò che è entrato dentro e non merita di starci:
“l’ordinare e il classificare hanno una dimensione spaziale: questo va qui, quello va lì. Tutto ciò che
non è spazzatura appartiene alla casa; la spazzatura va fuori. Le categorie marginali vengono riposte
in luoghi marginali (soffitte, scantinati, fabbricati annessi) per essere usate, vendute o semplicemente
date via” (Strasser 1999, p. 6).
Lo storico e teorico dei media Bernhard Siegert sottolinea come la distinzione tra dentro e fuori sia
sempre stata “legata a modi di operare la distinzione tra zone sacre e profane, e questa potrebbe forse
essere la prima di tutte le articolazioni culturali dello spazio” (Siegert 2015, p. 195). In tal senso le porte
sono, a suo parere, proprio quegli elementi allo stesso tempo materiali e semiotici capaci di creare un
dentro e un fuori.
Ma più in generale, le porte – così come altri elementi architettonici, tra cui muri e solai – sono dispositivi
capaci di articolare quella che il filosofo Jacques Rancière (2000) ha definito una “partizione del
sensibile”: stabilire, cioè, il posto che le cose possono occupare, e la visibilità che ad esse può essere o
meno accordata. Ciò che sembra essere solo una questione di estetica è quindi, allo stesso tempo, una
questione di politica. Secondo Rancière, infatti, il potere e la politica hanno molto a che vedere con
quest’attività di ripartizione, di “ordinamento” di spazi, tempi e modi di visibilità: tracciare – o viceversa,
mettere in discussione – la linea di separazione tra chi e cosa merita di essere dentro o un certo spazio
e chi e cosa viene lasciato fuori, chi e cosa merita di essere visto e chi e cosa deve invece rimanere
invisibile, chi si può ascoltare e chi non ha voce.
Ed evidentemente, la polvere e ciò che serve per rimuoverla – così come anche chi ha normalmente il
compito di farlo – non occupano certo una posizione di riguardo nelle gerarchie del visibile, per le
connotazioni di cui normalmente si caricano.
In un contributo pubblicato recentemente su e-flux Architecture, il teorico dell’architettura Mark Wigley
(2022) riflette su come un edificio sia metafora del corpo umano, nella misura in cui in entrambi –
edificio e corpo – è costantemente all’opera un tentativo di occultamento dei meccanismi interni: un
tentativo ossessivo ma mai del tutto efficace, per tutte le forze (o per tutti gli anti-programmi, per dirla
con Bruno Latour) che si oppongono ad esso.
Nel corpo ci si riferisce soprattutto all’apparato digerente con i suoi processi metabolici e le sue
escrezioni, e qui il tentativo di occultamento è condotto attraverso un vasto arsenale di strumenti
materiali e/o semiotici: strati di abbigliamento, cosmetici, salviette, assorbenti, lozioni, norme di
198
comportamento sociale. Bisogna nascondere tutto ciò che è in qualche modo connesso alla digestione,
e nello specifico, all’apparato digerente: questo canale di “esterno” che ci attraversa il corpo, e che ci
intreccia simbioticamente con ciò che ci circonda e che rende possibile la vita. E proprio come il corpo
umano, secondo Wigley
l’architettura è un complesso sistema digestivo che produce un senso dell’interno distaccato
dall’esterno dissimulando tutte le pieghe, le liquidità interiori, i suoni, gli odori e i movimenti
anche del più semplice degli edifici. I limiti esterni – apparentemente molto ben definiti – di una
struttura, e tutte le sue divisioni interne tra stanze o piani, sono un effetto dell’occultamento della
permeabilità e della continua trasgressione di quegli stessi limiti, proprio come il corpo umano
culturalmente visibile non è che una maschera delle liquidità che lo rendono possibile. […] gran
parte dell’abilità professionale degli architetti consiste nel reprimere l’universo della digestione
facendo apparire gli edifici più semplici, fermi, solidi, asciutti, silenziosi e impermeabili di quanto
non siano, nascondendo tutte le reti di tubazioni, valvole, sfiati, filtri, serbatoi, pompe e
membrane con i loro continui flussi interni (Wigley 2022, trad. mia).
“Non c’è niente da nascondere, solo tubi”, affermava la collaboratrice domestica Guadalupe Acedo,
parlando di cosa ci fosse al di sotto di una botola del pavimento della “Maison à Bordeaux” di Rem
Koolhaas, nel celebre documentario del 2008 Koolhaas Houselife (Fig. 2). Come se i tubi – le “interiora”
dell’edificio – non fossero proprio ciò che bisognava nascondere.
Fig. 2 – Locandina di Koolhaas Houselife,
di Ila Bêka & Louise Lemoine, Francia 2008.
Ma nelle riflessioni di Wigley c’è spazio anche per la polvere:
Tutti i tessuti e le superfici tra il corpo e l’edificio, e quelli dell’edificio stesso, diventarono nel
tempo minacce escrementizie che dovevano incessantemente essere purificate, sostituite o
rimosse. La polvere, ad esempio, era vista come materia organica che doveva essere
continuamente espulsa, insieme a tutte le modanature, i cornicioni e gli ornamenti che la
attraggono. Qualsiasi complessità ornamentale era una minaccia per la salute, perché tratteneva
le escrezioni umane e rendeva difficile la pulizia. Le superfici semplici e lisce, invece, non offrono
199
una casa agli escrementi; al contrario, rendono possibile la loro espulsione immediata. L’edificio
sano espelle ciò che lo stesso essere umano espelle, come se i limiti del corpo si estendessero
fino a coincidere con quelli della casa. O, per dirla al contrario, l’edificio sano non racchiude il
corpo ma lo ‘restituisce’ all’esterno (Wigley 2022, trad. mia).
Ad avere un ruolo cruciale nella genesi di questa concezione dello spazio interno fu la celebre infermiera
inglese Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna, che nel 1859 dedicò
alcuni passaggi cruciali del suo libro più famoso, Notes on Nursing, alla questione della salubrità delle
case. Salubre per Nightingale era appunto uno spazio fatto di aria pura, drenaggio efficiente, pulizia e
luce – quelli che saranno, qualche decennio più tardi, tra i principi cardine dell’architettura moderna –
ma soprattutto uno spazio scevro di qualunque tipo di porosità, crepa, fessura, complessità e intricatezza:
scevro, cioè, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo e misura trattenere residui prodotti dal corpo
umano (Nightingale 1859). I corpi dovevano essere isolati dalle loro stesse escrezioni. Il paradosso quindi
è che nella visione di Nightingale – e successivamente nella visione igienista moderna – l’interno più
sano per l’essere umano era proprio quello meno influenzato dall’umano stesso.
In ciò Pasquinelli ha visto addirittura una sorta di principio metastorico, valido al di là delle differenze
geografiche e culturali:
al di là dei tanti criteri usati per mettere in ordine la casa […] c’è comunque qualcosa che è comune
a tutti a dispetto delle rispettive e spesso abissali differenze, quasi una regola universale, ed è il
bisogno di cancellare le tracce del corpo. […] Il primo requisito di una casa ordinata è la sistematica
esclusione di tutti quei determinati segnali visivi e olfattivi che costituiscono un ‘indebita estensione
dell’organismo umano. […] il corpo quale soggetto di bisogni è quello che non riusciamo a tollerare,
quel corpo che imbratta e sporca le nostre case, cui l’ordine cerca quotidianamente di porre riparo
cancellandone le tracce (Pasquinelli 2004, pp. 37-38).
Sia quale sia la sua origine, questa “ellissi” del corpo umano si è tradotta spesso, nella cultura
architettonica tradizionale, in una rimozione di tutto ciò che allude all’ordinarietà – o all’infra-ordinarietà,
per dirla con Georges Perec (1989) – del quotidiano. Nelle immagini delle architetture iconiche gli
oggetti ordinari devono apparire il meno possibile: è celebre il caso di Peter Eisenman che chiese ai
coniugi Frank di rimuovere la culla del loro neonato dalla House VI in occasione della visita di Philip
Johnson (Till 2009); analogamente, nella serie televisiva britannica Sign of the Times prodotta nel 1991
dal fotografo Martin Parr un architetto si lamentava dei giocattoli, veri e propri “oggetti vaganti” che i
bambini introducevano nello spazio da lui concepito interno mettendone a repentaglio l’ordine. Il
domestico, come “lo spazio dove si concentrano abitudini, disordine, macchie […] è un affronto alla
normatività degli ordinamenti architettonici. Così, nell’architettura canonica il domestico è deprivato di
ogni vita; è incasellato, ordinato, messo dietro un vetro per essere ispezionato, contorto in giochi formali,
tecnicizzato”; eppure il controllo è solo un’illusione, perché “le forze contingenti della quotidianità
domestica sono troppo potenti per essere soppresse in quel modo” (Wigglesworth e Till 1998a, p. 9,
trad. mia). Questa natura recalcitrante dell’ordinario è uno dei temi preferiti del collettivo di ricerca
siciliano Living Sphere (2020), nei cui brevi divertissements audiovisivi alcune delle case più iconiche
dell’architettura moderna si riempiono di panni stesi, pantofole e tavole imbandite (Fig. 3).
200
Fig. 3 – Fotogramma del video Finally at Home, Living Sphere, 2020 (© Living Sphere)
Ma oltre a rimandare alla “pericolosa” insalubrità dell’organico la polvere è letta normalmente anche, e
forse soprattutto, come segno di tempo: ciò che l’architettura, “arte dello spazio” per eccellenza, cerca
disperatamente di cancellare o di occultare. Si pensi, a tale proposito, a ciò che scriveva nel 1977 il
teorico dell’arte Rudolf Arnheim:
L’architettura […] ha sempre agito come un simbolo tangibile di ciò che è dato, di ciò su cui si può
fare affidamento, ma anche di ciò che deve essere considerato una condizione costante. […] L’edificio
beneficia della dignità delle cose che trascendono il cambiamento”, motivo per cui “le pesanti mura
di pietra dei templi, delle fortezze e dei palazzi sono sempre servite da adatta metafora del potere
temporale e spirituale (Arnheim 1977, p. 166).
Analogamente, Jacques Derrida ha sostenuto che è stata soprattutto la consistenza dell’architettura –
cioè “la sua durata, la sua durezza, la sua sussistenza monumentale” – a fare di essa “l’ultima fortezza
della metafisica” (1986, p. 69). Va da sé che, per essere “fortezze” di questo tipo, le architetture sono
costrette a rimanere il più possibile stabili e immutabili: solo così saranno capaci di rappresentare ciò
che è stabile e immutabile. In questa prospettiva persino la posizione degli oggetti all’interno dello spazio
dovrebbe restare il più possibile fissa: l’antropologo Edward T. Hall (1966) sosteneva che le poltrone
disegnate da Mies van der Rohe per i suoi interni fossero volutamente pesanti in modo da renderle
difficili da spostare.
Eppure, le architetture non sono mai immutabili né perfettamente stabili. Lo stesso maestro
dell’architettura moderna Frank Lloyd Wright scrisse, nel 1931, che se è vero che “ogni casa è una sorta
di imitazione eccessivamente complicata, goffa, pignola e meccanica del corpo umano”, è altrettanto
vero che si tratta sempre di “un corpo in cattive condizioni, che soffre di indisposizione e che ha bisogno
di continui ritocchi e cure mediche per mantenersi in vita” (Wright 1931, p. 65).
Il già citato documentario Koolhaas Houselife è tutto incentrato su queste “cure mediche” che si
dedicano a un edificio, cioè sul modo in cui si gestisce il suo rapporto con il tempo.
Da un lato tutto ciò che è relativo alla manutenzione straordinaria: le vetrate si fessurano o si rompono
con l’usura; l’acqua inizia a infiltrarsi in qualsiasi crepa o giunto indebolito; più in generale, tutti gli
elementi strutturali o di arredo che invecchiano devono essere sostituiti, proprio perché non più
compatibili con le necessità di un edificio che non può e non deve invecchiare.
Oltre alle riparazioni e alle sostituzioni ci sono poi tutte le forme di manutenzione ordinaria, parimenti
necessarie per l’esistenza di un edificio: attività di pulizia di routine come quelle svolte nel documentario
201
dalla collaboratrice domestica, o come quelle su cui si è concentrato l’artista canadese Jeff Wall nella
sua fotografia Morning Cleaning del 1999, con un inserviente che pulisce con una spatola la parete
vetrata all’interno del celeberrimo Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe.
Sempre nel Padiglione di Barcellona, nel 2012, l’architetto-artista madrileno Andrés Jaque e il suo Office
for Political Innovation hanno realizzato un’installazione – dal titolo Phantom. Mies as Rendered Society
– che risulta interessantissima nell’economia di questa riflessione. L’obiettivo dichiarato di Jaque era
infatti quello di rendere visibili oggetti e strumenti necessari all’esistenza del Padiglione, e che avevano
proprio a che vedere con queste due dimensioni, ordinaria e straordinaria, della manutenzione: pezzi
di ricambio come lastre di travertino e tende di velluto, ma anche spatole, aspirapolveri, detersivi,
confezioni di sale per l’elettrolisi delle due vasche d’acqua.
Un’operazione di “visibilizzazione” – di unblackboxing, avrebbe detto Latour (1999, p. 304) – che svela
ciò che normalmente si fa di tutto per celare, relegandolo dietro la porta di uno sgabuzzino o nel
sotterraneo del Padiglione, che non è caso è stato progettato e realizzato, nella ricostruzione dell’edificio
del 1986, in modo tale da essere inaccessibile ai visitatori (Jaque 2019).
Le pratiche di cura e manutenzione legate a questi strumenti sono indispensabili all’esistenza del
Padiglione, come di qualsiasi altro edificio, al punto tale da poter essere considerate tra le sue condizioni
materiali di possibilità1. Esattamente come succede alle grandi opere d’arte della tradizione occidentale
come la Monna Lisa, la cui apparente atemporalità, come ha dimostrato in maniera molto efficace
Fernando Domínguez Rubio (2016), è in realtà l’esito performativo di delicate operazioni di
manutenzione che hanno luogo con una determinata frequenza. Eppure si tratta di operazioni e pratiche
a cui molto raramente viene riconosciuta una visibilità, seppur minima, nell’ambito della storia, della
teoria e della critica dell’arte, così come in quelle dell’architettura. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che
più un’opera – un quadro o una scultura, come un edificio – è considerata un monumento, e più devono
rimanere invisibili.
C’è di più. Pratiche del genere vengono a malapena riconosciute come lavoro nel vero senso della
parola, come sostengono sin dagli anni Settanta pensatrici femministe come Silvia Federici, la cui
riflessione si è incentrata a lungo sul ruolo essenziale, ma quasi del tutto trascurato, del cosiddetto lavoro
riproduttivo e di cura nel ciclo produttivo capitalista (Federici 2014; Duffy 2007).
Torniamo alla performance di Allan Kaprow di cui si è detto inizialmente. Nel 2013 un’altra artista
nordamericana, Suzanne Lacy, in collaborazione con Meg Parnell, ha offerto un’ironica reinvenzione
delle istruzioni di Kaprow attraverso le lenti dell’attivismo artistico.
La performance, intitolata Cleaning Conditions (An Homage to Allan Kaprow), ha avuto luogo negli spazi
dell’Art Gallery di Manchester, a partire dalla sala dei pittori Preraffaelliti. Lacy e Parnell hanno coinvolto
squadre di addette e addetti alla pulizia – costituite da immigrate e rappresentanti di organizzazioni
sindacali – che durante l’orario di apertura2 pulivano i pavimenti del museo, ma contemporaneamente vi
spargevano un’altra tipologia di “spazzatura”: volantini e stampe delle loro organizzazioni attiviste e di
rivendicazione politica. Dopo la performance aveva luogo un dibattito aperto tra attivisti, amministratori
locali, studenti e pubblico incentrato proprio sulle “politiche della pulizia” e di chi se ne occupa,
considerando che il lavoro nell’ambito dei servizi, così come in quello dell’assistenza e della cura, è ancora
oggi affidato soprattutto a soggetti marginalizzati. Una marginalizzazione che va peraltro intesa in maniera
1 L’edificio è dotato di un piano di manutenzione che funge da vero e proprio ‘copione’ per tali attività, fornendo
un ampio numero di indicazioni che vanno dalla periodicità della pulizia delle vetrate alla pressione dell’acqua
indicata per lavare le lastre di travertino. Anche le fodere in pelle delle poltrone “Barcelona” vengono sostituite
con una periodicità predefinita, che può anche essere più corta in corrispondenza dei periodi di maggiore affluenza
di visitatori (che sono soliti sedersi su di esse per qualche minuto). Queste informazioni sono state fornite da Victor
Sánchez, coordinatore del team di gestione e manutenzione del Padiglione, nel corso di un’intervista condotta
dall’autore nel marzo 2023.
2
Nei tempi, quindi, in cui la loro presenza era normalmente considerata “fuori posto”, per dirla nuovamente con Rancière.
202
“intersezionale”, per dirla con il termine di Kimberle Crenshaw (1989, 1991): come il risultato, cioè,
dell’incrociarsi di asimmetrie di classe, etnia e genere.
Ma per finire, torniamo all’architettura e alla questione centrale della visibilità. In uno dei suoi scritti
che hanno come oggetto il Padiglione di Barcellona, Andrés Jaque scrive:
Amministrare la percezione collettiva, fare in modo che le cose siano invisibili, o renderle visibili,
creare gerarchie o metterle in discussione […]: tutte queste attività appartengono all’ambito della
politica. Queste pratiche si producono attraverso l’impiego di artefatti, sistemi tecnici e dispositivi
che fanno parte, a loro volta, dell’ambito dell’architettura (Jaque 2019, p. 85).
Le cose occupano sempre un qualche spazio. Timothy Morton (2017), filosofo del pensiero ecologico
contemporaneo, dice che le cose non si buttano mai via: si buttano al massimo sul fondo dell’oceano
Pacifico, o sulla cima dell’Everest. Il che, in fin dei conti, un po’ equivale a ciò che diceva Kaprow:
pulire non è nient’altro che cambiare posto a ciò che si considera sporco, magari chiudergli una porta
davanti per renderlo invisibile.
Sempre Jaque, alludendo a una celebre espressione di Latour, afferma “l’architettura è società
tecnologicamente rappresentata” (2019, p. 26). E se è vero che oggi si stanno affermando approcci
ecologici nel senso più ampio del termine, che riconoscono il ruolo giocato nello spazio architettonico da
una molteplicità di “attanti” non solo umani – si pensi all’architettura cosmopolitica (Yaneva e Zaera-Polo
2017) o multispecie (Sommariva 2021) – è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi l’architettura
stessa continua a essere concepita e praticata come tecnologia di partizione e ri-partizione di tempi e spazi3.
È fondamentale, in tal senso, riconoscere le gerarchie di valore su cui si fondano queste topologie del
dentro e del fuori, del visibile e dell’invisibile, dell’esposto e del celato. Topologie che – come si è cercato
di mettere in luce – raccontano di questioni che vanno ben al di là della sola architettura.
3
Scrivono Sarah Wigglesworth e Jeremy Till, coppia di architetti britannici il cui studio coincide con la propria
casa: “Ciò che sappiamo è che lavorare e vivere nello stesso edificio significa che le nostre due vite (lavoro e casa)
non possono distinguersi chiaramente, ma sono inevitabilmente intrecciate”, eppure “la risposta comune di un
architetto a ciò potrebbe essere: separare le due cose fisicamente; chiarire le zone; mantenere le due attività distinte;
applicare ordine” (1998b, p. 31, trad. mia). Un ordine negato dal loro tavolo che allo stesso tempo è da lavoro,
da pranzo, e da qualsiasi altra funzione, su cui si accumulano alternativamente piatti, planimetrie, chiavi di casa,
bicchieri e posate, lettere e documenti.
203
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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204
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Giorgia Costanzo
Abstract. Through the observation of a corpus of cleaning products’ commercials – especially detergents –, the
aim of the following paper is to examine if and how the material transformations inscribed in the removal of dirt
contribute to the shaping of values such as purity and contamination.
This work starts from the point of view of the anthropologist Mary Douglas’s idea of dirt as disorder but also from
the assumption that common sense and every day practises allow Semiotics to explicit proliferations of meaning
that circulate in our culture.
In this sense, the research hypothesises that there are logics of cleanliness in the struggle against dirt staged by
advertising, that are linked both to the materiality and consistency of dirt and to the forms of removal of impurities.
La schiuma è una cosa pura come il latte
purifica di dentro.
La schiuma è una cosa sacra
che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa
una cosa sacra come la santa messa.
Giorgio Gaber, Shampoo
Il lavoro che segue si inserisce all’interno di un più ampio percorso di ricerca sui valori della purezza e
della contaminazione. Dal momento che, come vedremo, il pulito e lo sporco sono una delle possibili
manifestazioni di tale categoria, in questa sede si analizzerà con metodologia sociosemiotica un corpus
di spot pubblicitari1 di prodotti per il pulito – in particolar modo detersivi –, con l’obiettivo di vedere
se e come le trasformazioni materiche inscritte nella rimozione dello sporco contribuiscano alla
costruzione di diverse “idee” di pulizia e di sporcizia, intese come sostanze del contenuto messe in forma
dai discorsi sociali che le convocano.
In tal modo, ragionando sull’apparente banalità del vivere comune, irriflesso e impensato, per far
emergere proliferazioni di senso tutt’altro che scontate ed evidenti (come le mitologie del quotidiano di
Barthes 1957), la ricerca ipotizza che esistano, nella lotta allo sporco, forme di eliminazione delle impurità
1 Il corpus è stato costruito alla maniera semiotica: la sua definizione non è stata guidata da un criterio di esaustività
né di rappresentatività statistica quanto dall’intenzione di ricostruire sistemi di senso, forme, logiche del pulito,
maniere di costruzione dell’oggetto di valore, procedure narrative legate alle trasformazioni materiche etc. È per
questa ragione che i casi in analisi sono talvolta trasversali alle varie categorie merceologiche dell’igiene. In tal
senso, e trattandosi di un inizio di ricerca, il corpus non è stato definito a priori, ma la sua raccolta ha preso forma
a mano a mano che l’analisi andava avanti, inglobando testi a partire dal cui confronto potessero emergere le
dimensioni figurative di cui si parlerà in § 2 e nei quali, in particolare, la dimensione materica della visualizzazione
e della trasformazione dello sporco risulta particolarmente pertinente.
Accanto ai frammenti di clip riportati nel corso dell’analisi il lettore troverà i QR code che rimandano agli spot integrali.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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e logiche del pulito legate a specifiche forme di trasformazione della materia (Bastide 1987). È per questa
ragione, per il carattere dinamico e culturale delle trasformazioni che tali logiche subiscono nel tempo,
che l’analisi prenderà in considerazione un certo numero di testi pubblicitari in un’ottica sia sincronica
(spot 2018-2022) che diacronica (spot 1950-90).
1. Sensi del pulito
Cosa vuol dire esattamente “pulire”? A consultare il dizionario (Devoto-Oli 2023), pulire è un iperonimo
che include tutta una serie di azioni volte alla rimozione dello sporco e, più in generale, di tutto ciò che
è “inutile, ingombrante, fastidioso”. Da un lato, pulire ha dunque a che fare con la rimozione della
sporcizia in cui emerge principalmente l’idea di un’azione operata sulla superficie di qualcosa (strofinare,
lucidare etc.). Dall’altro, però, l’idea dello sporco da pulire è intesa estensivamente in riferimento a tutto
ciò che sta fuori posto, è un non-dover-essere lì che in qualche modo può essere perfezionato (tra i
significati di “pulire” infatti troviamo anche “perfezionare, limare, rifinire”).
La definizione presuppone cioè l’esistenza di un modello, un ordine delle cose che, una volta infranto,
vada in qualche modo ricomposto, ed è in quella anomalia intesa come rottura di uno schema che si
dà la contaminazione: “dove c’è lo sporco c’è il sistema” (Douglas 1966, p. 77), è la presenza della
macchia che interrompe la continuità del tessuto pulito, è la polvere del caffè sparsa per errore sul
pavimento. È l’idea dello sporco come fuori posto di Mary Douglas e il suo fondamentale Purezza e
pericolo (1966), in cui l’impurità è da ricercarsi non tanto nelle cose ma nelle relazioni fra le cose che
per presupposizione costruiscono certe idee di mondo, con i propri confini e un proprio ordine che
viene contaminato non appena questi confini vengono oltrepassati. Per Douglas, infatti, la sporcizia
comprende al suo interno ogni elemento che un dato sistema di cose del mondo rifiuta di classificare al
proprio interno, ossia una relazione anomala fra cose. In questo modo:
Le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non
è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati
di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere
in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove
normalmente ci sono gli abiti, e così via (1966, p. 77).
È evidente: il pulito, come lo sporco, posto in questi termini, ha a che fare con la posizione che diamo
alle cose nel mondo, è una questione di ordine, di confini, e dunque di spazio. Non è solo un problema
di relazioni fra cose, quanto di spazializzazione, di territorializzazione: lo sporco è il fuori posto, pulire è
rimuovere lo sporco per rimettere le cose al loro posto. Questo emerge chiaramente dalla famosa
citazione di Douglas, nella quale si parla di bagni, salotti, stanze da letto, tavole… lo sporco si definisce
a partire da relazioni spaziali sopra/sotto, dentro/fuori; per cui la sporcizia manifesta di certo il sistema,
ma occorre tuttavia precisare che si tratta di un sistema topologico.
Non è un caso, infatti, che la pulizia sia innanzitutto un programma di rimozione dell’impurità, che
presuppone il ritorno a un qualche stato di originaria purezza iniziale delle cose: d’altronde, il “pulito”
è sempre privo di qualcosa, così come il “puro” si definisce sempre in termini privativi a partire da
quello che non è o che non ha. La purezza, in questo senso, sembra doversi intendere come ciò che
non si mischia a nient’altro, ma anche come ciò che non ha segno. Ma come si dà, allora, qualcosa
come puro e qualcosa come impuro?
Consumi e pratiche quotidiane articolano differentemente questi valori rendendoli concreti. Infatti, se
da un lato le idee di purezza e contaminazione sono costitutivi di discorsi come quello religioso o
medico-scientifico – nel quale i batteri, i microbi, i virus e in generale le regole che stanno alla base di
ciò che è asettico o, al contrario, di ciò che è contaminato sono centrali nel funzionamento stesso di tale
206
discorso2–, dall’altro, tali valori si dispiegano anche nell’universo commerciale, in maniera certamente
meno esplicita e dunque in qualche modo ancora più interessante.
Parlare di igiene e di pulito fa venire in mente tutta una serie di pratiche della quotidianità – fare la
lavatrice, lavare i piatti, spolverare, lucidare i vetri, pulire i pavimenti, ma anche farsi la doccia, lavarsi le
mani, e via dicendo – e convoca anche numerosi ed eterogenei oggetti di consumo – detersivi, spugnette,
saponi, igienizzanti, scope etc. – che non sembrano dirci molto più della loro stessa prosaicità. Eppure, le
pratiche del pulito sono apparse oggi anche sul web e sui social network, dove numerosi utenti rendono
il mondo delle pulizie una vera e propria forma di intrattenimento (video tutorial, makeover di case
sepolte dalla sporcizia etc.). Pulire è oggi, più ancora che un basilare bisogno di igiene, un vero e proprio
dovere sociale che ci parla del modo in cui, nella nostra cultura, vengono messi in forma valori più
ampi e socialmente rilevanti come rischio/sicurezza, salute/malattia, natura/cultura e, di specifico
interesse in questo lavoro, puro/impuro.
Dal momento che queste idee, come abbiamo visto, non sono ontologiche ma sempre storicamente e
culturalmente situate, da una prospettiva semiotica ciò significa che la purezza e l’impurità non sono tratti
intriseci delle cose, né esistono come puri concetti, non essendo propri di per sé né del piano
dell’espressione (E), né del piano del contenuto (C). Il senso del puro e dell’impuro si danno piuttosto a
partire dalla relazione fra questi due piani e sono dunque da intendersi come effetti di senso (C) che si
concretizzano a partire da una serie di tracce espressive differenziate (E) che, chiamando in gioco specifiche
pertinenze, contribuiscono alla formazione di idee di volta in volta diverse di contaminazione a seconda
dei tratti che le manifestano e della semiosfera all’interno della quale funzionano.
Il pulito e lo sporco, da questo punto di vista, possono essere visti come elementi espressivi che
articolano sul piano del contenuto certi significati di puro e impuro e tuttavia, possono essere intesi a
loro volta come effetti di senso che si definiscono in maniera diversa a partire dalle specifiche categorie
del piano dell’espressione che li producono: biancore/grigiore, lucentezza/opacità, macchia/non
macchia etc. e in cui la dimensione materica diventa evidentemente pertinente per ragionare su questi
temi. Ecco che, al contrario di ciò che si legge sul dizionario, per potersi manifestare, la purezza si
lega necessariamente a tutta una serie di figure che le danno concretezza e in cui testure, consistenze,
sostanze di vario genere e la loro reciproca interazione, da una prospettiva semiotica, sono da
intendersi perciò come alcune delle possibili forme di figurativizzazione di quei valori. Vediamo come
vengono messi in discorso dalla pubblicità 3.
2. Tre dimensioni figurative
Anche dagli spot pubblicitari, in effetti, sembra emergere quella regola di classificazione di tipo
posizionale di Douglas che costruisce la sporcizia come il grande contenitore di ciò che non sta al suo
posto. Nella campagna pubblicitaria del 2018-19 di Ace, lo storico brand di prodotti per l’igiene dà
forma e specifiche identità allo sporco in generale (Fig. 1): sono il vino, il cioccolato, le pappe, il trucco,
i cani e il ragù della domenica. A ben vedere però non sono mai queste singole cose in sé a fare lo
sporco. Per dirla con Douglas, “non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso prende vita
nell’ottica dell’osservatore” (p. 32). Ecco che, fino a quando la pasta resta fumante dentro al piatto, ossia
dove dovrebbe stare, va tutto bene; ma se il sugo viene rovesciato sulla tavola, il dolce animale
2
Un riferimento importante in tal senso è I microbi (1984), il lavoro attraverso cui Bruno Latour riflette sulla
costruzione del discorso scientifico moderno a partire dall’analisi della letteratura prodotta intorno alle opere di
Louis Pasteur nella Francia di fine Ottocento.
3
L’analisi che segue fa riferimento agli studi semiotici sul discorso di marca, tra gli altri cfr. Floch (1990, 1995);
Marrone (2007); Traini (2008); Boero (2018); Mangano (2019).
207
domestico sale sul letto e la pappa del bimbo sparsa ovunque il sistema entra in crisi, l’equilibrio si
rompe e nasce un problema da risolvere.
Una situazione simile si può trovare nel recente spot di Dixan che mostra una scena di vita familiare in
cui una mamma e i due figli si divertono a cucinare senza curarsi del disordine (Fig. 2). Dunque, tra
impasti che schizzano sui vestiti lindi e chiazze di sudore post allenamento, compare il nemico numero
uno del pulito, la figura che per eccellenza concretizza il tema dello sporco: la macchia, segno visivo di
qualcosa che è andato fuori posto la cui presenza trasforma ciò su cui si è andata a posare. Così, il sugo
non è più sugo, ma una macchia, e la maglia sporcata non è più un abito convenientemente opportuno.
C’è una storia di regole infrante.
Fig. 1 – Ace gentile, 2018.
Fig. 2 – Dixan discs, 2022.
Tuttavia, la macchia è solo una delle possibili figure dello sporco. Da un lato, il profumo, il biancore, la
luminosità, la morbidezza, la freschezza, la materialità del detersivo – polvere, liquido, gel etc. – e
dall’altro, il cattivo odore, la consistenza dello sporco – unto, incrostato etc. –, vengono a formare una
grande varietà di figure che concretizzano il tema del pulito e dello sporco, articolando in maniera
sempre diversa gli attanti delle storie: Oggetti di valore (il bianco più bianco), Soggetti (il detersivo),
Anti-soggetti (la macchia, l’unto etc.). Partendo da un livello tematico e figurativo (Greimas 1984), punto
di partenza dell’analisi, entrambi gli spot (Ace e Dixan) sembrano avere una struttura comune che
costruisce il processo di pulitura proprio sulla base di precise dimensioni figurative che entrano in sintassi
fra loro: una dimensione visiva, una dimensione materica e una dimensione olfattiva (Fig. 3).
Dimensione visiva Dimensione materica Dimensione olfattiva
Ace gentile, 2018.
Fig. 3 – Dixan discs, 2022.
208
Ora, nel caso specifico degli spot osservati la compresenza delle tre dimensioni contribuisce a costruire
un prodotto per l’igiene “completo” perché fa tutto: smacchia, igienizza e profuma. Tuttavia, non è
sempre così e l’emergenza di tali dimensioni o la narcotizzazione di alcune di esse in favore di altre
sono legate anche alle strategie di differenziazione che ciascun brand mette in atto per posizionarsi
all’interno dell’arena concorrenziale4. Questo vale, ad esempio, quando si passa da una categoria
merceologica a un’altra, poniamo da un ammorbidente a uno sgrassatore: alcuni tratti diventeranno
più pertinenti di altri (la morbidezza e il profumo per uno, il potere sgrassante e smacchiante per
l’altro). Ma vale talvolta anche per lo stesso tipo di detersivo, il cui racconto e valorizzazione può
cambiare proprio in relazione al modo in cui la sua azione viene figurativizzata. Da un punto di vista
semiotico, la conseguenza è quella di produrre diverse idee di sporco e pulito che si presuppongono
a vicenda e che sono legate di volta in volta ai diversi tratti espressivi a cui vengono associate.
Guardiamo nello specifico le tre dimensioni:
1. Nella dimensione visiva rientrano tutti i prodotti che, ad esempio, parlano del bianco. Tutt’altro che
grado zero del colore, nel tempo il bianco si è fatto portatore di significati differenti. Nella nostra cultura,
la relazione tra il bianco e la purezza ha una lunga storia (Pastoureau 2022): dalle vesti religiose di greci
e romani, passando per il Medioevo fino al diciottesimo secolo quando è finito per significare l’universo
dell’igiene, con la scoperta della candeggina che permise candidi corredi e la porcellana bianca per i
sanitari delle toilette. In tal senso, come nota Agnello nella sua disamina semiotica dei colori, “la purezza
viene dalla presenza di una sola tinta nelle cose e il bianco serve a unificare, a creare continuità visiva”
(2013, p. 32), quella continuità interrotta dallo sporco. Il biancore di camicie e lenzuola ottenuto grazie
alle proprietà sbiancanti del detersivo diventa così il segno del pulito, la figura attraverso la quale esso
si manifesta. Ogni tempo, tuttavia, dà vita alle proprie pertinenze e in tal modo se negli anni 80 la
preoccupazione principale era quella di garantire un bianco senza danno, in cui emerge anche un
problema di consistenza, di tatto e di resistenza dei tessuti (Fig. 4), successivamente gli spot mettono in
atto una retorica del confronto che basa l’efficacia del prodotto sulla riuscita del bianco più bianco,
garanzia di massima pulizia (Figg. 5-6). Il bianco viene così legato a un’altra figura, la luce, o meglio al
suo contraltare plastico: la luminosità. Il pulito di Ace, infatti, è “senza ombra di macchia” (Fig. 5) e il
suo obiettivo è quello di “riaccendere” il bianco dei nostri capi (Fig. 6).
Fig. 4 –Ace candeggina, 1983. Fig. 5 –Ace detersivo, 1992. Fig. 6 –Ace denso più, 2018.
Questo ragionamento, oltre a essere valido anche nella comunicazione della pulizia dei capi colorati di
cui risvegliare la luminosità, è valido anche per altri tratti, per certi versi sovrapponibili al bianco, come
la lucentezza. Questa sovrapposizione non deve stranire: se i latini discriminavano i tipi di bianco a
seconda della sua luminosità (distinguendo tra albus – il bianco opaco – e candidus – il bianco brillante)
è proprio perché, come tutti i colori, il bianco è una figura dal carattere composto e il suo significato,
nel tempo e nello spazio, cambia al variare delle sue componenti interne, intese come categorie
cromatiche – tono, saturazione, luminosità etc. (Agnello 2013). Ovviamente, individuare il pulito nel
bianco o nella luminosità dei colori definisce, per presupposizione, lo sporco come tutto ciò che non ha
4
L’individuazione di tali strategie di posizionamento non è tuttavia pertinente rispetto a questo lavoro che intende
ragionare principalmente sulla ricostruzione della figurativizzazione dello sporco.
209
queste caratteristiche: è sporco ciò che opacizza i colori, ingrigisce la biancheria e macchia le superfici.
In questo caso il senso del pulito è dato dunque dalle categorie cromatiche lucentezza/opacità,
luminosità/oscurità, e la macchia, intesa come elemento visibile che marca una discontinuità nella
continuità di capi e superfici puliti, è la figura dello sporco per eccellenza.
Bianco Macchia
Luminosità Oscurità
E Lucentezza Opacità
Continuità Discontinuità
C Pulito (Ov) Sporco (Anti-S)
2. La dimensione olfattiva, invece, è dominante in tutti quegli spot che tematizzano la questione dello
sporco e del pulito legandola a precise figure come quella dell’odore. “La peggiore macchia del pulito
è l’odore di sudore”, recita uno spot Deox, brand di detersivi famoso per la formula brevettata anti-
odore. Ma come tradurre i buoni e i cattivi odori attraverso un audiovisivo? E di cosa sa il famoso
“profumo di pulito”? La dimensione olfattiva è la più difficile da restituire in uno spot, ma come
sappiamo, la pubblicità ridice e traduce l’odore producendo effetti sinestetici che investono la sintassi
figurativa dell’olfatto (Fontanille 2004; Marrone 2007) per poterla comunicare attraverso sostanze
sensoriali diverse, come quella visiva tipica del prodotto pubblicitario. L’articolazione formale
dell’olfatto, secondo Fontanille, rende conto infatti della relazione che si instaura fra il corpo investito
dall’odore (corpo-bersaglio) e quello che lo produce (corpo-sorgente), ciascuno dei quali è caratterizzato
da una propria sintassi e dal cui intreccio prende vita l’esperienza olfattiva. La vita di un odore, in questo
senso, attraversa, dal punto di vista del corpo-bersaglio, tre fasi (emanazione, diffusione, penetrazione)
che fanno da contraltare alla sintassi del corpo-sorgente (nascita, degradazione, decomposizione). Questi
momenti, nel racconto pubblicitario, possono non essere sempre tutti presenti e, a seconda degli obiettivi
strategici, il brand può decidere di privilegiare alcune fasi sulle altre. Nel nostro caso, se profumo e
cattivi odori concretizzano il pulito e lo sporco rendendoli percepibili, la pubblicità fa lo stesso con
questi elementi, generalmente immateriali, concretizzandoli attraverso specifiche figure. Infatti, la messa
in scena dell’emanazione o della penetrazione è data attraverso l’utilizzo di tutta una serie di figure come
fiorellini, scie visive, esalazioni verdognole (Fig. 7 – Napisan). Ma a significare gli odori sono anche gli
effetti di materia prodotti dalla consistenza del detersivo: Nelsen associa in questo senso la materialità
metallica all’igiene legando metallo e assenza di odore (Fig. 7).
Napisan additivo igienizzante, 2021. Nelsen, 2012.
Fig. 7
3. Infine, vi è una dimensione specificamente materica, spesso risultato di strategie sostanziali nel senso
che dà Floch (1990) a questo termine come stile pubblicitario. È a tale dimensione che s’intende dedicare
particolare attenzione in questa sede, dal momento che è qui che avviene la messa in forma, attraverso
precise modalità, della visualizzazione della profondità del tessuto e della trasformazione materica dello
sporco, da un lato, e dell’agente pulente, dall’altro. La dimensione materica emerge ogni volta che, con
210
un débrayage spaziale, gli spot ci portano all’interno dei tessuti. Può infatti cambiare la logica di igiene
legata ora a una dimensione più visiva, la macchia, ora a una dimensione più olfattiva, il cattivo odore,
e tuttavia ciò che non sembra cambiare è proprio la dimensione materica che si costituisce come
invariante della comunicazione pubblicitaria dei prodotti per l’igiene e nella quale, a prescindere dal
tipo di sporco a cui si dà la caccia, a essere messo in scena è sempre il passaggio dallo sporco al pulito
nei termini della trasformazione materica dell’uno nell’altro. Lenzuola e camicie lasciano allora spazio
alle trame dei tessuti tra le quali, incastrato, troviamo lo sporco. Ma cosa avviene una volta entrati
all’interno del tessuto?
3. Sporco, unto e bisunto
Vediamo lo sporco, le macchie, ma vediamo anche ciò che dall’esterno non era visibile. Nel passaggio
dalla superficie alla profondità del tessuto, il cambio di scala rende il punto di vista dell’osservatore
fortemente inscritto, attivando uno sguardo aptico attraverso il quale l’ingrandimento del tessuto non
solo fa leva sulle caratteristiche sensibili dello sporco ma rende possibile un poter-vedere, ossia una
nuova conoscenza. La pubblicità traduce, facendole proprie, le specificità dell’informazione tattile che
“segue un processo di somma analitica che cumula singole e deformate percezioni fino ad ottenere
l’identificazione, ‘invisibile’, di oggetti-figure che acquistano solo in questo modo esistenza e capacità
discorsiva, racconto e investimento di valore” (Ceriani 1995, p. 197). I cambiamenti dal macro al micro,
come spiegano Migliore e Colas-Blaise (2022), rappresentano in questo senso “movimenti di
approssimazione o di totalizzazione, di analisi e sintesi nella percezione e nella conoscenza” (pp. 46-7).
Se la macchia, infatti, svolge il ruolo di informatore, ossia di un attante che fa sapere della presenza
dello sporco, alcuni prodotti pulenti, in particolare i prodotti igienizzanti, ci dicono che lo sporco può
essere presente anche in assenza di tale informatore. Il débrayage spaziale dall’esterno all’interno del
tessuto, dunque, rende possibile una vera e propria visualizzazione dell’invisibile che costruisce
l’opposizione fra sporco visibile e sporco invisibile (Fig. 8).
Ace gentile, 2018. Napisan, 2020.
Fig. 8
Infatti, se i classici prodotti detergenti combattono la macchia che si vede a occhio nudo, totalità integrale
e indistinta dello sporco, per i detersivi igienizzanti il nemico è più pericoloso e difficile da eliminare
perché invisibile. In questo senso, è solo entrando nel tessuto, osservandolo come sotto la lente di un
microscopio, lo sporco assume specifiche identità. Il débrayage, infatti, oltre che spaziale è anche
attoriale: piccoli mostriciattoli, cellule e batteri, totalità partitiva dello sporco, come usciti da un libro di
chimica (v. germi, Fig. 8), sono chiaramente l’esito di strategie oggettivanti che fanno proprio il discorso
parascientifico, oggi certamente complice anche la recente pandemia che ha cambiato il modo di
figurativizzare virus e germi adottandone l’immagine scientifica.
La differenza fra uno sporco rilevabile (tutto sommato innocuo) e uno sporco impossibile da individuare
a occhio nudo (potenzialmente pericoloso per la salute), convoca questioni veridittive legate al regime
del segreto (è sporco ma non sembra) se non della menzogna (sembra pulito ma non lo è), che si
traducono concretamente nell’idea che per avere un pulito completo il detersivo non basta e bisogna
211
anche igienizzare. Tale differenza è prodotta negli spot attraverso l’articolazione della categoria
superficie/profondità che coinvolge sia la dimensione verbale (“Pulito profondo”, “nel cuore di ogni
bucato”, “pulisce a fondo”, “igienizza le superfici in profondità”, “pulito profondo che penetra nelle
fibre” etc.) sia visiva, attraverso tutta la serie di débrayage e embrayage che ci consentono di fare da
spola dalla superficie alla profondità dei tessuti, e viceversa (Fig. 9). All’interno di tale opposizione
spaziale, il raggiungimento della profondità diventa una sfida, un vero e proprio programma narrativo
(v. Marrone 2001, sull’agire spaziale) che, nel nostro caso, sancisce la realizzazione dell’obiettivo: il pulito
profondo delle pubblicità, appunto.
Débrayage 1
Débrayage 2 Embrayage 1 Embrayage 2
Fig. 9 – Ace gentile, 2018.
Al livello dell’enunciato, i débrayage spaziali e attoriali ci portano sempre più all’interno delle maglie,
mentre gli embrayage consentono un ritorno verso la superficie. Va notato, in particolare, ciò che avviene
all’interno della lavatrice: l’effetto di profondità prodotto dal primo débrayage (che mostra la macchia),
infatti, è ulteriormente amplificato (in un rapporto zoom-macro zoom) dal secondo débrayage (che mostra
i germi). Questo ci consente di articolare la categoria superficie/profondità nel modo che segue:
212
Questa profondità dell’azione pulente non è solo interna allo spot analizzato ma, come si diceva, emerge
anche dal confronto fra prodotti tradizionali/igienizzanti. D’altronde, come sottolinea anche Pozzato
(2009) analizzando due pack di additivo per il bucato, un detersivo che agisce sui colori dei capi ha
spesso a che fare con un pulito dai valori estetici, al contrario dell’azione igienizzante-disinfettante che
riguarda piuttosto la salute.
Se sul dizionario dunque pulire è un iperonimo che racchiude e per certi versi appiattisce le diverse
attività di pulizia, la pubblicità costruisce delle differenze sotto forma di una scala tensiva che va da un
minimo a un massimo dell’azione pulente.
In questo modo, pulire, lavare, igienizzare e disinfettare non sono che effetti delle diverse
figurativizzazioni della superficie o della profondità e l’efficacia del prodotto pulente è direttamente
legata al modo in cui viene figurativizzata la profondità della sua azione. Anche grazie agli spot.
4. Schiume, polveri e saponi
Anche dal lato dell’agente pulente, negli spot si narrano le vicende di questo o quel detersivo, la cui
specifica azione è messa in forma proprio dal tipo diverso di consistenza materica di cui è fatto. Oggi, i
consumatori possono far affidamento su una grande varietà di sostanze pulenti dalle caratteristiche più
diverse. Esistono prodotti in polvere, liquidi, in gel, in capsule, da usare contro i vari tipi di sporcizia:
macchie unte, sporco incrostato, polvere e via dicendo (Fig. 10).
Fig. 10 – Diverse consistenze dei detersivi in commercio.
Ma cosa ci fa dire, poniamo nella scelta di un detersivo, che una consistenza sia migliore delle altre? La
preferenza fra la polvere o il liquido contro l’unto da cosa dipende? La scelta è tutt’altro che naturale o
scontata: a essere messe in gioco, oltre alle motivazioni chimico-scientifiche, sono infatti dinamiche legate
agli immaginari e alla percezione collettiva delle specifiche materialità e ai contrasti di sostanze che, in
quanto tali, cambiano nel tempo.
Osserviamo la questione da un punto di vista diacronico: Barthes (1957), analizzando le pubblicità dei
nuovi detersivi in polvere degli anni 50, notava la contrapposizione fra i “liquidi purificatori” e le “polveri
saponificanti”. Mentre la candeggina era “fuoco liquido” che uccide lo sporco e rovina i capi se non
utilizzata con parsimonia, il detersivo in polvere metteva in atto un’azione selettiva contro lo sporco,
espellendolo senza danneggiare tutto il resto. Tuttavia, le qualità del liquido o della polvere non sono
ad essi intriseci. Il liquido, infatti, non è più aggressivo o efficace di per sé: come tutti i materiali, il
liquido – ma anche il solido, la polvere etc. –, è un oggetto di senso, “la manifestazione particolarmente
suggestiva di una riflessione sul mondo sensibile, di una ‘logica concreta’ in atto” (Floch 1984, p. 176). I
materiali sono già culturalizzati e il loro valore si costruisce, proprio come in questo caso, a partire dagli
usi che se ne fanno.
Con l’introduzione dei detersivi liquidi negli anni 80, ad esempio, la situazione appare ribaltata rispetto
agli anni 50: la polvere è percepita ancora come molto più efficace del liquido, e i brand dunque iniziano
a produrre massicce campagne pubblicitarie per convincere i consumatori del contrario. Nello spot
dell’allora nuovo detersivo liquido Dash del 1989, infatti, una giovane motociclista sfuggendo ai consigli
di una signora incontrata in lavanderia (Fig. 11 – “no signora, con il liquido ci lava il bucato leggero,
213
ma sul grasso ci vuol la polvere”, “liquido in pallina, bianco in rovina”), s’impegna a convincerla
dell’efficacia del nuovo prodotto liquido, valido quanto quello in polvere.
Polvere tradizionale Nuovo liquido
Fig. 11 – Dash liquido, 1989.
Ci troviamo in un momento di passaggio e per certi versi di fronte a uno scontro fra immaginari diversi
legati a un passato e a un presente delle sostanze lavanti che ne costruisce il valore. È evidente che, in
un dato momento storico-culturale, la polvere è stata percepita come più adatta a eliminare lo sporco
unto – da cui il semisimbolismo diacronico che lo spot Dash vuole ribaltare:
E Polvere Liquido
C Passato Presente
Efficace Inefficace
Dunque, contro il grasso sarà più efficace il liquido o la polvere? Dipende. Si tratta di un problema di
contrasti di sostanze, ossia della relazione che intessono fra loro, e della percezione collettiva legata
all’efficacia della combinazione di alcune materialità.
Questo potrebbe spiegare perché, ad esempio, come mostrano abbondantemente i numerosi profili
social sull’igiene domestica che spopolano oggi sul web (v. @lacasadimattia, @mammapuntodue,
@yesyoucandeggina, su Instagram), l’uso del bicarbonato nelle pulizie sia oggi attraversato da una vera
e propria passione collettiva che va di pari passo con la recente tendenza a riproporre i prodotti per
l’igiene nelle formulazioni solide o in polvere, specialmente nel caso di prodotti per la pulizia
appartenente a linee “naturali”. Ha poca importanza, da questo punto di vista, che il bicarbonato non
abbia alcuna proprietà pulente o igienizzante come si affrettano a informarci da ogni dove (sulla
divulgazione scientifica in materia di igiene, v. Bressanini 2022): il biancore della polvere, la sua
materialità, così come la schiuma prodotta dal suo contatto con l’aceto, elemento con cui il bicarbonato
intesse una vera e propria relazione sintagmatica nel mondo delle pulizie oggi, rappresentano l’esempio
perfetto non solo del valore semiotico dei materiali, ma anche della loro efficacia. Non a caso, proprio
il bicarbonato oggi è nell’elenco dei numerosi “con”, ossia delle sostanze aggiunte leggibili sulle
confezioni dei detersivi.
Un’altra figura specifica su cui vale la pena soffermarsi è poi la schiuma, elemento materico che spesso
significa più di ogni altro il prodotto pulente. A leggere il dizionario, individuiamo almeno due
invarianti figurative che trovano manifestazione nei discorsi sociali: la prima è l’idea della spumosità
di una sostanza che ingloba aria; la seconda è relativa invece allo stato di attività della schiuma, dato
dell’agitazione e dell’effervescenza. Ancora una volta Barthes nel suo studio su saponificanti e
detersivi, in Miti d’Oggi (1957), evidenziava come la performatività abrasiva dei nuovi saponi venisse
camuffata dalla sua schiumosità aerea: non è un caso, infatti, che Calvino (1963) individui proprio
nelle bolle sprigionate dalle polveri saponificanti gettate in un fiume dai figli di Marcovaldo uno dei
tratti significanti della società consumistica di quel tempo.
214
Oggi la situazione è ambivalente. Nei casi che abbiamo osservato, la schiuma non sembra essere un
tratto pertinente nella significazione del processo di pulizia: in lavatrice, infatti, il detersivo entra in
contatto con lo sporco e grazie alla mediazione dell’acqua lo elimina (Fig. 12). Se ci spostiamo su altre
tipologie di prodotto, invece, accade che la schiuma non solo è presente ma diventa l’elemento che
racchiude la potenza pulente del prodotto: nello spot di Svelto da una piccola e densa goccia di
detersivo si prigiona una copiosa schiuma pronta ad affrontare le stoviglie lerce (Fig. 13). La differenza
fra questi prodotti è una e determinante: in un caso si tratta di lavaggio a mano, nell’altro no.
Informatore dell’azione pulente in atto, la schiuma finisce per significare la performance stessa del
prodotto ed è come se parlasse direttamente al suo utilizzatore: il prodotto è in azione e funziona – è
opinione diffusa, d’altronde, che se non fa più schiuma non è buono o la spugnetta va ricaricata! –.
Una performance che, in qualche modo, contiene in sé anche la sanzione della buona riuscita del
lavaggio e ne anticipa i risultati.
Fig. 12 – Ace denso più, 2018.
Fig. 13 – Svelto, 2022.
Tuttavia, la schiuma non ha sempre un valore positivo. Da una parte, infatti, le aziende di detersivi si
impegnano affinché la formulazione dei loro prodotti consenta la produzione copiosa di schiuma durante
il lavaggio. Ma basta cambiare categoria merceologica e oggi, nel mondo cosmetico e della cura
dermatologica, ad esempio, accade esattamente il contrario. Da un punto di vista sincronico, nell’universo
dell’igiene odierno infatti la schiuma significa contemporaneamente cose diverse: per un detersivo
significherà che il prodotto è in uno stato di attività (Fig. 14), per un bagnoschiuma la morbidezza della
spuma profumata sarà caricata del significato “coccola, carezza” (Fig. 15), mentre per i moderni detergenti
per il viso o per i capelli, specialmente se si tratta di prodotti “naturali”, la schiuma è segno di un prodotto
troppo aggressivo che non va utilizzato, e infatti la schiuma è leggera o, spesso, del tutto assente (Fig. 16).
In altre parole, i significati dei materiali non stanno nei materiali stessi ma nella relazione che questi
instaurano fra loro in un dato momento all’interno di un certo contesto socioculturale.
Fig. 14 – Svelto, 2022. Fig. 15 – Spuma di Sciampagna, 2022. Fig. 16 – Nivea Naturally Clean, 2021.
215
5. Ibridi in lotta
Nell’individuare diverse “ideologie” del lavaggio, tra le altre cose, in Miti d’Oggi Barthes osserva anche
i verbi utilizzati nella descrizione pubblicitaria del prodotto pulente (uccide vs espelle). Seguendo
dunque quello che si definisce come un modus operandi tipico dell’approccio semiotico (Greimas 1966)
ragionare sui lessemi utilizzati negli spot per descrivere l’attività del detersivo (così come anche le
immagini che mostrano tali azioni) ci aiuta a svelarne il fare, e con esso la struttura narrativa soggiacente
all’enunciato. In tal senso, i verbi utilizzati negli spot sono principalmente di tre tipi:
1. Azioni che descrivono il processo pulitura come cancellazione dello sporco, che riguarda la
comunicazione pubblicitaria della quasi totalità dei prodotti (“toglie lo sporco”, “rimuove il grasso”,
“elimina le impurità”, “fredda lo sporco”, “uccide germi e batteri” etc.);
2. Azioni che, pur indicando la stessa eliminazione, mettono l’accento sulle operazioni di trasformazione
da una materialità a un’altra (“liquida lo sporco”, “scrosta”, “sgrassa”, “scioglie”, “dissolve” etc.);
3. Azioni che parlano del processo di costruzione del pulito (“profuma la biancheria”, “fa splendere le
superfici” etc.).
La pulizia emerge dalle pubblicità come una vera e propria lotta contro lo “sporco cattivo”. In termini
semiotici potremmo dunque dire che quello della pulizia è un processo di disgiunzione dallo sporco e che
alla storia della biancheria macchiata che viene ripulita raccontata dagli spot soggiace, cioè, un programma
narrativo (PN) che da uno stato di iniziale disgiunzione dal pulito porta, attraverso tutta una serie di
trasformazioni, al ricongiungimento con esso. Ma chi opera queste trasformazioni? Quale struttura
attanziale presuppongono?
A ben vedere, gli spot analizzati hanno tutti una struttura simile: c’è un momento iniziale in cui si crea lo
sporco da pulire, il momento del lavaggio, e infine l’apprezzamento del risultato ottenuto. Si tratta, in effetti,
di tre momenti specifici della trasformazione narrativa che dallo sporco porta al pulito e in particolare del
danneggiamento, della competenza-performance e della sanzione.
In effetti, in tutti i casi analizzati, la macchia causata dall’aver rovesciato il vino sulla tovaglia o l’impasto sulla
camicetta è l’agente che, rompendo l’equilibrio iniziale del pulito, innesca il racconto. Lo sporco da
combattere, differentemente figurativizzato (macchie, cattivi odori, grasso, polvere etc.), svolge in questo
senso il ruolo attanziale di Anti-soggetto della storia la cui azione attiva il senso sociale del pulito che,
imponendo una certa forma di ordine e decenza, agisce da Destinante che manipola il soggetto del fare che
dunque vuole e deve lavare via le macchie. Ovviamente ciò avviene anche in concomitanza con altri attori
che svolgono il medesimo ruolo attanziale: nonne e mamme, costruite dalla pubblicità come soggetti
competenti pronti a dispensare consigli, ancor più in passato (Fig. 4) e tal volta ancora oggi (Fig. 2), ne
sono un esempio.
Tale manipolazione, inoltre, avviene spesso per provocazione: parlare di sporco “difficile” o “impossibile”,
infatti, fa emergere tutta la dimensione della sfida (Greimas 1983) – la presenza dello sporco nella profondità
del tessuto minaccia la competenza, ossia il poter e saper fare, del Soggetto operatore – legata oltretutto alla
possibilità una dimensione patemica della sporcizia che trova il suo eccedente passionale nell’ostinazione
(Greimas, Fontanille 1991) (es. “efficace contro le macchie più ostinate”).
Ma il protagonista dell’azione chi è? Chi svolge la performance? Il detersivo, il soggetto umano, o la lavatrice?
La risposta non può essere stabilita una volta e per tutte: per quanto possa essere intuitivo pensare che sia
sempre l’uomo a lavare, protagonista indiscusso dell’azione, nel racconto dei prodotti per l’igiene la situazione
è più flessibile e le possibilità diverse.
In questi casi, infatti, non è il soggetto umano a operare le trasformazioni del processo di pulitura: è il detersivo
a essere infatti il protagonista indiscusso dell’azione, Soggetto Operatore che riesce a far tornare gli abiti al
suo originario splendore – il nostro Oggetto di Valore. Mentre l’uomo è il Soggetto di stato danneggiato dallo
sporco e al tempo stesso un Aiutante che insieme a tutta una serie di altri oggetti che contribuiscono a portare
a termine il programma. In tal modo, elettrodomestici e persone, così come anche scope, spugnette,
216
spolverini, spazzolini e tutte le sostanze “aggiunte” al detersivo (i con presenti sulle confezioni – con
bicarbonato, aceto, igienizzante etc.) costruiscono, alla Latour (1991, 2005), ibridi efficaci, una rete
interattanziale, attorializzata poi differentemente, che contribuisce a pari merito alla buona riuscita del
programma narrativo. Ciò non vale solamente per gli attori coinvolti nell’azione pulente: pentole, superfici e
abiti uniti al calcare, all’unto e al grasso sono da intendersi come altrettante entità ibride, risultato dell’unione
di materialità originariamente separate.
Ovviamente questa struttura attanziale può essere ulteriormente complessificata. Nel mondo delle pulizie, ad
esempio, anche la temperatura dell’acqua o altri elementi come il calcare svolgono un ruolo narrativo: veri
e propri Aiutanti, nel caso delle alte temperature che sgrassano meglio, o al contrario Opponenti, come per
le basse temperature che non garantiscono una buona pulizia dei capi e l’uccisione dei batteri; così come
un’acqua calcarea può rovinare i nostri vestiti. Ciò nonostante, l’acqua è, nel mondo dell’igiene, un attante
importante per la buona riuscita del lavaggio e non solo perché, riprendendo Bachelard, “l’acqua è oggetto
di una delle maggiori valorizzazioni del pensiero umano: la valorizzazione della purezza […] L’acqua
accoglie tutte le immagini della purezza” (1942, p. 21-22), ma anche perché senza di essa pulire sarebbe
praticamente impossibile.
Greimas (1983), nell’analisi della zuppa al pesto, notava che la pentola destinata ad accogliere la zuppa di
legumi poteva essere considerata uno spazio utopico, ossia il luogo in cui avvengono le principali
trasformazioni narrative, e che l’acqua presente al suo interno, e nella quale erano versati gli ingredienti, era
da intendersi come un attante operatore delle trasformazioni che portano dal crudo al cotto. Nel nostro caso,
e a un primo sguardo, la lavatrice sembrerebbe avere lo stesso ruolo attanziale della pentola: in essa avviene
la performance, la prova che porta dallo sporco al pulito e in cui l’acqua rappresenta un fondamentale agente
di trasformazione. E tuttavia la lavatrice è più di questo perché non solo contiene il lavaggio ma lo aziona:
ruotando, agisce a sua volta definendosi in tal modo come un luogo utopico attivo. Continuando con
l’analogia culinaria, il suddetto elettrodomestico sembrerebbe così più simile alla ciotola girevole dello
sbattitore che collabora con le fruste all’amalgama degli ingredienti (Marrone, Mangano 2002).
Infine, la Sanzione è delegata, oltre che all’attore umano (che ad esempio annusa soddisfatto i capi puliti),
anche alla materialità stessa: sono infatti la lucentezza delle superfici, il biancore dei capi e il profumo delle
lenzuola a sancire positivamente la buona riuscita del programma e dell’azione di pulitura appena terminata.
Considerando quindi il programma di pulizia come un programma di base, troviamo, grazie alle indicazioni
dei verbi e alle azioni raffigurate, almeno altri due programmi narrativi d’uso che consentono di raggiungere
l’obiettivo finale, ossia il pulito. Si tratta dei programmi di cancellazione (PN1) e di costruzione (PN2). Da un
lato, infatti, il detersivo interviene per dissolvere lo sporco. Detersivi, spugne e lavatrici intervengono in questo
senso per eliminare macchie, cattivi odori e batteri dalle superfici e lo fanno sgrassando, sciogliendo,
dissolvendo. Tuttavia, una volta eliminato e smaterializzato lo sporco, ciò non basta per creare il pulito. Infatti,
se in linea di principio, come abbiamo visto, il puro è ciò che non è, ossia quello che rimane quando si
separa da ciò che lo contamina, è pure vero che, una volta rimosso lo sporco, questo non basta a dar vita di
per sé al pulito. L’oggetto lindo, una volta terminato il programma, non sarà più quello che era all’inizio.
Risulta infatti trasformato, ottenendo delle qualità diverse perché intensificate rispetto a quelle possedute in
origine: sarà più bianco, più profumato, più brillante (Fig. 17).
Fig. 17 – Ace denso più, 2018. Figurativizzazione dell’azione costruttiva
del detersivo che trasforma il tessuto donandogli nuove caratteristiche.
217
Il valore del pulito può dunque essere costruito e concretizzato in tanti modi, come abbiamo visto
all’inizio parlando delle tre dominanti figurative, e dopo aver tolto qualcosa (macchie, germi, impurità
etc.), per avere il pulito va aggiunto dell’altro: in tal senso il profumo, la freschezza, la lucentezza, la
protezione igienica sono esempi di Ov del PN di costruzione che, insieme al PN di cancellazione dello
sporco, dà vita ai diversi modi attraverso i quali il discorso pubblicitario materializza il fare narrativo del
pulito. Ecco che gli spot costruiscono tale processo non solo come una lotta fra figure attanziali con
obiettivi opposti (sporco vs agenti del pulito), ma più precisamente come una lotta fra materialità che si
trasformano reciprocamente.
6. Trasformazioni materiche
In tal senso, potremmo riprendere lo studio elaborato da Françoise Bastide (1987) nel suo saggio sul
trattamento della materia, che ci consente un aggancio fra il livello discorsivo e quello semio-narrativo.
È a partire dai verbi utilizzati in alcune ricette di cucina, tra cui anche la zuppa al pesto di Greimas
(1983), e trasformazione di sostanze chimiche, che Bastide individua alcuni stati della materia, pensati
nella forma di categorie semantiche, e un numero limitato di operazioni elementari di trasformazione
da uno stato all’altro. Trattandosi dell’articolazione semantica di valori profondi, questi stati e queste
operazioni possono poi assumere manifestazioni espressive di tipo diverso. Dunque, dopo aver visto la
materializzazione dello sporco a livello discorsivo e la sua rimozione come disgiunzione narrativa,
ragionare sulle trasformazioni materiche à la Bastide è utile per osservare il processo, la relazione
sintagmatica fra questi elementi: come si passa dall’uno e dall’altro? Quali cambiamenti materici
descrivono tale trasformazione?
Per osservare queste trasformazioni bisogna concentrare lo sguardo sul momento della performance:
corrispondendo infatti al momento in cui lo sporco viene eliminato è in questa fase che vengono messi
in scena i cambiamenti di materia. Innanzitutto, secondo Bastide, le procedure di lavaggio
rappresentano la manifestazione figurativa dell’operazione di scelta (Fig. 18), quell’azione che porta
cioè l’oggetto dallo stato composto (es. un maglione macchiato che in quanto tale, come si è detto, è
da intendersi come ibrido, intreccio di materialità di diversa origine) allo stato semplice (il maglione
pulito, le cui trame sono isolate dal resto), perché, selezionando gli elementi estranei da eliminare, la
pulitura lo priva di ciò che lo contamina.
Fig. 18 – Ace gentile, 2018. L’operazione di selezione figurativizzata
in maniera diversa.
Come si può osservare negli spot che abbiamo preso in analisi, il detersivo elimina le macchie, indicando
una generica disgiunzione, sono poi le immagini a raccontare nello specifico come ciò avviene attraverso
le trasformazioni materiche. Vediamo cosa avviene in lavatrice.
L’indumento sporco è presentato come un tessuto tra le cui trame è incastrata la macchia, in maniera
tale da apparire dunque particolarmente coesi e non facilmente separabili; tessuto e sporcizia si trovano
cioè in uno stato di compattezza. L’azione detergente che “scioglie” o “sgrassa” svolge in questo senso
un’operazione di apertura, ossia il passaggio dallo stato compatto allo stato discreto, liquefacendo lo
sporco. Nel caso specifico del lavaggio in acqua a essere evidenziata è inoltre l’operazione di espansione
218
che descrive il dissolvimento di un elemento in un liquido. “L’acqua o altri solventi – come gli acidi –
rappresentano in questo contesto un caso particolare, in cui l’azione del liquido annulla una forma di
coesione e rivela in tal modo un carattere […] laddove il corpo appariva compatto al livello macroscopico
della nostra osservazione: ci troviamo in presenza, dunque, di un’operazione di apertura che precede
l’espansione” (Bastide 1987, p. 168). È questo, dunque, il caso dei lavaggi in lavatrice in cui lo sporco
viene sciolto e si disperde in acqua.
Stato iniziale Operazione Stato finale
Compatto Apertura Discreto
Concentrato Espansione Espanso
La rimozione dello sporco invisibile – quali cattivi odori, germi e batteri – rende più complesso
figurativizzare le trasformazioni materiche. Come dicevamo proprio in riferimento alla dimensione
olfattiva (§2), la pubblicità costruisce effetti sinestetici che danno corpo e struttura a elementi
normalmente non visibili a occhio nudo. In questo caso, infatti, la trasformazione provocata
dall’operazione di separazione ed espansione viene tradotta visivamente attraverso un cambiamento del
colore, o meglio della sua luminosità, per cui:
cattivo odore : profumo = ombra : luce
In tal modo, gli spot danno vita a effetti di materialità che tuttavia non sempre rientrano nelle categorie
individuate da Bastide. Gli odori, in questi spot, non sono figurativizzati compatti come una macchia,
ma non sono neanche discreti o amorfi, essendo in qualche modo legati al tessuto.
Non-discreto Espansione Discreto
Scelta
219
Lo stesso avviene per quanto riguarda i prodotti che combattono batteri e virus: in questo caso, pur
essendoci la disgiunzione, e dunque una trasformazione narrativa, a mancare sembra essere la
visualizzazione delle trasformazioni materiche che a livello figurativo concretizzano tale trasformazione.
A essere messa in scena è infatti un’eliminazione totale, una disgiunzione nuda e cruda dagli agenti
patogeni: partendo da uno stato discreto – perché sparsi disordinatamente sui vestiti – al passaggio del
detersivo i germi spariscono letteralmente nel nulla come a voler significare che il detersivo non li
scioglie o disperde da qualche altra parte dove potrebbero continuare a rappresentare un pericolo –
banalmente, la lavatrice –, ma li fa totalmente fuori (Fig. 19). In tal modo, insieme all’eliminazione, il
rischio della presenza batterica viene disinnescato.
Ace gentile, 2018. Napisan, 2020.
Fig. 19
Similarmente a quanto osservava Floch riguardo agli annunci di certi psicofarmaci (1990), negli spot
della figura 19 a essere messa in scena è la trasformazione diretta da uno stato disforico, nel nostro caso
lo sporco, a uno euforico, il pulito, attraverso specifiche opposizioni plastiche:
Sinistra Destra
Molteplicità Unità
E Discontinuità Continuità
Policromatismo Monocromatismo
C Disforia Euforia
Sporco Pulito
In generale, vanno notati due aspetti: il primo, che potrebbe sembrare banale, riguarda il fatto che al
cambiare della categoria merceologica alcune trasformazioni materiche diventano più pertinenti di altre
(uno sgrassatore punterà in linea generale di più verso la destrutturazione del grasso incrostato, rispetto
poniamo a un ammorbidente). Il secondo è che non è detto che la pubblicità decida di mostrare tutti i
passaggi che portano da uno stato all’altro: per ragioni legate alle strategie di posizionamento dei propri
prodotti a volte l’accento è posto maggiormente sullo stato iniziale dello sporco, altre volte sul momento
della performance, e altre volte ancora sul momento finale che corrisponde alla sanzione positiva per la
riuscita del buon bucato. Esattamente come abbiamo visto per le tre dimensioni figurative individuate
– quella visiva, quella materica e quella olfattiva – si tratta di un aspetto interessante perché riguarda il
modo attraverso cui i brand costruiscono differenze interne ponendo l’attenzione su uno specifico
momento del processo di pulizia, individuando delle pertinenze che costruiscono il valore del prodotto.
E non solo, perché tali dimensioni oltre a concretizzare delle idee di pulito alternative – sul piano
paradigmatico – presuppongono e tracciano il percorso della loro costruzione – sul piano
sintagmatico. Ciascuna di esse rappresenta, in altre parole, la messa in discorso di momenti specifici
della produzione del pulito.
In ogni caso, scrive Bastide, “il risultato della pulitura è la riduzione di una eterogeneità ‘naturale’: […]
sudicio-sporco-contaminato/puro-pulito-isolato” (1987, p. 174). Pulire significa innanzitutto selezionare,
ed effettuare una scelta su cosa eliminare – e dunque ritenere sporco – presuppone uno schema, un
220
ordine delle cose dove, è evidente, il pulito è ciò che rimane isolato, non mischiato ad altro, rispetto allo
stato eterogeneo che assumono le cose quando vengono sporcate. L’idea di Bastide è, in altri termini,
la stessa idea di contaminazione di Mary Douglas: per entrambe pulire è un modo per fare ordine sotto
forma di costruzione della purezza.
In questo senso, le specificità di volta in volta diverse di pulizia e sporcizia in qualità di effetti di senso
dipendono anche dalle trasformazioni materiche che li sottendono e che vengono sfruttate dal
racconto di marca per arricchire e meglio articolare il nostro immaginario igienico rispetto a come è
normalmente inteso dal senso comune, ampliando ad esempio i significati del pulito che ci vengono
restituiti dal dizionario. D’altronde, l’enfasi materica e sensoriale è oggi particolarmente presente
nell’universo di brand e mediatico 5, e gli strumenti analitici adottati in questo studio (v. i riferimenti
al lavoro di Bastide, ma anche a quello di Greimas e Floch) risultano dunque particolarmente utili e
pertinenti nello studio di simili strategie commerciali e comunicative.
Tuttavia quello di sporco e pulito è ancora un problema aperto: sporcare è disordinare, pulire è rimettere
al posto. Ma lo sporco, una volta rimosso, dove va a finire? Le attività di pulizia nient’altro sono, in
questo senso, che la concretizzazione di un ritaglio effettuato sul mondo, logiche guidate da vere e
proprie forme dell’ordine che ci permettono di controllarlo per comprenderlo, punto di partenza per
una semiotica dell’igiene ancora tutta da indagare.
5
Si pensi ad esempio al fenomeno dell’ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response), ossia a quelle tecniche
di rilassamento legate a stimoli di natura principalmente uditiva e tattile, di cui il web e i social sono oggi densamente
popolati sotto forma di video dalla natura più disparata: dalle ricette di cucina in cui, più che i passaggi, a essere
enfatizzata è la materialità del cibo grazie ai suoni amplificati (croste croccanti, coltelli che affettano etc.) associati a
sguardi aptici e fortemente ravvicinati agli ingredienti, fino ai video degli aspirapolvere in funzione in cui a divenire
protagonista è il “rumore bianco” (vedi ad es. Dyson su YouTube, www.youtube.com/watch?v=5SEYNV4WaC8).
Di conseguenza, in questi video la ricetta non è più un testo istruttorio, e l’aspirapolvere non serve per pulire: a
essere prodotta tramite tali strategie sostanziali è una vera e propria estetica trasversale in cui vige l’esibizione
sensoriale, più vicina al fenomeno del food porn (Marrone 2016) che a un tutorial.
221
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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222
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Giulia Ceriani
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What happens to those expressive substances that refer to some form of physicality (i.e. silk or leather), when they
are brought back to a pure effect in a digital context? Does this deal with a visual transcoding only, or there is
something more? If the same expressive substances are called to dress an actorial identity in a digital world, are
they just to be considered as a last development of the mutation of materials that we have been witnessing for
years, or they represent a specific case of mediatization?
Are we just faced to the overturn of our perceptual habits, expectations and criteria of appreciation, or are we attending,
by the ongoing development of Metaverse, to unprecedented manifestations of a world still under construction?
This reflection aims to investigate the different aspects inherent to the evolution of materiality, up to its physical
dissolution (immaterial materiality), and to understand how much -and if- the semiotic tools we have at our
disposal can help us.
1. Materialità e immateriale
C’è la materia e ci sono i materiali. La materia non esiste se non in quanto formata, ovvero investita
della pertinenza con cui la trasformiamo in sostanza: non stiamo naturalmente dicendo nulla di nuovo,
se non che tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di
costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del tutto
antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben prima
degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce “oggetti di valore”, pure
posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di discorso.
Sappiamo, come ci indica Hjelmslev, che “la materia rimane sostanza per una nuova forma e non ha
altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa e quella forma” (1943, p. 57). Sostanza
dell’espressione, con la virtualità intersemiotica che traccia affinità ed esclusioni, e sostanza del
contenuto, che investe le tematiche, i generi, le tecnologie in essere.
Proprio a queste ultime, è dato oggi rilevare in primissima istanza il testimone dell’innovazione, dove
quest’ultima venga intesa come l’intenzione di invitare ad usi non previsti, o quanto meno fino ad allora
non immaginati, i materiali stessi. La questione dei materiali immateriali, oggetto di questa nostra breve
riflessione, si inserisce precisamente in questo filone, dove la tecnologia che conduce l’ideazione delle
skin con le quali abbigliamo gli avatar nel gaming o nel Metaverso, o anche solo che vediamo in
evidenza negli NFT droppable che la moda sta promuovendo, consegna alla visione l’intero percorso
di valutazione del materiale stesso.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
È così che, nella definizione “pixelata” dei materiali che incontriamo in ambiente digitale, l’assenza di
naturalità che ne fa dei referenti semi-culturalizzati, è conseguenza diretta della programmazione
algoritmica degli effetti di materia: effetti, per l’appunto, senza che si possa in alcun modo porre la
questione della loro matrice originaria, di una “verità referenziale” che è in questo caso impossibile da
porsi. Non riteniamo infatti ci sia possibile corrispondenza tra la meccanicità dei movimenti, delle
caratteristiche prossemiche, dell’interazione attoriale della quale è investita una figura (ad esempio ma non
solo vestimentaria) delle skin, e la sua potenziale equivalenza nel mondo offline; le separa una dinamica
percettiva che è altra anche rispetto a quella, ben più nota, dei personaggi di cartone animato anche
tridimensionale, la cui funzione, in termini di coinvolgimento dello spettatore, resta ben meno risolutiva.
Ben altro percorso dunque rispetto alla rappresentazione di una denaturalizzazione dei materiali già
in essere da almeno venti anni, quando si è dato il là a una robusta creazione di effetti di materia
contrari e anche contraddittori rispetto alle caratteristiche previste, persino in una semiotica del
mondo naturale, da alcune sostanze base: l’elasticità della ceramica, la non frangibilità del vetro, la
morbidezza del cemento, tra quelle che hanno diversamente interpellato i sensi a partire dalla
cancellazione del confine naturale/artificiale.
2. La materialità digitale
Stiamo di fatto affrontando, con la materialità digitale, l’ultima, dal punto di vista temporale, epifania
dei processi di mutazione che attraversano il nostro tempo, e interessano a livelli diversi la definizione
delle identità: che si tratti del gender, della relazione con l’ambiente, del rapporto con la nutrizione e di
quello con i rifiuti, le inversioni, le transizioni, gli scivolamenti, se appartengono alla generale evoluzione
di ogni congiuntura, sono tuttavia particolarmente cruciali in questa specifica stagione, che vede la
saturazione di fenomeni addensatisi nel tempo (tra tutti, ad esempio, quello climatico ma anche, sul
fronte economico, quello della contrazione che ci coinvolge trasversalmente).
La mutazione che qui ci riguarda è tuttavia molto specifica: è quella della veridizione dei materiali stessi,
distratti dal loro significato culturale e riorientati in direzione di un livello secondo di realtà che non
sapremmo chiamare artificialità. Pensiamo, in particolare, a quello che succede con le “skin” indossate
dagli avatar all’interno dei videogames, dove l’identità costruita nella continuità della materia digitale
genera sostanze che riorganizzano non solo il dato percettivo in assoluto, ma anzitutto la percezione
della propria collocazione identitaria. In un articolo che rifletteva sui primi materiali mutanti, Ceriani
(2018) suggeriva di riprendere l’opposizione categoriale proposta da Fontanille (1995) tra visée, dove il
soggetto è in tensione verso un oggetto a lui esterno, e saisie, dove è al contrario assorbito nel divenire
dell’oggetto stesso. La smaterializzazione, che è il focus paradossale dei materiali digitali, avrebbe allora il
proprio fulcro nella mera consistenza come état d’ame, modalizzazione dell’essere attraverso stati luminosi
che simulano le materie fisiche. O meglio, che a queste si sostituiscono, stante che non c’è un loro esistere
prima della digitalizzazione. Sono discorsi di luce, investiti su corpi simulacro che non hanno consistenza
fisica, e che non sono del resto riconducibili – nelle movenze, nelle proporzioni, nella qualificazione
d’insieme della propria tenuta – a nessuna sostanza che abbia un analogo nel mondo offline.
Eventualmente riconducibili al cinema d’animazione in 3D, ma con in più la sfida di fornire da supporto
a quell’identificazione immersiva che veicola, attraverso l’avatar, il soggetto al centro della scena.
L’esistenza digitale chiede che si acceda all’effetto di materia per pura via sinestesica, e dunque che sia
la visibilità/la luce per l’appunto, a guidare l’articolazione del contenuto (l’intellegibile), ma anche la
modalizzazione del sensibile da cui dipenderebbe la percezione; intensità, salti cromatici, diffusione
della luminosità, in una spazialità dinamica che non può essere simulazione, poiché non ha nessun
riscontro in un mondo costruito che precede la visione.
224
Ci chiediamo dunque fino a che punto la smaterializzazione intervenga all’interno del percorso
immersivo, quasi a garantire l’indipendenza dell’effetto di senso proposto, la sua autosufficienza sinergica
al mondo possibile che risucchia, e che è pura saisie senza riscontri al di là dell’online. Oppure, se la
componente visiva che gestisce l’effetto di senso sinestesico, pur investita apparentemente di una
configurazione plastica, non sia invece da ricondursi a parametri figurativi che, nella profondità più o
meno concessa dal 3D, invitino in qualche modo a un confronto, scuotendo, a partire dal vedere, quella
dimensione fiduciaria che appare l’aspetto più entusiasmante, quello davvero innovativo, del percorso
di fruizione del materiale. Del materiale tessile in particolare, nel contesto digitale, se pensiamo allo
specifico della funzione vestimentaria: credere che qualcosa sia, esserne protagonisti, sentire e capire, in
funzione dell’incontro percettivo con quello che non ha di fatto alcuna consistenza fisica. Un tema del
tutto diverso da quello dei materiali mutanti: si trattava, in quel caso, di rinnovare le meccaniche
percettive; si tratta, in questo secondo caso, di mettere in opera dinamiche percettive che riconoscono
salienze puramente immaginarie, generate dai giochi visivi voluti da un algoritmo.
3. L’esempio delle skin
L’esempio è a questo punto necessario. Sapendo che occorre ricorrere, nel pensare alle pertinenze
materiche digitali, a una distinzione tra quelle circolanti sulle piattaforme di giochi (come Roblox o
Fortnite) e quelle invece che si occupano di NFT (come su Decentraland). Si tratta, di fatto, di due
diverse gradualità di attualizzazione del Metaverso: in entrambi i casi, però, si pone appunto la questione
delle skin da far indossare all’avatar, ed è rispetto a queste che vorremmo porre la discussione dei
materiali immateriali. Con la premessa che a distinguerle è di fatto la diversa funzione che sono chiamate
a ricoprire, in relazione ai diversi e progressivi livelli di realtà che queste piattaforme investono.
Non è infatti di moda che vogliamo parlare, ma di come la necessità vestimentaria con la quale in questi
contesti si riveste, letteralmente, la funzione attanziale dei protagonisti, faccia da tramite alla
compenetrazione dell’effetto di realtà attraverso cui si ottiene l’engagement immersivo. Le skin sono dei
veicoli mediali fondamentali, ben più del contesto in cui si muovono, proprio perché rivestono, in
soggettiva, l’identità dell’attore con il quale ci identifichiamo; non solo, nel contesto attuale di silhouette
relativamente elementari e di dinamiche ancora poco naturali, a gestire l’effetto di verisimiglianza non
è tanto la shape, la silhouette spesso ancora impacciata e cartoon, quanto il materiale digitale stesso.
Il punto è come definire i mondi possibili a cui danno accesso le skin digitali, come stabilire che quello
che stiamo percependo è un mondo sufficientemente “reale” per poter desiderare di agirvi, e ancora
per decidere se c’è o meno una linea di distinzione tra un mondo “reale” e uno che reale non è…
Oppure, per decidere che proprio lo stato di imperfezione e indecidibilità dei materiali è la marca del
tempo presente, ove non si ritenga opportuno assumere lo choc di stabilire un limite tra quello che è
“dentro” e quello che è “fuori”.
Le piattaforme di gioco, così come i marketplace, sono e non a caso, il terreno favorito per la
veicolazione di questi materiali mediali, termine con il quale intendiamo quegli effetti di materialità
che vengono investiti su attori digitali in particolare attraverso le skin, prestando loro uno specifico
effetto di verosimiglianza in funzione della propria corrispondenza figurativa. La verosimiglianza è il
loro stato naturale, la pre-condizione della loro esistenza: non c’è gioco senza un’identità simulata,
senza un avatar, e non c’è avatar senza il rivestimento di materiali che tematizzano (o brandizzano) la
sua silhouette fantomatica.
Un primo esempio emblematico di questa forma di significazione è riconoscibile nel cobranding
inaugurato nel 2021 da Balenciaga e Fortnite (cf. Fig 1): la moda virtuale, digitalizzando gli outfit del
brand di lusso francese, consente – su un doppio fronte- di convogliare una community di fans che
presumibilmente “pescano” nella Gen Z, ben più disposta a investirsi, anche in ambito vestimentario,
225
negli ambienti virtuali che in quelli fisici, anche in nome di un più radicale sostegno della sostenibilità.
Questa l’operazione. Di cui tuttavia ci interessano qui non tanto il dettaglio e la seduttività delle shapes,
ben più primitive di quanto la dimensione fisica ad oggi consenta, quanto le peculiari caratteristiche
iconiche che i materiali che le rivestono (cotone per la felpa, materiale a scaglie per le armature, tessuto
elasticizzato animalier per le tute etc.) assumono: dove ad essere pertinenti non sono, ad esempio, la
freschezza del primo, la luminosità del secondo o la vestibilità del terzo, quanto la capacità di intervenire
in una dinamica di rappresentazione gommosa e morbida, tale per cui il corpo umano non potrebbe
seguire. Sono cartoni? No, a nostro avviso sono ibridi che inaugurano, grazie ai materiali smaterializzati,
una possibilità immersiva peculiare, un poter fare sommato a un poter essere che ne sottolinea un drive
argomentativo del tutto nuovo.
Fig. 1
Sulle piattaforme – per comprare, interagire, giocare etc. – c’è necessità di una consistenza visiva, ma
sappiamo che questa consistenza visiva ha pochissimo o nulla a che vedere con il suo “pretesto” fisico.
Di fatto, misuriamo l’effetto di realtà attraverso gradienti di diversa intensità, secondo un progressivo
distanziarsi dalla materialità fisica a quella aumentata, fino a quella immersiva.
Detto questo, stante l’immaterialità della sostanza delle identità digitali, i termini della significazione si
rovesciano: quali paradigmi conducono? In particolare, quando si tratta di skin brandizzate o di NFT,
qual è il criterio qualitativo/valutativo che guida? Quale, in relazione a parametri correnti come fitting,
stile, opportunità?
Proviamo a rispondere aiutandoci con un secondo caso ben noto, quello dell’entrata di Dolce & Gabbana
nel Metaverso, con la presenza alla Metaverse Fashion Week svoltasi sulla piattaforma nel 2022 (Fig. 2),
che ha fatto seguito alla prima collezione sperimentale del 2021 (Fig. 3). Ed è proprio nel confronto tra le
due diverse modalità di rappresentazione dei materiali che è dato leggere il senso dell’intervento di questi
ultimi sull’effetto di realtà: dove l’evocazione della versione più recente, che porta i materiali in una
dimensione connotativa e del tutto autonoma rispetto alla pertinenza referenziale accuratamente ricercata
nella prima versione, appare sufficiente a legittimare la proprosta. Il Metaverso non ha più bisogno di
identificarsi con figure del mondo già note, ha stato, percezione e immaginario a se stanti.
Scrivono Greimas e Courtès (1986, p. 185): “L’effet de sens ‘réalité’ correspond à la relation conjonctive
que le discours installe entre le monde et le sujet par une sorte d’embrayage existentiel”. I materiali
digitalizzati si confermano oggetti culturali costruiti, enunciati (nella porzione figurativa dei capi
vestimentari che interpretano) che producono significazione nell’insieme della proposta in questo caso
siglata da una marca di moda (ma analogamente sarebbe per prodotti e brand di altra natura), e
contemporanemente diventano attori della costruzione di una realtà semiotica inaugurale, che conosce
valenze di senso e patemizzazione del tutto proprie.
226
L’impressione è che il valore diventi, in questo contesto, puramente modale, e che prescinda
necessariamente dalla descrittività: si tratta di fashionscapes (Appadurai 1996; Calefato 2021) dalla
potenzialità immaginaria, dove il processo sinestesico riveste la massima importanza, improntato a un
accesso sensoriale esclusivamente visivo (visivo e sonoro in qualche caso).
Fig. 2
Fig. 3
4. Identità visive in mutazione
Veniamo dunque alle identità. Sappiamo bene che la differenza è garanzia di unicità e che non c’è
identità senza la differenza che distingue da un attore secondo: l’identificazione è l’azione che trasforma
un attante non identificato in un attore che ha il suo carico di figuratività e tematizzazione.
Questo è cruciale quando pensiamo ai materiali che ricoprono gli NFT, in arte come nella moda il primo
step dell’identità con cui possiamo esperire il Metaverso, ma anche produzioni autonome, acquisibili anche
solo in nome del loro valore economico: sappiamo che il loro codice privilegiato è stato concepito per
sigillare la loro identità digitale, facendola scivolare dal polo della continuità a quello della non continuità.
Le domande che salgono sono allora evidenti: come valutare il valore immateriale quando si investe in
una forma figurativa? Come catalogarlo? Come conservarlo? Come mostrarlo? Come interagire con?
Ancora più, come stabilire i criteri di apprezzamento del suo valore, fino a quello finanziario?
Abbiamo, in particolare, bisogno di capire che cosa succede quando le figure digitali allentano il
rapporto con il loro equivalente analogico, come si ristruttura l’esperienza estesica che appare
improvvisamente insignificante, o altrimenti significante.
Se facciamo riferimento agli esempi di cui sopra, la nostra risposta ultima è che l’unica rappresentazione
che conta è quella che conduce a una strategia della visibilità non autosufficiente, ma improntata a una
ricerca di efficacia in relazione a una dinamica interna alla testualità digitale, e non più orientata al
semplice embrayage di uno spettatore esterno. Nel momento in cui accettiamo l’immaginario veicolato
227
dai materiali digitalizzati che rivestono le skin, che le costruiscono, siamo già al centro della scena, in
un’immersività paradossalmente facilitata proprio dalla loro distanza rispetto alla referenzialità.
Il corpo/l’oggetto rivestito dalla skin è un pretesto mediale, che gestisce la sua azione in direzione di
una relazione interattanziale. E la sua funzione è puramente performativa: promette, intimidisce, seduce,
seguendo i ruoli che costruiscono la sua identità nella specifica contestualizzazione a cui riferiscono nel
contesto del Metaverso: molti corpi fisici potrebbero corrispondervi, o nessuno.
I materiali che rendono consistenti le emergenze digitali sono allora la porta d’entrata con cui il
Metaverso stesso rifocalizza la relazione tra espressione e contenuto della customer experience, il pattern
liquido che riassume esperienze plurime cancellando le marche dell’enunciazione.
5. Insignificanza e rimaterializzazione
Si tratta, forse più che di smaterializzazione, di rimaterializzazione. La figura attorializzata è condizione
di immersività, il materiale diventa ambiente inteso a produrre effetti di presenza. L’esperienza estetica
è ridefinita “sembra collassare ogni distanza fra soggetto e oggetto del sentire e del conoscere” (Corrain,
Vannoni 2021, p. 16). Il materiale è significante in funzione dell’esperienza polisensoriale che genera e
di cui il suo spettatore partecipa, attivando una modalità sinestesica inedita, perché partecipe della sua
costruzione. Come scrive Paul Dourish “rematerialization – not as a move away from the material to
create a domain of the virtual but rather a new material foundation for digital experience” (2017, p. 36).
La digitalità materiale si sottrae alle delimitazioni delle unità discrete e individua altre opposizioni,
inscritte nella matrice del codice di programmazione. Non si chiude in oggetti, abiti, case o altre figure
del mondo, ma lascia trascorrere il proprio flusso di pixel e connessioni. È informe formato. È semiotica
di una diversa naturalità del mondo, che ha il suo grado zero dentro la rete.
Scriveva Algirdas J. Greimas a proposito del contratto di veridizione: “le concept de vraisemblance est
nécessairement soumis à un certain relativisme culturel, qu’il correspond, géographiquement et
historiquement, à telle ou telle aire culturelle qu’il est possible de circonscrire” (1983, p. 103).
La ridefinizione che ne dà il contesto presente interviene direttamente nella qualificazione dei materiali
immateriali del digitale, il cui valore di rappresentazione è direttamente proporzionale alla capacità di
restituzione dell’effetto di realtà, secondo un concetto di reale che dosa l’intensità del suo effetto sul
mondo e sull’ideologia di riferimento.
Quello che ci appassiona, è che questa ridefinizione del mondo “naturale” rimette l’accento su una
logica dei sensi ancorata in formanti ritmici che precedono l’ancoraggio figurativo.
Se è vero che la realtà è un significato che dipende dalla conformità alle regole culturali condivise, ecco
che la plausibilità diventa condizione sufficiente per considerare questi “nuovi materiali” digitali come
sostituti a pieno titolo di quelli a noi più consueti. In un altro mondo, però. La smaterializzazione distrae
il valore dalla qualità materiale e ci obbliga di necessità a riconsiderare che cosa il valore stesso è: ecco
perché le contestualizzazioni digitali del gaming, che si fondano sulla verosimiglianza, sono apparse da
subito come l’humus naturale in cui permettere a questo nuovo immaginario di espandersi, rovesciando
l’assiologia del contratto con i destinatari, verso un riconoscimento del valore che non può più essere
descrittivo ma è subito soggettivo e modale.
Ci sono due modi, scriveva Deleuze in Logique de la sensation, “di superare la figurazione (cioè insieme
l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta oppure verso la Figura” (1981, p. 85). E la
Figura, che Deleuze riconosce in Cézanne e Bacon, è la potenza di un’unità originale dei sensi che
funziona come un dispositivo ritmico, “il mio io che si apre al mondo e che apre il mondo” (ibidem, p.
99): insignificanza apparente della riconduzione referenziale, sensazionalità e insensato di un’artificialità
naturale che ci chiede di rinunciare all’ovvietà del riconoscimento materiale.
228
Bibliografia
Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization, Minneapolis, University of
Minnesota Press.
Calefato, P., 2021, La moda e il corpo, Roma, Carocci.
Ceriani, G., 2018, “Vedere e credere: dalla mutazione dei materiali all’oggetto in presenza”, in Id., Cavalli al
galoppo e pomodori, Milano, FrancoAngeli.
Corrain, L., Vannoni, M., 2021, Figure dell’immersività, in Carte Semiotiche, Annali 7.
Deleuze, G., 1981, Logique de la sensation, Paris, La Différence; trad. it. Logica della sensazione, Macerata,
Quodlibet 1995.
Dourish, P., 2017, The Stuff of Bits: An Essay on the Materialities of Information, Cambridge (Mass.), MIT Press.
Fontanille, J., 1995, Sémiotique du visible. Des mondes de lumière, Paris, PUF.
Greimas, A. J., 1983, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Seuil.
Greimas, A. J., Courtès, J., 1986, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage II, Paris, Hachette.
Hjelmslev, L., 1943, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse; trad. it. Fondamenti di teoria del linguaggio, a cura
di G. Lepschy, Torino, Einaudi 1987.
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] | La materia dello spirito: ontologia o semiotica?1
Francesco Galofaro
Abstract. In the first part of the paper the notion of matter will be considered as purport or mening (meaning)
without metaphysical connotations. It will be also meant as inherence, i.e., the orientation of the subject towards a
value. Starting from a semiotic work on the purport, in fact, some characteristics become the form of value in view
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Damascene, Thomas Aquinas, Teresa of Avila, Leibniz, Florensky and Wittgenstein, construct the metaphysical
opposition between matter and spirit by attributing different values to the two terms. Thus, purport precedes matter
in the ontological acceptation. The third part summarizes the first two: there is no pre-semiotic or extra-semiotic
matter; the discourse about ontology can think of matter only within a semiotics of value. In this frame, the principle
of inherence will be considered as an operator who organizes purport (meaning) into a value and a subject for
whom such a value is worth through semiotic work.
1. La “materia” come purport
Nella traduzione italiana di Hjelmslev (1943) la tripartizione forma/sostanza/materia segue
essenzialmente la versione francese (forme/substance/matière). Ne deriva una inevitabile analogia con il
concetto aristotelico di synolon, foriero di molte confusioni filosofiche e di derive ontologiche non
sempre produttive, oltre all’esclusione della materia dall’indagine della significazione, dato che essa non
è conoscibile se non tramite una forma. Proprio da questa esclusione sono sorte in passato serie difficoltà
nel dialogo tra semiotica e discipline che hanno molto a che fare col materiale, dalle arti figurative al
design, che gli articoli contenuti nel presente volume intendono superare.
Dal punto di vista che qui intendiamo sviluppare, l’esclusione della materia sorge entro la ricezione del
pensiero di Hjelmslev in ambito francese e italiano, a causa delle connotazioni metafisiche del termine
matière; la traduzione inglese di Francis J. Whitfield, approvata dall’autore, usa il termine purport.
Secondo il dizionario Merriam-Webster online, purport significa “meaning conveyed, professed, or
implied : import; also : substance, gist”. Dunque, purport non è la materia nel senso, ontologico, di “ciò
che costituisce tutti i corpi” (Treccani online). Purport è un “argomento in genere, soggetto di cui si
tratta in una conversazione, in una conferenza, in un libro, ecc”. È il “succo del discorso”, il “nocciolo
della questione”. Sempre secondo il Merriam-Webster online, il verbo to purport originariamente aveva
il valore di “significare”; ha acquisito nell’inglese contemporaneo la sfumatura di intendere, implicare;
dunque, se ha un qualche genere di interesse filosofico, la c.d. “materia” ha a che vedere con la
problematica dell’intenzionalità più che con la metafisica.
Forti di questa prospettiva, si ritorni sul noto passo dei fondamenti:
1Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council (ERC) nell’ambito del programma
di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea (convenzione di sovvenzione n. 757314).
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Così troviamo che le catene:
jeg véd det ikke (danese)
I do not know (inglese)
je ne sais pas (francese)
en tiedà (finlandese)
naluvara (eschimese)
nonostanti le loro differenze, hanno un fattore in comune, cioè la materia, il senso, il pensiero stesso
(Hjelmslev 1943, p. 55).
Nella versione inglese troviamo: “despite all their differences, have a factor in common, namely the
purport, the thought itself” (Hjelmslev 1943, p. 50 della trad. ingl.) . Il traduttore italiano, Giulio
Lepschy, è costretto a specificare che per “materia” si intende senso; d’altronde, nella sua introduzione
(Hjelmslev 1943, p. xxiv) si legge che il termine danese usato da Hjelmslev è mening. Il termine
ricorda anche foneticamente il meaning inglese, ma vale anche come “opinione” e si colora di
sfumature cognitive ed ermeneutiche.
Il mening, tradotto col termine ontologicamente connotato di “materia”, è stato identificato grossomodo
col supporto o con il canale della teoria dell’informazione (l’aria, la carta e tutto ciò che si presta ad
essere formato dalla lingua). In questa prospettiva, restava oscuro e misterioso in che senso il pensiero
fosse una specie di “supporto” della forma del contenuto. Ma se traduciamo mening con “senso,
argomento”, a costituire un mistero non è più cosa sia la materia del piano del contenuto. È anzi piuttosto
chiaro che la materia del contenuto è una sorta di presa molare sul senso, anteriormente all’analisi vera
e propria; è il gist, il nodo in discussione, il punto di cui si tratta. Il concetto meno intuitivo diviene
piuttosto il purport–expression, ossia il senso dell’espressione. In altri termini, non è che Hjelmlsev
estrapoli al piano del contenuto una nozione che ricava dallo scarto residuale dall’analisi del piano
dell’espressione; è piuttosto il contrario. Una cosa è certa: Hjelmslev non sembra intendere la carta, la
tela, in un senso “ontico”: in che modo, infatti, i pixel dello schermo su cui scrivo potrebbero essere
intesi come senso dell’espressione?
I problemi non finiscono qui: una volta identificata la materia al senso, come intendere, la seguente,
notissima affermazione?
La materia è dunque in se stessa inaccessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni conoscenza
è un’analisi di qualche tipo; la materia si può conoscere solo attraverso una qualche formazione, e non
ha quindi esistenza scientifica indipendente da tale formazione (Hjelmslev 1943, p. 82-83).
È chiaro che Hjelmslev parla di una inconoscibilità ad un livello epistemologico, e non gnoseologico,
altrimenti il senso di una qualsiasi frase sarebbe inconoscibile; non solo: a rigore egli stesso dovrebbe
astenersi dallo scrivere alcunché sulla materia. E invece si spinge fino a darne una definizione formale:
la materia è una “classe di variabili che manifestano più di una catena entro più di una sintagmatica, e/o
più di un paradigma entro più di una paradigmatica” (Hjelmslev 1943, p. 148). Poiché la sostanza è la
variabile in una manifestazione, la materia è una classe di sostanze. È quindi difficile accogliere la
proposta di Eco, che – a suo dire, alla luce della semiotica peirceana – propone di identificare la materia
ad un unico continuum (Eco 1984, p. 52). Infatti, intendendo la materia in termini di purport, ciò
equivarrebbe a dire che esiste un unico senso, un unico argomento. Dalla definizione non si deduce
l’esistenza di un’unica classe di sostanze. Dovremmo piuttosto pensare a un pluralismo delle materie e
dei sensi, ovvero delle classi di sostanze costruibili entro uno stesso piano (dell’espressione e del
contenuto) o tra i piani.
231
1.1. La materia tra differenza e inerenza
A mio parere, la materialità del senso messa in gioco dal purport si comprende meglio se la
consideriamo non tanto come differenza, con Saussure (non usciremmo infatti dal paradosso della sua
inconoscibilità al di fuori della forma) quanto piuttosto come inerenza: il significato per un soggetto è
investito in un oggetto che ha valore per lui.
Il principio di inerenza, da parte sua (posizione del soggetto), risponde alla nozione fenomenologica di
valore, al tipo di valore che giustifica la correlazione fondamentale soggetto-oggetto all’interno della
nozione fenomenologica di intenzionalità. Si tratta di plasmare una relazione orientata, vettorializzata
da una dinamica che è quella di dare senso, o, se si vuole, di coglierlo (Marsciani 2014, p. 18).
Chiaramente, differenza e inerenza si presuppongono come la nozione di costante presuppone la nozione
di variabile, senza che vi sia l’una anteriormente all’altra, senza che ciascuna di esse si dia senza l’altra in
senso assoluto – a dircelo è anche la definizione hjelmsleviana della materia come classe di variabili.
Nella semiotica di Greimas, il valore non può essere sic et simpliciter identificato con il purport. Al
contrario, il concetto saussuriano di valore linguistico, “ha permesso l’elaborazione del concetto della
forma del contenuto (L. Hjelmslev) e la sua interpretazione come insieme di articolazioni semiche”
(Greimas, Courtés 1979, p. 375). Dunque, il valore è forma in quanto è il risultato di un’analisi. Tuttavia,
nella brevissima voce che Greimas dedica alla materia, scrive:
L. Hjelmslev usa indifferentemente i termini materia o senso applicandoli insieme ai due
‘manifestanti’ del piano del contenuto. La sua preoccupazione di non-impegno metafisico è qui
evidente: i semiologi possono dunque scegliere a loro piacimento una semiotica ‘materialista’ o
‘idealista’ (Ibid., p. 209).
Ciò che sembra contare, dunque, non è tanto che il valore appartenga a uno dei due piani (nella
fattispecie, quello del contenuto), quanto l’attribuzione di valore da parte di un soggetto che fa presa su
questo o quell’aspetto della materia, così formandola: dar valore (o far valere) è un’operazione di
“ritaglio”; è una “selezione”; è distinguere ed evidenziare.
Un esempio può venire dall’oculistica: la leggerezza di un paio d’occhiali è senza dubbio una proprietà
formale, relazionale, risultante da una combinazione dello spessore delle lenti e del materiale della
montatura. Detto questo, è anche il risultato dell’orientamento del soggetto che attribuisce un valore
all’oggetto (inerenza). Nella scelta di un paio d’occhiali, la leggerezza è una tra le proprietà fondamentali
che permette l’incorporazione dell’oggetto (si veda anche Marsciani 2008 per quanto riguarda
l’incorporazione delle calzature).
Il sapere degli oculisti, codificato nella cultura, include le proprietà formali (pratiche, estetiche …)
ricavabili, dunque valorizzabili, attraverso il lavoro su una data materia. Allo stesso tempo, nella
produzione di un oggetto nuovo si dà una ricerca del valore virtuale che mira a oltrepassare i limiti
dell’attuale. Si tratta di un lavoro semiotico esercitato sulla materia per produrre, modificare, sostituire
forme dell’espressione e del contenuto e per correlarle (Eco 1975, 3.1.2.). La leggerezza dell’occhiale, in
quanto forma del valore, è frutto di un qualche genere di selezione e di ritaglio: esso si effettua sulla
materia-purport – il metallo che si lascia formare in aste sottili, il vetro puro che si lascia ritagliare in
geometrie prive di difetti. Un senso globale, il purport, si presta a un lavoro semiotico di valorizzazione,
di informazione: si presta insomma a divenire forma del valore.
Nella prossima sezione, mi occuperò di un caso studio importante: quello dell’opposizione formale tra
materia e spirito. Nonostante le diverse epoche abbiano costruito la relazione tra i due valori in modi
molto diversi, la nozione di purport e il principio di inerenza permetteranno di cogliere fenomeni
comuni e tendenze di fondo, rivelandosi – almeno spero – piuttosto utili nella pratica d’analisi
232
2. La materia e lo spirito
Materia e spirito sono in primo luogo due valori semantici che caratterizzano il discorso religioso
occidentale, in larga parte cristiano, nella misura in cui esso la eredita l’opposizione forma/materia dalla
filosofia greca e l’assimila all’opposizione tra anima e corpo o tra spirito e carne. Tale opposizione risulta
dall’analisi del linguaggio - oggetto del discorso religioso e non va confusa con quella tra forma, sostanza
e materia che caratterizza il metalinguaggio semiotico. Per evitare confusioni, d’ora in avanti riserviamo
il termine ‘materia’ al linguaggio oggetto e il termine purport o mening al metalinguaggio.
Lo scopo che mi propongo, in primo luogo, non è una ricostruzione delle complesse vicende e
incarnazioni dello spirito attraverso i millenni, quanto ridurre questa complessità a un numero finito di
opposizioni che normalmente ricorrono nei testi. Come vedremo, infatti, tra materia e spirito si sono
date per lo meno le seguenti relazioni:
1. Antonimia: spirito e materia sono contrari;
2. Opposizione privativa: la materia è assenza di forma (spirito) e viceversa;
3. Inclusione: lo spirito è contenuto nella materia;
4. Partecipazione: lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva “materia”, la
quale lo comprende al proprio interno.
In ciascun caso è possibile ricostruire diversi investimenti forici che trasformano tali opposizioni in
assiologie. Qui di seguito presenterò i relativi esempi e cercherò, attraverso il principio di inerenza, di
render conto del purport di partenza.
2.1. La carne e lo spirito
Generalizzando, nel cristianesimo si assiste a una difficile convivenza tra due cosmologie più o meno
implicite: la prima considera la materia come un male da cui liberarsi, rasentando a tratti lo gnosticismo;
la seconda la vede come parte del creato, e dunque non può associarle un valore del tutto negativo.
Innanzitutto occorre sottolineare come l’opposizione spirito-materia non sia familiare all’ebraismo:
L’imitatio Dei non divide nell’ebraismo l’essere umano in due sfere distinte, una corporale e una
spirituale, bensì va perseguita con tutto il néfesh, con l’integralità della persona. Anche il corpo
dunque va santificato, dalla nascita (attraverso la circoncisione) fino alla morte (con le pratiche di
cura del corpo del defunto, che non va dissacrato né distrutto, per esempio con la cremazione)
(Volli 2022, p. 29).
L’antonimia spirito/carne (sarx) organizza l’assiologia della lettera di Paolo ai Romani:
Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso
possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato,
egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non
camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rm 8, 3-4).
La sintesi tra pensiero ebraico e greco costituita da tale opposizione è originale (Volli 2022, p. 16).
Secondo il commento della TOB (1988, pp. 2590 - 2591, 2571-2, n. g), il passo abbonda di relazioni con
altre lettere paoline mentre è singolarmente privo di riferimenti intertestuali ai vangeli.
Ad essere precisi, l’antonimia spirito/carne non ha un valore assoluto nemmeno in Paolo: “carne” può
valere anche come “umanità”, la quale non può essere giustificata attraverso le opere (Rm 3, 20) oppure
come debolezza umana incline al peccato (Rm 7, 25). Nel passo riportato sopra, tuttavia, essa ha un
valore di norma etica (vivere secondo la carne/secondo lo spirito). “Carne” è l’economia mosaica (BDJ
233
1998, p. 2668): non si può pensare di costringere Dio a salvarci rispettando formalmente l’insieme di
norme dell’antico testamento; dopo la resurrezione di Cristo, le opere si compiono con la forza dello
Spirito. La lettera è indirizzata alla comunità romana e, come è noto, si propone di prevenire divisioni
tra i convertiti di origine ebraica e pagana.
Chi ha provato a ricostruire l’insegnamento orale di Cristo attraverso le tracce che esso lascia negli scritti
di Paolo riscontra piuttosto una convergenza tra Rm 8, 26 e la nozione gesuana di Spirito come
soccorritore (Walt 2013, pp. 348 – 350). È innegabile l’assonanza con Mt 26, 41: “Vegliate e pregate, per
non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Tuttavia, nelle parole che Gesù
pronuncia sul monte degli ulivi, in un momento di angoscia, non risuona una vera antonimia. Anche la
TOB (1988, p. 2307, n. w) riconosce in Gesù un insegnamento più vicino ad alcuni testi ebraici
dell’epoca, secondo i quali “Dio ha messo nell’uomo uno spirito orientato verso il bene, ma l’uomo è
nello stesso tempo tutto carne in quanto è sottomesso al potere del peccato”: avremmo insomma
un’opposizione partecipativa (la parte vs. il tutto che la comprende).
Anche negli scritti giovannei – Gv 1, 14: et verbum caro factum est – la carne rappresenta “la natura
umana con le sue possibilità e i suoi limiti, e, più ampiamente l’esistenza terrena senza alcuna sfumatura
peggiorativa” (TOB 1988, p. 2424, n. p). Insomma, il punto di vista di Paolo, secondo cui carne e spirito
sono antonimi, è originale. Del resto, il suo stile di scrittura era incline alla figura retorica dell’antitesi
(Walt 2013, p. 317).
Non sarebbe corretto, tuttavia, ascrivere genericamente al pensiero greco che risuona in Paolo la
svalutazione della materia. Ad esempio, in pieno medio-platonismo, idea e materia sono entrambe
valorizzate positivamente:
La natura migliore, quella più divina, si compone di tre parti, ossia il principio intelligibile, la materia,
e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile
con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di
nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione (Plutarco 1985, p. 122).
Nel passo citato, Plutarco interpreta il Timeo di Platone sottolineando soprattutto la metafora
matrimoniale e generativa tra idea e materia. Proprio in quanto antonimi, idea e materia danno vita al
cosmo, termine complesso che li comprende entrambi, e non sembrano opposte assiologicamente.
Plutarco (Ivi) divinizza la relazione
forma
materia
} cosmo
stabilendo un parallelo con gli dèi egizi Osiride (origine), Iside (ricezione) e Horos (compiutezza).
L’identificazione della materia con una sede ci mostra come la presunta antonimia tra materia e forma
possa essere riarticolata come rapporto di inclusione, contenitore/contenuto, su cui ritornerò nel
prossimo paragrafo2. Il male non coincide di per sé con la materia; per Plutarco esso è piuttosto l’effetto
di un’anima malvagia, titanica, irrazionale, volubile, insita nella materia. Tale anima è impersonata dal
personaggio di Tifone che uccide Osiride (cfr. Reale, 2018, pp. 1847, 1850, 1852-1854).
Detto questo, l’opposizione paolina tra materia e spirito, entro cui la prima è valorizzata negativamente
e il secondo positivamente, organizza ancora di fatto la nostra cultura sopravvivendo ai fenomeni di
secolarizzazione connessi alla nascita del capitalismo (Berzano 2017). Si ritrova, ad esempio, in un
2A una sensibilità contemporanea, tuttavia, non sfugge il fatto che nella cultura greca il principio maschile è
generatore, mentre quello femminile è ridotto a mero contenitore (Pazé 2023, pp. 101 – 102). Si potrebbe definire
una sorta di utero in comodato d’uso.
234
filosofo laico come Ludwig Wittgenstein, che la attribuisce a Tolstoj (1881) nel proprio diario segreto,
scritto in codice durante la Prima guerra mondiale:
12.9.’14
Le notizie diventano sempre peggiori. Stanotte ci sarà uno stato di allerta generale. Lavoro un po’
di più o un poco meno ogni giorno, e mi sento abbastanza ottimista. Mi ripeto sempre le parole di
Tolstoj: “L’uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito”. Possa lo spirito essere in
me. Nel pomeriggio il sottotenente ha udito dei colpi nelle vicinanze. Ero molto agitato.
Probabilmente verremo posti in stato di allarme. Come mi comporterò quando si comincerà a
sparare? Non ho paura di essere ucciso, ma di non compiere fino in fondo il mio dovere. Dio mi
dia forza! Amen. Amen. Amen (Wittgenstein 2021, p. 50).
Nella lettura di Wittgenstein, che adatta Tolstoj alla propria angosciosa esperienza esistenziale, lo Spirito
è il destinante che consente la liberazione dell’uomo da uno stato miserabile caratterizzato come un
paradosso modale (dover e non poter fare). Lo Spirito e Dio dotano l’uomo di un poter fare. Il valore
verso cui si orienta Wittgenstein è il compimento del proprio dovere di filosofo e ricercatore, che può
essere interrotto in qualsiasi momento dalla morte.
Quale purport è in gioco qui? Le condizioni estreme di pericolo che caratterizzano l’esperienza
raccontata nei diari lasciano emergere immagini quali sirene d’allarme, fucilate nel buio, panico tra i
soldati sotto attacco. Tale purport viene riorganizzato grazie all’opposizione formale materia/spirito, fino
a venire valorizzato nonostante tutto dal credente nella misura in cui egli è in grado di ri-categorizzarlo,
attraverso un lavoro semiotico, come “prova”.
2.2. Tomaso d’Aquino tra ontologia e semiotica
Come si è detto, il discorso filosofico non può trattare il tema ontologico della materia se prima essa
non è considerata come purport. Questo appare chiaro quando un testo filosofico assegna un valore
forico alla materia. Solitamente, ciò avviene senza che chi scrive se ne mostri consapevole; tuttavia,
Tomaso d’Aquino (De spiritualibus creaturis) presenta il problema in forma esplicita.
Tomaso sottolinea lo scarso consenso dei teologi nel considerare la sostanza spirituale come composta
da materia e forma. Da un lato, infatti, Dionigi Areopagita pensa gli esseri spirituali come il grado di
perfezione più prossimo a Dio, ovvero all’atto puro privo di potenza, puramente intellettivo, senza
bisogno di quella materia che è imperfetta, incompletissima inter omnia entia. D’altronde, ogni forma
creata è limitata e definita attraverso la materia; dunque non vi sono sostanze create prive di materia:
questa almeno era l’opinione corrente nel XIII secolo, sulla scorta di Avicebrol, contro la quale
argomenta Tomaso.
Al di là del retroterra filosofico di Tomaso e della sua personale soluzione al problema, per la quale si
può rimandare a Sofia Vanni Rovighi (1973, pp. 50-52), egli nota come il dibattito filosofico metta in
gioco due sensi distinti del termine “materia”, spesso confusi: “ad huius veritatis inquisitionem, ne in
ambiguo procedamus, considerandum est quid nomine materiae significetur”. In senso proprio e
generalmente accettato, la “materia prima” è identificata come pura potenza, senza delimitazioni,
incompleta, ma in grado di venire definita dalla forma. In questo primo senso, la materia prima è definita
negativamente, è privazione di forma; d’altro canto vi è un secondo senso, meno comune secondo
Tomaso, per il quale ogni potenza è chiamata materia, ogni atto è chiamato forma, e ogni atto
presuppone la propria potenza. In questo secondo senso, la “materia” è solo il terminale di una relazione
che la precede, ovvero l’esistenza.
Dal punto di vista che qui mi interessa sviluppare, la “materia” presenta nei discorsi teologici due distinti
purport-mening. Il principio di inerenza aiuta a comprendere come ciascuno di essi sia frutto di una
relazione intenzionale tra la materia e un soggetto per la quale ad essa può essere attribuito un valore,
235
positivo o negativo. Il soggetto può attribuire un valore alla perfezione: in tal caso, la materia è imperfetta
(priva di perfezione) e lo spirito è privo di tale privazione. In alternativa, il valore è attribuito alla
creazione, nel qual caso lo spirito è ricevuto dalla materia per venire all’esistenza: si stabilisce allora tra
i due una relazione di inclusione. In questa seconda accezione, la materia non è più l’antitesi dello
spirito, perché è in grado di riceverlo e ne è la sede.
2.3. Corpo e spirito nell’ascesi
La questione di Tomaso non era puramente speculativa, ma coinvolgeva, da un punto di vista
sociosemiotico, diverse forme di vita circoscritte dal discorso cristiano. Come si è detto, infatti,
l’opposizione tra forma e materia sono centrali in alcuni sottogeneri specifici del discorso religioso quali
l’ascesi o la mistica. Per esempio, le agiografie abbondano di digiuni strenui, di mistiche in grado di
nutrirsi per anni di una sola ostia al giorno; in realtà i consigli dei padri del deserto ai loro figli spirituali
erano molto chiari sulla necessità di non causare danni irreparabili al corpo, creato da Dio:
Uno dei padri raccontò che vi era alle Celle un anziano vestito di stuoia, che lavorava con molto
zelo. Un giorno che si era recato presso l’abate Ammonas, questi, vedendolo rivestito di quella
stuoia, gli disse: “Ciò non ti serve a niente”. L’anziano gli confidò: “Ho tre pensieri che mi
tormentano: il primo mi spinge a ritirarmi in qualche parte del deserto; il secondo a raggiungere
paesi stranieri dove nessuno mi conosca; il terzo a rinchiudermi in una cella dove nessuno mi possa
vedere e a mangiare solo ogni due giorni”. L’abate Ammonas gli rispose: “Nessuna di queste tre
cose è conveniente per te; continua piuttosto a vivere nella tua cella, mangia un poco ogni giorno,
custodisci sempre nel tuo cuore la parola del pubblicano che si legge nel Vangelo, e potrai essere
salvo (Campo, Draghi 1975, Ammonas, 4).
Se ci si chiede quale sia qui il purport in gioco, ci si imbatte nel grande tema dell’accesso allo spirito
attraverso il corpo. L’inerenza chiama in causa il valore perseguito dal soggetto, rappresentato dal
perfezionamento spirituale. Il racconto contrappone due opposte valorizzazioni foriche: una radicale
mortificazione del corpo o una rinuncia moderata, metodica e costante. In termini di semiotica narrativa,
nell’ascetismo estremo il valore di base di base (la salvezza) è sostituto da valori d’uso (estraniamento,
solitudine, digiuno), sanzionati negativamente dal Destinante incarnato da Ammonas. La moderazione
e la metodicità nella rinuncia, suggerite dall’abate Ammonas, ricordano all’anziano che l’atletismo
spirituale non deve in nessun caso sostituirsi al fine della vita eremitica, poiché in questo modo la
vanagloria (quella del fariseo cui fa riferimento il passo evangelico citato) impedisce la salvezza.
2.4. La materia dell’icona
L’antonimia paolina non toglie nulla al mistero dell’incarnazione: se la materia è così vile, come ha
potuto Dio farsi uomo? Nell’VIII secolo, Giovanni Damasceno si pone proprio questa domanda nel
difendere le icone. Disprezzata dagli iconoclasti, che egli paragona per questo ai manichei, la materia
ha purtuttavia un valore. Non si tratta del sacro: nell’immagine si venera il prototipo che essa raffigura,
la trasmissione del sacro è una proprietà formale della relazione tra tipo e occorrenza. Il valore della
materia consiste piuttosto nella sua capacità di ospitare, di racchiudere questo valore:
[…] onoro e tratto con venerazione anche tutta l’altra materia attraverso la quale è avvenuta la mia
salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina. O forse non è materia il legno della croce,
esso infinitamente felice e beato? Non è materia il monte venerabile e santo, il luogo del Golgota?
Non è materia la roccia donatrice e apportatrice di vita, tomba santa, fonte della nostra resurrezione?
236
Non è materia l’inchiostro ed il santissimo libro dei vangeli? Non è materia la tavola vivificante che
prepara per noi il pane della vita? Non sono materia l’oro e l’argento con cui si approntano croci,
patene e calici? E prima di tutte queste cose, non sono materia il corpo ed il sangue del Signore? E
quindi, elimina il culto e la venerazione di tutte queste cose! Oppure concedi alla tradizione della
Chiesa anche la venerazione delle immagini santificate dal nome di Dio e degli amici di Dio, e per
questo motivo adombrate dalla grazia dello Spirito Santo! (Giovanni Damasceno 1983, pp. 46-47).
Anche in questo caso, si parte da un purport consistente in roccia, legno, inchiostro, oro, corpo e sangue.
Per il principio di inerenza, essi assumono un valore spirituale per un soggetto credente. Si immagini un
pellegrino, per il quale i paesaggi rocciosi che attraversa sono solidi e immutabili come la verità che egli
insegue, pur avendola già dentro di sé. Nel caso presente, la relazione tra spirito (qui assimilato alla
forma) e materia non è più antonimica; è piuttosto una relazione di complementarità, la medesima che
si dà tra contenitore e contenuto. Questa relazione si trova ancora nel XX secolo in Florenskij:
Nella consistenza del colore, nel modo di applicarlo sulla superficie corrispettiva, nella struttura
meccanica e fisica delle superfici stesse, nella natura chimica e fisica della materia che lega i colori,
nella composizione e nella consistenza dei solventi e dei colori stessi, nelle lacche o altre sostanze
fissanti dell’opera dipinta e in altre sue “cause materiali”, già è espressa direttamente anche quella
metafisica, quella profonda percezione del mondo che la volontà creativa dell’artista cerca di
esprimere attraverso la data opera come insieme unico (Florenskij 2008, p. 82).
Poiché l’insieme di queste cause materiali non è una scelta dell’artista, ma si colloca entro la cultura di
cui egli fa parte, Florenskij dichiara che “la causa materiale dell’opera esprime il senso di un’epoca
perfino più dello stile in quanto carattere comune delle forme in questo preferite” (ivi).
2.5. Etnosemiotica e materia
Mi sono imbattuto in un caso interessante in cui le proprietà del materiale manifestano il senso spirituale
del rito osservato. Nella Chiesa ortodossa polacca, in alcune occasioni speciali, i fedeli si riuniscono in
cerchio intorno al celebrante. A turno si inchinano mentre il presbitero pone loro sul capo una Bibbia.
Ho avuto occasione di assistere al rito a Varsavia, nella Cattedrale di Santa Maria Maddalena, durante
una cerimonia dei vespri, in ottobre 2022.
Ricorrendo ai codici della propria cultura, un osservatore cattolico può interpretar il rito come una sorta
di benedizione. Inoltre, un semiotico potrebbe formulare l’ipotesi che un qualche valore “sacro” si
trasmetta grazie al contatto con il libro, per contiguità, come avviene nei segni indicali di Peirce. Tuttavia,
tale descrizione non è ancora sufficientemente adeguata. Infatti, il significato simbolico è manifestato da
una qualità materiale del volume: la pesantezza. “Al fedele è richiesto di farsi supporto della fede, e il rito
è appagante per coloro che sentono questo bisogno”, mi ha detto il mio informatore, un fedele ortodosso.
Vi è dunque in gioco il purport rappresentato da una qualità (la pesantezza) che viene rivalorizzata per
qualcuno (il fedele), e dunque l’inerenza tra il valore e un soggetto per il quale tale valore vale3.
3
Si intravede qui una direzione di ricerca ulteriore. Infatti, è proprio l’opposizione tra forma e sostanza in
Hjelmslev ad essere partecipativa (cfr. Zinna 2001). Come è noto, Deleuze fu un interprete di Hjelmslev. È possibile
che la piega rappresenti il lavoro semiotico applicato al purport-mening per produrre la forma? Quanto l’attenzione
di Deleuze alla doppia piegatura si deve al suo interesse verso la biplanarità delle semiotiche hjelmsleviane?
Purtroppo, un tentativo di rispondere qui alla questione mi porterebbe lontano dal tema del presente lavoro.
237
2.6. La materia della mistica nel XVII secolo
Un’alternativa più radicale all’opposizione antonimica tra materia e spirito si trova nella cultura barocca.
La spiritualità del barocco in genere è carnale e sensuale: coincide con l’apoteosi dei corpi dei santi
nelle cupole delle chiese, il culto degli organi (il sacro cuore di Gesù), la coprofagia di Santa Margherita
Maria Alacoque. Scrive Deleuze:
Il barocco diversifica le pieghe, seguendo due direzioni, due infiniti, come se l’infinito stesso si
dislocasse su due piani: i ripiegamenti della materia e le pieghe nell’anima. In basso, la materia è
ammassata in un primo genere di pieghe, ed è poi organizzata in un secondo genere di pieghe, nella
misura in cui le sue diverse parti costituiscono altrettanti organi ‘piegati in maniera differente e più
o meno sviluppati’. In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe
senza mai giungere a svilupparle interamente, ‘poiché esse vanno all’infinito’ (Deleuze 1988, p. 5).
Nell’interpretazione deleuziana, ispirata a Leibniz, lo spirito risulta da un ripiegamento formale di
secondo grado della materia, che dapprima si fa corpo (inteso come un insieme di invaginazioni e
cavità), e in seguito sviluppa una seconda interiorità psichica. Quello barocco è un materialismo
spirituale, nella misura in cui abolisce la relazione antonimica tra materia e spirito accentuandone il
carattere di opposizione partecipativa (Hjelmslev 1937). Lo spirito è il termine intensivo che si oppone
alla categoria estensiva delle “materie ripiegate”, la quale lo comprende al proprio interno4.
Leibniz è un autore di ambito protestante; la semisfera cattolica manterrà una distinzione più netta tra
materia e spirito. Nonostante ciò, vi è almeno un ambito in cui l’incarnazione dello spirito tende ad
abolire la dicotomia spirito/materia, ed è la mistica. Come nota De Certeau, alla fine del Cinquecento
la parola “mistica” cessa di essa un aggettivo (teologia mistica) per divenire il nome di una disciplina
sperimentale che fa del corpo un laboratorio mirato alla conoscenza del divino. Si tratta di una reazione
ad una crisi di credibilità del discorso teologico tradizionale ereditato dalla scolastica, e di un recupero
dell’inclusione della spiritualità nella materia.
[...] depuis que la culture européenne ne se définit plus comme chrétienne, c’est-à-dire depuis le
XVIe ou le XVIIe siècle, on ne désigne plus comme mystique le mode d’une «sagesse» élevée à la
pleine reconnaissance du mystère déjà vécu et annoncé en des croyances communes, mais une
connaissance expérimentale qui s’est lentement détachée de la théologie traditionnelle ou des
institutions ecclésiales et qui se caractérise par la conscience, acquise ou reçue, d’une passivité
comblante où le moi se perd en Dieu (De Certeau 1975).
Sempre secondo De Certeau, alla pretesa indicibilità del senso mistico si accompagna la sua
manifestazione psicosomatica. Anche in questo caso, come in quello dell’antonimia spirito/materia, non
si tratta di una opposizione tralatizia: la concezione della mistica sviluppatasi nel corso del XVII secolo
negli scritti di San Giovanni della Croce diviene rapidamente il modello per eccellenza del sapere
cattolico sulla mistica, e in questo modo è ereditato dalla cultura del XX secolo (Da Pietrelcina 1984;
Wojtyła 2003).
Non si tratta di una opposizione del tipo contenitore/contenuto: come abbiamo detto, l’interiorità che
risulta dalla piega di secondo grado è spirito. A entrare nello spirito, ovvero in se stessa, è l’anima:
Può darsi, figlie mie, che ciò vi sembri una stranezza [...] Esiste, in qualche modo, un’evidente
differenza fra l’anima e lo spirito, pur essendo essi una cosa sola Si percepisce una divisione cos
sottile, che a volte l’uno sembra operare in un senso e l’altra in un altro, a seconda di come decide
il Signore (Teresa d’Avila 1577, p. 217).
4
Rinvio la discussione dei problemi metodologici relativi all’osservazione partecipante a una successiva pubblicazione.
238
Anche Edith Stein avverte il contrasto tra l’impostazione scolastica e la spiritualità moderna
rappresentata da Teresa D’Avila, tentando una conciliazione in chiave fenomenologica:
Noi abbiamo cercato di risolvere quest’enigma distinguendo da un lato la differenza contenutistica
esistente fra spirito e materia (che riempie lo spazio) considerati quali diverse categorie dell’essere
[...] e dall’altro la distinzione formale esistente fra corpo, anima, spirito, stando alla quale l’anima è
l’elemento recondito, ancora informe, mentre lo spirito ne è la vita palese, liberamente fluente (Stein
1950, p. 130).
Come vediamo, per risolvere il problema ontologico Edith Stein deve distinguere diverse accezioni in
un medesimo purport (lo “spirito”), confermando il fatto che la nozione semiotica di purport è
condizione di possibilità del discorso ontologico. Al di là della soluzione proposta, è l’interiorità
risultante dalla doppia piegatura descritta da Deleuze a divenire sede per elezione della ricerca del
divino. Il purport consta di cavità, antri, anfratti corporei, che il fedele ri-valorizza, per il principio di
inerenza, in quanto coincidenti con lo spirito.
3. Discussione
Come abbiamo visto, le rispettive proprietà “ontologiche” della materia e dello spirito si producono
entro un genere di discorso che ne costruisce la relazione: antonimica, privativa, di inclusione o di
partecipazione. Secondo il principio di inerenza, i poli della relazione vengono diversamente
assiologizzati a seconda di una relazione di carattere intenzionale per la quale il soggetto attribuisce un
valore ad alcune caratteristiche che seleziona entro un insieme di virtualità presenti in maniera indistinta
nel purport. Non tutti i filosofi si avvedono del fatto che la concezione metafisica della materia che
vanno sviluppando dipende dal significato che le attribuiscono (purport-mening); lo prova l’esempio di
Tomaso, il quale, al contrario, si mostra consapevole della questione.
La materia-purport è il campo d’esercizio di un ritaglio dal quale emerge la forma del valore, per effetto
del lavoro di quel soggetto per il quale tale valore vale. Tuttavia, ciò comporta un problema. Nella
prospettiva strutturalista, adottata da Hjelmslev e alla quale ci siamo rifatti, non può che essere la
relazione di inerenza a porre i propri terminali, a operare sul purport perché ne emergano non solo una
forma del valore, ma anche una forma-soggetto per il quale tale valore vale. D’altronde, il discorso
teologico non si limita ad attribuire valore a Dio ma produce al contempo anche il teologo che ne scrive;
allo stesso modo, il filosofo non preesiste all’ontologia, né il semiotico al senso.
3.1. Il monismo e i suoi rischi
Dagli anni Settanta in poi all’interno del post-strutturalismo sono stati pubblicati diversi lavori in cui il
confine semio-ontologico non è ben chiaro: vi sarebbe una materia pre-semiotica, la quale si auto-
organizza articolandosi e diviene semiotica. Vi è una confusione non del tutto chiarita sui principi che
emergono dallo studio morfodinamico della forma: una confusione mai del tutto chiarita tra morfogenesi
e ontogenesi. In analogia con il discorso religioso, per i tentativi di fondare la semiotica sul monismo
ontologico vale qualcosa di simile a ciò che Leone scrive dell’ascesi:
[...] dal punto di vista semiotico l’ascesi è fondamentalmente racconto del sogno impossibile di
ritornare a uno stadio della generazione del senso ove le differenze che lo producono si annullino
239
nell’unità assoluta, o nell’indistinzione (sogno impossibile perché lì dove le differenze si annullano
non vi è prensione possibile del senso) (Leone 2013).
Inoltre, optare per un modello che faccia discendere la semiotica da una nozione ontologica di materia
è a mio parere un passaggio scarsamente motivato: non si vede perché fondare la semiotica
sull’ontologia; non si ravvisano nell’oggetto d’analisi motivazioni sufficienti; soprattutto, non si vedono
le conseguenze della scelta di questo fondamento per quanto riguarda gli sviluppi della disciplina. Per
un dibattito sull’argomento rimando ad Amoroso et al. (2016).
Inoltre, le descrizioni del passaggio da un monismo pre-semiotico all’articolazione semiotica si collocano
in un ambito prettamente ontologico soltanto in apparenza; come abbiamo visto, l’attribuzione stessa di
un qualche valore al monismo può accadere solo a valle di una semiotica del valore. È ben noto che
Heidegger, dopo essersi posto, in Essere e tempo, il problema del senso dell’esserci dell’essere, non è
riuscito nell’intento di analizzare il senso dell’essere in generale per un limite linguistico:
La terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La
sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato
questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica (Heidegger
1976, p. 94).
Heidegger diviene consapevole del fatto che il linguaggio non è “trasparente” nel porre in rapporto
l’individuo e il reale, e conclude che “il linguaggio è la casa dell’essere” (ibid., p. 44). Vorrei prenderlo
alla lettera: qualsiasi ontologia è il risultato di un lavoro che il discorso filosofico compie sui propri
concetti non solo attraverso una lingua tecnica ma soprattutto entro una semiotica del valore. Nulla ci
obbliga considerare il discorso filosofico come un ambito sottratto all’analisi semiotica, la quale potrà
anzi contribuire a chiarirlo (Marrone 2022). Il giudizio di valore su quel che è “reale” e “non-reale” esita
dal senso che il mondo ha per noi. Dunque: dapprima abbiamo un discorso filosofico il cui purport-
mening consiste nel ricavare valore dalla “materia” per costruire un fondamento ontologico; in seguito,
il discorso filosofico ancora a tale principio primo la significazione stessa. Del resto, i principi di
qualunque insieme d’assiomi sono sempre scelti precisamente sulla base dei teoremi che da essi si
intende dimostrare.
3.2. Per concludere
La nozione di materia- purport che ho difeso fin qui assimila la materia al senso e ne fa qualcosa di
totalmente interno alla semiotica. Naturalmente, se proprio un principio primo generativo del cosmo
semiotico ci dev’essere, ci si può chiedere per quale motivo esso debba essere una materia
differenziabile e non la differenza stessa, ad esempio. La differenza è in grado di produrre, per
differenza, anche l’identità, in quanto la seconda è differente dalla prima. Non vale il contrario: non
è possibile produrre la differenza a partire dall’identità per identità, perché se qualcosa è identico
all’identità esso è proprio l’identità. Non si tratta solo di un sofisma: se consideriamo D e I alla stregua
di operatori, e definiamo I come l’operatore che lascia inalterato il suo ingresso, possiamo scrivere
𝐷2 = 𝐼
240
per tradurre il fatto che la differenza produce l’identità attraverso la differenza e
𝐼2 = 𝐼
per rappresentare il fatto che l’identità, applicata a se stessa, restituisce l’identità. Anche il principio di
inerenza (In) andrebbe considerato come un operatore che, applicato alla materia (M), fornisce come
risultato la giunzione tra un Valore (Ov) e un Soggetto (S) per il quale il valore vale:
𝐼𝑛𝑀 = 𝑆𝑂𝑣
In questo modo, non siamo costretti a postulare un Soggetto originario, il quale è un prodotto
dell’applicazione del principio di inerenza al purport. In analogia con la semiotica testuale, per la quale
il soggetto non è un elemento, ma il prodotto dell’articolazione della categoria proto-attanziale, i soggetti
dell’enunciazione sono il prodotto di una articolazione della materia a partire dal principio di inerenza.
Come si è detto sopra, è precisamente tale processo a restituire “materia formata” (sostanza) attraverso
un lavoro semiotico (Eco 1975) che fa emergere la forma-valore.
241
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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243
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Francesco Piluso, Francesco Pelusi
Abstract. In Crimes of the Future (2022), David Cronenberg comes back to the body-horror genre, by shedding
light on the body and its deformations as symptoms of an ontological degeneration of the human subject. The
human body is constantly involved in a process of hybridization with technologies that strongly alter its physical
traits and undermine its aesthetic abilities. This double-logic of extension and amputation of the body by
technological means is reproduced by the thematic figure of the surgery that, in a world deprived of any aesthetic
and pathemic dimension, becomes a key fetishist form and practice of sense-making in any social domain, from
art to sex. To these surgical operations corresponds an attempt of semiurgical rewriting, aimed to give a meaning
to the “internal chaos” affecting the human body. We assist to a constant tension between such a human necessity
of semiotic and biopolitical control of the body and the inexorable advance of a matter that exceeds its role of
static base for signification and, at the same time, is no longer reducible to a pre-signified substance. The analysis
of the movie serves as a premise for a broader semiotic reflection and theoretical hypothesis: the reconfiguration
of the category /nature vs. (techno)culture/ in a circularity that questions the assiological priority assumed by
nature in western metaphysics, by giving credits to a body matter that has acquired the capacity of becoming
sense in autonomous way.
Il corpo è il grande trasformatore, traduttore, luogo
delle trasposizioni, dei trasferimenti; corpo come
cerniera, come relais, come convertitore, come
luogo dei rovesciamenti e delle metamorfosi.
Francesco Marsciani, Minima Semiotica
1. Il ritorno al body horror di Cronenberg: le mutazioni tecno-materiche del corpo
Crimes of the Future, ultimo film di David Cronenberg presentato al festival di Cannes del 2022, è
stato annunciato come ritorno del regista al genere di cui viene considerato padre fondatore: il body
horror1. La filmografia del regista canadese, infatti, è segnata da numerosi esempi cinematografici
propriamente ascrivibili al genere come Il demone sotto la pelle (1975); Rabid (1977); Scanners (1981);
Videodrome (1983); La Mosca (1986) e Crash (1996). Film in cui le deformità tipiche del body horror
costituiscono un meccanismo narrativo centrale, diversamente da altre pellicole del regista – in cui le
1
Si segnala che nella precedente edizione del Festival di Cannes (2021) la palma d’oro è stata assegnata a Titane
di Julia Docournau. Film ascrivibile al genere del body horror definito dalla critica come erede di Crash di David
Cronenberg del 1996.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
mutazioni corporee assumono un carattere di semplice tematizzazione – che tuttavia si presentano in
continuità con una riflessione di più ampia portata sulla relazione tra linguaggio e materia 2.
L’interesse per questo film – in relazione all’occasione per cui questo contributo nasce 3 – è legato alla
problematizzazione che, in linea con i topoi estetico-narrativi di questo sottogenere dell’horror,
propone della nozione di “materia” e di quelle di “corpo” e “soggetto” che, a partire dalla stabilità
ontologica di questa, assumono caratteri di chiusura e coerenza 4. Le deformazioni fisiche – mutazioni
genetiche, malattie deturpanti e mutilazioni – presenti in questo genere cinematografico attualizzano,
infatti, una prospettiva del soggetto “in metamorfosi” (Braidotti 2006) che mette in crisi un’ontologia
dell’umano stabilizzata sull’indiscutibilità unificatrice del concetto di “natura” che si attualizza a partire
dalla stabilità materica del corpo, arrivando a definirne la mostruosità (Coen 1996) e la relazione
problematica che questo intrattiene con definizioni identitarie comprese quelle di genere (Grant 1996).
A mettere in questione questa funzione stabilizzatrice anche la rappresentazione in questi film del
complesso rapporto che l’uomo intrattiene con la tecnologia. Un rapporto con la macchina che, nella
filmografia di Cronenberg, assume diverse declinazioni passando da una relazione di ibridazione in
parte inspiegata tra corpo organico e materiale inorganico – come in Videodrome (1983) – o resa in
maniera più diretta e violenta – come in Crash (1996) – ad un rapporto più sofisticato e intimo in
Crimes of the Future (2022).
Nel film preso in analisi in questo contributo viene presentata, infatti, una tecnologia che si insinua
nella quotidianità dell’umano accompagnandolo nelle sue attività essenziali, come il mangiare e il
dormire e, come vedremo, in quelle più intime come il sesso. Si assiste dunque a una penetrazione
della tecnologia nel fisiologico che ne ridefinisce i limiti e ne riorganizza le coerenze manifestando
l’inadeguatezza di una prospettiva che oppone in maniera discreta le dicotomie “natura-cultura”,
“organico-inorganico” e “soggetto-oggetto”. Al contrario, la complessità di un’epoca postumana
(Braidotti 2013) – che mette in crisi il rappresentazionismo identitario dell’umano (Butler 1990) –
evidenzia la circolarità che tiene insieme in maniera dialettica (Morin 2001) i binarismi – orientati
assiologicamente – tipici della metafisica occidentale (Derrida 1967). Lo statuto identitario dell’umano
– anche nella sua dimensione biologica – viene riarticolato in un futuro imprecisato, quello di Crimes
of the Future, dove non esistono più dolore fisico e malattie infettive. I protagonisti del film, Saul
Tencer (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), sono una coppia di artisti di fama mondiale che
si esibisce in pubblico in una performance in cui i nuovi organi di origine tumorale prodotti dal corpo
di Tencer – affetto da Accelerated Evolution Syndorme – vengono asportati chirurgicamente. Una
pratica che – sterilizzata del portato disforico del dolore fisico – viene livellata alla performance
sessuale non riproduttiva.
Assistiamo nel film dunque a una riarticolazione dell’umano che opera su due livelli: da un lato le
mutazioni corporee di Saul che dislocano l’agentività – e l’intenzionalità – dal “soggetto-persona”
verso un “corpo-materia” che, rendendosi autonomo nel proprio divenire, si fa soggetto; dall’altro
un’evoluzione dei dispositivi tecnologici che arrivano a mediare anche tutte quelle attività – immediate
– che gli esseri umani condividono con gli altri esseri viventi nella loro dimensione fisiologica a
prescindere dalla connotazione “culturale-tecnologica” che discrimina l’uomo rispetto agli altri esseri
(Morin 2001). Mentre quest’ultime innovazioni tecnologiche sono normalizzate e capitalizzate, nella
2 Si vedano alcuni esempi quali, lo scenario ginecologico in Dead Rings (1988) – Inseparabili nella versione
italiana; l’occhio sfregiato di Carl Fogarty, interpretato da Ed Harris, in An History of Violence (2005) e le ustioni
di Mia Wasikowska in Maps to the stars (2014).
3
Il presente contributo nasce in relazione al nostro intervento tenuto al 50° Congresso dell’Associazione Italiana
di Studi Semiotici “Semiotica Elementale” tenutosi a Palermo dal 1 al 3 dicembre 2022.
4 I tratti di chiusura, coerenza e coesione sono gli elementi che definiscono un testo. Contrariamente, i sistemi
complessi che definiscono la nostra contemporaneità sono caratterizzati dai tratti di apertura, contraddizione e
non-coesione in linea con il modello enciclopedico configurato da Umberto Eco (Paolucci 2010).
245
società rappresentata in Crimes of the Future , vedremo come la sovrapproduzione di organi nel corpo
di Saul rappresenta un’occasione per tematizzare il film in chiave politica. Si avrà modo di evidenziare,
infatti, come nella pellicola si assista ad uno “scontro tra ideologie” in cui agenzie governative operano
affinché venga limitato il reale portato eversivo delle mutazioni corporee del personaggio interpretato
da Mortensen: attraverso un’operazione di controllo razionale, tipica del linguaggio, che conferma
una metafisica della sostanza, viene ribadita la “stabilità” e la “coerenza” del soggetto e del corpo
umano in nome di una “naturalità” in realtà costruita discorsivamente (Butler 1993). Le categorie
caratterizzanti la modernità – le “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (1979) – vengono così a
palesarsi come posizioni di discorso, aprendo di fatto ad una forma di relativismo “semio-culturale”
che si pone subito come atteggiamento critico, dal momento che, nel legame tra visione del mondo e
il modo in cui le diverse culture segmentano a livello semantico e sintattico l’esperienza, “i processi
di mutamento di codice avvengono quando questa interazione non viene accettata come naturale e
viene sottoposta a revisione critica” (Eco 1975, p. 138).
Tuttavia, è importante evidenziare che in Crimes of the Future il corpo esplicita il proprio carattere
mutevole e differenziale proprio in virtù del regime discorsivo e socioeconomico postfordista in cui
questo è continuamente prodotto e riprodotto come base significante da cui estrarre plusvalore
(Cooper, Waldby 2014). Una prospettiva che riduce il corpo, il bios e la vita a oggetti di
interpretazione da sfruttare economicamente (Fumagalli 2007), “allo stato di trasportatori di
informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e capitalizzandoli” (Braidotti 2013, p.
126). La tecnologia presente nel film monitora e manipola digitalmente i dati forniti dai corpi,
esplicitando in questo modo la stretta relazione – di dominio – che il linguaggio intrattiene con la
materia. Un rapporto che, in linea con la svolta semiotica e i successivi sviluppi poststrutturalisti,
implica un portato critico relativizzante – una forma di critica sociale – che tuttavia può arrivare a
ridurre la materia a semplice fattore semiolinguistico.
Con Hjelmslev (1943) ricordiamo, infatti, che la prospettiva semiotica afferma come la possibilità di
accesso alla materia avvenga esclusivamente in quanto questa si offre formata in sostanze. Una
schermatura formale operata dal linguaggio che offre una prospettiva costruttivista che riduce la
materia a passività relazionata ad una recezione tutta umana che la valorizza. Un limite –
antropocentrico – che riduce la materia a semplice significato, reintroducendo di fatto una forma di
“rappresentazionismo ontologico” che un’epistemologia semiotica fondata sulla “relazione” dovrebbe
evitare. Il rischio è quello di riproporre uno squilibrio – orientato assiologicamente – tra le istanze
enuncianti (Coquet 2008) che livellerebbe la materia in una sintesi generalizzante – immanenza –
basata sul linguaggio-forma. Uno sbilanciamento dal lato “semio-culturale” che – contrariamente alla
monodimensionalità semiotica priva di profondità gerarchica (Paolucci 2007) – propone un
riduzionismo ideologico (Eco 1975) che non riesce a rendere conto delle molteplici istanze
d’enunciazione – umane e non – coinvolte nelle mutazioni corporee di Saul Tencer e, più in generale,
nella costituzione dell’ecologia “socio-tecnologica” di Crimes of the Future. In questo senso, l’ultimo
film del regista canadese offre una rappresentazione narrativa di una semiosi materica che esula dalla
simbolizzazione operata dal linguaggio, oltre che un pretesto per avanzare una (auto)critica e una
prospettiva semiotica sul farsi senso della materia.
2. Estensione ed amputazione
In Crimes of the Future , il corpo umano è soggetto a costanti mutazioni ed evoluzioni (Ricci 2011) al
fine di adattarsi all’ambiente esterno, a sua volta in costante cambiamento. Le tecnologie con le quali
l’essere umano entra in contatto sino ad ibridarsi fungono da estensioni protesiche che ne alternano
la facoltà sensibile, la presa estetica sul mondo (McLuhan 1964). È proprio l’estetica di questi
246
dispositivi mediali ad allontanarsi dal tradizionale immaginario cronenberghiano, che tende ad
esaltarne la materialità inorganica, soprattutto nel contrasto, spesso incidentale, con la carne viva –
come avviene in Crash . In Crimes of the Future , invece, ciò che viene messa in scena è una certa
organicità delle apparecchiature tecnologiche, sia per quanto riguarda il materiale di cui sono
composte, sia per il modo naturale e armonico attraverso cui queste si legano al corpo del proprio
utente: dal materiale sintetico, alla sua sintesi con l’organico.
Fig. 1 – Orchibed.
Si prenda ad esempio l’Orchibed (Fig. 1), una sorta di letto sospeso il cui sofisticato impianto
tecnologico è efficacemente dissimulato dalla naturalità che ne caratterizza i materiali, le forme e le
operazioni: il corpo di Saul vi si può adagiare, rigenerare (sia nel senso di riposo che di rigenerazione
dei propri organi interni) e addirittura cullare, raccolto nel guscio di quello che appare come uno
strano esemplare di coleottero gigante o, ai più visionari, una rara specie di orchidea carnivora.
Discorso analogo per quel che riguarda il Breakfaster (Fig. 2), una particolare sedia utilizzata durante
i pasti, il cui scheletro – letteralmente – è costituito da elementi che non solo ricordano visivamente
delle ossa umane 5 , ma si interpongono tattilmente tra i muscoli e gli organi impegnati nella
masticazione e nella digestione, accompagnandone i movimenti.
5
Nel design osseo di questa sedia è forse possibile rintracciare un rimando alla celebre scena iniziale di 2001 Odissea
nello spazio di Kubrick: qui, la nascita della tecnica, e assieme ad essa della civiltà umana, è allegoricamente
rappresentata da un osso di una carcassa animale che da resto organico diviene strumento nelle mani della scimmia che
si appresta a diventare umana in virtù di questa sua estensione; in linea con la prospettiva di Leroi-Gourhan (1943, 1945),
l’ipotesi che si vuole avanzare è che l’ibridazione tra umano e tecnologia una condizione originaria e costitutiva di
entrambi i termini della relazione. Allora, come mostrato nel film di Cronenberg, l’evoluzione dell’essere umano e della
tecnologia non può che rimandare, retrospettivamente, a un percorso filogenetico comune.
247
Fig. 2 – Breakfaster.
A questo movimento di estensione protesica, organica, si contrappone in modo sottile ma estremamente
violento, un processo di amputazione (McLuhan 1964): il corpo umano è ormai anestetizzato e i suoi
sensi narcotizzati dagli stessi dispositivi tecnologici che ne mediano l’esperienza. Si prendano
nuovamente in considerazione l’Orchibed e la poltrona scheletrica: entrambe queste tecnologie
intervengono in gesti e momenti quotidiani, quali appunto dormire e mangiare, al fine di anticipare e
ammortizzare ogni minimo dolore fisico, anche la più lieve ombra di disagio corporale, che tali azioni
possono comportare. Da un’estetica tattile si passa così a una vera e propria ideologia del tatto, inteso
come profilassi, anestesia e tutela dal mondo esterno. Piuttosto che fungere da mediazione tra corpo
umano e ambiente naturale, le tecnologie diventano progressivamente esse stesse l’ambiente ibrido di
cui il soggetto non può che avere un’esperienza impoverita, calcolata per difetto.
In questo modo, Cronenberg ci offre una rappresentazione originale delle bioinfotecnologie e delle
relative operazioni di manipolazione e informatizzazione del soggetto umano di cui si è parlato
nell’introduzione. Ciò diventa particolarmente evidente nel caso del protagonista Saul, dove gli
apparecchi che ne regolano le funzioni vitali vengono continuamente ritarati in funzione delle mutazioni
costanti, quali continua crescita di tumori e di nuovi organi interni, che ne caratterizzano il corpo. La
Accelerated Evolution Syndrome è uno degli effetti perversi dell’ibridazione e anestetizzazione del corpo
umano rispetto al mondo esterno che le tecnologie tentano di limitare e, al contempo, favoriscono, come
una sorta di patologia autoimmune, di virus che si diffonde dall’interno di un corpo sottoposto a una
costante profilassi (Baudrillard 1990). Escrescenze tumorali che, come eccedenze dei sensi e del senso,
continuamente deformano e ridefiniscono i confini del soggetto umano in relazione all’ambiente
circostante: momento esplosivo della dialettica tra estensione e amputazione che stenta a trovare sintesi.
3. Chirurgia e semiurgia
La doppia logica dell’estensione e dell’amputazione trova il proprio sviluppo narrativo nella
concatenazione continua tra questi due momenti; una dinamica che nel film è ulteriormente esplicata
attraverso il tema e la figura della chirurgia. Difatti, in maniera analoga alla tecnologia, la chirurgia
assume un ruolo fondamentale in quanto forma, spesso deformante, di controllo estetico e semiotico del
248
corpo umano. Questo ruolo si esplicita all’interno di diversi campi discorsivi; primo tra tutti, quello
dell’arte. Saul e la sua partner Caprice sono artisti impegnati in delle performance di body art in cui la
chirurgia è, oltre che strategia, una tattica che opera direttamente sul corpo in funzione di una sua catarsi.
In particolare, Caprice, attraverso il SARK – un altro macchinario che esalta la connessione digitale e
la circolarità manipolatoria, nella modalità del far fare, tra corpi organici e inorganici – rimuove
chirurgicamente le escrescenze tumorali di Saul; le parti asportate vengono poi esposte e ammirate dal
pubblico come delle vere e proprie opere d’arte (Fig. 3).
Fig. 3 – SARK, operazione chirurgica.
Il valore artistico dell’organo deriva dalla stessa performance che si presenta come un rituale di
consacrazione, forse addirittura di transustanziazione, dell’elemento “sovrannaturale” in opera d’arte.
Analogamente alla Comunione cristiana, la ritualità della performance è un modo per comunicare, nel
senso di mettere in scena e in condivisione, il miracolo osceno di questa generazione spontanea di
organi; un’operazione che permette di ridare un senso a queste singolarità eccedenti. Dunque, più che
a una rivelazione di una verità profonda, a uno spogliamento della mediazione e apertura dello sguardo
verso l’oggetto in quanto tale, assistiamo a un processo di ri-velazione (Ricci 2008), ossia di costruzione
e istituzione semiotica di un oggetto feticcio che riflette sul proprio codice di valorizzazione e
significazione. All’operazione chirurgica si sovrappone così un’operazione di riscrittura semiurgica
(Baudrillard 1976). A questo proposito, non è un caso che l’organo, prima di essere rimosso, sia
marchiato e tatuato da Caprice (Fig. 4), in modo che – nel successivo momento performativo – ciò che
venga rimarcato e ricondiviso e celebrato sia lo stesso meccanismo di messa in forma semiotica di una
deformità di partenza.
Fig. 4 – Organo tatuato e asportato.
249
L’operazione di riscrittura semiologica è attutata non solo durante le performance artistiche clandestine
dei due protagonisti, ma dalle stesse istituzioni e, in particolare, da alcuni organi interni in via di
istituzionalizzazione, costretti ad operare anch’essi in un regime di semioscurità in attesa di un
riconoscimento ufficiale; tant'è che l’intero film è dominato da un clima di spionaggio, in cui risulta
complicato avanzare una lettura ideologica lineare e individuare con chiarezza l’assiologia dei vari
personaggi, costantemente coinvolti o segretamente infiltrati in piani complottistici che ambiscono a farsi
egemonia, nuova norma. Dopo tutto, è questo l’obiettivo del National Organ Registry, dipartimento
governativo segreto della New Vice Unit, progettato per catalogare e conservare i nuovi organi che i
corpi umani sembrano generare spontaneamente; un tentativo di normazione burocratica che
goffamente si sovrappone, piuttosto che opporsi, al discorso artistico ed estetico portato avanti da
Caprice e Saul – come quando quest’ultimo viene candidato al concorso di “bellezza interna”6 istituito
dallo stesso ufficio: una strategia per svuotare l’escrescenza interna del suo significato profondo,
potenzialmente rivoluzionario, e riportarla a una superficie discorsiva, puramente estetica.
Le cospirazioni di questi attori rispondono tutte alla necessità di una normalizzazione sociale e di una
manipolazione semiotica del “caos interno” che affligge i corpi mutanti. Chirurgia e semiurgia allora
cooperano per separare l’organo dalla sua presunta (sovra)naturalità e reimmetterlo nell’ordine sociale
dominante; al contrario di quanto professato e agito da un gruppo di mangia-plastica, la cui prassi
biopolitica è volta a naturalizzare gli effetti dell’ibridazione tra organico e inorganico per istituire un
nuovo ordine naturale delle cose (§ 5). In ogni caso, che sia a trazione naturalizzante o culturalizzante,
di fatto ciò che viene sancita da queste pratiche discorsive è la natura ibrida del corpo, in quanto
prodotto di un difficile connubio tra natura e cultura ed elemento critico di un ecosistema complesso e
dinamico che elude qualsiasi forma di stabilizzazione ideologica (Latour 1991, 2005).
4. La chirurgia è il nuovo sesso
Oltre che nel campo dell’arte, la chirurgia è figura centrale anche nel dominio discorsivo e politico della
sessualità. Nel film più volte viene ripetuto che “la chirurgia è il nuovo sesso”; tutta una serie di pratiche
erotiche sono infatti legate a operazioni chirurgiche, attraverso cui il corpo umano assume nuova forma e
nuovi significati. Il taglio opera chirurgicamente e semioticamente sul corpo, trasformandolo in quello che
Baudrillard (1976) definisce un “carnaio di segni”; secondo l’autore, mediante il taglio chirurgico non solo
viene scongiurata la castrazione del sesso “reale”, ma caricata di un valore sessuale feticcio ciascuna parte
si erige a partire dallo stesso taglio. Analogamente al caso dell’arte, il rito chirurgico-sessuale:
Non è un gioco di spogliamento di segni, verso una profondità sessuale, è al contrario un gioco
ascendente di costruzione di segni – dove ogni marchio assume un valore erotico grazie al suo lavoro
di segno, cioè di capovolgimento che esso opera da ciò che non è mai stato (castrazione) a ciò che
esso designa al suo posto e in sua vece: il fallo (ivi, pp. 122-123).
Anche in questo caso, dunque, il taglio non si presenta come apertura in profondità verso una natura
intima del corpo, ma come lavoro erotizzante e (an)estetizzante. A questo proposito, risulta
particolarmente emblematica un’altra scena di performance, in cui un artista si esibisce in una sorta di
ballo estatico; la peculiarità e l’efficacia della scena sta nel corpo del danzatore, interamente ricoperto
6
La tematica della “bellezza interiore”, configurazione estetica – non animista – dell’interno della corporalità
umana, è ricorrente all’interno della filmografia del regista canadese. Nell’ambientazione ginecologica di Dead
Rings (1988), ad esempio, Jeremy Irons fa un continuo riferimento ad un ipotetico concorso di bellezza per le
fattezze organiche del corpo umano. In merito ad un approfondimento su questo aspetto si segnala il volume
curato da Michele Canosa (1995).
250
da orecchie o, più precisamente, da padiglioni auricolari impiantati chirurgicamente, che sembrano
amplificarne la capacità sensoriale ed il trasporto fisico (Fig. 5).
Come ci viene però rivelato, in realtà, gli organi in questione non si fanno più mediatori di una
determinata facoltà estetica, ossia non hanno più alcuna funzione uditiva, dal momento che sono stati
espiantati dalla loro naturale rete di relazioni anatomiche e ricuciti lungo la superficie del corpo con una
funzione meramente ornamentale – e solo in questo senso, estetica. In questa scomposizione chirurgica
e riconfigurazione superficiale delle parti del corpo viene a perdersi qualsiasi protensione sensoriale
(così come ribadito dalla bocca e dagli occhi dell’artista cuciti chirurgicamente); l’aspetto estensivo,
ovvero di apertura del corpo al mondo esterno, è talmente estremizzato dalla moltiplicazione e
installazione artificiale di orecchie al punto che il corpo ne risulta saturato e suturato.
Fig. 5 – Performance, estasi e anestesia.
La cerniera che Saul si fa applicare chirurgicamente sul proprio ventre, utilizzata come motivo erotico
nel rapporto sessuale consumato con Caprice, ha un’analoga funzione di suturazione del corpo (Fig. 6).
Fig. 6 – Cerniera e nuovo sesso.
251
Se da un lato la cerniera aperta permette l’esplorazione e la penetrazione degli organi interni, dall’altro,
essa opera una trasposizione di questi stessi organi a un livello superficiale, laddove è possibile una loro
riscrittura semiotica e valorizzazione sessuale feticcia. In questo modo, sono gli stessi organi interni che
vanno a rimarginare il varco aperto dalla cerniera che, richiudendosi, non fa che ri-velare l’intimità del
sesso reale. Il corpo risulta intero e chiuso, fallo esso stesso, proprio in virtù dei tagli che lo configurano
come superficie significante: la sua scomposizione, e ricomposizione, in parti che si significano
reciprocamente, e metonimicamente rimandano al corpo nella sua totalità, esclude qualsiasi possibilità
di rimando metaforico a un significato profondo o a un referente naturale. Per questa ragione, il nuovo
sesso non ha né ragione interna né una finalità esterna: non è attività riproduttiva, ma piuttosto
operazione e passione del corpo, che seduce e, al contempo, esclude, proprio in virtù dell’autonomia,
della coerenza e della perfezione semiologica che lo stesso rituale sessuale gli conferisce. Ed è proprio
lungo queste categorie che si gioca la battaglia ideologica del film: da una parte, l’inesorabilità di una
materia e di un corpo che continuamente si riproduce, evolve e si fa nuovo senso; dall’altro, il tentativo
disperato di un controllo biopolitico e di una manipolazione semiurgica di questa stessa materialità
attraverso la sacralizzazione, la catalogazione, l’estetizzazione e l’erotizzazione – in una parola, la
feticizzazione – di tutte le sue eccedenze di senso.
5. Dare senso al caos interno
La scena di apertura di Crimes of the Future (Fig. 7) introduce uno sviluppo narrativo che, inizialmente
slegato dai protagonisti Saul e Caprice, diventerà chiave interpretativa dell’impostazione ideologica del
film di Cronenberg. In un’ambientazione post apocalittica – una spiaggia con una nave affondata
all’orizzonte – un ragazzino sta giocando con i sassi presenti sul fondale, quando la madre lo invita a
non mettere nulla in bocca e a rientrare a casa. Una raccomandazione solita che un genitore dà ad un
figlio, ma che diviene sospetta quando vediamo lo stesso bambino una volta in casa prendere a morsi un
cestino seduto a terra in bagno, mentre la madre lo guarda di nascosto piangendo. Nella scena successiva
la donna soffocherà il figlio con un cuscino nel sonno e successivamente farà una telefonata – al padre del
bambino – avvisandolo dell’accaduto e di andare a prendere il corpo: “chieda a Lang se ha interesse di
venire a prendere il corpo di quella creatura che chiama figlio […] quella cosa che è Brecken”.
Fig. 7 – Scena iniziale.
La “mostruosità” di Brecken avrà nel film la funzione di mettere in crisi la morfologia dell’umano che
la società di Crimes of the Future garantisce attraverso l’operato delle sue istituzioni. Lo stesso Saul –
che scopriremo agente del governo sotto copertura – avrà modo di rivalutare la propria posizione in
relazione agli accadimenti del film. Alle prese con i disturbi legati alla crescita di un nuovo organo, si
reca insieme a Caprice al “Registro Nazionale degli organi” dove dichiara la sua preoccupazione per il
252
“mutamento” che sta coinvolgendo il corpo umano. Come afferma il dipendente del registro: “Umano
è la parola d’ordine. Ciò che preoccupa è l’evoluzione umana che sta andando per il verso sbagliato.
Che è fuori controllo. È ribelle” 7 . Sono anni che Saul continua a produrre nuovi organi che
puntualmente fa esportare – nella performance artistica con Caprice – in quanto tumori che mettono in
pericolo la regolare funzionalità del corpo. L’ufficio che opera al fine della registrazione di questi nuovi
organi – che avviene attraverso l’operazione semiurgica del tatuaggio8 – è preoccupato dallo sviluppo
di questi in quanto possono anche arrivare ad affermarsi geneticamente, trasmettendosi dai genitori ai
figli, i quali non sarebbero più umani almeno nel senso convenzionale del termine.
Il controllo semiotico, tecnologico e politico operato sui corpi manifesta la propria inadeguatezza in
relazione alla metamorfosi in atto nel corpo di Saul, strettamente connessa alla vicenda del piccolo
Brecken. La “creatività organica” di Saul viene amputata – nell’esaltazione della performance artistica –
in quanto “un organismo deve essere organizzato, sennò è solo cancro artificiale” (Caprice). Ma questa
convinzione comincia a vacillare quando il padre del piccolo Brecken – Lang Dotrice – incontra Saul e
gli propone di fare un’autopsia al corpo di suo figlio nella prossima performance. La volontà del padre
è quella di avere una dichiarazione “molto pubblica” di quello che l’interno del corpo del bambino
rivelerebbe. Contrariamente alla posizione condivisa da Saul e Caprice, per cui la chirurgia artistica
delle loro esibizioni sarebbe un modo di trasformare in arte l’anarchia, Lang è a capo di
un’organizzazione di sovversivi – definiti “mangia-plastica” – che si fanno portavoce di un “fantastico
processo naturale” di sincronizzazione dell’evoluzione umana con la tecnologia. Grazie ad un intervento
chirurgico questi soggetti, infatti, sono in grado di digerire la plastica: “dobbiamo iniziare a nutrirci dei
nostri stessi rifiuti industriali. È destino” (Lang).
L’ultimo film di Cronenberg mette in opposizione, da un lato una prospettiva – attorializzata nelle
agenzie governative e nei due performer – che attualizza una normativizzazione del corpo, attraverso un
controllo semiotico – tecnologico – finalizzato al mantenimento di una certa morfologia dell’umano in
quanto significato stabilizzato da un codice (Eco 1975) che assume carattere di presunta naturalità,
dall’altro, un gruppo di sovversivi, che propone un nuovo rapporto di ibridazione del soggetto con
l’ambiente tecnologico, aperto al divenire. Un’interpretazione questa che vede il corpo in funzione delle
sue potenzialità e non in virtù della sua essenza che definisce una problematica esclusivamente morale
(Deleuze 2007): i processi del divenire sono forme di resistenza al sistema, “in quanto mirano al
potenziamento e all’accrescimento di ciò che i soggetti possono fare (la loro potentia)” (Braidotti 2006,
p. 156). Assistiamo ad uno “scontro tra ideologie” in quanto entrambe le posizioni – anche se
apparentemente opposte – condividono una prospettiva limitata in relazione alla dimensione umana
da cui sono condizionate: la prima tutela la categoria di umano radicata in uno schematismo semantico
del passato; la seconda valuta positivamente la metamorfosi corporea in atto in nome di un umano
che si proietta verso il futuro. L’autopsia da svolgere sul corpo di Brecken ha l’obbiettivo di mostrare
come la mutazione artificiale – prodotta con un’operazione chirurgica in Lang – sia stata ereditata
geneticamente dal figlio producendo una naturalizzazione dell’artificio che legittimerebbe la
metamorfosi agli occhi dell’opinione pubblica, confermando in questo modo come l’effetto
d’indiscutibilità naturale sia in realtà la risultante di una stabilizzazione discorsiva identificata in questo
caso specifico con la fenomenologia riproduttiva.
Nella trasmissione genetica dell’artificio – insabbiata durante l’autopsia del corpo di Brecken –
l’intenzionalità del soggetto umano viene messa tra parentesi in favore di un corpo che, in un percorso
7 Il responsabile dell’ufficio evidenzia come la scomparsa del dolore, come sistema di allerta dell’essere umano,
abbia portato all’affermarsi di una società molto più pericolosa rispetto al passato.
8 Il tatuaggio per la registrazione dell’organo viene criticato da Saul che, in quanto ripetizione della conformazione
dell’organo stesso, lo domina. Non limitandosi ad essere parassitario – in quanto scrittura (Derrida 1967) – pare
tolga significato all’organo ponendo la significazione su di sé: un controllo semiotico che toglie alla materia la
propria capacità di significare.
253
di adattamento con il proprio ambiente tecnologico ed inorganico, manifesta una propria agentività.
Saul afferma più volte di non essere consapevole di quello che accade al suo corpo, dando a quest’ultimo
anche i meriti creativi che sono alla base delle sue performance. Lasciati crescere questi organi assumono
una funzione sistemica relazionandosi tra loro e relazionandosi all’inorganicità della plastica con
funzione digestiva, in una relazionalità che rende l’uomo un’istanza periferica. Le due fazioni, che si
scontrano in Crimes of the Future sulle sorti dell’umano – condividono il limite ideologico del voler dare
senso al caos interno del corpo attraverso una semiotizzazione della materia che non tiene conto
dell’agentività di quest’ultima nella costituzione della realtà sociale. In una continua dinamica di
esplicitazione interpretativa (Peirce) che – analogamente a quanto avviene con la pratica dell’autopsia – è
finalizzata a riempire un corpo che crediamo vuoto di significato attraverso un processo di simbolizzazione.
6. Conclusioni
In Crimes of the Future si assiste dunque ad un continuo debordare della materia rispetto al controllo
semiotico operato dall’essere umano. Questa mutevolezza corporea viene limitata dagli uffici governativi
- in funzione di uno schematismo semantico che definisce politicamente, attraverso una dinamica di
esclusione, il campo di legittimità di ciò che può definirsi umano (Butler 1990) – mentre viene accolta
da quelli che si stanno spingendo pericolosamente oltre il tracciato, i mangia-plastica, per i quali il
mutamento viene letto solo e comunque alla luce di quello che può implicare per il futuro dell’umanità.
Al contrario, il film definisce l’inadeguatezza del limitare la rappresentazione al semplice linguaggio
umano evidenziando come questa sia distribuita in maniera più ampia. Il sistema rappresentazionale
basato sul linguaggio umano è un particolarismo all’interno di un movimento semiosico più ampio che
permette di definire un’antropologia che va oltre l’umano attraverso un’attività di provincializzazione
del linguaggio (Kohn 2013). I “neo-organi” dell’ultimo film di Cronenberg si fanno soggetto del proprio
mutamento fino al raggiungimento di una natura sistemica con funzione di apparato digerente.
Nel mondo postumano (Braidotti 2013) le istanze – umane e non – si relazionano in una continua
riconfigurazione (agency) material-discorsiva per cui il significato non è né intralinguisticamente
conferito né extralinguisticamente riferito, ma è definito a partire da continue pratiche di rielaborazione
di confini, proprietà e significati (Barad 2007). È necessario, dunque, non limitare l’enunciazione ad una
prospettiva condizionata dalla priorità conferita al soggetto umano, quanto piuttosto riassegnarli una
fisionomia impersonale ed evenemenziale che redistribuisce questo sbilanciamento gerarchico in favore
della polifonica eterogeneità delle istanze enuncianti (Paolucci 2020; Latour 2002, 2017). Le mutazioni
corporee di Crimes of the Future sono infatti fuori dal controllo dell’intenzionalità del soggetto
fenomenologico manifestando una propria capacità di farsi senso, contrariamente ad una prospettiva
che identifica il lavoro d’interpretazione basato su convenzioni culturali come l’unica possibilità per
la materia per non apparire a-semiosica (Eco 1990, p. 181). Un atteggiamento che stabilisce la natura
culturale di qualsiasi mondo (ivi , p. 255) definendo la semiotica come forma di critica sociale (Eco
1975) e la decostruzione derridiana come forma di spiazzamento degli ordini concettuali che
definiscono la realtà (Culler 1982).
I valori della società umana rappresentata nel film sono messi in discussione da queste metamorfosi
materiche sottolineando l’adeguatezza che una prospettiva costruttivista può assumere in relazione alla
complessità che caratterizza anche la nostra contemporaneità in cui le assiologie tipiche della metafisica
occidentale vengono continuamente riarticolate. Tuttavia, nell’ultimo film di Cronenberg, assistiamo ad
un continuo debordare della materia che, allo stesso tempo, rileva il limite che una prospettiva di questo
genere può assumere reimmettendo una forma di rappresentazionismo a partire dall’ontologia
linguistica affermata. Al contrario, bisogna impostare “una riflessione sulla vitalità di una materia che
254
non è ormai più natura, ma neanche solo tecnologia, bensì processo costante di messa in relazione di
tutti questi elementi” (Braidotti 2010, p. 93).
Il momento di profonda crisi e incertezza che ci viene prospettato in Crimes of the Future ci offre uno
spaccato di un ordine naturale e sociale in disperato bisogno di una sua restaurazione o di un nuovo
riassemblaggio (Latour 2005). Quello che ci appare come uno scenario distopico, un mito
dell’apocalisse, diventa quindi occasione di rinascita, di un nuovo inizio, anche per l’umanità. A questo
proposito, la scelta di girare il film in Grecia – culla della civiltà umanista e della metafisica occidentale
– pur se mai esplicitata, non è forse casuale. Così come non lo è una determinata estetica sofisticata e al
contempo primordiale delle tecnologie, che sembrano aver nuovamente intercettato l’umano nel loro
percorso evolutivo, senza per questo snaturarsi. Ora spetta all’umanità prendere coscienza e farsi eco di
questo legame originario, per evitare di soccombere narcisisticamente nella propria immagine
identitaria, di fronte all’inesorabile avanzata della materia dall’interno e dall’esterno dei nostri corpi.
255
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia
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257
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] | Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente
Anna Varalli
Abstract. Mary Magdalene is a mysterious and misrepresented woman, connected to the fundamental events in
the life of Christ. Over the centuries, numerous superimpositions with other female characters have made her an
elusive figure with nebulous boundaries, a synthesis of multiple meanings: both sinner and prostitute and converted
woman and apostle. Through the study of the iconography of “Penitent Magdalene” and the semiotic analysis, the
paper aims to investigate, how contrasting themes such as sin and repentance, carnality and holiness have been
articulated and how they have been favourably developed in the representation of the female body and in the
historical ambiguity of this character.
1. Quale Maria? La Maddalena e le altre figure femminili
La storia della Chiesa cattolica è costellata di figure di santi e sante, uomini e donne che, seguendo
l’esempio di Gesù, hanno accolto la chiamata di Dio, si sono distinti in vita nell’esercizio delle virtù
cristiane e muoiono in grazia di Dio. Nel corso dei secoli, le figure dei santi, che si sono costruite sia
attraverso l’intervento diretto della Chiesa sia grazie alla partecipazione attiva di altri soggetti, diventano
modelli di comportamento imitabili per milioni di fedeli, qualcosa a cui tendere per poter vivere rettamente
nell’amore di Dio (Ponzo 2019a). Tra le numerose vite di santi che ci sono state tramandate, alcune
incuriosiscono particolarmente perché raccontano di figure in contrasto con ciò che un fedele si
aspetterebbe da un santo o una santa. Figure controverse, che sfidano apertamente il potere e i costumi
della loro epoca e che nei secoli sono state riassorbite e riabilitate dalla Chiesa, ma nelle quali rimane una
forte tensione che molto spesso emerge nei racconti, nelle leggende e nelle raffigurazioni che li riguardano1.
La figura di Maria Maddalena è forse una delle più misteriose e controverse, anche perché collegata a
eventi fondamentali della vita di Cristo. Il nome di Maria, molto comune in Israele, si distingue dalle
altre grazie al toponimo “Magdala”2, il luogo dove è nata, secondo la tradizione. Le prime notizie di
Maria Maddalena si ritrovano nei quattro Vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni): la
Maddalena è citata, insieme ad altre, in quel gruppo di donne che segue Gesù, ed è collegata agli episodi
finali della vita del Nazareno: la crocifissione, la deposizione del corpo, la scoperta del sepolcro vuoto
e l’apparizione di Gesù risorto. Solo nel Vangelo di Luca è citata anche all’inizio dell’attività pubblica
di Gesù, quando l’evangelista parla di un gruppo di donne “[...] guarite da spiriti cattivi e da infermità
[...]” (Lc 8,2) che seguivano il Nazareno.
1
Un esempio sono le analisi di Ponzo (2019c) nel capitolo “Atypical Models of Sanctity”, in cui tratta la
rappresentazione della santità nella narrativa italiana contemporanea.
2 Màgdala di Galilea era un piccolo centro romano-giudaico vicino a Cafarnao, sulle sponde del lago di Tiberiade.
La città era identificata da una torre romana: Màgdala deriva infatti dall’ebraico migdol che significa torre.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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Crocifissione Sepoltura Sepolcro vuoto Apparizione (Esorcismo)
27,56: 27,61: 28,1: - -
Tra queste Lì, sedute di Dopo il sabato,
c'erano Maria di fronte alla all'alba del primo
Màgdala, Maria tomba, c'erano giorno della
Matteo madre di Maria di settimana, Maria
Giacomo e di Màgdala e l'altra di Màgdala e
Giuseppe, e la Maria. l'altra Maria
madre dei figli andarono a
di Zebedeo. visitare la tomba.
15,40: 15,47: 16,1: 16,9: -
Vi erano anche Maria di Passato il sabato, Risorto al
alcune donne, Màgdala e Maria di mattino, il primo
che osservavano Maria madre di Màgdala, Maria giorno dopo il
da lontano, tra le Ioses stavano a madre di sabato, Gesù
Marco quali Maria di osservare dove Giacomo e apparve prima a
Màgdala, Maria veniva posto. Salome Maria di
madre di comprarono oli Màgdala, dalla
Giacomo il aromatici per quale aveva
minore e di andare a scacciato sette
Ioses, e Salome, ungerlo. demòni.
- - - 24,10: 8,2:
Erano Maria e alcune donne
Maddalena, che erano state
Giovanna e guarite da spiriti
Maria madre di cattivi e da
Giacomo. infermità: Maria,
Luca Anche le altre, chiamata
che erano con Maddalena,
loro, dalla quale
raccontavano erano usciti sette
queste cose agli demòni3;
apostoli.
19,25: - 20,1: 20,16: -
Stavano presso Il primo giorno Gesù le disse:
la croce di Gesù della settimana, «Maria!». Ella si
sua madre, la Maria di voltò e gli disse
sorella di sua Màgdala si recò in ebraico:
madre, Maria al sepolcro di «Rabbunì!» –
madre di Clèopa mattino, quando che significa:
Giovanni e Maria di era ancora buio, «Maestro!».
Màgdala. e vide che la 20,18: Maria di
pietra era stata Màgdala andò
tolta dal ad annunciare ai
sepolcro. discepoli: «Ho
visto il Signore!»
e ciò che le
aveva detto.
3 L’espressione “sette demoni” non indica necessariamente che la Maddalena fosse afflitta da demoni o da un male
morale; nel linguaggio veterotestamentario, poteva indicare che la donna fosse stata colpita da un gravissimo male
fisico o interiore, dal quale Gesù l’aveva liberata (Brunelli 2022, p. 18).
259
La Maddalena compare anche nei vangeli apocrifi, in particolare nei vangeli di Pietro, di Nicodemo e
di Filippo (Rogers 2019; Mignozzi 2019), quest’ultimo più sensibile allo gnosticismo. Se nei primi due è
citata sempre in relazione agli episodi della crocifissione e della deposizione – racconti che avranno
ampia fortuna nello sviluppo dell’iconografia sia mariana sia della Maddalena stessa – nel testo gnostico
di Filippo, Maria Maddalena è presentata come “interlocutrice ideale di Gesù e sua intima compagna
spirituale” (Brunelli 2022, pp. 18-19). Ben presto si perde la memoria di quest’ultimo testo, molto
controverso, e non avrà influenza sullo sviluppo iconografico della santa; ne ritroviamo echi sul piano
letterario e cinematografico solo nel Novecento, quando ormai la Chiesa ha fatto chiarezza su questa
figura dibattuta, in opere che fanno chiaro riferimento a una relazione tra la Maddalena e Gesù, dal
quale sarebbe nata anche una discendenza4. A partire dal III secolo, i Padri della Chiesa riservano
sempre maggiore attenzione alla Maddalena ed è nella letteratura patristica che questa figura inizia
presto a con-fondersi con altre figure femminili, anonime o con lo stesso nome, citate nei vangeli (Kunder
2019): Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che cosparge con olio di nardo i piedi di Gesù e
li asciuga con i suoi capelli (Gv 20,3); una seconda donna che unge il capo di Gesù sempre con olio di
nardo, a casa di Simone il lebbroso (Mt 26,7; Mc 14,3); una terza che viene chiamata ‘peccatrice’, cioè
prostituta, che a casa di Simone il fariseo “stando dietro, presso i piedi di lui [Gesù], piangendo, cominciò
a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo” (Lc 7,38).
L’unificazione di tutte queste donne nella figura di Maddalena trova ufficialità nelle omelie XXV e
XXXIII di Gregorio Magno (540 circa-604):
Ella considerò le colpe passate e non volle porre freno al suo atteggiamento di penitente. Entrò
durante il convito, venne non invitata, e versò lacrime di fronte alla mensa imbandita. Rendetevi
conto dell’amarezza di questo dolore che non si vergogna di manifestarsi neppure in un banchetto.
Questa donna peccatrice di cui parla Luca, che da Giovanni è chiamata Maria, riteniamo sia quella
Maria dalla quale Marco afferma furono cacciati sette demoni (Gregorio Magno 1968, pp. 325-6).
Inoltre, in alcuni casi, la tradizione patristica affianca a Maria Maddalena la figura di Eva (Kunder 2019,
p. 124), dalla quale l’iconografia trarrà l’attributo dei lunghi capelli.
Entro il VII secolo, in Occidente, si assiste quindi alla completa identificazione di Maria Maddalena con
la figura della peccatrice, in particolare nell’accezione della prostituta. Il percorso di riabilitazione di questa
figura da parte della Chiesa è stato lungo e vede come atto più recente l’istituzione della festa liturgica di
Maria Maddalena da parte di Papa Francesco nel contesto del Giubileo straordinario della Misericordia
(8 dicembre 2015-20 novembre 2016), “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande
amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”5, la prima messaggera che annuncia agli apostoli la risurrezione
del Signore, tanto da essere definita da San Tommaso d’Aquino l’apostolorum apostola6.
Nel corso dei secoli, la costante sovrapposizione tra Maria Maddalena e le numerose donne che
abitano i Vangeli ha reso questa figura femminile inafferrabile e dai confini nebulosi. È questo lento
processo che ha portato la Maddalena a “divenire simbolo”, la sintesi di molteplici significazioni, e
quindi a poter riconoscere in essa sia la peccatrice e la prostituta, sia la convertita e l’apostola.
Riprendendo le riflessioni di Sedda: “esso [il simbolo] può risultare oscuro solo per l’eccesso di
4 Nella letteratura moderna, il primo libro che tratta questo tema è Le Tresor Maudit de Rennes-le-Château (“Il
Tesoro Maledetto di Rennes-le-Château”) di Géraud Marie de Sède de Liéoux e pubblicato nel 1967, al quale si
ispirano i successivi testi di Michael Baigent, Richard Leigh, e Henry Lincoln (The Holy Blood and the Holy Grail,
1982), di Umberto Eco (Il pendolo di Foucault, 1988) e di Dan Brown (The Da Vinci Code, 2003).
5Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: la celebrazione di Santa Maria
Maddalena elevata al grado di festa nel Calendario Romano Generale, bollettino Sala Stampa della Santa Sede,
n. 0422, 10-06-2016.
6
Cfr. San Tommaso d'Aquino, In Ioannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6.
260
memorie, di storie più o meno immaginarie, di proprietà semantiche che porta in sé. Il simbolo può
apparire vuoto perché è troppo pieno” (2021, p. 26).
2. Maria Maddalena: l’esempio perfetto della peccatrice penitente
Intorno alla figura di Maria Maddalena si sono infine delineate due diverse tradizioni agiografiche che
seguono l’evento della resurrezione di Cristo: quella orientale, che vede la Maddalena seguire Giovanni
a Efeso, dove morirà; quella occidentale che dà avvio a numerose narrazioni della vita della santa, fino
ad arrivare alla definizione della Legenda aurea di Jacopo da Varazze, composta tra gli anni Cinquanta
e Sessanta del XIII secolo. Quest’ultima, a sua volta, sovrappone due diverse tradizioni agiografiche
occidentali: da una parte la narrazione del dossier Vézelien, la leggenda che vede Maria Maddalena
evangelizzatrice della Francia assieme a Lazzaro, primo vescovo di Marsiglia, e che morirà dopo molti
anni di eremitaggio; dall’altra, la storia della figura di Maria Egiziaca, una giovane prostituta convertita
del IV secolo che passerà il resto della sua vita da eremita (Mignozzi 2019).
La Legenda aurea è una delle fonti maggiori a cui gli artisti si sono ispirati e da cui hanno attinto gli
elementi figurativi che costruiscono l’iconografia della Maddalena. Per poter delineare al meglio i tratti
iconografici, l’abbondante produzione artistica intorno a questa figura ci spinge a selezionare un corpus
più ristretto di immagini: a tale scopo, la mostra Maddalena. Il mistero e l’immagine (Forlì, Musei San
Domenico, 27 marzo-10 luglio 2022), organizzata intorno alle numerose configurazioni iconografiche
della santa, si presenta già come una prima selezione, seppur ancora molto ampia. L’analisi, in
particolare, si occuperà di quelle raffigurazioni pittoriche presenti in mostra il cui soggetto rientra nel
tipo iconografico della “Maddalena penitente”, tema che si afferma nella pittura devozionale a seguito
del Concilio di Trento (1545-1563). Le rappresentazioni prese in esame, infine, risultano attinenti al
periodo cronologico XVI-XX secolo.
In queste rappresentazioni, lo spazio figurativo può presentare due situazioni differenti; un ambiente
esterno, come un paesaggio boschivo o con molta vegetazione, oppure uno spazio interno roccioso non
meglio definito, buio e raccolto. È possibile individuare anche una soluzione intermedia, una sorta di
luogo-limite tra esterno e interno, con ambienti rocciosi che si aprono su paesaggi a volte caratterizzati
anche dalla presenza di attività umane in lontananza, come piccoli centri abitati, torri e ponti. È sempre
presente una figura femminile, in un intervallo d’età che spazia da una giovane ragazzina a una donna
matura, con lunghi capelli sciolti e colta in situazioni differenti: mentre legge o dorme, oppure
semplicemente seduta o sdraiata. L’abbigliamento della donna può variare molto da opera a opera, e
può presentarsi vestita di tutto punto, coperta da un tessuto, oppure completamente nuda. La figura si
accompagna ad alcuni oggetti – un piccolo recipiente con coperchio, un crocifisso, un teschio e un libro
– che possono essere presenti tutti contemporaneamente o almeno uno di essi. È in particolare il
recipiente che permette di identificare con certezza la figura femminile in Maria Maddalena: si tratta del
vasetto che contiene l’unguento profumato con cui Maria cosparge i piedi di Cristo e fa quindi
riferimento alle narrazioni dei vangeli; quando non è presente alcun attributo, la figura femminile viene
riconosciuta per la presenza dei lunghi capelli7, che rimandano anch’essi alla narrazione dei vangeli (Gv
20,3; Lc 7,38). Il crocifisso, il libro e il teschio, invece, non rimandano a una narrazione specifica della
7
Questo attributo è condiviso con altre figure femminili, cosa che potrebbe rendere l’identificazione ancora più
difficoltosa, e solitamente ha la funzione di coprirne la nudità. Maria Maddalena eredita questo attributo dal
parallelismo con Eva, rappresentata nuda nel giardino di Eden prima della cacciata dal Paradiso, e dall’iconografia
occidentale di Maria Egiziaca, che figura nella variante con lunghi capelli castani che le coprono tutto il corpo fino
alle caviglie, forse anche per una contaminazione con la raffigurazione di Eva (Brasa 2022, p. 58).
261
vita della Maddalena: si riferiscono al tema della meditazione8 – come anche la testa appoggiata a una
mano9, posizione in cui viene spesso raffigurata. Gli oggetti riuniti intorno al teschio compongono una
piccola natura morta del tipo specifico della Vanitas, genere pittorico che si sviluppa e diffonde a partire
dal XVII secolo. Il tema della morte, nella forma del teschio, si intreccia con il tema della transitorietà
della bellezza e della ricchezza, per ricordare all’uomo il suo destino; come spiega Scalabroni (1999),
nella Vanitas tutto ruota intorno alla meditazione, aspetto rimarcato anche dalla presenza del libro,
oggetto peculiare della “vita contemplativa”. Tuttavia, la presenza del crocifisso, simbolo di Resurrezione,
inserisce nella severa visione della Vanitas un elemento positivo perché “Il pensiero della morte deve in
sostanza essere inteso come un principio di vita, un riferimento costante per misurare le proprie azioni. La
via che all’uomo viene indicata è insomma una via di amore e di virtù, di elevazione e di distacco dalle
cose terrene” (ivi, p. 19). Il tema della transitorietà della vita nella Vanitas condivide con la figura di Maria
Maddalena un’intima ambiguità: è sia un invito a godere dei piaceri della vita finché è possibile, sia
un’esortazione cristiana a staccarsi dalle vanità del mondo per poter accedere alla vita eterna (ivi).
Maria Maddalena è quindi raffigurata sola, in un luogo isolato e spoglio, e porta con sé gli strumenti
della preghiera e della meditazione. Si potrebbe pensare che si tratti di un momento non meglio definito
della vita romita di Maddalena descritto nella Legenda aurea ma, in questo caso, ci troveremmo di
fronte a una discrepanza temporale. Maddalena si sarebbe pentita della sua condotta e si sarebbe
convertita dopo il primo incontro con Cristo nella casa di Simone il fariseo (o il lebbroso) e avrebbe
deciso di seguirlo insieme ad altre donne; nella Legenda aurea, l’eremitaggio segue un primo momento
di evangelizzazione, quindi a pentimento e conversione già avvenuti. Perché allora gli storici dell’arte
definiscono questa particolare iconografia della Maddalena come “penitente”? È più probabile che sia
la figurativizzazione del tema della penitenza. Il pentimento di Maria Maddalena è messo in forma
attraverso l’utilizzo di luoghi isolati che rimandano all’allontanamento dalle abitudini viziose del suo
passato; ella è nel pieno del suo percorso di conversione che inizia con il pentimento e la remissione
dei peccati da parte di Cristo, a cui fanno diretto riferimento sia il crocifisso (1Pt 2,24: “Egli portò i
nostri peccati nel suo corpo/sul legno della croce,/perché, non vivendo più per il peccato,/vivessimo
per la giustizia;/dalle sue piaghe siete stati guariti”) sia il vasetto di unguenti (Lc 7,48: “Poi disse a lei:
«Ti sono perdonati i tuoi peccati»”). Se accettiamo questa proposta di lettura, la discrepanza temporale
viene meno ma, con essa, viene a mancare anche una narrazione a cui fare direttamente riferimento.
Sono le raffigurazioni che attraverso l’insieme di queste determinate scelte rappresentative
costituiscono una medesima storia, colta in fasi differenti, in cui Maria Maddalena è la figura per
eccellenza della peccatrice penitente.
3. Il percorso di redenzione di una peccatrice
Qual è la storia unitaria che ci raccontano queste rappresentazioni? L’aggettivo “penitente” indica
un’azione prolungata nel tempo, cioè l’atto di fare penitenza dei propri peccati che conduce il penitente
in un percorso di abbandono completo delle abitudini viziose del passato e di riorientamento della
propria vita in direzione di Cristo. Possiamo affermare di essere di fronte a una storia di conversione, a
8
Questi attributi accompagnano molto spesso anche la figura di Maria Egiziaca, come anche il contesto roccioso
in cui viene ambientata la rappresentazione, a rimando della vita romita della santa. Il riconoscimento della figura
di Maria Maddalena, in questi casi, può essere risolto solo dalla presenza del vasetto di unguenti e dall’aspetto
della figura femminile: infatti, Maria Egiziaca viene solitamente rappresentata con un corpo anziano, segnato dal
digiuno; Maria Maddalena, invece, è una giovane fanciulla dal corpo florido e sensuale.
9
Si tratta di un gesto convenzionale in uso sin dall’antichità e indica dolore, cordoglio e umore malinconico.
262
un processo10 che vede Maria Maddalena allontanarsi da una vita vissuta nel peccato per congiungersi
a Cristo e iniziare una nuova vita.
Nonostante la figura della Maddalena aderisca alla tradizione con i suoi attributi e gli oggetti che
solitamente l’accompagnano, possiamo notare che in questa serie di rappresentazioni l’iconografia
subisce delle variazioni. Ciò dipende da quale momento di questo percorso di conversione ha voluto
rappresentare l’artista (Calabrese 2012; Marrone 1995).
Il primo momento è quello della consapevolezza del suo vissuto, che dà avvio al processo della
conversione: Maria Maddalena, che conduce una vita nella dissolutezza, prende coscienza della sua
condizione di peccatrice e si prepara anche nell’animo alla conversione11. Le rappresentazioni di questo
tipo la raffigurano in un atteggiamento di sconforto, molto spesso in lacrime. Caravaggio (Fig. 1) raffigura
la santa avvolta in tessuti preziosi e circondata da gioielli che si lascia cadere su una seggiola, con il capo
piegato e le braccia in grembo, in una postura raccolta che rimanda a tutta l’intimità del momento. La
lacrima che le scorre sul viso figurativizza il dissidio interiore e la presa di coscienza del suo vissuto fino
a quell’istante, rendendo partecipe l’osservatore all’evento che può in questo modo identificarsi con la
figura della peccatrice penitente.
Il secondo momento è quello della meditazione sul proprio destino: è la fase in cui Maria Maddalena sceglie
di intraprendere il percorso della conversione. La figura viene rappresentata mentre appoggia la testa a una
mano con fare malinconico e lo sguardo vacuo perso nel vuoto. Secondo la tradizione della Vanitas, l’oggetto
a cui viene dato maggiore rilievo è il teschio (Fig. 2): insieme alla Maddalena, l’osservatore è invitato a
prendere consapevolezza del proprio destino e a meditare sul proprio futuro.
Il terzo momento può essere definito quello della contemplazione: Maria Maddalena, in cerca della salvezza,
si dedica alla meditazione delle cose spirituali. È la prima situazione in cui Maddalena inizia a lavorare su di
sé, tramite la preghiera, per preparare il suo incontro con Cristo. In queste rappresentazioni il suo sguardo è
fortemente attratto dal vangelo o dal crocifisso, gli oggetti che la aiutano nella preghiera; in alcuni casi, tutto
il corpo della santa tende verso la Croce, anticipando – o richiamando – l’evento della crocifissione, in una
contemplazione che la coinvolge completamente (Fig. 3).
Il quarto momento è quello che può essere definito dell’illuminazione. Si tratta di un momento di svolta,
una componente ricorrente nelle narrazioni di conversione (Ponzo 2019b): è la fase di passaggio che
segna per Maddalena l’allontanamento dalle cose del mondo terreno e apre le porte al mondo spirituale.
Gli oggetti della preghiera le hanno consentito di prepararsi a questo momento, l’esperienza illuminante
della salvezza e del perdono dei peccati, che le consentirà di completare la sua conversione. In questo
tipo di rappresentazioni, lo sguardo di Maria Maddalena è attratto da qualcosa posto all’estremità del
quadro – una luce accecante – o al di là dei suoi limiti, come se qualcuno l’avesse chiamata e le stesse
parlando (Fig. 4). Maddalena, quindi, non è più sola come lo è stata fino a questo momento – e forse
non lo è mai stata – ma solo ora il suo sguardo può incontrare un ‘altro’ e l’osservatore assiste, insieme
a lei, a questa rivelazione. Sono la meditazione e la contemplazione che le hanno permesso di aprire gli
occhi, di prepararsi alla remissione dei suoi peccati e di accedere alla salvezza, l’ultimo passo prima di
poter incontrare Cristo.
Infine, alcune rappresentazioni fanno invece riferimento al momento dell’estasi di Maria Maddalena,
tema iconografico che rientra a pieno titolo nel percorso di conversione della santa. In questo caso, gli
artisti hanno deciso di rappresentare o l’attimo appena precedente del punto culminante della vicenda,
cioè il momento del rapimento estatico, oppure quello immediatamente successivo, che potremmo
definire della “post-estasi” (Marrone 1995). Il rapimento estatico è il grado più alto della contemplazione,
quando l’anima, al culmine della sua esperienza religiosa, si innalza al divino ed entra in immediata
comunione con esso. Maria Maddalena viene rappresentata semidistesa, con la testa gettata all’indietro
10 Cfr. Greimas 1974, voce “processo”.
11
Possiamo riconoscere in questo momento la prima fase (Costituzione) del percorso passionale canonico, quando
il soggetto patemico “è messo nella condizione di conoscere una passione” (Fontanille 2012, p. 408).
263
e lo sguardo perso rivolto verso l’alto; anche quando il corpo sembra rilassato, alcuni dettagli lasciano
trasparire una tensione che l’attraversa completamente, ad esempio le punte dei piedi tese. Come scrive
Careri, “Per mostrare all’esterno uno stato spirituale interno, il corpo in rappresentazione può limitarsi
a esibire gli aspetti patologici marginali che investono il corpo «reale» o assumere la configurazione
erotica del corpo «immaginario»” (2017, p. 89); per questo motivo, è possibile individuare nella postura
di Maria Maddalena tratti tra loro contradditori che rimandando da una parte alla distensione e
all’abbandono, dall’altra alla tensione e alla contrazione 12 . In alcuni casi, Maria Maddalena è
accompagnata da figure angeliche che figurativizzano l’istante della sospensione, il momento in cui il
mondo spirituale e il mondo sensibile entrano in contatto attraverso l’esperienza mistica della santa (Fig.
5). Non si tratta propriamente della rappresentazione del momento dell’estasi, ovvero delle possibili
visioni della santa: l’osservatore vede nel corpo della Maddalena gli effetti che l’esperienza mistica
provoca. Si tratta quindi del momento iniziale dell’esperienza estatica, quando la coscienza del mondo
sensibile e di ogni legame corporeo viene meno.
Se è vero che il mistico subisce l’estasi e “non ha alcun controllo sul piano di espressione, sui fenomeni
che è costretto a considerare sintomi del divino” (Galofaro 2019, p. 116), forse non è completamente
passivo davanti a tali fenomeni. Leggiamo le parole di Santa Teresa d’Avila13:
Pur provando diletto, la debolezza della nostra natura ci colma agli inizi di timore, rendendo
necessaria un’anima determinata e coraggiosa, molto più di quanto richiesto sino ad ora, per
affrontare tutto, accada quel che deve accadere, abbandonarsi nelle mani di Dio e lasciarsi condurre,
con fiducia. A tal livello tante volte vorrei resistere, porre resistenza, mettendoci tutte le mie forze,
alcune conosciute e altre molto nascoste, perché temo di essere ingannata. Talvolta sono riuscita a
resistere un po’, con grande fatica: restavo in seguito stanca come quando si lotta contro una persona
grande e grossa. Altre volte era impossibile, mi portava via l’anima e mi rialzava il capo se non tutto
il corpo fino a sollevarlo da terra (Santa Teresa d’Avila 2018, p. 287).
A causa della debolezza della natura umana che la rende insicura e incerta, l’anima non è sempre
pronta: per questo motivo, deve lottare contro la debolezza umana per diventare “un’anima determinata
e coraggiosa”. L’unico modo è cedere alla forza divina e abbandonarsi completamente nelle mani di
Dio. Alla luce di questo, è possibile riconoscere nella “post-estati” il momento terminativo
dell’esperienza estatica. Ancora una volta, ci affidiamo alle parole di Santa Teresa d’Avila:
Si resta poi con una strana stanchezza che non saprei neppure descrivere. Mi sembra però di poter
dire che è in qualche modo diversa dal solito (al contempo ben diversa dalle altre cose riguardanti
il solo spirito). Se già si è spiritualmente distaccati dalle cose, qui sembra che il Signore voglia
produrre questo medesimo effetto anche nel corpo, e si crea un nuovo strano rapporto con le cose
della terra, da rendere penosa la vita (ibidem).
Come nella citazione precedente, torna il tema della stanchezza fisica: dopo aver subìto la forza del
divino, il corpo si ritrova sfinito. Maria Maddalena ha completato il suo percorso di conversione che
12
In riferimento al tema dell’estasi si segnala anche lo studio di Careri (1991) del gruppo scultoreo della Cappella
Albertoni, realizzato da Gian Lorenzo Bernini: la figura femminile presenta parti del corpo contratte e altre distese,
ed è quindi segnata dalla compresenza di termini opposti che non corrisponde a una posizione logica statica ma
a un processo dinamico, intensivo e intermittente (p. 131).
13
Come scrive Leone (2010), gli scritti autobiografici di Santa Teresa d’Avila sono caratterizzati da una forte carica
emotiva: il cambiamento spirituale non è mai rappresentato come definitivo “but rather as a process or, even
better, as an oscillation” (p. 494). La conversione di Teresa d’Avila viene presenta le caratteristiche che
l'immaginario religioso della prima età moderna proietta sulla conversione religiosa femminile: seguendo lo
stereotipo della trasformazione spirituale della Maddalena, “the religious mutation of a female heart was hardly
conceivable without this tumultuous unfolding of tension, attention, passions, emotions” (p. 494).
264
viene sanzionato positivamente grazie all’incontro con Cristo. In queste rappresentazioni, la santa viene
raffigurata addormentata e il suo corpo è completamente rilassato. Nell’opera di Karl Wilhelm
Diefenbach (Fig. 6), la luce che illumina il corpo nudo della santa è dai toni giallo-arancioni, come se
provenisse da una lanterna, mentre sullo sfondo le nuvole presentano leggerissime sfumature di rosa e
gialli: la notte è passata e sta albeggiando, è l’inizio di una nuova vita, seguendo Cristo.
4. Uno sguardo al corpo nudo
L’enorme fortuna che ha avuto la figura di Maria Maddalena non è solamente legata al tema della
penitenza e della conversione. La storia del passato peccaminoso della santa ha consentito agli artisti di
esercitarsi e destreggiarsi con il nudo femminile senza allontanarsi dei temi sacri che hanno dominato
per secoli la produzione artistica14. Per questo motivo, la bellezza seducente e la femminilità di Maria
Maddalena si trovano a dialogare in modo dialettico con la sua santità e il legame con Cristo che le
attribuisce la tradizione. Nel Cinquecento, la figura di Maria Maddalena penitente trova una sensualità
nuova con Tiziano (Fig. 7), che si distacca dalle precedenti raffigurazioni della santa che ne
nascondevano completamente il corpo (Donatello, Maddalena penitente, 1453-1455, Fig. 8) e ne esalta
la nudità. Inizia così a porsi l’accento sulla condizione di “peccatrice seducente” (Brunelli 2022, p. 22)
che si arricchisce, sul finire del XVI secolo e in particolare grazie alla circolazione degli scritti di Santa
Teresa d’Avila e alla sua beatificazione (1614), di nuovi modelli figurativi in cui sensualità e spiritualità
possono coesistere senza scontrarsi (Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente, 1626-1627, Fig.
9) ma anche di forme più devozionali legate al tema dell’incontro con il divino (Strozzi, Santa Maria
Maddalena penitente, 1620 circa, Fig. 3). Infine, con il Neoclassicismo e il Romanticismo, la figura della
Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa e diventa pura esibizione dell’abilità pittorica
dell’artista sul nudo femminile (Hayez, La Maddalena penitente, 1833, Fig. 10).
Il corpo della santa, a partire dall’opera di Tiziano, sembra che inizi sempre più a parlare di sensualità.
Il nudo, però, è solo una parte di una “configurazione discorsiva che si iscrive in una narrazione”
(Calabrese 2012, p. 206) e, in questo caso, ne riveste il ruolo centrale. Prendendo ad esempio l’analisi
sul nudo di Calabrese in La macchina della pittura (2012), è interessante approfondire anche nel nostro
caso in che modo il corpo della santa si relaziona con l’osservatore. Inoltre, se non in alcune
rappresentazioni, Maria Maddalena non è mai completamente nuda: gli artisti giocano con le vesti e, in
particolare, con capelli per (s)coprirne il corpo. Come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 2), Maddalena
è raffigurata sola e in un luogo isolato: non sono quindi presenti altri attori che potrebbero vederla nuda
ma è solo l’attante osservatore, posto nella posizione implicita del punto di vista, che intrattiene una
qualche relazione con essa. Non potendo però affrontare l’analisi di ogni rappresentazione nel dettaglio,
ci limiteremo a individuare delle situazioni-tipo.
1. Il corpo della santa è completamente nascosto alla vista dell’osservatore: i capelli lo rivestono nella
sua totalità, lasciando visibili solo gli arti e il volto, impedendo anche la sola percezione delle forme;
in questo caso, viene messa in evidenza l’opacità materica dei capelli che, data la loro quantità e
lunghezza, svolgono la funzione di una veste, di una pelliccia. Lo sguardo della Maddalena è
orientato all’osservatore e lo interpella direttamente, lo pone in una posizione di dover guardare.
Ne sono un esempio le rappresentazioni più antiche, come la tavola agiografica di Maddalena
penitente e otto storie della sua vita (Maestro della Maddalena, 1280-1285; cfr. anche Fig. 8),
precedenti all’opera di Tiziano.
2. Le vesti scivolano sul corpo, lasciando in parte scoperte le spalle e i seni; alcune ciocche di capelli ne
14Sul tema della bellezza seducente della figura della Maddalena è possibile visionare anche il lavoro di Dondero
(2007), in particolare l’analisi delle fotografie di Pierre et Gilles che “utilizzano la sensualità della donna fotografata
per instillare nell’osservatore il dubbio sulla leggendaria conversione della santa” (p. 92).
265
limitano la visione completa. L’osservatore può percepirne le forme o avere una visione quasi perfetta
del seno. In questo caso, i capelli offrono svariati gradi di visibilità, non sono più un filtro completamente
opaco ma lasciano trasparire la carne; svolgono la funzione di “focalizzatore del desiderio” spostando
l’attenzione su ciò che (non)coprono, impossibile però da afferrare e quindi fortemente desiderabile
(Volli 2016). Rispetto allo sguardo della santa, possiamo individuare delle varianti di questa situazione:
a) Lo sguardo è orientato allo spettatore ma è assente, come indifferente alla sua presenza; b) Lo sguardo
è interno al quadro e rivolto a un oggetto (il teschio, il libro, il crocifisso). La santa non cerca di coprirsi
ma, al contempo, non è interessata allo sguardo dell’osservatore.
3. Maddalena copre volontariamente il suo corpo dal possibile sguardo di un’intrusione improvvisa,
portando le mani al petto. La semitrasparenza che offrivano i capelli è, in questo caso, negata dal
gesto volontario della santa che li raccoglie tra le mani, davanti al seno (Fig. 4), mentre vengono
sfruttate le proprietà coprenti del tessuto (Fig. 7). Lo sguardo è rivolto verso l’alto in direzione di
qualcosa posto ai limiti del quadro o fuori di esso, che ha attirato improvvisamente la sua attenzione.
Rispetto alle situazioni precedenti, si definisce una situazione di riservatezza e subentra il pudore:
la santa non vuole essere guardata da questo nuovo attante, percepito come estraneo e intruso.
4. Il corpo della santa è completamente offerto alla vista dell’osservatore (Fig. 9, 5), i capelli e i tessuti
non ne impediscono in alcun modo la visione. La santa può rivolgere uno sguardo completamente
assente fuori dai limiti del quadro, oppure tiene gli occhi chiusi: in entrambi i casi, è indifferente
alla presenza dell’osservatore e non accenna alcun gesto di copertura.
5. Conclusioni
In questa serie di opere, classificate sotto la medesima configurazione iconografica definita “Maddalena
penitente”, si può individuare un percorso narrativo15. Alla prima fase di presa di consapevolezza del
proprio vissuto, in cui avviene la rottura dell’equilibrio, segue la meditazione, cioè il momento della
manipolazione in cui la santa decide di intraprendere il percorso di conversione; la contemplazione e
l’illuminazione corrispondono alla fase della competenza, in cui Maddalena si prepara all’incontro con
Cristo. Infine, la fase dell’estasi, di cui vediamo solo il momento incoativo del rapimento estatico e quello
terminativo della post-estasi, corrisponde da una parte alla fase della performanza, cioè della lotta
interiore dell’anima contro la debolezza umana; dall’altra alla sanzione, in cui alla santa viene
riconosciuta l’avvenuta conversione tramite la possibilità di incontrare Cristo.
Abbiamo anche notato che gli artisti, nel corso dei secoli, danno al corpo nudo e alla sua sensualità sempre
maggiore rilievo. Possiamo però osservare che la nudità della santa assume accezioni diverse nelle varie
fasi del suo percorso di conversione e non rimanda necessariamente solo alla sensualità, come invece
sembra emerge dall’opera di Tiziano in poi. Osserviamo che la Maddalena passa da una postura raccolta
(testa china, spalle chiuse e busto ricurvo sugli oggetti della preghiera) che caratterizza i momenti della
meditazione e della contemplazione, a una postura più aperta nel momento dell’illuminazione (spalle e
testa dritte, sguardo verso l’alto), fino ad una completa apertura nel momento del rapimento estatico (corpo
sdraiato e testa gettata all’indietro). A questa progressiva apertura, corrisponde da una parte, una tensione
crescente che, come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 3), culmina nel momento del rapimento estatico
per poi distendersi immediatamente; dall’altra, possiamo notare un mostrarsi graduale del corpo che, in
un gioco di opacità e trasparenze che articola le vesti, le mani e i capelli, arriva ad offrirsi completamente
nudo all’osservatore (Fabbri 2004; Galimberti-Zanetti 2004; Volli 2016; Chiais 2022). Sul piano del
contenuto, questa inversione della postura di Maria Maddalena corrisponde al graduale allontanamento
dal suo passato peccaminoso; invece, il progressivo svestirsi del corpo rimanda all’abbandono delle
15
Cfr. Greimas 1974, voce “narrativo (percorso –)”.
266
abitudini viziose e della mondanità – di cui l’abito e i capelli ne sono figura – e al graduale mutamento
dello spirito che conduce Maria Maddalena alla conversione e all’incontro con Cristo. Utilizzando le parole
di Paolo Fabbri: “Lo svelamento è rivelazione: può andare ben oltre la pelle – che è vestigio della veste –
e cercare, nella sua effrazione e tortura (ferire, amputare, scorticare), l'accesso ad una verità incorruttibile
di cui la carne è il velo” (2004, p. 7).
La tensione tra carnalità e spiritualità che caratterizza la figura ambigua di Maria Maddalena è stata
certamente la fortuna della diffusione e dell’interesse nei confronti di questa santa. Se nella storia dell’arte
l’iconografia della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa per dare spazio al virtuosismo
pittorico, dall’altra l’analisi dimostra che non ha mai perso del tutto il suo carattere devozionale. In
questo modo, la carnalità sensuale che ne traspare non si pone in opposizione alla spiritualità: il corpo
nudo, giovane e voluttuoso di Maria Maddalena è figura degli habitus del suo passato che, tuttavia,
tramite il percorso di conversione della santa, viene risemantizzato e anch’esso diviene figura del
pentimento, della conversione e della comunione con Dio.
267
Appendice
Fig. 1 – Maddalena penitente, Caravaggio, 1596-1597, olio su tela, 122,5x98,5 cm,
Roma, Galleria Doria Pamphilj.
Fig. 2 – Santa Maria Maddalena penitente , Giovanni Maria Viani, 1690 circa, olio su tela, 96x78 cm,
collezione privata.
268
Fig. 3 – Santa Maria Maddalena penitente , Bernardo Strozzi, 1620 circa, olio su tela, 97x73 cm
Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco.
Fig. 4 – Santa Maria Maddalena penitente , Palma il Giovane, 1615 circa, olio su tela, 132x112 cm
Bergamo, Accademia di Carrara.
269
Fig. 5 – Esatasi di Santa Maria Maddalena, Alessandro Rosi, 1670 circa, olio su tela, 110x135 cm,
Firenze, Galleria degli Uffizi, Galleria palatina.
Fig. 6 – La Maddalena penitente, Karl Wilhelm Diefenbach, olio su tela, 213x122 cm,
Vienna, Fine Art Gallery Leon Wilnitsky.
270
Fig. 7 – Santa Maria Maddalena penitente , Tiziano Vecellio, 1566-1567, olio su tela, 122x94 cm,
Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Fig. 8 – Santa Maria Maddalena penitente , Donatello, 1450-55 circa, legno, 185x5x45 cm
Firenze, Museo dell'Opera del Duomo.
271
Fig. 9 – Santa Maria Maddalena penitente , Guido Cagnacci, 1626-1627, olio su tavola, 86x72 cm,
Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.
Fig. 10 – La Maddalena penitente, Francesco Hayez, 1833, olio su tavola, 118x141,5 cm,
Galleria d’Arte Moderna, Milano.
272
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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273
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Mirco Vannoni
Abstract. Direct engagement with the theoretical problems of painting characterizes contemporary art. As Louis
Marin (1986) points out, the idea of “artistic practice” and its emphasis on thinking about the difference between
the material support and the painted surface of the work is central to contemporary art. This type of investigation
deserves to be linked to reflections on the “factual power” of the materials used in contemporary art (Magli 2003)
and on the enunciative role of the artist’s gestural expressiveness in the production of the artwork (Damisch 1981;
Corrain 2016). This paper will focus on the work of Nicola Samorì and the material dimension of his artistic
practice. It will reflect on the status of the visual material as a generative element of representation and on the
relationship between the manipulative power of the materials and tools used by the artist. Taking into account
Barthes’ doctrine (1982) of a not yet written history of the tools and materials of art, I will question Samorì’s work,
starting from the way these works of art are realised, with the attempt to show the various sensitive relationships
that can arise between surfaces, materials and the gestures of the artist.
« Apercevez-vous quelque chose ?» demanda
Poussin à Porbus. « Non. Et vous ? », « Rien »
[…]. « Le vieux lansquenet se joue de nous », dit
Poussin en revenant devant le prétendu tableau.
Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu
La peinture pense. Comment ? C’est une
question infernale.
Georges Didi-Huberman, La peinture incenee
1. In apertura
Come ricorda Louis Marin in un’intervista a Flash Art del 1986, molta della produzione artistica
contemporanea si caratterizza per l’emergere progressivo di una riflessione teorica sulla pittura espressa
attraverso il linguaggio stesso della pittura:
ciò che mi sembra più caratteristico della pittura “contemporanea” (in contrapposizione alla pittura
“moderna”) è che la sua nozione di pratica pittorica o, più in generale, di pratica artistica, si basa
sul presupposto che la sperimentazione diretta dei problemi teorici della pittura possa in effetti
diventare “il soggetto della pittura” [...]. In passato, il pittore (o il “critico”) elaborava un discorso
teorico sulle procedure pittoriche. Nel “presente”, il pittore realizza un’opera, o un quadro, che dà
corpo pittorico alla sua teoria della pittura (Marin 1986, p. 53; tr. nostra).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Stando a queste parole dello studioso francese, conosciuto soprattutto per le sue ricerche sulla
rappresentazione pittorica dell’età classica 1 , il prisma interpretativo dell’arte contemporanea può
dunque rivelarsi un ottimo luogo di analisi e di messa alla prova delle teorie della pittura espresse
attraverso la pittura stessa.
Ne è un caso il problema dalla dimensione alchemico-elementale della materia pittorica nel lavoro di
Nicola Samorì, la cui produzione artistica si caratterizzata per una continua e costante messa in
discussione della presupposta planarità del supporto della rappresentazione pittorica.
Nel mio lavoro ho sempre molestato il piano, la superficie. Tutto il mio lavoro parla di questo: di
un’incapacità di accogliere il sonno bidimensionale della pittura. Guardando di profilo, cosa succede a
un dipinto? Il problema della rottura di integrità di una superficie, della ferita che torna e ritorna, è reale?
È immaginata? Ha comunque a che fare con una sorta di inaccettabilità del piano (Samorì 20232).
Nel suo lavoro Samorì erode, corrode, brucia e strappa la “pelle” della pittura. Si prenda, tra le altre, la
serie di opere che compone Cammino cannibale esposta nel 2020 alla Fondazione Made in Cloister di
Napoli. Sono sei progressivi strappi murali in cui la figura di Marsia, giovane sileno punito da Apollo,
da un grado massimo di densità figurativa arriva alla completa astrazione, alla pura materialità della
porzione muro incorniciata come ultimo elemento dell’ensemble.
Fig. 1 – Nicola Samorì, Cammino Cannibale (2018-2019), chiostro di Santa Cecilia – Fondazione Made in
Cloister, Napoli, 2021 (© Nicola Samorì).
Il racconto della scarificazione, topos che nella storia dell’arte ha suscitato l’interesse di maestri come
Tiziano, viene tradotto da Samorì in una vera e propria decorticazione dell’immagine3. Infatti, una volta
realizzato l’affresco del sileno, Samorì procede a strappare l’opera muraria dal suo supporto. Esito di
questa procedura di estrazione, come si può vedere (Fig. 1), sono sei livelli di intonaco che l’artista rende
autonomi ed espone in serie come differenti strati dell’“epidermide” della pittura. In quest’opera il tema
dell’enunciato, la flagellazione di Marsia, si trova appunto duplicato nel gesto enunciativo dell’artista
ovvero nello sfregio del supporto. A discapito di una rappresentazione mimetica del racconto della
punizione divina, la mise en place dei diversi strappi che compongono Cammino cannibale si configura
come ri-presentazione del gesto che li ha resi possibili. Un cortocircuito tra narrazione mitologica e
1
Si faccia riferimento, a titolo di esempio, ai lavori su Caravaggio e Poussin (Marin 1978), Philippe de Champaigne
(Marin 1995) o sulla pittura italiana del Quattrocento (Marin 1989). È bene notare, tuttavia, che a partire dalle sue
ricerche sulla teoria del linguaggio e del segno nella Logica di Port-Royal, Marin si è lungamente occupato di temi
come quello dell’efficacia dell’immagine (sia verbale che visiva), di teoria del potere, del discorso religioso così
come dei testi letterari che esulano da un campo di ricerca esclusivamente votato all’età moderna come dimostrano
i suoi studi su Disneyland a partire dall’Utopia di Thomas More, o quelli su Pollock, Stella, Klee e Crivelli (Marin
1971, 1982, 1992).
2
www.artribune.com/television/2023/01/video-nicola-samori-i-martedi-critici/, consultato 14 gennaio 2023.
3
Sul tema della scarificazione nelle arti visive, si veda Polacci (2018). Sul tema delle ferite, invece, Mengoni (2012).
275
pratica artistica in cui Samorì sviluppa una meta-riflessione sulle modalità di costruzione dell’opera
effettuata attraverso la materialità intrinseca della pittura muraria e della sofisticata tecnica dello strappo.
Quella di Samorì è infatti una gestualità che gioca costantemente in una dialettica tra figuratività e de-
figurazione e in cui assume piena centralità lo statuto della materialità pittorica come elemento intrinseco
della significazione, di cui si tenterà di rendere conto.
2. La s-smaniera Samorì
Nicola Samorì è un artista contemporaneo che guarda con meticolosa attenzione ai maestri e alle opere
del passato da cui la sua poetica prende avvio. Uno sguardo rivolto prevalentemente al Seicento italiano
e spagnolo e a figure come Guido Reni, Annibale Carracci, il Guercino o José de Ribera. Forme
sedimentate nella memoria collettiva della cultura occidentale che Samorì riproduce con estrema
precisione attivando veri e propri giochi di intertestualità che si discostano dal mero citazionismo. A un
primo momento di ri-produzione delle opere dei grandi maestri, seguono interventi successivi eseguiti
direttamente sul supporto della rappresentazione che producono un costante scontro tra sostanza
formata e informe. Si tratta, come già ricordato, di smembramenti, graffi, dissezioni del supporto
pittorico che sono al tempo stesso sia traccia del fare artistico sia elementi significanti a livello discorsivo.
I primi da interrogare a partire dalla forza manipolatoria dei materiali e degli strumenti utilizzati in
relazione con il supporto della rappresentazione; i secondi, invece, in quanto in grado di abilitare a una
riflessione sullo statuto della materia pittorica come elemento generativo della significazione.
Questo tipo di processualità, riportando l’attenzione sul diagramma di forze che sono al lavoro nelle
opere di Samorì – per dirla à la Deleuze (1983) –, impone una specifica riflessione sulla dimensione
della materia, dei materiali, delle texture e delle tecniche di realizzazione, così come sulla gestualità del
fare artistico, che operano all’interno della singolarità delle sue opere. È qui in discussione quanto
mettono in luce anche da Stefania Caliandro e Angela Mengoni (2022, p. 2; tr. nostra) a partire da una
ripresa del lavoro di Hubert Damisch: “gli elementi (fili, forme, colori), manipolati dall’artista in vista
della creazione, hanno valore in definitiva solo attraverso le relazioni morfologiche e spazio-temporali
che questi oggetti possono generare”. Un potenziale della significazione che esula dalla dimensione
mimetica della rappresentazione prospettica e invita, piuttosto, a una riflessione sullo spessore della
pittura. Nei termini di una logica del sensibile dell’immagine, sottolinea Damisch (1984, p. 290; tr.
nostra), “non mi sembra che ci sia alcuna difficoltà [...] che un piano possa avere un certo spessore”.
Uno spessore che manifesta nel lavoro di Samorì un rapporto indissolubile, ricostruibile àpres-coup, tra
impasto materico della pittura e pelle dei soggetti rappresentati (cfr. Didi-Huberman 1985).
Un legame che non riguarda ovviamente soltanto le opere dell’artista forlivese, ma che è comune a
molte sperimentazioni artistiche contemporanee. Come sostiene anche Willem de Kooning (1950),
infatti, “la carne è la ragione per la quale la pittura a olio è stata inventata”. Tuttavia, vi è una differenza
sostanziale tra la modalità d’uso dell’impasto a olio da parte di Samorì e quello proprio, ad esempio,
dei pittori fiamminghi del XV secolo (tra i primi, in epoca moderna, a utilizzare questa tecnica)4. A
differenza di quest’ultimi, attenti alle qualità materiche della pittura a olio per gli straordinari effetti di
mimetici che essa permetteva di realizzare, Samorì si mostra piuttosto interessato alla condotta del
materiale, a quella che potremmo chiamare una “logica di significazione fondata sui comportamenti di
tale sostanza” (Migliore 2012, p. 213).
4Nelle Vite Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio a Jan van Eyck. Sebbene sappiamo che la genealogia
di questa tecnica pittorica sia molto più antica – ne davano notizia già Marco Vitruvio Pollione, Plinio il Vecchio
e Galeno, così come alla fine del Trecento Cennino Cennini ne parlava nel Libro dell’Arte – è comunque dalla
metà del XV secolo che l’olio conobbe una straordinaria diffusione.
276
Tutto il mio lavoro di pittore e scultore ha a che vedere con la pelle […] con l’organo che separa
l’interno dall’esterno. Un dipinto è sempre, del resto, una pelle che riveste uno scheletro: la tela, il
telaio, il muro, il foglio. Una volta costruito il corpo della pittura per me è quasi automatico pensare
che se ne possa scorticare la pelle per mettere in evidenza le prime pennellate, quelle che si sono
appoggiate direttamente sulla superficie levigata del rame, oppure del legno. Il rovescio della pittura,
come la parte nascosta della pelle, rivela allora qualcosa di fresco e di brutale (Samorì 2021).
La maniera di lavoro di Samorì è quella dello sfregio. È una s-maniera capace di cogliere gli inviti che
la materialità della pittura a olio può offrire alla sua pratica artistica che si presentano come aspetti
interessanti da indagare con più precisione.
3. Prodromie letterarie
In apertura a un’indagine sul rapporto tra materialità e fare artistico, il racconto di Honoré de Balzac,
Le chef d’œuvre inconnu (1837) può consentirci di entrare con un po’ più di chiarezza nel merito di
alcune questioni che sono centrali nel lavoro di Nicola Samorì: da un lato ciò a cui si fa riferimento è il
rapporto che esiste tra rappresentazione mimetica e astrazione; dall’altro a essere chiamato in causa è
invece la relazione tra le modalità di produzione testuale e l’opera-testo5.
In breve, quella di Balzac, è la storia inventata di tre pittori. Di essi, due sono effettivamente esistiti
(Nicolas Poussin e Frans Pourbus il Vecchio), il terzo invece è un personaggio di fantasia (Frenhofer).
Sviluppando temi cari alla letteratura artistica come quello della verosimiglianza e del capolavoro
artistico, le vicende orbitano intorno a una misteriosa opera, La Belle Noiseuse, una tela a cui Frenhofer
sta lavorando da oltre dieci anni nel tentativo di renderla perfetta. Un lavoro estenuante e meticoloso
che il maestro non riusciva a portare a compimento e a cui però trovò soluzione il giovane Poussin: far
posare la donna che amava – la bellissima Gilette – così d’avere in cambio, anche solo per una volta, la
possibilità di vedere il quadro qualora fosse stato realizzato. Sebbene le iniziali ritrosie, Frenhofer
acconsente e così in poco tempo riuscì a terminare il suo capolavoro. Una volta svelata l’opera, però,
essa non destò nei due pittori l’effetto sperato: “Io qui vedo soltanto un confuso ammasso di colori,
delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura” fu l’esclamazione del
giovane Poussin. Solo in seguito, a uno sguardo più attento, i due pittori si resero conto della bellezza
del capolavoro del maestro: “Avvicinandosi scorsero in un angolo della tela la punta di un piede nudo
che fuoriusciva da quel caos di colori, di toni, di sfumature indecise, di tutto, una specie di nebbia
informe: ma era un piede delizioso, un piede vivo! Rimasero pietrificati per l’ammirazione dinanzi a
quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione” (Balzac 1837, p. 123).
Come si può notare da questa rapida ripresa del racconto, a sorreggere l’intera macchina narrativa de Le
chef d’œuvre inconnu risiede una complessa e articolata riflessione sulle forme artistiche che Balzac dipinge
ben prima dell’avvento dell’astrattismo. Nelle parole del romanziere emerge infatti il complesso tema della
distruzione della dimensione figurativa della rappresentazione e che, seguendo la proposta di Omar
Calabrese, mette a fuoco la questione squisitamente semiotica della dimensione astratta del figurativo:
Il vero problema è che la perfetta verosimiglianza ricercata da Frenhofer comporta in realtà una tale
sottigliezza dell’artificio tecnico che solo questo alla fine appare alla superficie, dato che non c’è più spazio
per la rappresentazione come contenuto, ma solo per la rappresentazione come forma pura dell’artificio.
La assoluta verità coincide anzi con l’assoluto dell’artificio. Linee senza più forme da contenere; colori
5Oltre a quelli a cui si fa riferimento, sono stati molti i lavori all’interno del panorama semiotico e di teoria dell’arte
che si sono occupati del racconto di Balzac. Si vedano a tal proposito: Damisch (1984); Marin (1984a); Didi-
Huberman (1985); Lancioni (1993).
277
senza più oggetti da manifestare. Le geometrie e lo spessore del supporto sono talmente trattati che la
profondità dello spazio mimetico non riesce più ad apparire (Calabrese 1987a, p. 18).
In aperto contrasto con le strategie della rappresentazione che hanno come obiettivo quello di
restituire una resa della profondità, effetto mimetico della terza dimensione, quella che appare nel
racconto di Balzac è la descrizione di una sfida aperta alla verosimiglianza. Una profezia, si potrebbe
quasi dire, che troverà il suo effettivo compimento soltanto con le sperimentazioni di artisti moderni
come i dripping di Jackson Pollock, le bruciature di Alberto Burri, i tagli di Lucio Fontana o, appunto,
i giochi alchemico-elementali dello stesso Samorì 6. A fianco a questo tipo di considerazioni, la ripresa
della lezione americana sulla visibilità di Italo Calvino può rivelarsi utile per mettere a fuoco un
interessante rapporto di analogia tra la produzione del capolavoro di Frenhofer (fare enunciativo a
livello dell’enunciato) e quella testuale di Balzac (livello dell’enunciazione enunciata) 7. Calvino ci
ricorda infatti come la forma ultima de Le chef d’œuvre inconnu sia stata l’esito di una serie di
riscritture iniziate nel 1831, anno in cui comparve per la prima volta sulla rivista L’artiste, e giunte a
compimento solo nel 1837. Questo è a tutti gli effetti un “gioco di testualità”, come direbbe anche
Louis Marin (1971, p. 9), le cui tracce si possono già ritrovare nell’utilizzo di differenti sottotitoli che
accompagnarono l’opera e per cui – ad esempio – all’iniziale epiteto “racconto fantastico” (1831) fu
infine preferito il più caustico “studio filosofico” (1837) 8 . La serie di variazioni che si possono
riscontrare tra le varie edizioni del racconto, “strati di parole che s’accumulano sulle pagine come gli
strati di colore sulla tela” (Calvino 1993, p. 86), permettono infatti di riconoscere un interessante
relazione meta-testuale tra la produzione del racconto da parte di Balzac e le imprese di Frenhofer.
Un gioco dialogico tra produzione e prodotto testuale che è fondativo della pratica artistica di Samorì
come si è potuto scorgere anche in apertura con Cammino cannibale in cui la gestualità dell’artista in
relazione con la materialità pittorica dell’affresco ri-presenta il processo di scorticamento a cui fu
sottoposto Marsia.
4. Lo spessore della pittura: luogo del senso
Per capire la portata semiotica e teorica del gesto di Samorì sembra quindi opportuno sviluppare una
riflessione che si muove nel solco della proposta barthesiana di una storia ancora non scritta di
strumenti e materiali dell’arte. Quando la pittura è entrata nella sua crisi storica – dice Barthes (1982,
p. 147) –, così come si è assistito a una moltiplicazione degli strumenti a discapito del solo pennello,
lo stesso è avvenuto anche per i materiali: “c’è stato un viaggio infinito di oggetti traccianti e dei
supporti dietro la pittura. Al di là della sua superba individualità storica (l’arte sublime della
rappresentazione colorata) c’è altro: i movimenti del graffio, della glottide, delle viscere, una
proiezione del corpo, e non solo una padronanza dell’occhio”.
6
Sui “problemi di enunciazione astratta” è recentemente tornata Mengoni (2020). Un testo fondamentale, vista la
postura mariniana che permette di tornare con acume sul problema delle marche enunciative all’opera nella
produzione artistica contemporanea.
7
Come sostiene anche Emile Benveniste a proposito dell’enunciazione scritta: “questa si muove su due piani: lo scrittore
si enuncia scrivendo e, all’interno del suo scrivere, fa sì che degli individui si enuncino” (Benveniste 1970, p. 127).
8
Il cambiamento di nomenclatura è a tutti gli effetti un apparato testuale che si fa ri-presentazione di variazioni
operate dall’autore a livello di una semantica del discorso. Nella processualità delle riscritture de Le chef d’œuvre
inconnu è allora possibile vedere una vera e propria rappresentazione (cfr. Marin 1975; 1989) dell’evoluzione stilistica
della produzione balzachiana dato che questo racconto, come ci ricorda Calvino (1993, p. 84), è “situato in un punto
nodale della storia della letteratura, in un’esperienza ‘di confine’, ora visionario ora realista, ora l’uno e l’altro insieme”.
278
Una questione che chiama parimenti in causa l’inscindibile rapporto tra materiali e gestualità del fare
artistico. Perché, potrebbe essere legittimo chiedersi, guardare in maniera così insistente a questo tipo
di rapporto? Una delle possibili chiavi di lettura a questa domanda, nel momento in cui si vuole
riflettere sui meccanismi di produzione della significazione nell’arte 9 , è stata avanzata sempre da
Hubert Damisch:
Se vale la pena soffermarsi sulla questione dell’artista è in primo luogo in quanto essa può e deve
portare a sviluppare, nel quadro di una teoria generale dell’enunciazione, una problematica coerente
del soggetto non come ‘origine’ ma come operatore del messaggio: come agente tra gli altri, in un
dato contesto, della funzione artistica stessa (Damisch 1981, p. 964; tr. nostra).
Visto che, come ricorda anche Paolo Fabbri (1986, p. 16), la semiotica è una disciplina che “rinfresca
la sua forza con l’uso”, vorrei concentrarmi adesso su alcune opere di Nicola Samorì che
permetteranno di sviluppare alcune di queste premesse. I casi su cui mi soffermerò sono tra loro
accumunati da una vicinanza tematica che è quella della rappresentazione dei martiri10. Questo è uno
dei grandi filoni della sperimentazione artistica di Samorì in cui figurazione, de-figurazione, materia
formata e informe sono indissolubilmente connessi fra loro. Si vedrà che a differenza di quella
tradizione barocca che presuppone una rappresentazione trionfante del santo nel momento del
martirio, le opere di Samorì sono decadenti, funeree e antimonumentali. In aperto contrasto con una
retorica della meraviglia che doveva investire lo spettatore, quelle dell’artista forlivese sono piuttosto
immagini abominevoli, orrorifiche. Sono opere che non hanno niente a che vedere con la stoicità
cristiana. Sono immagini molli, in declino costante.
4.1. Chi ha peccato, scagli la prima pietra
Pietra Penitente è un olio su tavola (100 x 100 cm) in cui vediamo ripresa la figura di San Girolamo
realizzata da José de Ribera tra il 1638 e il 1640 (Fig. 2), oggi conservata al Museum of Art di
Cleveland. A partire dalla riscrittura di quest’opera, il lavoro di Samorì si configura come caso
paradigmatico in cui l’agire pittorico dell’artista si costituisce come meta-discorso sulla pittura. Nel
rapporto di tensioni tra gestualità dell’artista e materia, infatti, il piano trasparente della
rappresentazione viene messo in discussione a partire dalla relazione che si può rintracciare tra pittura
e materialità dell’opera come insieme significante. Le operazioni che ne permettono la realizzazione
sono l’esito di una successione di momenti ben precisi e distinti, ognuno dei quali intrattiene con la
materialità della tecnica a olio un rapporto diverso. A essere in gioco nel lavoro di Samorì è l’arte
dell’alchimia, per come la intende anche John Elkins (1999), ovvero come specifica competenza di
chi la esercita 11.
9
La questione ovviamente è ampia, e riguarda l’annoso problema della supposta distinzione tra testo e pratica. Si
veda, a tal proposito, la risoluzione del dissidio proposta da Marrone (2010, pp. 3-80) e Lancioni e Marsciani
(2007). Posizioni in cui chi scrive si riconosce.
10 Su questo si veda Leone (2016), Ponzio (2018).
11
Sostiene a tal proposito Elkins (1999, p. 27): “L’alchimia è l’arte che sa come ottenere una sostanza che nessuna
formula può descrivere”.
279
Fig. 2 – José de Ribeira, San Girolamo (1638-1640). Fig. 3 – Nicola Samorì, Pietra penitente (2016)
(© Nicola Samorì).
Nel caso di Pietra penitente (Fig. 3), si assiste a un incontro-scontro tra la maestria del saper-fare
dell’artista e le proprietà materiche dalla pittura a olio, vero e proprio attore non-umano. La materialità
pittorica, nella viscosità dell’olio, detiene in sé tutta una serie di proprietà intrinseche che invitano,
suggeriscono, quelle che sono le azioni stesse per manipolarla12. Sono i lunghi tempi richiesti all’impasto
oleoso per essiccare che permettono pertanto la realizzazione dell’opera in una serie di concatenamenti
sintagmatici di avvenimenti sensomotori in cui emerge l’importanza della dimensione alchemico-
elementale della pittura.
Tutto prende avvio dalla sovrapposizione su una tavola di un grande strato materico di pittura (oltre 5
cm). Un momento di occultamento per stratificazione del supporto della rappresentazione che rievoca
la fase di preparazione della tela che è l’imprimitura. Atteso il tempo necessario affinché il solo strato
più superficiale sia asciutto (pochi mm), l’artista realizza su di esso una copia dell’opera di Ribera con
una lievità del gesto simile a quella di un tatuatore sulla pelle umana13 . Un’operazione che è resa
possibile dal cambiamento delle condizioni di esistenza elementali che mutano nel passaggio della
materia da uno stato discreto a uno compatto. Seguendo la proposta di Françoise Bastide (1987), è
questa operazione di chiusura della materia che dona alla pittura a olio più superficiale la resistenza
necessaria a rendere possibile il suo uso da parte dell’artista come supporto per la rappresentazione.
Tuttavia, questo processo di “compattizzazione” è solo parziale e celato dalla strutturazione più superficiale:
al di sotto di essa la corposità della pittura a olio è infatti ancora molle e amorfa. Un gioco di consistenze,
una co-esistenza di gradi di compattezza differenti, che permette la realizzazione del secondo atto del fare
artistico di Samorì. Presa una pietra, con un gesto che rievoca la violenza del martire, fende la superficie
essiccata e grazie alla mollezza sottostante de-figura l’immagine di San Girolamo.
Quella dell’artista forlivese, come si può vedere, è a tutti gli effetti una pièce in due atti in cui la pratica
artistica introduce due atteggiamenti tra loro in aperto contrasto in rapporto all’idea di opera-quadro. Il
primo riguarda l’effetto mimetico della profondità che Samorì realizza attraverso la ricostruzione di una
12
Sulla manipolazione delle materie si veda in ambito prettamente artistico Magli (2003); in ambito culinario
Pozzato (2020); Marrone (2022).
13 Si noti come di tutto l’insieme degli oggetti propri dell’iconografia del santo, l’unico a essere preservato è la
pietra. Sono scomparsi dal livello figurativo dell’immagine di Samorì il testo sacro e la croce. Un processo di
spoliazione che laicizza la pittura e la prepara per un discorso di altro tipo.
280
profondità al di là del quadro proprio del momento di ri-produzione dell’immagine del santo14 , il
secondo invece pertiene allo statuto della pittura a olio come soggetto della rappresentazione che emerge
nel momento in cui Samorì smembra lo spesso strato di impasto pittorico ancora molle.
Come evidenzia anche Barthes a proposito delle opere di Cy Twombly, “il potere demiurgico del pittore
consiste nel fatto che egli fa esistere il materiale come materia; anche se dalla tela scaturisce del senso, [la
pittura a olio] rimane cosa, sostanza ostinata, il cui ‘esserci’ non può essere impedito da nulla (da nessun
senso a posteriori)” (Barthes 1982, p. 178). C’è però una sostanziale differenza tra il Twombly barthesiano e
il nostro pittore forlivese. Il primo aggiunge strati di matita e colore; Samorì invece, in un procedimento che
rievoca più i grattage surrealisti, interviene per asportazione della superficie pittorica che così assume corpo,
volume e senso. Materialità e significazione sono infatti nel lavoro di Samorì due elementi inscindibili.
Guardando al valore che un tale avviluppamento materico assume all’interno del sistema testuale in cui
è iscritto, si può rintracciare il rapporto specifico che la materia informe intrattiene con il senso
complessivo dell’opera. È grazie alla relazione con gli altri elementi del quadro che la materia scarificata
da Samorì può attualizzarsi in un’analogia tra pittura asportata e pelle decorticata. Un gioco significante
come nel caso della rappresentazione di Girolamo, santo penitente che si percuote il petto con la pietra,
il cui volto e corpo sono stati flagellati dalla mano dell’artista15.
4.2. Fendere la pelle, mostrare la violenza
Questo gioco dialettico tra potenzialità della materia e produttività del senso è all’opera anche nel dittico
Indovina – Abbagliata che Samorì realizza nel 2017. La prima di queste immagini, Indovina (Fig. 4), è
realizzata in maniera analoga a quanto si è messo in luce con Pietra penitente. Differisce da essa solo
per il tipo di gestualità con cui viene realizzato lo sfregio. Invece di ricorrere a una pietra, Samorì
smembra il volto di Santa Lucia conficcando all’interno dell’impasto materico ancora duttile le sue dita.
Nuovamente, si assiste a un dialogo significante tra gestualità del fare artistico e storia della passione del
santo. Come si sa, la tradizione popolare ha da sempre invocato Lucia (da lux, luce), martire accecata,
come la santa protettrice degli occhi e della vista.
Di questa prima opera Samorì realizza in seguito un calco e con il marmo crea un’opera che è il
negativo della prima, Allucinata (Fig. 5). Ne risulta in questo caso una superficie perfettamente liscia
da cui in aggetto sporgono solo due protuberanze amorfe che sono il corrispettivo dell’incavo prodotto
nella pittura a olio. Un processo traduttivo tra due sostanze espressive differenti in cui l’artista gioca
con quelle che sono le condizioni di malleabilità dei materiali 16 : da un lato la duttilità dell’olio,
dall’altro la durezza del marmo.
14
Calabrese (1987b), a proposito dello spazio prospettico come la “finestra sul mondo” proprio della teoria
albertiana parla di “una spazialità illusoria della scena figurativa”. Samorì opera per ricostruire una profondità al
di là del quadro. Sull’approccio alla figuratività si vede anche Bertrand (2000, pp. 97-103).
15 Come si può vedere nel caso di Pietra penitente, le operazioni di riscrittura di Samorì implicano una chirurgica
procedura di neutralizzazione del valore sacro delle immagini. Non ci si addentrerà in questa sede su una puntuale
analisi del tipo di valori che questa procedura mette in gioco. Si rimanda però a Vannoni (2022) in cui la questione
è stata affrontata con maggiore puntualità. Sulla questione della neutralità e dei processi di ri- e de-semantizzazione
si veda invece Giannitrapani (2022).
16 Sul gioco di traduzione nell’arte contemporanea si rimanda al lavoro di Lucia Corrain (2016), in cui l’autrice si
concentra sull’opera di Pascal Convert Pietà Kosovo (2002), una scultura in cera realizzata a partire da un processo
di traduzione della fotografia Veillée funèbre au Kosovo di Georges Merillon (1990).
281
Fig. 4 – Nicola Samorì, Indovina (2017) Fig. 3 – Nicola Samorì, Abbagliata (2017)
(© Nicola Samorì). (© Nicola Samorì).
Nel momento in cui queste due immagini sono chiamate a guardarsi reciprocamente, come nel caso
della loro esposizione al MART di Rovereto nel 2020, è possibile riconoscere un peculiare effetto
chiasmatico che si fa mostrazione17 attraverso i suoi prodotti, di una meta-riflessione sulla pratica artistica
di Samorì. Un lavorio di tecniche e di materiali che si intrecciano costantemente tra loro e che lascia
emergere un cortocircuito tra le condizioni di esistenza di quanto è tradizionalmente considerato pittura
e quello che invece è scultura. La pittura, discostandosi da un processo di accumulo di lievi strati di
materia, si avvicina all’azione propria del fare scultoreo come quello michelangiolesco, ovvero un’arte
del levare, un processo sottrattivo grazie al quale la figura imprigionata nella materia è finalmente
liberata. All’opposto, per quanto riguarda la scultura, vediamo una quasi completa cancellazione dello
spessore volumetrico, che richiama piuttosto la bidimensionalità della pittura.
5. In forma di conclusione
Gli avviluppamenti della materia al lavoro nelle opere di Samorì sono dell’ordine del figurale, mettono
in gioco una virtualità di senso possibile e attivano con la loro potenza l’efficacia stessa delle
immagini18. Sono delle discontinuità, delle rotture, che nel sabotare il corpo dell’immagine sono al
tempo stesso “traccia violenta di un limite, marchiatura a fuoco, se così si può dire, di un margine che
rompe una forma manifesta o una figura esibita” (Marin 1992, p. 222). Attraverso la forza elementale
17
È Paolo Fabbri (2020) che suggerisce di leggere l’enunciazione come gesto dell’indicare, del mostrare:
“Dovremmo allora promuovere e difendere l’idea di un campo deittico in grado di allargare la pronominalità
linguistica, chiusa in termini visivi, a una problematica più complessa […]. Avevo proposto “deissi”, ma non è stato
accolto favorevolmente. Mostrare?” (pp. 132-4).
18
Sull’efficacia, si veda Marin (2019).
282
della materia pittorica creano dei colmi, delle interruzioni, nella sintassi visiva della rappresentazione.
Con l’idea di “colmo”, si fa riferimento a quello che è il duplice statuto del termine: da un lato come
“accidente” della rappresentazione; dall’altro come cumulus , eccedenza, sporgenza, sovrappiù di
materia. Come ricorda Marin (1984b p. 65) in un saggio dedicato all’opera Ad Marginem di Paul
Klee, “chiamo colmo della rappresentazione tutto ciò che si giocherà sui limiti del suo dispositivo,
della sua costruzione in un luogo o in un momento che non è ancora il suo esterno, il suo ‘altro’, ma
che non è più del tutto il suo interno, il suo stesso”. Analogamente, l’aggetto materico nel lavoro di
Samorì si configura per la sua carica utopica, al tempo stesso di negazione del piano mimetico della
rappresentazione e di autoaffermazione come elemento significante. Se, come abbiamo visto, la
gestualità del fare artistico di Samorì si muove secondo l’analogia del martirio dei santi articolando
specifici effetti di senso, allo stesso tempo la dimensione amorfa della materia ci parla anche di altro.
Ci guida verso qualcosa di diverso rispetto alla dimensione transitiva della rappresentazione. Ci parla
della riflessività della rappresentazione, della sua opacità, per utilizzare un termine caro a Louis Marin.
Un “effetto di soggetto” reso possibile dalle condizioni materiali di realizzazione del quadro, da un a
priori materiale della rappresentazione che è sempre, inevitabilmente chiamato in gioco:
Opacità [opacités, al plurale]: la presenza di una materia, di una carne, di un corpo della pittura nel
puro movimento della significanza dell’immagine del visibile che è il quadro di pittura, lo scheletro
del suo telaio, la pelle della sua tela, ruvida o liscia, con le sue dimensioni e il suo formato, i pigmenti
colorati, gli impasti, gli stucchi e le vernici; le tracce lasciate dalla pennellata del gesto del pittore; gli
accenti, le spaziature, le composizioni, le dissimulazioni e gli oscuramenti, le esplosioni, i vortici, i
flussi e i riflussi, le unzioni, le mellosità, le soavità, le liquidità, le viscosità, i grumi, le gocciolature e
le colature, i graffi, le incisioni, gli schizzi: opacità [di nuovo al plurale] (Marin 1997, p. 67; tr. nostra).
Attraverso questo percorso tra le opere di Samorì, si è tentato di sviluppare una riflessione sulle
capacità e le potenzialità della materia all’interno della pratica artistica contemporanea. Riflessioni
che ci si augura possano risultare utili anche a chi – di lato alle riflessioni interne al dominio dell’arte
– si potrebbe interessare al “potere fattivo” dei materiali, come ricorda anche Patrizia Magli (2003), ai
modi e alle modalità di manipolazione propri della materia che nel momento in cui viene in-formata
diventa sostanza significante.
283
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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285
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Karina Astrid Abdala Moreira
Abstract. This article presents the main issues to be taken into account when analyzing the taste experience and
its relationship with artificial intelligence. For this purpose, I base on a qualitative methodology. Firstly, I
understand that to analyze this phenomenon there are different levels of taste and for each “level” there is a
“translation” in terms of Lotman (1993). To distinguish the levels, I base on Hjelmslev’s linguistic analysis,
understanding what happens at the level of expression and the level of content when we pass from the form to the
substance and the matter of the taste experience. As far as artificial intelligence is concerned, I focus on the
philosophical issues in this area. To conclude I present how the media discourse of this new mode of taste
experience is presented by using the classic storytelling that appears in the gastronomy field.
1. Introduzione
Per analizzare i diversi livelli di materialità del gusto, ci concentreremo innanzitutto sulla definizione di
gusto. Ci sono molti teorici del gusto e del disgusto come Boutaud (2005), Bianciardi (2011), Marrone
(2014, 2016, 2022), Mazzocut-mis (2015), Stano (2017, 2015). Tra le ricerche che stabiliscono i principali
problemi teorici legati al gusto, vale la pena citare il lavoro di Bianciardi (2011, p. 29). L’autore sostiene
che il senso del gusto è sinestetico, quindi nell’analizzarlo è necessario tenere conto di tutti gli altri sensi
nel loro insieme. È per questo motivo che, quando si analizza l’esperienza gustativa, si considerano
anche le dimensioni visive, uditive, olfattive e tattili, che si producono contemporaneamente nel soggetto
degustatore. In quanto alla pluralità sensoriale, secondo Bianciardi (2011) il gusto implica una
degustazione di diversi sapori e che l’individuo possa identificare ognuno di questi sapori; “la matrice
di partenza di ogni forma di «gusto» risiede nella degustazione dei sapori alimentari: nel suo significato
originario, il gusto si presenta innanzitutto come la capacità di discernere i sapori specifici degli alimenti,
la qual cosa implica la preferenza per alcuni di essi” (Bianciardi 2011, p. 31).
Inoltre, ogni esperienza sensibile si configura con il riconoscimento della differenza, pertanto, è grazie
all’esperienza che il soggetto è in grado di classificare i gusti.
Chiaramente, questa classificazione è fortemente segnata dall’aspetto sociale e culturale. La prospettiva
sull’esperienza di Peirce (CP 1.335) 1 è utile in questo senso, poiché è attraverso questa teoria che
possiamo capire come funziona l’esperienza: la userò per spiegare il riconoscimento del gusto. Il soggetto
passa dalla Firstness (CP 1.302), – dove solo nella sua percezione compaiono le sensazioni di quel gusto,
il che implica una gamma di possibilità, dove il soggetto non può conoscere nulla prima dell’assaggio,
tutto è immerso nelle possibilità – alla Secondness che è fortemente legata alle caratteristiche dell’oggetto
assaggiato (temperatura e consistenza, ad esempio) e Thirdness, in cui diviene possibile definire gusti e
sapori. Secondo Peirce, la Firstness implica che “la libertà può manifestarsi solo in modo illimitato e
incontrollato varietà e molteplicità; e così il primo diventa predominante nelle idee di varietà e
1Le citazioni dell’opera di C. S. Peirce sono fatte nel modo consueto: CP [x.xxx] si riferisce al volume e al
paragrafo dell’edizione The Collected Papers of Charles S. Peirce.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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molteplicità smisurate. È l’idea guida della ‘varietà di sensi’” (CP1.302). Il numero di possibilità
all’interno della Firstness dipende chiaramente dalla società dell’individuo, perché questa determina
quali ingredienti è possibile assaggiare. Poi la persona giunge al riconoscimento dell’elemento che
assaggia, e a questo punto del processo siamo di fronte alla Thirdness (CP 1.26), ovvero all’Interpretante,
che permette una semiosi del riconoscimento del gusto.
Questi stadi dell’esperienza coinvolgono diversi livelli di percezione che appaiono istantaneamente
e congiuntamente.
Pertanto, in questo articolo il mio obiettivo è mostrare i diversi passaggi e traduzioni in grado di attivare
diversi sensi che esistono quando questi fenomeni vengono analizzati. Mentre approfondiamo gli studi
di entrambi i campi (intelligenza artificiale e gusto), comprendiamo che in essi compaiono diversi livelli
e il comune denominatore è la percezione e l’esperienza.
In sintesi, è importante analizzare il gusto come sinestetico, poiché tutti i sensi sono attivati nella degustazione.
2. Concettualizzazione e problemi principali dell’Intelligenza Artificiale
Il problema principale che si pone quando si analizza l’intelligenza artificiale è il nome che usiamo per
definirla, che orienta l’interpretazione delle sue funzioni. Secondo Ienca (2019) e Cristianini (2023),
esistono diversi tipi di intelligenza e non devono essere paragonati all’intelligenza degli esseri umani. “È
fuorviante attribuire qualità umane a tutti gli agenti intelligenti, e quando riflettiamo sulle intelligenze
che incontriamo nei nostri browser è più utile compararle alle erbe o alle lumache del giardino che a
noi stessi” (Cristianini 2023, p. 9).
Anche Ienca (2019) sottolinea che la questione dell’intelligenza può essere riscontrata in diversi animali
e non implica che funzioni allo stesso modo degli esseri umani. Ma sottolinea come l’intelligenza umana
sia ugualmente stata nella storia un modello per sviluppare forme di intelligenza artificiale. Fumo (2017)
ha spiegato che la rete neurale artificiale funziona come un modello computazionale basato sul modo
in cui le reti neurali biologiche del cervello umano elaborano le informazioni. L’unità di base della
computazione in una rete neurale è il neurone, chiamato nodo o unità. Riceve input da altri nodi e
calcola un output. “Ogni ingresso ha un peso associato, che viene assegnato in base alla sua importanza
relativa rispetto agli altri ingressi. Il nodo applica una funzione alla somma ponderata dei suoi input”
(Fumo 2017, p. 1). A sua volta, questo sistema neurale ha delle regole, una delle più importanti delle
quali è l’apprendimento, ovvero un algoritmo che modifica i parametri della rete neurale in modo che
un dato input alla rete produca un output favorito.
Pertanto, ci troviamo costantemente di fronte a un’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale. Non
solo perché essa simula il funzionamento del cervello umano, ma perché a differenza del resto degli
animali o degli esseri intelligenti che possiamo trovare, l’intelligenza artificiale è stata possibile grazie
alla mano dell’essere umano (Cristianini 2023).
D’altra parte, Fry (2018) dopo aver analizzato diversi casi in cui le decisioni sono prese principalmente
dagli algoritmi che sono alla base dell’intelligenza artificiale, ha mostrato il problema dell’autonomia.
Fry spiega che l’algoritmo si limita a seguire le istruzioni “logiche che mostrano, dall’inizio alla fine,
come eseguire un compito. Con questa definizione ampia, una ricetta per una torta è un algoritmo” (Fry
2018, p. 11). Gli algoritmi possono ricevere istruzioni, ma anche fornirne, sulla base dei modelli “che
apprende dai dati, una foresta casuale è descritta come un algoritmo di apprendimento automatico, che
rientra nel più ampio ombrello dell’intelligenza artificiale” (Fry 2018, p. 48).
L’algoritmo di machine learning pone il problema dell’autorità che l’essere umano dà all’algoritmo:
tuttavia, conclude Fry, “forse riconoscendo che gli algoritmi non sono perfetti, non più degli esseri
umani, potrebbe avere solo l’effetto di sminuire qualsiasi assunzione sulla loro autorità” (Fry 2018, p.
153). Come soluzione al problema dell’autorità, si propone che non solo venga fornito un output come
287
soluzione a un determinato problema, ma che l’algoritmo fornisca una serie di opzioni, in modo che
l’essere umano possa scegliere tra loro, e togliere la piena autorità alla macchina. Poiché, secondo
l’autrice (Fry 2018, p. 154), è proprio qui che sorgono i problemi, quando ci si fida totalmente del
risultato che appare, senza interrogare, senza considerare che i dati che sono stati dati alla macchina
sono prodotti dell’ambiguità umana.
Tutte queste spiegazioni sul funzionamento dell’intelligenza artificiale sono fondamentali per capire
come questa possa creare suggerimenti per articolare la materialità e creare nuovi gusti, possibili grazie
all’esistenza di un database. Ovvero, l’archivio di una enciclopedia di forme semiotiche che l’intelligenza
artificiale è in grado di riconoscere e produrre (Eco 2007, p. 14).
Nel caso dell’intelligenza artificiale nel gusto, l’opzione della macchina è quella che suggerisce un mix
di ingredienti per produrre una nuova materialità di un nuovo gusto. Ma in che senso la scelta di
ingredienti può essere definita come intelligente?
Definiremo l’intelligenza in termini di comportamento di un agente, ovvero di qualsiasi sistema in
grado di agire nel suo ambiente, usando informazioni sensoriali per prendere decisioni. Ci
interesseremo in particolare agli agenti autonomi, ovvero agenti che prendono decisioni
internamente senza essere controllati, e agli ambienti che possono essere almeno in parte influenzati
dalle azioni dell’agente (Cristianini 2023, p. 13).
In questa affermazione appare un elemento fondamentale, ovvero la percezione sensoriale. Gli studi
di Parisi (2019), attraverso un’analisi del rapporto dell’essere umano con la tecnologia, permettono di
delineare il processo di autopoiesi (Maturana, Varela 1980) che esiste con gli esseri umani. Si instaura
quindi un rapporto con la tecnologia che dipende dal nostro corpo. Secondo Parisi (2019) il nostro
corpo limita le nostre azioni, è la base delle nostre sensazioni e soprattutto della nostra percezione. È
qui che si collega a quanto accennato da Cristianini (2023), dove la percezione è la base della
decisione. Ma fino a che punto l’intelligenza artificiale può percepire sensorialmente gli elementi che
appaiono nel suo ambiente?
Uno dei primi casi di studio sulla tecnologia è la simulazione del naso elettronico, che permette la
digitalizzazione dei componenti chimici di ogni ingrediente (Alphus 2009). Questa fase è stata quella
che ha permesso la costruzione di un database, che successivamente, con l’intelligenza artificiale, ha
potuto suggerire una miscela di ingredienti e materializzare nuovi gusti. Parisi (2019, p. 72) sostiene che,
poiché le nostre sensazioni dipendono dal nostro corpo, la tecnologia e l’intelligenza artificiale devono
sviluppare elementi simili, al fine di incrementare nuovi gusti. Questo è uno dei problemi centrali che
troviamo quando si parla di percezione sensoriale, e della prima “traduzione”, nei termini di Lotman
(1993), tra il corpo dell’essere umano e la simulazione del corpo della macchina.
Pensando alla questione dell’esperienza gustativa applicata nel campo dell’intelligenza artificiale, è
proprio Cristianini (2023, pp. 73-74) che fa un confronto tra alcune ricette di cucina per capire il
funzionamento di un algoritmo. Egli sottolinea che ogni cambiamento nella ricetta di cucina può alterare
il risultato. Ma non prende in considerazione i problemi del gusto e della percezione, limitandosi a
descriverli come “ordini dettati”. L’aspetto interessante di questo discorso è che nella ricetta, come
nell’algoritmo, la nozione di esperienza si basa sulle conoscenze maturate in seguito a errori commessi.
Un cuoco esperto probabilmente ha provato molte variazioni prima di trovare i valori ideali, ma
probabilmente continua lo stesso a sperimentare ogni volta che lavora in una nuova cucina o usa
un tipo diverso di farina. In linguaggio matematico queste quantità modificabili della ricetta si
chiamano parametri [...] Questo è uno dei modi più tipici in cui le macchine imparano, ovvero
cambiano il proprio comportamento sulla base dell’esperienza, e può essere applicata ai parametri
numerici che controllano le previsioni (e quindi i comportamenti) di agenti che raccomandano
(Cristianini 2023, p. 74).
288
Pensare alla cucina come a un meccanismo di prova ed errore può essere la base per collegare i due
ambiti, ma è chiaro che se si parte da questa base si tralasciano i livelli di esperienza gustativa, che sono
fondamentali per la creazione della materialità dei nuovi sapori.
Un altro problema che dobbiamo affrontare quando analizziamo questi temi è quello della traduzione
di un mondo percettivo sensoriale, continuo, come quello del gusto, in un mondo “più matematico”
come quello dell’intelligenza artificiale, discontinuo. Questo passaggio non significa che si debba cadere
nella banalità di distinguere i due mondi come opposti naturali e/o artificiali. Perché sappiamo che la
costruzione di un gusto ideale è un elemento chiaramente sociale, culturale, tutt’altro che naturale.
Uno dei problemi che Cristianini (2023) sottolinea è la fiducia che viene data a questi dispositivi: negli
studi che troviamo sull’intelligenza artificiale, compaiono autonomia e fiducia. Elementi che possono
essere migliorati prendendo in considerazione il modo in cui viene creato il database e come viene
pensata la traduzione degli elementi, non trascurando le questioni culturali. Soprattutto, non pensando
da una prospettiva antropocentrica.
Quando mi riferisco alla questione della traduzione, è necessario prendere in considerazione anche la
nozione di immaginario sociale, perché, come già accennato nell’articolo, esso governa sia il gusto che
l’intelligenza artificiale. Nel concetto di immaginario sociale, basato su Castoriadis (1975), troviamo gli
aspetti simbolici e la rappresentazione di un ideale. A questa funzione dell’immaginario sociale sono
associate le istituzioni che lo promuovono (Castoriadis 1975).
Nel caso dell’intelligenza artificiale e del gusto possiamo trovare dispositivi diversi, da quelle del settore
ICT a gastro-alimentare. Entrambi generano un immaginario sociale in ogni area. Per quanto riguarda
il dispositivo dell’intelligenza artificiale, sempre inquadrato in ambito gastronomico, siamo all’interno
dell’immaginario sociale che cerca la perfezione. Ad esempio, quando si dice che l’intelligenza artificiale
può selezionare gli ingredienti in base al miglioramento dell’ambiente. Per quanto riguarda la
gastronomia, esistono i discorsi che fanno gli chef sul gusto nell’area confermano la pervasività di questa
ideologia culturale. Diversi chef menzionano l’importanza dello storytelling che ha luogo prima che
l’individuo assaggi il cibo. Gli chef sanno che questa storia predispone gli aspetti sensoriali al momento
dell’assaggio2. Uso il termine storytelling e non narrazione, perché il modo di spiegare come è stato fatto
un piatto richiede tecniche artistiche profonde che gli chef conoscono per creare una certa atmosfera
quando si assaggiano i loro piatti. Lo storytelling è accompagnato anche dalla decorazione e da tutti gli
elementi che si trovano nel ristorante, che aiutano la credibilità dello stesso. Tutti questi elementi
favoriscono un immaginario sociale che guida la costruzione del piatto e alla qualificazione sensoriale
dell’esperienza gustativa.
La realizzazione di piatti mediante l’uso dell’intelligenza artificiale è oggi uno storytelling centrale nella
cultura gastronomica. Questo storytelling richiede anche l’istituzione dei media, dove si comunica questa
nuova forma di creazione gastronomica enfatizzando certi aspetti.
In questi casi si pone il problema del passaggio dall’immaginario alla materialità del gusto – nei termini di
Peirce, dal simbolico (CP 1.558) all’oggetto dinamico. Ma l’immaginario sociale creerà sempre un Interpretante
(CP 2.228) che sarà irraggiungibile, stabilendo una tendenza che si avvicini all’immaginario sociale.
Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale e il gusto, Davidsson (2021) sottolinea che l’intelligenza
artificiale inizi con le reti algoritmiche, ma quando parla di ricette, sostiene che gli esseri umani si basano
sull’esperienza dei sapori per realizzarle:
L’odore e l’aspetto dei diversi ingredienti. Tutte queste informazioni non sono disponibili per
l’algoritmo, che può solo vedere come i diversi ingredienti vengono utilizzati insieme. Per inciso,
questo è un problema comune nell’apprendimento automatico, in cui il modello eredita i pregiudizi
2
Proprio su questi temi sto concentrando il mio lavoro di tesi dottorale in svolgimento presso l’Università degli
Studi di Torino e l’Université de Lille.
289
dai dati. In questo modo si escludono alcune combinazioni di ingredienti che sono rare a causa delle
caratteristiche geografiche (Davidsson 2021, p. 1).
In questa citazione emerge l’elemento culturale centrale, dove a seconda del Paese, l’individuo trova il
suggerimento di ogni ingrediente da mescolare. Ci si chiede fino a che punto si possa creare qualcosa
di nuovo. Diversi chef affermano che l’intelligenza artificiale è un modo per sbloccare la creatività e
creare insieme oggetti e ricette.
Davidsson (2021) cita alcuni elementi che un buon pasto dovrebbe avere, come l’equilibrio, la
variazione, la novità e la familiarità. Secondo l’autore, l’equilibrio degli elementi di gusto, la variazione
e la novità, sono facili da comprendere dall’intelligenza artificiale, mentre tutto ciò che riguarda la
familiarità è legato alla memoria gustativa del soggetto. Per quanto riguarda le spezie, sostiene che il
loro abbinamento è dovuto solo ad un aspetto culturale. Le spezie sono legate all’odore e potrebbero
avere “una stretta connessione tra la parte del cervello che elabora gli odori e l’ipotesi che elabora i
ricordi. Ciò significherebbe che le spezie potrebbero essere utilizzate per evocare determinati ricordi”
(Davidsson 2021, p. 2).
Ancora una volta ci troviamo tra la traduzione tra l’essere umano e la macchina, perché ci sono
componenti difficili da replicare dall’intelligenza artificiale, come la memoria del gusto, a cui fa
riferimento Boutaud (2005) e l’altro elemento importante da replicare è la percezione.
Per ricapitolare, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, c’è antropomorfismo, ed il database è frutto
di una costante traduzione tra il corpo umano e la macchina. La traduzione appare nelle percezioni
sensoriali tra gusto e matematica. Ma la percezione neanche è naturale perché entra in gioco la
concezione dell’immaginario sociale, dove troviamo sia il gusto come ideale che come lo storytelling.
3. Livelli del gusto e dell’intelligenza artificiale
Per comprendere i diversi livelli della materialità del gusto, e come ciascun livello venga tradotto nella
sua ri-creazione con l’intelligenza artificiale, possiamo ricorrere alla linguistica di Hjelmslev (1943, p. 52).
Con questa teoria possiamo distinguere in linea di principio due livelli fondamentali, quello del
contenuto e quello dell’espressione. Il piano del contenuto ha un significato arbitrario se viene pensato
in relazione al piano dell’espressione. Sul piano del contenuto si trovano forma, materia e sostanza, così
come sul piano dell’espressione.
Se applichiamo questo modello all’esperienza gustativa dell’intelligenza artificiale, possiamo riconoscere
diverse tipologie di segni: gli output (ricette su schermo, algoritmi, 3D food etc.), che sono anche piani
dell’espressione della stimolazione sensoriale che è l’esperienza gustativa, così come il database, cioè il
paradigma di possibili combinazioni fra ingredienti.
Ad ognuno di questi segni corrisponderà un piano dell’espressione e del contenuto, entrambi suddivisi
in forma, sostanza e materia.
Possiamo affermare che, sul piano dell’espressione, la forma è costituita dall’insieme degli output (ricette,
3D food etc.), a partire da un paradigma, che è il database, di possibili combinazioni; la sostanza sarà
da individuare nell’insieme di tecnologie, ingredienti e piatti che definiscono l’intelligenza artificiale
attuale e che si realizzano nei diversi segni e nelle diverse culture. Il database concerne invece il modo
in cui le combinazioni fra gli ingredienti sono predisposte dall’intelligenza artificiale, cioè contengano
(embedded) stereotipi culturali; la materia, infine, concerne sia il segno realizzato, sia la materialità
plurilinguistica della macchina, così come il livello biologico di stimolazione sensoriale, gustativa, tattile
e olfattiva, o il livello visivo del piatto, e uditivo che accompagna l’esperienza gustativa, e la materialità
del contesto in generale (il luogo in cui si svolge la degustazione).
Corrispondono anche al livello di espressione i segni che compongono lo storytelling, che viene
realizzato nel momento che precede ogni degustazione nello restaurante. Lo storytelling può essere
290
presentato sotto forma di immagini o di parole, insieme a tutti gli elementi che fanno parte del contesto
in cui si svolge la degustazione.
A livello del contenuto, saranno da situare tutte le operazioni interpretative e deduttive attuali (da tutti
gli attori umani e non umani) – come fra amaro/dolce/aspro/salato/umami – che intervengono
nell’esperienza gustativa, fino al riconoscimento culturale di gusto e testura, l’orchestrazione sensoriale
e sinestesica, la memoria, il giudizio di gusto (Bourdieu 1979).
Un’altra funzione segnica è la memoria gustativa, che ha il compito di collegare gli elementi che portano
al riconoscimento del piatto. Nella degustazione, l’espressione sarà individuata da un segno tattile perché
attraverso la consistenza (ad esempio la croccantezza del piatto, la morbidezza, la temperatura etc.), il
soggetto può riconoscere il piatto, in base alla sua esperienza gustativa. Infine, tutta questa analisi di
Hjelmslev (1943) mi permette di comprendere i diversi passaggi e traduzioni che avvengono
internamente ed esternamente, nei dispositivi analizzati.
4. Casi d’esperienza gustativa mediati dall’intelligenza artificiale
Uno dei primi esempi che in cui possiamo trovare il collegamento tra intelligenza artificiale e gusto, si
trova nella birra. Secondo Dunshea, Fuentes, Gonzalez e Torrico, (2019) l’uso di algoritmi di
apprendimento automatico in alimenti e bevande “è diventato più popolare negli ultimi anni, poiché
aiutano ad aumentare l’accuratezza, ridurre tempi e costi nei metodi analitici e sensoriali per valutare la
qualità e accettabilità delle bevande” (Dunshea et al. 2019, p. 2). Nel caso della birra è stato verificato
che esistono modelli di intelligenza artificiale in grado di prevedere il gusto al palato, come l’amarezza,
“utilizzando i parametri fisici relativi al colore e alla schiuma, cosa possibile perché i consumatori
possono giudicare la qualità e l’accettabilità di birra basata esclusivamente su attributi visivi” (Dunshea
et al. 2019, p. 8). Ciò implica che esiste una relazione tra schiuma e parametri legati al colore e all’amaro,
poiché il luppolo contribuisce allo sviluppo di aromi e sapori nella birra. Anche questo ci porta a pensare
all’importanza di ogni senso quando si parla di gusto, poiché attraverso il visivo la macchina può
prevedere il sapore più o meno amaro di ciò che è custodito da detta bevanda. Secondo gli autori esiste
un modello di intelligenza artificiale che si basa sulla raccolta di dati attraverso l’utilizzo di un Robobeer
e indaga i video grazie ad algoritmi di visione artificiale. Gli autori sottolineano che tutta questa
tecnologia “offrirà all’industria della birra un processo completamente automatizzato per prevedere il
gusto del consumatore e l’accettabilità delle diverse birre” (Dunshea et al. 2019, p. 8).
Un altro esempio importante è la realizzazione di una ricetta creata dall’intelligenza artificiale ed è un
biscotto 50%, torta 50%, pensato per le feste di Natale. Nel loro blog Markowitz e Robinson (2020),
spiegano come sono arrivati a questo risultato, entrambi sono ingegneri e questo esempio mostra
l’importanza di contestualizzare il luogo in cui viene realizzata la ricetta e il periodo dell’anno. Gli autori
sono americani e spiegano che nel loro paese è comune mangiare torte e biscotti a Natale: questi
elementi sono importanti quando l’intelligenza artificiale crea la loro nuova ricetta. Secondo Markowitz
e Robinson (2020) prendendo i valori per le nuove ricette da una rete neurale, “ti mostreremo come
creare un modello di apprendimento automatico spiegabile che analizzi le ricette di cottura e persino
usarlo per creare le nostre nuove ricette, senza dati competenza scientifica richiesta” (Markowitz,
Robinson 2020, p. 1). Il risultato ottenuto è un impasto ibrido tra biscotti e pane, in cui sono stati inseriti
solo 16 ingredienti selezionati dall’intelligenza artificiale, ma includendo ingredienti che influenzano la
consistenza dell’impasto. Da quanto approfondito in questo blog si capisce che il risultato della nuova
ricetta dipende esclusivamente dai dati forniti al motore di ricerca, utilizzando ad esempio la parola
biscotto o torta, ottenendo così un grafico che determina gli ingredienti comuni per entrambi ricette sia
come farina, uova etc. La cosa importante di questo esperimento è capire cosa accadrà all’esperienza
gustativa. Questo esempio ci fa anche riflettere su cosa può succedere con le ricette considerate
tradizionali in un certo paese, cosa accadrà con l’unione tra piatti tradizionali e l’intelligenza artificiale.
291
Fig. 1– Biscotto torta esterna. Fig. 2 – Biscotto torta interno.
Fig. 3 – Torta biscotto esterna. Fig. 4 – Torta biscotto interno.
5. Analisi del discorso: presentazione di Flavor Graph
Flavor graph, una delle principali applicazioni ideate da Sony nell’ambito di un progetto dell’Università
della Corea, esegue, come suggerisce il nome, la “mappatura dei sapori”. In questa applicazione viene
visualizzata la composizione chimica di ogni ingrediente, che si trova all’interno del database, e poi
vengono visualizzati i nomi degli ingredienti che corrispondono a ciascuna composizione chimica.
Infine, l’algoritmo “rischia” di suggerire all’individuo che utilizza l’applicazione le possibili combinazioni
di determinati ingredienti. Vengono visualizzate le combinazioni già realizzate, quelle che non è
consigliabile realizzare e quelle che sono consigliabili ma non sono mai state realizzate. Nei casi in cui
gli elementi suggeriti dall’intelligenza artificiale non vengono mai creati, si distingue la creazione da
parte degli algoritmi, anche se gli chef che ho intervistato nella mia ricerca di dottorato affermano che
le creazioni passano sempre attraverso l’essere umano, e ciò che l’intelligenza artificiale può fare è
sbloccare la mente del creatore per ispirare nuove ricette. Comprendo che il suggerimento sia dato
dall’intelligenza artificiale e che il risultato dipenda sempre dalle capacità dell’essere umano che prepara
il piatto, ma la creazione del nuovo gusto è opera della macchina. In questi casi, si stabilisce sempre che
si tratta di una realizzazione congiunta, perché senza la macchina non saremmo sicuri se quella
combinazione esisterebbe o meno. La figura 5 mostra la costruzione della mappa dei sapori disegnata
dall’applicazione Flavor Graph.
292
Fig. 5 – Design della mappa dei sapori a cura di Flavor Graph.
Un’intervista di Gifford e Marcus (2022) allo chef Hajime Yoneda, disponibile sul sito web
dell’applicazione Sony, lo chef spiega di aver collaborato alla creazione del database dell’applicazione,
fornendo tutte le sue ricette. L’intervista è divisa sul sito in tre parti, dove nella prima troviamo un intero
discorso che punta al sentimentale, dove la cucina diventa fonte di emozioni e pensa all’unione tra uomo
e macchina, avvicinandola alle emozioni. Sebbene nell’immaginario sociale (Castoriadis 1975)
l’intelligenza artificiale sia associata a qualcosa di “freddo” (ad esempio è sempre disegnata con il colore
blu), in questo caso, si cerca di dare emozioni a qualcosa che per sua natura non le ha, e siamo ancora
una volta di fronte a un’antropomorfizzazione. Questa analisi discorsiva tiene sempre conto del fatto che
siamo di fronte a un’azienda che intende vendere e posizionare il proprio discorso, ma questa analisi va
oltre le leggi del marketing. Uno degli elementi utilizzati per alludere alle emozioni è l’immagine che
possiamo vedere nella figura 6, dove viene fatto un gioco di parole tra AI (intelligenza artificiale in
inglese) e la parola amore, che in giapponese è AI.
Fig. 6 – Rappresentazione delle emozioni tra uomo e l’intelligenza artificiale.
Si può notare, in particolare nella seconda parte dell’intervista, un cambiamento radicale del discorso,
che mira a modificare gli oggetti, in questo caso gli ingredienti, fino alla perfezione. Lo chef menziona
la necessità di tagliare con precisione ogni ingrediente perché, anche il più piccolo dettaglio, ne
cambierebbe il sapore. Allo stesso tempo, cita la necessità di inserire nel suo ristorante dei robot che
controllino la temperatura, il suono e le altre variabili ambientali, come i livelli di dopamina dei
commensali, per rendere la loro esperienza gustativa il più appropriata possibile. Alla luce di queste
affermazioni, ritengo impossibile replicare i suoi piatti al di là dell’utilizzo dell’applicazione Flavor
Graph. Questa serie di interviste si conclude con l’immaginario sociale della democratizzazione, che
implica che tutti possano cucinare come uno chef grazie all’applicazione, cosa che, come abbiamo già
visto nella seconda parte dell’intervista, è praticamente impossibile. Perché stare a tavola, come segnala
293
Boutaud (2005), implica una serie di parametri non replicabili tra l’ambiente del ristorante e quello
privato. Tutta questa analisi discorsiva richiede la semiotica peirceana, poiché si passa dalle emozioni della
prima parte, ovvero Firstness (CP 1.302), alla Secondness (CP 1.325), attraverso la manipolazione diretta
degli oggetti, e la costante ricerca di aspetti indessicali (CP 2.281) (l’aumento di dopamina da commensali,
reazioni non controllate dal soggetto). Per poi, infine, passare attraverso la Thirdness (CP 1.26), quando si
parla dell’ideale di democratizzazione che implica chiaramente l’aspetto simbolico sociale.
Insomma, vorrei evidenziare il ruolo del discorso mediatico, che mette in luce il nuovo storytelling che
l’intelligenza artificiale e la gastronomia implicano. Nell’analisi dell’intervista, emerge la necessità di
affrontare entrambi gli elementi in modo sensibile, per poi mostrare una precisione grazie all’aspetto
più matematico della macchina. Una ricerca di aspetti indessicali, ovvero l’autenticità del piacere del
piatto per il commensale, con la finalità di raggiungere un’accettazione sociale.
294
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295
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] | Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione
materiale degli utenti
Daria Arkhipova
Abstract. This research delves into the physical implications of digital communication, with a specific focus on
social media platforms that utilise Artificial Intelligence recommendation systems (AiRS). AiRS continually provide
stimuli to users, encouraging their interactions with digital representations of everyday material objects. These AI-
mediated representations have the potential to influence users’ behaviours and physical states, bridging the gap
between the digital and the material, natural environments. The primary objective of this study is to establish a
methodological framework for investigating how digital platforms can shape users’ interactions with AI-mediated
digital representations and their material world objects. Furthermore, this research views digital platforms as
environments capable of providing affordances to users and fostering scaffolding processes through interactions
within the environment. The impact of AI-mediated social media on its users is examined by establishing connections
between methodologies from cognitive science and semiotics, aiming to gain a comprehensive understanding of how
these platforms influence users’ experiences and behaviours in both the digital and physical realms.
1. Introduzione
Il contesto digitale è spesso considerato in contrasto con la dimensione fisica e materiale. Nella concezione
comune, il digitale viene percepito come privo di una manifestazione tangibile e concreta. Dal punto di
vista della semiotica, il digitale può essere compreso come un sistema semiotico che opera attraverso
rappresentazioni degli oggetti del mondo fisico e materiale. Negli ultimi anni, le interazioni digitali hanno
subito un notevole aumento a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia da COVID-19. Durante
questo periodo, molte persone si sono trovate costrette a rimanere confinate nelle proprie abitazioni e ad
interagire principalmente attraverso soluzioni di videoconferenza, social media e altre piattaforme digitali.
Questa situazione di separazione fisica ha avuto delle conseguenze significative sul benessere degli
individui, manifestandosi in sintomi di esaurimento, stress e burnout, che hanno influenzato anche il loro
stato fisico e corporeo (Liu, Ma 2020; Shao et al. 2021; Sharma et al. 2020).
Il presente studio propone un approccio metodologico per analizzare l’impatto dei social media basati
sull’intelligenza artificiale (IA) sugli utenti, concentrandosi principalmente sulle dimensioni psicologica
e fisica. L’obiettivo principale della ricerca è comprendere se i social media basati sull’IA abbiano un
impatto concreto e tangibile sulla dimensione fisica e materiale degli utenti e come questa “materialità”
possa essere identificata e analizzata attraverso i loro effetti psicofisici. Particolare attenzione è rivolta
alle reazioni da stress degli utenti, ovvero alle risposte che il nostro corpo sviluppa per affrontare
situazioni stressanti. Nell’affrontare una minaccia, specifiche regioni del cervello, come l’amigdala,
vengono attivate per stimolare la produzione di cortisolo, glucocorticoidi e adrenalina, al fine di potenziare,
ad esempio, la forza fisica o la velocità (Rabin 2002, p. 43). Questa reazione fisiologica si è sviluppata
nell’ambito dell’evoluzione umana per far fronte a potenziali pericoli presenti nell’ambiente circostante.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
Per analizzare la dimensione materiale del digitale, questo articolo adotta i metodi delle scienze cognitive
e della semiotica. In particolare, si avvale di strumenti teorici provenienti dalla biosemiotica e dalla
semiotica cognitiva per spiegare come la materialità dei social media basati sull’IA si manifesti attraverso
le reazioni corporee degli utenti, focalizzandosi in particolar modo sulle reazioni da stress.
La ricerca si concentra sulle interazioni degli utenti con i social media basati sull’IA che si fondano su
rappresentazioni digitali, come ad esempio TikTok. Questi social media condividono molte
caratteristiche nella loro logica di funzionamento, con particolare enfasi su contenuti quali immagini e
video. Verranno anche esaminate le affordances offerte da queste piattaforme agli utenti e come tali
affordances possano promuovere processi di scaffolding.
L’articolo è diviso in sette sezioni. Il paragrafo due presenta la terminologia utile. Il terzo paragrafo
discute il ruolo dei sistemi di raccomandazione basati sull’IA all’interno delle piattaforme di social
media. Tali sistemi influenzano in modo significativo i processi di comunicazione tra gli utenti e hanno
un ruolo cruciale nel funzionamento delle piattaforme stesse. Il quarto paragrafo analizza le affordance
offerte dalle piattaforme di social media agli utenti, riferendosi alle caratteristiche e alle possibilità che
esse offrono per interagire e partecipare all’interno dell’ambiente virtuale. Il quinto paragrafo spiega
come i social media basati sull’IA favoriscano processi di scaffolding e pratiche interpretative che
inducono reazioni fisiche all’interno dell’ambiente materiale dell’utente. Il sesto paragrafo presenta un
caso studio riguardante l’uso del filtro #horseface su TikTok, evidenziando come l’impiego di filtri di
realtà aumentata possa influenzare le reazioni fisiche degli utenti nella loro dimensione materiale. Infine,
il paragrafo sette conclude riassumendo i risultati, evidenziando le limitazioni e fornendo suggerimenti
per ricerche future. Precedentemente a ciò, il paragrafo seguente introduce la terminologia e i concetti
chiave per definire e caratterizzare i social media e i sistemi di raccomandazione basati sull’IA.
2. Terminologia
Il termine “social media” rappresenta un concetto generale utilizzato per indicare piattaforme digitali
che permettono agli utenti di cercare, creare e condividere rappresentazioni digitali, quali immagini,
video, audio e testi in linguaggio naturale, al fine di comunicare una specifica identità (Aichner et al.
2021). Questa identità, costantemente negoziata, è percepita e valorizzata come il risultato di una
complessa interazione tra l’intenzione dell’utente, la materialità del supporto digitale e le dinamiche
delle altre comunità di utenti (Leone 2021).
I social media basati sull’IA sono piattaforme che impiegano algoritmi di raccomandazione dell’IA per
fornire agli utenti esperienze personalizzate, suggerendo contenuti, prodotti, servizi o altre informazioni
rilevanti in base ai loro interessi, preferenze, comportamenti e storico di utilizzo. Le raccomandazioni
dell’IA sono diventate fondamentali per il funzionamento di tali piattaforme digitali, poiché consentono di
organizzare e presentare in modo coerente e pertinente le informazioni a disposizione degli utenti.
I Recommender Systems (RSs) sono strumenti software che suggeriscono elementi utili agli utenti
(Kantor et al. 2011). I sistemi di raccomandazione basati sull’IA, come Recommendations AI, il termine
proposto da Google, o AiRS, il termine proposto da Naver, utilizzano il Machine Learning per mostrare
agli utenti informazioni rilevanti più rilevanti in base a vari criteri, come la cronologia precedente delle
interazioni, la loro provenienza geografica etc. L’obiettivo è semplificare la ricerca e personalizzare
l’esperienza online. Questi sistemi sono spesso studiati nel contesto dell’e-commerce e del consumo (per
esempio, Necula, Păvăloaia 2023) e la ricerca si concentra principalmente su come migliorare le
raccomandazioni al fine di soddisfare meglio le esigenze degli utenti (McNee et al. 2006).
297
3. Il ruolo delle AI Recommendation nei social media?
I social media rappresentano un’interfaccia unica in cui l’ambiente digitale e quello naturale si fondono,
consentendo agli utenti di amplificare le loro esperienze attraverso rappresentazioni digitali che
costituiscono una parte integrante della comunicazione quotidiana. Il loro ruolo è oggetto di un ampio
dibattito anche nel campo della semiotica. Alcuni studi si sono focalizzati sugli aspetti visivi dei social
media (Jovanovich, von Leeuwen 2018), mentre altri hanno analizzato altri elementi come le audio
(Ferguson, Greer 2018). Le analisi semiotiche hanno esplorato l’impatto dei social media sulle relazioni
sociali e nella cultura, analizzando specifiche pratiche digitali come il dating digitale (Leone 2019b;
Vuzharov 2019), le proteste digitali (Bonilla, Rosa 2015), il metaverso (Giuliana 2022), i selfie (Surace
2020; Leone 2019a) e la viralità (Marino 2022).
Il ruolo delle AiRS per gli utenti dei social media costituisce un’area di ricerca che richiede un’analisi
completa dal punto di vista semiotico. Attraverso l’approccio della semiotica narrativa di Greimas (1970,
1983; Greimas, Courtés 1979), le AiRS possono essere concepite come degli Aiutanti che assistono il
Soggetto nella sua ricerca dell’Oggetto di Valore. Tuttavia, è importante notare che le AiRS hanno il
potere di generare nuovo valore verso un oggetto che il Soggetto potrebbe non aver originariamente
riconosciuto come di valore intrinseco per sé. Questo processo avviene all’interno di un ambiente
digitale, caratterizzato da spazi e relazioni attraverso cui le AiRS possono ottenere maggiore valore e,
conseguentemente, un maggiore impatto nello stimolare l’azione pragmatica del Soggetto, come ad
esempio l’effettuazione di un acquisto.
Le AiRS stesse giocano un ruolo fondamentale nella strutturazione degli spazi all’interno dei social
media, contribuendo a determinare luoghi specifici in cui vengono collocate con maggiore frequenza,
dove gli utenti sono maggiormente esposti a tali raccomandazioni. I social media costituiscono così un
ambiente in cui un volume crescente di informazioni viene categorizzato e ordinato dall’IA mediante
un approccio logico e statistico. Ad esempio, TikTok1 utilizza raccomandazioni dell’IA basate sulle
visualizzazioni e i clic, ordinate per posizione geografica (piuttosto che basarsi su connessioni di amicizia
come avviene su Instagram o Facebook). In questa prospettiva, TikTok impone agli utenti video di
durata media compresa tra 7 e 60 secondi, con elementi testuali sintatticamente riutilizzabili come suoni,
immagini, filtri e hashtag, che risultano utili per fini algoritmici di categorizzazione e assegnazione di
valore, prima di inserirli in un loop con altri contenuti. Le AiRS di TikTok sono riconosciute come
estremamente efficaci sulla base dei dati di interazione (Yao 2021; Zhang, Liu 2021). In questo contesto,
l’algoritmo può definire i valori semantici dei testi e degli elementi testuali presenti nei video, senza
necessariamente riconoscere il valore semantico intrinseco del testo stesso. Le raccomandazioni dell’IA
si basano sul feedback dell’interazione degli utenti e sulla dimensione pragmatica delle azioni intraprese
dagli stessi utenti. Ciò significa che un video o un suo elemento testuale su TikTok può acquisire un
alto valore per le AiRS e, di conseguenza, essere imposto a migliaia e milioni di utenti semplicemente
perché statisticamente stimola l’interazione e risulta quindi di alto valore algoritmico. Si evince quindi
che nelle piattaforme social come TikTok, in cui le AiRS svolgono un ruolo cruciale nel processo di
categorizzazione e assegnazione del valore alle rappresentazioni digitali, le azioni e le modalità del
Soggetto-utente assumono una rilevanza meno significativa rispetto alla strutturazione dell’ambiente
stesso, che è costituito da valori e relazioni complesse tra elementi digitali.
Questo ambiente digitale ha il potere di influenzare il corrispondente ambiente materiale dell’utente:
specifiche raccomandazioni, strategicamente collocate in determinati spazi digitali, possono indurre
l’utente a compiere azioni pragmatiche, come effettuare un acquisto o seguire un nuovo profilo. Per
raggiungere tale obiettivo, i valori posizionali e relazionali dei social media basati sull’IA si avvalgono
1Per un’approfondita analisi semiotica sul funzionamento e sull’impatto social di TikTok si veda il recente volume
collettivo curato da Marino e Surace (2023).
298
di specifiche affordance digitali (Boccia et al. 2017), le quali saranno descritte dettagliatamente nel
paragrafo successivo.
4. Affordance nei social media
Il concetto di “affordance” è ampiamente studiato nel contesto degli oggetti presenti in un ambiente,
poiché essi offrono specifiche possibilità d’uso ai loro utenti in relazione alle loro esigenze e abilità
(Gibson 1977). Nell’ambito degli oggetti culturali, queste caratteristiche sono spesso previste dai designer
stessi. Secondo Gibson (1977, 2014), l’affordance non è una proprietà statica dell’ambiente né
completamente creata dagli utenti, ma emerge attraverso il processo di interazione e comunicazione tra
di essi. Gli studi più recenti esplorano le affordance da due prospettive principali: l’interazione tra utente
e ambiente (Nye, Silverman 2012; Nagy, Neff 2015) e le relazioni tra progettista, artefatto e utente (Van
Osch, Mendelson 2011; Shaw 2017).
La prospettiva della biosemiotica di Campbell et al. (2019) offre un’analisi approfondita delle affordance
nel processo di apprendimento, collegandole alla nozione di umwelt, dove le proprietà dell’ambiente
sono identificate dagli organismi stessi invece di essere predeterminate dall’ambiente. Il concetto di
umwelt, sviluppato da Jakob von Uexküll (1982) e Thomas A. Sebeok (1989), si riferisce al mondo
sensoriale specifico di un organismo. Come dimostrato da Ingold (2009), ogni organismo vivente crea
affordance 1) all’interno di un determinato ambiente e 2) basate sulle capacità percettive dell’organismo
stesso, identificate come umwelt. La biosemiotica si concentra principalmente sulla dimensione fisica
della comunicazione tra un organismo e l’ambiente. Il caso dei social media mediati dall’IA è più
complesso: per accedervi, l’utente deve avere un dispositivo portatile, come uno smartphone o un
computer, l’accesso a Internet, le capacità di interazione mediante dita e così via. Le affordance dei
social media possono essere individuate nel modo in cui organizzano il loro ambiente, costituito da
valori posizionali e relazionali, popolato da testi, immagini, video e audio.
Un’ipotesi riguardante le affordance nei social media suggerisce che le interazioni degli utenti
nell’ambiente digitale di tali piattaforme, compresa la condivisione di rappresentazioni digitali come
immagini, video, testi e audio, possono essere influenzate sia dalle intenzioni e dagli input dei progettisti
nelle caratteristiche del sistema (AiRS), sia dalle affordance fornite dal sistema stesso. Queste interazioni
si adattano, di conseguenza, alle esigenze e alle capacità degli utenti. In questo contesto, le AiRS possono
svolgere un ruolo di rilievo nella strutturazione delle interazioni sociali all’interno dell’ambiente digitale,
manipolando gli umwelten dei loro utenti. Seguendo il concetto di umwelt, gli organi percettivi giocano
un ruolo cruciale: i social media, come TikTok, si basano principalmente sulla capacità di percezione
visiva degli utenti. L’occhio è l’organo primario che permette agli utenti di interagire con le
rappresentazioni digitali. Considerando che i social media sono percepiti in modo simile all’ambiente
naturale, gli utenti possono avere l’esperienza della percezione olistica delle rappresentazioni digitali
come parte di un messaggio generale creato dalle AiRS (Whitney, Leib 2018). Il processo di
categorizzazione, successivo al processo di percezione (Klinkenberg 2015), è fortemente imposto dalla
piattaforma digitale e dalle AiRS, in modo simile alla percezione umana olistica nell’ambiente naturale
(Mitchell et al. 1995) che si basa sul contesto (Russell, Giner-Sorolla 2013).
Poiché i social media come ambiente digitale sono in costante cambiamento e sono manipolati dall’IA,
gli utenti devono adattarsi costantemente basandosi sulle informazioni relative a entrambi gli ambienti
percepiti olisticamente come una fusione tra l’ambiente fisico e le sue rappresentazioni digitali. Paolucci
(2021) spiega bene questo processo: il nostro cervello cerca di indovinare informazioni non disponibili
sull’ambiente che alla fine corrispondono ai dati sensoriali in evoluzione, influenzando il modo in cui
percepiamo il mondo e creando infine. Applicato nel caso della percezione sui social media, crea un
299
bricolage tra il mondo fisico e gli stimoli digitali mediati dall’IA. In questo contesto, la percezione di sé
e degli altri sui social media può essere associata a una forma di “controlled hallucination”.
[...] by ‘controlled hallucination’, I mean the product of the imagination controlled by the world. The way
in which we match the hallucination’ of imagination with the ‘control’ of the world is through diagrams
and narratives. The main idea is that ‘hallucination’ is the model of perception and not a deviant form of
it. With ‘hallucination’, [...] I mean the morphological activity of the production of forms by the
imagination, which remains crucial both when it is not controlled by the world – as in the case of
hallucination, imagination or dream – and when it is controlled by the world, as in the case of online
perception (Paolucci 2021, p. 127).
Applicando i concetti esposti da Paolucci, emergono considerazioni rilevanti riguardo al ruolo del
controllo nella descrizione dell’“hallucination” basata sulla percezione, governata dall’ambiente digitale
rappresentato dai social media. Nonostante l’ambiente di tali piattaforme siano considerate di natura
lontano dal naturale, sembrano essere percepite in modo olistico, seguendo la prospettiva di Paolucci
(2021) sulla connettività tra organismo e ambiente, tra mente e materia, convincendo gli utenti della
materialità delle rappresentazioni digitali con cui interagiscono.
In altre parole, gli utenti dei social media basati sull’IA tendono a percepire queste piattaforme come
un’estensione dell’ambiente naturale, integrando le rappresentazioni digitali in una visione olistica del
mondo. Tale percezione coinvolge processi cognitivi intensi, poiché gli utenti devono continuamente
adattarsi all’ambiente digitale e alle sue affordance, pur mantenendo una connessione continua con il
mondo fisico. Questa continua negoziazione tra il reale e il digitale può comportare un carico cognitivo
significativo e, a lungo termine, può essere causa di stress e burnout digitale. Gli studi indicati da Liu e
Ma (2020), Shao et al. (2021) e Sharma et al. (2020) forniscono prove della rilevanza di tali effetti negativi.
In conclusione, la percezione degli utenti dei social media basati sull’IA è profondamente influenzata
dal rapporto tra organismo e ambiente digitale, che si traduce in un’esperienza olistica e materialità
attribuita alle rappresentazioni digitali. Come social media possono influenzare gli utenti promuovendo
sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee attraverso il processo di scaffolding indagato
nel prossimo paragrafo.
5. I processi di scaffolding nei social media
Valsiner (2005, p. 205) definisce lo “scaffolding” come “a form of guidance – and guidance is everywhere
in human social and (internalized) personal lives. It is a generic process that always operates in unique
forms’’. Possiamo quindi ipotizzare che i social media possano influenzare gli utenti promuovendo sia
l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee. La semiotica offre strumenti per comprendere
come le rappresentazioni digitali all’interno di tali piattaforme influenzino la percezione di sé, degli altri
e dell’ambiente circostante. Paolucci (2021) spiega anche come il linguaggio naturale possa fungere da
struttura portante per la cognizione umana, modellando i nostri punti di vista, ampliando e rafforzando
le nostre capacità cognitive e la nostra comprensione del mondo. Allo stesso modo, tutti gli altri elementi
digitali all’interno dei social media svolgono una funzione simile.
La categorizzazione degli utenti fa parte di un processo interpretativo strutturato a diversi livelli. Valsiner
et al. (2021, p. 4) propongono un modello che identifica cinque livelli di interpretazione. Il livello 0
riguarda le sensazioni corporee basate sugli organi percettivi (ad esempio, in caso di rappresentazioni
digitali, il colore, contrasto, forme etc.), mentre il livello 1 la riflessione emergente (ad esempio, gli utenti
si rendono conto di interagire con qualcosa che sarà categorizzato e interpretato ai livelli successivi). Al
livello 2 vi è la riflessione in categorie verbalizzabili, che nel caso dei social media comprende le
categorie offerte attraverso l’IA (ad esempio, testi ripetitivi utilizzati dagli algoritmi). Il livello 3 implica
300
la riflessione in generalizzazioni verbalizzabili, come riconoscere un influencer in base al numero di
follower o video virale a base di click raggiunti. Infine, il livello 4 riguarda la riflessione in
generalizzazioni non verbalizzabili, che rappresenta la percezione olistica e potrebbe influenzare il livello
0. Nell’ambito del processo interpretativo degli utenti sui social media, si ipotizza che le affordance siano
presenti a tutti livelli.
Un esempio della classificazione di Valsiner et al. (2021) riguarda una ricerca di Kramer et al. (2014)
che dimostra come le raccomandazioni dell’IA influenzino la percezione degli utenti attraverso contenuti
audiovisivi come testi, immagini e video. Durante l’esperimento, alcuni utenti hanno ricevuto una
selezione di notizie positive, altri di notizie negative, alcuni in ordine cronologico e altri in modo casuale
per le varie settimane. Gli utenti con notizie negative tendevano a pubblicare messaggi negativi,
evidenziando l’effetto dell’IA nella categorizzazione dei contenuti e nel processo di apprendimento degli
utenti basato sulle raccomandazioni. Da un lato, ciò conferma che la percezione di sé e degli altri negli
ambienti digitali e in quelli naturali è simile, confermando una tendenza generale già dimostrata da
Baumeister et al (2001). Dall’altro, sottolinea il ruolo dell’IA nel processo di categorizzazione adottato
dagli utenti e come le raccomandazioni dell’IA influenzino il loro processo di scaffolding, basandosi
sulle opportunità fornite dai social media. In sintesi, l’esperienza vissuta attraverso l’ambiente digitale
può essere percepita e interpretata in modo simile all’esperienza vissuta fisicamente nell’ambiente
naturale. Gli oggetti rappresentati dagli ambienti digitali e mediati dall’IA possono essere interpretati
come oggetti fisici, suscitando reazioni corporee negli utenti. Il prossimo paragrafo esplora queste idee
attraverso l’analisi di un caso studio su TikTok.
6. Materialità del TikTok: un caso studio
Per dimostrare l’impatto dei social media nella dimensione materiale degli utenti, concentriamo la nostra
attenzione su un particolare caso di studio riguardante le pratiche originate dalla pratica
#horsefacefilterchallenge su TikTok. Su TikTok, #horseface è un popolare hashtag, elemento usato per
cercare e far trovare i propri contenuti (Karamalak et al. 2021). Inoltre, è anche un filtro basato sulla
realtà aumentata che, all’interno di un breve video di TikTok, trasforma il volto umano in quello di un
cavallo. Questo paragrafo analizza le affordance offerte da questo filtro e il ruolo delle raccomandazioni
dell’IA nell’esporlo a un vasto pubblico, influenzando la loro esperienza di apprendimento attraverso il
processo di scaffolding.
Il filtro “Horsehead” è stato inizialmente lanciato su Snapchat e successivamente adottato da TikTok
con il nome di “horseface”, ottenendo notevole popolarità grazie alle raccomandazioni dell’IA. Gli utenti
possono utilizzarlo per sperimentare il mascheramento digitale e condividere i video delle
trasformazioni. Su TikTok, questo filtro ha dato vita alla sfida denominata #horsefacefilterchallenge, in
cui gli adulti provano il filtro mentre i loro bambini osservano la trasformazione sullo schermo dello
smartphone. Secondo i dati forniti da Google, sono stati pubblicati circa 31 milioni di video utilizzando
questo filtro. L’analisi dei dati si è concentrata sulle espressioni fisiche di 500 video, analizzati tra gennaio
2022 e luglio 2023 e dimostra che la maggior parte dei bambini, dopo aver osservato la trasformazione
della testa degli adulti in quella di un cavallo, appare spaventata e inizia a piangere, osservando sia lo
schermo che la presenza fisica dell’adulto. Nella minoranza dei video in cui i bambini reagiscono in
modo diverso dal pianto, si osserva una sorpresa degli adulti nei confronti della reazione dei loro
bambini, poiché l’aspettativa, creata anche dagli altri video simili suggeriti, era che essi interpretassero
queste rappresentazioni digitali con spavento o pianto.
Le affordance che gli utenti trovano nell’utilizzo del filtro “horseface” su TikTok sono basate sul loro
umwelt, dai loro bisogni e dalle loro capacità. Queste affordance sono strettamente legate alla funzione
delle raccomandazioni dell’IA. La maggior parte degli utenti partecipa a questa esperienza, che
301
coinvolge la realizzazione di un video con un bambino, per tre motivi principali: 1) l’esposizione al filtro
è stata suggerita dalle raccomandazioni dell’IA; 2) cercano di sperimentare alterazioni del loro stato
cognitivo e fisico ispirandosi alle reazioni osservate nei video di altri utenti; 3) sperano che le
raccomandazioni dell’IA possano individuare il loro video, consigliarlo ad altri utenti e ricevere reazioni
e feedback dal resto della comunità online. Tuttavia, i risultati indicano che la maggior parte degli utenti
espone i bambini a un’esperienza potenzialmente stressante, in cui possono verificarsi “controlled
hallucination” nell’ambiente digitale (Paolucci 2021) e ciò può influenzare il modo in cui i bambini imparano
a comprendere il mondo. Inoltre, TikTok impone i strumenti di interpretazione, come evidenziato
applicando la classificazione di Valsiner et al. (2021), specialmente in contesti di esperienze complesse
offrendo le categorie attraverso le raccomandazioni dell’IA nei testi ripetitivi e negli elementi testuali utilizzati
dagli algoritmi per manipolare gli elementi all’interno dello spazio della piattaforma.
7. Conclusioni e prospettive future
Questo articolo ha analizzato l’influenza dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale e
fisica degli utenti. Ha dimostrato che tali piattaforme possono avere effetti significativi sul corpo degli
utenti, nonostante nel senso comune siano percepite come separate dalla dimensione fisica e materiale.
Da un lato, gli utenti sono esposti a rappresentazioni digitali mediate dall’IA, dove quest’ultima decide
quale valore attribuire a determinati testi, inducendo l’utente ad adottare determinati stati fisici attraverso
le varie affordance riconosciute all’interno dei social media. D’altra parte, gli strumenti di scaffolding
dei social media mediati dall’IA possono guidare gli utenti a interagire con strumenti interpretativi che
promuovono determinate reazioni e si manifestano in cambiamenti fisici all’interno del loro corpo.
Questa ricerca, basata su un quadro metodologico della biosemiotica e della semiotica cognitiva, mira
a spiegare come gli stimoli mediati dall’IA possano offrire affordance e promuovere processi di
scaffolding agli utenti dei social media. Il caso di studio presentato ha evidenziato come gli utenti
possono essere esposti a esperienze potenzialmente stressanti con la possibilità di influenzare i loro stati
fisici. Questo impatto è attribuito all’interazione tra lo spazio digitale dei social media, le rappresentazioni
digitali e le raccomandazioni dell’intelligenza artificiale che sovrastimolano gli utenti, favorendo un
maggiore coinvolgimento. Ricerche future dovranno aprire la discussione non solo verso gli effetti dei
social media basati sull’IA a livello individuale, ma anche a livello sociale e della cultura, nonché testare
altri metodi di raccolta dati per ottenere una comprensione più completa della complessa interazione
tra utenti, ambienti digitali e tecnologie IA.
302
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Elisa Sanzeri
1. Materie e materiali
A leggere il dizionario, luogo in cui si sedimenta la memoria semantica della lingua rendendo conto di
occorrenze e usi di un certo lessema, materie e materiali sono quanto di più concreto e tangibile ci sia.
Vediamo la definizione di materia fornita dal Devoto-Oli (2023).
materia (ma-te-ria) (arc. matera) s.f. 1. Tutto ciò che ha una propria consistenza fisica ed è percepibile
con i sensi; sostanza, materiale: materia organica, inorganica; materia malleabile, elastica, infiammabile;
di che materia è fatto?; una statuetta di materia preziosa | CHIM., INDUSTR. materia plastica →
PLASTICO; materie prime, quelle che servono di base alle lavorazioni industriali; FIG., SCHERZ.: materia
prima, l’intelligenza o il denaro. 2. FILOS. Nella filosofia greca, in particolare in quella di Aristotele, la
sostanza indistinta che ha dato origine alla realtà e che si contrappone alla forma || TEOL. Nella
concezione cristiana, la realtà soggetta ai sensi (contrapposta allo spirito) || SCIENT. Nel pensiero
scientifico moderno, insieme di atomi e molecole soggetto alle leggi dell’universo, oggetto di studi fisici
e chimici: materia solida, liquida, gassosa 3. ANAT. Sostanza organica, tessuto cellulare: materia
cerebrale | materia bianca, sostanza bianca → SOSTANZA) | materia grigia → GRIGIO 4. Argomento
di cui si parla in un testo o in un discorso; soggetto, tema: c’è materia per un libro: catalogo per materie;
una materia scabrosa, delicata | in materia, riguardo all’argomento in questione: non sono un esperto
in materia | in materia di, relativamente a, riguardo a: fornire consulenza in materia di investimenti 5.
Disciplina di studio o di insegnamento: materie letterarie, scientifiche; materie d'esame; andare bene
in tutte le materie 6. Occasione, motivo, pretesto: dare, offrire materia a chiacchiere, a sospetti […] •
Dal lat. materia, der. di mater ‘madre’ • sec. XIII •.
Nell’accezione più generica, la materia è la sostanza fisica che forma ogni corpo, dotata di estensione
spaziale e qualità sensibili che la rendono percepibile ai sensi e ne consentono la riconoscibilità, una
sostanza uniforme che investe gli oggetti e le cose che ci stanno intorno.
Che dire invece dei materiali? Di seguito la voce corrispondente estrapolata dallo stesso dizionario.
materiale (ma-te-rià-le) agg., s. A. agg. Della materia, che riguarda la materia o è costituito di materia:
la realtà materiale; cose, oggetti materiali 2. Relativo agli aspetti fisici e concreti della vita umana
(contrapposto a morale, spirituale, intellettuale): aiuto materiale; benessere materiale; lavoro materiale
| errore materiale, che incide soltanto sull’esecuzione o sulla realizzazione pratica di qualcosa ||
Effettivo, reale: mi trovo nell’impossibilità materiale di aiutarti; non ho il tempo materiale per fare sport
| autore materiale di un delitto, chi lo ha effettivamente compiuto (distinto dal mandante) | DIR.
costituzione materiale, l’insieme dei principi che, pur non essendo formalmente contemplati nella
costituzione, regolano le strutture fondamentali dello stato 3. Grossolano, rozzo, volgare: un uomo
materiale; avere modi materiali B. s.m. 1. Prodotto o manufatto dotato di proprietà o caratteristiche
particolari, individuato o definito spec. in rapporto all’origine e all’impiego: materiali naturali, artificiali;
materiali da costruzione; materiale esplosivo 2. Insieme di oggetti o strumenti necessari per lo
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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svolgimento di una determinata attività: materiale ferroviario, rotabile; materiale scolastico; materiale
chirurgico | FIG., materiale umano, gli individui che sono oggetto di ricerca o trattamento o in quanto
mezzo per il conseguimento di un fine 3. Insieme di appunti e documenti raccolti per una successiva
elaborazione o compilazione: ho già tutto il materiale per la tesi […] • Dal lat. tardo materialis, der, di
materia ‘materia’ • inizio sec. XIV •.
Come è evidente, tra i due lessemi c’è una stretta vicinanza semantica, tanto da renderli in buona parte
interscambiabili. Tuttavia, è possibile rintracciare alcune differenze, in particolare nel modo in cui si
articolano certe categorie a livello semantico e aspettuale. Laddove infatti materia sta a indicare per lo
più un qualcosa di omogeneo al suo interno, conchiuso, naturale, puro o quanto meno semplice – si
pensi alle materie prime (cfr. Campailla in questo volume), alla materia cerebrale, a quelle zuccherine
– il materiale è invece spesso non-omogeneo, composto da elementi diversi. Si tratta in genere di una
pluralità di sostanze, ma anche di oggetti, raggruppati in virtù di alcuni caratteri comuni, come l’origine
o la destinazione d’uso, e che sono già stati sottoposti a un qualche tipo di elaborazione. In questo senso,
sono materiali, ad esempio, quelli metallici, i sintetici o gli isolanti, come anche quelli scolastici,
ospedalieri o edilizi sino a quelli preparatori pensati come un complesso di informazioni raccolto in vista
di un futuro lavoro. Così, se la materia è investita del tratto semantico della continuità, il materiale di
contro è non-discontinuo; se la materia si presenta come una totalità integrale, il materiale invece si
configura come un’unità integrale. Un altro tratto semantico differenziale che è possibile rilevare dal
confronto delle due definizioni interessa la dicotomia natura vs cultura: in un’ottica un po’ naïve, la
materia sarebbe naturale, qualcosa che ricostruiamo come autentico, genuino e spontaneo, all’opposto
dei materiali, frutto invece della cultura, sostanze lavorate dall’uomo e dunque artificiali e artificiose.
Al di là di queste differenze, materie e materiali appaiono entrambi come qualcosa di fisico e terreno,
reale e palpabile, in ogni caso evidente. Una realtà fenomenica data e oggettiva, a tratti ovvia e banale,
dotata di valori e sensi che dovrebbero esserle intrinseci e determinati da qualità e proprietà che essa
possiede di per sé e che ne condizionerebbero l’uso e l’impiego in certi contesti e oggetti. Non a caso,
materiale, in quanto aggettivo, si contrappone a termini come morale, spirituale, intellettuale, astratto o
ideale e prevede come parasinonimi attributi come concreto, corporeo, effettivo, sensibile.
Ciononostante, la definizione di materia fa accenno alla lunga storia che il concetto ha avuto
nell’evoluzione del pensiero filosofico, portando alla luce come di fianco a questa accezione ne scorra
un’altra che vuole la materia come grezza e amorfa, una sostanza primordiale indifferenziata, in sé
inaccessibile, solo ed esclusivamente pensabile. E d’altro canto, gli usi che se ne fanno del termine
rendono conto in parte anche di quest’altra faccia della materia che si trova così a essere insieme
qualcosa di informe e differenziato, intellettivo ed empirico, cognitivo e sensoriale, incorporeo e fisico.
Come si legge dal dizionario, essa infatti è anche l’oggetto o il soggetto di un discorso, il tema di un
romanzo, di una conversazione, di una conferenza; una questione, in altre parole, che può essere
identificata, determinata e magari riconosciuta come scottante, controversa, delicata o difficile. Oppure
ancora un insieme di nozioni ordinate che finiscono per formare discipline di studio o d’insegnamento.
È interessante notare a questo proposito che la voce ripropone il dualismo tra matters of fact e matters
of concern di latourinana memoria (cfr. Latour 2005, 2008). Si passa infatti da una definizione della
materia come fatto della scienza, dato oggettivo e incontrovertibile a quello di materia come oggetto di
dibattito e discussione. In un certo senso è lo stesso passaggio che è stato svolto in questo volume e che
il semiologo si trova a eseguire nel momento in cui indirizza il suo sguardo a materie e materiali: essi da
fatti indiscutibili tramutano in questioni da interrogare.
All’interno del paradigma semiotico, come è noto e come più volte è stato ribadito in questo volume,
la materia assume un particolarissimo ruolo. La disciplina, fondandosi sulla quadripartizione
hjelmsleviana, considera la materia come antecedente ai meccanismi di senso – massa amorfa ma già
dotata di una qualche organizzazione, substrato virtuale per significazioni future – e al contempo
posteriore a essi, essendo ricavabile solo a partire dalle sostanze formate e dunque dal ritaglio che la
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forma ha impresso sulla materia. Materie e materiali, trasposti entro la teoria della significazione,
richiedono dunque di essere distinti più di quanto non faccia il senso comune, non fosse altro perché
ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana, nel mondo-della-vita campeggiato da effetti
di senso, sono sempre e solo le sostanze, materie per definizione già messe in forma. Lo spiega bene
Floch, punto di riferimento per molti dei saggi che compongono il volume: “Il materiale non è la materia,
poiché l’uomo utilizzandolo l’ha caricato di senso; e non è nemmeno una forma, poiché dipende dall’uso
[…]. Come si sarà compreso, il materiale va concepito secondo noi come sostanza, come materia formata,
assunta dalla forma significante” (1984, p. 176).
Che sia ferro, vetro o legno, caffè, grani o pelli, sangue, organi o carni, plastiche, cemento o carta, per
le scienze semiotiche è sempre di materiali che si tratta, e non di materie, di sostanze che hanno già una
propria foggia, che sono già figure del mondo, che plasmano già oggetti e cose senza le quali non
potremmo percepirle (cfr. Ventura Bordenca 2009). E ciò vale tanto per i materiali compositi e artificiali
quanto per le materie sedicenti pure e naturali. Prendiamo ad esempio il cotone, quello che compone i
bastoncini di ovatta, i dischetti struccanti, le lenzuola o le camicie, ma anche le tende del bagno, gli
strofinacci della cucina e una miriade di altri oggetti della nostra vita quotidiana. Ora, la materia che
costituisce tutti questi artefatti la si otteniene di fatto per astrazione, mettendo a confronto bastoncini,
dischetti, lenzuola, camicie, tende e strofinacci, e ricavando così il batuffolo della pianta di cotone, che è
già tuttavia per il semiologo materia formata. Anche il marmo, di cui parla Festi, l’acqua, intorno alla quale
ruota il saggio di Fadda, o la polvere, oggetto di riflessione nei contributi di Bassano e Burgio, solo
ingenuamente e nel senso comune possono esser ritenute materie. Marmo, acqua e polvere, tanto quanto
il cotone, non esistono di per sé: esistono come idee, concettualizzazioni astratte che ricaviamo a posteriori,
a partire da una serie di occorrenze che, mettendole in forma, danno loro sostanza (Marrone 2023).
Così, persino ciò che può apparire a un primo sguardo materia pura è già materiale, è già un oggetto
culturale che, in quanto tale, si trova investito di sensi e di valori. Questi sensi e valori che investono i
materiali non sono intrinseci ai materiali stessi ma derivano da usi collettivi e abitudini individuali che
ovviamente non sono dati una volta e per tutte: mutano nel tempo e nello spazio, cambiando da cultura
a cultura e modificandosi nel corso della storia. Se per gli amerindi incontrati dai primi colonizzatori il
rame era stimato più dell’oro, utilizzato nei riti religiosi e per la fabbricazione di gioielli, nello stesso
periodo e dall’altra parte del globo, le cose non stavano affatto così. Nell’Inghilterra di Enrico VIII
l’impiego massiccio del rame nelle monete d’argento fu motivo di malcontento per il popolo e valse al
sovrano l’appellativo “Old Coppernose”, letteralmente “vecchio naso di rame”: infatti le parti in rilievo
delle monete, come il naso del profilo del re, lasciavano comparire il rosso non appena si consumavano
un po’ (Aldersey-Williams 2010). Per fare un esempio a noi più vicino basti pensare all’inversione di
reputazione che ha subìto la plastica nell’arco di meno di un secolo: osannata dapprima per la sua
praticità, resistenza ed economicità, vero e proprio mito della società borghese (cfr. Barthes 1957), oggi,
sulla scorta dell’ideologia ecologista, è messa al bando. Alla plastica, difficile se non impossibile da
smaltire, si preferiscono così altri materiali, come il vetro, il legno o la ceramica, che si trovano a significare
la natura. Un valore euforico, quello della natura, che non sta, lo ripetiamo, nei materiali in sé, ma che
siamo noi in una certa misura ad attribuire loro. Ciò non significa tuttavia che da una parte ci sono i
materiali e le cose da essi composti e dall’altra i significati, come se venissero loro aggiunti ex post: il senso
che i materiali acquisiscono non arriva, per così dire, dopo, ma insieme ai materiali stessi, secondo quel
rapporto di presupposizione reciproca che collega il piano dell’espressione con quello del contenuto.
Ad ogni modo, il materiale, come visto nel caso della plastica, si carica di significati anche in virtù delle
relazioni che intrattiene con altri materiali, ma è evidente che il senso che acquisisce è strettamente
legato anche alla forma oggettuale che assume o ha assunto (cfr. Ventura Bordenca 2009). Una cosa
sarà, poniamo, l’oro di una collana, un’altra sarà lo stesso oro che troviamo nei chip dei computer o nel
celebre risotto di Gualtiero Marchesi. Allo stesso modo, una cosa sarà il valore della ceramica dei servizi
igienici, del tutto diverso sarà il senso che ha per noi la stessa ceramica del vaso per i fiori o del servizio
da thè. Lo stesso, è chiaro, è valido all’inverso, considerando non più i materiali che compongono
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oggetti di diverso tipo bensì i medesimi oggetti costituiti da materiali differenti. Ciò significa che oggetti
e materiali si costruiscono reciprocamente, di modo che, ad esempio, il senso di un metallo come
l’acciaio dipende dalle sue occorrenze oggettuali; in maniera analoga, il valore assunto da un oggetto
come il sofà potrà variare al variare delle sostanze di cui si compone. L’acciaio, dopo esser stato
protagonista della Rivoluzione industriale, impiegato in artefatti più disparati – dalle travi strutturali dei
ponti alle linee ferroviarie, dalle caldaie delle navi ai grattacieli – negli anni Trenta del Novecento
assume un nuovo aspetto e viene utilizzato per la realizzazione di oggetti come poltrone, sedie e divani,
per i quali non sembrava di per sé adeguato perché considerato troppo duro e freddo per adattarsi ai
cosiddetti mobili sostenitori, in linea di principio morbidi, comodi e caldi. Reso in forma tubolare e
piegato ad arte, l’acciaio intesse una stretta relazione con le pelli e il gommapiuma, la corda e il legno,
dando luogo a celebri pezzi di design come la Chaise Longue di Le Corbusier. Ecco così che il materiale
si carica di caratteri come la linearità, la leggerezza e l’eleganza che non sembravano appartenergli,
mentre la poltrona a sdraio viene investita di un senso di razionalità e funzionalità del tutto inedito per
l’oggetto in questione che ben si esplica nell’espressione “macchina per riposare” che usava lo stesso Le
Corbusier per descrivere il frutto del suo ingegno.
La storia del tubolare metallico permette, inoltre, di sottolineare come occuparsi di materiali significhi
spesso addentrarsi nel mondo delle sperimentazioni e della creatività. Il mito racconta che l’idea di
adoperare l’acciaio per realizzare eleganti sedute nasca da un’intuizione tanto semplice quanto geniale
di Marcel Breuer: se il tubolare è in grado di sostenere un corpo soggetto a sollecitazioni su strada, come
fa quello che compone i telai delle biciclette, sarà capace di fare altrettanto entro le mura domestiche o
nell’ufficio di un avvocato (cfr. Dardi, Pasca 2019). Da qui, una serie di tentativi e aggiustamenti, come
quelli dell’architetto olandese Mart Stam che sfrutta dei tubi del gas per realizzare uno dei primi prototipi
di sedia a sbalzo. Così, dalle navi e dai ponti che mettevano in contatto le persone si arriva sino ai mobili
razionalisti, passando per le biciclette e i condotti del gas, facendo di fatto bricolage con l’acciaio,
imparando a lavorarlo per dargli lucentezza, a sfruttare le sue potenzialità per nuovi usi e portando alla
luce caratteri che non pensavamo possedesse, facendoli passare da uno stato virtuale a uno realizzato.
In tal senso, anche quel fascio di qualità sensibili che attribuiamo ai materiali, e che essi sembrano avere
a prescindere da noi, sono in una certa misura frutto del nostro modo di conferire senso al mondo, esito
di una serie di processi semiotici – pragmatici, cognitivi, passionali, somatici – attraverso cui stabiliamo
ad esempio che il marmo è freddo e compatto mentre il sughero è caldo e poroso, la lana è soffice e la
seta è liscia, il metallo è rigido e il legno è flessibile, il vetro è fragile e duro e la plastica è resistente e
morbida, e così via (Marrone 2023). Proprietà sensibili, dunque, che, ancora una volta, non hanno nulla
di oggettivo e naturale ma dipendono dalla cultura e dalla società in cui siamo immersi, dagli usi e dalle
abitudini della gente, dai gusti e dai disgusti, dai rapporti tra materiali e con oggetti e soggetti. In
definitiva, è solo entro una rete di relazioni significanti che le materie, pure virtualità di significazione,
assumono una forma e si fanno materiali, organizzandosi sulla base di differenze e opposizioni e,
collegandosi a certi contenuti, diventando luogo di investimento di valori.
2. Materiali in circolo
Affermare che le materie sono sempre sostanze, e dunque formalizzazioni materiali, comporta per la
semiotica oltrepassare il senso comune e l’evidenza fenomenologica per considerare i materiali come
veri e propri testi, dotati di una propria articolazione formale interna. Ricordando che per la semiotica
il testo è una costruzione teorica, un modello per l’analisi dei fenomeni di senso, diventa possibile
abbordare i materiali interrogandoli con gli strumenti elaborati dalla teoria e rintracciando così non solo
organizzazioni plastiche, fatte di contrasti sensibili e trasformazioni materiche, ma anche, ad esempio –
in una logica generativa e sulla base di precise pertinenze – meccanismi discorsivi, organizzazioni
narrative e passionali e articolazioni assiologiche. In altre parole, sostenere che i materiali possano esser
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concepiti come oggetti testuali significa dichiararli oggetti di conoscenza e descrizione scientifica: su di
essi allora sarà possibile proiettare i tratti di chiusura, coerenza e coesione, molteplicità di livelli, etc.
Come le analisi di questo volume hanno dimostrato, indagare semioticamente la dimensione materica
della significazione può voler dire, a livello operativo, volgere il proprio sguardo analitico a costrutti
culturali di diverso tipo – oggetti, alimenti e bevande, pubblicità e media digitali, romanzi e libri, ricettari
e manuali, opere d’arte e film, pratiche e architetture, spazi e mappe, etc. – entro i quali la materia stessa
si dà come effetto di senso, esito di una serie di meccanismi e processi di produzione del senso. I lavori
qui presentati, nella loro eterogeneità, affrontando la questione della materia da angolazioni differenti,
mettono in luce come entità anche molto diverse tra loro contribuiscano a portare avanti un discorso
comune. Un discorso proferito non solo da quell’insieme di materiali che consideriamo testi, ma anche
da tutto un complesso di prodotti culturali di altra natura che, per così dire, parlano i materiali e che in
tal modo, a vario titolo, prendono parte alla costruzione di ciò che intendiamo e chiamiamo materia. Il
volume così interseca da una parte ciò che possiamo definire il discorso dei materiali – ossia il discorso
che i materiali stessi producono con gli oggetti del mondo attraverso cui si fanno manifestazione – e che
ha dato il titolo alla raccolta di saggi; dall’altra ciò che è possibile identificare come il discorso sui
materiali – ovverosia quello che ha i materiali come proprio argomento, più o meno esplicito, più o
meno consapevole, e che può assumere forme assai diverse. Due discorsi che si presuppongono
reciprocamente e i cui confini, come si può facilmente immaginare, non sono mai così netti, finendo
spesso per diventare la medesima cosa.
Ma ciò che forse ancora di più emerge dall’insieme di questi saggi è la natura dinamica e processuale,
pervasiva e traduttiva che un tema discorsivo come quello della materia e dei materiali può acquisire.
Dal punto di vista discorsivo, materie e materiali, lungi dall’essere entità statiche e stabili, sono unità
semantiche in continuo mutamento e trasformazione, flussi di senso che variano, si muovono, si
convertono e si traducono e, traducendosi, cambiano faccia e assumono sembianze di volta in volta
diverse a partire dalle varie configurazioni testuali che danno loro corpo e dai vari discorsi entro i quali
si collocano e che ne ridisegnano i profili. D’altra parte, come sappiamo, il discorso stesso è un processo
che entra in relazione con altri discorsi con cui si incrocia e si ibrida (cfr. Marrone 2001, 2010). Così,
non stupisce affatto che in questo numero, nel tentativo di intercettare semioticamente la materia, non
solo siano state prese di mira forme testuali fondate su sostanze espressive diverse, ma che inoltre questo
eteroclito insieme di testi, pur parlando di materiali ed essendo dai materiali parlato, attraversi discorsi
sociali d’altro tipo. Il discorso dei e sui materiali, in altre parole, si avviluppa e si intreccia col discorso
storico, economico, politico, ecologico, turistico, enogastronomico, pubblicitario, artistico, religioso,
mediale, etc. che al contempo alimenta e da cui è alimentato. Guardando in controluce i contributi che
compongono il volume, quel che si vede è allora una catena interdiscorsiva che mette in collegamento
oggetti, pratiche e immaginari che circolano nella semiosfera, complesso e frammentario serbatoio di
senso in cui materie e materiali trovano posto e migrano da un discorso a un altro.
3. Relazioni materiche
Il discorso dei e sui materiali risulta dunque quasi un campo trasversale, ma non per questo laterale,
che riunisce oggetti culturali differenti e richiama attorno a sé formazioni discorsive difformi. Le
esplorazioni svolte in questo volume mettono in evidenza, d’altro canto, come vi sia una dimensione
elementale, materica della significazione che investe l’esperienza umana e sociale a tutto tondo. Ciò ha
comportato la messa in campo di modelli teorici e di analisi eterogenei, l’impiego di prospettive diverse
e l’impegno di differenti branche della semiotica – dalla sociosemiotica alla semiotica interpretativa
passando per la semiotica della cultura e l’etnosemiotica – ma anche di discipline altre, più o meno
vicine – come l’architettura o la filosofia del linguaggio.
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Le riflessioni condotte, sebbene svolte sulla base di domande di ricerca di volta in volta specifiche,
hanno avuto come obiettivo principale quello di indagare la dimensione culturale e sociale dei materiali
nel tentativo di mettere in luce il ruolo da essi giocato nei meccanismi di significazione e organizzazione
del senso. Riflessioni che non guardano né alla sola teoria né alla sola analisi ma che mettono in moto
quel circolo virtuoso che consente alla semiotica di osservare il mondo e tornare su sé stessa. Da qui la
possibilità di individuare, a dispetto dell’eterogeneità dei contributi, alcuni orientamenti comuni che
ribadiscono certi postulati semiotici e che possono venire a configurarsi come alcune possibili direzioni
di una ricerca ancora tutt’altro che conchiusa.
Abbiamo già sottolineato come il senso dei materiali si dia sempre per differenza, di modo che, seguendo
il dettame epistemologico strutturalista, le relazioni siano primarie mentre gli elementi – è il caso di dirlo
– siano secondari. È l’instaurazione di una differenza tra le cose a renderle percepibili e dunque significanti,
e ciò diventa ancora più vero se pensiamo proprio ai materiali come sostanze dell’espressione. Se la
significazione si manifesta a partire dalle sostanze del mondo in cui l’uomo è immerso, richiamando il suo
apparato sensoriale (Greimas 1968), il compito del semiologo, dinnanzi ai materiali con i loro caratteri
sensibili, è quello di passare dalla semplice percezione di una differenza mediante i sensi alla precisa
identificazione di una serie di relazioni significanti. Fermo restando che la percezione sensoriale,
l’esperienza estesica non sono attività originarie che, per così dire, stanno prima di ogni possibile
significazione ma rientrano nelle condizioni immanenti del senso (Greimas 1987). Il sensibile, come ha
evidenziato anche Floch lavorando sulla fotografia e il visivo (1986, 1995), non è separato dall’intelligibile
e la predilezione per l’uno o per l’altro non ha alcuna ragion d’essere: il sensibile è già intelligibile e, al
contempo, l’intelligibile è già sensibile, essendo l’una e l’altra due facce della stessa medaglia.
Con la materialità quindi si apre anche il vasto campo della sensibilità e di una semiotica del sensibile
(cfr. Bertrand), entro le quali diventa pertinente interrogarsi sulla relazione tra materialità differenti. C’è,
in altre parole, una sensibilità costitutiva dei materiali che emerge nel momento in cui essi entrano in
rapporto tra loro. Non si tratta solo di un problema di accostamento o abbinamento ma di vero e proprio
di contatto, fatto di aderenze e giunture, frizioni e rotture, che interessa i materiali nelle loro interazioni
intra- ed extra-oggettuali. Negli oggetti, d’altra parte, è raro trovare un singolo materiale. Molto più
spesso essi sono composti da un complesso di materiali che, come nel caso delle sedute razionaliste,
costruiscono come dei sintagmi (quello della Chaise longe di Le Corbusier potrebbe essere sintetizzata
nella formula “acciaio + écru + pelle + poliuretano”). Diventa dunque essenziale vedere come le parti si
adattano o meno tra loro e nell’insieme dell’oggetto, in che modo la sensibilità dell’uno o dell’altro
materiale produce determinati effetti, ancor di più nel momento in cui, come nei binari ferroviari
analizzati da Bertrand, la materia è in movimento. Lo stesso vale per le relazioni extra-oggettuali che si
svolgono attraverso catene interoggettive e intersoggettive. Ad esempio, nel caso dei cocktail analizzato
da Giannitrapani la materialità degli oggetti e i loro caratteri sensibili svolgono un ruolo di primordine
nella preparazione del miscuglio, chiamando in causa inoltre un soggetto operatore – il bartender – a
cui è richiesta una competenza non solo tecnica ma anche e in primo luogo estesica, sensibile. Al
contempo, il contatto tra materialità diverse può dar luogo a trasformazioni che ridefiniscono le identità
dei materiali stessi. Nel caso del legno, ricorda Giannitrapani, c’è tutto un problema di memoria olfattiva
rilevante soprattutto in ambito culinario, dove i materiali di cui si compongono strumenti e oggetti,
entrando in relazione con gli ingredienti, possono subire delle alterazioni e, così facendo, produrne a
loro volta delle altre, con il rischio di mandare all’aria la ricetta. Scegliere l’oggetto giusto e il materiale
giusto, preferendo ad esempio nel caso del pestello per gli aromi l’acciaio al legno, ma anche, più in
generale, convocare le sensibilità dei corpi e degli oggetti, e quindi dei materiali di cui sono fatti, diventa
decisivo per la riuscita del cocktail.
Le qualità sensibili dei materiali hanno dunque un’influenza tanto nei rapporti tra materie entro il
medesimo oggetto, quanto nei rapporti con e tra oggetti e soggetti, artefatti e corpi. Emblematico ed
estremo è il caso delle protesi in cui materiali inorganici si trovano a integrarsi se non addirittura a
fondersi col materiale organico del corpo umano (cfr. Piluso, Pelusi). Dagli apparecchi odontoiatrici,
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alle protesi ortopediche o cardiovascolari sino a quelle articolari, passando per gli impianti cocleari,
oggetti e tecnologie con le loro materialità, realizzandosi come protensioni sensoriali, arrivano a
modificare la stessa percezione. Ma non sempre le integrazioni di materiali altri hanno buon esito e
molto più spesso di quanto pensiamo il corpo li rifiuta, richiedendo a professionalità diverse, dagli
artigiani ai medici, di trovare la giusta combinazione. Da questi pochi esempi si vede insomma come
l’intermatericità rappresenti una condizione costitutiva dei materiali stessi che pone una serie di quesiti
a cui la scienza della significazione può provare a dar risposta. Esiste o meno un confine materiale tra
materiali differenti? tale confine è determinato dalla forma oggettuale che essi assumono, dalle loro
funzioni o dalle situazioni in cui si trovano ad operare? come vengono a configurarsi queste relazioni,
ora contrattuali, ora conflittuali, che i materiali intrattengono tra loro? quali sensibilità sono messe in
gioco? quali i principi che li rendono possibili? esistono dei legami prescritti e altri vietati, delle gerarchie,
una grammatica dei sintagmi materiali? In altre parole, secondo quali logiche i materiali si accoppiano
tra loro per formare configurazioni materiche più vaste? Ancora: in che modo i materiali, interagendo
tra loro, provocano trasformazioni? e tali trasformazioni a quali criteri sono sottoposti?
Le discipline semiotiche hanno tutti gli strumenti per affrontare queste questioni. Lo studio delle qualità
o proprietà dei materiali, delle loro reazioni e interazioni, così come delle trasformazioni a cui danno
adito può essere pienamente sviluppato nell’ambito di una semiotica narrativa, passionale e discorsiva,
come molti dei contribuiti qui presentati hanno mostrato. Materiali o combinazioni tra questi a livello
semio-narrativo possono essere infatti concepiti come attanti, entità astratte e formali che si differenziano
dalle figure del mondo che li prendono in carico. In conformità con uno dei presupposti della semiotica
narrativa per la quale la distinzione tra umano e non-umano, animato e inanimato, non ha alcuna ragion
d’essere, dei materiali siamo in grado di individuare il carattere agentivo e performativo considerandoli
come soggettività al pari dei soggetti umani, attanti che fanno e fanno fare entro una precisa cornice
narrativa. Basti pensare a un materiale conduttore come il rame a cui abbiamo delegato l’ardua impresa
di connetterci e illuminare le nostre città. Oppure ancora a un materiale come la lana, che avvolge i
nostri corpi da tempo immemore per proteggendoci dai rigidi inverni ma a cui abbiamo affidato
anche il compito di isolare termo-acusticamente le nostre case, ponendo sottili materassi di lana sotto
il parquet o tra le pareti.
Soggetti attivi, i materiali non solo agiscono ma permettono o impediscono, incoraggiano o dissuadono
dal compiere certe azioni, mettendo in moto tutta una serie di manovre di manipolazione che hanno
spesso ricadute passionali. Come non pensare al vetro che con la sua trasparenza è in grado di istallare
un soggetto modalizzato secondo il poter-vedere e di costruire al contempo un oggetto di visione dotato
di un poter-esser-visto, realizzando tra i due una congiunzione visiva ma impedendo a conti fatti una
congiunzione somatico-tattile (Hammad 2003)? Ma questo materiale fa di più: nello scarto tra poter-
vedere e non-poter-toccare, il vetro dà luogo alla configurazione della promessa, prospettando al
soggetto la futura congiunzione somatico-tattile con l’oggetto di visione. Ed è facile immaginare, a partire
da qui, il dispiegarsi di tutta una serie di sviluppi narrativi e passionali che il vetro può generare nel
momento in cui, ad esempio, la promessa viene infranta o esso diviene dispositivo scopico che consente
di acquisire un poter-sapere entro un percorso passionale come quello della gelosia.
I materiali dunque possono assurgere a differenti ruoli attanziali, vestendo ora i panni del Soggetto, ora
quelli del Destinante, ma anche quelli di Antisoggetto, Aiutante o Opponente, ed essere coinvolti a
vario titolo tanto in programmi d’azione quanto in processi passionali. Si è visto bene, ad esempio, nel
lavoro di Costanzo in cui i materiali impiegati nella lotta allo sporco, quel processo di trasformazione
della materia che da uno stato disforico di sporcizia conduce a uno stato euforico di pulizia, assumono
volta per volta all’interno di precise situazioni narrative una particolare funzione. In questo caso, il
contatto tra materialità differenti – da una parte la macchia, l’unto e l’incrostato, e dall’altra le polveri e
i saponi detergenti – dà luogo a vere e proprie trasformazioni materiche (Bastide 1987), processi che
possono esser figurativizzati in vario modo e manifestarsi a livello espressivo in maniere differenti ma
che fanno capo a operazioni elementari di trasformazione di stati che una grammatica narrativa è in
311
grado di rendere intelligibili. All’interno di una teoria della narratività è allora possibile individuare ruoli
e strutture attanziali, modalizzazioni, programmi d’azione, stati e trasformazioni che consentono di
andare al di là dell’empiria degli oggetti e dei materiali per ritrovarne la forma.
A livello discorsivo invece sembra possibile in primo luogo ragionare sulle marche dell’enunciazione
che i materiali portano inscritte, tracce che da una parte fanno capo all’istanza di creazione, ovvero
l’enunciatore, e dall’altra a quella di ricezione, ossia il suo enunciatario. Come ogni enunciato
presuppone un soggetto enunciatore che l’ha prodotto e un soggetto enunciatario a cui è rivolto, allo
stesso modo, ogni materiale presuppone al suo interno un produttore e un utilizzatore impliciti. Laddove
le marche dell’enunciazione funzionano come “istruzione per l’uso” dei materiali, si apre, è chiaro, la
questione degli usi effettivi dei materiali che possono rivelare uno scarto tra ciò che era stato pianificato
a monte e l’utilizzo concreto che di quel dato materiale viene fatto a valle. Il loro uso produttivo, come
la risematizzazione degli stessi e le operazioni di bricolage, può esser identificato come un atto di ri-
enunciazione dei materiali che da singolo e individuale, puro fatto di parole, può sedimentarsi fino a
istituzionalizzarsi secondo il meccanismo della prassi enunciativa. Ancora, a tale livello, dove si interseca
la teoria dell’enunciazione e l’allestimento figurativo dei testi, diventa interessante lavorare sugli effetti
di matericità e, di conseguenza, di realtà che vengono prodotti e ricercati nel momento in cui la materia
viene tradotta da un linguaggio a un altro (cfr. ad esempio Ceriani; Abdala Moreira; Costanzo). Come
restituire consistenze e texture? come tradurre la morbidezza, l’elasticità o la ruvidità di un materiale,
poniamo, in formato digitale? come fare in modo che l’enunciatario possa creder-vero, quali strategie
mettere in campo?
Ragionare intorno a materie e materiali ci costringe a guardare qualcosa a cui di solito non prestiamo
attenzione, forse perché ritenuta troppo ovvia e banale. Le riflessioni condotte in questo volume
mostrano come indagare la dimensione materica della significazione sia imprescindibile per una
semiotica che si voglia scienza dei meccanismi e dei processi di articolazione del senso umano e sociale.
Non è possibile indagare semioticamente spazialità, gastronomia, letteratura, religione, arte, architettura,
politica, mondo digitale, pratiche e design senza volgere lo sguardo alle costruzioni materiche. Esse
hanno, al di sotto della patana di evidenza che le ricopre, un valore rilevante nelle nostre vite: assumono
significati sociali e culturali, influenzano la formazione delle identità collettive e individuali, sottendono
visioni del mondo. Le riflessioni intorno ai materiali possono dunque considerarsi come l’estensione e
il coronamento di una semiotica che si interessa al design e agli oggetti quotidiani, ma anche al cibo e
all’architettura, alle arti e al digitale, alla storia e alla politica, alle mitologie e alle pratiche. Una semiotica
che si mette alla prova e, osservando il mondo, riflette su sé stessa.
312
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] | Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok
Maddalena Sanfilippo
Abstract. In this paper, we discuss about the phenomenon of intersemiotic translation of recipe genre within digital
media, with specific reference to audiovisual content produced by food influencers in social media. After
examining studies on the semiotics of taste in relation to recipe and the relationship between the Internet and
cuisine, we focus on the analysis of a group of social video-recipes. The objective is to understand, through a socio-
semiotic comparative analysis, the dialogue between the language of digital media and the culinary system, aiming
to identify the mechanisms of signification that characterize this part of contemporary gastronomic discourse.
1. Introduzione
“È solo parte del menù. Fa parte dello spettacolo. Questo è ciò per cui state pagando. Questa è
un’esperienza esclusiva. Vi prego, tornate ai vostri posti”
Lo chef stellato Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, nel recente film The Menu (Mylod,
2022), liquida così il suicidio, da lui stesso indotto, di un aspirante chef della sua brigata, troppo poco
talentuoso per vivere la vita di uno chef di alto livello. E fra grida, scompiglio, stupore e assurdo
compiacimento per il privilegio di poter far parte di questo spettacolo gastronomico, i “poveri” ospiti
del ristorante esclusivo nell’isola dispersa di Hawthorn tornano ai loro posti. Le parole dello chef
colpiscono e allo stesso tempo rassicurano, probabilmente perché dicono quello che i commensali
vogliono sentirsi dire, facendo leva sugli aspetti che sembrano caratterizzare maggiormente il
panorama mediatico culinario: intrattenimento, performance, esperienza, spettacolo.
Nelle pagine che seguono ci soffermeremo sul fenomeno della traduzione intersemiotica del genere
testuale della ricetta all’interno dei mezzi di comunicazione digitale, con specifico riferimento ai
contenuti audiovisivi prodotti dai food influencer nei social media, in cui gli aspetti legati
all’entertainment e alla spettacolarizzazione dell’universo gastronomico sembrano essere oggi
maggiormente pervasivi. Grazie a un’analisi sociosemiotica comparativa approfondiremo il dialogo
fra il linguaggio dei media digitali e il sistema culinario, cercando di rintracciare quei meccanismi di
significazione che caratterizzano questa composita porzione del più ampio discorso gastronomico
contemporaneo, partendo dagli aspetti superficiali (inquadrature, tempi, montaggio, comportamenti
degli attori coinvolti nei racconti culinari) e scendendo verso le strutture significative più profonde
(organizzazione narrativa, valori culinari).
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0).
2. La natura semiotica della ricetta
Di ricette e ricettari, di cucina e media, della relazione fra linguaggio e cibo, del valore culturale e
semiotico del sistema culinario, si è ampiamente occupata la semiotica del gusto negli ultimi anni. Grazie
a numerosi studi1 è stata dimostrata la natura intrinsecamente semiotica del cibo, il suo essere linguaggio
per raccontarsi, parlare con gli altri, produrre significazione. A ben vedere, però, non c’è un linguaggio
del cibo, ma un più ampio discorso gastronomico costituito da “entità linguistiche come da forme
d’azione e di passione, di testi che parlano di altri testi, di metatesti che discutono di piatti, rituali,
cerimoniali, pose più o meno caricaturali, saperi taciti e sapori dichiarati, assetti disciplinari, letture e
scritture, assunti etici, poetiche ed estetiche, sistemi di senso, pacchetti di valori” (Marrone 2022, p. 9).
Il sistema alimentare può essere pensato come una semiosfera, un insieme di testi e linguaggi, di processi
e azioni, di rimandi continui che partecipano alla formazione e alla trasformazione delle entità che
compongono il discorso gastronomico, il quale si configura a partire da processi traduttivi. Ragionare
dunque sul genere testuale della ricetta, sulla sua evoluzione, significa ricostruire tutti quei meccanismi
di funzionamento discorsivo, ricercare le condizioni di possibilità, i processi di significazione nonché
tornare a riflettere sulle lazioni fra pratiche culinarie e linguaggio, fra cibo e mondo.
La ricetta in quanto testo culinario, dal punto di vista semiotico, è un’unità di senso variabile e dotata di
una struttura organizzativa interna che va a determinare il senso di un’esperienza gastronomica
(Mangano 2022, p. 293). Come sappiamo, le ricette di cucina sono soggette a reinterpretazioni continue,
agiscono alla stessa stregua di spartiti musicali, come massime da poter seguire per l’esecuzione del
piatto. È in questo senso che la cucina può essere definita, riprendendo Goodman (1968), come un’arte
allografica. Un testo che per sua natura si evolve, attraversando generi testuali, linguaggi, stili discorsivi,
epoche, tendenze, mode (Marrone 2016). Dal ricettario tradizionale al giornale, alla radio, al cinema,
alla televisione, ai siti internet, ai blog, ai video-tutorial, ai social media. Da Il Talismano della felicità di
Ada Boni, a Cotto e mangiato di Benedetta Parodi, a Masterchef, al Pranzo di Babette, a Giallo zafferano,
a Benedetta Rossi fino ai più recenti food influencer, attori sociali che abitano gli universi della rete di
Instagram e Tik Tok. La ricetta è un genere che cambia, senza forse cambiare davvero. In questo
processo di rinascita continua mutano i sistemi di valori, cambiano le strutture manifeste, ma allo stesso
tempo si riscontra la resistenza di alcuni tratti invarianti dell’articolazione interna del testo in questione.
Appare dunque centrale nel discorso sui ricettari, il fenomeno della traduzione, comunicare la cucina
significa tradurre da un linguaggio, quello orale per esempio, a un altro linguaggio, quello scritto, ma
anche quello audiovisivo etc.
Trascrizioni del saper-fare delle mani tramandate oralmente, le ricette di cucina si scontrano da sempre
con l’impossibilità di tradurre perfettamente la gestualità sapiente delle operazioni culinarie. Vi è un
inevitabile divario fra il linguaggio delle istruzioni e il corpo, fra le procedure e le azioni fisiche, fra la
scrittura e il fare delle mani (Sennett 2008). La forma testuale della ricetta, nell’attualizzare un saper-fare,
pone per definizione il problema dello scarto di conoscenze pregresse fra l’enunciatore e l’enunciatario.
È un testo istruttorio che diventa luogo di negoziazione fra due tipi di conoscenza, quella di chi scrive,
teoricamente competente, e quella di chi legge una pagina o guarda un video, che si presuppone poco
preparato. Ogni forma testuale della ricetta ipotizza quindi un contratto tacito fra i due soggetti del
discorso, che negoziano il detto e il non detto, l’esplicito e l’implicito, dando vita a differenti patti
comunicativi (Marrone 2014, p. 29). Arriviamo così ad affrontare un altro aspetto costitutivo della ricetta,
ovvero il suo essere, in quanto testo prescrittivo, intrinsecamente narrativo. Come per i racconti, la prassi
culinaria è una messinscena di azioni di soggetti umani e non umani, che trasformano ingredienti, che
modificano oggetti all’interno di cornici temporali e di inscatolamenti di programmi narrativi (Greimas
1983). Emerge così la natura performativa del testo di cucina, trascrizione di un fare pregresso, esibizione
1
v. Barthes (1961); Greimas (1983); Bastide (1987); Fontanille (2006); Marrone, Giannitrapani (a cura, 2012); Marrone
(a cura, 2014); (Marrone 2013, 2014, 2016, 2019, 2022); Giannitrapani (a cura, 2021); Giannitrapani, Puca (a cura, 2020).
315
di un fare gastronomico di un soggetto operatore. La ricetta è per definizione un testo sfuggente, aperto,
frammentato, imperfetto, sempre correggibile, mai definitivo (Capatti 2020). È un testo che mette in
scena un fare, fin dalle sue prime apparizioni trascritte in prosa o in versi, in radio o in televisione, al
cinema o in rete. Il cuciniere è innanzitutto un attore del fare gastronomico e la ricetta è un copione da
interpretare ed eseguire all’interno di una cornice che, sia nei media tradizionali che nei nuovi mezzi
digitali richiama irrimediabilmente quella dello spettacolo, del divertimento, e più in generale del
macrogenere dell’entrateinment, il quale ha come scopo primario far divertire il pubblico assumendo
forme diverse: talk show, game show, reality, e oggi reel e tik tok (Giannitrapani 2014).
3. La rete e le forme brevi della ricetta
Di cibo su Internet se n’è parlato sin dagli albori, ma è con l’avvento del web 2.0 che si è assistito
all’esplosione dei blog culinari2, alla crescita di materiale audiovisivo fatto di video-ricette e reportage
fotografici, e alla degenerazione mediatica delle pratiche di food porn. Ciò ha comportato un
ampliamento dell’immaginario culturale legato al cibo. I social media, di fatto, “ci hanno resi tutti registi,
conduttori, operatori, attori, desiderosi di comunicare attraverso un linguaggio un tempo riservato a
specialisti [...]” (Mangano 2013, p. 213). I blog, invece, hanno reso eroi intermediali (Marrone 2003)
autori di culto e non, generando schiere di lettori, pronti a seguire il proprio beniamino ovunque: in
rete, in libreria, e in giro per i festival di cucina (Mangiapane 2014). Il risultato di questo fenomeno, che
Marrone (2014) ha definito gastromania, è stato un delirio culinario, un megatrend che ha raggiunto il
suo apice con l’Expo del 2015. Uno scenario ghiotto di aspiranti chef, tutorial, video, post, foto,
recensioni, e soprattutto backstage, alla scoperta dei segreti delle ricette più famose.
In questo panorama variopinto, e grazie alla diffusione e all’intreccio di nuovi mezzi di comunicazione
digitale, il video sembra essersi affermato come il linguaggio della contemporaneità, ideale per
raccontare l’esperienza alimentare e tradurre il genere testuale della ricetta.
Negli ultimi anni, la comunicazione enogastronomica su Internet e nei social media non è scomparsa,
si è, al contrario, evoluta insieme alle piattaforme digitali, interiorizzandone le trasformazioni, sempre
più repentine e confermando il sodalizio intrinseco fra cibo, media e rete. Lo abbiamo osservato nel
corso del 2020, nei mesi della pandemia del Covid-19, in cui la gastromania è tornata alla ribalta, a far
parlare di sé, a scandire i tempi delle giornate, a saturare i feed dei social network. La quarantena,
dunque, non ha trovato impreparata la produzione dell’intrattenimento digitale, come neanche
l’industria alimentare. Adepti, vecchi e nuovi, della loggia culinaria della rete hanno dato avvio a una
nuova ondata, fatta di panificazioni lunghe, preparazioni di gnocchi, tagliatelle, pizze soffici o croccanti,
esperimenti, farine, lieviti. Tutto ciò ha risvegliato il web, battezzando Tik Tok come il social del
momento, “il posto dove oggi accadono le cose” (Marino 2023, p. 77).
Parlare, quindi, di cibo oggi significa interrogare social network come Instagram e Tik Tok, capaci di
catalizzare l’attenzione di ampie fasce di popolazione, rispondendo a logiche complesse e non ovvie. I
social media sono spazi virtuali abitati dalla contemporaneità, in cui si costruiscono regimi identitari, in
cui si interagisce e si definiscono legami sociali e politici. Nuovi sistemi linguistici, culturali, oggetti da
analizzare per mettere in risalto le peculiarità delle forme politiche e sociali presenti in rete. Luoghi che
riflettono la società, influenzandola al contempo.
Instagram e Tik Tok, come anche Facebook, YouTube e così via, non sono delle bolle chiuse e
circoscritte. I loro linguaggi interni, i loro contenuti mediali circolano nella semiosfera, fuoriescono dai
confini, viaggiano nella rete e negli altri medium, dalla televisione, alla radio e ai giornali, influenzandosi,
inevitabilmente a vicenda. Essendo immersi, inoltre, in un ecosistema transmediale, si integrano
reciprocamente, dando vita a incastri di senso, narrazioni disperse in modo sistematico, esperienze
2
Per un approfondimento sui blog culinari cfr. Mangiapane (2014, 2018).
316
digitali unificate nella loro frammentarietà. L’utente social rimbalza dal video breve su Tik Tok a quello
completo su YouTube, dal post di presentazione su Instagram al sito web per l’acquisto di una master
class. Così, ininterrottamente. Salti continui, fatti di click e scroll, che conducono incessantemente avanti,
allo step successivo.
In questo flusso inarrestabile, di foto, sorrisi, suoni, aperitivi, è il video il contenuto mediale
maggiormente pervasivo, quello che più di selfie e tramonti catalizza l’attenzione degli utenti online.
L’audiovisivo, lo abbiamo detto, è il linguaggio dell’oggi. Lo si è visto con la diffusione dei tutorial, con
la scalata degli youtuber, con le IG stories, le dirette Facebook, le clip di Tik Tok e i reel di Instagram.
Le piattaforme si sono evolute e ne sono arrivate di nuove, che hanno dato ancora maggiore spazio alla
componente audiovisiva, risemantizzandola al proprio interno. Le video-ricette su Instagram e Tik Tok
sono distanti dai primissimi video-tutorial di YouTube. La prima differenza sostanziale rispetto al passato
è legata alla durata dei video-clip, oggi sempre più brevi, condensati in pochissimi minuti se non secondi.
In secondo luogo, a mutare è il ritmo che emerge dal montaggio, molto spesso accelerato. Sebbene
siano clip di durata molto breve, si prestano perfettamente a raccontare l’alimentazione, così come oggi
viene percepita a livello culturale e sociale, dentro e fuori lo schermo dello smartphone.
Per tale ragione si è deciso di soffermare lo sguardo sui contenuti audiovisivi, cercando di superare una
loro visione semplicistica e ingenua, dal momento che risultano essere forme brevi di comunicazione
che rispondono a logiche tutt’altro che scontate, che mostrano la complessità strutturale dei testi in
questione (Peverini 2012). In un testo audiovisivo i movimenti di macchina, l’uso della colonna sonora,
la diversa articolazione dei punti di vista, e infine il montaggio, assumono un ruolo decisivo nella
costruzione del senso complessivo dell’opera e costituiscono un oggetto di studio (Peverini 2012).
I contenuti audiovisivi che si osserveranno sono testi rapidi, di pochi secondi o minuti. Sono forme brevi
(Pezzini, a cura, 2002) che, al pari degli spot o dei trailer, vengono confezionate con cura dal punto di
vista comunicativo. Sono testi brevi e densi, capaci di intrecciare, grazie alla loro struttura ritmica e alle
scelte stilistiche, diversi livelli di significazione. Come scrive infatti Pezzini (2002), in questi casi, la
questione dell’estensione del testo sul piano dell’espressione va intrecciata con l’intensità, la forza,
l’energia e la passione messa in scena dal testo stesso, poiché “uno stesso breve tempo, una stessa
estensione si può riempire secondo strategie e intensità differenti” (p. 18). In quanto prodotti audiovisivi
di breve durata, appare particolarmente centrale l’organizzazione del tempo delle azioni messe in scena
sia in relazione all’aspettualizzazione, ma soprattutto, come vedremo, in riferimento all’agogia, ovvero
alle variazioni di movimento delle operazioni da svolgere: lentamente o rapidamente, frenando o
accelerando. Questo ci porta a riflettere anche sulla questione del ritmo, il cui andamento non è altro
che il risultato percettivo, l’effetto di senso, scaturito da una organizzazione complessa sul piano
dell’espressione che, a livello discorsivo, intreccia tempi, spazi e attori, ma anche temi e figure.
Riprendendo quanto scrive Ceriani (2003, pp. 102-103) possiamo infatti definire il ritmo come un
sistema, “una struttura composta di correlazioni differenziali: in quanto tale, esso rappresenta un codice,
e quindi una regola, un meccanismo di trasformazione responsabile, che si può riconoscere sia a livello
dell’espressione sia a livello del contenuto […]”.
4. I social e l’expertise culinaria
“Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori, non avere paura, ma soprattutto divertiti”.
Le parole di Julia Child – cuoca, scrittrice e personaggio televisivo statunitense – sembrano sintetizzare
perfettamente la strada che l’arte culinaria percorre ormai da qualche anno all’interno dell’arena digitale
dei social media. Nel reticolo della rete social quasi nessun food creator vanta più la sua expertise
gastronomica, pochissimi a oggi si definiscono esperti. Tutti, invece, sono appassionati, amatori, cultori di
cibo e social, di cucina e tecnologie. Ma soprattutto, tantissimi cucinano perché hanno il desidero di
assaporare e mangiare (finalmente!) un piatto che li soddisfi, a livello estetico, nutrizionale, etico e, a detta
317
loro, gustativo. Sembra che su Instagram e Tik Tok si cucini quindi per assaporare, provare, condividere
storie, intrattenere, creare engagement, divertirsi, costruire community, quasi mai per istruire.
Dove sono finiti allora gli esperti culinari della rete (blogger e youtuber) a cui l’esplosione mediatica ci
aveva abituati? Forse sono diventati gli “snob” del web, come li ha definiti Benedetta Rossi, una delle
food creator più seguite d’Italia, in un suo recente sfogo contro i suddetti esperti gastronomici3, dai quali,
esplicitamente, lei prende le distanze in difesa dei propri follower, gente comune e semplice, che non
può permettersi cibi sofisticati perché costretta a farsi i conti in tasca al supermercato. Ma c’è di più.
L’influencer afferma con vigore la sua totale mancanza di competenze nel settore culinario, che l’ha resa
famosa. Dichiara la sua incapacità di cucinare, il suo non-saper fare, il non voler impartire insegnamenti,
la sua totale assenza di expertise, a differenza degli chef, ai quali si oppone. Tutto torna al suo posto,
ricostruendo un nuovo equilibrio, con un ordine chiaro e preciso, quando Benedetta asserisce che il suo
unico volere è quello di “condividere” ciò che nella vita di tutti i giorni le “viene bene”, sperando che
possa essere utile a qualcuno. È così che la star culinaria della rete vince la sua battaglia contro i colleghi
“snob”, giocando la sua partita su un terreno che, ovviamente, conosce molto bene, ovvero quello dei
social media, e si appella a ciò che questi ultimi sono sempre stati: spazi di socializzazione, che nulla di
per sé hanno a che spartire con la formazione culinaria di alto livello o con l’esibizione di maestrie da
chef stellati. Luoghi in cui risulta fondamentale la condivisione, il contatto, l’interazione, tutto ciò che
rimanda a una comunicazione fàtica, orientata al canale, alle tecnologie e ai media adoperati per creare
o mantenere contatto fra gli interlocutori (Marrone 2017). Una comunicazione in cui parlare “non serve
dunque a trasmettere informazioni o a esprimere pensieri, e nemmeno a manifestare emozioni; svolge
tuttavia un fortissimo ruolo antropologico, quello, diciamo così, fondamentale di istituire la socialità, di
foraggiare il legame sociale” (ibidem, p. 3).
Ritornando alla figura dell’esperto, sembra si stia assistendo a un’inversione di marcia nell’ampio
dibattito sulla competenza dei soggetti. Come scrive Marrone (2020) “Mai come oggi l’esperto, il
competente, il navigato conoscitore di uomini e cose è sotto i riflettori della cronaca, protagonista
indiscusso, ma anche antagonista acclamato, del discorso dei media, e dunque, per proprietà transitiva,
della vita di tutti noi, tanto sociale quanto individuale” (p. 7). Osservando social media e blog, si riscontra
la presenza di una relazione spesso conflittuale fra chi cucina e una parte del pubblico che giudica
negativamente le ricette proposte. Molti food creator si ritrovano spesso a motivare le scelte degli
ingredienti, a giustificare la loro scarsa abilità tecnica e a marcare il loro essere appassionati di cucina e
non cuochi professionisti. Altri, invece, si impegnano a criticare aspramente il fare culinario altrui,
disprezzando ricette, alimenti e gusto. Questi ultimi, valorizzando fortemente la loro expertise culinaria,
si configurano come esperti del settore, opponendosi a tutti coloro che si approcciano alla cucina per
diletto. Sembra quindi emergere, da un lato, la figura del food creator dilettante, che ama condividere
la sua passione con la propria community, e dall’altra quella dell’esperto/critico gastronomico.
5. Le forme della ricetta social
Il discorso gastronomico nei social media è caratterizzato da un fluire costante di immagini in
movimento, di colori, suoni, parole, sussurri, storie, sbattitori che montano instancabilmente, piatti che
splendono, arnesi antichi e moderni, carni pregiate del Nebraska, che dopo tanta strada vengono gettate
ferocemente, prima, su taglieri lucenti, che diventano podi da esibizione, e poi su padelle ardenti, per
conferirgli il giusto onore. Un organismo interconnesso, transmediale, in cui le pratiche di utilizzo si
differenziamo da un social all’altro, anche per i fruitori che interagiscono, e dove risultano essere
fondamentali le scelte stilistiche e identitarie dei produttori.
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www.instagram.com/reel/Cr6Tf-cgFUE/, consultato il 06/05/2023.
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Dopo aver guardato, in modo trasversale, numerosi profili social di content creator del settore food
presenti nelle differenti piattaforme digitali (Pinterest, Facebook, Twich, Twitter, YouTube, Instagram e
Tik Tok), ci si è resi conto che i cambiamenti odierni relativi al testo gastronomico della ricetta, risultano
di forte rilevanza soprattutto su Instagram e Tik Tok. Il corpus d’analisi selezionato è composto da casi
di particolare successo, che si richiamano a vicenda, dai quali emerge una rete di analogie e differenze
di tipo strutturale.
Uno dei modi in cui si può analizzare l’articolazione del testo ricetta è l’osservazione della sua struttura
narrativa attraverso il modello dello schema narrativo canonico. Osservando i racconti delle video-ricette
prese in considerazione, si è notato come non tutte le fasi del percorso canonico risultano sempre
presenti e come spesso alcune fasi siano maggiormente dominanti rispetto ad altre. In alcune ricette, per
esempio, predomina il momento della manipolazione, in altre quello della competenza, in moltissime
prevale la performance, e in altre ancora la sanzione. Occorre precisare che i tratti distintivi delle quattro
funzioni convivono nelle diverse tipologie di ricette, ma seguono gerarchie di rilevanza variabili, che
lasciano emergere come pertinente ora una precisa fase narrativa ora un’altra, che sembra padroneggiare
rispetto alle altre. Il concetto di dominante, a cui qui stiamo facendo riferimento, è stato approfondito
da Jakobson (1963) in relazione alla prevalenza di alcune delle funzioni comunicative (emotiva, poetica,
conativa, metalinguistica, referenziale, fàtica) all’interno dei processi comunicativi. La dominante è “un
élément linguistique spécifique domine l’oeuvre dans sa totalité; il s’agit de façon impérative, irrécusable,
exerçant directement son influence sur les autres éléments” (Jakobson 1971, p. 77). Quel tratto centrale
di un testo che presiedendo e modificando gli elementi interni, assicura la coesione del testo stesso
(Marrone 2017).
Detto questo, riprendiamo quando elaborato da Calabrese e Volli (1979), poi riadattato da Marrone
(1998) in riferimento all’articolazione narrativa delle notizie dei telegiornali, e proviamo a individuare
quattro tipologie di ricetta social:
1. virtuale, in cui domina l’aspetto manipolativo del racconto messo in scena dal food creator;
2. potenziale, in cui a prevalere è la competenza culinaria da trasmettere allo spettatore;
3. performativa, in cui predomina la performance del cuoco;
4. cerimoniale, in cui emerge fortemente il giudizio del fare culinario altrui.
Vediamo nel dettaglio come si manifesta questa organizzazione narrativa.
5.1. Ricetta virtuale
Come trasporre sullo schermo di uno smartphone i ricordi della nonna, le tradizioni di famiglia e le
esperienze personali? Valeria Raciti4, vincitrice dell’ottava edizione di Masterchef Italia, sceglie di farlo
all’interno di una cornice narrativa, in cui l’esecuzione della ricetta diventa parte di un racconto che
attrae lo spettatore, dotandolo di un voler-sentire e voler-vedere. L’enunciatore mette in scena un fare
semplice, tendenzialmente casalingo, in cui le pietanze realizzate evocano la tradizione. Le storie
raccontate da Valeria donano alla ricetta un valore aggiunto, un’anima, una vita, proiettando lo
spettatore fuori dalla sua dimensione quotidiana.
La ricetta trascritta trova spazio al di fuori dei contenuti audiovisivi, nelle poche righe della caption di
Instagram o della descrizione di Tik Tok. Tutte le video-ricette sono libere da voci descrittive fuori
campo che enunciano le fasi della preparazione, ma anche da sottotitoli e infografiche. Scorrono, invece,
lentamente le inquadrature in primissimo piano del cibo, il cui sfondo è caratterizzato da piccole porzioni
di ambiente casalingo (Figg. 1.1. - 1.2.). Si confeziona così un testo mediatico culinario in cui il tempo
dal punto di vista agogico procedere lento e il cui effetto di senso complessivo richiama eleganza,
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www.instagram.com/valeria.raciti/, www.tiktok.com/@valeriaraciti.masterchef, consultati il 10/05/2023
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pacatezza, finezza, magia. L’obiettivo di Valeria non è insegnare a cucinare tramite le sue brevi video-
ricette, bensì condurre il pubblico che la segue all’interno del suo mondo, della sua storia.
Fig. 1.1. – Lo sfondo della cucina Fig. 1.2. – Inquadratura ravvicinata
di casa. del piatto realizzato.
5.2. Ricetta potenziale
I tutorial che abbiamo imparato a conoscere anni fa su YouTube non sono scomparsi. Esiste ancora
qualcuno che si ostina a volere insegnare al mondo come cucinare la “carbonara perfetta”. Nei social,
infatti, emergono varie forme di video-ricette dal carattere formativo, che mirano a trasferire una
competenza, un saper fare culinario. Un tratto comune a tutti casi che vedremo di seguito è la presenza
di sottotitoli che accompagnano lo scorrere delle fasi di preparazione dall’inizio alla fine dei brevi filmati,
marcandone la finalità didattica. Non tutti i video, però, seguono la medesima impostazione discorsiva.
Riportiamo di seguito tre casi esemplificativi in cui la ricetta conserva il suo valore istruttorio,
manifestandolo secondo articolazioni attoriali, spaziali e tematiche differenti.
Il “grado-zero” delle ricette social, che evoca gli ormai classici tutorial, si può rintracciare nei contenuti
audiovisivi di Benedetta Rossi, la food influencer di Fatto in casa da Benedetta, nome dello storico blog
e degli account social connessi5. I reel di Benedetta infatti mettono in scena una ricetta referenziale, una
competenza acquisita che vuole essere trasmessa allo spettatore, il quale potrebbe voler replicare la
ricetta. Il patto comunicativo che si delinea è quello che regola normalmente il testo istruttorio. Dal retro
del bancone da cucina, la cuoca-insegnante descrive, passo dopo passo, la preparazione che sta
eseguendo (Fig. 2.1. – 2.2.) Per coadiuvare la descrizione orale, i passaggi fondamentali della preparazione
vengono riportanti in sovraimpressione creando un ancoraggio (Barthes 1982) tra parte visiva e parte
verbale, mentre l’intera ricetta viene trascritta, quindi ridetta, nella caption dei post di Instagram. Le
inquadrature e il tipo di montaggio costruiscono una struttura ritmica in cui il tempo delle operazioni
svolte, dal punto di vista agogico, viene percepito come disteso e rilassato. L’obiettivo è farsi comprendere.
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www.instagram.com/fattoincasadabenedetta/reels/, www.tiktok.com/@fattoincasadabenedetta?lang=it-IT, consultati il
10/05/2023.
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I piatti realizzati sono semplici, la cucina è casalinga, pratica. In questo scenario narrativo, la ricetta finisce
per costituirsi come un vero oggetto di valore che lega i due soggetti coinvolti: cuoca e spettatore.
Fig. 2.1. – Benedetta mostra il piatto Fig. 2.2. – In sovrimpressione appare il
finito come copertina del video. testo che rafforza la descrizione orale.
Ma la ricetta, anche nella sua veste pedagogica, all’interno del variegato mondo social, scavalca i propri
confini predefiniti, linguistici e spaziali. Finisce, per esempio, per abbandonare lo spazio utopico della
cucina, e approdare fuori, nel balcone di casa. È l’idea che ha avuto lo chef romano Ruben Bondi nel
corso del lungo lockdown del 2020. Grazie ai video del suo canale, Cucina con Ruben6, è diventato
uno dei primi food creator di successo in Italia su Tik Tok, seguito oggi da 1.4 milioni follower. Dal suo
balcone, con fornelli d’accomodo e utensili casalinghi, ha iniziato a dispensare ricette succulenti a un
pubblico costretto a stare a casa, demotivato, ma certamente affamato (Fig. 3.1.). Ruben è il protagonista,
nonché il soggetto operatore, di un racconto corale, in cui sembra essere coinvolto in modo attivo il
destinante, ovvero l’utente da casa, a cui lo chef si rivolge costantemente e per il quale si mette all’opera.
Al termine di ogni ricetta ricorda al suo pubblico di segnalargli la prossima ricetta che vogliono vedere
realizzata (“Fatemi sapere quale ricetta volete vedere nella prossima ricetta!”). Il pubblico si configura,
da un lato come destinante manipolatore, poiché indica al cuoco la prossima ricetta da realizzare, mentre
dall’altro lato come destinante giudicatore, poiché, rispondendo a tale richiesta, dimostra apprezzamento
per quanto ha appena visto. Partecipano, inoltre, al siparietto culinario molti altri attori, con ruoli
narrativi precisi. Si alternano dirimpettai, fratelli, amici, sorelle, zie e, di recente, anche personaggi più
conosciuti. Questi attori nella parte iniziale dei video vengono chiamati in causa da Ruben (“Ehi, Luca!
Che te vò magnà oggi?!”), a cui rispondono con la richiesta di uno specifico piatto, imponendo così al
soggetto un dover-fare e fungendo, quindi, da destinanti iscritti nel testo. Nel corso della preparazione,
fra i vari intermezzi in cui il giovane chef regala consigli tecnici e batture ai suoi follower (“Con questo
piatto la fai innamorare!”), accade spesso che il fratello o l’amico di turno partecipi alla realizzazione
della ricetta, diventando un aiutante. Al termine della preparazione sia Ruben che l’assistente addentano
voracemente la pietanza e ovviamente la giudicano, trasformandosi entrambi in dei destinanti
sanzionatori a livello narrativo (Figg. 3.2.-3.3.). Lo spettatore viene dunque iscritto all’interno
dell’enunciato stesso. L’utente da casa, infatti, si identifica con la figura dell’amico di Ruben. Cucina
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www.tiktok.com/@cucinaconruben, consultato il 10/05/2023.
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con Ruben si configura come un racconto famigliare e d’amicizia, in cui ogni singolo attore coinvolto
manifesta il proprio entusiasmo, la gioia di stare insieme e il gusto di mangiare un buon piatto in
compagnia dell’amico-chef. A marcare questo effetto complessivo è anche il nome del canale, Cucina
con Ruben, che sembra riferirsi sia alla relazione fra il cuoco e lo spettatore da casa, sia alla messa in
scena culinaria, in cui Ruben cucina con gli altri attori. Le riprese alternano, con ritmo accelerato,
inquadrature frontali dei personaggi e riprese dall’alto su fuochi da campeggio, padelle, taglieri e piatti
da portata. Il risultato è un prodotto audiovisivo dinamico e giovanile. Accresce, inoltre, l’effetto di realtà
casalinga e quotidiana il dialetto romanesco di Ruben e compagni, ricco di esclamazioni (“Dajè!”,
“Bona!”), che manifesta in modo esplicito il patto comunicativo amichevole, informale, alla pari. Un
effetto di senso che richiama la cucina più autentica, quella domestica, d’arrangio, all’interno di una
cornice visiva a tratti grezza e rudimentale, ma al contempo genuina.
Fig. 3.2. – L’amica di Ruben si Fig. 3.3. – Ruben e l’amica
unisce alla preparazione. assaggiano il piatto appena
preparato insieme.
Un’estetica del goffo che risponde, opponendosi, all’estetica del bello e della perfezione, a cui l’alta cucina
e social come Instagram ci hanno abituati negli anni d’oro della gastromania. E ancora, si assiste all’avvento
di un nuovo modo di raccontare il fare culinario, più teso verso l’esaltazione della convivialità, della
chiacchera, del piacere d’assaporare un succulento manicaretto appena tolto dal fuoco.
Cosa accade, invece, quando i saperi della ricetta vengono trasmessi al pubblico da un format video
che è un mix di differenti linguaggi che evocano insieme gli show televisivi, i classici tutorial e gli odierni
social media? Arriva sui nostri touch screen la produzione audiovisiva dello Chef Max Mariola7 (Fig.
4.1.), una star di Tik Tok con 4.4 milioni di follower. Fra un’indicazione di cottura e un commento sul
gusto di un piatto, lo chef si rivolge direttamente alla camera e con sguardo complice, intimo e malizioso
sussurra all’orecchio dello spettatore consigli spassionati da navigato seduttore (“Cena romantica a casa
tua o a casa mia?”, “Hai passato una notte fantastica e lei sta ancora dentro al letto mò ti faccio vedè
che colazione gliè devi fa!”). Max è l’amico esperto di cucina e d’amore, è il confidente, di lui ci si può
fidare. Per lui il cibo è passione, seduzione, sapore intenso della vita, armonia, buona compagnia e
allegria. Ma soprattutto è suono, “the sound of love”, come recita una delle sue massime più gettonate,
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www.tiktok.com/@chefmaxmariola, consultato il 10/05/2023.
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con la quale accompagna ogni sfrigolio di cipolla o effetto crunch del pane tostato. La bontà del piatto
si sente, e in modo sinestetico richiama il senso del gusto e dell’olfatto. La dimensione sensoriale e
corporea sembra essere cruciale in queste video-ricette; lo chef esalta attraverso i suoi movimenti, le sue
espressioni facciali e la sua voce dal tono appetitoso, le caratteristiche delle pietanze, alternando giudizi
che rimandando ora al gustoso, ora al saporito8. Infine, Max è un affezionato del saltapasta, del bancone
da cucina (Fig. 4.2.), che altro non è che il suo personale palcoscenico, allestito in uno spazio esterno
che sembra essere un terrazzo, e da cui anima la sua performance culinaria con l’ausilio di diversi
aiutanti non umani: dagli ingredienti, presentati in modo dettagliato nella parte introduttiva dei video,
ai coltelli, ai taglieri, alle pentole e padelle (Mangano 2013).
Fig. 4.1. – Lo chef assaggia il Fig. 4.2. – La terrazza-cucina
piatto appena realizzato. dello chef.
5.3. Ricetta performativa
Entriamo adesso dentro tutta quella ampia fetta di materiale audiovisivo social, in cui il testo della ricetta
perde quasi del tutto il suo carattere istruttorio, diventando un pretesto per esaltare ora la personalità di
uno chef, ora la dimensione ludica, ora quella estetica e sensoriale, ora passionale. I soggetti operatori
delle video-ricette che andremo a vedere mettono tutti in scena un fare culinario che tende alla
spettacolarizzazione. Essi sembrano infatti presuppore come enunciatario un soggetto mosso dal
desiderio di voler-guardare e assistere a una esibizione gastronomica, che richiama maggiormente il
genere dell’intrattenimento e assume forme e sfumature sempre più fantasiose e teatrali. Vediamo
qualche esempio.
Maestria culinaria e personalità sfrontata, sicura e spavalda caratterizzano lo spettacolo del giovane
cuciniere del canale Tik Tok e Instagram Notorious_foodie9. Un ragazzo londinese a cui piace cucinare
(“I like to cook”, enunciano le sue biografie social), di cui viene celato il nome, e di cui si conosce poco
il volto. Solo in tratti precisi e salienti della performance mostra allo spettatore viso e corpo. Di contro,
8 Il gustoso e il saporito sono due linguaggi specifici del gusto. Il gustoso è quel sistema di senso che si istaura
grazie al riconoscimento sensoriale delle figure del mondo già note; il saporito è il luogo della sensorialità, in cui
emergono le qualità sensibili delle sostanze gastronomiche (Marrone 2022).
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www.tiktok.com/@notorious_foodie, consultato il 10/05/2023.
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l’osservatore conosce perfettamente l’abilità tecnica delle sue mani (Fig. 5.1.). Le sue video-ricette
evocano le esecuzioni musicali. Le sue sono le mani di un pianista intento a mettere alla luce la sua
opera, con un ritmo incalzato, accelerato, che toglie il fiato, stordisce e affascina, cattura.
Le riprese avvengono nella cucina di casa, le inquadrature mostrano spazi angusti, ristretti, dove attrezzi
e taglieri professionali sembrano non trovare respiro. Il montaggio serrato delle azioni svolte innesca un
movimento agogico incalzante. Le fasi delle preparazioni sono tante, e così anche gli stacchi della
camera. Siamo all’interno di una cucina casalinga, ma le pietanze realizzate sono elaborate, degne di un
ristorante di medio-alto livello. Come detto, all’osservatore in preda al delirio visivo ed emotivo, viene
negato, per la maggior parte della durata del video l’accesso al volto del soggetto in azione, sono le
mani a rappresentarlo per sineddoche. Sono loro le protagoniste della scena, è il loro saper-fare che
viene messo in mostra, non per istruire, ma semplicemente per il gusto di esibirsi, dimostrando il proprio
valore, il proprio sapere cognitivo al mondo, o forse all’alta-cucina, un possibile anti-soggetto di questa
storia. Il corpo e il volto del cuoco appaiono solo nella parte finale dei video, al momento dell’assaggio
(Fig. 5.2.), in cui lui, vestendo i panni del destinante giudicatore, valuta la propria creazione. Con fare
solenne, mangia l’opera succulenta che le sue mani hanno creato e gusta con piacere. Ma non finisce
qui. A dispetto di chi guarda dall’altra parte dello schermo e non può provare questo piacere estesico,
decide di lanciare un canovaccio bianco sull’obiettivo della camera. Una firma irriverente che impedisce
definitivamente l’accesso visivo dell’osservatore (Figg. 5.3.-5.4.).
Fig. 5.2. – Il cuoco mangia Fig. 5.4. – Infine, lancia il
il suo piatto. canovaccio alla camera.
Enfatizza l’effetto drammatico e spettacolare della messinscena culinaria lo sfondo sonoro: brani classici
strumentali, in cui Vivaldi e il suo tempo impetuoso fanno da padrone. Nel corso dei brevi video,
nessuna voce o sovrimpressione fornisce spiegazioni sulla preparazione. A parlare sono le inquadrature,
il sound musicale e il suono del cibo, il rumore degli attrezzi, il tonfo dei tocchi di carne lanciati sul
tagliere, lo sfrigolio dell’aglio in padella, la potenza della mannaia, il crunch della baguette abbrustolita.
Ancora una volta, come nelle video-ricette di Chef Max Mariola, il cibo scuote l’udito dell’ascoltatore,
e in modo sinestetico ci comunica il suo gusto. Vedremo a breve come questo aspetto sensoriale, plastico
del linguaggio del cibo, risulti cruciale in particolari forme testuali della ricetta.
Se le video-ricette di Notorious_foodie stordiscono e provocano tensione, sul piano passionale, quelle
di Men with the pot10 rilassano, cullano dolcemente lo spettatore, ricongiungendolo con il proprio “io”
10
www.tiktok.com/@menwiththepot, consultato il 10/05/2023.
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sensibile e la dimensione naturale. Perché limitarsi a cucinare piatti complessi all’interno dei propri
templi casalinghi se si può dare vita a pietanze eccellenti e prelibate all’aperto, in montagna, circondati
dal verde, fra una scalata e una lunga sessione di trekking? È quello a cui hanno pensato Slawek Kalkraut
e Krzysztof Szymanski, due amici polacchi, residenti in Irlanda, creator del profilo Tik Tok Men with
the pot, seguito da più di 12 milioni di persone. Nei loro video provano a mettere in relazione la passione
che nutrono per la cucina, insieme a quella per la vita rurale, ponendo in evidenza una configurazione
valoriale profonda, che oppone natura a cultura. Lo scorrere lento del tempo, la tranquillità dello spazio,
il suono della foresta vengono, tuttavia, interrotti, a intervalli puntuali, da una civiltà primitiva ma
affascinante, messa in risalto dal tonfo di una mannaia in azione. Le qualità tecniche di questo speciale
coltello vengono ampiamente enfatizzate, finendo per configurala come un possibile oggetto di valore
da raggiungere per un potenziale consumatore-spettatore che ne rimane ammaliato. La mannaia con
eccellente maestria, infatti, tronca, taglia, sminuzza ferocemente e velocemente tutto ciò che incontra:
cipolla, carni, patate, prezzemolo, pane tostato, pizza, legnetti. Si nota, inoltre che dalla cucina di casa,
fuori campo, sopraggiungono altri attori non umani, come padelle, coperchi, casseruole, taglieri, ma
anche sale, farina, spezie, pomodori, salsicce, lattuga (Figg. 6.1.-6.4.). Dalla civiltà, insomma, non si può
del tutto fare a meno, soprattutto se si vuole cucinare un piatto elaborato, fortemente culturalizzato.
Non basta, infatti, trasformare due pezzetti di legno in posate, gettare il pesce nel fiume per pulirlo,
accendere il fuoco o sollevare una graticola con le pietre. La messa in scena di un’estetica naturale,
rudimentale, d’accomodo, che contribuisce a innescare, a livello del contenuto, l’effetto natura-wild, si
scontra quindi con tutta una serie di attori che richiamano inevitabilmente luoghi altri da cui
provengono, quello della città, dei supermercati, della cucina di casa.
Fig. 6.1. – La mannaia Fig. 6.2. – Sempre la Fig. 6.3. – Padella e Fig. 6.4. – Una ciotola in
sminuzza il prezzemolo. mannaia, affetta la carne. cucchiaio di legno. legno con diverse spezie.
Si osserva quindi come l’effetto di natura selvaggia che si coglie a prima vista, in realtà pone in risalto
una natura negata, una non-natura, che finisce inevitabilmente per tendere, in molti momenti del
racconto culinario, verso il polo della cultura che si vuole silenziare.
I video di Men with the pot – dicevamo – hanno una particolare effetto: rilassano. Grazie alle note
ancestrali della natura, al fruscio delle foglie, ma anche ai suoni del cibo, che stride o arde sulla piastra,
o ai rumori dell’azione culinaria, che taglia, spreme, monda, e infine, al mormorio dell’atto gustativo.
Quando i creator masticano, lo spettatore lo sente, e partecipa all’esperienza in modo sinestetico. Questa
sinfonia sensoriale, che fonde i sussurri della natura a quelli dell’azione gastronomica, in questo specifico
testo mediale, come in tantissimi altri della medesima tipologia, risulta particolarmente enfatizzata tanto
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da farlo rientrare nella categoria ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) 11 . Video che
stimolano a livello visivo e soprattutto uditivo lo spettatore, suscitando una gradevole sensazione di relax
che parte dalla testa e scende fino alle spalle, finendo per rilassare del tutto il corpo. Quello che molti
descrivono online come “orgasmo cerebrale”, che prevede la sollecitazione di tutti i sensi mediante
meccanismi sinestetici. Dal punto di vista semiotico si può affermare che si assiste alla messa in scena
delle qualità sensibili degli ingredienti stimolando vista e soprattutto udito. Si enfatizza la percezione,
per esempio, della croccantezza della pancetta soffritta o la sofficità di una pagnotta, ma anche il calore
dell’olio bollente, il crunch del pane tostato. Ne deriva una performance culinaria che si fonda sul regime
estesico tipico del linguaggio saporito, sistema basato su ragionamenti percettivi e polisensoriali, “dove
si opera tramite processi percettivi non più legati a schemi cognitivi dati ma a una presa in carico diretta
delle qualità sensibili proprie alle sostanze gastronomiche – in rapporto fra loro per contrasti sintagmatici
o per rinvii paradigmatici, e in relazione a contenuti specifici grazie a sistemi semisimbolici ad hoc”
(Marrone 2022, p. 105).
Se Men with the pot riesce a rilassare lo spettatore proiettandolo in un ambiente naturale, il profilo
Instagram di Turkuaz Kitchen12 , gestito dalla fotografa e food creator Betul Tunc, ha il potere di
incantare e distendere il corpo dell’osservatore grazie alla visione di un fare culinario che pone in risalto
l’aspetto estetico del cibo, la sua bellezza esteriore, all’interno di una cornice vintage-country dai toni
cromatici caldi e dalle linee morbide e avvolgenti. L’inquadratura dall’alto mostra infatti un piccolo set
allestito in ogni dettaglio. Si distingue il legno antico del tavolo che funge da base, si notano i fogli di
giornale d’epoca che sostituiscono panni da cucina e carta da forno, ma anche i frullini a manovella, i
setacci di ferro, i piatti e le ciotole. L’isotopia del vintage (Panosetti, Pozzato 2013) agreste viene inoltre
enfatizzata dall’abbigliamento rustico della cuoca, della quale si conosce solo la parte centrale del corpo,
di cui spiccano le mani, riprese nell’atto di esprimere il loro sapere (Figg. 7.1-7.2).
Fig. 7.1. – La cuoca utilizza foto e Fig. 7.2. – La cuoca utilizza uno
giornali vintage come sfondo per la strumento antico per spremere i limoni.
preparazione.
11
www.wikipedia.org/wiki/Autonomous_sensory_meridian_response, consultato il 10/05/2023.
12
www.instagram.com/turkuazkitchen/reels/, consultato il 10/05/2023.
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Ad accompagnare questa messinscena teatrale, non vi è alcuna voce umana e non vi sono sottotitoli che
istruiscono sulla ricetta. Conducono lo spettatore a livello sonoro brani strumentali, classici e non,
dall’andamento alterno, lento o rapido, insieme a una serie di suoni tecnici, emanati da ingredienti e
utensili, che sembrando voler far sentire all’ascoltatore estasiato la loro di voce, il loro linguaggio
culinario, fatto di contrasti sensoriali.
In questi ultimi due casi, emerge uno scenario dominato dall’estesia, in cui prevale la componente
plastica del linguaggio, e dove sembra di assistere a vere messinscene teatrali. Lo spazio riservato alla
ricetta scritta, sia su Instagram che su Tik Tok, è la caption dei post. Uno spazio “altro”, didascalico,
percepito dall’utente come marginale e secondario in relazione ai prodotti audiovisivi. I piatti realizzati
sono spesso elaborati, le preparazioni sono complesse, richiedono diversi passaggi, sovente celati e dati
per impliciti. Tutto questo contribuisce a far emergere la figura di un cuoco competente, ripreso nell’atto
di un’esibizione culinaria, e nell’esaltazione dei suoi valori identitari, del suo stile di vita, ora green e
wild, ora vintage e country. Contenuti digitali che si possono definire come espressioni di forme di vita,
rotture delle strutture narrative e discorsive predefinite, dove a essere valorizzata è solamente l’estetica
del comportamento, della pratica messa in risalto, del gesto esibito (Marrone 2007). L’enunciatario
presupposto, in questi casi, è un soggetto alla ricerca di una sensazione euforica, piacevole, ipnotica, in
cui proiettarsi per qualche minuto, abbandonando il proprio corpo e i propri sensi a un’esperienza
polisensoriale e sinestetica, costruita dal testo come un oggetto di valore a cui ambire.
Come si può dedurre, la trasformazione del testo gastronomico della ricetta in un “fare esibizionista”
appare come una tendenza molto diffusa nei social network, ma i patti comunicativi che si riscontrano
fra enunciatori ed enunciatari sono sempre differenti. In alcuni casi prevale un rapporto dialettico critico
e arrogante (come per Notorious_foodie), in altri amichevole (come per Cucina con Ruben e per Chef
Max Mariola), in altri ancora ironico e divertente, in cui la valorizzazione ludica della performance
culinaria appare esplicita e fortemente marcata. Quest’ultima dimensione la ritroviamo, per esempio,
nei contenuti audiovisivi dei profili Tik Tok e Instagram di Man can cook13 e di 2men1kitchen14. Nel
primo, assistiamo agli spettacoli esilaranti di Daniel Rankin, un food creator e coach sportivo dal fisico
palestrato, accompagnato dal suo fedele amico a quattro zampe, un carlino paziente, immobile, dallo
sguardo sovente spaesato, il cui unico compito è osservare l’agire danzante del suo padrone/cuoco sex-
symbol, accrescendo, sul piano del contenuto, l’effetto di senso stravagante della messinscena culinaria.
A ballare non è solo Daniel, ma ruotano e saltano con lui anche fruste, scope, frullini, sbattitori in un
susseguirsi di inquadrature ammiccanti di muscoli, volti e cibo (Figg. 8.1-8.3). Esaltazione visiva del
gusto, come fattore estetico, umano e culinario. Uno spettacolo eccentrico, che mira a far emergere le
qualità ipersensibili del cibo come del cuoco, mediante riprese ravvicinate, spezzate, di pietanze e corpi
strabordanti, in un processo di richiamo continuo e identificazione reciproca. Man can cook innesca
un’estrema spettacolarizzazione, che si manifesta con la quasi totale scomparsa dell’attenzione verso le
fasi di preparazione dei piatti. Queste si confondono, fra balli e travestimenti vari, annullando del tutto
l’intento istruttorio. Se si vuole comprendere i passaggi della ricetta bisogna uscire fuori dalla cornice
del video, leggere la descrizione del post o cercare all’interno del sito web. Nel secondo caso preso in
esame, 2men1kitchen, i due protagonisti della performance gastronomica, con fare ironico e divertito,
mettono in scena opere di camouflage sempre più ambiziose, svelandone al contempo il retroscena e
tutto il lungo processo che le ha portate alla ribalta. Si è di fronte a un attante duale (Greimas 1976), la
coppia di amici, entrambi agenti di un unico programma d’azione, esibire la loro capacità di produrre
magie culinarie, svelandone i meccanismi celati e, di conseguenza, la loro competenza tecnica.
I piatti che vengono realizzati giocano sui regimi di veridizione, sui giochi di finzione, quindi
sull’opposizione semantica fra essere e apparire. Per esempio, ciò che, a livello dell’espressione,
appare come un arrosticino di carne, a livello gustativo risulta essere una torta al cioccolato (Figg.
13
www.tiktok.com/@mancancooknz, consultato il 10/05/2023.
14
www.tiktok.com/@2men1kitchen, consultato il 10/05/2023.
327
9.1.-9.2.). Si innescano, così, dei cortocircuiti percettivi, che attirano lo spettatore e lo spingono a voler
scoprire l’inganno. Il soggetto enunciatore, dal canto suo, vuole sorprendere, vuol far-vedere,
all’enunciatario, che si presuppore essere incredulo, tutti quei meccanismi segreti che consentono la
realizzazione del camuffamento.
Fig. 8.1. – Daniel presenta la sua Fig. 8.2. – Daniel mentre cucina canta Fig. 8.3. – Daniel affronta la ricetta
ricetta in modo seducente davanti e utilizza la frusta come microfono. con un travestimento da saldatore.
a un camino.
Fig. 9.2. – Si mostra il
Fig. 9.1. – Questi arrosticini si procedimento, l’utilizzo di
rilevano essere una torta Sacher. utensili da cucina e di dosi
precise.
328
5.4. Ricetta cerimoniale
Il destinante giudicatore nella stragrande maggioranza delle video-ricette prese in esame appare iscritto
nel testo stesso. Solitamente chi cucina, al termine della preparazione, assaggia il proprio piatto,
sanzionando positivamente, attraverso sguardi compiaciuti, esclamazioni colorite e pollici all’insù,
l’ottima riuscita della ricetta. Negli ultimi anni, tuttavia, spopolano su Tik Tok i cosiddetti duetti, video
in cui il soggetto operatore, che realizza il piatto, e il soggetto giudicatore, che lo valuta, si scindono, e
in cui a prevalere è la figura del giudice. Lo spettatore assiste alla visione contemporanea di due
esibizioni. Lo schermo appare diviso in due parti: da un lato, vi è la ripresa, solitamente frontale,
dell’autore del duetto, intento a guardare, commentare e giudicare il video riportato a fianco. Sembra
che l’autore del duetto, assuma su di sé anche il ruolo di attante informatore, poiché commentando il
video, fornisce indicazioni e indirizza lo sguardo dell’osservatore. Questi video, soprattutto nel settore
food, hanno spesso una natura polemica, conflittuale, critica, a volte parodica. Tendono a screditare il
fare culinario altrui, giudicandolo negativamente. È ciò che accade in profili come ilmori15, in cui viene
messo in mostra lo scontro fra un expertise, quella del chimico gastronomico, e un’altra, quella dei food
creator più popolari. Il “tiktoker” Guido Mori si diletta nella demolizione della competenza degli altri,
sottolineando gli errori commessi e spiegando le ragioni tecniche e chimiche delle sue osservazioni (Fig.
10.1.). Dal punto di vista dell’enunciazione, si può presuppore come enunciatario del testo, un soggetto
diffidente nei confronti dei fenomeni del web, alla ricerca di una attendibilità scientifica, “vera”, forse
anche un po’ complottista. Fra i commenti dei follower che supportano il chimico Mori, si leggono frasi
come “Maestro ci faccia la ricetta vera”, “Mi viene da piangere, la gente che ha soldi spesso non rispetta
la cucina e non pensa a cosa c’è dietro un prodotto”, “L'avevo sospettato che fosse un impostore... Tu
me lo confermi”, “a parte il discorso economico, credo che sia una mancanza di rispetto verso l’essere
vivente che è stato ucciso per fare questa m°°°data immonda”. Oltre ai sostenitori, fra i commenti, si
trovano anche coloro che criticano l’azione demistificatrice del Mori, accrescendo l’effetto polemico che
caratterizza il tipo di contenuto (“Sai che puoi criticare senza essere spocchioso e maleducato?”, “Caro
Mori sembri la parodia di te stesso… fai ridere già solo per questo…”, “Qualcuno ha mai visto un video
dove cucina di questo personaggio oppure sa solo criticare”, “Sei sgradevole”).
Indagando a fondo sugli audiovisivi di questa tipologia, ci si è resi conto che, in effetti, esistono differenti
casi in cui lo scopo del duetto non è denigratorio, ma opposto: di esaltazione, magnificazione e di
piacevole visione. È ciò che si ritrova in molti video di Tik Tok del celebre Gordon Ramsay16 (Fig.
11.1.), in cui lo chef-commentatore vive la visione della video-ricetta con trepido interesse, culminando
con esclamazioni di ammirazione ed entusiasmo (“Gorgeous!”, “Very beautiful!”) Non fornisce
informazioni e dettagli aggiuntivi, si limita a mostrare allo spettatore la sua esperienza di osservazione,
iscrivendo nel testo un tipo di reazione ideale, quella che lo spettatore potrebbe avere da casa guardando
la medesima ricetta. Il destinante giudicatore, in questi casi, si configura infatti come un attante
osservatore, imita il fare dello spettatore, un enunciatario ideale giovane che utilizza i social per divertirsi
e cedere all’intrattenimento spassionato.
Emerge, quindi, come questo genere testuale ponga al centro gli aspetti legati alla sanzione
gastronomica, che appare articolata mediante un discorso di tipo passionale, euforico o disforico, in
continua oscillazione fra la patemizzazione e l’emozione, che lo spettatore avverte. Il chimico Mori, per
esempio, appare quasi sempre arrabbiato e irritato, in uno stato passionale disforico, al contrario lo chef
Ramsay risulta assoggettato a una passione euforica, preso da gioia, entusiasmo e gola.
15www.tiktok.com/@ilmori?lang=it-IT(profilo),
www.tiktok.com/@ilmori/video/7198933155187821829?lang=it-IT (duetto).
16
www.tiktok.com/@gordonramsayofficial?lang=it-IT (profilo), consultato il 10/05/2023.
www.tiktok.com/@gordonramsayofficial/video/7231662442361670939?lang=it-IT (duetto), consultato il 10/05/2023.
329
Fig. 10.1. – Duetto di Guido Mori. Fig. 11.1. – Duetto Gordon Ramsay.
6. Conclusioni
Proviamo adesso a tirare le fila di questo percorso, focalizzando l’attenzione sugli aspetti che
maggiormente caratterizzano il genere testuale della ricetta nei social media. Come in ogni fenomeno
di traduzione intersemiotica, anche in questo caso, vi sono degli elementi invarianti e sopravvissuti al
processo di trasposizione, come ad esempio la relazione fra enunciatore dotato di un saper fare ed
enunciatario poco competente, ma vi sono anche dei tratti varianti, inediti, che ricorrono nei diversi
video sottoposti ad analisi, i quali risultano portatori di cambiamenti significativi.
Una prima considerazione riguarda il ruolo tematico del cuoco, la cui personalità, nelle video-ricette
osservate, risulta essere elemento indispensabile per l’affermazione della popolarità del content creator
e, di conseguenza, della validità delle ricette proposte. Sembra che sui social il ruolo tematico del cuoco
si dia in concomitanza ad altri ruoli tematici: ci sarà così il cuoco-amico, il cuoco-confidente, il cuoco-
sex symbol, il cuoco-palestrato, il cuoco-amante della natura, il cuoco-ex concorrente di Masterchef, il
cuoco-chimico, il cuoco-giudice, il cuoco-fotografo, il cuoco-prestigiatore. Tale combinazione influenza
fortemente lo stile culinario delle video-ricette nonché i patti comunicativi. Il cuoco-sex symbol (Man
can cook), in modo ironico e divertente, mette in scena uno spettacolo gastronomico, saltando, ballando
e ammiccando alla camera; il cuoco-amico (Cucina con Ruben), cucina con piacere insieme ai suoi
convitati; il cuoco-wild (Men with the pot) si avventura in lunghe preparazioni in mezzo alla natura, ai
suoi suoni, con utensili d’accomodo e non; e ancora, il cuoco-prestigiatore (2men1kitchen), si diverte a
svelare i suoi trucchi, e quindi le sue abilità di camouflage, al pubblico. Affiora, così, contrariamente a
quanto accade in molti ricettari tradizionali, una forte componente autoriale. Lo stile delle ricette di
Bendetta Rossi è ben riconoscibile, come anche quello dello Chef Max Mariola, di Notorious_foodie,
di Turkuaz Kitchen.
Questa ampollosità mediatica della personalità dei food creator, ci porta a riflettere sull’obiettivo che
costituisce lo sfondo della maggior parte delle video-ricette social, ovvero quello di attrarre lo spettatore,
istallando un rapporto di fiducia duraturo che porti il follower fidelizzato a seguire il proprio beniamino
ovunque, dentro e fuori la rete. Un tipo di comunicazione che, recuperando quanto formulato da
Landowski (1989) in merito al discorso pubblicitario, segue la logica del contratto più che quella
dell’acquisto, poiché, ponendo in primo piano i desideri e non i bisogni degli spettatori, la sfera
soggettiva dei food creator e la relazione intersoggettiva con i propri follower, lascia sullo sfondo la
trasmissione del valore istruttorio della ricetta.
330
Una seconda considerazione è legata all’estesia, alla forte sollecitazione sensoriale che permea la
stragrande maggioranza delle ricette social, nonché alla relazione fra corpo, sensi e cibo messa in scena.
Foto, inquadrature e suoni mettono sotto i riflettori le qualità sensibili degli ingredienti e della pratica
gastronomica, dando maggiore enfasi alla dimensione plastica del linguaggio. Si susseguono immagini
contrastanti, materiche, che istallano nell’osservatore un tipo di sguardo aptico, “cioè tattile,
sinesteticamente capace di far emergere, grazie all’ipertrofia della visione, la materia supposta ‘pura’ del
cibo” (Marrone 2016, p. 233), tipico del food porn. Rispetto al passato, oggi sembra avere un ruolo
determinante la componente sonora, focalizzata molto spesso sulla riproduzione del suono del cibo
(pane abbrustolito, cipolla croccante), delle tecniche di cottura (arrostire, bollire, friggere), delle azioni
messe in atto (tagliare, tritate), ma anche degli ambienti che accolto la performance culinaria (cucina,
montagna, balcone). Nell’universo social, non si mangia più solo con gli occhi. L’udito diventa un senso
privilegiato, forse ancor più della vista, per sollecitare, in modo sinestetico, il senso del gusto e
comunicare il fare culinario.
Riassumiamo nella tabella di seguito (Tab. 1) le differenze fra tutte le video-ricette analizzate.
331
Tabella 1
Tabella comparativa delle video-ricette social
Valore
Ruolo del
Spazio Agogia Spettatore istruttorio Valori culinari
cuoco
ricetta
Angoli
Vuole
Ricetta della Cuoca- Non Tradizione e
Valeria Raciti Rilassato ascoltare e
virtuale cucina di narratrice presente famiglia
guardare
casa
Condivisione
Fatto in casa da Cucina di Cuoca- Vuole Fortement
Lento di saperi
Benedetta casa insegnante sapere e presente
culinari
Ricetta Amicizia,
potenziale Cucina con Balcone di Vuole convivialità,
Rapido Cuoco-amico Presente
Ruben casa sapere arte di
arrangiarsi
Chef Max Fluido e Cuoco- Vuole Amore e
Terrazzo Presente
Mariola rilassato confidente sapere passione
Spazi
ristretti Veloce,
Cuoco-artista Vuole
Notorious_foodie della fortement Assente Arte culinaria
misterioso guardare
cucina e scandito
di casa
Cuoco-wild Vuole
Men with the Lento e
Montagna (amante della guardare e Assente Relax e natura
pot rilassato
natura) ascoltare
Cuoca-
Bellezza
Ricetta Turkuaz Sezione di Lento e fotografa Vuole
Assente estetica
performativa Kitchen un tavolo rilassato (appassionata guardare
vintage)
Cucina di Cuoco-sex Vuole Divertimento e
Man can cook Rapido Assente
casa symbol guardare gioco
Sezione di
Rapido e Cuoco- Vuole
2men1kitchen un Assente Sorpresa, gioco
fluido prestigiatore guardare
bancone
Spazi Cuoco- Professionalità
Vuole
ilmori interni o Fluido giudice Assente e sapere
guardare
esterni negativo scientifico
Ricetta
cerimoniale Spazi Cuoco-
Vuole
Gordon Ramsay interni o Rapido giudice Assente Gioco
guardare
esterni positivo
332
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi
ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia.
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334
| null |
ec | https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3117 | [
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] | Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario
Lucio Spaziante
Abstract. The paper deals with a semiotic analysis of the literary text, focusing on Richard Yates’ novel
Revolutionary Road (1961): a dramatic mid-twentieth-century portrait of social appearances and their negative
impact on personal identities. The analysis was carried out by a group of students as part of a seminar at the
University of Bologna, in the master’s degree program in Semiotics, and constitutes the outcome of an experiment
that led to a research product through a didactic process. In the first phase, the novel was analyzed in each
individual chapter; then, through didactic coordination, a few macro-themes (spatiality, temporality, corporeity,
gender) emerged which the subgroups proceeded to a specific in-depth study. Among the results, it appeared how
spatiality is a relevant feature not in itself, but in relation to the sense effects it produces: such as the opposition
between public and private, and the relationship between social appearances and intimate dimensions. The
temporal dimension was also considered relevant: a back-and-forth between past and future related to the
characters’ nostalgia for a future they never realized. Finally, the analysis showed the relevance, within the novel,
of the correlation between corporeality, gender and passions, not only functional to describe the characters, but to
define their status as social bodies, which in the fictional story possessed a higher value than natural bodies.
1. Introduzione. Un esperimento metodologico
L’articolo è il risultato di un esperimento che intendeva incrociare la didattica con la ricerca, e assieme
ragionare sulla metodologia di analisi semiotica del testo, in special modo quello letterario. Si tratta di
un’analisi del romanzo Revolutionary Road di Richard Yates (1961), libro che ha vissuto di una
rinnovata notorietà grazie all’omonimo adattamento cinematografico 1 , diretto e prodotto da Sam
Mendes (USA 2008), con protagonisti Kate Winslet e Leonardo Di Caprio.
L’analisi è stata portata avanti da un gruppo2 di studentesse e studenti del corso di laurea magistrale in
Semiotica dell’Università di Bologna, da me coordinato, all’interno di un seminario extra-curriculare legato
all’insegnamento di Metodologia di analisi II. L’idea era quella di provare ad analizzare un corpus di taglia
ampia, quale è un romanzo, grazie alle forze collettive di un gruppo composto da una decina di persone.
Di fronte ad un corpus simile, si pongono anzitutto problemi di articolazione e selezione del testo,
nonché l’ardua decisione di quali criteri analitici adoperare. Se si fosse trattato di un convegno, si
sarebbe data ampia scelta agli studiosi di approcciare l’analisi secondo le rispettive peculiarità, con il
1
Il piano di lavoro prevede anche una seconda fase successiva da dedicare all’analisi del film Revolutionary Road,
sempre con una chiave laboratoriale, con una comparazione tra i due testi e un approfondimento sul tema della
traduzione intersemiotica tra letteratura e audiovisivi.
2
Il gruppo di ricerca coordinato da Lucio Spaziante è composto da: Stefano Acquisti, Delia Cabrelli, Nicolas
Chiappucci, Federico de Filippis, Elena Evangelista, Lucia Lorusso, Adele Piovani, Lorenzo Ravizza Maritano,
Alessandro Rugiati, Rachele Vanucci. In nota ai titoli dei singoli paragrafi sono indicati specifici riferimenti ad autrici
e autori, ma la stesura è stata operata mediante un confronto continuo tra i diversi paragrafi, operato collettivamente.
E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine
ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL
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risultato di una pluralità di voci, e con un focus molto mirato. Trattandosi di un progetto didattico, la
scelta è invece ricaduta su una sorta di screening totale del testo.
Il romanzo possiede una propria suddivisione interna in tre parti, per una complessiva articolazione in
ventidue capitoli. Ognuno dei dieci componenti del gruppo, dunque, ha ricevuto un numero equo di
capitoli da analizzare, senza una articolazione precostituita: ciò ha significato “mettersi davanti al testo”,
e procedere a fare emergere ciò che le salienze indicavano.
Sin dall’inizio questo lavoro “grezzo” è stato accompagnato da incontri e scambi di idee, nonché dall’uso
di una piattaforma online di condivisione, dove poter leggere i rispettivi lavori in corso. Gli incontri
nelle aule universitarie sono iniziati nel dicembre 2022, a margine delle lezioni del corso. Sono poi
proseguiti durante l’intero anno successivo, compreso il periodo delle vacanze estive, grazie all’ausilio
di piattaforme online.
Un passaggio importante è stato quello di armonizzare secondo un modello condiviso le analisi dei
capitoli che venivano portate avanti, con i loro approcci individuali, da singole studentesse e studenti.
A questa fase di confronto, ho contribuito cercando di fare emergere le tematiche prevalenti nel romanzo
e nelle analisi (spazio, tempo, corporeità e genere) attorno alle quali si sono poi costituiti quattro
sottogruppi, ognuno dei quali ha realizzato la stesura collettiva di un paragrafo. Il mio compito successivo
è stato quello di: unificare le parti, compiere una revisione con richiesta di ulteriori interventi di modifica,
e realizzare un controllo editoriale complessivo, senza però modificare nella sostanza i contenuti originali.
La stesura finale di questo articolo si è conclusa nel settembre del 2023.
1.1. Breve sinossi
Per apprezzare l’analisi sarebbe naturalmente utile conoscere il romanzo, ma per facilitare la lettura
dell’articolo è comunque possibile fornire alcune minime informazioni sulla trama.
Frank e April Wheeler sono una giovane coppia – un impiegato e una casalinga con due bambini – che
negli anni Cinquanta prende casa in un quartiere residenziale nel Connecticut, sotto la guida dell’agente
immobiliare, Mrs. Givings. Il loro apparente quieto benessere borghese nasconde la frustrazione di due
giovani di belle speranze che anelavano, o almeno lo credevano, ad una vita avventurosa da artisti in
Europa. La nascita dei bambini li costringerà a rinunciare ai loro progetti, rinfacciandosi la reciproca
infelicità. I tentativi di affrancarsi dalla normale routine quotidiana risulteranno vani e aggraveranno
ulteriormente la loro situazione iniziale.
Attraverso i protagonisti, e alcune figure di contorno altrettanto efficaci nei loro ruoli, come la famiglia
Givings o i vicini di casa Campbell, il romanzo presenta un efficace e drammatico affresco di metà
Novecento sulle apparenze sociali e la loro ricaduta negativa sulle identità personali.
2. Spazialità e interiorità: i luoghi della finzione e della sincerità3
In questo paragrafo ci concentreremo innanzitutto sulla spazialità, concetto cardine dell’intera opera, a
causa della rilevanza dei diversi luoghi nella narrazione, in base alla quale si possono avanzare varie
riflessioni sulle opposizioni isotopiche a essi associate.
In primo luogo, si possono notare due opposizioni principali:
1. pubblico/privato: si riferisce ai luoghi fisici, e agli ambienti in cui si muovono i personaggi;
3
A cura di Elena Evangelista e Lucia Lorusso.
336
2. esteriore/interiore: non riguarda luoghi concreti, ma quelli legati alla corporeità. Cioè, da un lato il
modo con il quale i personaggi si mostrano all’ esterno e le azioni che compiono (dimensione del
fare); dall’altro quello che i personaggi pensano e provano (dimensione dell’ essere e del sentire).
Ma queste opposizioni spaziali non restano mai isolate: i luoghi, fisici o corporei, si associano
sistematicamente ad un’altra coppia di isotopie, cioè quella di finzione/sincerità. Nel corso del romanzo
vedremo quanto tali opposizioni siano intrecciate tra loro e varino per la coppia protagonista, April e
Frank Wheeler, in base a quanta affinità c’è tra di loro, creando un vero e proprio semisimbolismo
figurativo tra pubblico/privato ed esteriore/interiore e la coppia finzione/sincerità4. Si può notare da
subito, inoltre, un’ulteriore isotopia che, alla fine, si rivelerà centrale, quella della malattia: uno stato
interno e corporeo che influenza e sconvolge le opposizioni spaziali fino ad annullarle.
2.1. Una continua messa in scena
Il romanzo si apre con uno spettacolo teatrale, mostrando con ciò la centralità della dimensione
finzionale e assieme fornendo da subito una possibile chiave interpretativa: una traccia cooperativa (cfr.
Eco 1979) che nello sviluppo della lettura diventa una caratteristica comune ai vari personaggi. Lo
spettacolo è destinato al fallimento per la malattia di uno degli attori che dovevano andare in scena: una
malattia, cioè uno stato interno, che conduce però a un cambiamento negativo nel mondo esterno.
Qui April e Frank Wheeler vengono introdotti nella narrazione: la delusione per lo spettacolo porterà
ad un loro litigio che andrà ad occupare l’intera prima parte del romanzo, rendendoli uno l’Anti-
Soggetto dell’altro, fino a quando non emergerà quel comune Oggetto di Valore – il trasferimento a
Parigi – che definirà un Programma Narrativo (PN) condiviso.
È possibile individuare un ulteriore criterio di suddivisione degli spazi, relativamente alla prima parte:
1. privato, quando un personaggio è da solo o in luoghi di passaggio;
2. pubblico, quando un personaggio è con altri.
Tale divisione è motivata dal fatto che i due personaggi, a causa della lite, si trovano molto spesso da
soli con i loro pensieri e cambiano radicalmente atteggiamento quando sono in compagnia di altri. La
cosa appare evidente, ad esempio, nella sequenza in cui Frank percorre il corridoio per andare nel
camerino di April, sino a quando ne esce per disdire l’appuntamento con i Campbell: egli passa da uno
stato angoscioso (quando è nel privato), ad una simulazione (quando è in pubblico con April), fino ad
una totale messa in scena, quando è con gli amici (RR5, pp. 52-56).
Questa associazione tra spazi e finzione/sincerità non è esclusiva di April e Frank, ma è presente anche
negli altri personaggi, sebbene in modo diverso. Mentre tra i due protagonisti l’intreccio tra le
opposizioni evolve e varia in base al loro rapporto, nelle diverse parti del romanzo (come vedremo nei
prossimi paragrafi), questo non accade a tutti gli altri personaggi, per i quali l’associazione rimane la
medesima. Lo dimostrano, ad esempio, il vicino di casa Shep Campbell nel capitolo 2 della seconda
parte o l’agente immobiliare, la signora Givings, nel capitolo 3 della seconda parte.
Tutto ciò che è esterno e pubblico è generalmente associato con l’isotopia della simulazione. È come se
gli attori ricoprissero un ruolo tematico da loro scelto o a loro associato, ma sempre caratterizzato da
una dimensione finzionale: “il buon collega”, “il marito” o “l’intellettuale”. Lo si può notare, ad esempio,
quando i Campbell vanno a cena dai Wheeler, e Frank Wheeler inizia un monologo su un tema di
portata universale che occupa un’intera pagina: “È di decadenza che parlo […]” (RR, p. 115).
4 Il semisimbolismo figurativo nel testo letterario, cui questa analisi fa riferimento, si può trovare in Lancioni (2009),
in particolare in relazione all’esempio di Pinocchio.
5
Le citazioni dal romanzo Revolutionary Road (Yates 1961) verranno d’ora in poi sempre indicate con RR.
337
L’interno, dall’altra parte, è il luogo della sincerità. Nel corso delle pagine, infatti, esplorando
principalmente il personaggio di Frank, notiamo che nel privato, nonostante lui cerchi di autoconvincersi
delle sue azioni, in realtà si tradisca e lasci andare tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, facendo
emergere uno stato passionale caratterizzato dall’ansia.
Tutto questo permette di rilevare, fin da subito, un semisimbolismo che si articola sull’asse valoriale e
su quello modale (Lancioni 2009, p. 70). La correlazione reggerà l’intero romanzo fino all’emergere
della malattia come isotopia centrale:
Pubblico ed esteriore Privato e interiore
Valoriale Finzione Sincerità
Modale Sembrar-essere Essere
2.2. Il sogno bohémienne
La seconda parte del romanzo si apre con un equilibrio ristabilito: Frank e April non sono più in
contrasto, ma condividono lo stesso PN principale – cioè la comunicazione della loro partenza –
composto a sua volta dai tanti PN d’uso.
Qui l’opposizione precedente si modifica: il privato diventa il luogo della coppia e della sincerità. I due
riescono a parlarsi e a comprendersi senza la necessità di recitare. Luoghi come la casa, passano da
disforici a euforici e, apparentemente, ciò che prima avveniva in solitudine, adesso contempla sempre
anche il partner.
Il pubblico è legato a tutti i luoghi in cui Frank e April, assieme o da soli, interagiscono con altri nel
comunicare la loro partenza. Per esempio, il comportamento dei Campbell a casa loro è cosparso di
finto perbenismo e falsa felicità per la loro scelta di partire, mentre Frank e April recitano il ruolo di
improvvisati “avventurieri” (finzione): “Abbiamo deciso di trasferirci in Europa. A Parigi. Una volta per
tutte! […] Oh, una o due settimane fa… […] non ricordo esattamente. So solo che ad un certo punto
abbiamo deciso di andarcene, ecco tutto” (RR, p. 215).
L’opposizione interiore/esteriore, quindi, si annulla nel privato, cioè quando Frank e April non fingono
l’uno di fronte all’altro, dicendo finalmente ciò che pensano e provano. Resta invece valida nel pubblico,
come nella prima parte del romanzo.
Un altro tema ad emergere in questi capitoli è quello della malattia, incarnata principalmente da John
Givings, figlio della signora Givings (l’agente immobiliare), e da tempo in cura per patologie
psichiatriche. Egli si comporta in modo brutalmente schietto, creando così un’associazione valoriale tra
malattia e sincerità. Ad esempio, esprime un punto di vista rivelatorio su ciò che ha portato Frank a fare
un lavoro che non lo soddisfa: “[…] se uno vuole mettere su una casa molto carina, molto deliziosa, deve
accettare un lavoro che non gli piace. Semplice” (RR, p. 261). Tra il suo personaggio e i Wheeler si
creerà una sorta di connessione proprio nel momento in cui questi ultimi diventano sinceri tra di loro.
Ciò diventerà evidente al termine della passeggiata nel bosco, ovvero l’unico luogo pubblico in cui
prevale la sincerità. April dice a Frank riferendosi a John: “È la prima persona che dà sul serio
l’impressione di capire quello che diciamo” (RR, p. 267).
In questo apparente climax di felicità ed euforia, dove i protagonisti si sentono finalmente connessi ai
loro progetti bohémienne, April rimane incinta. Questo sarà l’elemento che innescherà la crisi e la
seguente rottura della stabilità di coppia. Dal punto di vista di April, anche la gravidanza indesiderata
può essere intesa come una malattia. E ciò porterà al ripetersi della situazione descritta all’inizio della
prima parte: un cambiamento interno, porta alla rottura dell’equilibrio esterno.
338
2.3. La malattia che annulla le opposizioni
La terza parte del romanzo è caratterizzata, dunque, dal caos più totale e dal capovolgimento delle
dinamiche di coppia: si ritorna al punto di partenza, ma con un netto peggioramento.
La gravidanza inattesa porta uno sconvolgimento, con Frank e April che, collocati su due PN opposti,
ritornano ad essere l’uno l’Anti-Soggetto dell’altro: lui vuole tenere il bambino e sospendere il viaggio; lei
vuole abortire e non ha alcuna intenzione di rinunciare a Parigi. La novità emerge nel personaggio di
April, che qui cade in depressione (malattia), iniziando a non curarsi più del luogo e delle persone, e
abbattendo anche il velo di finzione. Ella è finalmente sé stessa, mostrando ciò che pensa: sia in casa – per
esempio dicendo a Frank: “[…] io non ti amo […] e non ti ho davvero mai amato” (RR, p. 370); sia nella
Capannina, il locale in cui si trovano con i Campbell, togliendosi la maschera della “brava moglie”.
“April appariva remota ed enigmatica, distaccata da chi le stava attorno come non era mai stata neppure
nei suoi momenti peggiori, ma con la differenza che ora Frank rifiutava di preoccuparsene” (RR, p. 335).
Quando April comunica a Frank la fine del suo amore, avviene un punto di rottura significativo: da lì
in poi tutti luoghi sono contraddistinti dalla sincerità. Quando i due litigano tra di loro o con i Givings,
sono sempre sinceri.
Il romanzo [spoiler] si conclude con l’aborto pianificato da April, che la condurrà dapprima al ricovero
in ospedale e poi alla morte. L’ospedale sarà caratterizzato allo stesso tempo dalla malattia e dalla
massima sincerità: qui finalmente tutti i personaggi si lasciano andare e agiscono senza pensare a
indossare alcuna maschera. Frank dirà: “Gesù, Shep non sono riuscito a capire neppure metà delle cose
che mi ha raccontato” (RR, p. 417), mostrandosi vulnerabile per la prima volta.
Ciò dimostra quello che fin dall’inizio il romanzo ha suggerito al lettore, che cioè la malattia è l’unica
isotopia che annulla il semisimbolismo creatosi all’inizio e, quindi, la rilevanza dei diversi luoghi e della
finzione, permettendo alla sincerità di primeggiare.
3. Il valore del tempo6
In relazione al discorso sulla temporalità, la scelta è stata innanzitutto quella di concentrarsi sulle diverse
valorizzazioni (cfr. Pezzini 1998) che i Wheeler assegnano ad alcuni periodi della loro vita, e su come
tali differenze assiologiche costituiscano il nucleo polemico (in senso semiotico)7 della vicenda.
Partendo dalla suddivisione in passato, presente e futuro, riscontrabile anche nei meccanismi di prolessi
e analessi (cfr. Genette 1972; Eco 1994) che abbondano nel romanzo, abbiamo operato ulteriori
suddivisioni che ci permettono di rendere conto dei rapporti tra i vari personaggi. Il risultato ha assunto
la forma di una struttura a cinque termini verso i quali April e Frank mostrano passioni, desideri, e
valorizzazioni differenti: passato remoto / passato prossimo / presente / futuro / futuro anteriore.
3.1. L’organizzazione a cinque termini del tempo
Il punto di partenza della nostra analisi è il presente, in quanto la sua centralità si riscontra soprattutto
nella funzione di rendere intellegibili i rapporti che la gran parte dei personaggi intrattiene con gli altri
tempi: non solo i coniugi Wheeler ma anche i coniugi Campbell, così come John Givings e sua madre.
6
A cura di Delia Cabrelli, Federico de Filippis e Alessandro Rugiati.
7
Cfr. Greimas, Courtés (1979, voce “contratto”, p. 53, e voce “polemico”, p. 245).
339
Passato remoto Passato Prossimo Presente Futuro Futuro anteriore
Euforico per Frank Tempo dei rimpianti Disforico per entrambi Tempo dei progetti Euforico per April
“Che razza di vita era mai quella? Quale in nome di Dio, era il succo o il significato o lo scopo di una
vita del genere?” (RR, p. 104). Questo è uno dei tanti pensieri che i personaggi – in questo caso Frank
– rivolgono al presente8 (ossia l’anno 1955, ovvero il T0 della narrazione) nella prima parte del romanzo.
La valorizzazione della situazione odierna è percepita come disforica dai Wheeler, specie in due
momenti consecutivi della narrazione.
Nel primo (RR, cap. 4), Frank, conversando in salotto con i Campbell, rivolge parole di scherno verso certe
abitudini borghesi, non rendendosi conto di come siano proprio quelle che caratterizzano la sua quotidianità.
In un secondo momento (RR, cap. 7), più precisamente durante la notte del compleanno di Frank, April
sottolinea come la loro vita coniugale non sia altro che una “oscena illusione” (RR, p. 170) che soffoca
le loro vere essenze.
Emblematico, in questo senso, è il personaggio di John Givings, ostracizzato e biasimato da tutti per il
suo disagio psichiatrico, e che, come abbiamo già visto, è caratterizzato come l’unico personaggio (fatta
eccezione per April) capace di vivere il presente per quello che effettivamente è: egli infatti, costretto a
vivere la sua vita giorno per giorno, a causa della malattia che gli impedisce di avere ogni tipo di
progettualità, possiede una visione estremamente cinica e disillusa della realtà. Ne è un esempio la
discussione che intrattiene con Frank e April, nel quinto capitolo della terza parte, nella quale egli rivela
a tutti la cruda realtà ipocrita della loro relazione e il reale motivo per cui non sono mai partiti:
«Grand’uomo si è presa, April» [...] «Bravo capofamiglia, solido cittadino. Mi dispiace per lei. O
forse siete degni l’uno dell’altra. Anzi, stando all’aria che lei ha adesso, comincio a dispiacermi anche
per lui. Voglio dire, a ben pensarci deve avergli dato ben poche soddisfazioni, se fare dei figli è
l’unica maniera che ha per dimostrare che possiede un paio di coglioni» (RR, p. 381).
Il presente è una gabbia che, da un punto di vista passionale, genera repulsione e frustrazione e che fa
sì che nei due personaggi si manifestino due atteggiamenti opposti. Frank viene caratterizzato come
qualcuno per il quale “non c’era mai stato posto per il peso e l’urto della realtà” (RR, p. 51). Egli, infatti,
mostra la tendenza a rifugiarsi in mondi possibili 9, da lui stesso creati per evitare di confrontarsi con il
presente. Questo atteggiamento tiene ancorato Frank a una concezione di sé ormai anacronistica,
appartenente al suo passato remoto10: egli si considera ancora quel ragazzo che appariva intelligente agli
occhi di tutti coloro che lo incontravano. Come possiamo notare in molti flashback, Frank connota
positivamente quel periodo.
Queste analessi, oltre a servire allo scopo di riempire i vuoti lasciati nel passato, sono interessanti perché
ibride a livello enunciativo, come se le soggettività del narratore e del personaggio si sovrapponessero
nello stesso luogo. Infatti, se è il narratore che introduce il flashback (non siamo in presenza di un
8
Consideriamo come appartenenti al presente, le sequenze temporali che, a partire dal T0 della narrazione,
proseguono in maniera lineare. Pertanto le prolessi e le analessi non rientrano in questa parte dell’analisi.
9
Il concetto di mondo possibile, mutuato dalla logica modale, viene teorizzato in chiave semiotica da Eco (1979),
per renderlo uno strumento di analisi testuale. Con questo termine faremo riferimento a un qualsiasi corso degli
eventi (sia esso un flashback o un agire predittivo-progettuale verso il futuro) sostenuto dagli atteggiamenti
proposizionali (credere, volere, ricordare, pensare etc.) di uno dei personaggi. Per motivi di spazio abbiamo scelto
di non eseguire un’analisi dettagliata come negli esempi proposti da Eco, quindi di tralasciare le proprietà S-
necessarie et similia. Quello che ci interessa è mettere in rilievo la presenza di mondi alternativi rispetto al mondo
di partenza del romanzo, che si manifestano nell’interiorità dei personaggi.
10 Da un punto di vista della fabula, consideriamo il passato remoto quel periodo della vita dei personaggi che
termina con il trasferimento nella casa di Revolutionary Road. Questo include tutte le sequenze che riguardano
l’infanzia e le sequenze che raccontano della loro vita giovanile nel Greenwich Village, a Bethune Street.
340
débrayage enunciazionale), e ciò porta ad assumere la veridicità dei fatti narrati, da un punto di vista
passionale e percettivo, invece, sembra che l’ultima parola sia lasciata ai personaggi stessi, in una sorta
di débrayage passionale: “L’odore della scuola nel buio – matite e mele e colla per rilegature – fece
salire agli occhi di Frank una dolce, dolorosa nostalgia” (RR, p. 57, corsivo nostro). C’è quindi una
revisione emotiva da parte del personaggio rispetto al tempo presente11.
A un passato remoto memorabile – almeno per Frank – fa da contraltare un passato prossimo che si
configura come l’origine dei mali del presente. Se a livello cronologico i due tempi in questione sono
piuttosto vicini, da un punto di vista assiologico il passato prossimo è molto più vicino al presente, come
evidenziato da April stessa: “È stato così che noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione” (RR,
p. 170). Infatti, la prima gravidanza, avvenuta sette anni prima del T0, ha segnato una cesura tra una
gioventù spensierata e quella fase della vita in cui le necessità prendono il posto dei sogni. A causa di
una tragica infanzia e di una solitaria adolescenza (“Ti pareva ancora che stessi perdendo il meglio della
vita?” “In un certo senso, sì. [...] Ero una specie di brutto anatroccolo tra i cigni”, RR, p. 346), April è
portata a non avere un atteggiamento euforico nei confronti del passato e dimostra più volte, al contrario
di Frank, di avere contezza del presente. Sono varie le interazioni tra i due dove April sembra assumere
il ruolo della realtà, opponendosi ai mondi ideali di Frank: “L’unico vero errore, l’unica cosa falsa e
disonesta, era stata semmai quella di aver scambiato Frank per qualcosa di molto più importante. Oh,
per un mese o due, tanto per divertirsi un po’, poteva anche andar benissimo un giochetto del genere
con un ragazzo; ma tutti quegli anni!” (RR, pp. 400-401).
Queste caratteristiche portano April ad avere un atteggiamento opposto a quello del marito: data
la consapevolezza della loro situazione, ella progetta allora il trasferimento in Europa. Un mondo
futuro che permetta loro di uscire dal loro presente disforico e che, trattandosi di un sogno di
gioventù, abbiamo definito come futuro anteriore (“Era un nuovo, complicato piano per trasferirsi
in Europa”, RR, p. 165).
L’atteggiamento dei due personaggi è opposto, inoltre, anche per quanto riguarda l’aspettualizzazione.
In entrambi c’è la volontà di rendere iterativo qualcosa, ma c’è una profonda differenza riguardo alla
natura di questo oggetto: Frank si protende verso l’iterazione di qualcosa di terminativo (il passato
remoto), mentre April lo fa verso qualcosa che non è mai andato oltre lo stato incoativo (la loro
intenzione di andare in Europa, rimasta solo un progetto).
A questo punto entra in gioco la questione del futuro, cioè il tempo delle proiezioni. Dal primo capitolo
della terza parte in poi, infatti, April e Frank sviluppano due programmi narrativi (PN) oppositivi proprio
a partire dalle due rispettive aspettualizzazioni (passato remoto per Frank e futuro anteriore per April).
I due attori ricoprono gli stessi ruoli attanziali: sono entrambi due Soggetti che si rinfacciano a vicenda di
essere l’uno il Destinante negativo dell’altro, rendendosi due Anti-Soggetti speculari. Il raggiungimento
dell’Oggetto di valore per uno, corrisponde all’allontanamento dall’Oggetto di valore per l’altro. I due PN
sono quindi mutualmente esclusivi, e per questo la vicenda assume la forma di uno scontro.
Come sottolinea Guido Ferraro:
nei casi più interessanti lo scontro fra i Soggetti è scontro fra concezioni del mondo, e dunque
fra criteri alternativi per l’investimento di valori: in tal caso, Soggetto e Anti-Soggetto non
potranno, per definizione, competere per qualcosa che sia allo stesso modo Oggetto di valore
per entrambi (2012, p. 45).
E questo è il nostro caso. Il futuro per April è andare in Europa (futuro anteriore), mentre il futuro per
Frank è restare in America (passato remoto) ed entrambi gli Oggetti di valore sono dipendenti dal
verificarsi o meno della gravidanza. Frank è quindi l’ostacolo al PN di April e viceversa e, nonostante
11
Da questo tipo di analessi si differenziano, ad esempio, quelle messe in scena nell’ultimo capitolo, in cui il
débrayage è completo, e sia la narrazione degli eventi sia la ricezione passionale sono lasciate ai personaggi.
341
questo, entrambi hanno bisogno dell’altro per il raggiungimento dell’Oggetto di valore. Per questo
motivo il controllo del tempo è valorizzato euforicamente (vi sono continui riferimenti all’osservazione
di calendari e orologi, soprattutto nel momento di decidere in merito alla gravidanza) in una illusione
di controllo sugli eventi futuri, poiché chi perde il controllo perde l’Oggetto di valore. Entrambi i
Soggetti portano a compimento il loro PN attraverso l’unica tragica soluzione alla quale sono destinati,
ovvero separarsi: Frank proseguirà con la sua vita lavorativa e April interromperà la gravidanza, pur
con tragiche conseguenze, perché “se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero,
alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli” (RR, p. 409).
4. Il controllo dei corpi12
La logica del sentire tensivo, nel romanzo, ha a che vedere con gli sviluppi figurativi di tematiche relative
alla corporeità e alla sensorialità. La descrizione della sfera emotiva non è esplicita, ma piuttosto passa per
la corporeità, ed il lettore percepisce i sentimenti attraverso gli effetti somatici delle passioni. È il corpo ad
esprimere il groviglio di emozioni, mentre i giudizi, indirettamente, passano per la conformazione plastica
quotidiana dei corpi. Il linguaggio corporeo, nella sua apparente naturalità, “connota” e si sostituisce al
puro parlato dei personaggi, divenendo atto di significazione (Greimas 1976, p. 231).
A seguito della lite con April, che apre drammaticamente la vicenda, ci vengono mostrate l’impotenza
e la frustrazione di Frank la mattina seguente, a partire dalla descrizione delle sue mani: gonfie e pallide,
con unghie smangiate (RR, p. 78). La configurazione corporea rende conto di un indiretto /non-poter-
fare/ da parte del Soggetto, una disposizione d’animo in un atteggiamento di distacco dal quotidiano;
un sentore di insoddisfazione che si mostra come aspetto terminativo di un precedente PN vanificato,
ossia il litigio con la moglie.
Persino l’interazione tra soggetti passa per indirette delucidazioni offerte dal corpo: la signora Givings
coglie la disposizione emotiva di Frank a partire dalla sua “contrazione dei muscoli” (RR, p. 230), che
ella avverte a livello somatico come “un colpo al petto”. Le contrazioni muscolari, generalmente
impercettibili, divengono qui erogatori delle strutture timiche profonde. I Wheeler spesso tradiscono
l’apparenza sociale attraverso il corpo: di conseguenza la distinzione tra somatico e mentale, nel
quotidiano, viene meno. La salvaguardia delle apparenze viene tradita dai movimenti e dalle reazioni
dei corpi, che esprimono e realizzano le vere emozioni dei soggetti. Ed è mentre i corpi mostrano i
particolari stati emotivi dei personaggi che il loro pensiero viene costantemente rilevato ed esposto.
4.1. La percezione della malattia
Nel corso della narrazione, i personaggi nascondono le loro vere intenzioni attraverso abitudini e
quotidianità, sostenuti dalle loro reti sociali. Chi rifiuta il consenso si trova in un complesso rapporto
disgiunto dal reale e viene immediatamente bollato come “malato”. Non solo chi lo è davvero, ma anche
chi – nella narrazione – esce dalla conformità, come si nota sin dai primi capitoli, quando Frank durante
un litigio asserisce: “Sai che cosa sei quando fai così? Sei malata, sei. E dico sul serio” (RR, p. 64).
In ogni visita dai Wheeler, i figli di April e Frank vengono portati dai Campbell, onde evitare
l’“infezione” da parte di un personaggio malato come John Givings. Costui agisce in modo contorto e
destabilizzante rispetto a quei canoni di normalità vigenti che il narratore presenta nei capitoli precedenti
(ad esempio, con la visita della signora Givings). Durante il primo incontro con i Wheeler, John beve
un drink in modo sconveniente, appoggia il cappello su uno scaffale, indossa abiti ospedalieri, ed al
12
A cura di Nicolas Chiappucci, Stefano Acquisti e Adele Piovani.
342
contempo sanziona negativamente l’operato della madre, a causa del suo essere completamente
modalizzata verso il /sembrar-essere/ agli occhi degli altri (cfr. infra, par. 2.1.). Inoltre, le discussioni
avviate da John oltrepassano ampiamente le consuetudini conversazionali: egli è il solo personaggio
capace di utilizzare il linguaggio ironico, riferendosi a quelle strutture sociali predeterminate, e
attualizzandone la dimensione tragica. Eccone un esempio: “è proprio un bel granaio antico, mamma”.
“E quella dei Wheeler è una bella notizia, e tu sei tanto carina. Non è vero, papà, che è tanto carina?”
(RR, p. 376). Inoltre, John si pone come destinante sanzionatore del mancato conseguimento del PN di
April e Frank, rispetto al loro voler andare oltreoceano. Egli critica la rinuncia di entrambi alla
realizzazione personale, dovuta al loro incorporare ruoli tematici stereotipici: riconosce Frank come
“capofamiglia” e “solido cittadino” (RR, p. 325), oppure April come semplice donna di casa. È attraverso
le esternazioni di John che i coniugi Wheeler raggiungono la piena consapevolezza del loro stato, sia
personale che matrimoniale. Egli è fuori dalla società: una non-conformità attestata del resto dal suo
modo di esprimersi. John è in grado di vedere oltre quell’illusione di normalità che permea la società
civile e ne mette in luce tutte le contraddizioni: rifiutando le regole previste, egli riesce a far luce sulle
maschere degli altri personaggi. D’altra parte, il suo PN, teso verso una sorta di performanza
sanzionatoria nei confronti della coppia, come tutti i “baccelli reazionari” della società (come anche
April) non si conclude con una sanzione positiva. La madre ne definisce l’operato in modo negativo e
deleterio, invitando il medico a non concedergli alcun contatto con persone esterne. Mentre John viene
segregato in una maniera ancor più oppressiva, venendo escluso dalla conformità felice e funzionale, la
vita della signora Givings, dei Campbell e dell’intera Revolutionary Road riprende, relegando ad un
puro pettegolezzo (unica fonte di verità per la società qui descritta) i tristi accadimenti della vicenda.
4.2. Controllo: la rete e l’alcol
Lungo l’intero romanzo, emerge anche un percorso tematico del controllo, caricato di investimenti tematici
parziali e di atti di figurativizzazione dei contenuti. Attori, tempi e spazi risultano continuamente sottoposti
ad una rete di decisioni, prese dalla società nel suo essere collettivo, che influenzano i ritmi e le direzioni
della narrazione. Lo si osserva, ad esempio, attraverso il tema dell’alienazione sociale: la casa dei Wheeler
o l’ufficio di Frank, sono descritti nella loro conformazione eidetica sempre secondo una regolare e
spigolosa perfezione geometrica, veicolando un distacco, sia spaziale che temporale, rispetto a ciò che si
trova al di fuori. Frank entra come un automa nell’azienda Knox: una struttura nella quale i piani
“sembravano tutti uguali” ed in cui “aveva scoperto solo lievi differenze sensoriali tra questo (il suo) e gli
altri piani dell’ufficio” (RR, p. 132). La descrizione dell’ufficio in questo senso è esemplare, con i tratti
semantici di staticità ed angustia rilevati attraverso una efficace metafora collegata al tema dell’acqua:
L’effetto generale, agli occhi di chi, uscito dall’ascensore, contemplasse il panorama dello
stanzone, era quello di un ampio lago chiuso tra mura, in cui si muovessero vicino e lontano dei
nuotatori, alcuni intenti ad avanzare, altri immobili nell’acqua, altri ancora sorpresi nell’atto di
emergere o affondare, e molti immersi, i volti dissolti in tremolanti macchie rosa, mentre
annegavano alle rispettive scrivanie (ibid.)
Se il controllo funziona per abitudine, ecco come nel lavoro di Frank l’aspettualizzazione temporale
sottolinei una certa iteratività quotidiana: si ripete nelle mansioni e nei tempi con le medesime
caratteristiche del giorno precedente. Alle cinque del pomeriggio, Frank porta avanti la consuetudine
di lasciare il lavoro in vista dell’appuntamento quotidiano con l’amante (RR, p. 128). La ricerca della
promozione, l’immobilità del lavoro ed i tradimenti giornalieri sono forme di controllo che seguono
Frank per l’intera giornata. Maureen Grube, la segretaria con cui Frank avrà una relazione, è parte di
quell’ingranaggio di rinnovata iteratività giornaliera. Non è un caso, del resto, che il romanzo si apra
343
con la vicenda della Compagnia dell’Alloro (cfr. infra, par. 2.1.), una filodrammatica di attori dilettanti
che, con il suo conseguente fallimento, rinvia immediatamente April ad un piano de-realizzato di sé
stessa e della sua possibile fuga dalla quotidianità13.
Eppure, l’omologazione del comportamento nella società, in cui vivono individui intrisi di sentimenti
come l’appartenenza e la realizzazione, si scontra con un certo /voler-essere/; ciò si nota bene attraverso
i sintomi passionali, generati durante le situazioni delicate che i personaggi si trovano ad affrontare.
Infine, l’alcol: durante la narrazione, i personaggi non fanno che bere, nelle situazioni più disparate.
L’uso e l’abuso della sostanza e la sua capillarità descrivono l’ambiente in cui i personaggi si collocano.
I soggetti sono dominati dalla paura e dall’ansia di essere equiparati agli altri, e l’alcol funziona come
una medicina, una via di fuga dal senso di inadeguatezza. Ciò accade poiché, rispetto a tematiche che
restano nascoste, l’alcol è sotto gli occhi di tutti e liberamente usufruibile: i soggetti sono consci che,
senza alcol, non sarebbero in grado di gestire le situazioni. Sono così consapevoli di questa necessità
che spesso fingono addirittura di essere più ubriachi di quello che sono. Anche dal punto di vista
narrativo, questo è un ottimo escamotage: i personaggi si comportano in un modo non previsto dalle
rigide imposizioni sociali, perché sono, oppure fingono di essere, ubriachi. Nella diegesi del romanzo
l’alcol viene somministrato anche in modo manipolativo, per fare in modo che i personaggi si sciolgano
e dimentichino a poco a poco le briglie dei ruoli sociali pre-imposti: “in ufficio, Frank, che non era poi
così ubriaco come voleva far credere, aveva sospinto Maureen Grube contro uno schedario e l’aveva
baciata a lungo, violentemente, sulla bocca” (RR, p. 102). La manipolazione tramite l’alcol viene espressa
chiaramente all’interno del romanzo, e diventa quasi l’adiuvante narrativo per compiere il proprio PN.
5. Corpi e valori14
Come è già emerso nei paragrafi precedenti, il corpo dei personaggi funge da dispositivo mediatore del
rapporto dei soggetti con l’ambiente facendosi filtro della percezione e assieme terreno di emersione e
strumento di regolazione delle passioni. Oltre a queste funzioni attanziali però, i corpi, in quanto figure
appartenenti alla macrosemiotica del mondo naturale, partecipano all’interno del testo anche alla
articolazione e messa in forma del livello discorsivo del romanzo. Il corpo è in grado di determinare
l’articolazione dei linguaggi in sostanze significanti, fungendo da base per la formazione di categorie
semantiche, per poi in seguito installarsi sul piano del contenuto come elemento figurativo che
concretizza i temi astratti del testo. In questo paragrafo ci si concentrerà quindi sui processi di
figurativizzazione dei corpi dei personaggi, cercando di mostrare come la produzione di diverse
immagini della corporeità faccia da supporto per il dispiegamento dell’universo valoriale che investe i
corpi stessi (cfr. Marrone 2005). Lo spazio del corpo, diventa così il territorio di articolazione di diverse
opposizioni semantiche (sociale/naturale, vita/morte, salute/malattia), che come vedremo sono
strettamente connesse l’una all’altra e organizzate secondo una logica di incassamento isotopico
(Marsciani, Zinna 1991).
5.1. Corpo sociale e corpo naturale
La principale opposizione rilevabile, sulla quale si sviluppano le altre, organizza i corpi in due ordini:
quello del corpo sociale e quello del corpo naturale.
13 È il primo contratto offerto dall’enunciatore al lettore ed ai personaggi del testo. Un contratto di veridicità che
non assumerà su di sé alcun piano che non sia quello reale.
14
A cura di Lorenzo Fabrizio Ravizza Maritano e Rachele Vanucci.
344
Il corpo sociale, composto da atteggiamenti, azioni e comportamenti, è il terreno di mediazione
intersoggettiva dei personaggi, ed è laddove viene valorizzata la modalità performativa basata sul
“fare”, soprattutto nella sua specificazione manipolatoria del /far-fare/. Il corpo sociale, che è teso
all’ottenimento di riconoscimento da parte dell’altro, si manifesta tramite azioni e comportamenti che
evidenziano la competenza del soggetto, valorizzata positivamente in prospettiva dell’ottenimento di
una sanzione positiva da parte di un Destinante extra-individuale. Il corpo sociale installa, inoltre, una
isotopia della teatralità, in cui il corpo viene impiegato strategicamente e coscienziosamente come
strumento di esibizione performativa nei PN dei personaggi: “A volte c’era una punta di ironia in
questi abbracci scambiati solo con gli occhi: so che sto dando spettacolo, sembravano dire, ma anche
tu lo fai, e ti amo” (RR, p. 188).
Il corpo naturale è invece il corpo fisico, centro di costituzione dell’identità degli attori tramite i processi
percettivi e passionali. Come notato nel paragrafo precedente, i sintomi passionali dei personaggi
contraddicono ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, facendosi rivelatori di una sorta di
dimensione passionale autentica. In ciò si può ritrovare una relazione tra l’opposizione sociale/naturale
e l’opposizione essere/sembrare, alla base del quadrato di veridizione (Greimas, Courtés 1979).
Rifuggendo il controllo e scontrandosi con le norme imposte dall’orizzonte sociale, inoltre, il corpo
naturale convoca anche le opposizioni semantiche individuale/intersoggettivo e privato/pubblico.
Per spiegare meglio come queste opposizioni vengano attualizzate nel testo, prendiamo come esempio
due tra le prime descrizioni che introducono i personaggi principali, cominciando con Frank:
Nonostante la mancanza di vistose particolarità fisiche, Franklin aveva un volto straordinariamente
mobile, capace di suggerire una sequela di personalità del tutto diverse a ogni minimo mutamento
d’espressione. Se sorrideva, era un uomo perfettamente consapevole che il fiasco di una
rappresentazione filodrammatica non era cosa di cui si dovesse preoccupare troppo, un uomo
gentile, dotato di umorismo, il quale avrebbe trovato proprio le parole che ci volevano per
confortare dietro le quinte la moglie; ma negli intervalli tra un sorriso e l’altro, mentre a colpi di
spalle si incuneava nella folla, e nei suoi occhi si scorgeva una lieve, cronica febbre di perplessità, si
sarebbe detto che anche lui avesse bisogno di conforto (RR, pp. 50-51).
Da subito il volto è descritto come uno strumento del /poter-fare/ di Frank: egli è consapevole di essere
pienamente in grado di sfruttarlo per mettere in scena un certo stato d’animo, per autodeterminarsi in
quanto soggetto sociale e attribuirsi un ruolo tematico strategicamente scelto. Di contro, la realtà delle
sue emozioni traspare nei momenti in cui abbassa la guardia, e nel resto della scena tutte le figure del
corpo fisico propongono uno stato disforico del soggetto: “piedi indolenziti”, “odore acidulo”, “nocche
arrossate”. In Frank viene così incorporata la tensione causata dalla mediazione tra una corporeità
mediata dalla ragione e una non mediata e incontrollata. La dimensione somatica diviene per Frank
luogo di conflitto in cui esperienze presoggettive ed istanze intersoggettive competono nella
caratterizzazione della sua soggettività.
È importante precisare che queste due categorie non sono indipendenti l’una dall’altra: come ricorda
Marrone, il corpo in quanto dispositivo semiotico “si concretizza ora nei processi sensoriali e fisiologici
di una dimensione somatica prettamente soggettiva, ora negli investimenti sociali che riceve dalle
istituzioni sociali e politiche, ora nei processi di passaggio dagli uni agli altri e viceversa” (Marrone 2005,
p. 80). All’interno del testo però, come abbiamo appena visto, questi due ordini della corporeità
costruiscono due diverse immagini di corpi inserite in una assiologia che valorizza la dimensione
intersoggettiva a discapito di quello individuale. La presa in carico di questa opposizione sul piano
narrativo (da una organizzazione polemica della narrazione) e sul piano discorsivo (dalle diverse
manifestazioni della corporeità nei personaggi di April e Frank) produce all’interno del testo una
dialettica tra due punti di vista ideologici.
345
5.2. Padronanza del corpo e mascolinità
Sul piano narrativo questa assiologia si incarna in una organizzazione ideologica (Greimas, Courtés
1979) per la quale i PN dei Soggetti presentano Destinanti intersoggettivi, incarnati di volta in volta nei
vicini, nei conoscenti della coppia e – nella parte finale – nel capo dell’azienda. Nel caso di Frank, che
partecipa pienamente a questa ideologia, ciò si trasforma sul livello discorsivo in percorsi figurativi che
tematizzano anche una “padronanza” del corpo fisico, intesa come sussunzione della materia fisica sotto
il controllo della ragione e della volontà del soggetto. Un esempio molto denso lo si trova nel terzo
capitolo, figurativizzato nella descrizione delle mani del padre di Frank, investite di un nostalgico valore
euforico per “[…] la loro sicurezza e sensibilità” e per “l’aria di padronanza che donavano a tutto ciò di
cui Earl Wheeler si serviva” (RR, p. 79).
Questo ricordo introduce anche un’altra isotopia rilevante nel testo, cioè quella della mascolinità, qui
costruita come immagine euforica della realizzazione del Soggetto in seguito ad una sanzione positiva.
Oltre all’immagine di fisicità, la mascolinità gioca un ruolo fondamentale nell’universo di valori di Frank:
a costituire la desiderabilità dello spazio utopico dell’Europa, su cui fa leva la proposta di April, è la
possibilità di riconoscersi in uno dei “grandi uomini” (RR, p. 63). Nella terza parte del romanzo sono,
inoltre, prettamente maschili gli spazi aziendali in cui Frank si ritrova riconosciuto come soggetto dotato
di valore. In uno dei primi litigi, invece, è proprio la sua mascolinità che viene messa in dubbio da April:
“Guardati e dimmi se con tutta la buona volontà del mondo […] puoi definirti un uomo” (RR, pp. 69-70).
5.3. Corpi malati e corpi sessuali
L’ideologia del controllo del corpo sociale ha effetti significativi anche sulle valorizzazioni del corpo
naturale, che viene connotato come “malato” nel momento in cui vi è una discrasia tra le tensioni dei
due protagonisti, ovvero quando la passionalità disforica del corpo naturale tradisce la pretesa di
controllo di quello sociale. La malattia, che colpisce tanto il fisico quanto la mente – caso in cui compare
come sottoclasse la “follia” – è incarnata nella prima parte del romanzo e soprattutto dal personaggio di
April. Fin dalle prime descrizioni della protagonista, la malattia viene collegata al fallimento sociale: se
nel primo capitolo la bellezza di April sul palco teatrale bastava “perché la parola «carina» volasse in
un sussurro da un capo all’altro della platea” (RR, p. 44), in seguito al disastro dello spettacolo il suo
corpo diventa prefigurazione di morte sotto lo sguardo di Frank, a cui appare “una creatura sgraziata e
sofferente la cui esistenza egli tentava di negare ogni giorno della sua vita” (RR, p. 52). Il fatto che il
romanzo sia in gran parte costruito nella prospettiva di Frank, porta all’attribuzione della malattia
soprattutto nei litigi di coppia, durante i quali April viene accusata dal marito di essere “malata” (RR,
p. 69) (cfr. infra, par. 4.1.) e “pazza” (RR, p. 384).
Nei casi, invece, in cui vi è un equilibrio tra corpo sociale e corpo naturale, quest’ultimo viene allora
valorizzato in quanto “sessuale”, diventando oggetto di investimento erotico e di una passionalità
euforica. Il corpo sessuale si ritrova nelle sequenze di maggiore passione amorosa tra i protagonisti,
quando costoro condividono PN e Oggetto di valore. Inoltre, il corpo sessuale – sia in quanto territorio
di incontro fisico tra due soggetti, sia oggetto dello sguardo erotico – è sempre uno spazio di
intersoggettività tra due attanti: in questo modo non vi è tanto una neutralizzazione dell’assiologia
sociale/naturale, quanto una configurazione nella quale è il corpo naturale a farsi oggetto. Esempio di
ciò sono le scene del primo incontro di April e Frank e del loro innamoramento, dove il corpo della
donna appare come uno strumento sotto il controllo dell’uomo: “coscia tesa e calda sotto il tocco della
sua mano”, “schiena che si muoveva perfettamente sotto la sua mano” (RR, p. 65). In altri casi, invece,
il corpo sessuale diventa un oggetto di scambio simbolico, nel momento in cui la sua presenza segna la
sanzione positiva del corpo sociale: nella sequenza del primo incontro tra i due protagonisti, April, prima
346
ancora di venire avvicinata da Frank, viene definita una “donna di prima qualità” che poteva dargli “un
senso di puro trionfo” (RR, p. 63).
5.4. Fuga dal sociale
Se, come abbiamo visto in precedenza (cfr. infra, par. 4.1.), il controllo sociale del corpo malato di John
Givings comporta il suo isolamento dalla società e la reclusione nella clinica psichiatrica, l’uscita di April
dallo spazio sociale avviene invece tramite un ribaltamento dell’ordine assiologico. Dopo l’ennesimo
litigio, April, dopo essersi resa conto della insincerità dei propri sentimenti per Frank, decide di praticare
su di sé l’aborto. Nel relativo percorso narrativo, assieme ad una rivoluzione dell’ordine di veridizione
(quello che era vero, in realtà è falso), vi è una trasformazione nella valenza dei valori in gioco; ovvero,
nel “valore attribuito ad un valore” (Bertrand 2000, p. 208), socialmente condiviso e alla base delle
strutture assiologiche. April, che riscopre un ordine di verità situato nel suo corpo naturale, ribalta la
predominanza del sociale e riesce così ad uscire dalle maglie ideologiche in cui invece soccombe Frank.
Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo, quello che né i suoi genitori
né zia Claire né Frank né chiunque altro avevano mai dovuto insegnarle: che se si vuol fare
qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che
va fatta da soli (RR, p. 409).
Parallelamente, questa inversione di valenza investe anche il corpo di Frank, che dopo la morte della
moglie sembra aver perso la brillantezza e agilità sociale che lo avevano caratterizzato nei capitoli
precedenti l’incidente. Nell’ultimo capitolo del romanzo, Frank non solo è “diventato terribilmente
noioso” (RR, p. 432), dimostrando così di aver perso la sua competenza sociale, ma perfino il suo corpo
naturale perde ogni spinta vitale, finendo nello stato adiaforico del “non-morto”, incapace di sentire ed
esprimere emozioni, come emerge dai giudizi di Shep Campbell: “Così gli era apparso Frank […] un
cadavere che camminava, parlava sorrideva. […] Era impossibile immaginarselo sul serio nell’atto di
ridere o piangere o sudare o mangiare o entusiasmarsi” (RR, p. 431).
6. Conclusioni
La metodologia di analisi collettiva ha consentito una lettura completa di Revolutionary Road, attraverso
un confronto di differenti punti di vista individuali che hanno permesso anche di far affiorare le
ricorrenze che emergevano dalle diverse parti.
La spazialità, ad esempio, è emersa come caratteristica rilevante non in sé, ma in relazione agli effetti di
senso che ad essa si legavano. Il diverso comportamento dei personaggi nel romanzo, a seconda dei
luoghi, ha consentito di evidenziare la pregnanza delle opposizioni tra pubblico e privato, ovvero
l’individuazione di un sistema di apparenze sociali che condizionava anche la dimensione intima. Da
questo stesso sistema, scaturiscono in modo conseguente i tratti della simulazione e della finzione che
caratterizzano i singoli personaggi, e dunque l’intera rete sociale nella quale essi sono immersi. Se la
simulazione risulta essere la condizione “normale”, ciò che ne fuoriesce diventa caratterizzato dall’
“anormalità”, ovvero dalla patologia. Sarà infatti la malattia a divenire, e sempre di più, un elemento di
rivelazione della verità.
Ma il romanzo si caratterizza anche per una sapiente articolazione della dimensione temporale, e per
un’efficace costruzione di un andirivieni temporale tra passato e futuro. Frank e April vivono con
nostalgia le loro passate proiezioni verso un futuro non realizzato. Dunque se c’è un tempo da loro
vissuto in modo particolarmente disforico, quello è proprio il presente, per il suo aspetto scevro da
347
illusioni e per essere irraggiungibile dai loro mondi immaginari. Saranno le loro rispettive proiezioni, a
loro modo egoistiche, a rompere ogni possibile alleanza e a determinare una loro crisi irreparabile.
Una ulteriore caratteristica rilevante nel romanzo è la correlazione tra corporeità e sentire passionale.
Gli attori manifestano elementi euforici o disforici attraverso una manifestazione corporea, la quale non
si limita a “descrivere” gli stati dei singoli personaggi, ma è funzionale a fare emergere il loro status di
corpi sociali. Ad esempio attraverso forme di controllo o, viceversa, di disinibizione attraverso l’uso di
bevande alcoliche. Se i corpi sociali in Revolutionary Road sono corpi teatrali, la passionalità dei
personaggi contraddice invece ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, rivelando una sorta di
passionalità autentica, e instaurando una gerarchia assiologica che valorizza il corpo sociale a discapito
di quello naturale.
Tutto il romanzo, infine, è sostanzialmente la lettura del mondo condotta attraverso la prospettiva
“controllata” del protagonista maschile, cioè Frank Wheeler. Ad essa si oppone April, la quale fa
emergere la verità attraverso il proprio corpo naturale, affrancandosi dal predominio del sociale e dalle
costrizioni nelle quali è imbrigliato Frank.
In conclusione, l’esperimento metodologico può ritenersi riuscito, il che non evita che questa analisi possa
essere considerata oggetto di osservazioni critiche, o non debba essere ulteriormente approfondita e integrata.
348
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Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone
mimesisjournals.com
Anno XVII, n. 37 - 2023
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
La società degli ibridi
n.37 EC
a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini
contributi di:
Flavio Valerio Alessi Mirko Lampis Isabella Pezzini
Patrizia Calefato Dario Mangano Francesco Piluso
Dario Cecchi Gianfranco Marrone Carlo Andrea Tassinari
Giovanna Cosenza Alvise Mattozzi Bianca Terracciano
Riccardo Finocchi Tastuma Padoan Ilaria Ventura Bordenca
Jacques Fontanille Gianfranco Pellegrino Nicola Zengiaro
Peter Fröhlicher Francesco Pelusi
Julie Lairesse Paolo Peverini
EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici
mimesisjournals.com
Direttore responsabile
Gianfranco Marrone (Università di Palermo)
Vicedirezione
Alice Giannitrapani (Università di Palermo)
Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo)
Comitato Scientifico
Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité)
Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia)
Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2)
Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis)
Lucia Corrain (Università di Bologna)
Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia)
Jacques Fontanille (Université de Limoges)
Manar Hammad (Université Paris III)
Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos)
Tarcisio Lancioni (Università di Siena)
Massimo Leone (Università di Torino)
Anna Maria Lorusso (Università di Bologna)
Dario Mangano (Università di Palermo)
Francesco Mangiapane (Università di Palermo)
Tiziana Migliore (Università di Urbino)
Claudio Paolucci (Università di Bologna)
Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki)
Paolo Peverini (LUISS, Roma)
Isabella Pezzini (Università La Sapienza, Roma)
Piero Polidoro (LUMSA, Roma)
Maria Pia Pozzato (Università di Bologna)
Franciscu Sedda (Università di Cagliari)
Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid)
Stefano Traini (Università di Teramo)
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Comitato editoriale
Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli
Metodi e criteri di valutazione
La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione
paritaria e anonima (double blind peer-review).
Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005
Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
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ISBN: 9791222303246
In copertina “Homo, ore & collo Gruis”, illustrazione tratta dal libro Monstrorum historia di Ulisse Aldovrandi (1642).
© 2023 – Mim Edizioni SRL
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EIC - n. 37
La società degli ibridi
a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini
INDICE
Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto...............................................................................................................pp. 1-8
Paolo Peverini
Gli articoli di questo numero................................................................................................................................................................................ p. 9
Isabella Pezzini
1. Teorie e rilanci
L’actant hybride de l’écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés
en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt... .................................................................................................... pp. 10-23
Jacques Fontanille, Julie Lairesse
Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming......................pp. 24-47
Alvise Mattozzi
Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa..................................................................................................................................................pp. 48-61
Gianfranco Marrone
Lo sportivo (ibrido).......................................................................................................................................................................................pp. 62-74
Dario Mangano
Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi........................................................................................................pp. 75-93
Ilaria Ventura Bordenca
2. Critiche e dibattiti
Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network Theory......................................................................pp. 94-116
Tastuma Padoan
Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere....................................................................... pp. 117-129
Carlo Andrea Tassinari
Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life...................................................................................................................................pp. 130-145
Nicola Zengiaro
L’ibrido tecno-estetico..............................................................................................................................................................................pp. 146-156
Dario Cecchi
Hybridism as a Dualistic View; or: A “Latourian” Paradox............................................................................................................................pp. 157-172
Gianfranco Pellegrino
3. Analisi ed esplorazioni
Lasciati guidare dall’automobile............................................................................................................................................................... pp. 173-185
Riccardo Finocchi
Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA.........................................................................................pp. 186-201
Francesco Piluso, Francesco Pelusi
EIC - n. 37
La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico.................................................................................. pp. 202-219
Flavio Valerio Alessi
Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture....................................................................................................pp. 220-226
Patrizia Calefato
Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso............................................................................... pp. 227-242
Bianca Terracciano
Miscellanea
Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica....................................................................................................................... pp. 243-257
Giovanna Cosenza
La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo...................................................................................................................pp. 258-273
Mirko Lampis
Materiali
Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio........................................................................................ pp. 274-284
Peter Fröhlicher
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"Description": "Hybrid is not a term belonging to the metalanguage of semiotics, so why pay attention to this notion from the perspective of the study of signification? There are at least two reasons, and they are interconnected. The first concerns the growing diffusion of this term in the sphere of both academic research and public debate. Faced with the proliferation of this term (it is worth remembering that it is anything but recent), semiotics is called into question as a discipline founded on the development of rigorous procedures for decomposing and analysing the phenomena of signification in the service of a critique of culture, following the hypothesis that the circulation of the word hybrid is the outcome of logics of production and circulation of meaning that are anything but obvious. The widespread diffusion of this term, therefore, can only urge semiotic research to measure itself against a widespread and persistent anthropocentric prejudice, based on the presumed primacy of human action, which irreconcilably distinguishes and separates subjects and objects, nature and culture, questioning the persistence of a dichotomy whose fallacy has long been at the heart of the most advanced and authoritative research in the field of cultural anthropology (Descola 2005; Viveiros de Castro 2009). This preliminary consideration paves the way for the second reason that encourages the field of semiotic studies to interrogate the meanings, the tightness and, in some cases, the rhetoric inherent in the multiple uses of this term. This is an opportunity to explore the positive repercussions of a close comparison with the research path of one of the scholars whose work is most frequently associated with the concept of hybrid: Bruno Latour, a celebrated theorist of the paradoxes and aporias of modernity who recently passed away.The introduction to this monographic issue of E|C aims to outline the reasons for the growing interest in the field of semiotic studies in Bruno Latour's work on the paradoxes of modernity, highlighting both the reasons for interest and those of mutual skepticism that have marked the dialogue between distinct but fruitful research perspectives. The paper traces some promising directions in contemporary semiotic research that highlight how the distance between Latour's work and the theory of signification does not consist in an unbridgeable gap on the epistemological level, but rather in a misalignment of trajectories of analysis that mainly affects the methodological level.",
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"Description": "The founding documents of the notions of environmental protection and sustainable development made it possible to broaden the theme of the environment to include socio eco nomic and cultural dimensions. The semiotic approach mainly questions the instances that participate in the two predicative configurations (to develop and to protect and in the construction of ecological actants, which are necessarily heterogeneous. This heterogeneity influences the roles that hybrid collective actants may play in the integrated configuration (develop+protect): between syncretic conceptions (everyone is a victim, a predator, and a protector at the same time) and discriminating concepti ons that oppose and distribute these roles between antagonistic collectives, the semiotic choices have major political implications. We focus on three international texts: Report of the United Nations Conference on the Environment (Stockholm 1972), Report of the Brundtland Commission on Environment and Development ( and Pope Francis encyclical Laudato Si' (2015)",
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"Title": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…",
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"Description": "The present paper intends to show that “hybrid” is not a Latourian notion and, consequently, intends to explore what such claim entails for social research interested in the role artifact in our collectives. In the first part, it shows the marginal use of the notion of hybrid in Latour's work and questions the relevance Italian Greimasian semiotics of objects and design has given to it, by also proposing a hypothesis regarding the ground on which such attribution of relevance has emerged. In the second part, the paper explores alternatives to the notion of hybrid, able to account for the mediations carried out by individual aggregate actors a formulation replacing hybrid as well for those carried out by instances constituting individual aggregate actors. The second part of the paper, as well as the paper, ends by resorting to early Actor Network Theory's methodological proposal related to de scription which, founded on the semiotic method, is considered apt to properly address the issues raised by the notion of hybrid and by the debate around it.",
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"Title": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming",
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"Description": "The notion of hybrid in Latour's works depends on whether we see it as a problem of terminology, metalanguage, methodology or conceptualisation. By distinguishing these different points of view, this essay will attempt to disambiguate the notion of the hybrid by showing, behind its apparent simplicity, its profound semantic complexity and also some critical points. Through recourse to the analysis of a Donald Duck Disney cartoon, it will be shown how semiotic theory, in particular narrative and passion semiotics, can further articulate, and at various levels, what is meant by hybrid finally hopefully demonstrating that hybridisation is a procedure inherent to all human and social stories.",
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"Description": "When, on December 14, 2020, Apple introduced a small application called Apple Fitness+ something more happened than simply adding one piece of software to the many that the computer giant has created: a discursive configuration was completed that redefined a subjectivity. That of the contemporary sportsman. A perfect example of a hybrid that, by holding together humans, physical objects and the software that controls them, not only acquires unprecedented capabilities, but establishes a new subjectivity. What we will do in this essay is toreconstruct through semiotics precisely that subjectivity, questioning the society that more or less voluntarily produced it and will have to deal with it in the future.",
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"Description": "In this essay dedicated to a specific hybrid, the user VR headset, I will discuss how Semiotics, especially the Sociosemiotics of the last twenty years, has used the notion of hybrid and what are the specificities of its approach, especially the methodolog ical ones. Then specifically with regard to VR, I will deal with the formation of the user visual hybrid, taking into consideration what Latour says about the descriptive work of the ANT, which records the formation of hybrids where ruptures, crises, uncer tainties are created in the functioning of devices (and the use of a technical object for the first time falls among these). In order to do so I will refer to a brief ethnographic observation that involved a small group of first time users of visors and in particular I will highlight the somatic and pathemic aspect involved in the formation of the user visor hybrid, also referring to the First Steps tutorial (for Quest 2 visors). Finally, I will conclude with an evaluation of the design of certain visors an d the way they contribute to constructing the immersive experience, especially in the creation of the semantic relation between virtual world/real world",
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"title": "Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi",
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"Description": "It is generally acknowledged that Latour, through his work in STS and his use of concepts borrowed from Paris School semiotics, has given a fundamental contribution to rethinking the status of objects in social sciences. However, while using semiotic mod els, Latour decided to leave out of the picture the phenomenological approach developed in Greimas s later semiotic contributions, and in the work of many of his successors. Among the reasons for this choice, he mentioned the incapacity of phenomenology to escape a divide between Subjects and Objects, based on a narrow focus on human intentionality. In my paper I wish to return to this issue concerning ANT and phenomenology, and propose to invert the phenomenological paradigm, by rethinking it through a sem io narrative syntax, i.e. the narrative logic underlying the organisation of actants. Instead of inscribing semiotics within aphenomenology of perception, I will show how the opposite path might be more fruitful, especially when the human or nonhuman natu re attributed to subjects and objects is a priori undecidable, and only emerges from discourse and actantial interactions, manifesting themselves into hybrid human nonhuman assemblages I shall discuss the implications of this reversal, by analysing the re lationships between ascetics and mountain territory, as well as between humans, deities, and artefacts, in my ethnography of ascetic pilgrim groups in Katsuragi, central Japan.",
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"Description": "The semiotic interpretation of Bruno Latour s work often focuses on the syntactic models he borrowed from semiotics. In this paper, I shift the attention towards the underlying semantic models of Latour s work. This shift does not claim any philological intentions; its objective is primarily theoretical. My aim is to establish a connection between Lotman's perspective on rhetoricity, which is a fu ndamental mechanism of meaning making in the semiosphere, Latour's anthropological and experimental exploration in his Inquiry into Modes of Existence ,and the tensive semiotic concept of \"enunciative practice\". In our view, bridging the gap between these research projects enables semiotics of culture to align itself with contemporary anthropology as a leading human science, providing a more heuristic articulation of Latour's Inquiry.",
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"Description": "This article investigates the influences of Latour’s theories on the field of biosemiotics studies. Biosemioticians share common premises based on the paradigm offered by Thomas Sebeok, namely that “life and semiosis are coextensive”. In current theories, the founding principle of biosemiotics is that semiosis exists in all living things and only in living things. The goal of this article is to show how Latourian theories can challenge this paradigm. The first part of the article introduced biosemiotics in its historical context. In the second part, it will be shown that Latourian theories have been rarely used by biosemioticians because: 1. the notion of life, when combined with Latour’s reflection on hybrids, becomes a vague and undecidable concept; 2. the notion of agency offered by Latour proposes an extension to the inanimate as well. In this sense, the boundary between animate and inanimate becomes difficult to identify and is often transgressed. By incorporating Latour’s notions of hybrid and agency into biosemiotics, it is possible to offer a new perspective in this field. Finally, it will be shown that ecosemiotics can be a valuable tool that can interact with Latour’s semiotic discourse.",
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"title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life",
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"Description": "The aims at reconstructing the concept of hybrid in a philosophical (critical) perspective. After reconstructing this concept in Bruno Latour's theory, the paper compares his theory with the reflections developed by the Italian thinker Emilio Garroni concerning the issue of the relationship between technics and creativity. These reflections are then coupled with Gilbert Simondon s theory of the technical objects, in order to develop insight into the nature of hybrids. According to this point of view, hybrids are not the result of posthumanism, but rather represent the very essence of human nature, as far as the latter is: a) fundamentally bound to technics; b) rooted into intersubjectivity; c) intrinsically evolutionary. Digital technologies, and abov e all the implementations of algorithms, are critically considered in the aforementioned vein, in order to unveil the new possible humanity they are designing.",
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"Description": "Hybridism is the view that there are no purely natural or cultural, social or artificial objects, and the distinction between nature and culture/society/artifice is ungrounded and epistemologically impossible. Hybridism is usually taken as an anti dualist view. The paper challenges this claim. It provides a taxonomy of hybridism(s). The main claim of the paper is that hybrids, in the best understanding of them, are still dual(ist). However, the esidual, or surviving, dualism embedded in hybridism has stronger grounds than the traditional Cartesian dualisms. As a consequence, the paper is also a defense of a moderate dualist view of nature and society, nature and culture, and nature and artifice. These claims are defended also by giving an interpretation of (some of) Latour s views about hybrids, mainly resting on a view of Latourian hybrids i.e., of the specific things, events, or phenomena that Latour saw as hybrids in (some of) his works.",
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"Description": "One of the most widespread technical and technological hybrid objects is undoubtedly the automobile, it is certainly a myth of today (like the Citroën Pallas Déesse mentioned by Barthes), it has entered social practices and contributed to defining complex semiotic systems of relations between objects. The automobile is a technical object that progressively replaces and/or simplifies human functions. With the introduction of artificial intelligence a crucial step begins, the car from being a refined prosthesis of human operations and functions moves to autonomy from driver control, becoming more and more visibly a hybrid object (in the sense defined by Latour as something mixed and metamorphic, transforming modes of existence), where human control is reduced to a minimum (and tends to be unnecessary in the future) These new full self-driving cars are truly mobile artificial intelligences capable of activating a complex system of mutual delegation between human and non-human agents, through a ‘subjectification’ of the car that configures new hybrids. This article highlights a system of sense relations from which emerges a tendency towards the neutralisation of human agentivity in the relationship between human beings and technical objects.",
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"Alternative": "Parental Control. The Rearticulation of Family Through PMA Techniques",
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"Description": "The aim of the essay is to investigate the Medically Assisted Procreation (MAP), pointing out its role in reassembling the social, through the hybradization of heterogeneous human and non-human actors and the reconfiguration of their relationships. The MAP displays and operates in the articulations of the reproduction process, deconstructing its naturality and immediacy and allowing its knowledge and manipulation. The plurality of temporalities, spaces and actors involved in the MAP opens to new social figures and multiple parental models that often lack social and juridical acknowledgement. In Italy, the Law interprets the role of the MAP according to the heteronormative model of “natural” reproduction, limiting the possibilities offered by this techno-practice. In reference to the work of Latour, the essay highlights the necessity to emancipate the technique and the Law from their engagement to a metaphysical natural or social referent, fostering their capacity to express the multiplicity of reality.",
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"Description": "The aim of this paper is to analyse the role of the technological devices for Sars CoV 2 molecular structure discovery in cryoelectron microscopy practices. Starting from Bruno Latour's theory of enunciation and insights on techno scientific practices, w e argue that Latour s idea of fabrication of facts can be semiotically framed as a distributed act of enunciation. Specifically, the technological apparatus can be viewed as a mediating instance able to create a commensurability between the virus matter, physically transformed, yet preserved, through the various phases of the protocol, and the experimenters cognition and perception, extended by the device, acting as a diagrammatic and delegate instance. Indeed, on the one hand the cryoelectronic system m anipulates the materic features of the sample as to render it viewable, while, on the other, it produces the interpretants needed by the experimenters to carry out the interpretive process.",
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"Description": "This article starts from the idea that the fashionable clothed body is a fetishis t hybrid (Latour 1992, 1994, 2005; Entwistle 2016; Volontè 2017). This conception connects both Latour s idea of hybrids as a way of reassemblying culture with nature and Walter Benjamin s (1999) conception of fashion as the sex appeal of the inorganic. According to Benjamin, the relationship between organic and inorganic is produced, in a philosophically disconcerting way, as an inversion of meaning between the living body and the corpse, in otherwords, as fetishism. On the contrary, Latour s hybri ds are social subjects with agency in themselves. In the light of this theoretical framework, the chapter analyses the work of the Dutch designer Iris van Herpen, especially in her collections of 2021 and 2022 which are based on the active role of objects: clothes, fabrics, technologies, atmospheric agents such as the wind etc. In this way, the designer produces different forms of hybridization among the human body, the animal and plant worlds, and the digital ecosystem. The article will highlight the forms of the reciprocal agency between human bodies and the bodies of objects, between emotions and new technological materials, between sustainable ICTs and aesthetics in van Herpen s work showing how the current idea of coded couture is released from its m ere algorithmic functionality.",
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"Description": "Metaverse evokes a second spatiality, that of purchase, first virtual, then actualized as the only way to adhere to the object and thus the value system, in a consumption scenario in which consumer goods are increasingly rare and limited editions. Achieving the purchase is no longer a playful aesthetic experience but a glorifying trial in which status recognition is at stake. Following instructions also means adhering to the imposed corporeality to maintain a reputation, which means representing oneself i ntersubjectively. For example, not beingable to obtain an expensive NFT excludes one from a cultural niche, a form of life, or a way of telling a story. If the nature of the experience is not substantial, it cannot even be called imaginary because it is e xperienced as a pleasure that finds its expression in the process of search and choice. The mere visual contact with the good, placed in a digital public context, actualizes the desire for consumption. Thus, aesthetic satisfaction and self esteem could rep lace the deprivation of material substance in the metaverse. So, it is necessary to explore the metaverse from the Latourian perspective and observe it starting from the hybridization.",
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"Description": "This paper draws from the social sciences the notion of stereotype, as it relates specifically to people and social groups, by surveying how, from the 1950s to the present, social psychology has elaborated and discussed it in a systematic and empirically grounded way. It then distinguishes stereotypes and prejudices, showing how stereotyping and categorization follow similar processes, and how it is necessary to acknowledge, not only in scholarship but in social practice, the unavoidability of stereotypes, in order to overcome them and prevent them from leading to discriminatory attitudes. Finally, some concepts from Umberto Eco’s interpretive semiotics and Algirdas J. Greimas’ generative semiotics are proposed, which the author believes are most helpful in setting up a semiotic analysis of stereotypes that can empirically and operationally dialogue with both social psychology and social semiotics.",
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"Title": "Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica",
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"Description": "The aim of this paper is to describe, in a concise, orderly and coherent manner, Pier Paolo Pasolini's semiotic theory. The aim is therefore to research, synthesise and systematise Pasolini's reflections and arguments on semiotics as theory, especially in the texts written between 1965 and 1971 and later collected in Heretical Empiricism. For ease of exposition, these reflections and arguments will be divided into five relevant sections: the grammar of film language, sign image and double articulation, trans-structural sign transformations, cinema as the written language of reality and the semiotics of the reality.",
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] | Rivista dell’Associazione Direttore responsabile
Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone
mimesisjournals.com
Anno XVII, n. 37 - 2023
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
La società degli ibridi
n.37 EC
a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini
contributi di:
Flavio Valerio Alessi Mirko Lampis Isabella Pezzini
Patrizia Calefato Dario Mangano Francesco Piluso
Dario Cecchi Gianfranco Marrone Carlo Andrea Tassinari
Giovanna Cosenza Alvise Mattozzi Bianca Terracciano
Riccardo Finocchi Tastuma Padoan Ilaria Ventura Bordenca
Jacques Fontanille Gianfranco Pellegrino Nicola Zengiaro
Peter Fröhlicher Francesco Pelusi
Julie Lairesse Paolo Peverini
EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici
mimesisjournals.com
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La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione
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Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005
Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
ISBN: 9791222303246
In copertina “Homo, ore & collo Gruis”, illustrazione tratta dal libro Monstrorum historia di Ulisse Aldovrandi (1642).
© 2023 – Mim Edizioni SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
EIC - n. 37
La società degli ibridi
a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini
INDICE
Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto...............................................................................................................pp. 1-8
Paolo Peverini
Gli articoli di questo numero................................................................................................................................................................................ p. 9
Isabella Pezzini
1. Teorie e rilanci
L’actant hybride de l’écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés
en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt... .................................................................................................... pp. 10-23
Jacques Fontanille, Julie Lairesse
Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming......................pp. 24-47
Alvise Mattozzi
Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa..................................................................................................................................................pp. 48-61
Gianfranco Marrone
Lo sportivo (ibrido).......................................................................................................................................................................................pp. 62-74
Dario Mangano
Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi........................................................................................................pp. 75-93
Ilaria Ventura Bordenca
2. Critiche e dibattiti
Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network Theory......................................................................pp. 94-116
Tastuma Padoan
Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere....................................................................... pp. 117-129
Carlo Andrea Tassinari
Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life...................................................................................................................................pp. 130-145
Nicola Zengiaro
L’ibrido tecno-estetico..............................................................................................................................................................................pp. 146-156
Dario Cecchi
Hybridism as a Dualistic View; or: A “Latourian” Paradox............................................................................................................................pp. 157-172
Gianfranco Pellegrino
3. Analisi ed esplorazioni
Lasciati guidare dall’automobile............................................................................................................................................................... pp. 173-185
Riccardo Finocchi
Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA.........................................................................................pp. 186-201
Francesco Piluso, Francesco Pelusi
EIC - n. 37
La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico.................................................................................. pp. 202-219
Flavio Valerio Alessi
Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture....................................................................................................pp. 220-226
Patrizia Calefato
Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso............................................................................... pp. 227-242
Bianca Terracciano
Miscellanea
Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica....................................................................................................................... pp. 243-257
Giovanna Cosenza
La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo...................................................................................................................pp. 258-273
Mirko Lampis
Materiali
Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio........................................................................................ pp. 274-284
Peter Fröhlicher
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"Description": "Hybrid is not a term belonging to the metalanguage of semiotics, so why pay attention to this notion from the perspective of the study of signification? There are at least two reasons, and they are interconnected. The first concerns the growing diffusion of this term in the sphere of both academic research and public debate. Faced with the proliferation of this term (it is worth remembering that it is anything but recent), semiotics is called into question as a discipline founded on the development of rigorous procedures for decomposing and analysing the phenomena of signification in the service of a critique of culture, following the hypothesis that the circulation of the word hybrid is the outcome of logics of production and circulation of meaning that are anything but obvious. The widespread diffusion of this term, therefore, can only urge semiotic research to measure itself against a widespread and persistent anthropocentric prejudice, based on the presumed primacy of human action, which irreconcilably distinguishes and separates subjects and objects, nature and culture, questioning the persistence of a dichotomy whose fallacy has long been at the heart of the most advanced and authoritative research in the field of cultural anthropology (Descola 2005; Viveiros de Castro 2009). This preliminary consideration paves the way for the second reason that encourages the field of semiotic studies to interrogate the meanings, the tightness and, in some cases, the rhetoric inherent in the multiple uses of this term. This is an opportunity to explore the positive repercussions of a close comparison with the research path of one of the scholars whose work is most frequently associated with the concept of hybrid: Bruno Latour, a celebrated theorist of the paradoxes and aporias of modernity who recently passed away.The introduction to this monographic issue of E|C aims to outline the reasons for the growing interest in the field of semiotic studies in Bruno Latour's work on the paradoxes of modernity, highlighting both the reasons for interest and those of mutual skepticism that have marked the dialogue between distinct but fruitful research perspectives. The paper traces some promising directions in contemporary semiotic research that highlight how the distance between Latour's work and the theory of signification does not consist in an unbridgeable gap on the epistemological level, but rather in a misalignment of trajectories of analysis that mainly affects the methodological level.",
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"Description": "The founding documents of the notions of environmental protection and sustainable development made it possible to broaden the theme of the environment to include socio eco nomic and cultural dimensions. The semiotic approach mainly questions the instances that participate in the two predicative configurations (to develop and to protect and in the construction of ecological actants, which are necessarily heterogeneous. This heterogeneity influences the roles that hybrid collective actants may play in the integrated configuration (develop+protect): between syncretic conceptions (everyone is a victim, a predator, and a protector at the same time) and discriminating concepti ons that oppose and distribute these roles between antagonistic collectives, the semiotic choices have major political implications. We focus on three international texts: Report of the United Nations Conference on the Environment (Stockholm 1972), Report of the Brundtland Commission on Environment and Development ( and Pope Francis encyclical Laudato Si' (2015)",
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"Description": "The present paper intends to show that “hybrid” is not a Latourian notion and, consequently, intends to explore what such claim entails for social research interested in the role artifact in our collectives. In the first part, it shows the marginal use of the notion of hybrid in Latour's work and questions the relevance Italian Greimasian semiotics of objects and design has given to it, by also proposing a hypothesis regarding the ground on which such attribution of relevance has emerged. In the second part, the paper explores alternatives to the notion of hybrid, able to account for the mediations carried out by individual aggregate actors a formulation replacing hybrid as well for those carried out by instances constituting individual aggregate actors. The second part of the paper, as well as the paper, ends by resorting to early Actor Network Theory's methodological proposal related to de scription which, founded on the semiotic method, is considered apt to properly address the issues raised by the notion of hybrid and by the debate around it.",
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"Description": "The notion of hybrid in Latour's works depends on whether we see it as a problem of terminology, metalanguage, methodology or conceptualisation. By distinguishing these different points of view, this essay will attempt to disambiguate the notion of the hybrid by showing, behind its apparent simplicity, its profound semantic complexity and also some critical points. Through recourse to the analysis of a Donald Duck Disney cartoon, it will be shown how semiotic theory, in particular narrative and passion semiotics, can further articulate, and at various levels, what is meant by hybrid finally hopefully demonstrating that hybridisation is a procedure inherent to all human and social stories.",
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"Description": "When, on December 14, 2020, Apple introduced a small application called Apple Fitness+ something more happened than simply adding one piece of software to the many that the computer giant has created: a discursive configuration was completed that redefined a subjectivity. That of the contemporary sportsman. A perfect example of a hybrid that, by holding together humans, physical objects and the software that controls them, not only acquires unprecedented capabilities, but establishes a new subjectivity. What we will do in this essay is toreconstruct through semiotics precisely that subjectivity, questioning the society that more or less voluntarily produced it and will have to deal with it in the future.",
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"Description": "In this essay dedicated to a specific hybrid, the user VR headset, I will discuss how Semiotics, especially the Sociosemiotics of the last twenty years, has used the notion of hybrid and what are the specificities of its approach, especially the methodolog ical ones. Then specifically with regard to VR, I will deal with the formation of the user visual hybrid, taking into consideration what Latour says about the descriptive work of the ANT, which records the formation of hybrids where ruptures, crises, uncer tainties are created in the functioning of devices (and the use of a technical object for the first time falls among these). In order to do so I will refer to a brief ethnographic observation that involved a small group of first time users of visors and in particular I will highlight the somatic and pathemic aspect involved in the formation of the user visor hybrid, also referring to the First Steps tutorial (for Quest 2 visors). Finally, I will conclude with an evaluation of the design of certain visors an d the way they contribute to constructing the immersive experience, especially in the creation of the semantic relation between virtual world/real world",
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"Description": "It is generally acknowledged that Latour, through his work in STS and his use of concepts borrowed from Paris School semiotics, has given a fundamental contribution to rethinking the status of objects in social sciences. However, while using semiotic mod els, Latour decided to leave out of the picture the phenomenological approach developed in Greimas s later semiotic contributions, and in the work of many of his successors. Among the reasons for this choice, he mentioned the incapacity of phenomenology to escape a divide between Subjects and Objects, based on a narrow focus on human intentionality. In my paper I wish to return to this issue concerning ANT and phenomenology, and propose to invert the phenomenological paradigm, by rethinking it through a sem io narrative syntax, i.e. the narrative logic underlying the organisation of actants. Instead of inscribing semiotics within aphenomenology of perception, I will show how the opposite path might be more fruitful, especially when the human or nonhuman natu re attributed to subjects and objects is a priori undecidable, and only emerges from discourse and actantial interactions, manifesting themselves into hybrid human nonhuman assemblages I shall discuss the implications of this reversal, by analysing the re lationships between ascetics and mountain territory, as well as between humans, deities, and artefacts, in my ethnography of ascetic pilgrim groups in Katsuragi, central Japan.",
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"Description": "The semiotic interpretation of Bruno Latour s work often focuses on the syntactic models he borrowed from semiotics. In this paper, I shift the attention towards the underlying semantic models of Latour s work. This shift does not claim any philological intentions; its objective is primarily theoretical. My aim is to establish a connection between Lotman's perspective on rhetoricity, which is a fu ndamental mechanism of meaning making in the semiosphere, Latour's anthropological and experimental exploration in his Inquiry into Modes of Existence ,and the tensive semiotic concept of \"enunciative practice\". In our view, bridging the gap between these research projects enables semiotics of culture to align itself with contemporary anthropology as a leading human science, providing a more heuristic articulation of Latour's Inquiry.",
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"Alternative": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life",
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"Description": "This article investigates the influences of Latour’s theories on the field of biosemiotics studies. Biosemioticians share common premises based on the paradigm offered by Thomas Sebeok, namely that “life and semiosis are coextensive”. In current theories, the founding principle of biosemiotics is that semiosis exists in all living things and only in living things. The goal of this article is to show how Latourian theories can challenge this paradigm. The first part of the article introduced biosemiotics in its historical context. In the second part, it will be shown that Latourian theories have been rarely used by biosemioticians because: 1. the notion of life, when combined with Latour’s reflection on hybrids, becomes a vague and undecidable concept; 2. the notion of agency offered by Latour proposes an extension to the inanimate as well. In this sense, the boundary between animate and inanimate becomes difficult to identify and is often transgressed. By incorporating Latour’s notions of hybrid and agency into biosemiotics, it is possible to offer a new perspective in this field. Finally, it will be shown that ecosemiotics can be a valuable tool that can interact with Latour’s semiotic discourse.",
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"title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life",
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"Alternative": "The Techno-aesthetic Hybrid",
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"Description": "The aims at reconstructing the concept of hybrid in a philosophical (critical) perspective. After reconstructing this concept in Bruno Latour's theory, the paper compares his theory with the reflections developed by the Italian thinker Emilio Garroni concerning the issue of the relationship between technics and creativity. These reflections are then coupled with Gilbert Simondon s theory of the technical objects, in order to develop insight into the nature of hybrids. According to this point of view, hybrids are not the result of posthumanism, but rather represent the very essence of human nature, as far as the latter is: a) fundamentally bound to technics; b) rooted into intersubjectivity; c) intrinsically evolutionary. Digital technologies, and abov e all the implementations of algorithms, are critically considered in the aforementioned vein, in order to unveil the new possible humanity they are designing.",
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"Description": "Hybridism is the view that there are no purely natural or cultural, social or artificial objects, and the distinction between nature and culture/society/artifice is ungrounded and epistemologically impossible. Hybridism is usually taken as an anti dualist view. The paper challenges this claim. It provides a taxonomy of hybridism(s). The main claim of the paper is that hybrids, in the best understanding of them, are still dual(ist). However, the esidual, or surviving, dualism embedded in hybridism has stronger grounds than the traditional Cartesian dualisms. As a consequence, the paper is also a defense of a moderate dualist view of nature and society, nature and culture, and nature and artifice. These claims are defended also by giving an interpretation of (some of) Latour s views about hybrids, mainly resting on a view of Latourian hybrids i.e., of the specific things, events, or phenomena that Latour saw as hybrids in (some of) his works.",
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"Description": "One of the most widespread technical and technological hybrid objects is undoubtedly the automobile, it is certainly a myth of today (like the Citroën Pallas Déesse mentioned by Barthes), it has entered social practices and contributed to defining complex semiotic systems of relations between objects. The automobile is a technical object that progressively replaces and/or simplifies human functions. With the introduction of artificial intelligence a crucial step begins, the car from being a refined prosthesis of human operations and functions moves to autonomy from driver control, becoming more and more visibly a hybrid object (in the sense defined by Latour as something mixed and metamorphic, transforming modes of existence), where human control is reduced to a minimum (and tends to be unnecessary in the future) These new full self-driving cars are truly mobile artificial intelligences capable of activating a complex system of mutual delegation between human and non-human agents, through a ‘subjectification’ of the car that configures new hybrids. This article highlights a system of sense relations from which emerges a tendency towards the neutralisation of human agentivity in the relationship between human beings and technical objects.",
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"Alternative": "Parental Control. The Rearticulation of Family Through PMA Techniques",
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"Description": "The aim of the essay is to investigate the Medically Assisted Procreation (MAP), pointing out its role in reassembling the social, through the hybradization of heterogeneous human and non-human actors and the reconfiguration of their relationships. The MAP displays and operates in the articulations of the reproduction process, deconstructing its naturality and immediacy and allowing its knowledge and manipulation. The plurality of temporalities, spaces and actors involved in the MAP opens to new social figures and multiple parental models that often lack social and juridical acknowledgement. In Italy, the Law interprets the role of the MAP according to the heteronormative model of “natural” reproduction, limiting the possibilities offered by this techno-practice. In reference to the work of Latour, the essay highlights the necessity to emancipate the technique and the Law from their engagement to a metaphysical natural or social referent, fostering their capacity to express the multiplicity of reality.",
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"Description": "The aim of this paper is to analyse the role of the technological devices for Sars CoV 2 molecular structure discovery in cryoelectron microscopy practices. Starting from Bruno Latour's theory of enunciation and insights on techno scientific practices, w e argue that Latour s idea of fabrication of facts can be semiotically framed as a distributed act of enunciation. Specifically, the technological apparatus can be viewed as a mediating instance able to create a commensurability between the virus matter, physically transformed, yet preserved, through the various phases of the protocol, and the experimenters cognition and perception, extended by the device, acting as a diagrammatic and delegate instance. Indeed, on the one hand the cryoelectronic system m anipulates the materic features of the sample as to render it viewable, while, on the other, it produces the interpretants needed by the experimenters to carry out the interpretive process.",
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"Description": "This article starts from the idea that the fashionable clothed body is a fetishis t hybrid (Latour 1992, 1994, 2005; Entwistle 2016; Volontè 2017). This conception connects both Latour s idea of hybrids as a way of reassemblying culture with nature and Walter Benjamin s (1999) conception of fashion as the sex appeal of the inorganic. According to Benjamin, the relationship between organic and inorganic is produced, in a philosophically disconcerting way, as an inversion of meaning between the living body and the corpse, in otherwords, as fetishism. On the contrary, Latour s hybri ds are social subjects with agency in themselves. In the light of this theoretical framework, the chapter analyses the work of the Dutch designer Iris van Herpen, especially in her collections of 2021 and 2022 which are based on the active role of objects: clothes, fabrics, technologies, atmospheric agents such as the wind etc. In this way, the designer produces different forms of hybridization among the human body, the animal and plant worlds, and the digital ecosystem. The article will highlight the forms of the reciprocal agency between human bodies and the bodies of objects, between emotions and new technological materials, between sustainable ICTs and aesthetics in van Herpen s work showing how the current idea of coded couture is released from its m ere algorithmic functionality.",
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"Description": "Metaverse evokes a second spatiality, that of purchase, first virtual, then actualized as the only way to adhere to the object and thus the value system, in a consumption scenario in which consumer goods are increasingly rare and limited editions. Achieving the purchase is no longer a playful aesthetic experience but a glorifying trial in which status recognition is at stake. Following instructions also means adhering to the imposed corporeality to maintain a reputation, which means representing oneself i ntersubjectively. For example, not beingable to obtain an expensive NFT excludes one from a cultural niche, a form of life, or a way of telling a story. If the nature of the experience is not substantial, it cannot even be called imaginary because it is e xperienced as a pleasure that finds its expression in the process of search and choice. The mere visual contact with the good, placed in a digital public context, actualizes the desire for consumption. Thus, aesthetic satisfaction and self esteem could rep lace the deprivation of material substance in the metaverse. So, it is necessary to explore the metaverse from the Latourian perspective and observe it starting from the hybridization.",
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"Description": "This paper draws from the social sciences the notion of stereotype, as it relates specifically to people and social groups, by surveying how, from the 1950s to the present, social psychology has elaborated and discussed it in a systematic and empirically grounded way. It then distinguishes stereotypes and prejudices, showing how stereotyping and categorization follow similar processes, and how it is necessary to acknowledge, not only in scholarship but in social practice, the unavoidability of stereotypes, in order to overcome them and prevent them from leading to discriminatory attitudes. Finally, some concepts from Umberto Eco’s interpretive semiotics and Algirdas J. Greimas’ generative semiotics are proposed, which the author believes are most helpful in setting up a semiotic analysis of stereotypes that can empirically and operationally dialogue with both social psychology and social semiotics.",
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"Alternative": "The Semiotic Theory of Pier Paolo Pasolini. An Introduction",
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"Description": "The aim of this paper is to describe, in a concise, orderly and coherent manner, Pier Paolo Pasolini's semiotic theory. The aim is therefore to research, synthesise and systematise Pasolini's reflections and arguments on semiotics as theory, especially in the texts written between 1965 and 1971 and later collected in Heretical Empiricism. For ease of exposition, these reflections and arguments will be divided into five relevant sections: the grammar of film language, sign image and double articulation, trans-structural sign transformations, cinema as the written language of reality and the semiotics of the reality.",
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] | Rivista dell’Associazione Direttore responsabile
Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone
mimesisjournals.com
Anno XVI, n. 36 - 2022
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
Lo sguardo turistico:
luoghi, discorsi e pratiche
n.36 EC
a cura di Dario Mangano e Luigi Virgolin
contributi di:
Giuditta Bassano Massimo Giovanardi Carlo Andrea Tassinari
Mohamed Bernoussi Giorgio Grignaffini Bianca Terracciano
Denis Bertrand Dario Mangano Ilaria Ventura Bordenca
Marianna Boero Francesco Mangiapane Luigi Virgolin
Daniela D’Avanzo Tiziana Migliore Salvatore Zingale
Giacomo Festi Giampaolo Proni
Alice Giannitrapani Simona Stano
EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici
mimesisjournals.com
Direttore responsabile
Gianfranco Marrone (Università di Palermo)
Vicedirezione
Alice Giannitrapani (Università di Palermo)
Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo)
Comitato Scientifico
Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité)
Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia)
Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2)
Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis)
Lucia Corrain (Università di Bologna)
Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia)
Jacques Fontanille (Université de Limoges)
Manar Hammad (Université Paris III)
Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos)
Tarcisio Lancioni (Università di Siena)
Massimo Leone (Università di Torino)
Anna Maria Lorusso (Università di Bologna)
Dario Mangano (Università di Palermo)
Francesco Mangiapane (Università di Palermo)
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Claudio Paolucci (Università di Bologna)
Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki)
Paolo Peverini (LUISS, Roma)
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Comitato editoriale
Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli
Metodi e criteri di valutazione
La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione
paritaria e anonima (double blind peer-review).
Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005
Mimesis Edizioni (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it
ISSN (on-line): 1970-7452
ISSN (print): 1973-2716
ISBN: 9788857598390
Fotografia in copertina di Gianfranco Marrone.
© 2022 – Mim Edizioni SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
EIC - n. 36
Lo sguardo turistico: luoghi, discorsi e
pratiche
a cura di Dario Mangano e Luigi Virgolin
INDICE
Introduzione....................................................................................................................................................................................................pp. 1-6
Introduction
Luigi Virgolin
The love boat. La crociera come eterotopia.....................................................................................................................................................pp. 7-18
The Love Boat. The Cruise as a Heterotopia
Alice Giannitrapani
Spiagge. Cinque discorsi tra sostanze e forme della soglia terra-mare......................................................................................................... pp. 19-35
Beaches. Five Discourses about the Land-and-sea Threshold between Substances and Forms
Giuditta Bassano
Semiotica per aeroporti. I pittogrammi di viaggio tra identità visive e aperture all’alterità............................................................................ pp. 36-51
Semiotics for Airports. Travel Pictograms between Visual Identities and the Opening to the Alterities
Salvatore Zingale, Daniela D’Avanzo
Modelli socio-semiotici in alcune campagne turistiche regionali................................................................................................................ pp. 52-63
Socio-semiotic Models in some Regional Touristic Campaigns
Giorgio Grignaffini
Autosemantizzazione delle identità locali sulla costa romagnola e loro impatto sulla comunicazione turistica ............................................ pp. 64-71
Self-semantisation of Local Identities on the Romagna Riviera and its Impact on Tourist Communication
Massimo Giovanardi, Giampaolo Proni
Valori e immaginari turistici ai tempi del Covid-19: la comunicazione pubblicitaria.......................................................................................pp. 72-83
Values and Imagieries of Tourism Advertising at the Time of Covid-19 Pandemic
Marianna Boero
Quando il monumento si antropomorfizza: la Corea del Sud narrata dai BTS............................................................................................... pp. 84-96
When the Monument Becomes Anthropomorphized: South Korea Narrated by the BTS
Bianca Terracciano
Raccontare lo street food in viaggio: critica del giudizio turistico................................................................................................................ pp. 97-110
Street Food and Travel Storytelling: a Critique of Tourist Judgment
Ilaria Ventura Bordenca
Discorso turistico-enologico sull’aura in Un’ottima annata di Ridley Scott....................................................................................................pp. 111-130
Tourism-oenological Discourse on the Aura in A Good Year by Ridley Scott
Francesco Mangiapane
Turismo/migrazione. Termini di una categoria enantiomorfa.......................................................................................................................pp. 131-141
Tourism/Migration. Terms of an Enantiomorphic Category
Tiziana Migliore
Wildlife Watching Tourism. Una zampata semiotica sul caso trentino dell’orso............................................................................................ pp. 142-152
Wildlife Watching Tourism. A Semiotic Gushing over the Trentino Case of the Bear
Giacomo Festi
Tra lo sguardo e la presa: testi, discorsi e pratiche dell’(anti)turismo contemporaneo................................................................................pp. 153-161
Between the Sight and the Grasp: Texts, Discourses and Practices of Contemporary (Anti)Tourism
Simona Stano
EIC - n. 36
Un’altra Sicilia. La costruzione turistica del regno antimafia...................................................................................................................... pp. 162-176
Another Sicily. The Touristic Construction of the Antimafia Kingdom
Carlo Andrea Tassinari
Conclusioni...............................................................................................................................................................................................pp. 177-179
Conclusion
Dario Mangano
Miscellanea
Prolégomènes à une culture du Tberguigue, ou le voir marocain entre sémiosphère et encyclopédie.......................................................pp. 180-194
Prolegomena to a Culture of Tberguigue, or the Moroccan See Between Semiosphere and Encyclopedia
Mohamed Bernoussi
Materiali
La scrittura dell’esperienza estrema......................................................................................................................................................... pp. 195-204
Writing the Extreme Experience
Denis Bertrand
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"Description": "The semiotic perspective on the tourism cannot forget to take into consideration the places of travel and the places of transit. Among these, the airports have a particular relevance, being one of the main access points for the touristic flows. They are often seen as small self-standing citadels, with their own identity given by being a place of intra- and intercultural exchange. Both small and big hubs see the intertwining of different cultures and the necessity to communicate efficiently for each of them. One of the inevitable communication tools in an airport is wayfinding, the orientation system that guides passengers both in functional places and in places to rest, helping travelers during all their journey, from the entrance in the airport to their final destination. To succeed in a way of communicating that has to be linguistical and cultural transversal, wayfinding systems are made of an intertwining of elements, related to each other to facilitate the comprehension beyond the national languages. One of the main elements that goes in this direction is the pictogram. The aim of this paper is to investigate the communicative efficiency of the pictogram systems in airports located in different places, with different cultures and languages, in order to observe (i) to which extent the tendency towards a universalization of the pictographic language is affirming itself, (ii) on the other side, how far the preservation and display of aspects of identity persists, (iii) if and how there may be possible developments for a more efficient translinguistical communication, between the affirmation of the cultural identities and the opening to the alterities that the tourism brings together. To this extent three case studies have been considered: the wayfinding systems and related pictographic systems of Schipol Airport, Koln-Bonn Airport and Hamad Airport.",
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"Description": "The essay focuses on the advertising campaign produced in view of the 2021 tourist season by some Italian regions. Through the analysis of the textual strategies used, in particular from an aspectual point of view, it appears that the aim of the campaigns is an “experiential” tourist offer, i.e. intended to propose a veritable existential transformation to the tourist. The spots and posters analysed therefore always offer images of places emptied of human presence and capable of projecting the tourist into a different dimension, to mark the distance from everyday life and the restrictions caused by the pandemic. But on deeper analysis, the textual strategies used appear stereotyped and portray a figure of the tourist only superficially immersed in a different reality.",
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"Description": "The paper provides a self reflective account on the problems encountered by the Authors during their research on destination rebranding on the Romagna Riviera. The methodologic approach combines methods typical of socio cultural marketing with sociosemioti cs. The local context comprises a number of small seaside destinations that appear to be quite homogeneous in terms of their built environment and the main products offered. And yet, local stakeholders seem to show a strong self asserted identity and they struggle in casting a more objective perspective on the semantic values they are supposed to convey to the outside world. This situation causes a number of problems that are presented and critically analysed. Possible solutions include a greater involvemen t of local stakeholders in the research design process and definition of the research goals, with a view to strengthen the cooperative relationship between the client and the academic consultant.",
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"Description": "During the COVID-19 pandemic, the way of doing and experiencing tourism in Italy has undergone a significant change. The planning of cross-border holidays was quickly replaced, by the idea of a proximity tourism, oriented by the “practical” value of safety and aimed at the (re) discovery of small villages, localities and itineraries within national borders. Advertising has played a key role in communicating such a change, conveying the emerging themes, values and sensibilities. The semiotic analysis of tourism advertising during the pandemic allows us to observe and to grasp the social change and, specifically in this study, the change in the meaning of tourism, presenting itself as a language capable of creating new values around the themes of travel, holiday and territorial identity. Precisely with the aim of analyzing the way the tourist imaginaries and meanings within the advertising narratives have changed in the different phases of the pandemic, this paper focuses on a corpus of national and regional commercials, relating to the period 2020-2021. The aim is to highlight, through a semiotic analysis, the themes, the narrative strategies, the predominant values, the stereotyping dynamics of tourism discourse, as well as the effects of meaning that derive from the dialogue between the advertising and the tourism discourse in the semiosphere.",
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"Alternative": "When the Monument Becomes Anthropomorphized: South Korea Narrated by the BTS",
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"Description": "BTS produces meaning through the many kinds of “correlated to their activity as artists: not only songs and MVs, but also events, objects, pop up shops, SNS posts, and more. These texts are enunciated, constructed, and narrated, representing different actions and feelings connected to the identity of BTS. In the production of meaning resides the difference between signification and communication. Meaning is produced not only through intentional communication, like song l yrics or SNS statements, but also through ‘messages' that circulate independently, such as signs, symbols, images, and places that become significant within MVs or TV series. It is not a matter of describing a state of affairs correlated to a topic or a th eme but of depicting the emotions to be experienced. The stories related to BTS activities can emotionally involve people, create new experiences and flows, and actively engage fandom in their support. The route BTS took in their career has had a steady compass, their individual and cultural identity, which has ensured the correct interpretation of the map of the soul whose stages have been many and have touched on areas as diverse as music, comics, art, fashion, and literature. In this way, the se ven guys have been able to translate themselves and Korean habits to people of all nations and ages. From this hypothesis, I will demonstrate how the BTS have become a disseminated monument to “ by becoming attractors of interest in their heritage culture.",
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"Title": "Quando il monumento si antropomorfizza: la Corea del Sud narrata dai BTS",
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"Description": "This paper is about tourist reviews of a specific gastronomic universe: street food. Specifically, I will deal with reviews from the Tripadvisor platform dedicated to street food places in the city of Palermo. The idea of focusing on reviews comes from the hypothesis that, since this type of textuality is an utterance at the end of a path, and is therefore the Sanction in narrative terms, we can reconstruct from reviews, by presupposition, the value systems that the enunciator tourist projects on the gastro nomic experience. That is, if there is a judgment it is because there is a preceding Contract, more or less explicit, very often implicit, that is grounded in a set of values that constitute the tourist’s expectation with respect to the food experience rel ationship of the place.",
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"Title": "Raccontare lo street food in viaggio: critica del giudizio turistico",
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"Alternative": "Tourism-oenological Discourse on the Aura in A Good Year by Ridley Scott",
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"Description": "This essay follows fits into an ongoing project dedicated to highlighting the rhetorical and ideological representations of food and wine in cinema It carries out a semiotic analysis of the film A good year (by Ridley Scott, with the aim of identifying the role that wine plays in it and in the touristic imaginary about it. The essay pursues this goal by facing the issue of authenticity in tour ism as posed by Culler and by reconstructing the implicit aesthetic and touristic theory on which the film may be positioned. Then, it proceeds by getting into a reconstruction of the ideologic role played by the settings and the spaces represented in it. A spatial dialectic among city and country gets outlined which will allow to identify two competing forms of life one metropolitan, the other related to the living in the country. By highlighting the differences among them, the article seeks to define th e terms of the proposal which eno tourism makes to the urban citizen tempted of visiting wine lands. Moreover, the analysis will highlight how the film takes position in a wider discourse on how to assess the trip, raising the issue of how to behave in fac e of the transformation of identity that one may experience during his “How to think the trip? As a “ from ordinary life that once concluded may be dismissed or as a transformation which aims at being taken seriously and assumed definit ely and indefinitely? The incertitude which the protagonist will fall into about whether to move in the French countryside or getting back in his context of life gets solved by means of an explicit discourse on the aura and on the role which perception and aesthetics should play in everyday life, that is the actual core of the proposal carried by the film and by the touristic ideology of wine that may be recognized in it.",
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"Title": "Discorso turistico-enologico sull’aura in Un’ottima annata di Ridley Scott",
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"Alternative": "Tourism/Migration. Terms of an Enantiomorphic Category",
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"Description": "This article examines a relationship, which in the last decades has become increasingly recurrent, the one between tourism and migration. Under the complex macrocategory of mobility, two narrative programmes stand out about the couple tourism/migration: leaving home temporarily for pleasure, to enjoy a holiday, and leaving home permanently for duty, to work, to improve one’s social status or in order to escape from war, persecutions or cataclysms. While some political parties and press organs instrumentalise these differences, by enhancing the circulating stereotypes to give a positive vision of the tourist and a negative one of the migrant, the mobile condition of today, no longer as a sporadic fact but almost as a norm for individuals and groups, facilitates the associations and marks an intermediate form of life that we all persons share: wandering. Thus, tourism and migration, in many discourses and representations, appear to be the enantiomorphic image of each other, in the Lotmanian sense of dialogical mechanisms that are specularly equal, but unequal if they overlap: an ironic mirror of the paradoxes of the globalized world. A Banksy’s left-hand campervan and artistic tour in August 2021, satirizing on the government suggestion to domestic vacations, exposes tourism and migration as the flip side of each other’s coin. We will analyse the artistic video that Banksy posted after his way around on his Instagram page, A Great British Spraycation to see how this particular declination of the “street art” sheds light into the issue.",
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"ISSN": "1970-7452",
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"Title": "Turismo/migrazione. Termini di una categoria enantiomorfa",
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"author": "Tiziana Migliore",
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"Alternative": "Wildlife Watching Tourism. A Semiotic Gushing over the Trentino Case of the Bear",
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"Description": "Tourism interested in observing wild animals like big predators in their own environment has recently appeared in Trentino, following the planned reintroduction of bears, part of the Life Ursus project, whose essential steps are taken up here. The practic e of bear watching is analysed semiotically, in comparison with the better known bird watching and in relation to photographic capture, a sort of predatory act projected onto the image. The generalized conflictual quality among the various actors implied, human and animal, at the heart of the project, makes it difficult to determine the tourist offer, within the theoretical framework of a touristization process. The Trentino case is finally compared with other territories, Churcill ( and the Rodopi m ountains in Bulgaria, where human animal relations have a long history and divergent directions. A semiotics of tourism is rethought within the framework of a semiotics of culture and the interaction between a multiplicity of levels of analysis.",
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"Title": "Wildlife Watching Tourism. Una zampata semiotica sul caso trentino dell’orso.",
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"Alternative": "Between the Sight and the Grasp: Texts, Discourses and Practices of Contemporary (Anti)Tourism",
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"Description": "Dealing with tourism today involves considering a varied set of texts, discourses and practices, opening the way to multiple declinations, segmentations and valorisations. On the one hand, so-called “antitourism” (intended as a strong opposition to tourism and tourists) recalls and expands a conception of tourists as “fake travellers”. On the other hand, contemporary tourism practices seem to challenge such an idea, paving the way for new axiologies and forms of “(anti)tourism” (intended as a new approach to tourism, based on its “slow”, “ethical”, “sustainable” and “experiential” character — to recall some common denominations). This paper analyses such an ambivalence, paying particular attention to crucial semiotic issues: the reflection on authenticity; the relationship between tourism and everyday life; and the transition from a “representational” (Savoja 2005) imaginary of tourism, based on a more or less stereotyped conception of the “sight” (i.e. a superficial, hasty gaze, subject to distractions and temptations, see Volli 2003), to the definition of an active, “performative” (Gemini 2008) role played by the tourist, which finds a fundamental figure in the “grasp”.",
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"Description": "Tourism encompasses a variety of semiotic performances overwriting cities’ identity. This paper focuses on the rebranding of Palermo as “the capital of antimafia” through an ethnosemiotic analysis of four tours sponsored by the antimafia association Addiopizzo and its touristic spin-off AddiopizzoTravel. The aim of the work is to underscore how the link between antimafia memory and the genius loci of Sicily is built by AddiopizzoTravel, thus revisiting the critical opposition “tourist” vs “traveler” from an “antimafia” perspective. In order to do so, the paper mobilizes the concepts of rhetoric of space and of enunciative praxis, showing how antimafia guided tours reinterpret the cultural and semantic sedimentation embodied by the cityscape. In particular, the analysis illustrates how AddiopizzoTravel carves out an image of “authentic Sicily” from the cultural backdrop of patrimonialization processes Palermo underwent from the 90, and from different, conflicting layers of antimafia memory that its narrative tries to reconcile. With all the difficulties this reconciliation entails.",
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