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Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze Giuditta Bassano Abstract. This article explores the problem of materials with respect to contemporary semiotic research. The contribution defines a general problem of including processual aspects in the analysis of materials and artefacts. It therefore focuses on dust, as a material identified both in a socio-technological sense and focused on by many contemporary art works. In analyzing dust, a proposed model for the problems posed by materials is outlined, as including: a figurative dimension, a figural dimension, a thymic dimension, and an aspectual dimension. Some strengths and weaknesses of this proposal are discussed in the final part of the article. 1. Introduzione Paul Valéry intitola un capitolo di Degas Danse Dessin “Du sol et de l’informe”, del suolo e dell’informe. Qui distingue tra oggetti con una “forma nota” – quelli che ci appaiono attraverso la loro “funzione” e che secondo il poeta “non possiamo più vedere”, come una sedia, un tavolo, una forchetta – e quelli di forma “sconosciuta”, che Valery definisce “informi”, come per esempio un pezzo di carta accartocciato. Questi ultimi, privi di ogni sorta di “neutralizzazione” provvista dall’uso, appunto dalle funzioni, secondo Valery ci costringono a uno sguardo più profondo, e forse più proficuamente ingenuo. Tanto che il poeta suggerisce un esercizio di allenamento del pensiero “attraverso l’informe” (Valery 1938, pp. 75-76). Sulla scorta di queste note, pare possibile seguire e forse riaprire i tracciati della riflessione semiotica sugli artefatti e sulle materie ed elementi1. A costo senza dubbio di una semplificazione2, i lavori condotti fino ad oggi sembrano concentrati in due indirizzi principali. Da una parte ci sono le ricerche sul senso degli oggetti, in dialogo con un’antropologia delle tecniche e successivamente con gli studi di design, la storia delle tecnologie, la filosofia latouriana e il lavoro di Ingold. Dall’altra ci sono quelle dedicate al campo artistico; luogo d’incontro con la fenomenologia della letteratura, l’estetica, la storia dell’arte. La divaricazione tra questi terreni d’indagine sembra caratterizzata anche da una progressiva distanza, più o meno netta, tra approcci. La semiotica degli oggetti mette a fuoco in particolare la dimensione valoriale e la narratività; si concentra sulle interazioni narrative interoggettive, intraoggettive (Mattozzi, Sperotto, Poli 2009) e tra artefatti e utilizzatori. Nel caso degli artefatti, da un reattore nucleare a un muro, passando com’è chiaro per tutti gli “oggetti d’uso quotidiano”, sbattitori, chiavi, spazzolini da denti, il commercio semiotico è determinato dall’idea dell’uso. Tutti i prodotti di qualche tecnica sono 1 Il modo in cui sono intesi qui i sostantivi “materie” e “sostanze” non ha connessioni con la teoria hjelmsleviana, che è astratta e a nostro avviso priva di qualsiasi presa analitica sul mondo sensibile. Per “elementi” ci rifacciamo all’idea del simbolismo classico. 2 È una considerazione che non rende giustizia per esempio agli studi semiotici sul cibo – che non presentano affatto i tratti della divaricazione analitica individuata di seguito (cfr. per es. Marrone 2016; Marrone e Giannitrapani, a cura, 2012). Un’altra serie di analisi elusa dalle considerazioni svolte qui è quella di Marsciani (1995, 2007, 2009, 2012). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). connessi con la fattitività, e l’ANT, all’inizio, ha colto nella semiotica proprio un punto di vista sulla fattitività. Il che pare valere anche per i materiali, sostanze, elementi. Qui i materiali e le sostanze sono concepibili come artefatti allo stato virtuale o attuale. Della carta sappiamo che si collega a un “foglio”, il cemento a un muro, il cotone a indumenti e altri oggetti per tamponare la pelle. Si ha cioè a che fare perlopiù con percorsi che dipendono da due poli, percorsi che legano materiali da una parte e artefatti dall’altra, come virtualità e realizzazioni, come parti di un insieme e forme stabilizzabili3. Basta pensare, per esempio, al concetto di componente tassica nel modello di analisi messo a punto da Floch su Opinel (1995, pp. 198-230)4, oppure alle considerazioni di Bolchi nella sua celebre analisi di un rasoio femminile (Semprini 1999, pp. 39-56)5. Quando invece la disciplina si rivolge all’arte, le dimensioni privilegiate sembrano piuttosto quella enunciativa e discorsiva. Il lavoro di Omar Calabrese è un riferimento essenziale, e vale, tra molti, uno studio dedicato ai concetti di figurale e figurativo rispetto alle rappresentazioni pittoriche dell’acqua (2006); inoltre ci riferiamo a lavori come Deleuze (1981), Marin (1980), Calabrese (1980, 1985), Fabbri (2020), Corrain (2004, 2016), Lancioni (2012), Migliore (2021), e dell’intera scuola senese (cfr. per es. Mengoni 2015; Polacci 2012). Nell’arte, e nell’analisi semiotica che vi si dedica, la nozione di materiale con tutta evidenza si dissolve. I materiali possono essere intesi come ingredienti dei colori pittorici, come temi o figure di un’installazione, ed emergono infinite “sostanze” – che si tratti di metallo, ossa, diossine, cenere, cemento 6 etc. – ed elementi (intesi secondo il simbolismo classico) 7 , convocati ora dall’enunciazione ora dall’enunciato di un’opera, ora da dimensioni intermedie tra le due8. Lo iato tra queste due direzioni di ricerca appare almeno duplice. Mentre la semiotica degli oggetti ha più o meno narcotizzato il dialogo con una dimensione estetico-fenomenologica, la semiotica dell’arte ha per parte sua riflettuto principalmente sulla dimensione estesica del senso. Un altro punto di divergenza riguarda il ruolo delle questioni legate alla temporalità, oggi forse meno tematizzate nell’analisi degli artefatti9, ma centrali nell’analisi semiotica del campo artistico. Infatti, liberando sostanze e materie da una 3 Come noto, Barthes aveva riflettuto sulla plastica, dedicandole una sorta di “scomunica sostanziale”: “Più che una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile. […] Più che oggetto essa è traccia di un movimento […]. La sua costituzione è negativa: né dura né profonda essa deve contentarsi in una qualità sostanziale neutra a dispetto dei suoi vantaggi utilitari: la resistenza, stato che suppone la semplice sospensione di un abbandono. Nell’ordine poetico delle grandi sostanze è un materiale sgraziato, sperduto tra l’effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: essa non arriva a nessun vero prodotto dell’ordine minerale: schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato” (Barthes 1957, p. 170, corsivi nell’originale). Barthes qui sta pensando a una plastica intesa come materiale. E, forse, Alberto Burri ha saputo smentirlo liberando nelle proprie opere una “plastica sostanza” con caratteristiche molto diverse. 4 Nonostante Floch stesso (1984) avesse aperto a uno studio degli effetti di senso “fenomenologici” del cemento impiegato come materiale architettonico. 5 Alcune analisi principali in ambito di semiotica degli oggetti sono in Mangano (2008, 2010); Mattozzi (2006); Deni (2002); Semprini (1999); Hammad (1989); Marrone e Landowski (2002). 6 Cfr. le opere di Eliseo Mattiacci oggetto di uno studio di Fabbri (2020, pp. 291-303); Balkan Baroque di Marina Abramovic del 1999; il progetto Yellow Dust: Making Visible Particulate Matter in the Air di Nerea Calvillo, del 2017; i lavori di Daniel Arsham, tra i quali per esempio Fictional Archeology del 2015; Narrow are the Vessels di Anselm Kiefer del 2012 (tra moltissime opere dell’artista). 7 Rimandiamo a un altro lavoro di Fabbri (2020, pp. 239-254) sull’acqua in Ocean Without a Shore di Bill Viola. 8 Cfr. a questo proposito il lavoro fondamentale di Krauss (1981). 9 Lo si vede con il famoso schema d’analisi derivato dall’analisi di Floch sul coltello Opinel, già citato, il quale ancora oggi, a dispetto di un aggiornamento proposto da Mattozzi (Mattozzi et al., cit., 2009), è lo schema didattico più usato. Questo schema fotografa uno stato, provvede una sorta di istantanea dell’uso e del senso degli artefatti. E in questo sembra simile alle criticità di modelli sviluppati dagli studi di design e progettazione per l’analisi dei materiali (cfr. Rognoli, Levi 2011, pp. 44-45). Prospettive che cercano qualità degli oggetti in senso aristotelico; punti di vista che tendono ad eludere la dimensione temporale e processuale. 180 funzione tecnica d’uso, l’arte apre per esse percorsi figurativi illimitati10, percorsi in cui ha rilievo anche un aspetto nettamente processuale. Basta pensare, per un esempio tra molti, alla serie Ice Watch di Olafur Eliasson (Fig. 1). Si tratta di un gruppo di installazioni collocate in varie capitali europee tra il 2014 e il 2018; attraverso di esse l’artista islandese ha dato corpo a una riflessione sul tema del cambiamento climatico. Una serie di blocchi di ghiaccio artico, di diversi metri di diametro ciascuno, era collocata in cerchio nello spazio pubblico, evocando la configurazione del quadrante di un orologio. I blocchi erano accessibili ai visitatori, che potevano toccarli, salire su essi, scattare foto, ma la “mostra” aveva una scadenza cinicamente determinata. Quella connessa allo scioglimento spontaneo dei blocchi, esposti all’aperto e appoggiati direttamente sulla pavimentazione urbana. Fig. 1 – Ice Watch, Olafur Eliasson e Minik Rosing, 2018. Installazione londinese all’esterno di Bloomberg European. Foto di Charlie Forgham-Bailey (© Olafur Eliasson). Se i percorsi figurativi attraverso cui il discorso dell’arte fa significare le materie e le sostanze sono fluidi, imprevedibili, incalcolabili, l’analisi di testi di questo tipo può richiamare l’attenzione dello sguardo semiotico sul rilievo di una temporalità interna11 inscritta in ogni genere di elementi, sostanze (e artefatti). Di seguito, questo contributo svolge alcune considerazioni su uno specifico oggetto d’analisi, la polvere “ordinaria” (Amato 1999, p. 71), tentando di unificare alcuni rilievi degli approcci rapidamente visti. 2. Polvere La polvere è di difficile definizione12. Non è un elemento nel senso del simbolismo classico – a meno di non considerarla come unione di terra e aria –, né naturalmente è un materiale, nel senso di “ciò di cui è fatto qualcosa”. Con la polvere non si fa niente, non si tratta di “carne degli oggetti”, non è “il corpo di un’opera o di uno strumento” (Fiorani 2000, p. 14). La polvere è una “massa” informe nel 10 Ipotesi abbracciata per esempio da Dagognet (1997, p. 74) e Krauss (cit., pp. 204-206). 11 Semprini (1996, pp. 123) proponeva di pensare agli artefatti come stratificati: “agglomerazioni di strati, intrico di livelli, sovrapposizione di piani che potrebbe rendere meglio l’idea sia della multidimensionalità virtuale sia del duplice regime temporale che si applica a ciascuna di queste dimensioni”. Il riferimento a una doppia temporalità riguarda la proposta di Semprini di pensare a un tempo come corso d’azione, dentro cui gli oggetti si inserirebbero, e a un tempo come temporalità propria degli oggetti, a sua volta scomponibile in più aspetti. 12 Una stessa vacuità ha interessato il senso delle varie entità connesse al concetto di ombra, cfr. Stoichita (1997); cfr. anche Dubuffet (1971). 181 senso di Valery, che, in qualche modo, si avvicina all’idea di sostanza. La definizione lessicale articola questa prossimità: lo Zingarelli ricorda che quando non corrisponde a un materiale, la materia è appunto un parasinonimo di sostanza. Cioè un “elemento primario di qualcosa” – vaghezza notevole – “di cui sono esempi i composti chimici”. Per coincidenza con la divaricazione a cui si è accennato sopra, menzionando una semiotica degli oggetti e gli studi semiotici sull’arte, questa sostanza sui generis è trattata precipuamente in una storia della tecnologia e delle scienze (Amato 1999; Reynolds 1948; Beltrame, Houdart, Jungen 2017) e nella critica d’arte (Grazioli 2004; Hennig 2001; cfr. anche Burgio 2011). Amato ricorda una serie di trasformazioni che hanno interessato la polvere da un punto di vista timico e cognitivo rispetto alle scoperte tecnologiche degli ultimi due secoli: Un tempo regno inaccessibile, la polvere era al contempo mescolanza e summa di tutte le piccole cose. Nel Novecento la polvere, analogamente ai contadini dell’ancien régime, è stata sospinta ai margini della vita. Ha perso il suo ruolo di prima e più comune unità di misura del piccolo. Da normale compagna di vita è divenuta un insieme di particelle altamente differenziate. E questa differenziazione della polvere è andata di pari passo con l’indagine scientifica, la produzione industriale e la regolamentazione della salute pubblica. […] Vulcanologi, meteorologi, geofisici, medici industriali e igienisti, insieme ad altri specialisti si occuparono ciascuno di un differente particolato. […] Nei laboratori gli scienziati manipolano l’invisibile. Trasformano i batteri in agenti igienizzanti e fanno giochi di prestigio con tecnologie in scala molecolare. In questo mondo non c’è più spazio per la polvere, a meno che non presenti le credenziali di uno specifico particolato. La vecchia polvere mista e indifferenziata – le gatte sotto il divano – è ora priva di dignità formale. Con così tante conoscenze sull’invisibile, la polvere ordinaria non ha più diritto al rispetto (Amato 1999, pp. 102-104). Grazioli scrive alcune righe significative sul rapporto tra polvere e arte: La polvere in sé non è quasi niente, si disfa sotto le dita, ma anche sotto l’occhio, sotto lo sguardo che la coglie, eppure è il segno del tempo, del suo trascorrere e insieme del suo restare, deposito assoluto, presenza in quanto deposito; e insieme immagine, pellicola che rifà nel dettaglio l’oggetto su cui si deposita, sottile come l’essenza dell’immagine stessa – “infrasottile” – eppure fedele come un calco (2004, p. 73). Entrambi gli autori colgono elementi dirimenti di una considerazione della polvere ordinaria in senso semiotico. Di più, i saggi di Amato e Grazioli aprono a una galleria di discorsi e prospettive analitiche possibili. Così, traendo da entrambi i lavori alcuni esempi, proveremo a sviluppare un modello che “sintatticizza” la polvere, cioè la inserisce in sintassi di diverso ordine, in una proposta più generale relativa all’analisi delle sostanze, discussa oltre, nel § 2. 2.1. Un “tritume” Quali sono i tratti figurativi di quello che a vario titolo chiamiamo polvere? Come si trasferiscono su altre sostanze? Gli usi linguistici come “polvere di riso”, “polvere di stelle” ricordano che la polvere è un composto granulare, discreto – come opposto a compatto nel senso in cui Françoise Bastide (1987, p. 348) usa questi termini – e spesso aereo. In questo senso le “piogge d’oro” della mitologia greca, il pepe polverizzato, la farina e la cenere sono tutti parenti stretti della polvere. La contrapposizione tra polvere e sabbia permette di specificare altri contrasti, quello tra asciutta (la polvere) e bagnata, leggera13 e pesante, ubiqua e localizzata, eterogenea e omogenea, non minerale e minerale. 13 Per Grazioli la leggerezza della polvere è un elemento tipico della sua caratterizzazione in Oriente: “il tema è importante perché divide chi la vede sospesa e antigravitazionale in forma di pulviscolo volteggiante nei fasci di 182 La polvere si differenzia poi dalla polvere della terra, cioè dal terreno seccato, per il fatto che la prima è una materia del mondo culturale, la seconda appartiene alla natura – non ha infatti senso parlare di una polvere lungo il letto di un fiume o su una montagna. Sia chiaro che questa è un’articolazione degli ultimi due secoli, sia perché prima la polvere per come ne discutiamo qui non esisteva, sia perché la polvere del terreno può rientrare in un qualsiasi impiego culturale, per esempio in senso bellico quando segnala l’arrivo di una fila di carrarmati nemici, o in altre epoche di un’armata a cavallo14. Il che porta presto ai rapporti che rendono la polvere che conosciamo oggi anche una materia inutile e spontanea, in rapporto con le polveri strumentali e artificiali (powder, poudre, in inglese e in francese, differenti da dust e poussière). Cioè le polveri della pittura, della chimica e del trucco – phard, ombretti –, le spezie, i composti farmaceutici e le droghe (Amato, cit., p. 27). Tra queste polveri, al plurale, alcune evidenziano altri tratti della polvere ordinaria. Rispetto alla polvere da sparo, per esempio, l’essere non infiammabile e commestibile in senso vago. Rispetto alle micropolveri (o particolato atmosferico) la minore o totale assenza di nocività, la minor rilevanza rispetto all’elemento di penetrazione nel corpo, la visibilità, la natura non esclusivamente aerea. Rispetto al polline, una polvere “fecondante” (Grazioli, cit., p. 233), la sterilità15 e il tratto semantico durativo piuttosto che puntuale (Fig. 2)16. Fig. 2 – Wolfgang Laib mentre compone Pollen from Hazelnut, 1992. Installazione al Museum of Contemporary Art di Los Angeles, 330x370 cm (© Wolfgang Laib). Amato ricorda che persino gli escrementi, una volta polverizzati, si contrappongono alla polvere ordinaria per una funzione fertilizzante attiva (Amato, cit., p. 27). Per parte sua, Grazioli sottolinea l’aspetto veridittivo della polvere ordinaria rispetto all’amido, grande sovrano del maquillage già cinquecentesco. L’amido in polvere, usato per accordare i capelli al biancore della carnagione e del volto fa “entrare in gioco la maschera”, un “effetto di finzione, di apparenza, di luce, o evanescente e fragile al tatto quando depositata, e chi considera che essa finisce pur sempre per cadere e depositarsi e ricordare allora la pesantezza del tempo e del destino inesorabile” (Grazioli, cit., p. 164). Noi cercheremo di mantenere aperte tutte e due le valorizzazioni, in una proposta discussa nel § 2. 14 “Se la polvere si solleva alta e definita giungono dei carri; se è bassa e diffusa, giungono soldati a piedi. Fili di fumo sparsi indicano boscaioli. Relativamente poca polvere che va e viene indica la preparazione di un accampamento”. Sun Tzu, L’arte della guerra, in esergo in Amato (cit., p. 25). 15 Intendendo una sterilità sessuale transitiva, perché, come accennato poco oltre, la polvere è anche uno spazio vitale per alcuni organismi che la abitano e si nutrono dei suoi componenti, tanto quanto il polline è nutritivo per molti insetti. 16 Il riferimento è alle sculture di Wolfgang Laib (Fig. 2) che compone forme con grani di polline da lui raccolti personalmente in sessioni, come prevedibile, lunghe e ripetute, che sono parte dell’opera. Il polline è qui concepibile per Grazioli in quanto “polvere che crea vita, che diffonde, sparge, espande, moltiplica, dissemina, seme, sperma vegetale, custode della forma, polvere che dà forma, in-forma, ri-forma”, ibidem. 183 ornamento”, fino alla “spiritualizzazione” (cit., p. 52). Così il trucco raggiunge la morte per via di purezza, contrariamente all’impurità della polvere ordinaria: “questo leggero velo di polvere bianca attenua la nudità, sottraendole i caldi e provocanti colori della vita. La forma si avvicina così alla statuaria, si spiritualizza e si purifica” (Hennig 2001, p. 51). Per quanto riguarda il rapporto con le droghe, è stato l’artista Marco Cingolani a mettere in luce un elemento di non marcatezza della polvere ordinaria, rapportata con il traffico illecito degli stupefacenti. La sua serie Refurtive (1989) include armi e quadri rubati, accostati a bustine di cocaina, suggerendo l’idea di un mercato dove queste “polveri” hanno ormai un legame imprescindibile17. Potremmo poi parlare di tritume nel ruolo di Oggetto o di Destinante. La polvere è infatti un ambiente vitale per alcuni animali: oltre alle spore dei funghi e a semi minuscoli, ogni grammo di polvere ospita fino a un migliaio di acari – i più piccoli fra i ragni, che se ne nutrono e le cui deiezioni sono la causa principale di asma e allergie (Amato, cit., p. 129). Inoltre, è una materia disponibile a essere spostata e attratta a causa dei fenomeni elettrostatici, in contrapposizione con i caratteri attanziali soggettivi della polvere biblica, che è un resto identitario – così come lo sono le ceneri delle urne funerarie. Burgio (2011) ha analizzato un progetto dell’architetto e artista ispano-statunitense Otero-Pailos che fa emergere per la polvere ordinaria il ruolo attanziale di Destinante. Insieme ad altri artisti come Erwin Wurm18 e Claudio Parmiggiani (Fig. 3) che lavorano sulla facoltà della polvere di ricalcare i contorni delle cose, tracciare forme, far vedere, Otero-Pailos ha sfruttato la polvere per ‘generare una copia” di una serie di palazzi che ha restaurato. Con un metodo sperimentale, un telo di lattice veniva steso e fatto aderire alle pareti o pavimenti di un edificio; rimuovendolo, vi restava incollata una parte delle sedimentazioni che la polvere e lo smog avevano prodotto nel tempo sulla superficie. Ricomponendo i teli in strutture retroilluminate, l’artista ha potuto così esporre dei grandi “delicati, calchi fossili” (Burgio, cit., p. 103) su cui era impressa la topografia materica dei muri degli edifici. Otero-Pailos ha messo in luce l’aspetto formante di questo tipo di gesto, dichiarando di voler dare dignità all’azione del tempo e alla polvere come operatore di un effetto di permanenza19. Ci ritorneremo in § 2.4. Fig. 3 – (da sinistra) Delocazione, Claudio Parmiggiani, 1970 (© Galleria Civica di Modena); The Ethics of Dust, Jorg Otero-Pailos, 2008-2016, Old Us Mint, San Francisco 2016, collezione del SFMoMa (© Jorg Otero-Pailos). 17 Cfr. M. Cingolani, “Baby è solo polvere…” (1991). 18 Erwin Wurm, artista svizzero celebre per la sua serie Fat House, è l’autore di una serie di Dust Sculptures, opere composte da teche e piedistalli su cui è visibile ‘solo’ l’alone di polvere depositata intorno a un oggetto ora assente. Cfr. www.erwinwurm.at/artworks/dust-sculptures.html. Consultato il 4 giugno 2023. 19 Intervista del 2008 su Radio Papesse, www.radiopapesse.org/it/archivio/interviste/jorge-otero-pailos-the-ethic-of- dust. Consultato il 6 giugno 2023. 184 2.2. Un residuo Sotto un altro aspetto la polvere ordinaria è un residuo, un resto che risulta da altre sostanze, e qui intrattiene due ordini di parentele sintattiche: la prima, più forte, con lo sporco, la seconda con la cenere. Nella sua storia della polvere Joseph Amato ricorda che la “polvere appartiene alla terra e all’aria equamente; lo sporco è terreno, è pesante e prende spazio” (cit., p. 13). Rispetto allo sporco, tanto del corpo quanto dei rifiuti di ogni tipo, la polvere è senza dubbio più neutra, sia perché perlopiù non si distinguono percettivamente le parti che la compongono, sia perché, più invisibile, effimera e amorfa, non ha origine e storia, non si conoscono i resti da cui risulta. La polvere è uno sporco che si lega alla mancanza di tatto, al contrario di quello che si accumula con la manipolazione e l’uso, lo sporco delle cose vissute, cioè lo strato traslucido che vela il metallo di un mazzo di chiavi, la cover del telefono, le lenti degli occhiali, lo sporco come grasso cutaneo delle impronte di un polpastrello su un vetro. Tanto che un artista come Jean Dubuffet (Fig. 4) ha potuto metterne in rilievo il carattere “antiumanistico” (Grazioli, cit., p. 110): “Mi interessano più degli altri gli elementi che abitualmente si sottraggono ai nostri sguardi in virtù della loro stessa diffusione. Le voci della polvere, l’anima della polvere, mi incuriosiscono mille volte più del fiore, dell’albero o del cavallo, giacché li sento più strani. La polvere è qualcosa di tanto diverso da noi” (Dubuffet 1971, p. 149). Dubuffet usa la polvere come materia compositiva, in una precisa ricerca sui materiali negletti e di scarto. La serie delle Materiologie (Texturology) porta a compimento una riflessione che tematizza la polvere come emblema di un’omogeneità “metafisica”, potremmo dire “antiplatonica”: Occorre immaginare che agli occhi di esseri diversi da noi l’universo materiale sia continuo e non presenti punti vuoti; quelli che chiamiamo oggetti rispondono solamente a una condensazione, in un dato punto, delle vibrazioni che, più o meno dense, brulicano ovunque altrove, solo meno dense nei luoghi in cui crediamo di vedere dei vuoti. L’universo è continuo e ovunque è fatto della stessa sostanza (Dubuffet 1971, pp. 37). Fig. 4 – Texturology LXIII, 1958, Jean Dubuffet (© ADAGP, Paris and DACS, London 2023). Per Grazioli, nella poetica di Dubuffet la polvere è l’emblema di un mondo senza l’uomo – titolo peraltro di una serie di suoi lavori –, liberato della sua “asfissiante cultura”, in cui “l’apparente monotonia, 185 l’apparente mancanza di vita, di figure, di segni, si scoprirà invece altrettanto se non più ricca della presunta ricchezza del mondo umano” (Grazioli, cit., p. 114)20. Per quello che riguarda il rapporto con la cenere, altro grande attore di processi e trasformazioni non direttamente inerenti all’umano, pare di poter dire che la polvere e la cenere si spartiscono i due grandi ambiti della “morte naturale” e della “morte violenta”. Se è nell’aria la polvere si apparenta al fumo e ai gas; ma dal fumo e dalla cenere si distingue proprio come resto di operazioni che non coinvolgono il fuoco. Se la polvere è una materia dinamica, incessantemente disponibile a un flebile movimento, una volta terminata la combustione la cenere è un resto inerte e più concentrato. La polvere si stacca e si accumula, si posa e si rialza, arriva su tutto e per tutti, ma con un ritmo flemmatico. La cenere al contrario è l’esito di un processo intenso e molto più rapido di depurazione brutale, al termine del quale potremmo dire che “giace”. La polvere è un residuo tanto orizzontale quanto verticale, mentre la cenere è una conseguenza, un cascame della fiamma, e quindi orientata dall’alto verso il basso. Come residuo, infine, la polvere è un insieme di frammenti che provengono da qualcos’altro, ormai assente, e così anche la cenere. Soltanto che se la figura tipica della cenere è un mucchio, un cumulo, una presenza insomma vivida in termini di quantità e densità, la polvere al contrario è più legata all’assenza, a ciò che non si vede. Artisti come Urs Fisher (Untitled hole 2007), Eduardo Basualdo (La caída 2021), Lee Bae (Promenade 2019), il già citato Daniel Arsham (Fictional Archeology 2015), Phoebe Cummings (Flora 2010) hanno lavorato con la cenere – o il carbone, suo parente stretto, sostanza intermedia tra il legno e la cenere. Sono opere che sottolineano questo aspetto più “violento” e definito della cenere rispetto alla polvere (ricordando anche la parentela tra carbone e grafite, che riattiva il circuito tra materia e materiale da disegno)21. Non sorprende, d’altra parte, che l’aspetto di residuo effimero e ‘neutrale” della polvere ordinaria possa aver avuto ammiratori anche in epoche più lontane. Grazioli vi annovera per esempio lo scrittore decadente J. K. Huysmans, poeta di un inno alla “buccia dell’abbandono”: “La polvere è una gran bella cosa. Oltre ad avere un gusto di vecchissimo biscotto e un odore avvizzito di antichissimo libro, è il velluto fluido delle cose, la pioggia fine e asciutta che rende anemici i colori troppo forti e i toni violenti. È la buccia dell’abbandono, il velo dell’oblio22. Ma non è meno interessante una lettura del ruolo della polvere nelle opere di Jean Baptiste-Siméon Chardin, maestro settecentesco della natura morta, in cui Grazioli (cit., pp. 35-36) intravede una poetica della pace domestica, del piccolo e dell’inutile. Qui la polvere è una “materia del silenzio”, circonda gli oggetti producendo un’atmosfera molto particolare, si fa, per Grazioli, addirittura segno di un “rallentamento della pittura”, come se questo residuo “causasse attrito sulla tela per la stesura del colore, o per lo sguardo che indugia” (ibidem). 20 Sono suggestive e molto chiare le parti in cui Dubuffet si lamenta del ruolo dell’essere nel pensiero occidentale: tra le nozioni il cui fondamento si trova più gravemente compromesso nel nostro gioco vi è quella di essere […] cosa distingue un essere da un fatto? Che un uccello, un albero, un ciuffo d’erba, a rigore anche una nuvola – che pure sono oggetti di breve durata ed aspetto più o meno cangiante – siano degli esseri, nessuno, che io sappia potrà negarlo. […] Ma che dire dell’essere momentaneo e mobile – l’onda che per un attimo forma il mare al largo: è un essere? Il vortice che si produce in un punto del torrente, laddove l’acqua è meno profonda, è un essere? L’ombra del passante è un essere come lo è il passante stesso? (Dubuffet, cit., p. 161). 21 Ringraziamo Gianfranco Marrone per una nota critica, secondo cui la contrapposizione proposta tra polvere e cenere non funzionerebbe per esempio nel caso di una favola come quella di Cenerentola. Si possono tuttavia fare due considerazioni. 1) Quella della protagonista della fiaba è una caratterizzazione figurativa che rimanda di fatto a una vicinanza con il basso e l’insulso – tale per cui per la nostra proposta Cenerentola è un ‘attore della polvere’ piuttosto che un ‘attore della cenere’, e si potrebbe soprassedere sul nome del personaggio. 2) Ci sono senza dubbio discorsi – per esempio l’intero lavoro artistico di Anselm Kiefer – dove la contrapposizione tra polvere e cenere viene meno, perché entrambe le sostanze sono riunite come iponimi della sostanza che compone il suolo, cioè di una terra come iperonimo. 22 Così recita un passaggio di un romanzo di Huysmans, L’abisso (Là-bas, 1891, pp. 44-45), citato da Grazioli (cit., p. 53). 186 2.3. Un infiltrato Alle prime due serie classificatorie che abbiamo tentato di costituire, a cui poi dovremo dare un nome, ne segue una terza di genere ben diverso. Una presa in conto degli aspetti timici, che nel caso della polvere ordinaria, sono, oggi, in senso comune, nettamente negativi. Il saggio di Amato si occupa del modo in cui il “nuovo” mondo della microbiologia pasteuriana ha trasformato la polvere, associandola, molto presto, a qualcosa di contaminante e indesiderato. Agente chiave di questa trasformazione è stata senza dubbio “una teoria microbica che affermava che tutto, financo la polvere sulla capocchia di uno spillo, abbondava di microrganismi”, in modo tale da concepire “tutti i tessuti viventi come un permanente campo di battaglia tra microrganismi, dai parassiti ai batteri ai virus ai fagociti” (Amato, cit., p. 95). Lo stesso autore prosegue riflettendo tuttavia su come nuove minacce legate al piccolo e all’invisibile – la radioattività dopo Chernobyl, le piogge acide, oggi il particolato atmosferico –, la nascita di svariati fronti ecologisti in Occidente, e il progresso medico e scientifico, abbiano abbassato il livello di pericolosità della polvere ordinaria. Circa cento anni dopo la scoperta dei germi, la polvere si è trasformata in un elemento portatore di valori disforici in senso morale, più che medico-igienico. Grazioli discute il “più che perfetto” della morale borghese23 che si è fatta interprete di queste forme simboliche: la polvere è ostacolo al perfetto scorrimento delle cose, all’assoluto incastro degli elementi, al perfetto funzionamento della macchina. Nel frattempo le macchine che eliminano la polvere si sono moltiplicate e perfezionate, anche perché la polvere stessa si è complicata e modificata diventando sempre più invisibile e subdola. La storia della pulizia, del sapone, dello shampoo, del lucido da scarpe, delle macchine per l’igiene, fino al cibo in scatola, è strettamente intrecciata a quella della polvere (Grazioli, cit., p. 228). Né, per parte sua, l’arte ha mancato di riflettervi (Fig. 5). In questi due esempi, tra molti altri possibili, se Bazile lavora ripulendo angoli di percorsi espositivi, fino a farli brillare, Ross gioca a raccogliere in un cestino sui generis un campione “commovente e patetico” di una polvere legata “all’usura” e “all’incrostazione”. Una polvere che “ci mette davanti alla materialità in sé stessa in un senso quasi opposto a ciò che chiamiamo essenza, perché ci rendiamo conto che la pura materia, nelle sue ultime particelle, ci mostra la sua eterogeneità, la sua pullulazione, le stigmate dei drammi che ha attraversato”24 (Grazioli, cit., p. 246). Fig. 5 – (da sinistra) Brillance, 1981, Bernard Bazile, Fotografia a colori (© Bernard Bazile); The smallest type of architechture for the body containing the dust from my bedroom, my studio, my living room, my kitchen, and my bathroom, 1991, Michael Ross, ditale e polvere (© Musée d’art contemporain, Gand). 23 Ringraziamo Stefano Bartezzaghi per il rilievo sulla “polvere sotto il tappeto”, cioè sulla definizione metaforica di qualcosa di compromettente che “si insabbia” (cfr. anche Amato, cit., p. 28). 24 Note mutuate da Francois Dagognet, “Pourquoi une art de la poussière?” in Elkar, Latreille (1998, pp. 12-13). 187 In questo suo statuto disforico relativamente nuovo, non potremmo dire che la polvere sia repellente in senso percettivo. Se si parla di temperatura non è né calda né fredda, è neutra rispetto all’udito e al gusto, e ha un odore, sì, ma più che una vera identità olfattiva si tratta di un’aria di famiglia, un sentore vegetale-animale che spesso è già una forma di tatto: infatti la polvere solletica le narici in una congiunzione vellutata a cui spesso segue uno starnuto. In questa dimensione la polvere è la nemica dell’aria: contro la permanenza della polvere disforica, sporca, si appronta la circolazione dell’aria pulita. Rimandiamo per questo agli studi di Alain Corbin sull’aria viziata e sulla fine del XVIII secolo come momento storico in cui si elaborano norme di aereazione e disinfezione in modo congiunto: “il vascello, la prigione, la caserma, l’ospedale diventano laboratori di nuove gestualità di “sbattimento, spostamento, aereazione” che poi diverranno le norme igieniche della società igienista” (Corbin 1982, pp. 241-242). Come attore che informa, ora, un suo ruolo di Antisoggetto, la polvere è un avversario che si presenta sotto le vesti di un infiltrato. La polvere appare in silenzio, come ricordano alcuni versi di una poesia di Lucetta Frisa: “Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa/scendere al buio così non si può mandarla indietro./Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce/e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/secondo i punti di vista” (1999, pp. 24-25). La polvere si avvantaggia della nostra mancanza di attenzione; la sua “sconfitta” corrisponde spesso al momento stesso in cui la si identifica. La polvere è un attentatore imperituro, come la natura attenta alle case e alla civiltà nella vita di campagna, a cui non a caso corrisponde spesso un sistema di valori che considera sporche le piante che lasciano cadere aghi e semi sul patio di casa, e che muove senza sosta in difesa dello spazio vitale disciplinato dal lavoro degli umani. Ce lo ricorda una celebre riflessione di George Bataille, che tematizza una vittoria finale a venire, della polvere, su tutte le fatue contromisure messe in atto. I novellieri non hanno immaginato che la bella addormentata nel bosco si sarebbe svegliata coperta da una spessa coltre di polvere; non hanno neanche immaginato le sinistre tele di ragno che al primo movimento i suoi capelli rossi avrebbero spezzato. Tuttavia tristi strati di polvere invadono senza fine le abitazioni terrestri e le sporcano uniformemente: come se si trattasse di disporre le soffitte e le vecchie camere per l’entrata delle ossessioni, dei fantasmi, delle larve che l’odore tarlato della vecchia polvere sostanzia e inebria. […] Un giorno o l’altro la polvere, che non cede, comincerà probabilmente ad avere buon gioco sulle serve, invadendo con masse enormi di calcinacci gli edifici abbandonati, i magazzini deserti: in quella lontana epoca, non ci sarà più niente che salvi dai terrori notturni, in mancanza dei quali noi siamo diventati dei così perfetti contabili (Bataille 1970, p. 185). Lavorando sui rifiuti urbani, che sono a loro volta legati a un tratto disforico chiaro e noto a tutti, abbiamo parlato di valori negativi, di qualcosa con cui ci troviamo congiunti e da cui ci si vuole disgiungere (Bassano 2023, pp. 116-122). Per la polvere vale qualcosa di simile, se non fosse che la polvere non viene esplicitamente, solo, da noi, e si ingaggia con essa una lotta che in senso retorico è piuttosto quella di mantenimento dello stato di non-congiunzione. È quindi uno sporco combattibile ed invadente, che si apparenta, nel sistema dello sporco urbano, con le macchie sui vestiti, i peli dei cani, le briciole degli alimenti, il fango che si può portare in casa con le scarpe, la forfora sulle giacche – anche per il fatto banale che di tutti queste cose la polvere è composta – piuttosto che con i rifiuti solidi urbani. 2.4. Una patina, un destino Una quarta serie di considerazioni, quelle da cui di fatto siamo partiti, riguarda l’aspetto temporale e le trasformazioni attive e passive iscritte nelle sostanze. Quali sono le trasformazioni della polvere? Se anziché come punto finale di un processo, un residuo, ne osserviamo le possibilità operative, le azioni 188 che compie e può compiere, ci troviamo allora davanti ad accumuli, inspessimenti, stratificazioni, che nel tempo trasformano la polvere in sporco. In un senso aspettuale potremmo dire cioè che la polvere è logicamente una prefigurazione, un’anticipazione lenta e durativa dello sporco. Inoltre la polvere conosce anche delle trasformazioni interne, morfologiche: può infatti strutturarsi in ammassi lanuginosi e un po’ più pesanti, quelli che chiamiamo “gatti” di polvere. In senso esterno, e nella lunga durata, la polvere conferma l’analisi di Jacques Fontanille (2001, 2004) sul rapporto tra superfici e corpi delle cose: la polvere nasce come patina , cioè si posa e si fa pelle degli oggetti, ma nel tempo e con l’accumulo si trasforma in corpo essa stessa, si con-fonde, in un altro corpo di qualsiasi tipo, in una densità compatta e aggregante, disponibile a essere rivestita esteriormente da altre patine. Attraverso questo passaggio inesorabile è un’istanza che ha a che fare con il destino e parla della stessa circolarità dei processi di strutturazione e disintegrazione del precetto biblico – polvere eri e polvere tornerai. Fig. 6 – Élevage de poussière, Man Ray, 1920 (© Centre Pompidou, Paris). La sua particolarità si vede bene se la paragoniamo ad altre patine, la ruggine e tutti i derivati dei processi di ossidazione, il grasso cutaneo, il cerume, la muffa, il muschio. La ruggine e i processi di ossidazione sono trasformazioni minerali, mentre le patine della pelle, il muschio e la muffa hanno a che fare con corpi vegetali e animali, e negli ultimi due casi, muffa e muschio, sono secrezioni vive, che generano altri esseri viventi. La polvere è curiosamente trasversale ai due casi, perché raccoglie elementi inerti ma è anche un ambiente vitale, come detto, per una classe di viventi. Mentre per tutte le altre patine le sostanze in oggetto emergono dall’interno della materia o si stratificano a partire dalla stessa superficie dove si sono sempre trovate (così le spore della muffa e dei muschi), sono cioè isotrope, la polvere è allotropa, o meglio allotopica, non appartiene a nessun corpo in particolare, né per contiguità spaziale né per sviluppo organico. Ma li tocca tutti, nessuno escluso e nessuno più specificamente. La polvere è una “massa” insieme ubiqua e quasi amorfa, lenta e implacabile. Tutto il saggio di Grazioli declina, di fatto, questo ultimo aspetto. Un illustre “esponente radicale” di una lettura filosofica della polvere come destino 25 è Goethe, che nel Faust arriva a descrivere “uno scrittore fatto di polvere”, condannato, cioè, a un’infelicità data dalla propria natura infima e limitata, e dall’essere “schiacciato da un accumulo di accumuli”, cioè i libri, l’erudizione, sui quali – mise en abyme – a sua volta si accumula la polvere. In secondo luogo è messo in gioco un profondo legame 25 Grazioli articola ancora oltre i collegamenti tra polvere e Romanticismo, discutendo separatamente il successo di un’estetica del pittoresco in cui il decadimento e le cose misere hanno un grande valore (cit., pp. 41-43). 189 tra fotografia e polvere. Come l’attimo, l’istante che la fotografia coglie, passa per sempre e già dopo la sua fissazione in immagine non esiste più, altrettanto gli oggetti, “i luoghi, le opere della natura e dell’uomo, che cambiano, si consumano, sono minacciati di sparire per sempre, trovano nell’immagine fotografica l’ultima risorsa figurativa per essere registrati e tramandati al futuro. Tutto, si potrebbe in fondo dire, è in questo senso polvere per la fotografia” (Grazioli, cit., p. 44). Ancora, e più specificamente, nell’esempio clou della Figura 6, nella foto cioè che Man Ray scattò al Grande vetro di Marcel Duchamp, la polvere è un grande traduttore, simbolo del ready made, in quanto aperta a tutte le forme , e nello stesso tempo capace di conservare l’impronta di ciò che, metaforicamente, è stato, senza perdere niente. Come un “immenso deposito o un’immensa matrice virtuale di ricostruzione” (Barone 1999, p. 296). Tutto, della realtà, anche la polvere, attraverso la fotografia può diventare ready made (Grazioli, cit., p. 70). Infine, vale la pena menzionare un ultimo caso, il lavoro di un artista francese, Robert Filliou, che “chiude” per certi aspetti un cerchio legato al destino. Attraverso il gesto di Robert Filliou, infatti, la polvere dialoga nel modo forse più didascalico con il senso stesso dell’operazione artistica, con il gesto dirompente, innovativo, che poi sarà superato, neutralizzato, dimenticato (Fig. 7). Fig. 7 – Poussière de la poussière, (multiplo di opera in serie), Robert Filliou, 1977 (© Robert Filliou). Filliou infatti gioca con il gesto di Duchamp – spolverando lui e molti altri illustri artisti ospitati dalle collezioni del Louvre e del MOMA – e riponendo poi il panno con la polvere in una scatola di cartone. La dicitura comune a tutta la serie, oltre a una foto dell’artista nell’atto di pulire la tela, è questa iscrizione: “The Eternal Network presents: Robert Filliou, Poussière de la poussière, de l’effet” seguita dal nome dell’autore e dal titolo dell’opera spolverata scritti a mano. In questo gioco, che Grazioli definisce secondo l’idea dell’“antimuseo”, chiaramente la polvere è simbolo della fine, della decomposizione e della morte. La polvere si posa sugli oggetti che non attirano più la curiosità, che restano abbandonati dall’utilizzo, dal disinteressamento. Di polvere si copre il passato che non stimola più, che è chiuso in un contenitore, in un archivio, in un’istituzione che lo conserva senza vivificarlo. La polvere abbonda nelle biblioteche, nelle pinacoteche, nei musei di ogni tipo, sulla cultura pedante, sulla sterile erudizione, sul capolavoro dimenticato (Grazioli, cit., p. 156). 190 3. Trasformazioni sostanziali e temporalità Nelle sue specificità – non ne abbiamo menzionate che alcune – la polvere ordinaria è una sostanza tra altre sostanze. In merito ad esse, in primo luogo, si è tentato di mettere a fuoco il fatto che assistiamo a trasformazioni e a processi che si svolgono nel tempo, che si tratti di ruggine, sangue, diossine, ghiaccio, mercurio, o, appunto, polvere. Non soltanto cioè la polvere riguarda il passato e il futuro, si addensa e stratifica, ma è stato possibile parlare anche di un’“entità” che ci tocca con un suo modo pruriginoso, che avanza, che appare, che viene rimossa, che si sposta, si alza e si posa, è spostata e attratta. Più in generale, è parso plausibile articolare, in senso provvisorio, quattro dimensioni per l’indagine semiotica del senso delle sostanze. Qui per la polvere: 1. uno statuto differenziale in senso figurativo: la polvere come tritume; 2. uno statuto differenziale in senso figurale: la polvere come residuo; 3. uno statuto timico-passionale: la polvere quale “infiltrato”; 4. uno statuto aspettuale: la polvere come una patina e un destino. Il che richiede senza dubbio qualche chiarimento. La prima serie di considerazioni sulla polvere come tritume, che chiamiamo in modo provvisorio “figurativa”, cerca di dialogare con lo schema di Floch (1995) rispetto alla tassia . Come noto, Floch aveva derivato l’idea di prevedere una categoria analitica denominata tassica dal “metodo” del Greimas “lessicografo”. Infatti, in Del senso II, Greimas aveva riflettuto sulla descrizione del termine “automobile” considerando l’oggetto lessema come “insieme di virtualità” organizzate internamente. Per il semiologo lituano queste virtualità non erano altro che “valori” a cui l’oggetto offriva uno “spazio in cui fissarsi e riunirsi” (Greimas 1983, pp. 19-20). In quanto valori, infine, avevano giocoforza uno statuto posizionale e differenziale. In questo senso, la componente tassica della definizione del termine “automobile” definiva un’assiomatica delle differenze e delle relazioni, perché permetteva di tracciare catene, o famiglie di oggetti: “una componente tassica deve rendere conto, attraverso i tratti differenziali, dello statuto di automobile come oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo” (ibidem ). Lo sviluppo di questa idea da parte di Floch consiste nel collocare l’Opinel tra gli utensili e le armi a mano, e via via definirne i rapporti con sciabole e pugnali, con le lame di altri strumenti da taglio, con tipi diversi di gestualità percussive, con altri coltelli pieghevoli. Floch ha la premura di ammettere che la trattazione non è esaustiva, e che anche solo limitandosi alla famiglia dei coltellini a molla, l’impresa di ritracciare i loro tratti differenziali in senso tassico richiederebbe “un’intera opera”. Da un punto di vista filosofico, si tratta con tutta evidenza di un eufemismo: è la natura categoriale dei concetti stessi, infatti, a prevedere una catena di connessioni enciclopediche infinitamente percorribile, come Umberto Eco ha saputo insegnare. Tuttavia, la “messa in moto” delle relazioni tassiche appare un passo imprescindibile anche nel caso delle sostanze: la serie che abbiamo tratteggiato rispetto al “tritume” si rivolge appunto a percorsi di flessione enciclopedica di una certa “entità” culturalmente determinata, qui la polvere. Se anziché di polvere, avessimo cercato di trattare di legno, per esempio, allora si sarebbe trattato di riarticolare le varianti degli usi della sostanza “legno” attraverso una ricerca su Google, il mercato antiquario, una visita da Bricoman , le fiabe, la fisica dei materiali etc. Va notato che quest’approccio permetterebbe di considerare insieme le navi omeriche e Pinocchio, per il legno, o la chirurgia plastica e i polimeri complessi, se tentassimo, con un altro esempio, la stessa via rispetto alla plastica (cfr. la nota numero 4, supra, p. 1). Come abbiamo cercato di mostrare, vari tipi di polveri, cioè di tritumi, si legano alla polvere in un’articolazione di unità sociali apparentate, portatrici di valori strutturanti secondo i tratti semantici del culturale vs naturale, marcato vs non marcato, omogeneo vs eterogeneo, eccetera. La seconda dimensione, quella chiamata “figurale” è anche quella su cui persistono più dubbi. Rispetto al modello di Floch potremmo indicare una corrispondenza in termini di componente funzionale mitica. 191 L’Opinel, concludeva Floch nella sua analisi, è uno strumento identitario, il coltello del bricoleur, nel senso che il suo proprietario lo usa per “esprimersi e realizzarsi”. Nel progetto che non realizzerà mai come l’aveva pensato, il suo utilizzatore non può che mettere qualcosa di sé stesso. In modo parallelo […] questo semplice “coltello pieghevole” di faggio e di acciaio dimostrerà anche il sapere e la cultura del suo utilizzatore: occorre più savoir fare per servirsi di un utensile semplice che il contrario, come sottolinea Lévi Strauss (Floch, cit., p. 222). Sono righe e pagine celebri, che mostrano il modo in cui uno sguardo semiotico può pensare con grande profondità insieme, in accordo con un’antropologia delle tecniche, innestandovi nel contempo una riflessione fenomenologica. Tuttavia, quando ci si allontana dal caso di Opinel e si analizzano oggetti di altro tipo, l’idea di funzione mitica è talvolta problematica. Da una parte soffre una certa semplicità, che si constata per esempio nel caso di artefatti ipercomplessi. Quando si è davanti all’automobile da cui partiva Greimas 26, come gerarchizzare la sua importanza come status symbol, la capacità di un’auto di valere come un luogo che protegge dalle intemperie negli spostamenti – fino a renderla un quasi-spazio, più che un artefatto – e ancora le “connotazioni mitiche” legate all’automazione, alla velocità, o al contrario all’abitabilità che suggerisce il sostantivo abitacolo? Dall’altra parte l’idea di funzione mitica è improduttiva se si giunge alle questioni che interessano le sostanze, dato che esse, considerate come nodi di relazioni e come insiemi processuali e temporali, non possono avere alcuna funzione in assoluto, né pratica né mitica. Per questo motivo, abbiamo preferito, almeno provvisoriamente, il riferimento a una dimensione “figurale”. L’abbiamo fatto nel solco di alcune considerazioni di Michel Pastoreau sul legno, contenute in Medioevo simbolico . Qui lo storico ricorda che nell’immaginario europeo tra i secoli XI e XIV il legno era la “materia prima”, spesso in testa alle enumerazioni dei materiali lavorati dall’uomo. In latino medievale come nel latino classico il termine materia indicava il legno da costruzione, opposto a lignum, il legno da riscaldamento. Così, per estensione, “materia” è divenuto in seguito il nome di qualsiasi materiale, incluso l’iperonimo della “materia in sé”. Da questa linea di discendenza provengono tanto “materiale” quanto “materialismo”. Ma l’elemento più interessante dello studio di Pastoreau è la tesi secondo cui l’immaginario del Medioevo avrebbe pensato il legno come “quasi vivo”, come simile a un animale. Il legno “muore, soffre malattie e difetti, cambia aspetto a seconda della pezzatura”. Nelle superstizioni medievali che mettevano in scena statue che parlavano, si spostavano, sanguinavano e versavano lacrime, occorrevano sempre statue in legno, mai in pietra. Alcuni autori sottolineano il carattere antropomorfo non soltanto dell’albero ma anche del legno, materiale che come l’uomo possiede vene ed umori, che si anima per l’ascesa della linfa, contiene una gran quantità d’acqua, vive in stretta relazione con il clima, i luoghi, il ritmo del tempo. Il legno prevale sulla pietra, anch’essa associata al sacro, ma inerte, rozza, e immutabile.[…]. Poi si oppone in maniera più violenta al metallo, concepito quest’ultimo sempre con tratti infernali. Il metallo è strappato alle viscere della terra e poi trattato al fuoco (il grande nemico del legno). Prodotto dalle tenebre del mondo sotterraneo, il metallo è il risultato di un’operazione di trasformazione che ha qualcosa a che vedere con la magia (Pastoreau 2004, p. 74, corsivo nostro). Con una scelta lessicale un po’ azzardata, nella citazione Pastoreau definisce la “vita” del legno come un suo carattere “antropomorfo”. Non è chiaramente questo l’elemento semiotico in gioco, ma piuttosto un essere animato del legno, la proprietà di riuscire a esprimere una serie di trasformazioni interne, timicamente definite. Sembra di poter dire anche che una simile animatezza è ancora oggi un tratto identitario del legno: si parla del legno di un pavimento a parquet come “materiale caldo”, si 26 Fermo restando il salto “radicale” costituito dall’analisi di Floch, dal momento che Greimas si occupava dell’automobile lessema, non dell’artefatto veicolo. 192 apprezza il cambiamento nel tempo di un tagliere o di una ciotola in ciliegio, e un armadio di pino cembro, o cirmolo, può emanare ancora un profumo intenso a trecento anni dalla sua fabbricazione. Pare abbastanza plausibile, cioè, sostenere che nel legno vi sia una sorta di carattere iperonimo che lo colloca tra i materiali vivi, e al quale carattere qui ci riferiamo, appunto, con il termine “figurale”. Questo tipo di determinazione sintetica del “modo di essere” è più astratta di una vera e propria figura, ma nondimeno generalizzabile al legno come sostanza. In tal senso, se prendessimo per esempio la plastica analizzata da Barthes e la accostassimo ai modi assai icastici con cui significa nelle Combustioni di Alberto Burri, potremmo rintracciare questa “sintesi figurale” nel suo essere un materiale multiforme. Analogamente, potremmo procedere per sostanze come le diossine – a cui è ascrivibile, crediamo, una generale per quanto astratta velenosità – ed è proprio in questa direzione che abbiamo provato ad articolare lo statuto “figurale” della polvere ordinaria tra le sostanze residuali. Sulla terza dimensione, che abbiamo legato a uno statuto “timico-passionale”, l’inquadramento sembra finalmente meno spinoso. Le sostanze, gli elementi hanno infatti i loro tracciati timici di significazione, più o meno ampi e variabili, più o meno complessi o semplici. L’idea di poter ricostruire una serie di valorizzazioni timiche, rispetto alle sostanze, ci ha permesso per esempio in questa sede di iniziare a esplorare tutto il tema delle valorizzazioni negative, cioè della repulsione timica che accompagna spesso stati o trasformazioni in cui si realizza una devalorizzazione cognitiva. La lotta contro la polvere come sottospecie dello sporco è solo un esempio tra molti tipi di “relazioni disgustose” che intratteniamo quotidianamente e da un punto di vista teoretico avvicinarsi a questi problemi è forse di particolare urgenza. A nostro parere, infatti, nello sviluppo del metalinguaggio l’intera sfera della valorizzazione negativa risulta un luogo teorico adombrato, per ragioni ideologiche e storiche, in favore di una concezione dei valori come positivi. Permane tuttavia un’incertezza sulla distinzione tra statuto “timico-passionale” e statuto “aspettuale”, cioè sulla pertinenza di mantenere separate le ultime due dimensioni di cui si è discusso rispetto alla polvere. Abbiamo trattato in modo autonomo lo statuto di una sostanza che viene percepita come “infiltrato” – appunto definendola secondo una dimensione timico-passionale, e quello di una sostanza “patina”, che intrattiene un rapporto cruciale con il passare del tempo e la terminatività. In effetti, come già detto, siamo partiti proprio dall’ultima dimensione, ovvero dall’urgenza di collocare la polvere ordinaria rispetto al tempo, e definirla in senso trasformativo e processuale. A questo scopo, sembra di poter dire che l’idea dell’aspetto come strato della significazione che dipende da un attante osservatore – nozione ricavata da Greimas dai tempi verbali – resti la più efficace. Tuttavia, nelle pagine precedenti è emerso in modo chiaro come questo statuto di patina della polvere ordinaria non sia il solo che coinvolge trasformazioni. Anche descrivendo lo statuto timico-passionale abbiamo avuto a che fare con trasformazioni narrative a tutti gli effetti: congiunzioni contaminanti, disgiunzioni purificanti. Tanto che per la polvere si potrebbe parlare di due condizioni incoative e terminative, cioè del suo “più o meno gradito” e “più o meno concesso” apparire, e del suo destino inesorabile di progressivo inspessimento e accumulazione. Si potrebbe cioè forse mantenere l’ipotesi di una dimensione aspettuale da sviluppare meglio in futuro, considerando invece l’aspetto timico come trasversale a tutti e tre gli altri statuti discussi – secondo l’idea che in senso fenomenologico un orientamento forico nutra in nuce qualsiasi processo di valorizzazione. Infine, vorremmo comunque sottolineare la rilevanza di poter pensare, con Semprini, il legame stringente non solo tra sostanze e tempo, ma anche tra artefatti e tempo, e tra materiali e tempo. Come visto, in alcuni casi uno “statuto aspettuale” può essere quello deputato a far emergere aspetti dirimenti della significazione di una sostanza, cosa che avviene se si analizza un esplosivo, la neve, o appunto la polvere. Ma una volta discusse simili questioni di temporalità in merito alle sostanze – sostanze “liberate” dalla funzione strumentale – questo approccio analitico può essere esteso a materiali e artefatti. Si tratta di costituire rispetto ad essi un modello – sicuramente migliorabile, senza dubbio provvisorio – di possibili “punti di fuga”. Insomma, dire che il senso delle cose è determinato 193 in modo dirimente da una dimensione aspettuale significa tenere insieme problemi di patina, di ciclo di vita degli artefatti, dinamizzare finalmente una presa analitica che scavalchi l’idea di una “sorta di istantanea” non solo dello stato di una sostanza ma anche dell’uso di un artefatto, superando nel contempo l’idea di funzione come descrizione dei qualia in senso aristotelico. 194 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Amato, J., 1999, Dust, Berkeley, University of California Press; trad. it. Polvere, Milano, Garzanti 2001. Barone, P., 1999, Età della polvere, Venezia, Marsilio. Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi 1974. Bassano, G., 2023, Verso. 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Porte, ripostigli, soffitte e scantinati. L’architettura e la partizione del sensibile Ramon Rispoli Abstract. This article delves into the concept of dirt, its management, and its relationship with architectural spaces. Drawing from anthropologist Mary Douglas’s perspective, dirt is viewed as something inherently “out of place”, intrinsically connected to the idea of order and its disruption. Accordingly, cleaning is considered a domestic ritual of purification, serving the purpose of constantly reestablishing an order that remains under threat. The study also explores how architecture operates as a “technology of partitioning”, delineating the boundaries between what is visible and invisible, exposed and concealed. It investigates the significance of architectural elements, such as doors, in shaping the politics of spaces and their organization. Furthermore, the article examines the association between the notion of dirt and time, shedding light on the role of maintenance practices that often remain inconspicuous, both within the realm of architecture and art. “Spazzare via la polvere dal pavimento di una stanza, spargerla in un’altra stanza, così non sarà notata. Continuare ogni giorno” (Kaprow, cit. in Obrist 1997, p. 87). Queste sono le istruzioni comunicate nel 1995 dal celebre artista nordamericano Allan Kaprow al curatore Hans Ulrich Obrist per mettere in atto la sua performance, nell’ambito del progetto espositivo itinerante Do it curato proprio da Obrist. Kaprow sosteneva che in fondo pulire non significa nient’altro che spostare ciò che si considera sporcizia da uno spazio a un altro, sottraendolo alla vista (Fig. 1); e l’“altra stanza” a cui faceva riferimento è qualsiasi spazio su cui possa chiudersi una porta: uno sgabuzzino, un ripostiglio, o semplicemente il mobile della cucina in cui è collocato il contenitore dell’immondizia. Fig. 1 – Street Cleaner, Banksy. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Come affermava l’antropologa inglese Mary Douglas, infatti, la sporcizia è prima di tutto qualcosa di fuori posto, il che implica sia l’esistenza di un ordine specifico sia la sua contravvenzione. Quindi, ad esempio, le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove normalmente ci sono gli abiti, e così via. In breve, il comportamento che noi seguiamo riguardo alla contaminazione si fonda su una reazione negativa verso ogni oggetto o idea che può confondere o contraddire le classificazioni a cui siamo legati (Douglas 1966, pp. 77-78). Un’idea condivisa anche dall’antropologa italiana Carla Pasquinelli, secondo cui lo spazio domestico è il “luogo della permanenza e dell’ordine che ci sforziamo di mantenere il più possibile uguale a sé stesso per proteggerci da un esterno demoniacamente ostile” (Pasquinelli 2004, p. 11). Visto da questa prospettiva, il pulire è quindi “una sorta di rito domestico di purificazione che riscatta dalla contaminazione, dovuta a una presenza indesiderata o troppo ravvicinata, comunque sentita come invasiva” (ivi, p. 47), e che permette la ricostruzione incessante di quell’ordine domestico – una sorta di kósmos personale – che è oggetto di continue violazioni dall’esterno. Pulire è quindi un’attività topologica, che riporta fuori ciò che è entrato dentro e non merita di starci: “l’ordinare e il classificare hanno una dimensione spaziale: questo va qui, quello va lì. Tutto ciò che non è spazzatura appartiene alla casa; la spazzatura va fuori. Le categorie marginali vengono riposte in luoghi marginali (soffitte, scantinati, fabbricati annessi) per essere usate, vendute o semplicemente date via” (Strasser 1999, p. 6). Lo storico e teorico dei media Bernhard Siegert sottolinea come la distinzione tra dentro e fuori sia sempre stata “legata a modi di operare la distinzione tra zone sacre e profane, e questa potrebbe forse essere la prima di tutte le articolazioni culturali dello spazio” (Siegert 2015, p. 195). In tal senso le porte sono, a suo parere, proprio quegli elementi allo stesso tempo materiali e semiotici capaci di creare un dentro e un fuori. Ma più in generale, le porte – così come altri elementi architettonici, tra cui muri e solai – sono dispositivi capaci di articolare quella che il filosofo Jacques Rancière (2000) ha definito una “partizione del sensibile”: stabilire, cioè, il posto che le cose possono occupare, e la visibilità che ad esse può essere o meno accordata. Ciò che sembra essere solo una questione di estetica è quindi, allo stesso tempo, una questione di politica. Secondo Rancière, infatti, il potere e la politica hanno molto a che vedere con quest’attività di ripartizione, di “ordinamento” di spazi, tempi e modi di visibilità: tracciare – o viceversa, mettere in discussione – la linea di separazione tra chi e cosa merita di essere dentro o un certo spazio e chi e cosa viene lasciato fuori, chi e cosa merita di essere visto e chi e cosa deve invece rimanere invisibile, chi si può ascoltare e chi non ha voce. Ed evidentemente, la polvere e ciò che serve per rimuoverla – così come anche chi ha normalmente il compito di farlo – non occupano certo una posizione di riguardo nelle gerarchie del visibile, per le connotazioni di cui normalmente si caricano. In un contributo pubblicato recentemente su e-flux Architecture, il teorico dell’architettura Mark Wigley (2022) riflette su come un edificio sia metafora del corpo umano, nella misura in cui in entrambi – edificio e corpo – è costantemente all’opera un tentativo di occultamento dei meccanismi interni: un tentativo ossessivo ma mai del tutto efficace, per tutte le forze (o per tutti gli anti-programmi, per dirla con Bruno Latour) che si oppongono ad esso. Nel corpo ci si riferisce soprattutto all’apparato digerente con i suoi processi metabolici e le sue escrezioni, e qui il tentativo di occultamento è condotto attraverso un vasto arsenale di strumenti materiali e/o semiotici: strati di abbigliamento, cosmetici, salviette, assorbenti, lozioni, norme di 198 comportamento sociale. Bisogna nascondere tutto ciò che è in qualche modo connesso alla digestione, e nello specifico, all’apparato digerente: questo canale di “esterno” che ci attraversa il corpo, e che ci intreccia simbioticamente con ciò che ci circonda e che rende possibile la vita. E proprio come il corpo umano, secondo Wigley l’architettura è un complesso sistema digestivo che produce un senso dell’interno distaccato dall’esterno dissimulando tutte le pieghe, le liquidità interiori, i suoni, gli odori e i movimenti anche del più semplice degli edifici. I limiti esterni – apparentemente molto ben definiti – di una struttura, e tutte le sue divisioni interne tra stanze o piani, sono un effetto dell’occultamento della permeabilità e della continua trasgressione di quegli stessi limiti, proprio come il corpo umano culturalmente visibile non è che una maschera delle liquidità che lo rendono possibile. […] gran parte dell’abilità professionale degli architetti consiste nel reprimere l’universo della digestione facendo apparire gli edifici più semplici, fermi, solidi, asciutti, silenziosi e impermeabili di quanto non siano, nascondendo tutte le reti di tubazioni, valvole, sfiati, filtri, serbatoi, pompe e membrane con i loro continui flussi interni (Wigley 2022, trad. mia). “Non c’è niente da nascondere, solo tubi”, affermava la collaboratrice domestica Guadalupe Acedo, parlando di cosa ci fosse al di sotto di una botola del pavimento della “Maison à Bordeaux” di Rem Koolhaas, nel celebre documentario del 2008 Koolhaas Houselife (Fig. 2). Come se i tubi – le “interiora” dell’edificio – non fossero proprio ciò che bisognava nascondere. Fig. 2 – Locandina di Koolhaas Houselife, di Ila Bêka & Louise Lemoine, Francia 2008. Ma nelle riflessioni di Wigley c’è spazio anche per la polvere: Tutti i tessuti e le superfici tra il corpo e l’edificio, e quelli dell’edificio stesso, diventarono nel tempo minacce escrementizie che dovevano incessantemente essere purificate, sostituite o rimosse. La polvere, ad esempio, era vista come materia organica che doveva essere continuamente espulsa, insieme a tutte le modanature, i cornicioni e gli ornamenti che la attraggono. Qualsiasi complessità ornamentale era una minaccia per la salute, perché tratteneva le escrezioni umane e rendeva difficile la pulizia. Le superfici semplici e lisce, invece, non offrono 199 una casa agli escrementi; al contrario, rendono possibile la loro espulsione immediata. L’edificio sano espelle ciò che lo stesso essere umano espelle, come se i limiti del corpo si estendessero fino a coincidere con quelli della casa. O, per dirla al contrario, l’edificio sano non racchiude il corpo ma lo ‘restituisce’ all’esterno (Wigley 2022, trad. mia). Ad avere un ruolo cruciale nella genesi di questa concezione dello spazio interno fu la celebre infermiera inglese Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna, che nel 1859 dedicò alcuni passaggi cruciali del suo libro più famoso, Notes on Nursing, alla questione della salubrità delle case. Salubre per Nightingale era appunto uno spazio fatto di aria pura, drenaggio efficiente, pulizia e luce – quelli che saranno, qualche decennio più tardi, tra i principi cardine dell’architettura moderna – ma soprattutto uno spazio scevro di qualunque tipo di porosità, crepa, fessura, complessità e intricatezza: scevro, cioè, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo e misura trattenere residui prodotti dal corpo umano (Nightingale 1859). I corpi dovevano essere isolati dalle loro stesse escrezioni. Il paradosso quindi è che nella visione di Nightingale – e successivamente nella visione igienista moderna – l’interno più sano per l’essere umano era proprio quello meno influenzato dall’umano stesso. In ciò Pasquinelli ha visto addirittura una sorta di principio metastorico, valido al di là delle differenze geografiche e culturali: al di là dei tanti criteri usati per mettere in ordine la casa […] c’è comunque qualcosa che è comune a tutti a dispetto delle rispettive e spesso abissali differenze, quasi una regola universale, ed è il bisogno di cancellare le tracce del corpo. […] Il primo requisito di una casa ordinata è la sistematica esclusione di tutti quei determinati segnali visivi e olfattivi che costituiscono un ‘indebita estensione dell’organismo umano. […] il corpo quale soggetto di bisogni è quello che non riusciamo a tollerare, quel corpo che imbratta e sporca le nostre case, cui l’ordine cerca quotidianamente di porre riparo cancellandone le tracce (Pasquinelli 2004, pp. 37-38). Sia quale sia la sua origine, questa “ellissi” del corpo umano si è tradotta spesso, nella cultura architettonica tradizionale, in una rimozione di tutto ciò che allude all’ordinarietà – o all’infra-ordinarietà, per dirla con Georges Perec (1989) – del quotidiano. Nelle immagini delle architetture iconiche gli oggetti ordinari devono apparire il meno possibile: è celebre il caso di Peter Eisenman che chiese ai coniugi Frank di rimuovere la culla del loro neonato dalla House VI in occasione della visita di Philip Johnson (Till 2009); analogamente, nella serie televisiva britannica Sign of the Times prodotta nel 1991 dal fotografo Martin Parr un architetto si lamentava dei giocattoli, veri e propri “oggetti vaganti” che i bambini introducevano nello spazio da lui concepito interno mettendone a repentaglio l’ordine. Il domestico, come “lo spazio dove si concentrano abitudini, disordine, macchie […] è un affronto alla normatività degli ordinamenti architettonici. Così, nell’architettura canonica il domestico è deprivato di ogni vita; è incasellato, ordinato, messo dietro un vetro per essere ispezionato, contorto in giochi formali, tecnicizzato”; eppure il controllo è solo un’illusione, perché “le forze contingenti della quotidianità domestica sono troppo potenti per essere soppresse in quel modo” (Wigglesworth e Till 1998a, p. 9, trad. mia). Questa natura recalcitrante dell’ordinario è uno dei temi preferiti del collettivo di ricerca siciliano Living Sphere (2020), nei cui brevi divertissements audiovisivi alcune delle case più iconiche dell’architettura moderna si riempiono di panni stesi, pantofole e tavole imbandite (Fig. 3). 200 Fig. 3 – Fotogramma del video Finally at Home, Living Sphere, 2020 (© Living Sphere) Ma oltre a rimandare alla “pericolosa” insalubrità dell’organico la polvere è letta normalmente anche, e forse soprattutto, come segno di tempo: ciò che l’architettura, “arte dello spazio” per eccellenza, cerca disperatamente di cancellare o di occultare. Si pensi, a tale proposito, a ciò che scriveva nel 1977 il teorico dell’arte Rudolf Arnheim: L’architettura […] ha sempre agito come un simbolo tangibile di ciò che è dato, di ciò su cui si può fare affidamento, ma anche di ciò che deve essere considerato una condizione costante. […] L’edificio beneficia della dignità delle cose che trascendono il cambiamento”, motivo per cui “le pesanti mura di pietra dei templi, delle fortezze e dei palazzi sono sempre servite da adatta metafora del potere temporale e spirituale (Arnheim 1977, p. 166). Analogamente, Jacques Derrida ha sostenuto che è stata soprattutto la consistenza dell’architettura – cioè “la sua durata, la sua durezza, la sua sussistenza monumentale” – a fare di essa “l’ultima fortezza della metafisica” (1986, p. 69). Va da sé che, per essere “fortezze” di questo tipo, le architetture sono costrette a rimanere il più possibile stabili e immutabili: solo così saranno capaci di rappresentare ciò che è stabile e immutabile. In questa prospettiva persino la posizione degli oggetti all’interno dello spazio dovrebbe restare il più possibile fissa: l’antropologo Edward T. Hall (1966) sosteneva che le poltrone disegnate da Mies van der Rohe per i suoi interni fossero volutamente pesanti in modo da renderle difficili da spostare. Eppure, le architetture non sono mai immutabili né perfettamente stabili. Lo stesso maestro dell’architettura moderna Frank Lloyd Wright scrisse, nel 1931, che se è vero che “ogni casa è una sorta di imitazione eccessivamente complicata, goffa, pignola e meccanica del corpo umano”, è altrettanto vero che si tratta sempre di “un corpo in cattive condizioni, che soffre di indisposizione e che ha bisogno di continui ritocchi e cure mediche per mantenersi in vita” (Wright 1931, p. 65). Il già citato documentario Koolhaas Houselife è tutto incentrato su queste “cure mediche” che si dedicano a un edificio, cioè sul modo in cui si gestisce il suo rapporto con il tempo. Da un lato tutto ciò che è relativo alla manutenzione straordinaria: le vetrate si fessurano o si rompono con l’usura; l’acqua inizia a infiltrarsi in qualsiasi crepa o giunto indebolito; più in generale, tutti gli elementi strutturali o di arredo che invecchiano devono essere sostituiti, proprio perché non più compatibili con le necessità di un edificio che non può e non deve invecchiare. Oltre alle riparazioni e alle sostituzioni ci sono poi tutte le forme di manutenzione ordinaria, parimenti necessarie per l’esistenza di un edificio: attività di pulizia di routine come quelle svolte nel documentario 201 dalla collaboratrice domestica, o come quelle su cui si è concentrato l’artista canadese Jeff Wall nella sua fotografia Morning Cleaning del 1999, con un inserviente che pulisce con una spatola la parete vetrata all’interno del celeberrimo Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe. Sempre nel Padiglione di Barcellona, nel 2012, l’architetto-artista madrileno Andrés Jaque e il suo Office for Political Innovation hanno realizzato un’installazione – dal titolo Phantom. Mies as Rendered Society – che risulta interessantissima nell’economia di questa riflessione. L’obiettivo dichiarato di Jaque era infatti quello di rendere visibili oggetti e strumenti necessari all’esistenza del Padiglione, e che avevano proprio a che vedere con queste due dimensioni, ordinaria e straordinaria, della manutenzione: pezzi di ricambio come lastre di travertino e tende di velluto, ma anche spatole, aspirapolveri, detersivi, confezioni di sale per l’elettrolisi delle due vasche d’acqua. Un’operazione di “visibilizzazione” – di unblackboxing, avrebbe detto Latour (1999, p. 304) – che svela ciò che normalmente si fa di tutto per celare, relegandolo dietro la porta di uno sgabuzzino o nel sotterraneo del Padiglione, che non è caso è stato progettato e realizzato, nella ricostruzione dell’edificio del 1986, in modo tale da essere inaccessibile ai visitatori (Jaque 2019). Le pratiche di cura e manutenzione legate a questi strumenti sono indispensabili all’esistenza del Padiglione, come di qualsiasi altro edificio, al punto tale da poter essere considerate tra le sue condizioni materiali di possibilità1. Esattamente come succede alle grandi opere d’arte della tradizione occidentale come la Monna Lisa, la cui apparente atemporalità, come ha dimostrato in maniera molto efficace Fernando Domínguez Rubio (2016), è in realtà l’esito performativo di delicate operazioni di manutenzione che hanno luogo con una determinata frequenza. Eppure si tratta di operazioni e pratiche a cui molto raramente viene riconosciuta una visibilità, seppur minima, nell’ambito della storia, della teoria e della critica dell’arte, così come in quelle dell’architettura. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che più un’opera – un quadro o una scultura, come un edificio – è considerata un monumento, e più devono rimanere invisibili. C’è di più. Pratiche del genere vengono a malapena riconosciute come lavoro nel vero senso della parola, come sostengono sin dagli anni Settanta pensatrici femministe come Silvia Federici, la cui riflessione si è incentrata a lungo sul ruolo essenziale, ma quasi del tutto trascurato, del cosiddetto lavoro riproduttivo e di cura nel ciclo produttivo capitalista (Federici 2014; Duffy 2007). Torniamo alla performance di Allan Kaprow di cui si è detto inizialmente. Nel 2013 un’altra artista nordamericana, Suzanne Lacy, in collaborazione con Meg Parnell, ha offerto un’ironica reinvenzione delle istruzioni di Kaprow attraverso le lenti dell’attivismo artistico. La performance, intitolata Cleaning Conditions (An Homage to Allan Kaprow), ha avuto luogo negli spazi dell’Art Gallery di Manchester, a partire dalla sala dei pittori Preraffaelliti. Lacy e Parnell hanno coinvolto squadre di addette e addetti alla pulizia – costituite da immigrate e rappresentanti di organizzazioni sindacali – che durante l’orario di apertura2 pulivano i pavimenti del museo, ma contemporaneamente vi spargevano un’altra tipologia di “spazzatura”: volantini e stampe delle loro organizzazioni attiviste e di rivendicazione politica. Dopo la performance aveva luogo un dibattito aperto tra attivisti, amministratori locali, studenti e pubblico incentrato proprio sulle “politiche della pulizia” e di chi se ne occupa, considerando che il lavoro nell’ambito dei servizi, così come in quello dell’assistenza e della cura, è ancora oggi affidato soprattutto a soggetti marginalizzati. Una marginalizzazione che va peraltro intesa in maniera 1 L’edificio è dotato di un piano di manutenzione che funge da vero e proprio ‘copione’ per tali attività, fornendo un ampio numero di indicazioni che vanno dalla periodicità della pulizia delle vetrate alla pressione dell’acqua indicata per lavare le lastre di travertino. Anche le fodere in pelle delle poltrone “Barcelona” vengono sostituite con una periodicità predefinita, che può anche essere più corta in corrispondenza dei periodi di maggiore affluenza di visitatori (che sono soliti sedersi su di esse per qualche minuto). Queste informazioni sono state fornite da Victor Sánchez, coordinatore del team di gestione e manutenzione del Padiglione, nel corso di un’intervista condotta dall’autore nel marzo 2023. 2 Nei tempi, quindi, in cui la loro presenza era normalmente considerata “fuori posto”, per dirla nuovamente con Rancière. 202 “intersezionale”, per dirla con il termine di Kimberle Crenshaw (1989, 1991): come il risultato, cioè, dell’incrociarsi di asimmetrie di classe, etnia e genere. Ma per finire, torniamo all’architettura e alla questione centrale della visibilità. In uno dei suoi scritti che hanno come oggetto il Padiglione di Barcellona, Andrés Jaque scrive: Amministrare la percezione collettiva, fare in modo che le cose siano invisibili, o renderle visibili, creare gerarchie o metterle in discussione […]: tutte queste attività appartengono all’ambito della politica. Queste pratiche si producono attraverso l’impiego di artefatti, sistemi tecnici e dispositivi che fanno parte, a loro volta, dell’ambito dell’architettura (Jaque 2019, p. 85). Le cose occupano sempre un qualche spazio. Timothy Morton (2017), filosofo del pensiero ecologico contemporaneo, dice che le cose non si buttano mai via: si buttano al massimo sul fondo dell’oceano Pacifico, o sulla cima dell’Everest. Il che, in fin dei conti, un po’ equivale a ciò che diceva Kaprow: pulire non è nient’altro che cambiare posto a ciò che si considera sporco, magari chiudergli una porta davanti per renderlo invisibile. Sempre Jaque, alludendo a una celebre espressione di Latour, afferma “l’architettura è società tecnologicamente rappresentata” (2019, p. 26). E se è vero che oggi si stanno affermando approcci ecologici nel senso più ampio del termine, che riconoscono il ruolo giocato nello spazio architettonico da una molteplicità di “attanti” non solo umani – si pensi all’architettura cosmopolitica (Yaneva e Zaera-Polo 2017) o multispecie (Sommariva 2021) – è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi l’architettura stessa continua a essere concepita e praticata come tecnologia di partizione e ri-partizione di tempi e spazi3. È fondamentale, in tal senso, riconoscere le gerarchie di valore su cui si fondano queste topologie del dentro e del fuori, del visibile e dell’invisibile, dell’esposto e del celato. Topologie che – come si è cercato di mettere in luce – raccontano di questioni che vanno ben al di là della sola architettura. 3 Scrivono Sarah Wigglesworth e Jeremy Till, coppia di architetti britannici il cui studio coincide con la propria casa: “Ciò che sappiamo è che lavorare e vivere nello stesso edificio significa che le nostre due vite (lavoro e casa) non possono distinguersi chiaramente, ma sono inevitabilmente intrecciate”, eppure “la risposta comune di un architetto a ciò potrebbe essere: separare le due cose fisicamente; chiarire le zone; mantenere le due attività distinte; applicare ordine” (1998b, p. 31, trad. mia). Un ordine negato dal loro tavolo che allo stesso tempo è da lavoro, da pranzo, e da qualsiasi altra funzione, su cui si accumulano alternativamente piatti, planimetrie, chiavi di casa, bicchieri e posate, lettere e documenti. 203 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Arnheim, R., 1977, The Dynamics of Architectural Form, Berkeley, University of California Press; trad. it. La dinamica della forma architettonica, Milano-Udine, Mimesis 2019. Crenshaw, K., 1989, “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”, in University of Chicago Legal Forum, Issue 1, Article 8, pp. 139-167. 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Schiume, polveri, saponi: i materiali dell’igiene nell’immaginario pubblicitario Giorgia Costanzo Abstract. Through the observation of a corpus of cleaning products’ commercials – especially detergents –, the aim of the following paper is to examine if and how the material transformations inscribed in the removal of dirt contribute to the shaping of values such as purity and contamination. This work starts from the point of view of the anthropologist Mary Douglas’s idea of dirt as disorder but also from the assumption that common sense and every day practises allow Semiotics to explicit proliferations of meaning that circulate in our culture. In this sense, the research hypothesises that there are logics of cleanliness in the struggle against dirt staged by advertising, that are linked both to the materiality and consistency of dirt and to the forms of removal of impurities. La schiuma è una cosa pura come il latte purifica di dentro. La schiuma è una cosa sacra che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa una cosa sacra come la santa messa. Giorgio Gaber, Shampoo Il lavoro che segue si inserisce all’interno di un più ampio percorso di ricerca sui valori della purezza e della contaminazione. Dal momento che, come vedremo, il pulito e lo sporco sono una delle possibili manifestazioni di tale categoria, in questa sede si analizzerà con metodologia sociosemiotica un corpus di spot pubblicitari1 di prodotti per il pulito – in particolar modo detersivi –, con l’obiettivo di vedere se e come le trasformazioni materiche inscritte nella rimozione dello sporco contribuiscano alla costruzione di diverse “idee” di pulizia e di sporcizia, intese come sostanze del contenuto messe in forma dai discorsi sociali che le convocano. In tal modo, ragionando sull’apparente banalità del vivere comune, irriflesso e impensato, per far emergere proliferazioni di senso tutt’altro che scontate ed evidenti (come le mitologie del quotidiano di Barthes 1957), la ricerca ipotizza che esistano, nella lotta allo sporco, forme di eliminazione delle impurità 1 Il corpus è stato costruito alla maniera semiotica: la sua definizione non è stata guidata da un criterio di esaustività né di rappresentatività statistica quanto dall’intenzione di ricostruire sistemi di senso, forme, logiche del pulito, maniere di costruzione dell’oggetto di valore, procedure narrative legate alle trasformazioni materiche etc. È per questa ragione che i casi in analisi sono talvolta trasversali alle varie categorie merceologiche dell’igiene. In tal senso, e trattandosi di un inizio di ricerca, il corpus non è stato definito a priori, ma la sua raccolta ha preso forma a mano a mano che l’analisi andava avanti, inglobando testi a partire dal cui confronto potessero emergere le dimensioni figurative di cui si parlerà in § 2 e nei quali, in particolare, la dimensione materica della visualizzazione e della trasformazione dello sporco risulta particolarmente pertinente. Accanto ai frammenti di clip riportati nel corso dell’analisi il lettore troverà i QR code che rimandano agli spot integrali. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). e logiche del pulito legate a specifiche forme di trasformazione della materia (Bastide 1987). È per questa ragione, per il carattere dinamico e culturale delle trasformazioni che tali logiche subiscono nel tempo, che l’analisi prenderà in considerazione un certo numero di testi pubblicitari in un’ottica sia sincronica (spot 2018-2022) che diacronica (spot 1950-90). 1. Sensi del pulito Cosa vuol dire esattamente “pulire”? A consultare il dizionario (Devoto-Oli 2023), pulire è un iperonimo che include tutta una serie di azioni volte alla rimozione dello sporco e, più in generale, di tutto ciò che è “inutile, ingombrante, fastidioso”. Da un lato, pulire ha dunque a che fare con la rimozione della sporcizia in cui emerge principalmente l’idea di un’azione operata sulla superficie di qualcosa (strofinare, lucidare etc.). Dall’altro, però, l’idea dello sporco da pulire è intesa estensivamente in riferimento a tutto ciò che sta fuori posto, è un non-dover-essere lì che in qualche modo può essere perfezionato (tra i significati di “pulire” infatti troviamo anche “perfezionare, limare, rifinire”). La definizione presuppone cioè l’esistenza di un modello, un ordine delle cose che, una volta infranto, vada in qualche modo ricomposto, ed è in quella anomalia intesa come rottura di uno schema che si dà la contaminazione: “dove c’è lo sporco c’è il sistema” (Douglas 1966, p. 77), è la presenza della macchia che interrompe la continuità del tessuto pulito, è la polvere del caffè sparsa per errore sul pavimento. È l’idea dello sporco come fuori posto di Mary Douglas e il suo fondamentale Purezza e pericolo (1966), in cui l’impurità è da ricercarsi non tanto nelle cose ma nelle relazioni fra le cose che per presupposizione costruiscono certe idee di mondo, con i propri confini e un proprio ordine che viene contaminato non appena questi confini vengono oltrepassati. Per Douglas, infatti, la sporcizia comprende al suo interno ogni elemento che un dato sistema di cose del mondo rifiuta di classificare al proprio interno, ossia una relazione anomala fra cose. In questo modo: Le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove normalmente ci sono gli abiti, e così via (1966, p. 77). È evidente: il pulito, come lo sporco, posto in questi termini, ha a che fare con la posizione che diamo alle cose nel mondo, è una questione di ordine, di confini, e dunque di spazio. Non è solo un problema di relazioni fra cose, quanto di spazializzazione, di territorializzazione: lo sporco è il fuori posto, pulire è rimuovere lo sporco per rimettere le cose al loro posto. Questo emerge chiaramente dalla famosa citazione di Douglas, nella quale si parla di bagni, salotti, stanze da letto, tavole… lo sporco si definisce a partire da relazioni spaziali sopra/sotto, dentro/fuori; per cui la sporcizia manifesta di certo il sistema, ma occorre tuttavia precisare che si tratta di un sistema topologico. Non è un caso, infatti, che la pulizia sia innanzitutto un programma di rimozione dell’impurità, che presuppone il ritorno a un qualche stato di originaria purezza iniziale delle cose: d’altronde, il “pulito” è sempre privo di qualcosa, così come il “puro” si definisce sempre in termini privativi a partire da quello che non è o che non ha. La purezza, in questo senso, sembra doversi intendere come ciò che non si mischia a nient’altro, ma anche come ciò che non ha segno. Ma come si dà, allora, qualcosa come puro e qualcosa come impuro? Consumi e pratiche quotidiane articolano differentemente questi valori rendendoli concreti. Infatti, se da un lato le idee di purezza e contaminazione sono costitutivi di discorsi come quello religioso o medico-scientifico – nel quale i batteri, i microbi, i virus e in generale le regole che stanno alla base di ciò che è asettico o, al contrario, di ciò che è contaminato sono centrali nel funzionamento stesso di tale 206 discorso2–, dall’altro, tali valori si dispiegano anche nell’universo commerciale, in maniera certamente meno esplicita e dunque in qualche modo ancora più interessante. Parlare di igiene e di pulito fa venire in mente tutta una serie di pratiche della quotidianità – fare la lavatrice, lavare i piatti, spolverare, lucidare i vetri, pulire i pavimenti, ma anche farsi la doccia, lavarsi le mani, e via dicendo – e convoca anche numerosi ed eterogenei oggetti di consumo – detersivi, spugnette, saponi, igienizzanti, scope etc. – che non sembrano dirci molto più della loro stessa prosaicità. Eppure, le pratiche del pulito sono apparse oggi anche sul web e sui social network, dove numerosi utenti rendono il mondo delle pulizie una vera e propria forma di intrattenimento (video tutorial, makeover di case sepolte dalla sporcizia etc.). Pulire è oggi, più ancora che un basilare bisogno di igiene, un vero e proprio dovere sociale che ci parla del modo in cui, nella nostra cultura, vengono messi in forma valori più ampi e socialmente rilevanti come rischio/sicurezza, salute/malattia, natura/cultura e, di specifico interesse in questo lavoro, puro/impuro. Dal momento che queste idee, come abbiamo visto, non sono ontologiche ma sempre storicamente e culturalmente situate, da una prospettiva semiotica ciò significa che la purezza e l’impurità non sono tratti intriseci delle cose, né esistono come puri concetti, non essendo propri di per sé né del piano dell’espressione (E), né del piano del contenuto (C). Il senso del puro e dell’impuro si danno piuttosto a partire dalla relazione fra questi due piani e sono dunque da intendersi come effetti di senso (C) che si concretizzano a partire da una serie di tracce espressive differenziate (E) che, chiamando in gioco specifiche pertinenze, contribuiscono alla formazione di idee di volta in volta diverse di contaminazione a seconda dei tratti che le manifestano e della semiosfera all’interno della quale funzionano. Il pulito e lo sporco, da questo punto di vista, possono essere visti come elementi espressivi che articolano sul piano del contenuto certi significati di puro e impuro e tuttavia, possono essere intesi a loro volta come effetti di senso che si definiscono in maniera diversa a partire dalle specifiche categorie del piano dell’espressione che li producono: biancore/grigiore, lucentezza/opacità, macchia/non macchia etc. e in cui la dimensione materica diventa evidentemente pertinente per ragionare su questi temi. Ecco che, al contrario di ciò che si legge sul dizionario, per potersi manifestare, la purezza si lega necessariamente a tutta una serie di figure che le danno concretezza e in cui testure, consistenze, sostanze di vario genere e la loro reciproca interazione, da una prospettiva semiotica, sono da intendersi perciò come alcune delle possibili forme di figurativizzazione di quei valori. Vediamo come vengono messi in discorso dalla pubblicità 3. 2. Tre dimensioni figurative Anche dagli spot pubblicitari, in effetti, sembra emergere quella regola di classificazione di tipo posizionale di Douglas che costruisce la sporcizia come il grande contenitore di ciò che non sta al suo posto. Nella campagna pubblicitaria del 2018-19 di Ace, lo storico brand di prodotti per l’igiene dà forma e specifiche identità allo sporco in generale (Fig. 1): sono il vino, il cioccolato, le pappe, il trucco, i cani e il ragù della domenica. A ben vedere però non sono mai queste singole cose in sé a fare lo sporco. Per dirla con Douglas, “non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso prende vita nell’ottica dell’osservatore” (p. 32). Ecco che, fino a quando la pasta resta fumante dentro al piatto, ossia dove dovrebbe stare, va tutto bene; ma se il sugo viene rovesciato sulla tavola, il dolce animale 2 Un riferimento importante in tal senso è I microbi (1984), il lavoro attraverso cui Bruno Latour riflette sulla costruzione del discorso scientifico moderno a partire dall’analisi della letteratura prodotta intorno alle opere di Louis Pasteur nella Francia di fine Ottocento. 3 L’analisi che segue fa riferimento agli studi semiotici sul discorso di marca, tra gli altri cfr. Floch (1990, 1995); Marrone (2007); Traini (2008); Boero (2018); Mangano (2019). 207 domestico sale sul letto e la pappa del bimbo sparsa ovunque il sistema entra in crisi, l’equilibrio si rompe e nasce un problema da risolvere. Una situazione simile si può trovare nel recente spot di Dixan che mostra una scena di vita familiare in cui una mamma e i due figli si divertono a cucinare senza curarsi del disordine (Fig. 2). Dunque, tra impasti che schizzano sui vestiti lindi e chiazze di sudore post allenamento, compare il nemico numero uno del pulito, la figura che per eccellenza concretizza il tema dello sporco: la macchia, segno visivo di qualcosa che è andato fuori posto la cui presenza trasforma ciò su cui si è andata a posare. Così, il sugo non è più sugo, ma una macchia, e la maglia sporcata non è più un abito convenientemente opportuno. C’è una storia di regole infrante. Fig. 1 – Ace gentile, 2018. Fig. 2 – Dixan discs, 2022. Tuttavia, la macchia è solo una delle possibili figure dello sporco. Da un lato, il profumo, il biancore, la luminosità, la morbidezza, la freschezza, la materialità del detersivo – polvere, liquido, gel etc. – e dall’altro, il cattivo odore, la consistenza dello sporco – unto, incrostato etc. –, vengono a formare una grande varietà di figure che concretizzano il tema del pulito e dello sporco, articolando in maniera sempre diversa gli attanti delle storie: Oggetti di valore (il bianco più bianco), Soggetti (il detersivo), Anti-soggetti (la macchia, l’unto etc.). Partendo da un livello tematico e figurativo (Greimas 1984), punto di partenza dell’analisi, entrambi gli spot (Ace e Dixan) sembrano avere una struttura comune che costruisce il processo di pulitura proprio sulla base di precise dimensioni figurative che entrano in sintassi fra loro: una dimensione visiva, una dimensione materica e una dimensione olfattiva (Fig. 3). Dimensione visiva Dimensione materica Dimensione olfattiva Ace gentile, 2018. Fig. 3 – Dixan discs, 2022. 208 Ora, nel caso specifico degli spot osservati la compresenza delle tre dimensioni contribuisce a costruire un prodotto per l’igiene “completo” perché fa tutto: smacchia, igienizza e profuma. Tuttavia, non è sempre così e l’emergenza di tali dimensioni o la narcotizzazione di alcune di esse in favore di altre sono legate anche alle strategie di differenziazione che ciascun brand mette in atto per posizionarsi all’interno dell’arena concorrenziale4. Questo vale, ad esempio, quando si passa da una categoria merceologica a un’altra, poniamo da un ammorbidente a uno sgrassatore: alcuni tratti diventeranno più pertinenti di altri (la morbidezza e il profumo per uno, il potere sgrassante e smacchiante per l’altro). Ma vale talvolta anche per lo stesso tipo di detersivo, il cui racconto e valorizzazione può cambiare proprio in relazione al modo in cui la sua azione viene figurativizzata. Da un punto di vista semiotico, la conseguenza è quella di produrre diverse idee di sporco e pulito che si presuppongono a vicenda e che sono legate di volta in volta ai diversi tratti espressivi a cui vengono associate. Guardiamo nello specifico le tre dimensioni: 1. Nella dimensione visiva rientrano tutti i prodotti che, ad esempio, parlano del bianco. Tutt’altro che grado zero del colore, nel tempo il bianco si è fatto portatore di significati differenti. Nella nostra cultura, la relazione tra il bianco e la purezza ha una lunga storia (Pastoureau 2022): dalle vesti religiose di greci e romani, passando per il Medioevo fino al diciottesimo secolo quando è finito per significare l’universo dell’igiene, con la scoperta della candeggina che permise candidi corredi e la porcellana bianca per i sanitari delle toilette. In tal senso, come nota Agnello nella sua disamina semiotica dei colori, “la purezza viene dalla presenza di una sola tinta nelle cose e il bianco serve a unificare, a creare continuità visiva” (2013, p. 32), quella continuità interrotta dallo sporco. Il biancore di camicie e lenzuola ottenuto grazie alle proprietà sbiancanti del detersivo diventa così il segno del pulito, la figura attraverso la quale esso si manifesta. Ogni tempo, tuttavia, dà vita alle proprie pertinenze e in tal modo se negli anni 80 la preoccupazione principale era quella di garantire un bianco senza danno, in cui emerge anche un problema di consistenza, di tatto e di resistenza dei tessuti (Fig. 4), successivamente gli spot mettono in atto una retorica del confronto che basa l’efficacia del prodotto sulla riuscita del bianco più bianco, garanzia di massima pulizia (Figg. 5-6). Il bianco viene così legato a un’altra figura, la luce, o meglio al suo contraltare plastico: la luminosità. Il pulito di Ace, infatti, è “senza ombra di macchia” (Fig. 5) e il suo obiettivo è quello di “riaccendere” il bianco dei nostri capi (Fig. 6). Fig. 4 –Ace candeggina, 1983. Fig. 5 –Ace detersivo, 1992. Fig. 6 –Ace denso più, 2018. Questo ragionamento, oltre a essere valido anche nella comunicazione della pulizia dei capi colorati di cui risvegliare la luminosità, è valido anche per altri tratti, per certi versi sovrapponibili al bianco, come la lucentezza. Questa sovrapposizione non deve stranire: se i latini discriminavano i tipi di bianco a seconda della sua luminosità (distinguendo tra albus – il bianco opaco – e candidus – il bianco brillante) è proprio perché, come tutti i colori, il bianco è una figura dal carattere composto e il suo significato, nel tempo e nello spazio, cambia al variare delle sue componenti interne, intese come categorie cromatiche – tono, saturazione, luminosità etc. (Agnello 2013). Ovviamente, individuare il pulito nel bianco o nella luminosità dei colori definisce, per presupposizione, lo sporco come tutto ciò che non ha 4 L’individuazione di tali strategie di posizionamento non è tuttavia pertinente rispetto a questo lavoro che intende ragionare principalmente sulla ricostruzione della figurativizzazione dello sporco. 209 queste caratteristiche: è sporco ciò che opacizza i colori, ingrigisce la biancheria e macchia le superfici. In questo caso il senso del pulito è dato dunque dalle categorie cromatiche lucentezza/opacità, luminosità/oscurità, e la macchia, intesa come elemento visibile che marca una discontinuità nella continuità di capi e superfici puliti, è la figura dello sporco per eccellenza. Bianco Macchia Luminosità Oscurità E Lucentezza Opacità Continuità Discontinuità C Pulito (Ov) Sporco (Anti-S) 2. La dimensione olfattiva, invece, è dominante in tutti quegli spot che tematizzano la questione dello sporco e del pulito legandola a precise figure come quella dell’odore. “La peggiore macchia del pulito è l’odore di sudore”, recita uno spot Deox, brand di detersivi famoso per la formula brevettata anti- odore. Ma come tradurre i buoni e i cattivi odori attraverso un audiovisivo? E di cosa sa il famoso “profumo di pulito”? La dimensione olfattiva è la più difficile da restituire in uno spot, ma come sappiamo, la pubblicità ridice e traduce l’odore producendo effetti sinestetici che investono la sintassi figurativa dell’olfatto (Fontanille 2004; Marrone 2007) per poterla comunicare attraverso sostanze sensoriali diverse, come quella visiva tipica del prodotto pubblicitario. L’articolazione formale dell’olfatto, secondo Fontanille, rende conto infatti della relazione che si instaura fra il corpo investito dall’odore (corpo-bersaglio) e quello che lo produce (corpo-sorgente), ciascuno dei quali è caratterizzato da una propria sintassi e dal cui intreccio prende vita l’esperienza olfattiva. La vita di un odore, in questo senso, attraversa, dal punto di vista del corpo-bersaglio, tre fasi (emanazione, diffusione, penetrazione) che fanno da contraltare alla sintassi del corpo-sorgente (nascita, degradazione, decomposizione). Questi momenti, nel racconto pubblicitario, possono non essere sempre tutti presenti e, a seconda degli obiettivi strategici, il brand può decidere di privilegiare alcune fasi sulle altre. Nel nostro caso, se profumo e cattivi odori concretizzano il pulito e lo sporco rendendoli percepibili, la pubblicità fa lo stesso con questi elementi, generalmente immateriali, concretizzandoli attraverso specifiche figure. Infatti, la messa in scena dell’emanazione o della penetrazione è data attraverso l’utilizzo di tutta una serie di figure come fiorellini, scie visive, esalazioni verdognole (Fig. 7 – Napisan). Ma a significare gli odori sono anche gli effetti di materia prodotti dalla consistenza del detersivo: Nelsen associa in questo senso la materialità metallica all’igiene legando metallo e assenza di odore (Fig. 7). Napisan additivo igienizzante, 2021. Nelsen, 2012. Fig. 7 3. Infine, vi è una dimensione specificamente materica, spesso risultato di strategie sostanziali nel senso che dà Floch (1990) a questo termine come stile pubblicitario. È a tale dimensione che s’intende dedicare particolare attenzione in questa sede, dal momento che è qui che avviene la messa in forma, attraverso precise modalità, della visualizzazione della profondità del tessuto e della trasformazione materica dello sporco, da un lato, e dell’agente pulente, dall’altro. La dimensione materica emerge ogni volta che, con 210 un débrayage spaziale, gli spot ci portano all’interno dei tessuti. Può infatti cambiare la logica di igiene legata ora a una dimensione più visiva, la macchia, ora a una dimensione più olfattiva, il cattivo odore, e tuttavia ciò che non sembra cambiare è proprio la dimensione materica che si costituisce come invariante della comunicazione pubblicitaria dei prodotti per l’igiene e nella quale, a prescindere dal tipo di sporco a cui si dà la caccia, a essere messo in scena è sempre il passaggio dallo sporco al pulito nei termini della trasformazione materica dell’uno nell’altro. Lenzuola e camicie lasciano allora spazio alle trame dei tessuti tra le quali, incastrato, troviamo lo sporco. Ma cosa avviene una volta entrati all’interno del tessuto? 3. Sporco, unto e bisunto Vediamo lo sporco, le macchie, ma vediamo anche ciò che dall’esterno non era visibile. Nel passaggio dalla superficie alla profondità del tessuto, il cambio di scala rende il punto di vista dell’osservatore fortemente inscritto, attivando uno sguardo aptico attraverso il quale l’ingrandimento del tessuto non solo fa leva sulle caratteristiche sensibili dello sporco ma rende possibile un poter-vedere, ossia una nuova conoscenza. La pubblicità traduce, facendole proprie, le specificità dell’informazione tattile che “segue un processo di somma analitica che cumula singole e deformate percezioni fino ad ottenere l’identificazione, ‘invisibile’, di oggetti-figure che acquistano solo in questo modo esistenza e capacità discorsiva, racconto e investimento di valore” (Ceriani 1995, p. 197). I cambiamenti dal macro al micro, come spiegano Migliore e Colas-Blaise (2022), rappresentano in questo senso “movimenti di approssimazione o di totalizzazione, di analisi e sintesi nella percezione e nella conoscenza” (pp. 46-7). Se la macchia, infatti, svolge il ruolo di informatore, ossia di un attante che fa sapere della presenza dello sporco, alcuni prodotti pulenti, in particolare i prodotti igienizzanti, ci dicono che lo sporco può essere presente anche in assenza di tale informatore. Il débrayage spaziale dall’esterno all’interno del tessuto, dunque, rende possibile una vera e propria visualizzazione dell’invisibile che costruisce l’opposizione fra sporco visibile e sporco invisibile (Fig. 8). Ace gentile, 2018. Napisan, 2020. Fig. 8 Infatti, se i classici prodotti detergenti combattono la macchia che si vede a occhio nudo, totalità integrale e indistinta dello sporco, per i detersivi igienizzanti il nemico è più pericoloso e difficile da eliminare perché invisibile. In questo senso, è solo entrando nel tessuto, osservandolo come sotto la lente di un microscopio, lo sporco assume specifiche identità. Il débrayage, infatti, oltre che spaziale è anche attoriale: piccoli mostriciattoli, cellule e batteri, totalità partitiva dello sporco, come usciti da un libro di chimica (v. germi, Fig. 8), sono chiaramente l’esito di strategie oggettivanti che fanno proprio il discorso parascientifico, oggi certamente complice anche la recente pandemia che ha cambiato il modo di figurativizzare virus e germi adottandone l’immagine scientifica. La differenza fra uno sporco rilevabile (tutto sommato innocuo) e uno sporco impossibile da individuare a occhio nudo (potenzialmente pericoloso per la salute), convoca questioni veridittive legate al regime del segreto (è sporco ma non sembra) se non della menzogna (sembra pulito ma non lo è), che si traducono concretamente nell’idea che per avere un pulito completo il detersivo non basta e bisogna 211 anche igienizzare. Tale differenza è prodotta negli spot attraverso l’articolazione della categoria superficie/profondità che coinvolge sia la dimensione verbale (“Pulito profondo”, “nel cuore di ogni bucato”, “pulisce a fondo”, “igienizza le superfici in profondità”, “pulito profondo che penetra nelle fibre” etc.) sia visiva, attraverso tutta la serie di débrayage e embrayage che ci consentono di fare da spola dalla superficie alla profondità dei tessuti, e viceversa (Fig. 9). All’interno di tale opposizione spaziale, il raggiungimento della profondità diventa una sfida, un vero e proprio programma narrativo (v. Marrone 2001, sull’agire spaziale) che, nel nostro caso, sancisce la realizzazione dell’obiettivo: il pulito profondo delle pubblicità, appunto. Débrayage 1 Débrayage 2 Embrayage 1 Embrayage 2 Fig. 9 – Ace gentile, 2018. Al livello dell’enunciato, i débrayage spaziali e attoriali ci portano sempre più all’interno delle maglie, mentre gli embrayage consentono un ritorno verso la superficie. Va notato, in particolare, ciò che avviene all’interno della lavatrice: l’effetto di profondità prodotto dal primo débrayage (che mostra la macchia), infatti, è ulteriormente amplificato (in un rapporto zoom-macro zoom) dal secondo débrayage (che mostra i germi). Questo ci consente di articolare la categoria superficie/profondità nel modo che segue: 212 Questa profondità dell’azione pulente non è solo interna allo spot analizzato ma, come si diceva, emerge anche dal confronto fra prodotti tradizionali/igienizzanti. D’altronde, come sottolinea anche Pozzato (2009) analizzando due pack di additivo per il bucato, un detersivo che agisce sui colori dei capi ha spesso a che fare con un pulito dai valori estetici, al contrario dell’azione igienizzante-disinfettante che riguarda piuttosto la salute. Se sul dizionario dunque pulire è un iperonimo che racchiude e per certi versi appiattisce le diverse attività di pulizia, la pubblicità costruisce delle differenze sotto forma di una scala tensiva che va da un minimo a un massimo dell’azione pulente. In questo modo, pulire, lavare, igienizzare e disinfettare non sono che effetti delle diverse figurativizzazioni della superficie o della profondità e l’efficacia del prodotto pulente è direttamente legata al modo in cui viene figurativizzata la profondità della sua azione. Anche grazie agli spot. 4. Schiume, polveri e saponi Anche dal lato dell’agente pulente, negli spot si narrano le vicende di questo o quel detersivo, la cui specifica azione è messa in forma proprio dal tipo diverso di consistenza materica di cui è fatto. Oggi, i consumatori possono far affidamento su una grande varietà di sostanze pulenti dalle caratteristiche più diverse. Esistono prodotti in polvere, liquidi, in gel, in capsule, da usare contro i vari tipi di sporcizia: macchie unte, sporco incrostato, polvere e via dicendo (Fig. 10). Fig. 10 – Diverse consistenze dei detersivi in commercio. Ma cosa ci fa dire, poniamo nella scelta di un detersivo, che una consistenza sia migliore delle altre? La preferenza fra la polvere o il liquido contro l’unto da cosa dipende? La scelta è tutt’altro che naturale o scontata: a essere messe in gioco, oltre alle motivazioni chimico-scientifiche, sono infatti dinamiche legate agli immaginari e alla percezione collettiva delle specifiche materialità e ai contrasti di sostanze che, in quanto tali, cambiano nel tempo. Osserviamo la questione da un punto di vista diacronico: Barthes (1957), analizzando le pubblicità dei nuovi detersivi in polvere degli anni 50, notava la contrapposizione fra i “liquidi purificatori” e le “polveri saponificanti”. Mentre la candeggina era “fuoco liquido” che uccide lo sporco e rovina i capi se non utilizzata con parsimonia, il detersivo in polvere metteva in atto un’azione selettiva contro lo sporco, espellendolo senza danneggiare tutto il resto. Tuttavia, le qualità del liquido o della polvere non sono ad essi intriseci. Il liquido, infatti, non è più aggressivo o efficace di per sé: come tutti i materiali, il liquido – ma anche il solido, la polvere etc. –, è un oggetto di senso, “la manifestazione particolarmente suggestiva di una riflessione sul mondo sensibile, di una ‘logica concreta’ in atto” (Floch 1984, p. 176). I materiali sono già culturalizzati e il loro valore si costruisce, proprio come in questo caso, a partire dagli usi che se ne fanno. Con l’introduzione dei detersivi liquidi negli anni 80, ad esempio, la situazione appare ribaltata rispetto agli anni 50: la polvere è percepita ancora come molto più efficace del liquido, e i brand dunque iniziano a produrre massicce campagne pubblicitarie per convincere i consumatori del contrario. Nello spot dell’allora nuovo detersivo liquido Dash del 1989, infatti, una giovane motociclista sfuggendo ai consigli di una signora incontrata in lavanderia (Fig. 11 – “no signora, con il liquido ci lava il bucato leggero, 213 ma sul grasso ci vuol la polvere”, “liquido in pallina, bianco in rovina”), s’impegna a convincerla dell’efficacia del nuovo prodotto liquido, valido quanto quello in polvere. Polvere tradizionale Nuovo liquido Fig. 11 – Dash liquido, 1989. Ci troviamo in un momento di passaggio e per certi versi di fronte a uno scontro fra immaginari diversi legati a un passato e a un presente delle sostanze lavanti che ne costruisce il valore. È evidente che, in un dato momento storico-culturale, la polvere è stata percepita come più adatta a eliminare lo sporco unto – da cui il semisimbolismo diacronico che lo spot Dash vuole ribaltare: E Polvere Liquido C Passato Presente Efficace Inefficace Dunque, contro il grasso sarà più efficace il liquido o la polvere? Dipende. Si tratta di un problema di contrasti di sostanze, ossia della relazione che intessono fra loro, e della percezione collettiva legata all’efficacia della combinazione di alcune materialità. Questo potrebbe spiegare perché, ad esempio, come mostrano abbondantemente i numerosi profili social sull’igiene domestica che spopolano oggi sul web (v. @lacasadimattia, @mammapuntodue, @yesyoucandeggina, su Instagram), l’uso del bicarbonato nelle pulizie sia oggi attraversato da una vera e propria passione collettiva che va di pari passo con la recente tendenza a riproporre i prodotti per l’igiene nelle formulazioni solide o in polvere, specialmente nel caso di prodotti per la pulizia appartenente a linee “naturali”. Ha poca importanza, da questo punto di vista, che il bicarbonato non abbia alcuna proprietà pulente o igienizzante come si affrettano a informarci da ogni dove (sulla divulgazione scientifica in materia di igiene, v. Bressanini 2022): il biancore della polvere, la sua materialità, così come la schiuma prodotta dal suo contatto con l’aceto, elemento con cui il bicarbonato intesse una vera e propria relazione sintagmatica nel mondo delle pulizie oggi, rappresentano l’esempio perfetto non solo del valore semiotico dei materiali, ma anche della loro efficacia. Non a caso, proprio il bicarbonato oggi è nell’elenco dei numerosi “con”, ossia delle sostanze aggiunte leggibili sulle confezioni dei detersivi. Un’altra figura specifica su cui vale la pena soffermarsi è poi la schiuma, elemento materico che spesso significa più di ogni altro il prodotto pulente. A leggere il dizionario, individuiamo almeno due invarianti figurative che trovano manifestazione nei discorsi sociali: la prima è l’idea della spumosità di una sostanza che ingloba aria; la seconda è relativa invece allo stato di attività della schiuma, dato dell’agitazione e dell’effervescenza. Ancora una volta Barthes nel suo studio su saponificanti e detersivi, in Miti d’Oggi (1957), evidenziava come la performatività abrasiva dei nuovi saponi venisse camuffata dalla sua schiumosità aerea: non è un caso, infatti, che Calvino (1963) individui proprio nelle bolle sprigionate dalle polveri saponificanti gettate in un fiume dai figli di Marcovaldo uno dei tratti significanti della società consumistica di quel tempo. 214 Oggi la situazione è ambivalente. Nei casi che abbiamo osservato, la schiuma non sembra essere un tratto pertinente nella significazione del processo di pulizia: in lavatrice, infatti, il detersivo entra in contatto con lo sporco e grazie alla mediazione dell’acqua lo elimina (Fig. 12). Se ci spostiamo su altre tipologie di prodotto, invece, accade che la schiuma non solo è presente ma diventa l’elemento che racchiude la potenza pulente del prodotto: nello spot di Svelto da una piccola e densa goccia di detersivo si prigiona una copiosa schiuma pronta ad affrontare le stoviglie lerce (Fig. 13). La differenza fra questi prodotti è una e determinante: in un caso si tratta di lavaggio a mano, nell’altro no. Informatore dell’azione pulente in atto, la schiuma finisce per significare la performance stessa del prodotto ed è come se parlasse direttamente al suo utilizzatore: il prodotto è in azione e funziona – è opinione diffusa, d’altronde, che se non fa più schiuma non è buono o la spugnetta va ricaricata! –. Una performance che, in qualche modo, contiene in sé anche la sanzione della buona riuscita del lavaggio e ne anticipa i risultati. Fig. 12 – Ace denso più, 2018. Fig. 13 – Svelto, 2022. Tuttavia, la schiuma non ha sempre un valore positivo. Da una parte, infatti, le aziende di detersivi si impegnano affinché la formulazione dei loro prodotti consenta la produzione copiosa di schiuma durante il lavaggio. Ma basta cambiare categoria merceologica e oggi, nel mondo cosmetico e della cura dermatologica, ad esempio, accade esattamente il contrario. Da un punto di vista sincronico, nell’universo dell’igiene odierno infatti la schiuma significa contemporaneamente cose diverse: per un detersivo significherà che il prodotto è in uno stato di attività (Fig. 14), per un bagnoschiuma la morbidezza della spuma profumata sarà caricata del significato “coccola, carezza” (Fig. 15), mentre per i moderni detergenti per il viso o per i capelli, specialmente se si tratta di prodotti “naturali”, la schiuma è segno di un prodotto troppo aggressivo che non va utilizzato, e infatti la schiuma è leggera o, spesso, del tutto assente (Fig. 16). In altre parole, i significati dei materiali non stanno nei materiali stessi ma nella relazione che questi instaurano fra loro in un dato momento all’interno di un certo contesto socioculturale. Fig. 14 – Svelto, 2022. Fig. 15 – Spuma di Sciampagna, 2022. Fig. 16 – Nivea Naturally Clean, 2021. 215 5. Ibridi in lotta Nell’individuare diverse “ideologie” del lavaggio, tra le altre cose, in Miti d’Oggi Barthes osserva anche i verbi utilizzati nella descrizione pubblicitaria del prodotto pulente (uccide vs espelle). Seguendo dunque quello che si definisce come un modus operandi tipico dell’approccio semiotico (Greimas 1966) ragionare sui lessemi utilizzati negli spot per descrivere l’attività del detersivo (così come anche le immagini che mostrano tali azioni) ci aiuta a svelarne il fare, e con esso la struttura narrativa soggiacente all’enunciato. In tal senso, i verbi utilizzati negli spot sono principalmente di tre tipi: 1. Azioni che descrivono il processo pulitura come cancellazione dello sporco, che riguarda la comunicazione pubblicitaria della quasi totalità dei prodotti (“toglie lo sporco”, “rimuove il grasso”, “elimina le impurità”, “fredda lo sporco”, “uccide germi e batteri” etc.); 2. Azioni che, pur indicando la stessa eliminazione, mettono l’accento sulle operazioni di trasformazione da una materialità a un’altra (“liquida lo sporco”, “scrosta”, “sgrassa”, “scioglie”, “dissolve” etc.); 3. Azioni che parlano del processo di costruzione del pulito (“profuma la biancheria”, “fa splendere le superfici” etc.). La pulizia emerge dalle pubblicità come una vera e propria lotta contro lo “sporco cattivo”. In termini semiotici potremmo dunque dire che quello della pulizia è un processo di disgiunzione dallo sporco e che alla storia della biancheria macchiata che viene ripulita raccontata dagli spot soggiace, cioè, un programma narrativo (PN) che da uno stato di iniziale disgiunzione dal pulito porta, attraverso tutta una serie di trasformazioni, al ricongiungimento con esso. Ma chi opera queste trasformazioni? Quale struttura attanziale presuppongono? A ben vedere, gli spot analizzati hanno tutti una struttura simile: c’è un momento iniziale in cui si crea lo sporco da pulire, il momento del lavaggio, e infine l’apprezzamento del risultato ottenuto. Si tratta, in effetti, di tre momenti specifici della trasformazione narrativa che dallo sporco porta al pulito e in particolare del danneggiamento, della competenza-performance e della sanzione. In effetti, in tutti i casi analizzati, la macchia causata dall’aver rovesciato il vino sulla tovaglia o l’impasto sulla camicetta è l’agente che, rompendo l’equilibrio iniziale del pulito, innesca il racconto. Lo sporco da combattere, differentemente figurativizzato (macchie, cattivi odori, grasso, polvere etc.), svolge in questo senso il ruolo attanziale di Anti-soggetto della storia la cui azione attiva il senso sociale del pulito che, imponendo una certa forma di ordine e decenza, agisce da Destinante che manipola il soggetto del fare che dunque vuole e deve lavare via le macchie. Ovviamente ciò avviene anche in concomitanza con altri attori che svolgono il medesimo ruolo attanziale: nonne e mamme, costruite dalla pubblicità come soggetti competenti pronti a dispensare consigli, ancor più in passato (Fig. 4) e tal volta ancora oggi (Fig. 2), ne sono un esempio. Tale manipolazione, inoltre, avviene spesso per provocazione: parlare di sporco “difficile” o “impossibile”, infatti, fa emergere tutta la dimensione della sfida (Greimas 1983) – la presenza dello sporco nella profondità del tessuto minaccia la competenza, ossia il poter e saper fare, del Soggetto operatore – legata oltretutto alla possibilità una dimensione patemica della sporcizia che trova il suo eccedente passionale nell’ostinazione (Greimas, Fontanille 1991) (es. “efficace contro le macchie più ostinate”). Ma il protagonista dell’azione chi è? Chi svolge la performance? Il detersivo, il soggetto umano, o la lavatrice? La risposta non può essere stabilita una volta e per tutte: per quanto possa essere intuitivo pensare che sia sempre l’uomo a lavare, protagonista indiscusso dell’azione, nel racconto dei prodotti per l’igiene la situazione è più flessibile e le possibilità diverse. In questi casi, infatti, non è il soggetto umano a operare le trasformazioni del processo di pulitura: è il detersivo a essere infatti il protagonista indiscusso dell’azione, Soggetto Operatore che riesce a far tornare gli abiti al suo originario splendore – il nostro Oggetto di Valore. Mentre l’uomo è il Soggetto di stato danneggiato dallo sporco e al tempo stesso un Aiutante che insieme a tutta una serie di altri oggetti che contribuiscono a portare a termine il programma. In tal modo, elettrodomestici e persone, così come anche scope, spugnette, 216 spolverini, spazzolini e tutte le sostanze “aggiunte” al detersivo (i con presenti sulle confezioni – con bicarbonato, aceto, igienizzante etc.) costruiscono, alla Latour (1991, 2005), ibridi efficaci, una rete interattanziale, attorializzata poi differentemente, che contribuisce a pari merito alla buona riuscita del programma narrativo. Ciò non vale solamente per gli attori coinvolti nell’azione pulente: pentole, superfici e abiti uniti al calcare, all’unto e al grasso sono da intendersi come altrettante entità ibride, risultato dell’unione di materialità originariamente separate. Ovviamente questa struttura attanziale può essere ulteriormente complessificata. Nel mondo delle pulizie, ad esempio, anche la temperatura dell’acqua o altri elementi come il calcare svolgono un ruolo narrativo: veri e propri Aiutanti, nel caso delle alte temperature che sgrassano meglio, o al contrario Opponenti, come per le basse temperature che non garantiscono una buona pulizia dei capi e l’uccisione dei batteri; così come un’acqua calcarea può rovinare i nostri vestiti. Ciò nonostante, l’acqua è, nel mondo dell’igiene, un attante importante per la buona riuscita del lavaggio e non solo perché, riprendendo Bachelard, “l’acqua è oggetto di una delle maggiori valorizzazioni del pensiero umano: la valorizzazione della purezza […] L’acqua accoglie tutte le immagini della purezza” (1942, p. 21-22), ma anche perché senza di essa pulire sarebbe praticamente impossibile. Greimas (1983), nell’analisi della zuppa al pesto, notava che la pentola destinata ad accogliere la zuppa di legumi poteva essere considerata uno spazio utopico, ossia il luogo in cui avvengono le principali trasformazioni narrative, e che l’acqua presente al suo interno, e nella quale erano versati gli ingredienti, era da intendersi come un attante operatore delle trasformazioni che portano dal crudo al cotto. Nel nostro caso, e a un primo sguardo, la lavatrice sembrerebbe avere lo stesso ruolo attanziale della pentola: in essa avviene la performance, la prova che porta dallo sporco al pulito e in cui l’acqua rappresenta un fondamentale agente di trasformazione. E tuttavia la lavatrice è più di questo perché non solo contiene il lavaggio ma lo aziona: ruotando, agisce a sua volta definendosi in tal modo come un luogo utopico attivo. Continuando con l’analogia culinaria, il suddetto elettrodomestico sembrerebbe così più simile alla ciotola girevole dello sbattitore che collabora con le fruste all’amalgama degli ingredienti (Marrone, Mangano 2002). Infine, la Sanzione è delegata, oltre che all’attore umano (che ad esempio annusa soddisfatto i capi puliti), anche alla materialità stessa: sono infatti la lucentezza delle superfici, il biancore dei capi e il profumo delle lenzuola a sancire positivamente la buona riuscita del programma e dell’azione di pulitura appena terminata. Considerando quindi il programma di pulizia come un programma di base, troviamo, grazie alle indicazioni dei verbi e alle azioni raffigurate, almeno altri due programmi narrativi d’uso che consentono di raggiungere l’obiettivo finale, ossia il pulito. Si tratta dei programmi di cancellazione (PN1) e di costruzione (PN2). Da un lato, infatti, il detersivo interviene per dissolvere lo sporco. Detersivi, spugne e lavatrici intervengono in questo senso per eliminare macchie, cattivi odori e batteri dalle superfici e lo fanno sgrassando, sciogliendo, dissolvendo. Tuttavia, una volta eliminato e smaterializzato lo sporco, ciò non basta per creare il pulito. Infatti, se in linea di principio, come abbiamo visto, il puro è ciò che non è, ossia quello che rimane quando si separa da ciò che lo contamina, è pure vero che, una volta rimosso lo sporco, questo non basta a dar vita di per sé al pulito. L’oggetto lindo, una volta terminato il programma, non sarà più quello che era all’inizio. Risulta infatti trasformato, ottenendo delle qualità diverse perché intensificate rispetto a quelle possedute in origine: sarà più bianco, più profumato, più brillante (Fig. 17). Fig. 17 – Ace denso più, 2018. Figurativizzazione dell’azione costruttiva del detersivo che trasforma il tessuto donandogli nuove caratteristiche. 217 Il valore del pulito può dunque essere costruito e concretizzato in tanti modi, come abbiamo visto all’inizio parlando delle tre dominanti figurative, e dopo aver tolto qualcosa (macchie, germi, impurità etc.), per avere il pulito va aggiunto dell’altro: in tal senso il profumo, la freschezza, la lucentezza, la protezione igienica sono esempi di Ov del PN di costruzione che, insieme al PN di cancellazione dello sporco, dà vita ai diversi modi attraverso i quali il discorso pubblicitario materializza il fare narrativo del pulito. Ecco che gli spot costruiscono tale processo non solo come una lotta fra figure attanziali con obiettivi opposti (sporco vs agenti del pulito), ma più precisamente come una lotta fra materialità che si trasformano reciprocamente. 6. Trasformazioni materiche In tal senso, potremmo riprendere lo studio elaborato da Françoise Bastide (1987) nel suo saggio sul trattamento della materia, che ci consente un aggancio fra il livello discorsivo e quello semio-narrativo. È a partire dai verbi utilizzati in alcune ricette di cucina, tra cui anche la zuppa al pesto di Greimas (1983), e trasformazione di sostanze chimiche, che Bastide individua alcuni stati della materia, pensati nella forma di categorie semantiche, e un numero limitato di operazioni elementari di trasformazione da uno stato all’altro. Trattandosi dell’articolazione semantica di valori profondi, questi stati e queste operazioni possono poi assumere manifestazioni espressive di tipo diverso. Dunque, dopo aver visto la materializzazione dello sporco a livello discorsivo e la sua rimozione come disgiunzione narrativa, ragionare sulle trasformazioni materiche à la Bastide è utile per osservare il processo, la relazione sintagmatica fra questi elementi: come si passa dall’uno e dall’altro? Quali cambiamenti materici descrivono tale trasformazione? Per osservare queste trasformazioni bisogna concentrare lo sguardo sul momento della performance: corrispondendo infatti al momento in cui lo sporco viene eliminato è in questa fase che vengono messi in scena i cambiamenti di materia. Innanzitutto, secondo Bastide, le procedure di lavaggio rappresentano la manifestazione figurativa dell’operazione di scelta (Fig. 18), quell’azione che porta cioè l’oggetto dallo stato composto (es. un maglione macchiato che in quanto tale, come si è detto, è da intendersi come ibrido, intreccio di materialità di diversa origine) allo stato semplice (il maglione pulito, le cui trame sono isolate dal resto), perché, selezionando gli elementi estranei da eliminare, la pulitura lo priva di ciò che lo contamina. Fig. 18 – Ace gentile, 2018. L’operazione di selezione figurativizzata in maniera diversa. Come si può osservare negli spot che abbiamo preso in analisi, il detersivo elimina le macchie, indicando una generica disgiunzione, sono poi le immagini a raccontare nello specifico come ciò avviene attraverso le trasformazioni materiche. Vediamo cosa avviene in lavatrice. L’indumento sporco è presentato come un tessuto tra le cui trame è incastrata la macchia, in maniera tale da apparire dunque particolarmente coesi e non facilmente separabili; tessuto e sporcizia si trovano cioè in uno stato di compattezza. L’azione detergente che “scioglie” o “sgrassa” svolge in questo senso un’operazione di apertura, ossia il passaggio dallo stato compatto allo stato discreto, liquefacendo lo sporco. Nel caso specifico del lavaggio in acqua a essere evidenziata è inoltre l’operazione di espansione 218 che descrive il dissolvimento di un elemento in un liquido. “L’acqua o altri solventi – come gli acidi – rappresentano in questo contesto un caso particolare, in cui l’azione del liquido annulla una forma di coesione e rivela in tal modo un carattere […] laddove il corpo appariva compatto al livello macroscopico della nostra osservazione: ci troviamo in presenza, dunque, di un’operazione di apertura che precede l’espansione” (Bastide 1987, p. 168). È questo, dunque, il caso dei lavaggi in lavatrice in cui lo sporco viene sciolto e si disperde in acqua. Stato iniziale Operazione Stato finale Compatto Apertura Discreto Concentrato Espansione Espanso La rimozione dello sporco invisibile – quali cattivi odori, germi e batteri – rende più complesso figurativizzare le trasformazioni materiche. Come dicevamo proprio in riferimento alla dimensione olfattiva (§2), la pubblicità costruisce effetti sinestetici che danno corpo e struttura a elementi normalmente non visibili a occhio nudo. In questo caso, infatti, la trasformazione provocata dall’operazione di separazione ed espansione viene tradotta visivamente attraverso un cambiamento del colore, o meglio della sua luminosità, per cui: cattivo odore : profumo = ombra : luce In tal modo, gli spot danno vita a effetti di materialità che tuttavia non sempre rientrano nelle categorie individuate da Bastide. Gli odori, in questi spot, non sono figurativizzati compatti come una macchia, ma non sono neanche discreti o amorfi, essendo in qualche modo legati al tessuto. Non-discreto Espansione Discreto Scelta 219 Lo stesso avviene per quanto riguarda i prodotti che combattono batteri e virus: in questo caso, pur essendoci la disgiunzione, e dunque una trasformazione narrativa, a mancare sembra essere la visualizzazione delle trasformazioni materiche che a livello figurativo concretizzano tale trasformazione. A essere messa in scena è infatti un’eliminazione totale, una disgiunzione nuda e cruda dagli agenti patogeni: partendo da uno stato discreto – perché sparsi disordinatamente sui vestiti – al passaggio del detersivo i germi spariscono letteralmente nel nulla come a voler significare che il detersivo non li scioglie o disperde da qualche altra parte dove potrebbero continuare a rappresentare un pericolo – banalmente, la lavatrice –, ma li fa totalmente fuori (Fig. 19). In tal modo, insieme all’eliminazione, il rischio della presenza batterica viene disinnescato. Ace gentile, 2018. Napisan, 2020. Fig. 19 Similarmente a quanto osservava Floch riguardo agli annunci di certi psicofarmaci (1990), negli spot della figura 19 a essere messa in scena è la trasformazione diretta da uno stato disforico, nel nostro caso lo sporco, a uno euforico, il pulito, attraverso specifiche opposizioni plastiche: Sinistra Destra Molteplicità Unità E Discontinuità Continuità Policromatismo Monocromatismo C Disforia Euforia Sporco Pulito In generale, vanno notati due aspetti: il primo, che potrebbe sembrare banale, riguarda il fatto che al cambiare della categoria merceologica alcune trasformazioni materiche diventano più pertinenti di altre (uno sgrassatore punterà in linea generale di più verso la destrutturazione del grasso incrostato, rispetto poniamo a un ammorbidente). Il secondo è che non è detto che la pubblicità decida di mostrare tutti i passaggi che portano da uno stato all’altro: per ragioni legate alle strategie di posizionamento dei propri prodotti a volte l’accento è posto maggiormente sullo stato iniziale dello sporco, altre volte sul momento della performance, e altre volte ancora sul momento finale che corrisponde alla sanzione positiva per la riuscita del buon bucato. Esattamente come abbiamo visto per le tre dimensioni figurative individuate – quella visiva, quella materica e quella olfattiva – si tratta di un aspetto interessante perché riguarda il modo attraverso cui i brand costruiscono differenze interne ponendo l’attenzione su uno specifico momento del processo di pulizia, individuando delle pertinenze che costruiscono il valore del prodotto. E non solo, perché tali dimensioni oltre a concretizzare delle idee di pulito alternative – sul piano paradigmatico – presuppongono e tracciano il percorso della loro costruzione – sul piano sintagmatico. Ciascuna di esse rappresenta, in altre parole, la messa in discorso di momenti specifici della produzione del pulito. In ogni caso, scrive Bastide, “il risultato della pulitura è la riduzione di una eterogeneità ‘naturale’: […] sudicio-sporco-contaminato/puro-pulito-isolato” (1987, p. 174). Pulire significa innanzitutto selezionare, ed effettuare una scelta su cosa eliminare – e dunque ritenere sporco – presuppone uno schema, un 220 ordine delle cose dove, è evidente, il pulito è ciò che rimane isolato, non mischiato ad altro, rispetto allo stato eterogeneo che assumono le cose quando vengono sporcate. L’idea di Bastide è, in altri termini, la stessa idea di contaminazione di Mary Douglas: per entrambe pulire è un modo per fare ordine sotto forma di costruzione della purezza. In questo senso, le specificità di volta in volta diverse di pulizia e sporcizia in qualità di effetti di senso dipendono anche dalle trasformazioni materiche che li sottendono e che vengono sfruttate dal racconto di marca per arricchire e meglio articolare il nostro immaginario igienico rispetto a come è normalmente inteso dal senso comune, ampliando ad esempio i significati del pulito che ci vengono restituiti dal dizionario. D’altronde, l’enfasi materica e sensoriale è oggi particolarmente presente nell’universo di brand e mediatico 5, e gli strumenti analitici adottati in questo studio (v. i riferimenti al lavoro di Bastide, ma anche a quello di Greimas e Floch) risultano dunque particolarmente utili e pertinenti nello studio di simili strategie commerciali e comunicative. Tuttavia quello di sporco e pulito è ancora un problema aperto: sporcare è disordinare, pulire è rimettere al posto. Ma lo sporco, una volta rimosso, dove va a finire? Le attività di pulizia nient’altro sono, in questo senso, che la concretizzazione di un ritaglio effettuato sul mondo, logiche guidate da vere e proprie forme dell’ordine che ci permettono di controllarlo per comprenderlo, punto di partenza per una semiotica dell’igiene ancora tutta da indagare. 5 Si pensi ad esempio al fenomeno dell’ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response), ossia a quelle tecniche di rilassamento legate a stimoli di natura principalmente uditiva e tattile, di cui il web e i social sono oggi densamente popolati sotto forma di video dalla natura più disparata: dalle ricette di cucina in cui, più che i passaggi, a essere enfatizzata è la materialità del cibo grazie ai suoni amplificati (croste croccanti, coltelli che affettano etc.) associati a sguardi aptici e fortemente ravvicinati agli ingredienti, fino ai video degli aspirapolvere in funzione in cui a divenire protagonista è il “rumore bianco” (vedi ad es. Dyson su YouTube, www.youtube.com/watch?v=5SEYNV4WaC8). Di conseguenza, in questi video la ricetta non è più un testo istruttorio, e l’aspirapolvere non serve per pulire: a essere prodotta tramite tali strategie sostanziali è una vera e propria estetica trasversale in cui vige l’esibizione sensoriale, più vicina al fenomeno del food porn (Marrone 2016) che a un tutorial. 221 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Agnello, M., 2013, Semiotica dei colori, Roma, Carocci. Bachelard, G., 1942, L’Eau et le Rêves, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi delle acque: purificazione, morte e rinascita, Milano, Red edizioni 2006. Barthes, R., 1957, “Saponides et détergents”, in Id., Mythologies, Paris, Seuil, pp. 36-38; trad. it. “Saponificanti e detersivi”, in Id., Miti d’oggi, Torino, Einaudi 2016, pp. 28-30. 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Materialità immateriale: il paradosso delle skin Giulia Ceriani Abstract. In the measure which currently willingly favors the discussion on materials – their nature, their recycling – over that on shapes, the question of dematerialization arises with great force. Either of a materiality that is only an effect, when it concerns the representation within the digital universes. What happens to those expressive substances that refer to some form of physicality (i.e. silk or leather), when they are brought back to a pure effect in a digital context? Does this deal with a visual transcoding only, or there is something more? If the same expressive substances are called to dress an actorial identity in a digital world, are they just to be considered as a last development of the mutation of materials that we have been witnessing for years, or they represent a specific case of mediatization? Are we just faced to the overturn of our perceptual habits, expectations and criteria of appreciation, or are we attending, by the ongoing development of Metaverse, to unprecedented manifestations of a world still under construction? This reflection aims to investigate the different aspects inherent to the evolution of materiality, up to its physical dissolution (immaterial materiality), and to understand how much -and if- the semiotic tools we have at our disposal can help us. 1. Materialità e immateriale C’è la materia e ci sono i materiali. La materia non esiste se non in quanto formata, ovvero investita della pertinenza con cui la trasformiamo in sostanza: non stiamo naturalmente dicendo nulla di nuovo, se non che tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del tutto antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben prima degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce “oggetti di valore”, pure posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di discorso. Sappiamo, come ci indica Hjelmslev, che “la materia rimane sostanza per una nuova forma e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa e quella forma” (1943, p. 57). Sostanza dell’espressione, con la virtualità intersemiotica che traccia affinità ed esclusioni, e sostanza del contenuto, che investe le tematiche, i generi, le tecnologie in essere. Proprio a queste ultime, è dato oggi rilevare in primissima istanza il testimone dell’innovazione, dove quest’ultima venga intesa come l’intenzione di invitare ad usi non previsti, o quanto meno fino ad allora non immaginati, i materiali stessi. La questione dei materiali immateriali, oggetto di questa nostra breve riflessione, si inserisce precisamente in questo filone, dove la tecnologia che conduce l’ideazione delle skin con le quali abbigliamo gli avatar nel gaming o nel Metaverso, o anche solo che vediamo in evidenza negli NFT droppable che la moda sta promuovendo, consegna alla visione l’intero percorso di valutazione del materiale stesso. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). È così che, nella definizione “pixelata” dei materiali che incontriamo in ambiente digitale, l’assenza di naturalità che ne fa dei referenti semi-culturalizzati, è conseguenza diretta della programmazione algoritmica degli effetti di materia: effetti, per l’appunto, senza che si possa in alcun modo porre la questione della loro matrice originaria, di una “verità referenziale” che è in questo caso impossibile da porsi. Non riteniamo infatti ci sia possibile corrispondenza tra la meccanicità dei movimenti, delle caratteristiche prossemiche, dell’interazione attoriale della quale è investita una figura (ad esempio ma non solo vestimentaria) delle skin, e la sua potenziale equivalenza nel mondo offline; le separa una dinamica percettiva che è altra anche rispetto a quella, ben più nota, dei personaggi di cartone animato anche tridimensionale, la cui funzione, in termini di coinvolgimento dello spettatore, resta ben meno risolutiva. Ben altro percorso dunque rispetto alla rappresentazione di una denaturalizzazione dei materiali già in essere da almeno venti anni, quando si è dato il là a una robusta creazione di effetti di materia contrari e anche contraddittori rispetto alle caratteristiche previste, persino in una semiotica del mondo naturale, da alcune sostanze base: l’elasticità della ceramica, la non frangibilità del vetro, la morbidezza del cemento, tra quelle che hanno diversamente interpellato i sensi a partire dalla cancellazione del confine naturale/artificiale. 2. La materialità digitale Stiamo di fatto affrontando, con la materialità digitale, l’ultima, dal punto di vista temporale, epifania dei processi di mutazione che attraversano il nostro tempo, e interessano a livelli diversi la definizione delle identità: che si tratti del gender, della relazione con l’ambiente, del rapporto con la nutrizione e di quello con i rifiuti, le inversioni, le transizioni, gli scivolamenti, se appartengono alla generale evoluzione di ogni congiuntura, sono tuttavia particolarmente cruciali in questa specifica stagione, che vede la saturazione di fenomeni addensatisi nel tempo (tra tutti, ad esempio, quello climatico ma anche, sul fronte economico, quello della contrazione che ci coinvolge trasversalmente). La mutazione che qui ci riguarda è tuttavia molto specifica: è quella della veridizione dei materiali stessi, distratti dal loro significato culturale e riorientati in direzione di un livello secondo di realtà che non sapremmo chiamare artificialità. Pensiamo, in particolare, a quello che succede con le “skin” indossate dagli avatar all’interno dei videogames, dove l’identità costruita nella continuità della materia digitale genera sostanze che riorganizzano non solo il dato percettivo in assoluto, ma anzitutto la percezione della propria collocazione identitaria. In un articolo che rifletteva sui primi materiali mutanti, Ceriani (2018) suggeriva di riprendere l’opposizione categoriale proposta da Fontanille (1995) tra visée, dove il soggetto è in tensione verso un oggetto a lui esterno, e saisie, dove è al contrario assorbito nel divenire dell’oggetto stesso. La smaterializzazione, che è il focus paradossale dei materiali digitali, avrebbe allora il proprio fulcro nella mera consistenza come état d’ame, modalizzazione dell’essere attraverso stati luminosi che simulano le materie fisiche. O meglio, che a queste si sostituiscono, stante che non c’è un loro esistere prima della digitalizzazione. Sono discorsi di luce, investiti su corpi simulacro che non hanno consistenza fisica, e che non sono del resto riconducibili – nelle movenze, nelle proporzioni, nella qualificazione d’insieme della propria tenuta – a nessuna sostanza che abbia un analogo nel mondo offline. Eventualmente riconducibili al cinema d’animazione in 3D, ma con in più la sfida di fornire da supporto a quell’identificazione immersiva che veicola, attraverso l’avatar, il soggetto al centro della scena. L’esistenza digitale chiede che si acceda all’effetto di materia per pura via sinestesica, e dunque che sia la visibilità/la luce per l’appunto, a guidare l’articolazione del contenuto (l’intellegibile), ma anche la modalizzazione del sensibile da cui dipenderebbe la percezione; intensità, salti cromatici, diffusione della luminosità, in una spazialità dinamica che non può essere simulazione, poiché non ha nessun riscontro in un mondo costruito che precede la visione. 224 Ci chiediamo dunque fino a che punto la smaterializzazione intervenga all’interno del percorso immersivo, quasi a garantire l’indipendenza dell’effetto di senso proposto, la sua autosufficienza sinergica al mondo possibile che risucchia, e che è pura saisie senza riscontri al di là dell’online. Oppure, se la componente visiva che gestisce l’effetto di senso sinestesico, pur investita apparentemente di una configurazione plastica, non sia invece da ricondursi a parametri figurativi che, nella profondità più o meno concessa dal 3D, invitino in qualche modo a un confronto, scuotendo, a partire dal vedere, quella dimensione fiduciaria che appare l’aspetto più entusiasmante, quello davvero innovativo, del percorso di fruizione del materiale. Del materiale tessile in particolare, nel contesto digitale, se pensiamo allo specifico della funzione vestimentaria: credere che qualcosa sia, esserne protagonisti, sentire e capire, in funzione dell’incontro percettivo con quello che non ha di fatto alcuna consistenza fisica. Un tema del tutto diverso da quello dei materiali mutanti: si trattava, in quel caso, di rinnovare le meccaniche percettive; si tratta, in questo secondo caso, di mettere in opera dinamiche percettive che riconoscono salienze puramente immaginarie, generate dai giochi visivi voluti da un algoritmo. 3. L’esempio delle skin L’esempio è a questo punto necessario. Sapendo che occorre ricorrere, nel pensare alle pertinenze materiche digitali, a una distinzione tra quelle circolanti sulle piattaforme di giochi (come Roblox o Fortnite) e quelle invece che si occupano di NFT (come su Decentraland). Si tratta, di fatto, di due diverse gradualità di attualizzazione del Metaverso: in entrambi i casi, però, si pone appunto la questione delle skin da far indossare all’avatar, ed è rispetto a queste che vorremmo porre la discussione dei materiali immateriali. Con la premessa che a distinguerle è di fatto la diversa funzione che sono chiamate a ricoprire, in relazione ai diversi e progressivi livelli di realtà che queste piattaforme investono. Non è infatti di moda che vogliamo parlare, ma di come la necessità vestimentaria con la quale in questi contesti si riveste, letteralmente, la funzione attanziale dei protagonisti, faccia da tramite alla compenetrazione dell’effetto di realtà attraverso cui si ottiene l’engagement immersivo. Le skin sono dei veicoli mediali fondamentali, ben più del contesto in cui si muovono, proprio perché rivestono, in soggettiva, l’identità dell’attore con il quale ci identifichiamo; non solo, nel contesto attuale di silhouette relativamente elementari e di dinamiche ancora poco naturali, a gestire l’effetto di verisimiglianza non è tanto la shape, la silhouette spesso ancora impacciata e cartoon, quanto il materiale digitale stesso. Il punto è come definire i mondi possibili a cui danno accesso le skin digitali, come stabilire che quello che stiamo percependo è un mondo sufficientemente “reale” per poter desiderare di agirvi, e ancora per decidere se c’è o meno una linea di distinzione tra un mondo “reale” e uno che reale non è… Oppure, per decidere che proprio lo stato di imperfezione e indecidibilità dei materiali è la marca del tempo presente, ove non si ritenga opportuno assumere lo choc di stabilire un limite tra quello che è “dentro” e quello che è “fuori”. Le piattaforme di gioco, così come i marketplace, sono e non a caso, il terreno favorito per la veicolazione di questi materiali mediali, termine con il quale intendiamo quegli effetti di materialità che vengono investiti su attori digitali in particolare attraverso le skin, prestando loro uno specifico effetto di verosimiglianza in funzione della propria corrispondenza figurativa. La verosimiglianza è il loro stato naturale, la pre-condizione della loro esistenza: non c’è gioco senza un’identità simulata, senza un avatar, e non c’è avatar senza il rivestimento di materiali che tematizzano (o brandizzano) la sua silhouette fantomatica. Un primo esempio emblematico di questa forma di significazione è riconoscibile nel cobranding inaugurato nel 2021 da Balenciaga e Fortnite (cf. Fig 1): la moda virtuale, digitalizzando gli outfit del brand di lusso francese, consente – su un doppio fronte- di convogliare una community di fans che presumibilmente “pescano” nella Gen Z, ben più disposta a investirsi, anche in ambito vestimentario, 225 negli ambienti virtuali che in quelli fisici, anche in nome di un più radicale sostegno della sostenibilità. Questa l’operazione. Di cui tuttavia ci interessano qui non tanto il dettaglio e la seduttività delle shapes, ben più primitive di quanto la dimensione fisica ad oggi consenta, quanto le peculiari caratteristiche iconiche che i materiali che le rivestono (cotone per la felpa, materiale a scaglie per le armature, tessuto elasticizzato animalier per le tute etc.) assumono: dove ad essere pertinenti non sono, ad esempio, la freschezza del primo, la luminosità del secondo o la vestibilità del terzo, quanto la capacità di intervenire in una dinamica di rappresentazione gommosa e morbida, tale per cui il corpo umano non potrebbe seguire. Sono cartoni? No, a nostro avviso sono ibridi che inaugurano, grazie ai materiali smaterializzati, una possibilità immersiva peculiare, un poter fare sommato a un poter essere che ne sottolinea un drive argomentativo del tutto nuovo. Fig. 1 Sulle piattaforme – per comprare, interagire, giocare etc. – c’è necessità di una consistenza visiva, ma sappiamo che questa consistenza visiva ha pochissimo o nulla a che vedere con il suo “pretesto” fisico. Di fatto, misuriamo l’effetto di realtà attraverso gradienti di diversa intensità, secondo un progressivo distanziarsi dalla materialità fisica a quella aumentata, fino a quella immersiva. Detto questo, stante l’immaterialità della sostanza delle identità digitali, i termini della significazione si rovesciano: quali paradigmi conducono? In particolare, quando si tratta di skin brandizzate o di NFT, qual è il criterio qualitativo/valutativo che guida? Quale, in relazione a parametri correnti come fitting, stile, opportunità? Proviamo a rispondere aiutandoci con un secondo caso ben noto, quello dell’entrata di Dolce & Gabbana nel Metaverso, con la presenza alla Metaverse Fashion Week svoltasi sulla piattaforma nel 2022 (Fig. 2), che ha fatto seguito alla prima collezione sperimentale del 2021 (Fig. 3). Ed è proprio nel confronto tra le due diverse modalità di rappresentazione dei materiali che è dato leggere il senso dell’intervento di questi ultimi sull’effetto di realtà: dove l’evocazione della versione più recente, che porta i materiali in una dimensione connotativa e del tutto autonoma rispetto alla pertinenza referenziale accuratamente ricercata nella prima versione, appare sufficiente a legittimare la proprosta. Il Metaverso non ha più bisogno di identificarsi con figure del mondo già note, ha stato, percezione e immaginario a se stanti. Scrivono Greimas e Courtès (1986, p. 185): “L’effet de sens ‘réalité’ correspond à la relation conjonctive que le discours installe entre le monde et le sujet par une sorte d’embrayage existentiel”. I materiali digitalizzati si confermano oggetti culturali costruiti, enunciati (nella porzione figurativa dei capi vestimentari che interpretano) che producono significazione nell’insieme della proposta in questo caso siglata da una marca di moda (ma analogamente sarebbe per prodotti e brand di altra natura), e contemporanemente diventano attori della costruzione di una realtà semiotica inaugurale, che conosce valenze di senso e patemizzazione del tutto proprie. 226 L’impressione è che il valore diventi, in questo contesto, puramente modale, e che prescinda necessariamente dalla descrittività: si tratta di fashionscapes (Appadurai 1996; Calefato 2021) dalla potenzialità immaginaria, dove il processo sinestesico riveste la massima importanza, improntato a un accesso sensoriale esclusivamente visivo (visivo e sonoro in qualche caso). Fig. 2 Fig. 3 4. Identità visive in mutazione Veniamo dunque alle identità. Sappiamo bene che la differenza è garanzia di unicità e che non c’è identità senza la differenza che distingue da un attore secondo: l’identificazione è l’azione che trasforma un attante non identificato in un attore che ha il suo carico di figuratività e tematizzazione. Questo è cruciale quando pensiamo ai materiali che ricoprono gli NFT, in arte come nella moda il primo step dell’identità con cui possiamo esperire il Metaverso, ma anche produzioni autonome, acquisibili anche solo in nome del loro valore economico: sappiamo che il loro codice privilegiato è stato concepito per sigillare la loro identità digitale, facendola scivolare dal polo della continuità a quello della non continuità. Le domande che salgono sono allora evidenti: come valutare il valore immateriale quando si investe in una forma figurativa? Come catalogarlo? Come conservarlo? Come mostrarlo? Come interagire con? Ancora più, come stabilire i criteri di apprezzamento del suo valore, fino a quello finanziario? Abbiamo, in particolare, bisogno di capire che cosa succede quando le figure digitali allentano il rapporto con il loro equivalente analogico, come si ristruttura l’esperienza estesica che appare improvvisamente insignificante, o altrimenti significante. Se facciamo riferimento agli esempi di cui sopra, la nostra risposta ultima è che l’unica rappresentazione che conta è quella che conduce a una strategia della visibilità non autosufficiente, ma improntata a una ricerca di efficacia in relazione a una dinamica interna alla testualità digitale, e non più orientata al semplice embrayage di uno spettatore esterno. Nel momento in cui accettiamo l’immaginario veicolato 227 dai materiali digitalizzati che rivestono le skin, che le costruiscono, siamo già al centro della scena, in un’immersività paradossalmente facilitata proprio dalla loro distanza rispetto alla referenzialità. Il corpo/l’oggetto rivestito dalla skin è un pretesto mediale, che gestisce la sua azione in direzione di una relazione interattanziale. E la sua funzione è puramente performativa: promette, intimidisce, seduce, seguendo i ruoli che costruiscono la sua identità nella specifica contestualizzazione a cui riferiscono nel contesto del Metaverso: molti corpi fisici potrebbero corrispondervi, o nessuno. I materiali che rendono consistenti le emergenze digitali sono allora la porta d’entrata con cui il Metaverso stesso rifocalizza la relazione tra espressione e contenuto della customer experience, il pattern liquido che riassume esperienze plurime cancellando le marche dell’enunciazione. 5. Insignificanza e rimaterializzazione Si tratta, forse più che di smaterializzazione, di rimaterializzazione. La figura attorializzata è condizione di immersività, il materiale diventa ambiente inteso a produrre effetti di presenza. L’esperienza estetica è ridefinita “sembra collassare ogni distanza fra soggetto e oggetto del sentire e del conoscere” (Corrain, Vannoni 2021, p. 16). Il materiale è significante in funzione dell’esperienza polisensoriale che genera e di cui il suo spettatore partecipa, attivando una modalità sinestesica inedita, perché partecipe della sua costruzione. Come scrive Paul Dourish “rematerialization – not as a move away from the material to create a domain of the virtual but rather a new material foundation for digital experience” (2017, p. 36). La digitalità materiale si sottrae alle delimitazioni delle unità discrete e individua altre opposizioni, inscritte nella matrice del codice di programmazione. Non si chiude in oggetti, abiti, case o altre figure del mondo, ma lascia trascorrere il proprio flusso di pixel e connessioni. È informe formato. È semiotica di una diversa naturalità del mondo, che ha il suo grado zero dentro la rete. Scriveva Algirdas J. Greimas a proposito del contratto di veridizione: “le concept de vraisemblance est nécessairement soumis à un certain relativisme culturel, qu’il correspond, géographiquement et historiquement, à telle ou telle aire culturelle qu’il est possible de circonscrire” (1983, p. 103). La ridefinizione che ne dà il contesto presente interviene direttamente nella qualificazione dei materiali immateriali del digitale, il cui valore di rappresentazione è direttamente proporzionale alla capacità di restituzione dell’effetto di realtà, secondo un concetto di reale che dosa l’intensità del suo effetto sul mondo e sull’ideologia di riferimento. Quello che ci appassiona, è che questa ridefinizione del mondo “naturale” rimette l’accento su una logica dei sensi ancorata in formanti ritmici che precedono l’ancoraggio figurativo. Se è vero che la realtà è un significato che dipende dalla conformità alle regole culturali condivise, ecco che la plausibilità diventa condizione sufficiente per considerare questi “nuovi materiali” digitali come sostituti a pieno titolo di quelli a noi più consueti. In un altro mondo, però. La smaterializzazione distrae il valore dalla qualità materiale e ci obbliga di necessità a riconsiderare che cosa il valore stesso è: ecco perché le contestualizzazioni digitali del gaming, che si fondano sulla verosimiglianza, sono apparse da subito come l’humus naturale in cui permettere a questo nuovo immaginario di espandersi, rovesciando l’assiologia del contratto con i destinatari, verso un riconoscimento del valore che non può più essere descrittivo ma è subito soggettivo e modale. Ci sono due modi, scriveva Deleuze in Logique de la sensation, “di superare la figurazione (cioè insieme l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta oppure verso la Figura” (1981, p. 85). E la Figura, che Deleuze riconosce in Cézanne e Bacon, è la potenza di un’unità originale dei sensi che funziona come un dispositivo ritmico, “il mio io che si apre al mondo e che apre il mondo” (ibidem, p. 99): insignificanza apparente della riconduzione referenziale, sensazionalità e insensato di un’artificialità naturale che ci chiede di rinunciare all’ovvietà del riconoscimento materiale. 228 Bibliografia Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press. Calefato, P., 2021, La moda e il corpo, Roma, Carocci. Ceriani, G., 2018, “Vedere e credere: dalla mutazione dei materiali all’oggetto in presenza”, in Id., Cavalli al galoppo e pomodori, Milano, FrancoAngeli. Corrain, L., Vannoni, M., 2021, Figure dell’immersività, in Carte Semiotiche, Annali 7. Deleuze, G., 1981, Logique de la sensation, Paris, La Différence; trad. it. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet 1995. Dourish, P., 2017, The Stuff of Bits: An Essay on the Materialities of Information, Cambridge (Mass.), MIT Press. Fontanille, J., 1995, Sémiotique du visible. Des mondes de lumière, Paris, PUF. Greimas, A. J., 1983, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Seuil. Greimas, A. J., Courtès, J., 1986, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage II, Paris, Hachette. Hjelmslev, L., 1943, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse; trad. it. Fondamenti di teoria del linguaggio, a cura di G. Lepschy, Torino, Einaudi 1987. 229
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La materia dello spirito: ontologia o semiotica?1 Francesco Galofaro Abstract. In the first part of the paper the notion of matter will be considered as purport or mening (meaning) without metaphysical connotations. It will be also meant as inherence, i.e., the orientation of the subject towards a value. Starting from a semiotic work on the purport, in fact, some characteristics become the form of value in view of a subject. The second part will show how different texts, from Paul to Edith Stein through Plutarch, John Damascene, Thomas Aquinas, Teresa of Avila, Leibniz, Florensky and Wittgenstein, construct the metaphysical opposition between matter and spirit by attributing different values to the two terms. Thus, purport precedes matter in the ontological acceptation. The third part summarizes the first two: there is no pre-semiotic or extra-semiotic matter; the discourse about ontology can think of matter only within a semiotics of value. In this frame, the principle of inherence will be considered as an operator who organizes purport (meaning) into a value and a subject for whom such a value is worth through semiotic work. 1. La “materia” come purport Nella traduzione italiana di Hjelmslev (1943) la tripartizione forma/sostanza/materia segue essenzialmente la versione francese (forme/substance/matière). Ne deriva una inevitabile analogia con il concetto aristotelico di synolon, foriero di molte confusioni filosofiche e di derive ontologiche non sempre produttive, oltre all’esclusione della materia dall’indagine della significazione, dato che essa non è conoscibile se non tramite una forma. Proprio da questa esclusione sono sorte in passato serie difficoltà nel dialogo tra semiotica e discipline che hanno molto a che fare col materiale, dalle arti figurative al design, che gli articoli contenuti nel presente volume intendono superare. Dal punto di vista che qui intendiamo sviluppare, l’esclusione della materia sorge entro la ricezione del pensiero di Hjelmslev in ambito francese e italiano, a causa delle connotazioni metafisiche del termine matière; la traduzione inglese di Francis J. Whitfield, approvata dall’autore, usa il termine purport. Secondo il dizionario Merriam-Webster online, purport significa “meaning conveyed, professed, or implied : import; also : substance, gist”. Dunque, purport non è la materia nel senso, ontologico, di “ciò che costituisce tutti i corpi” (Treccani online). Purport è un “argomento in genere, soggetto di cui si tratta in una conversazione, in una conferenza, in un libro, ecc”. È il “succo del discorso”, il “nocciolo della questione”. Sempre secondo il Merriam-Webster online, il verbo to purport originariamente aveva il valore di “significare”; ha acquisito nell’inglese contemporaneo la sfumatura di intendere, implicare; dunque, se ha un qualche genere di interesse filosofico, la c.d. “materia” ha a che vedere con la problematica dell’intenzionalità più che con la metafisica. Forti di questa prospettiva, si ritorni sul noto passo dei fondamenti: 1Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council (ERC) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea (convenzione di sovvenzione n. 757314). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Così troviamo che le catene: jeg véd det ikke (danese) I do not know (inglese) je ne sais pas (francese) en tiedà (finlandese) naluvara (eschimese) nonostanti le loro differenze, hanno un fattore in comune, cioè la materia, il senso, il pensiero stesso (Hjelmslev 1943, p. 55). Nella versione inglese troviamo: “despite all their differences, have a factor in common, namely the purport, the thought itself” (Hjelmslev 1943, p. 50 della trad. ingl.) . Il traduttore italiano, Giulio Lepschy, è costretto a specificare che per “materia” si intende senso; d’altronde, nella sua introduzione (Hjelmslev 1943, p. xxiv) si legge che il termine danese usato da Hjelmslev è mening. Il termine ricorda anche foneticamente il meaning inglese, ma vale anche come “opinione” e si colora di sfumature cognitive ed ermeneutiche. Il mening, tradotto col termine ontologicamente connotato di “materia”, è stato identificato grossomodo col supporto o con il canale della teoria dell’informazione (l’aria, la carta e tutto ciò che si presta ad essere formato dalla lingua). In questa prospettiva, restava oscuro e misterioso in che senso il pensiero fosse una specie di “supporto” della forma del contenuto. Ma se traduciamo mening con “senso, argomento”, a costituire un mistero non è più cosa sia la materia del piano del contenuto. È anzi piuttosto chiaro che la materia del contenuto è una sorta di presa molare sul senso, anteriormente all’analisi vera e propria; è il gist, il nodo in discussione, il punto di cui si tratta. Il concetto meno intuitivo diviene piuttosto il purport–expression, ossia il senso dell’espressione. In altri termini, non è che Hjelmlsev estrapoli al piano del contenuto una nozione che ricava dallo scarto residuale dall’analisi del piano dell’espressione; è piuttosto il contrario. Una cosa è certa: Hjelmslev non sembra intendere la carta, la tela, in un senso “ontico”: in che modo, infatti, i pixel dello schermo su cui scrivo potrebbero essere intesi come senso dell’espressione? I problemi non finiscono qui: una volta identificata la materia al senso, come intendere, la seguente, notissima affermazione? La materia è dunque in se stessa inaccessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni conoscenza è un’analisi di qualche tipo; la materia si può conoscere solo attraverso una qualche formazione, e non ha quindi esistenza scientifica indipendente da tale formazione (Hjelmslev 1943, p. 82-83). È chiaro che Hjelmslev parla di una inconoscibilità ad un livello epistemologico, e non gnoseologico, altrimenti il senso di una qualsiasi frase sarebbe inconoscibile; non solo: a rigore egli stesso dovrebbe astenersi dallo scrivere alcunché sulla materia. E invece si spinge fino a darne una definizione formale: la materia è una “classe di variabili che manifestano più di una catena entro più di una sintagmatica, e/o più di un paradigma entro più di una paradigmatica” (Hjelmslev 1943, p. 148). Poiché la sostanza è la variabile in una manifestazione, la materia è una classe di sostanze. È quindi difficile accogliere la proposta di Eco, che – a suo dire, alla luce della semiotica peirceana – propone di identificare la materia ad un unico continuum (Eco 1984, p. 52). Infatti, intendendo la materia in termini di purport, ciò equivarrebbe a dire che esiste un unico senso, un unico argomento. Dalla definizione non si deduce l’esistenza di un’unica classe di sostanze. Dovremmo piuttosto pensare a un pluralismo delle materie e dei sensi, ovvero delle classi di sostanze costruibili entro uno stesso piano (dell’espressione e del contenuto) o tra i piani. 231 1.1. La materia tra differenza e inerenza A mio parere, la materialità del senso messa in gioco dal purport si comprende meglio se la consideriamo non tanto come differenza, con Saussure (non usciremmo infatti dal paradosso della sua inconoscibilità al di fuori della forma) quanto piuttosto come inerenza: il significato per un soggetto è investito in un oggetto che ha valore per lui. Il principio di inerenza, da parte sua (posizione del soggetto), risponde alla nozione fenomenologica di valore, al tipo di valore che giustifica la correlazione fondamentale soggetto-oggetto all’interno della nozione fenomenologica di intenzionalità. Si tratta di plasmare una relazione orientata, vettorializzata da una dinamica che è quella di dare senso, o, se si vuole, di coglierlo (Marsciani 2014, p. 18). Chiaramente, differenza e inerenza si presuppongono come la nozione di costante presuppone la nozione di variabile, senza che vi sia l’una anteriormente all’altra, senza che ciascuna di esse si dia senza l’altra in senso assoluto – a dircelo è anche la definizione hjelmsleviana della materia come classe di variabili. Nella semiotica di Greimas, il valore non può essere sic et simpliciter identificato con il purport. Al contrario, il concetto saussuriano di valore linguistico, “ha permesso l’elaborazione del concetto della forma del contenuto (L. Hjelmslev) e la sua interpretazione come insieme di articolazioni semiche” (Greimas, Courtés 1979, p. 375). Dunque, il valore è forma in quanto è il risultato di un’analisi. Tuttavia, nella brevissima voce che Greimas dedica alla materia, scrive: L. Hjelmslev usa indifferentemente i termini materia o senso applicandoli insieme ai due ‘manifestanti’ del piano del contenuto. La sua preoccupazione di non-impegno metafisico è qui evidente: i semiologi possono dunque scegliere a loro piacimento una semiotica ‘materialista’ o ‘idealista’ (Ibid., p. 209). Ciò che sembra contare, dunque, non è tanto che il valore appartenga a uno dei due piani (nella fattispecie, quello del contenuto), quanto l’attribuzione di valore da parte di un soggetto che fa presa su questo o quell’aspetto della materia, così formandola: dar valore (o far valere) è un’operazione di “ritaglio”; è una “selezione”; è distinguere ed evidenziare. Un esempio può venire dall’oculistica: la leggerezza di un paio d’occhiali è senza dubbio una proprietà formale, relazionale, risultante da una combinazione dello spessore delle lenti e del materiale della montatura. Detto questo, è anche il risultato dell’orientamento del soggetto che attribuisce un valore all’oggetto (inerenza). Nella scelta di un paio d’occhiali, la leggerezza è una tra le proprietà fondamentali che permette l’incorporazione dell’oggetto (si veda anche Marsciani 2008 per quanto riguarda l’incorporazione delle calzature). Il sapere degli oculisti, codificato nella cultura, include le proprietà formali (pratiche, estetiche …) ricavabili, dunque valorizzabili, attraverso il lavoro su una data materia. Allo stesso tempo, nella produzione di un oggetto nuovo si dà una ricerca del valore virtuale che mira a oltrepassare i limiti dell’attuale. Si tratta di un lavoro semiotico esercitato sulla materia per produrre, modificare, sostituire forme dell’espressione e del contenuto e per correlarle (Eco 1975, 3.1.2.). La leggerezza dell’occhiale, in quanto forma del valore, è frutto di un qualche genere di selezione e di ritaglio: esso si effettua sulla materia-purport – il metallo che si lascia formare in aste sottili, il vetro puro che si lascia ritagliare in geometrie prive di difetti. Un senso globale, il purport, si presta a un lavoro semiotico di valorizzazione, di informazione: si presta insomma a divenire forma del valore. Nella prossima sezione, mi occuperò di un caso studio importante: quello dell’opposizione formale tra materia e spirito. Nonostante le diverse epoche abbiano costruito la relazione tra i due valori in modi molto diversi, la nozione di purport e il principio di inerenza permetteranno di cogliere fenomeni comuni e tendenze di fondo, rivelandosi – almeno spero – piuttosto utili nella pratica d’analisi 232 2. La materia e lo spirito Materia e spirito sono in primo luogo due valori semantici che caratterizzano il discorso religioso occidentale, in larga parte cristiano, nella misura in cui esso la eredita l’opposizione forma/materia dalla filosofia greca e l’assimila all’opposizione tra anima e corpo o tra spirito e carne. Tale opposizione risulta dall’analisi del linguaggio - oggetto del discorso religioso e non va confusa con quella tra forma, sostanza e materia che caratterizza il metalinguaggio semiotico. Per evitare confusioni, d’ora in avanti riserviamo il termine ‘materia’ al linguaggio oggetto e il termine purport o mening al metalinguaggio. Lo scopo che mi propongo, in primo luogo, non è una ricostruzione delle complesse vicende e incarnazioni dello spirito attraverso i millenni, quanto ridurre questa complessità a un numero finito di opposizioni che normalmente ricorrono nei testi. Come vedremo, infatti, tra materia e spirito si sono date per lo meno le seguenti relazioni: 1. Antonimia: spirito e materia sono contrari; 2. Opposizione privativa: la materia è assenza di forma (spirito) e viceversa; 3. Inclusione: lo spirito è contenuto nella materia; 4. Partecipazione: lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva “materia”, la quale lo comprende al proprio interno. In ciascun caso è possibile ricostruire diversi investimenti forici che trasformano tali opposizioni in assiologie. Qui di seguito presenterò i relativi esempi e cercherò, attraverso il principio di inerenza, di render conto del purport di partenza. 2.1. La carne e lo spirito Generalizzando, nel cristianesimo si assiste a una difficile convivenza tra due cosmologie più o meno implicite: la prima considera la materia come un male da cui liberarsi, rasentando a tratti lo gnosticismo; la seconda la vede come parte del creato, e dunque non può associarle un valore del tutto negativo. Innanzitutto occorre sottolineare come l’opposizione spirito-materia non sia familiare all’ebraismo: L’imitatio Dei non divide nell’ebraismo l’essere umano in due sfere distinte, una corporale e una spirituale, bensì va perseguita con tutto il néfesh, con l’integralità della persona. Anche il corpo dunque va santificato, dalla nascita (attraverso la circoncisione) fino alla morte (con le pratiche di cura del corpo del defunto, che non va dissacrato né distrutto, per esempio con la cremazione) (Volli 2022, p. 29). L’antonimia spirito/carne (sarx) organizza l’assiologia della lettera di Paolo ai Romani: Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rm 8, 3-4). La sintesi tra pensiero ebraico e greco costituita da tale opposizione è originale (Volli 2022, p. 16). Secondo il commento della TOB (1988, pp. 2590 - 2591, 2571-2, n. g), il passo abbonda di relazioni con altre lettere paoline mentre è singolarmente privo di riferimenti intertestuali ai vangeli. Ad essere precisi, l’antonimia spirito/carne non ha un valore assoluto nemmeno in Paolo: “carne” può valere anche come “umanità”, la quale non può essere giustificata attraverso le opere (Rm 3, 20) oppure come debolezza umana incline al peccato (Rm 7, 25). Nel passo riportato sopra, tuttavia, essa ha un valore di norma etica (vivere secondo la carne/secondo lo spirito). “Carne” è l’economia mosaica (BDJ 233 1998, p. 2668): non si può pensare di costringere Dio a salvarci rispettando formalmente l’insieme di norme dell’antico testamento; dopo la resurrezione di Cristo, le opere si compiono con la forza dello Spirito. La lettera è indirizzata alla comunità romana e, come è noto, si propone di prevenire divisioni tra i convertiti di origine ebraica e pagana. Chi ha provato a ricostruire l’insegnamento orale di Cristo attraverso le tracce che esso lascia negli scritti di Paolo riscontra piuttosto una convergenza tra Rm 8, 26 e la nozione gesuana di Spirito come soccorritore (Walt 2013, pp. 348 – 350). È innegabile l’assonanza con Mt 26, 41: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Tuttavia, nelle parole che Gesù pronuncia sul monte degli ulivi, in un momento di angoscia, non risuona una vera antonimia. Anche la TOB (1988, p. 2307, n. w) riconosce in Gesù un insegnamento più vicino ad alcuni testi ebraici dell’epoca, secondo i quali “Dio ha messo nell’uomo uno spirito orientato verso il bene, ma l’uomo è nello stesso tempo tutto carne in quanto è sottomesso al potere del peccato”: avremmo insomma un’opposizione partecipativa (la parte vs. il tutto che la comprende). Anche negli scritti giovannei – Gv 1, 14: et verbum caro factum est – la carne rappresenta “la natura umana con le sue possibilità e i suoi limiti, e, più ampiamente l’esistenza terrena senza alcuna sfumatura peggiorativa” (TOB 1988, p. 2424, n. p). Insomma, il punto di vista di Paolo, secondo cui carne e spirito sono antonimi, è originale. Del resto, il suo stile di scrittura era incline alla figura retorica dell’antitesi (Walt 2013, p. 317). Non sarebbe corretto, tuttavia, ascrivere genericamente al pensiero greco che risuona in Paolo la svalutazione della materia. Ad esempio, in pieno medio-platonismo, idea e materia sono entrambe valorizzate positivamente: La natura migliore, quella più divina, si compone di tre parti, ossia il principio intelligibile, la materia, e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione (Plutarco 1985, p. 122). Nel passo citato, Plutarco interpreta il Timeo di Platone sottolineando soprattutto la metafora matrimoniale e generativa tra idea e materia. Proprio in quanto antonimi, idea e materia danno vita al cosmo, termine complesso che li comprende entrambi, e non sembrano opposte assiologicamente. Plutarco (Ivi) divinizza la relazione forma materia } cosmo stabilendo un parallelo con gli dèi egizi Osiride (origine), Iside (ricezione) e Horos (compiutezza). L’identificazione della materia con una sede ci mostra come la presunta antonimia tra materia e forma possa essere riarticolata come rapporto di inclusione, contenitore/contenuto, su cui ritornerò nel prossimo paragrafo2. Il male non coincide di per sé con la materia; per Plutarco esso è piuttosto l’effetto di un’anima malvagia, titanica, irrazionale, volubile, insita nella materia. Tale anima è impersonata dal personaggio di Tifone che uccide Osiride (cfr. Reale, 2018, pp. 1847, 1850, 1852-1854). Detto questo, l’opposizione paolina tra materia e spirito, entro cui la prima è valorizzata negativamente e il secondo positivamente, organizza ancora di fatto la nostra cultura sopravvivendo ai fenomeni di secolarizzazione connessi alla nascita del capitalismo (Berzano 2017). Si ritrova, ad esempio, in un 2A una sensibilità contemporanea, tuttavia, non sfugge il fatto che nella cultura greca il principio maschile è generatore, mentre quello femminile è ridotto a mero contenitore (Pazé 2023, pp. 101 – 102). Si potrebbe definire una sorta di utero in comodato d’uso. 234 filosofo laico come Ludwig Wittgenstein, che la attribuisce a Tolstoj (1881) nel proprio diario segreto, scritto in codice durante la Prima guerra mondiale: 12.9.’14 Le notizie diventano sempre peggiori. Stanotte ci sarà uno stato di allerta generale. Lavoro un po’ di più o un poco meno ogni giorno, e mi sento abbastanza ottimista. Mi ripeto sempre le parole di Tolstoj: “L’uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito”. Possa lo spirito essere in me. Nel pomeriggio il sottotenente ha udito dei colpi nelle vicinanze. Ero molto agitato. Probabilmente verremo posti in stato di allarme. Come mi comporterò quando si comincerà a sparare? Non ho paura di essere ucciso, ma di non compiere fino in fondo il mio dovere. Dio mi dia forza! Amen. Amen. Amen (Wittgenstein 2021, p. 50). Nella lettura di Wittgenstein, che adatta Tolstoj alla propria angosciosa esperienza esistenziale, lo Spirito è il destinante che consente la liberazione dell’uomo da uno stato miserabile caratterizzato come un paradosso modale (dover e non poter fare). Lo Spirito e Dio dotano l’uomo di un poter fare. Il valore verso cui si orienta Wittgenstein è il compimento del proprio dovere di filosofo e ricercatore, che può essere interrotto in qualsiasi momento dalla morte. Quale purport è in gioco qui? Le condizioni estreme di pericolo che caratterizzano l’esperienza raccontata nei diari lasciano emergere immagini quali sirene d’allarme, fucilate nel buio, panico tra i soldati sotto attacco. Tale purport viene riorganizzato grazie all’opposizione formale materia/spirito, fino a venire valorizzato nonostante tutto dal credente nella misura in cui egli è in grado di ri-categorizzarlo, attraverso un lavoro semiotico, come “prova”. 2.2. Tomaso d’Aquino tra ontologia e semiotica Come si è detto, il discorso filosofico non può trattare il tema ontologico della materia se prima essa non è considerata come purport. Questo appare chiaro quando un testo filosofico assegna un valore forico alla materia. Solitamente, ciò avviene senza che chi scrive se ne mostri consapevole; tuttavia, Tomaso d’Aquino (De spiritualibus creaturis) presenta il problema in forma esplicita. Tomaso sottolinea lo scarso consenso dei teologi nel considerare la sostanza spirituale come composta da materia e forma. Da un lato, infatti, Dionigi Areopagita pensa gli esseri spirituali come il grado di perfezione più prossimo a Dio, ovvero all’atto puro privo di potenza, puramente intellettivo, senza bisogno di quella materia che è imperfetta, incompletissima inter omnia entia. D’altronde, ogni forma creata è limitata e definita attraverso la materia; dunque non vi sono sostanze create prive di materia: questa almeno era l’opinione corrente nel XIII secolo, sulla scorta di Avicebrol, contro la quale argomenta Tomaso. Al di là del retroterra filosofico di Tomaso e della sua personale soluzione al problema, per la quale si può rimandare a Sofia Vanni Rovighi (1973, pp. 50-52), egli nota come il dibattito filosofico metta in gioco due sensi distinti del termine “materia”, spesso confusi: “ad huius veritatis inquisitionem, ne in ambiguo procedamus, considerandum est quid nomine materiae significetur”. In senso proprio e generalmente accettato, la “materia prima” è identificata come pura potenza, senza delimitazioni, incompleta, ma in grado di venire definita dalla forma. In questo primo senso, la materia prima è definita negativamente, è privazione di forma; d’altro canto vi è un secondo senso, meno comune secondo Tomaso, per il quale ogni potenza è chiamata materia, ogni atto è chiamato forma, e ogni atto presuppone la propria potenza. In questo secondo senso, la “materia” è solo il terminale di una relazione che la precede, ovvero l’esistenza. Dal punto di vista che qui mi interessa sviluppare, la “materia” presenta nei discorsi teologici due distinti purport-mening. Il principio di inerenza aiuta a comprendere come ciascuno di essi sia frutto di una relazione intenzionale tra la materia e un soggetto per la quale ad essa può essere attribuito un valore, 235 positivo o negativo. Il soggetto può attribuire un valore alla perfezione: in tal caso, la materia è imperfetta (priva di perfezione) e lo spirito è privo di tale privazione. In alternativa, il valore è attribuito alla creazione, nel qual caso lo spirito è ricevuto dalla materia per venire all’esistenza: si stabilisce allora tra i due una relazione di inclusione. In questa seconda accezione, la materia non è più l’antitesi dello spirito, perché è in grado di riceverlo e ne è la sede. 2.3. Corpo e spirito nell’ascesi La questione di Tomaso non era puramente speculativa, ma coinvolgeva, da un punto di vista sociosemiotico, diverse forme di vita circoscritte dal discorso cristiano. Come si è detto, infatti, l’opposizione tra forma e materia sono centrali in alcuni sottogeneri specifici del discorso religioso quali l’ascesi o la mistica. Per esempio, le agiografie abbondano di digiuni strenui, di mistiche in grado di nutrirsi per anni di una sola ostia al giorno; in realtà i consigli dei padri del deserto ai loro figli spirituali erano molto chiari sulla necessità di non causare danni irreparabili al corpo, creato da Dio: Uno dei padri raccontò che vi era alle Celle un anziano vestito di stuoia, che lavorava con molto zelo. Un giorno che si era recato presso l’abate Ammonas, questi, vedendolo rivestito di quella stuoia, gli disse: “Ciò non ti serve a niente”. L’anziano gli confidò: “Ho tre pensieri che mi tormentano: il primo mi spinge a ritirarmi in qualche parte del deserto; il secondo a raggiungere paesi stranieri dove nessuno mi conosca; il terzo a rinchiudermi in una cella dove nessuno mi possa vedere e a mangiare solo ogni due giorni”. L’abate Ammonas gli rispose: “Nessuna di queste tre cose è conveniente per te; continua piuttosto a vivere nella tua cella, mangia un poco ogni giorno, custodisci sempre nel tuo cuore la parola del pubblicano che si legge nel Vangelo, e potrai essere salvo (Campo, Draghi 1975, Ammonas, 4). Se ci si chiede quale sia qui il purport in gioco, ci si imbatte nel grande tema dell’accesso allo spirito attraverso il corpo. L’inerenza chiama in causa il valore perseguito dal soggetto, rappresentato dal perfezionamento spirituale. Il racconto contrappone due opposte valorizzazioni foriche: una radicale mortificazione del corpo o una rinuncia moderata, metodica e costante. In termini di semiotica narrativa, nell’ascetismo estremo il valore di base di base (la salvezza) è sostituto da valori d’uso (estraniamento, solitudine, digiuno), sanzionati negativamente dal Destinante incarnato da Ammonas. La moderazione e la metodicità nella rinuncia, suggerite dall’abate Ammonas, ricordano all’anziano che l’atletismo spirituale non deve in nessun caso sostituirsi al fine della vita eremitica, poiché in questo modo la vanagloria (quella del fariseo cui fa riferimento il passo evangelico citato) impedisce la salvezza. 2.4. La materia dell’icona L’antonimia paolina non toglie nulla al mistero dell’incarnazione: se la materia è così vile, come ha potuto Dio farsi uomo? Nell’VIII secolo, Giovanni Damasceno si pone proprio questa domanda nel difendere le icone. Disprezzata dagli iconoclasti, che egli paragona per questo ai manichei, la materia ha purtuttavia un valore. Non si tratta del sacro: nell’immagine si venera il prototipo che essa raffigura, la trasmissione del sacro è una proprietà formale della relazione tra tipo e occorrenza. Il valore della materia consiste piuttosto nella sua capacità di ospitare, di racchiudere questo valore: […] onoro e tratto con venerazione anche tutta l’altra materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina. O forse non è materia il legno della croce, esso infinitamente felice e beato? Non è materia il monte venerabile e santo, il luogo del Golgota? Non è materia la roccia donatrice e apportatrice di vita, tomba santa, fonte della nostra resurrezione? 236 Non è materia l’inchiostro ed il santissimo libro dei vangeli? Non è materia la tavola vivificante che prepara per noi il pane della vita? Non sono materia l’oro e l’argento con cui si approntano croci, patene e calici? E prima di tutte queste cose, non sono materia il corpo ed il sangue del Signore? E quindi, elimina il culto e la venerazione di tutte queste cose! Oppure concedi alla tradizione della Chiesa anche la venerazione delle immagini santificate dal nome di Dio e degli amici di Dio, e per questo motivo adombrate dalla grazia dello Spirito Santo! (Giovanni Damasceno 1983, pp. 46-47). Anche in questo caso, si parte da un purport consistente in roccia, legno, inchiostro, oro, corpo e sangue. Per il principio di inerenza, essi assumono un valore spirituale per un soggetto credente. Si immagini un pellegrino, per il quale i paesaggi rocciosi che attraversa sono solidi e immutabili come la verità che egli insegue, pur avendola già dentro di sé. Nel caso presente, la relazione tra spirito (qui assimilato alla forma) e materia non è più antonimica; è piuttosto una relazione di complementarità, la medesima che si dà tra contenitore e contenuto. Questa relazione si trova ancora nel XX secolo in Florenskij: Nella consistenza del colore, nel modo di applicarlo sulla superficie corrispettiva, nella struttura meccanica e fisica delle superfici stesse, nella natura chimica e fisica della materia che lega i colori, nella composizione e nella consistenza dei solventi e dei colori stessi, nelle lacche o altre sostanze fissanti dell’opera dipinta e in altre sue “cause materiali”, già è espressa direttamente anche quella metafisica, quella profonda percezione del mondo che la volontà creativa dell’artista cerca di esprimere attraverso la data opera come insieme unico (Florenskij 2008, p. 82). Poiché l’insieme di queste cause materiali non è una scelta dell’artista, ma si colloca entro la cultura di cui egli fa parte, Florenskij dichiara che “la causa materiale dell’opera esprime il senso di un’epoca perfino più dello stile in quanto carattere comune delle forme in questo preferite” (ivi). 2.5. Etnosemiotica e materia Mi sono imbattuto in un caso interessante in cui le proprietà del materiale manifestano il senso spirituale del rito osservato. Nella Chiesa ortodossa polacca, in alcune occasioni speciali, i fedeli si riuniscono in cerchio intorno al celebrante. A turno si inchinano mentre il presbitero pone loro sul capo una Bibbia. Ho avuto occasione di assistere al rito a Varsavia, nella Cattedrale di Santa Maria Maddalena, durante una cerimonia dei vespri, in ottobre 2022. Ricorrendo ai codici della propria cultura, un osservatore cattolico può interpretar il rito come una sorta di benedizione. Inoltre, un semiotico potrebbe formulare l’ipotesi che un qualche valore “sacro” si trasmetta grazie al contatto con il libro, per contiguità, come avviene nei segni indicali di Peirce. Tuttavia, tale descrizione non è ancora sufficientemente adeguata. Infatti, il significato simbolico è manifestato da una qualità materiale del volume: la pesantezza. “Al fedele è richiesto di farsi supporto della fede, e il rito è appagante per coloro che sentono questo bisogno”, mi ha detto il mio informatore, un fedele ortodosso. Vi è dunque in gioco il purport rappresentato da una qualità (la pesantezza) che viene rivalorizzata per qualcuno (il fedele), e dunque l’inerenza tra il valore e un soggetto per il quale tale valore vale3. 3 Si intravede qui una direzione di ricerca ulteriore. Infatti, è proprio l’opposizione tra forma e sostanza in Hjelmslev ad essere partecipativa (cfr. Zinna 2001). Come è noto, Deleuze fu un interprete di Hjelmslev. È possibile che la piega rappresenti il lavoro semiotico applicato al purport-mening per produrre la forma? Quanto l’attenzione di Deleuze alla doppia piegatura si deve al suo interesse verso la biplanarità delle semiotiche hjelmsleviane? Purtroppo, un tentativo di rispondere qui alla questione mi porterebbe lontano dal tema del presente lavoro. 237 2.6. La materia della mistica nel XVII secolo Un’alternativa più radicale all’opposizione antonimica tra materia e spirito si trova nella cultura barocca. La spiritualità del barocco in genere è carnale e sensuale: coincide con l’apoteosi dei corpi dei santi nelle cupole delle chiese, il culto degli organi (il sacro cuore di Gesù), la coprofagia di Santa Margherita Maria Alacoque. Scrive Deleuze: Il barocco diversifica le pieghe, seguendo due direzioni, due infiniti, come se l’infinito stesso si dislocasse su due piani: i ripiegamenti della materia e le pieghe nell’anima. In basso, la materia è ammassata in un primo genere di pieghe, ed è poi organizzata in un secondo genere di pieghe, nella misura in cui le sue diverse parti costituiscono altrettanti organi ‘piegati in maniera differente e più o meno sviluppati’. In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe senza mai giungere a svilupparle interamente, ‘poiché esse vanno all’infinito’ (Deleuze 1988, p. 5). Nell’interpretazione deleuziana, ispirata a Leibniz, lo spirito risulta da un ripiegamento formale di secondo grado della materia, che dapprima si fa corpo (inteso come un insieme di invaginazioni e cavità), e in seguito sviluppa una seconda interiorità psichica. Quello barocco è un materialismo spirituale, nella misura in cui abolisce la relazione antonimica tra materia e spirito accentuandone il carattere di opposizione partecipativa (Hjelmslev 1937). Lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva delle “materie ripiegate”, la quale lo comprende al proprio interno4. Leibniz è un autore di ambito protestante; la semisfera cattolica manterrà una distinzione più netta tra materia e spirito. Nonostante ciò, vi è almeno un ambito in cui l’incarnazione dello spirito tende ad abolire la dicotomia spirito/materia, ed è la mistica. Come nota De Certeau, alla fine del Cinquecento la parola “mistica” cessa di essa un aggettivo (teologia mistica) per divenire il nome di una disciplina sperimentale che fa del corpo un laboratorio mirato alla conoscenza del divino. Si tratta di una reazione ad una crisi di credibilità del discorso teologico tradizionale ereditato dalla scolastica, e di un recupero dell’inclusione della spiritualità nella materia. [...] depuis que la culture européenne ne se définit plus comme chrétienne, c’est-à-dire depuis le XVIe ou le XVIIe siècle, on ne désigne plus comme mystique le mode d’une «sagesse» élevée à la pleine reconnaissance du mystère déjà vécu et annoncé en des croyances communes, mais une connaissance expérimentale qui s’est lentement détachée de la théologie traditionnelle ou des institutions ecclésiales et qui se caractérise par la conscience, acquise ou reçue, d’une passivité comblante où le moi se perd en Dieu (De Certeau 1975). Sempre secondo De Certeau, alla pretesa indicibilità del senso mistico si accompagna la sua manifestazione psicosomatica. Anche in questo caso, come in quello dell’antonimia spirito/materia, non si tratta di una opposizione tralatizia: la concezione della mistica sviluppatasi nel corso del XVII secolo negli scritti di San Giovanni della Croce diviene rapidamente il modello per eccellenza del sapere cattolico sulla mistica, e in questo modo è ereditato dalla cultura del XX secolo (Da Pietrelcina 1984; Wojtyła 2003). Non si tratta di una opposizione del tipo contenitore/contenuto: come abbiamo detto, l’interiorità che risulta dalla piega di secondo grado è spirito. A entrare nello spirito, ovvero in se stessa, è l’anima: Può darsi, figlie mie, che ciò vi sembri una stranezza [...] Esiste, in qualche modo, un’evidente differenza fra l’anima e lo spirito, pur essendo essi una cosa sola Si percepisce una divisione cos sottile, che a volte l’uno sembra operare in un senso e l’altra in un altro, a seconda di come decide il Signore (Teresa d’Avila 1577, p. 217). 4 Rinvio la discussione dei problemi metodologici relativi all’osservazione partecipante a una successiva pubblicazione. 238 Anche Edith Stein avverte il contrasto tra l’impostazione scolastica e la spiritualità moderna rappresentata da Teresa D’Avila, tentando una conciliazione in chiave fenomenologica: Noi abbiamo cercato di risolvere quest’enigma distinguendo da un lato la differenza contenutistica esistente fra spirito e materia (che riempie lo spazio) considerati quali diverse categorie dell’essere [...] e dall’altro la distinzione formale esistente fra corpo, anima, spirito, stando alla quale l’anima è l’elemento recondito, ancora informe, mentre lo spirito ne è la vita palese, liberamente fluente (Stein 1950, p. 130). Come vediamo, per risolvere il problema ontologico Edith Stein deve distinguere diverse accezioni in un medesimo purport (lo “spirito”), confermando il fatto che la nozione semiotica di purport è condizione di possibilità del discorso ontologico. Al di là della soluzione proposta, è l’interiorità risultante dalla doppia piegatura descritta da Deleuze a divenire sede per elezione della ricerca del divino. Il purport consta di cavità, antri, anfratti corporei, che il fedele ri-valorizza, per il principio di inerenza, in quanto coincidenti con lo spirito. 3. Discussione Come abbiamo visto, le rispettive proprietà “ontologiche” della materia e dello spirito si producono entro un genere di discorso che ne costruisce la relazione: antonimica, privativa, di inclusione o di partecipazione. Secondo il principio di inerenza, i poli della relazione vengono diversamente assiologizzati a seconda di una relazione di carattere intenzionale per la quale il soggetto attribuisce un valore ad alcune caratteristiche che seleziona entro un insieme di virtualità presenti in maniera indistinta nel purport. Non tutti i filosofi si avvedono del fatto che la concezione metafisica della materia che vanno sviluppando dipende dal significato che le attribuiscono (purport-mening); lo prova l’esempio di Tomaso, il quale, al contrario, si mostra consapevole della questione. La materia-purport è il campo d’esercizio di un ritaglio dal quale emerge la forma del valore, per effetto del lavoro di quel soggetto per il quale tale valore vale. Tuttavia, ciò comporta un problema. Nella prospettiva strutturalista, adottata da Hjelmslev e alla quale ci siamo rifatti, non può che essere la relazione di inerenza a porre i propri terminali, a operare sul purport perché ne emergano non solo una forma del valore, ma anche una forma-soggetto per il quale tale valore vale. D’altronde, il discorso teologico non si limita ad attribuire valore a Dio ma produce al contempo anche il teologo che ne scrive; allo stesso modo, il filosofo non preesiste all’ontologia, né il semiotico al senso. 3.1. Il monismo e i suoi rischi Dagli anni Settanta in poi all’interno del post-strutturalismo sono stati pubblicati diversi lavori in cui il confine semio-ontologico non è ben chiaro: vi sarebbe una materia pre-semiotica, la quale si auto- organizza articolandosi e diviene semiotica. Vi è una confusione non del tutto chiarita sui principi che emergono dallo studio morfodinamico della forma: una confusione mai del tutto chiarita tra morfogenesi e ontogenesi. In analogia con il discorso religioso, per i tentativi di fondare la semiotica sul monismo ontologico vale qualcosa di simile a ciò che Leone scrive dell’ascesi: [...] dal punto di vista semiotico l’ascesi è fondamentalmente racconto del sogno impossibile di ritornare a uno stadio della generazione del senso ove le differenze che lo producono si annullino 239 nell’unità assoluta, o nell’indistinzione (sogno impossibile perché lì dove le differenze si annullano non vi è prensione possibile del senso) (Leone 2013). Inoltre, optare per un modello che faccia discendere la semiotica da una nozione ontologica di materia è a mio parere un passaggio scarsamente motivato: non si vede perché fondare la semiotica sull’ontologia; non si ravvisano nell’oggetto d’analisi motivazioni sufficienti; soprattutto, non si vedono le conseguenze della scelta di questo fondamento per quanto riguarda gli sviluppi della disciplina. Per un dibattito sull’argomento rimando ad Amoroso et al. (2016). Inoltre, le descrizioni del passaggio da un monismo pre-semiotico all’articolazione semiotica si collocano in un ambito prettamente ontologico soltanto in apparenza; come abbiamo visto, l’attribuzione stessa di un qualche valore al monismo può accadere solo a valle di una semiotica del valore. È ben noto che Heidegger, dopo essersi posto, in Essere e tempo, il problema del senso dell’esserci dell’essere, non è riuscito nell’intento di analizzare il senso dell’essere in generale per un limite linguistico: La terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica (Heidegger 1976, p. 94). Heidegger diviene consapevole del fatto che il linguaggio non è “trasparente” nel porre in rapporto l’individuo e il reale, e conclude che “il linguaggio è la casa dell’essere” (ibid., p. 44). Vorrei prenderlo alla lettera: qualsiasi ontologia è il risultato di un lavoro che il discorso filosofico compie sui propri concetti non solo attraverso una lingua tecnica ma soprattutto entro una semiotica del valore. Nulla ci obbliga considerare il discorso filosofico come un ambito sottratto all’analisi semiotica, la quale potrà anzi contribuire a chiarirlo (Marrone 2022). Il giudizio di valore su quel che è “reale” e “non-reale” esita dal senso che il mondo ha per noi. Dunque: dapprima abbiamo un discorso filosofico il cui purport- mening consiste nel ricavare valore dalla “materia” per costruire un fondamento ontologico; in seguito, il discorso filosofico ancora a tale principio primo la significazione stessa. Del resto, i principi di qualunque insieme d’assiomi sono sempre scelti precisamente sulla base dei teoremi che da essi si intende dimostrare. 3.2. Per concludere La nozione di materia- purport che ho difeso fin qui assimila la materia al senso e ne fa qualcosa di totalmente interno alla semiotica. Naturalmente, se proprio un principio primo generativo del cosmo semiotico ci dev’essere, ci si può chiedere per quale motivo esso debba essere una materia differenziabile e non la differenza stessa, ad esempio. La differenza è in grado di produrre, per differenza, anche l’identità, in quanto la seconda è differente dalla prima. Non vale il contrario: non è possibile produrre la differenza a partire dall’identità per identità, perché se qualcosa è identico all’identità esso è proprio l’identità. Non si tratta solo di un sofisma: se consideriamo D e I alla stregua di operatori, e definiamo I come l’operatore che lascia inalterato il suo ingresso, possiamo scrivere 𝐷2 = 𝐼 240 per tradurre il fatto che la differenza produce l’identità attraverso la differenza e 𝐼2 = 𝐼 per rappresentare il fatto che l’identità, applicata a se stessa, restituisce l’identità. Anche il principio di inerenza (In) andrebbe considerato come un operatore che, applicato alla materia (M), fornisce come risultato la giunzione tra un Valore (Ov) e un Soggetto (S) per il quale il valore vale: 𝐼𝑛𝑀 = 𝑆𝑂𝑣 In questo modo, non siamo costretti a postulare un Soggetto originario, il quale è un prodotto dell’applicazione del principio di inerenza al purport. In analogia con la semiotica testuale, per la quale il soggetto non è un elemento, ma il prodotto dell’articolazione della categoria proto-attanziale, i soggetti dell’enunciazione sono il prodotto di una articolazione della materia a partire dal principio di inerenza. Come si è detto sopra, è precisamente tale processo a restituire “materia formata” (sostanza) attraverso un lavoro semiotico (Eco 1975) che fa emergere la forma-valore. 241 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Amoroso, P., De Fazio, G., Giannini, R., Lucatti, E., 2015, Corpo, linguaggio e senso: tra semiotica e filosofia, Bologna, Esculapio. Berzano, L., 2017, Quarta secolarizzazione: autonomia degli stili, Udine, Mimesis. BDJ, 1998, La Bible de Jérusalem, Paris, Les Éditions du Cerf; ed. it. 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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3109
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Bodies of the Future. Il farsi senso della materia Francesco Piluso, Francesco Pelusi Abstract. In Crimes of the Future (2022), David Cronenberg comes back to the body-horror genre, by shedding light on the body and its deformations as symptoms of an ontological degeneration of the human subject. The human body is constantly involved in a process of hybridization with technologies that strongly alter its physical traits and undermine its aesthetic abilities. This double-logic of extension and amputation of the body by technological means is reproduced by the thematic figure of the surgery that, in a world deprived of any aesthetic and pathemic dimension, becomes a key fetishist form and practice of sense-making in any social domain, from art to sex. To these surgical operations corresponds an attempt of semiurgical rewriting, aimed to give a meaning to the “internal chaos” affecting the human body. We assist to a constant tension between such a human necessity of semiotic and biopolitical control of the body and the inexorable advance of a matter that exceeds its role of static base for signification and, at the same time, is no longer reducible to a pre-signified substance. The analysis of the movie serves as a premise for a broader semiotic reflection and theoretical hypothesis: the reconfiguration of the category /nature vs. (techno)culture/ in a circularity that questions the assiological priority assumed by nature in western metaphysics, by giving credits to a body matter that has acquired the capacity of becoming sense in autonomous way. Il corpo è il grande trasformatore, traduttore, luogo delle trasposizioni, dei trasferimenti; corpo come cerniera, come relais, come convertitore, come luogo dei rovesciamenti e delle metamorfosi. Francesco Marsciani, Minima Semiotica 1. Il ritorno al body horror di Cronenberg: le mutazioni tecno-materiche del corpo Crimes of the Future, ultimo film di David Cronenberg presentato al festival di Cannes del 2022, è stato annunciato come ritorno del regista al genere di cui viene considerato padre fondatore: il body horror1. La filmografia del regista canadese, infatti, è segnata da numerosi esempi cinematografici propriamente ascrivibili al genere come Il demone sotto la pelle (1975); Rabid (1977); Scanners (1981); Videodrome (1983); La Mosca (1986) e Crash (1996). Film in cui le deformità tipiche del body horror costituiscono un meccanismo narrativo centrale, diversamente da altre pellicole del regista – in cui le 1 Si segnala che nella precedente edizione del Festival di Cannes (2021) la palma d’oro è stata assegnata a Titane di Julia Docournau. Film ascrivibile al genere del body horror definito dalla critica come erede di Crash di David Cronenberg del 1996. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). mutazioni corporee assumono un carattere di semplice tematizzazione – che tuttavia si presentano in continuità con una riflessione di più ampia portata sulla relazione tra linguaggio e materia 2. L’interesse per questo film – in relazione all’occasione per cui questo contributo nasce 3 – è legato alla problematizzazione che, in linea con i topoi estetico-narrativi di questo sottogenere dell’horror, propone della nozione di “materia” e di quelle di “corpo” e “soggetto” che, a partire dalla stabilità ontologica di questa, assumono caratteri di chiusura e coerenza 4. Le deformazioni fisiche – mutazioni genetiche, malattie deturpanti e mutilazioni – presenti in questo genere cinematografico attualizzano, infatti, una prospettiva del soggetto “in metamorfosi” (Braidotti 2006) che mette in crisi un’ontologia dell’umano stabilizzata sull’indiscutibilità unificatrice del concetto di “natura” che si attualizza a partire dalla stabilità materica del corpo, arrivando a definirne la mostruosità (Coen 1996) e la relazione problematica che questo intrattiene con definizioni identitarie comprese quelle di genere (Grant 1996). A mettere in questione questa funzione stabilizzatrice anche la rappresentazione in questi film del complesso rapporto che l’uomo intrattiene con la tecnologia. Un rapporto con la macchina che, nella filmografia di Cronenberg, assume diverse declinazioni passando da una relazione di ibridazione in parte inspiegata tra corpo organico e materiale inorganico – come in Videodrome (1983) – o resa in maniera più diretta e violenta – come in Crash (1996) – ad un rapporto più sofisticato e intimo in Crimes of the Future (2022). Nel film preso in analisi in questo contributo viene presentata, infatti, una tecnologia che si insinua nella quotidianità dell’umano accompagnandolo nelle sue attività essenziali, come il mangiare e il dormire e, come vedremo, in quelle più intime come il sesso. Si assiste dunque a una penetrazione della tecnologia nel fisiologico che ne ridefinisce i limiti e ne riorganizza le coerenze manifestando l’inadeguatezza di una prospettiva che oppone in maniera discreta le dicotomie “natura-cultura”, “organico-inorganico” e “soggetto-oggetto”. Al contrario, la complessità di un’epoca postumana (Braidotti 2013) – che mette in crisi il rappresentazionismo identitario dell’umano (Butler 1990) – evidenzia la circolarità che tiene insieme in maniera dialettica (Morin 2001) i binarismi – orientati assiologicamente – tipici della metafisica occidentale (Derrida 1967). Lo statuto identitario dell’umano – anche nella sua dimensione biologica – viene riarticolato in un futuro imprecisato, quello di Crimes of the Future, dove non esistono più dolore fisico e malattie infettive. I protagonisti del film, Saul Tencer (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), sono una coppia di artisti di fama mondiale che si esibisce in pubblico in una performance in cui i nuovi organi di origine tumorale prodotti dal corpo di Tencer – affetto da Accelerated Evolution Syndorme – vengono asportati chirurgicamente. Una pratica che – sterilizzata del portato disforico del dolore fisico – viene livellata alla performance sessuale non riproduttiva. Assistiamo nel film dunque a una riarticolazione dell’umano che opera su due livelli: da un lato le mutazioni corporee di Saul che dislocano l’agentività – e l’intenzionalità – dal “soggetto-persona” verso un “corpo-materia” che, rendendosi autonomo nel proprio divenire, si fa soggetto; dall’altro un’evoluzione dei dispositivi tecnologici che arrivano a mediare anche tutte quelle attività – immediate – che gli esseri umani condividono con gli altri esseri viventi nella loro dimensione fisiologica a prescindere dalla connotazione “culturale-tecnologica” che discrimina l’uomo rispetto agli altri esseri (Morin 2001). Mentre quest’ultime innovazioni tecnologiche sono normalizzate e capitalizzate, nella 2 Si vedano alcuni esempi quali, lo scenario ginecologico in Dead Rings (1988) – Inseparabili nella versione italiana; l’occhio sfregiato di Carl Fogarty, interpretato da Ed Harris, in An History of Violence (2005) e le ustioni di Mia Wasikowska in Maps to the stars (2014). 3 Il presente contributo nasce in relazione al nostro intervento tenuto al 50° Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici “Semiotica Elementale” tenutosi a Palermo dal 1 al 3 dicembre 2022. 4 I tratti di chiusura, coerenza e coesione sono gli elementi che definiscono un testo. Contrariamente, i sistemi complessi che definiscono la nostra contemporaneità sono caratterizzati dai tratti di apertura, contraddizione e non-coesione in linea con il modello enciclopedico configurato da Umberto Eco (Paolucci 2010). 245 società rappresentata in Crimes of the Future , vedremo come la sovrapproduzione di organi nel corpo di Saul rappresenta un’occasione per tematizzare il film in chiave politica. Si avrà modo di evidenziare, infatti, come nella pellicola si assista ad uno “scontro tra ideologie” in cui agenzie governative operano affinché venga limitato il reale portato eversivo delle mutazioni corporee del personaggio interpretato da Mortensen: attraverso un’operazione di controllo razionale, tipica del linguaggio, che conferma una metafisica della sostanza, viene ribadita la “stabilità” e la “coerenza” del soggetto e del corpo umano in nome di una “naturalità” in realtà costruita discorsivamente (Butler 1993). Le categorie caratterizzanti la modernità – le “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (1979) – vengono così a palesarsi come posizioni di discorso, aprendo di fatto ad una forma di relativismo “semio-culturale” che si pone subito come atteggiamento critico, dal momento che, nel legame tra visione del mondo e il modo in cui le diverse culture segmentano a livello semantico e sintattico l’esperienza, “i processi di mutamento di codice avvengono quando questa interazione non viene accettata come naturale e viene sottoposta a revisione critica” (Eco 1975, p. 138). Tuttavia, è importante evidenziare che in Crimes of the Future il corpo esplicita il proprio carattere mutevole e differenziale proprio in virtù del regime discorsivo e socioeconomico postfordista in cui questo è continuamente prodotto e riprodotto come base significante da cui estrarre plusvalore (Cooper, Waldby 2014). Una prospettiva che riduce il corpo, il bios e la vita a oggetti di interpretazione da sfruttare economicamente (Fumagalli 2007), “allo stato di trasportatori di informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e capitalizzandoli” (Braidotti 2013, p. 126). La tecnologia presente nel film monitora e manipola digitalmente i dati forniti dai corpi, esplicitando in questo modo la stretta relazione – di dominio – che il linguaggio intrattiene con la materia. Un rapporto che, in linea con la svolta semiotica e i successivi sviluppi poststrutturalisti, implica un portato critico relativizzante – una forma di critica sociale – che tuttavia può arrivare a ridurre la materia a semplice fattore semiolinguistico. Con Hjelmslev (1943) ricordiamo, infatti, che la prospettiva semiotica afferma come la possibilità di accesso alla materia avvenga esclusivamente in quanto questa si offre formata in sostanze. Una schermatura formale operata dal linguaggio che offre una prospettiva costruttivista che riduce la materia a passività relazionata ad una recezione tutta umana che la valorizza. Un limite – antropocentrico – che riduce la materia a semplice significato, reintroducendo di fatto una forma di “rappresentazionismo ontologico” che un’epistemologia semiotica fondata sulla “relazione” dovrebbe evitare. Il rischio è quello di riproporre uno squilibrio – orientato assiologicamente – tra le istanze enuncianti (Coquet 2008) che livellerebbe la materia in una sintesi generalizzante – immanenza – basata sul linguaggio-forma. Uno sbilanciamento dal lato “semio-culturale” che – contrariamente alla monodimensionalità semiotica priva di profondità gerarchica (Paolucci 2007) – propone un riduzionismo ideologico (Eco 1975) che non riesce a rendere conto delle molteplici istanze d’enunciazione – umane e non – coinvolte nelle mutazioni corporee di Saul Tencer e, più in generale, nella costituzione dell’ecologia “socio-tecnologica” di Crimes of the Future. In questo senso, l’ultimo film del regista canadese offre una rappresentazione narrativa di una semiosi materica che esula dalla simbolizzazione operata dal linguaggio, oltre che un pretesto per avanzare una (auto)critica e una prospettiva semiotica sul farsi senso della materia. 2. Estensione ed amputazione In Crimes of the Future , il corpo umano è soggetto a costanti mutazioni ed evoluzioni (Ricci 2011) al fine di adattarsi all’ambiente esterno, a sua volta in costante cambiamento. Le tecnologie con le quali l’essere umano entra in contatto sino ad ibridarsi fungono da estensioni protesiche che ne alternano la facoltà sensibile, la presa estetica sul mondo (McLuhan 1964). È proprio l’estetica di questi 246 dispositivi mediali ad allontanarsi dal tradizionale immaginario cronenberghiano, che tende ad esaltarne la materialità inorganica, soprattutto nel contrasto, spesso incidentale, con la carne viva – come avviene in Crash . In Crimes of the Future , invece, ciò che viene messa in scena è una certa organicità delle apparecchiature tecnologiche, sia per quanto riguarda il materiale di cui sono composte, sia per il modo naturale e armonico attraverso cui queste si legano al corpo del proprio utente: dal materiale sintetico, alla sua sintesi con l’organico. Fig. 1 – Orchibed. Si prenda ad esempio l’Orchibed (Fig. 1), una sorta di letto sospeso il cui sofisticato impianto tecnologico è efficacemente dissimulato dalla naturalità che ne caratterizza i materiali, le forme e le operazioni: il corpo di Saul vi si può adagiare, rigenerare (sia nel senso di riposo che di rigenerazione dei propri organi interni) e addirittura cullare, raccolto nel guscio di quello che appare come uno strano esemplare di coleottero gigante o, ai più visionari, una rara specie di orchidea carnivora. Discorso analogo per quel che riguarda il Breakfaster (Fig. 2), una particolare sedia utilizzata durante i pasti, il cui scheletro – letteralmente – è costituito da elementi che non solo ricordano visivamente delle ossa umane 5 , ma si interpongono tattilmente tra i muscoli e gli organi impegnati nella masticazione e nella digestione, accompagnandone i movimenti. 5 Nel design osseo di questa sedia è forse possibile rintracciare un rimando alla celebre scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick: qui, la nascita della tecnica, e assieme ad essa della civiltà umana, è allegoricamente rappresentata da un osso di una carcassa animale che da resto organico diviene strumento nelle mani della scimmia che si appresta a diventare umana in virtù di questa sua estensione; in linea con la prospettiva di Leroi-Gourhan (1943, 1945), l’ipotesi che si vuole avanzare è che l’ibridazione tra umano e tecnologia una condizione originaria e costitutiva di entrambi i termini della relazione. Allora, come mostrato nel film di Cronenberg, l’evoluzione dell’essere umano e della tecnologia non può che rimandare, retrospettivamente, a un percorso filogenetico comune. 247 Fig. 2 – Breakfaster. A questo movimento di estensione protesica, organica, si contrappone in modo sottile ma estremamente violento, un processo di amputazione (McLuhan 1964): il corpo umano è ormai anestetizzato e i suoi sensi narcotizzati dagli stessi dispositivi tecnologici che ne mediano l’esperienza. Si prendano nuovamente in considerazione l’Orchibed e la poltrona scheletrica: entrambe queste tecnologie intervengono in gesti e momenti quotidiani, quali appunto dormire e mangiare, al fine di anticipare e ammortizzare ogni minimo dolore fisico, anche la più lieve ombra di disagio corporale, che tali azioni possono comportare. Da un’estetica tattile si passa così a una vera e propria ideologia del tatto, inteso come profilassi, anestesia e tutela dal mondo esterno. Piuttosto che fungere da mediazione tra corpo umano e ambiente naturale, le tecnologie diventano progressivamente esse stesse l’ambiente ibrido di cui il soggetto non può che avere un’esperienza impoverita, calcolata per difetto. In questo modo, Cronenberg ci offre una rappresentazione originale delle bioinfotecnologie e delle relative operazioni di manipolazione e informatizzazione del soggetto umano di cui si è parlato nell’introduzione. Ciò diventa particolarmente evidente nel caso del protagonista Saul, dove gli apparecchi che ne regolano le funzioni vitali vengono continuamente ritarati in funzione delle mutazioni costanti, quali continua crescita di tumori e di nuovi organi interni, che ne caratterizzano il corpo. La Accelerated Evolution Syndrome è uno degli effetti perversi dell’ibridazione e anestetizzazione del corpo umano rispetto al mondo esterno che le tecnologie tentano di limitare e, al contempo, favoriscono, come una sorta di patologia autoimmune, di virus che si diffonde dall’interno di un corpo sottoposto a una costante profilassi (Baudrillard 1990). Escrescenze tumorali che, come eccedenze dei sensi e del senso, continuamente deformano e ridefiniscono i confini del soggetto umano in relazione all’ambiente circostante: momento esplosivo della dialettica tra estensione e amputazione che stenta a trovare sintesi. 3. Chirurgia e semiurgia La doppia logica dell’estensione e dell’amputazione trova il proprio sviluppo narrativo nella concatenazione continua tra questi due momenti; una dinamica che nel film è ulteriormente esplicata attraverso il tema e la figura della chirurgia. Difatti, in maniera analoga alla tecnologia, la chirurgia assume un ruolo fondamentale in quanto forma, spesso deformante, di controllo estetico e semiotico del 248 corpo umano. Questo ruolo si esplicita all’interno di diversi campi discorsivi; primo tra tutti, quello dell’arte. Saul e la sua partner Caprice sono artisti impegnati in delle performance di body art in cui la chirurgia è, oltre che strategia, una tattica che opera direttamente sul corpo in funzione di una sua catarsi. In particolare, Caprice, attraverso il SARK – un altro macchinario che esalta la connessione digitale e la circolarità manipolatoria, nella modalità del far fare, tra corpi organici e inorganici – rimuove chirurgicamente le escrescenze tumorali di Saul; le parti asportate vengono poi esposte e ammirate dal pubblico come delle vere e proprie opere d’arte (Fig. 3). Fig. 3 – SARK, operazione chirurgica. Il valore artistico dell’organo deriva dalla stessa performance che si presenta come un rituale di consacrazione, forse addirittura di transustanziazione, dell’elemento “sovrannaturale” in opera d’arte. Analogamente alla Comunione cristiana, la ritualità della performance è un modo per comunicare, nel senso di mettere in scena e in condivisione, il miracolo osceno di questa generazione spontanea di organi; un’operazione che permette di ridare un senso a queste singolarità eccedenti. Dunque, più che a una rivelazione di una verità profonda, a uno spogliamento della mediazione e apertura dello sguardo verso l’oggetto in quanto tale, assistiamo a un processo di ri-velazione (Ricci 2008), ossia di costruzione e istituzione semiotica di un oggetto feticcio che riflette sul proprio codice di valorizzazione e significazione. All’operazione chirurgica si sovrappone così un’operazione di riscrittura semiurgica (Baudrillard 1976). A questo proposito, non è un caso che l’organo, prima di essere rimosso, sia marchiato e tatuato da Caprice (Fig. 4), in modo che – nel successivo momento performativo – ciò che venga rimarcato e ricondiviso e celebrato sia lo stesso meccanismo di messa in forma semiotica di una deformità di partenza. Fig. 4 – Organo tatuato e asportato. 249 L’operazione di riscrittura semiologica è attutata non solo durante le performance artistiche clandestine dei due protagonisti, ma dalle stesse istituzioni e, in particolare, da alcuni organi interni in via di istituzionalizzazione, costretti ad operare anch’essi in un regime di semioscurità in attesa di un riconoscimento ufficiale; tant'è che l’intero film è dominato da un clima di spionaggio, in cui risulta complicato avanzare una lettura ideologica lineare e individuare con chiarezza l’assiologia dei vari personaggi, costantemente coinvolti o segretamente infiltrati in piani complottistici che ambiscono a farsi egemonia, nuova norma. Dopo tutto, è questo l’obiettivo del National Organ Registry, dipartimento governativo segreto della New Vice Unit, progettato per catalogare e conservare i nuovi organi che i corpi umani sembrano generare spontaneamente; un tentativo di normazione burocratica che goffamente si sovrappone, piuttosto che opporsi, al discorso artistico ed estetico portato avanti da Caprice e Saul – come quando quest’ultimo viene candidato al concorso di “bellezza interna”6 istituito dallo stesso ufficio: una strategia per svuotare l’escrescenza interna del suo significato profondo, potenzialmente rivoluzionario, e riportarla a una superficie discorsiva, puramente estetica. Le cospirazioni di questi attori rispondono tutte alla necessità di una normalizzazione sociale e di una manipolazione semiotica del “caos interno” che affligge i corpi mutanti. Chirurgia e semiurgia allora cooperano per separare l’organo dalla sua presunta (sovra)naturalità e reimmetterlo nell’ordine sociale dominante; al contrario di quanto professato e agito da un gruppo di mangia-plastica, la cui prassi biopolitica è volta a naturalizzare gli effetti dell’ibridazione tra organico e inorganico per istituire un nuovo ordine naturale delle cose (§ 5). In ogni caso, che sia a trazione naturalizzante o culturalizzante, di fatto ciò che viene sancita da queste pratiche discorsive è la natura ibrida del corpo, in quanto prodotto di un difficile connubio tra natura e cultura ed elemento critico di un ecosistema complesso e dinamico che elude qualsiasi forma di stabilizzazione ideologica (Latour 1991, 2005). 4. La chirurgia è il nuovo sesso Oltre che nel campo dell’arte, la chirurgia è figura centrale anche nel dominio discorsivo e politico della sessualità. Nel film più volte viene ripetuto che “la chirurgia è il nuovo sesso”; tutta una serie di pratiche erotiche sono infatti legate a operazioni chirurgiche, attraverso cui il corpo umano assume nuova forma e nuovi significati. Il taglio opera chirurgicamente e semioticamente sul corpo, trasformandolo in quello che Baudrillard (1976) definisce un “carnaio di segni”; secondo l’autore, mediante il taglio chirurgico non solo viene scongiurata la castrazione del sesso “reale”, ma caricata di un valore sessuale feticcio ciascuna parte si erige a partire dallo stesso taglio. Analogamente al caso dell’arte, il rito chirurgico-sessuale: Non è un gioco di spogliamento di segni, verso una profondità sessuale, è al contrario un gioco ascendente di costruzione di segni – dove ogni marchio assume un valore erotico grazie al suo lavoro di segno, cioè di capovolgimento che esso opera da ciò che non è mai stato (castrazione) a ciò che esso designa al suo posto e in sua vece: il fallo (ivi, pp. 122-123). Anche in questo caso, dunque, il taglio non si presenta come apertura in profondità verso una natura intima del corpo, ma come lavoro erotizzante e (an)estetizzante. A questo proposito, risulta particolarmente emblematica un’altra scena di performance, in cui un artista si esibisce in una sorta di ballo estatico; la peculiarità e l’efficacia della scena sta nel corpo del danzatore, interamente ricoperto 6 La tematica della “bellezza interiore”, configurazione estetica – non animista – dell’interno della corporalità umana, è ricorrente all’interno della filmografia del regista canadese. Nell’ambientazione ginecologica di Dead Rings (1988), ad esempio, Jeremy Irons fa un continuo riferimento ad un ipotetico concorso di bellezza per le fattezze organiche del corpo umano. In merito ad un approfondimento su questo aspetto si segnala il volume curato da Michele Canosa (1995). 250 da orecchie o, più precisamente, da padiglioni auricolari impiantati chirurgicamente, che sembrano amplificarne la capacità sensoriale ed il trasporto fisico (Fig. 5). Come ci viene però rivelato, in realtà, gli organi in questione non si fanno più mediatori di una determinata facoltà estetica, ossia non hanno più alcuna funzione uditiva, dal momento che sono stati espiantati dalla loro naturale rete di relazioni anatomiche e ricuciti lungo la superficie del corpo con una funzione meramente ornamentale – e solo in questo senso, estetica. In questa scomposizione chirurgica e riconfigurazione superficiale delle parti del corpo viene a perdersi qualsiasi protensione sensoriale (così come ribadito dalla bocca e dagli occhi dell’artista cuciti chirurgicamente); l’aspetto estensivo, ovvero di apertura del corpo al mondo esterno, è talmente estremizzato dalla moltiplicazione e installazione artificiale di orecchie al punto che il corpo ne risulta saturato e suturato. Fig. 5 – Performance, estasi e anestesia. La cerniera che Saul si fa applicare chirurgicamente sul proprio ventre, utilizzata come motivo erotico nel rapporto sessuale consumato con Caprice, ha un’analoga funzione di suturazione del corpo (Fig. 6). Fig. 6 – Cerniera e nuovo sesso. 251 Se da un lato la cerniera aperta permette l’esplorazione e la penetrazione degli organi interni, dall’altro, essa opera una trasposizione di questi stessi organi a un livello superficiale, laddove è possibile una loro riscrittura semiotica e valorizzazione sessuale feticcia. In questo modo, sono gli stessi organi interni che vanno a rimarginare il varco aperto dalla cerniera che, richiudendosi, non fa che ri-velare l’intimità del sesso reale. Il corpo risulta intero e chiuso, fallo esso stesso, proprio in virtù dei tagli che lo configurano come superficie significante: la sua scomposizione, e ricomposizione, in parti che si significano reciprocamente, e metonimicamente rimandano al corpo nella sua totalità, esclude qualsiasi possibilità di rimando metaforico a un significato profondo o a un referente naturale. Per questa ragione, il nuovo sesso non ha né ragione interna né una finalità esterna: non è attività riproduttiva, ma piuttosto operazione e passione del corpo, che seduce e, al contempo, esclude, proprio in virtù dell’autonomia, della coerenza e della perfezione semiologica che lo stesso rituale sessuale gli conferisce. Ed è proprio lungo queste categorie che si gioca la battaglia ideologica del film: da una parte, l’inesorabilità di una materia e di un corpo che continuamente si riproduce, evolve e si fa nuovo senso; dall’altro, il tentativo disperato di un controllo biopolitico e di una manipolazione semiurgica di questa stessa materialità attraverso la sacralizzazione, la catalogazione, l’estetizzazione e l’erotizzazione – in una parola, la feticizzazione – di tutte le sue eccedenze di senso. 5. Dare senso al caos interno La scena di apertura di Crimes of the Future (Fig. 7) introduce uno sviluppo narrativo che, inizialmente slegato dai protagonisti Saul e Caprice, diventerà chiave interpretativa dell’impostazione ideologica del film di Cronenberg. In un’ambientazione post apocalittica – una spiaggia con una nave affondata all’orizzonte – un ragazzino sta giocando con i sassi presenti sul fondale, quando la madre lo invita a non mettere nulla in bocca e a rientrare a casa. Una raccomandazione solita che un genitore dà ad un figlio, ma che diviene sospetta quando vediamo lo stesso bambino una volta in casa prendere a morsi un cestino seduto a terra in bagno, mentre la madre lo guarda di nascosto piangendo. Nella scena successiva la donna soffocherà il figlio con un cuscino nel sonno e successivamente farà una telefonata – al padre del bambino – avvisandolo dell’accaduto e di andare a prendere il corpo: “chieda a Lang se ha interesse di venire a prendere il corpo di quella creatura che chiama figlio […] quella cosa che è Brecken”. Fig. 7 – Scena iniziale. La “mostruosità” di Brecken avrà nel film la funzione di mettere in crisi la morfologia dell’umano che la società di Crimes of the Future garantisce attraverso l’operato delle sue istituzioni. Lo stesso Saul – che scopriremo agente del governo sotto copertura – avrà modo di rivalutare la propria posizione in relazione agli accadimenti del film. Alle prese con i disturbi legati alla crescita di un nuovo organo, si reca insieme a Caprice al “Registro Nazionale degli organi” dove dichiara la sua preoccupazione per il 252 “mutamento” che sta coinvolgendo il corpo umano. Come afferma il dipendente del registro: “Umano è la parola d’ordine. Ciò che preoccupa è l’evoluzione umana che sta andando per il verso sbagliato. Che è fuori controllo. È ribelle” 7 . Sono anni che Saul continua a produrre nuovi organi che puntualmente fa esportare – nella performance artistica con Caprice – in quanto tumori che mettono in pericolo la regolare funzionalità del corpo. L’ufficio che opera al fine della registrazione di questi nuovi organi – che avviene attraverso l’operazione semiurgica del tatuaggio8 – è preoccupato dallo sviluppo di questi in quanto possono anche arrivare ad affermarsi geneticamente, trasmettendosi dai genitori ai figli, i quali non sarebbero più umani almeno nel senso convenzionale del termine. Il controllo semiotico, tecnologico e politico operato sui corpi manifesta la propria inadeguatezza in relazione alla metamorfosi in atto nel corpo di Saul, strettamente connessa alla vicenda del piccolo Brecken. La “creatività organica” di Saul viene amputata – nell’esaltazione della performance artistica – in quanto “un organismo deve essere organizzato, sennò è solo cancro artificiale” (Caprice). Ma questa convinzione comincia a vacillare quando il padre del piccolo Brecken – Lang Dotrice – incontra Saul e gli propone di fare un’autopsia al corpo di suo figlio nella prossima performance. La volontà del padre è quella di avere una dichiarazione “molto pubblica” di quello che l’interno del corpo del bambino rivelerebbe. Contrariamente alla posizione condivisa da Saul e Caprice, per cui la chirurgia artistica delle loro esibizioni sarebbe un modo di trasformare in arte l’anarchia, Lang è a capo di un’organizzazione di sovversivi – definiti “mangia-plastica” – che si fanno portavoce di un “fantastico processo naturale” di sincronizzazione dell’evoluzione umana con la tecnologia. Grazie ad un intervento chirurgico questi soggetti, infatti, sono in grado di digerire la plastica: “dobbiamo iniziare a nutrirci dei nostri stessi rifiuti industriali. È destino” (Lang). L’ultimo film di Cronenberg mette in opposizione, da un lato una prospettiva – attorializzata nelle agenzie governative e nei due performer – che attualizza una normativizzazione del corpo, attraverso un controllo semiotico – tecnologico – finalizzato al mantenimento di una certa morfologia dell’umano in quanto significato stabilizzato da un codice (Eco 1975) che assume carattere di presunta naturalità, dall’altro, un gruppo di sovversivi, che propone un nuovo rapporto di ibridazione del soggetto con l’ambiente tecnologico, aperto al divenire. Un’interpretazione questa che vede il corpo in funzione delle sue potenzialità e non in virtù della sua essenza che definisce una problematica esclusivamente morale (Deleuze 2007): i processi del divenire sono forme di resistenza al sistema, “in quanto mirano al potenziamento e all’accrescimento di ciò che i soggetti possono fare (la loro potentia)” (Braidotti 2006, p. 156). Assistiamo ad uno “scontro tra ideologie” in quanto entrambe le posizioni – anche se apparentemente opposte – condividono una prospettiva limitata in relazione alla dimensione umana da cui sono condizionate: la prima tutela la categoria di umano radicata in uno schematismo semantico del passato; la seconda valuta positivamente la metamorfosi corporea in atto in nome di un umano che si proietta verso il futuro. L’autopsia da svolgere sul corpo di Brecken ha l’obbiettivo di mostrare come la mutazione artificiale – prodotta con un’operazione chirurgica in Lang – sia stata ereditata geneticamente dal figlio producendo una naturalizzazione dell’artificio che legittimerebbe la metamorfosi agli occhi dell’opinione pubblica, confermando in questo modo come l’effetto d’indiscutibilità naturale sia in realtà la risultante di una stabilizzazione discorsiva identificata in questo caso specifico con la fenomenologia riproduttiva. Nella trasmissione genetica dell’artificio – insabbiata durante l’autopsia del corpo di Brecken – l’intenzionalità del soggetto umano viene messa tra parentesi in favore di un corpo che, in un percorso 7 Il responsabile dell’ufficio evidenzia come la scomparsa del dolore, come sistema di allerta dell’essere umano, abbia portato all’affermarsi di una società molto più pericolosa rispetto al passato. 8 Il tatuaggio per la registrazione dell’organo viene criticato da Saul che, in quanto ripetizione della conformazione dell’organo stesso, lo domina. Non limitandosi ad essere parassitario – in quanto scrittura (Derrida 1967) – pare tolga significato all’organo ponendo la significazione su di sé: un controllo semiotico che toglie alla materia la propria capacità di significare. 253 di adattamento con il proprio ambiente tecnologico ed inorganico, manifesta una propria agentività. Saul afferma più volte di non essere consapevole di quello che accade al suo corpo, dando a quest’ultimo anche i meriti creativi che sono alla base delle sue performance. Lasciati crescere questi organi assumono una funzione sistemica relazionandosi tra loro e relazionandosi all’inorganicità della plastica con funzione digestiva, in una relazionalità che rende l’uomo un’istanza periferica. Le due fazioni, che si scontrano in Crimes of the Future sulle sorti dell’umano – condividono il limite ideologico del voler dare senso al caos interno del corpo attraverso una semiotizzazione della materia che non tiene conto dell’agentività di quest’ultima nella costituzione della realtà sociale. In una continua dinamica di esplicitazione interpretativa (Peirce) che – analogamente a quanto avviene con la pratica dell’autopsia – è finalizzata a riempire un corpo che crediamo vuoto di significato attraverso un processo di simbolizzazione. 6. Conclusioni In Crimes of the Future si assiste dunque ad un continuo debordare della materia rispetto al controllo semiotico operato dall’essere umano. Questa mutevolezza corporea viene limitata dagli uffici governativi - in funzione di uno schematismo semantico che definisce politicamente, attraverso una dinamica di esclusione, il campo di legittimità di ciò che può definirsi umano (Butler 1990) – mentre viene accolta da quelli che si stanno spingendo pericolosamente oltre il tracciato, i mangia-plastica, per i quali il mutamento viene letto solo e comunque alla luce di quello che può implicare per il futuro dell’umanità. Al contrario, il film definisce l’inadeguatezza del limitare la rappresentazione al semplice linguaggio umano evidenziando come questa sia distribuita in maniera più ampia. Il sistema rappresentazionale basato sul linguaggio umano è un particolarismo all’interno di un movimento semiosico più ampio che permette di definire un’antropologia che va oltre l’umano attraverso un’attività di provincializzazione del linguaggio (Kohn 2013). I “neo-organi” dell’ultimo film di Cronenberg si fanno soggetto del proprio mutamento fino al raggiungimento di una natura sistemica con funzione di apparato digerente. Nel mondo postumano (Braidotti 2013) le istanze – umane e non – si relazionano in una continua riconfigurazione (agency) material-discorsiva per cui il significato non è né intralinguisticamente conferito né extralinguisticamente riferito, ma è definito a partire da continue pratiche di rielaborazione di confini, proprietà e significati (Barad 2007). È necessario, dunque, non limitare l’enunciazione ad una prospettiva condizionata dalla priorità conferita al soggetto umano, quanto piuttosto riassegnarli una fisionomia impersonale ed evenemenziale che redistribuisce questo sbilanciamento gerarchico in favore della polifonica eterogeneità delle istanze enuncianti (Paolucci 2020; Latour 2002, 2017). Le mutazioni corporee di Crimes of the Future sono infatti fuori dal controllo dell’intenzionalità del soggetto fenomenologico manifestando una propria capacità di farsi senso, contrariamente ad una prospettiva che identifica il lavoro d’interpretazione basato su convenzioni culturali come l’unica possibilità per la materia per non apparire a-semiosica (Eco 1990, p. 181). Un atteggiamento che stabilisce la natura culturale di qualsiasi mondo (ivi , p. 255) definendo la semiotica come forma di critica sociale (Eco 1975) e la decostruzione derridiana come forma di spiazzamento degli ordini concettuali che definiscono la realtà (Culler 1982). I valori della società umana rappresentata nel film sono messi in discussione da queste metamorfosi materiche sottolineando l’adeguatezza che una prospettiva costruttivista può assumere in relazione alla complessità che caratterizza anche la nostra contemporaneità in cui le assiologie tipiche della metafisica occidentale vengono continuamente riarticolate. Tuttavia, nell’ultimo film di Cronenberg, assistiamo ad un continuo debordare della materia che, allo stesso tempo, rileva il limite che una prospettiva di questo genere può assumere reimmettendo una forma di rappresentazionismo a partire dall’ontologia linguistica affermata. Al contrario, bisogna impostare “una riflessione sulla vitalità di una materia che 254 non è ormai più natura, ma neanche solo tecnologia, bensì processo costante di messa in relazione di tutti questi elementi” (Braidotti 2010, p. 93). Il momento di profonda crisi e incertezza che ci viene prospettato in Crimes of the Future ci offre uno spaccato di un ordine naturale e sociale in disperato bisogno di una sua restaurazione o di un nuovo riassemblaggio (Latour 2005). Quello che ci appare come uno scenario distopico, un mito dell’apocalisse, diventa quindi occasione di rinascita, di un nuovo inizio, anche per l’umanità. A questo proposito, la scelta di girare il film in Grecia – culla della civiltà umanista e della metafisica occidentale – pur se mai esplicitata, non è forse casuale. Così come non lo è una determinata estetica sofisticata e al contempo primordiale delle tecnologie, che sembrano aver nuovamente intercettato l’umano nel loro percorso evolutivo, senza per questo snaturarsi. Ora spetta all’umanità prendere coscienza e farsi eco di questo legame originario, per evitare di soccombere narcisisticamente nella propria immagine identitaria, di fronte all’inesorabile avanzata della materia dall’interno e dall’esterno dei nostri corpi. 255 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia Barad, K., 2007, Performatività della natura. Quanto e queer, Pisa, ETS. Baudrillard, J. 1976, L'échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard; trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli 2007. 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Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente Anna Varalli Abstract. Mary Magdalene is a mysterious and misrepresented woman, connected to the fundamental events in the life of Christ. Over the centuries, numerous superimpositions with other female characters have made her an elusive figure with nebulous boundaries, a synthesis of multiple meanings: both sinner and prostitute and converted woman and apostle. Through the study of the iconography of “Penitent Magdalene” and the semiotic analysis, the paper aims to investigate, how contrasting themes such as sin and repentance, carnality and holiness have been articulated and how they have been favourably developed in the representation of the female body and in the historical ambiguity of this character. 1. Quale Maria? La Maddalena e le altre figure femminili La storia della Chiesa cattolica è costellata di figure di santi e sante, uomini e donne che, seguendo l’esempio di Gesù, hanno accolto la chiamata di Dio, si sono distinti in vita nell’esercizio delle virtù cristiane e muoiono in grazia di Dio. Nel corso dei secoli, le figure dei santi, che si sono costruite sia attraverso l’intervento diretto della Chiesa sia grazie alla partecipazione attiva di altri soggetti, diventano modelli di comportamento imitabili per milioni di fedeli, qualcosa a cui tendere per poter vivere rettamente nell’amore di Dio (Ponzo 2019a). Tra le numerose vite di santi che ci sono state tramandate, alcune incuriosiscono particolarmente perché raccontano di figure in contrasto con ciò che un fedele si aspetterebbe da un santo o una santa. Figure controverse, che sfidano apertamente il potere e i costumi della loro epoca e che nei secoli sono state riassorbite e riabilitate dalla Chiesa, ma nelle quali rimane una forte tensione che molto spesso emerge nei racconti, nelle leggende e nelle raffigurazioni che li riguardano1. La figura di Maria Maddalena è forse una delle più misteriose e controverse, anche perché collegata a eventi fondamentali della vita di Cristo. Il nome di Maria, molto comune in Israele, si distingue dalle altre grazie al toponimo “Magdala”2, il luogo dove è nata, secondo la tradizione. Le prime notizie di Maria Maddalena si ritrovano nei quattro Vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni): la Maddalena è citata, insieme ad altre, in quel gruppo di donne che segue Gesù, ed è collegata agli episodi finali della vita del Nazareno: la crocifissione, la deposizione del corpo, la scoperta del sepolcro vuoto e l’apparizione di Gesù risorto. Solo nel Vangelo di Luca è citata anche all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, quando l’evangelista parla di un gruppo di donne “[...] guarite da spiriti cattivi e da infermità [...]” (Lc 8,2) che seguivano il Nazareno. 1 Un esempio sono le analisi di Ponzo (2019c) nel capitolo “Atypical Models of Sanctity”, in cui tratta la rappresentazione della santità nella narrativa italiana contemporanea. 2 Màgdala di Galilea era un piccolo centro romano-giudaico vicino a Cafarnao, sulle sponde del lago di Tiberiade. La città era identificata da una torre romana: Màgdala deriva infatti dall’ebraico migdol che significa torre. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Crocifissione Sepoltura Sepolcro vuoto Apparizione (Esorcismo) 27,56: 27,61: 28,1: - - Tra queste Lì, sedute di Dopo il sabato, c'erano Maria di fronte alla all'alba del primo Màgdala, Maria tomba, c'erano giorno della Matteo madre di Maria di settimana, Maria Giacomo e di Màgdala e l'altra di Màgdala e Giuseppe, e la Maria. l'altra Maria madre dei figli andarono a di Zebedeo. visitare la tomba. 15,40: 15,47: 16,1: 16,9: - Vi erano anche Maria di Passato il sabato, Risorto al alcune donne, Màgdala e Maria di mattino, il primo che osservavano Maria madre di Màgdala, Maria giorno dopo il da lontano, tra le Ioses stavano a madre di sabato, Gesù Marco quali Maria di osservare dove Giacomo e apparve prima a Màgdala, Maria veniva posto. Salome Maria di madre di comprarono oli Màgdala, dalla Giacomo il aromatici per quale aveva minore e di andare a scacciato sette Ioses, e Salome, ungerlo. demòni. - - - 24,10: 8,2: Erano Maria e alcune donne Maddalena, che erano state Giovanna e guarite da spiriti Maria madre di cattivi e da Giacomo. infermità: Maria, Luca Anche le altre, chiamata che erano con Maddalena, loro, dalla quale raccontavano erano usciti sette queste cose agli demòni3; apostoli. 19,25: - 20,1: 20,16: - Stavano presso Il primo giorno Gesù le disse: la croce di Gesù della settimana, «Maria!». Ella si sua madre, la Maria di voltò e gli disse sorella di sua Màgdala si recò in ebraico: madre, Maria al sepolcro di «Rabbunì!» – madre di Clèopa mattino, quando che significa: Giovanni e Maria di era ancora buio, «Maestro!». Màgdala. e vide che la 20,18: Maria di pietra era stata Màgdala andò tolta dal ad annunciare ai sepolcro. discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto. 3 L’espressione “sette demoni” non indica necessariamente che la Maddalena fosse afflitta da demoni o da un male morale; nel linguaggio veterotestamentario, poteva indicare che la donna fosse stata colpita da un gravissimo male fisico o interiore, dal quale Gesù l’aveva liberata (Brunelli 2022, p. 18). 259 La Maddalena compare anche nei vangeli apocrifi, in particolare nei vangeli di Pietro, di Nicodemo e di Filippo (Rogers 2019; Mignozzi 2019), quest’ultimo più sensibile allo gnosticismo. Se nei primi due è citata sempre in relazione agli episodi della crocifissione e della deposizione – racconti che avranno ampia fortuna nello sviluppo dell’iconografia sia mariana sia della Maddalena stessa – nel testo gnostico di Filippo, Maria Maddalena è presentata come “interlocutrice ideale di Gesù e sua intima compagna spirituale” (Brunelli 2022, pp. 18-19). Ben presto si perde la memoria di quest’ultimo testo, molto controverso, e non avrà influenza sullo sviluppo iconografico della santa; ne ritroviamo echi sul piano letterario e cinematografico solo nel Novecento, quando ormai la Chiesa ha fatto chiarezza su questa figura dibattuta, in opere che fanno chiaro riferimento a una relazione tra la Maddalena e Gesù, dal quale sarebbe nata anche una discendenza4. A partire dal III secolo, i Padri della Chiesa riservano sempre maggiore attenzione alla Maddalena ed è nella letteratura patristica che questa figura inizia presto a con-fondersi con altre figure femminili, anonime o con lo stesso nome, citate nei vangeli (Kunder 2019): Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che cosparge con olio di nardo i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli (Gv 20,3); una seconda donna che unge il capo di Gesù sempre con olio di nardo, a casa di Simone il lebbroso (Mt 26,7; Mc 14,3); una terza che viene chiamata ‘peccatrice’, cioè prostituta, che a casa di Simone il fariseo “stando dietro, presso i piedi di lui [Gesù], piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo” (Lc 7,38). L’unificazione di tutte queste donne nella figura di Maddalena trova ufficialità nelle omelie XXV e XXXIII di Gregorio Magno (540 circa-604): Ella considerò le colpe passate e non volle porre freno al suo atteggiamento di penitente. Entrò durante il convito, venne non invitata, e versò lacrime di fronte alla mensa imbandita. Rendetevi conto dell’amarezza di questo dolore che non si vergogna di manifestarsi neppure in un banchetto. Questa donna peccatrice di cui parla Luca, che da Giovanni è chiamata Maria, riteniamo sia quella Maria dalla quale Marco afferma furono cacciati sette demoni (Gregorio Magno 1968, pp. 325-6). Inoltre, in alcuni casi, la tradizione patristica affianca a Maria Maddalena la figura di Eva (Kunder 2019, p. 124), dalla quale l’iconografia trarrà l’attributo dei lunghi capelli. Entro il VII secolo, in Occidente, si assiste quindi alla completa identificazione di Maria Maddalena con la figura della peccatrice, in particolare nell’accezione della prostituta. Il percorso di riabilitazione di questa figura da parte della Chiesa è stato lungo e vede come atto più recente l’istituzione della festa liturgica di Maria Maddalena da parte di Papa Francesco nel contesto del Giubileo straordinario della Misericordia (8 dicembre 2015-20 novembre 2016), “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”5, la prima messaggera che annuncia agli apostoli la risurrezione del Signore, tanto da essere definita da San Tommaso d’Aquino l’apostolorum apostola6. Nel corso dei secoli, la costante sovrapposizione tra Maria Maddalena e le numerose donne che abitano i Vangeli ha reso questa figura femminile inafferrabile e dai confini nebulosi. È questo lento processo che ha portato la Maddalena a “divenire simbolo”, la sintesi di molteplici significazioni, e quindi a poter riconoscere in essa sia la peccatrice e la prostituta, sia la convertita e l’apostola. Riprendendo le riflessioni di Sedda: “esso [il simbolo] può risultare oscuro solo per l’eccesso di 4 Nella letteratura moderna, il primo libro che tratta questo tema è Le Tresor Maudit de Rennes-le-Château (“Il Tesoro Maledetto di Rennes-le-Château”) di Géraud Marie de Sède de Liéoux e pubblicato nel 1967, al quale si ispirano i successivi testi di Michael Baigent, Richard Leigh, e Henry Lincoln (The Holy Blood and the Holy Grail, 1982), di Umberto Eco (Il pendolo di Foucault, 1988) e di Dan Brown (The Da Vinci Code, 2003). 5Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: la celebrazione di Santa Maria Maddalena elevata al grado di festa nel Calendario Romano Generale, bollettino Sala Stampa della Santa Sede, n. 0422, 10-06-2016. 6 Cfr. San Tommaso d'Aquino, In Ioannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6. 260 memorie, di storie più o meno immaginarie, di proprietà semantiche che porta in sé. Il simbolo può apparire vuoto perché è troppo pieno” (2021, p. 26). 2. Maria Maddalena: l’esempio perfetto della peccatrice penitente Intorno alla figura di Maria Maddalena si sono infine delineate due diverse tradizioni agiografiche che seguono l’evento della resurrezione di Cristo: quella orientale, che vede la Maddalena seguire Giovanni a Efeso, dove morirà; quella occidentale che dà avvio a numerose narrazioni della vita della santa, fino ad arrivare alla definizione della Legenda aurea di Jacopo da Varazze, composta tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIII secolo. Quest’ultima, a sua volta, sovrappone due diverse tradizioni agiografiche occidentali: da una parte la narrazione del dossier Vézelien, la leggenda che vede Maria Maddalena evangelizzatrice della Francia assieme a Lazzaro, primo vescovo di Marsiglia, e che morirà dopo molti anni di eremitaggio; dall’altra, la storia della figura di Maria Egiziaca, una giovane prostituta convertita del IV secolo che passerà il resto della sua vita da eremita (Mignozzi 2019). La Legenda aurea è una delle fonti maggiori a cui gli artisti si sono ispirati e da cui hanno attinto gli elementi figurativi che costruiscono l’iconografia della Maddalena. Per poter delineare al meglio i tratti iconografici, l’abbondante produzione artistica intorno a questa figura ci spinge a selezionare un corpus più ristretto di immagini: a tale scopo, la mostra Maddalena. Il mistero e l’immagine (Forlì, Musei San Domenico, 27 marzo-10 luglio 2022), organizzata intorno alle numerose configurazioni iconografiche della santa, si presenta già come una prima selezione, seppur ancora molto ampia. L’analisi, in particolare, si occuperà di quelle raffigurazioni pittoriche presenti in mostra il cui soggetto rientra nel tipo iconografico della “Maddalena penitente”, tema che si afferma nella pittura devozionale a seguito del Concilio di Trento (1545-1563). Le rappresentazioni prese in esame, infine, risultano attinenti al periodo cronologico XVI-XX secolo. In queste rappresentazioni, lo spazio figurativo può presentare due situazioni differenti; un ambiente esterno, come un paesaggio boschivo o con molta vegetazione, oppure uno spazio interno roccioso non meglio definito, buio e raccolto. È possibile individuare anche una soluzione intermedia, una sorta di luogo-limite tra esterno e interno, con ambienti rocciosi che si aprono su paesaggi a volte caratterizzati anche dalla presenza di attività umane in lontananza, come piccoli centri abitati, torri e ponti. È sempre presente una figura femminile, in un intervallo d’età che spazia da una giovane ragazzina a una donna matura, con lunghi capelli sciolti e colta in situazioni differenti: mentre legge o dorme, oppure semplicemente seduta o sdraiata. L’abbigliamento della donna può variare molto da opera a opera, e può presentarsi vestita di tutto punto, coperta da un tessuto, oppure completamente nuda. La figura si accompagna ad alcuni oggetti – un piccolo recipiente con coperchio, un crocifisso, un teschio e un libro – che possono essere presenti tutti contemporaneamente o almeno uno di essi. È in particolare il recipiente che permette di identificare con certezza la figura femminile in Maria Maddalena: si tratta del vasetto che contiene l’unguento profumato con cui Maria cosparge i piedi di Cristo e fa quindi riferimento alle narrazioni dei vangeli; quando non è presente alcun attributo, la figura femminile viene riconosciuta per la presenza dei lunghi capelli7, che rimandano anch’essi alla narrazione dei vangeli (Gv 20,3; Lc 7,38). Il crocifisso, il libro e il teschio, invece, non rimandano a una narrazione specifica della 7 Questo attributo è condiviso con altre figure femminili, cosa che potrebbe rendere l’identificazione ancora più difficoltosa, e solitamente ha la funzione di coprirne la nudità. Maria Maddalena eredita questo attributo dal parallelismo con Eva, rappresentata nuda nel giardino di Eden prima della cacciata dal Paradiso, e dall’iconografia occidentale di Maria Egiziaca, che figura nella variante con lunghi capelli castani che le coprono tutto il corpo fino alle caviglie, forse anche per una contaminazione con la raffigurazione di Eva (Brasa 2022, p. 58). 261 vita della Maddalena: si riferiscono al tema della meditazione8 – come anche la testa appoggiata a una mano9, posizione in cui viene spesso raffigurata. Gli oggetti riuniti intorno al teschio compongono una piccola natura morta del tipo specifico della Vanitas, genere pittorico che si sviluppa e diffonde a partire dal XVII secolo. Il tema della morte, nella forma del teschio, si intreccia con il tema della transitorietà della bellezza e della ricchezza, per ricordare all’uomo il suo destino; come spiega Scalabroni (1999), nella Vanitas tutto ruota intorno alla meditazione, aspetto rimarcato anche dalla presenza del libro, oggetto peculiare della “vita contemplativa”. Tuttavia, la presenza del crocifisso, simbolo di Resurrezione, inserisce nella severa visione della Vanitas un elemento positivo perché “Il pensiero della morte deve in sostanza essere inteso come un principio di vita, un riferimento costante per misurare le proprie azioni. La via che all’uomo viene indicata è insomma una via di amore e di virtù, di elevazione e di distacco dalle cose terrene” (ivi, p. 19). Il tema della transitorietà della vita nella Vanitas condivide con la figura di Maria Maddalena un’intima ambiguità: è sia un invito a godere dei piaceri della vita finché è possibile, sia un’esortazione cristiana a staccarsi dalle vanità del mondo per poter accedere alla vita eterna (ivi). Maria Maddalena è quindi raffigurata sola, in un luogo isolato e spoglio, e porta con sé gli strumenti della preghiera e della meditazione. Si potrebbe pensare che si tratti di un momento non meglio definito della vita romita di Maddalena descritto nella Legenda aurea ma, in questo caso, ci troveremmo di fronte a una discrepanza temporale. Maddalena si sarebbe pentita della sua condotta e si sarebbe convertita dopo il primo incontro con Cristo nella casa di Simone il fariseo (o il lebbroso) e avrebbe deciso di seguirlo insieme ad altre donne; nella Legenda aurea, l’eremitaggio segue un primo momento di evangelizzazione, quindi a pentimento e conversione già avvenuti. Perché allora gli storici dell’arte definiscono questa particolare iconografia della Maddalena come “penitente”? È più probabile che sia la figurativizzazione del tema della penitenza. Il pentimento di Maria Maddalena è messo in forma attraverso l’utilizzo di luoghi isolati che rimandano all’allontanamento dalle abitudini viziose del suo passato; ella è nel pieno del suo percorso di conversione che inizia con il pentimento e la remissione dei peccati da parte di Cristo, a cui fanno diretto riferimento sia il crocifisso (1Pt 2,24: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo/sul legno della croce,/perché, non vivendo più per il peccato,/vivessimo per la giustizia;/dalle sue piaghe siete stati guariti”) sia il vasetto di unguenti (Lc 7,48: “Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati»”). Se accettiamo questa proposta di lettura, la discrepanza temporale viene meno ma, con essa, viene a mancare anche una narrazione a cui fare direttamente riferimento. Sono le raffigurazioni che attraverso l’insieme di queste determinate scelte rappresentative costituiscono una medesima storia, colta in fasi differenti, in cui Maria Maddalena è la figura per eccellenza della peccatrice penitente. 3. Il percorso di redenzione di una peccatrice Qual è la storia unitaria che ci raccontano queste rappresentazioni? L’aggettivo “penitente” indica un’azione prolungata nel tempo, cioè l’atto di fare penitenza dei propri peccati che conduce il penitente in un percorso di abbandono completo delle abitudini viziose del passato e di riorientamento della propria vita in direzione di Cristo. Possiamo affermare di essere di fronte a una storia di conversione, a 8 Questi attributi accompagnano molto spesso anche la figura di Maria Egiziaca, come anche il contesto roccioso in cui viene ambientata la rappresentazione, a rimando della vita romita della santa. Il riconoscimento della figura di Maria Maddalena, in questi casi, può essere risolto solo dalla presenza del vasetto di unguenti e dall’aspetto della figura femminile: infatti, Maria Egiziaca viene solitamente rappresentata con un corpo anziano, segnato dal digiuno; Maria Maddalena, invece, è una giovane fanciulla dal corpo florido e sensuale. 9 Si tratta di un gesto convenzionale in uso sin dall’antichità e indica dolore, cordoglio e umore malinconico. 262 un processo10 che vede Maria Maddalena allontanarsi da una vita vissuta nel peccato per congiungersi a Cristo e iniziare una nuova vita. Nonostante la figura della Maddalena aderisca alla tradizione con i suoi attributi e gli oggetti che solitamente l’accompagnano, possiamo notare che in questa serie di rappresentazioni l’iconografia subisce delle variazioni. Ciò dipende da quale momento di questo percorso di conversione ha voluto rappresentare l’artista (Calabrese 2012; Marrone 1995). Il primo momento è quello della consapevolezza del suo vissuto, che dà avvio al processo della conversione: Maria Maddalena, che conduce una vita nella dissolutezza, prende coscienza della sua condizione di peccatrice e si prepara anche nell’animo alla conversione11. Le rappresentazioni di questo tipo la raffigurano in un atteggiamento di sconforto, molto spesso in lacrime. Caravaggio (Fig. 1) raffigura la santa avvolta in tessuti preziosi e circondata da gioielli che si lascia cadere su una seggiola, con il capo piegato e le braccia in grembo, in una postura raccolta che rimanda a tutta l’intimità del momento. La lacrima che le scorre sul viso figurativizza il dissidio interiore e la presa di coscienza del suo vissuto fino a quell’istante, rendendo partecipe l’osservatore all’evento che può in questo modo identificarsi con la figura della peccatrice penitente. Il secondo momento è quello della meditazione sul proprio destino: è la fase in cui Maria Maddalena sceglie di intraprendere il percorso della conversione. La figura viene rappresentata mentre appoggia la testa a una mano con fare malinconico e lo sguardo vacuo perso nel vuoto. Secondo la tradizione della Vanitas, l’oggetto a cui viene dato maggiore rilievo è il teschio (Fig. 2): insieme alla Maddalena, l’osservatore è invitato a prendere consapevolezza del proprio destino e a meditare sul proprio futuro. Il terzo momento può essere definito quello della contemplazione: Maria Maddalena, in cerca della salvezza, si dedica alla meditazione delle cose spirituali. È la prima situazione in cui Maddalena inizia a lavorare su di sé, tramite la preghiera, per preparare il suo incontro con Cristo. In queste rappresentazioni il suo sguardo è fortemente attratto dal vangelo o dal crocifisso, gli oggetti che la aiutano nella preghiera; in alcuni casi, tutto il corpo della santa tende verso la Croce, anticipando – o richiamando – l’evento della crocifissione, in una contemplazione che la coinvolge completamente (Fig. 3). Il quarto momento è quello che può essere definito dell’illuminazione. Si tratta di un momento di svolta, una componente ricorrente nelle narrazioni di conversione (Ponzo 2019b): è la fase di passaggio che segna per Maddalena l’allontanamento dalle cose del mondo terreno e apre le porte al mondo spirituale. Gli oggetti della preghiera le hanno consentito di prepararsi a questo momento, l’esperienza illuminante della salvezza e del perdono dei peccati, che le consentirà di completare la sua conversione. In questo tipo di rappresentazioni, lo sguardo di Maria Maddalena è attratto da qualcosa posto all’estremità del quadro – una luce accecante – o al di là dei suoi limiti, come se qualcuno l’avesse chiamata e le stesse parlando (Fig. 4). Maddalena, quindi, non è più sola come lo è stata fino a questo momento – e forse non lo è mai stata – ma solo ora il suo sguardo può incontrare un ‘altro’ e l’osservatore assiste, insieme a lei, a questa rivelazione. Sono la meditazione e la contemplazione che le hanno permesso di aprire gli occhi, di prepararsi alla remissione dei suoi peccati e di accedere alla salvezza, l’ultimo passo prima di poter incontrare Cristo. Infine, alcune rappresentazioni fanno invece riferimento al momento dell’estasi di Maria Maddalena, tema iconografico che rientra a pieno titolo nel percorso di conversione della santa. In questo caso, gli artisti hanno deciso di rappresentare o l’attimo appena precedente del punto culminante della vicenda, cioè il momento del rapimento estatico, oppure quello immediatamente successivo, che potremmo definire della “post-estasi” (Marrone 1995). Il rapimento estatico è il grado più alto della contemplazione, quando l’anima, al culmine della sua esperienza religiosa, si innalza al divino ed entra in immediata comunione con esso. Maria Maddalena viene rappresentata semidistesa, con la testa gettata all’indietro 10 Cfr. Greimas 1974, voce “processo”. 11 Possiamo riconoscere in questo momento la prima fase (Costituzione) del percorso passionale canonico, quando il soggetto patemico “è messo nella condizione di conoscere una passione” (Fontanille 2012, p. 408). 263 e lo sguardo perso rivolto verso l’alto; anche quando il corpo sembra rilassato, alcuni dettagli lasciano trasparire una tensione che l’attraversa completamente, ad esempio le punte dei piedi tese. Come scrive Careri, “Per mostrare all’esterno uno stato spirituale interno, il corpo in rappresentazione può limitarsi a esibire gli aspetti patologici marginali che investono il corpo «reale» o assumere la configurazione erotica del corpo «immaginario»” (2017, p. 89); per questo motivo, è possibile individuare nella postura di Maria Maddalena tratti tra loro contradditori che rimandando da una parte alla distensione e all’abbandono, dall’altra alla tensione e alla contrazione 12 . In alcuni casi, Maria Maddalena è accompagnata da figure angeliche che figurativizzano l’istante della sospensione, il momento in cui il mondo spirituale e il mondo sensibile entrano in contatto attraverso l’esperienza mistica della santa (Fig. 5). Non si tratta propriamente della rappresentazione del momento dell’estasi, ovvero delle possibili visioni della santa: l’osservatore vede nel corpo della Maddalena gli effetti che l’esperienza mistica provoca. Si tratta quindi del momento iniziale dell’esperienza estatica, quando la coscienza del mondo sensibile e di ogni legame corporeo viene meno. Se è vero che il mistico subisce l’estasi e “non ha alcun controllo sul piano di espressione, sui fenomeni che è costretto a considerare sintomi del divino” (Galofaro 2019, p. 116), forse non è completamente passivo davanti a tali fenomeni. Leggiamo le parole di Santa Teresa d’Avila13: Pur provando diletto, la debolezza della nostra natura ci colma agli inizi di timore, rendendo necessaria un’anima determinata e coraggiosa, molto più di quanto richiesto sino ad ora, per affrontare tutto, accada quel che deve accadere, abbandonarsi nelle mani di Dio e lasciarsi condurre, con fiducia. A tal livello tante volte vorrei resistere, porre resistenza, mettendoci tutte le mie forze, alcune conosciute e altre molto nascoste, perché temo di essere ingannata. Talvolta sono riuscita a resistere un po’, con grande fatica: restavo in seguito stanca come quando si lotta contro una persona grande e grossa. Altre volte era impossibile, mi portava via l’anima e mi rialzava il capo se non tutto il corpo fino a sollevarlo da terra (Santa Teresa d’Avila 2018, p. 287). A causa della debolezza della natura umana che la rende insicura e incerta, l’anima non è sempre pronta: per questo motivo, deve lottare contro la debolezza umana per diventare “un’anima determinata e coraggiosa”. L’unico modo è cedere alla forza divina e abbandonarsi completamente nelle mani di Dio. Alla luce di questo, è possibile riconoscere nella “post-estati” il momento terminativo dell’esperienza estatica. Ancora una volta, ci affidiamo alle parole di Santa Teresa d’Avila: Si resta poi con una strana stanchezza che non saprei neppure descrivere. Mi sembra però di poter dire che è in qualche modo diversa dal solito (al contempo ben diversa dalle altre cose riguardanti il solo spirito). Se già si è spiritualmente distaccati dalle cose, qui sembra che il Signore voglia produrre questo medesimo effetto anche nel corpo, e si crea un nuovo strano rapporto con le cose della terra, da rendere penosa la vita (ibidem). Come nella citazione precedente, torna il tema della stanchezza fisica: dopo aver subìto la forza del divino, il corpo si ritrova sfinito. Maria Maddalena ha completato il suo percorso di conversione che 12 In riferimento al tema dell’estasi si segnala anche lo studio di Careri (1991) del gruppo scultoreo della Cappella Albertoni, realizzato da Gian Lorenzo Bernini: la figura femminile presenta parti del corpo contratte e altre distese, ed è quindi segnata dalla compresenza di termini opposti che non corrisponde a una posizione logica statica ma a un processo dinamico, intensivo e intermittente (p. 131). 13 Come scrive Leone (2010), gli scritti autobiografici di Santa Teresa d’Avila sono caratterizzati da una forte carica emotiva: il cambiamento spirituale non è mai rappresentato come definitivo “but rather as a process or, even better, as an oscillation” (p. 494). La conversione di Teresa d’Avila viene presenta le caratteristiche che l'immaginario religioso della prima età moderna proietta sulla conversione religiosa femminile: seguendo lo stereotipo della trasformazione spirituale della Maddalena, “the religious mutation of a female heart was hardly conceivable without this tumultuous unfolding of tension, attention, passions, emotions” (p. 494). 264 viene sanzionato positivamente grazie all’incontro con Cristo. In queste rappresentazioni, la santa viene raffigurata addormentata e il suo corpo è completamente rilassato. Nell’opera di Karl Wilhelm Diefenbach (Fig. 6), la luce che illumina il corpo nudo della santa è dai toni giallo-arancioni, come se provenisse da una lanterna, mentre sullo sfondo le nuvole presentano leggerissime sfumature di rosa e gialli: la notte è passata e sta albeggiando, è l’inizio di una nuova vita, seguendo Cristo. 4. Uno sguardo al corpo nudo L’enorme fortuna che ha avuto la figura di Maria Maddalena non è solamente legata al tema della penitenza e della conversione. La storia del passato peccaminoso della santa ha consentito agli artisti di esercitarsi e destreggiarsi con il nudo femminile senza allontanarsi dei temi sacri che hanno dominato per secoli la produzione artistica14. Per questo motivo, la bellezza seducente e la femminilità di Maria Maddalena si trovano a dialogare in modo dialettico con la sua santità e il legame con Cristo che le attribuisce la tradizione. Nel Cinquecento, la figura di Maria Maddalena penitente trova una sensualità nuova con Tiziano (Fig. 7), che si distacca dalle precedenti raffigurazioni della santa che ne nascondevano completamente il corpo (Donatello, Maddalena penitente, 1453-1455, Fig. 8) e ne esalta la nudità. Inizia così a porsi l’accento sulla condizione di “peccatrice seducente” (Brunelli 2022, p. 22) che si arricchisce, sul finire del XVI secolo e in particolare grazie alla circolazione degli scritti di Santa Teresa d’Avila e alla sua beatificazione (1614), di nuovi modelli figurativi in cui sensualità e spiritualità possono coesistere senza scontrarsi (Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente, 1626-1627, Fig. 9) ma anche di forme più devozionali legate al tema dell’incontro con il divino (Strozzi, Santa Maria Maddalena penitente, 1620 circa, Fig. 3). Infine, con il Neoclassicismo e il Romanticismo, la figura della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa e diventa pura esibizione dell’abilità pittorica dell’artista sul nudo femminile (Hayez, La Maddalena penitente, 1833, Fig. 10). Il corpo della santa, a partire dall’opera di Tiziano, sembra che inizi sempre più a parlare di sensualità. Il nudo, però, è solo una parte di una “configurazione discorsiva che si iscrive in una narrazione” (Calabrese 2012, p. 206) e, in questo caso, ne riveste il ruolo centrale. Prendendo ad esempio l’analisi sul nudo di Calabrese in La macchina della pittura (2012), è interessante approfondire anche nel nostro caso in che modo il corpo della santa si relaziona con l’osservatore. Inoltre, se non in alcune rappresentazioni, Maria Maddalena non è mai completamente nuda: gli artisti giocano con le vesti e, in particolare, con capelli per (s)coprirne il corpo. Come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 2), Maddalena è raffigurata sola e in un luogo isolato: non sono quindi presenti altri attori che potrebbero vederla nuda ma è solo l’attante osservatore, posto nella posizione implicita del punto di vista, che intrattiene una qualche relazione con essa. Non potendo però affrontare l’analisi di ogni rappresentazione nel dettaglio, ci limiteremo a individuare delle situazioni-tipo. 1. Il corpo della santa è completamente nascosto alla vista dell’osservatore: i capelli lo rivestono nella sua totalità, lasciando visibili solo gli arti e il volto, impedendo anche la sola percezione delle forme; in questo caso, viene messa in evidenza l’opacità materica dei capelli che, data la loro quantità e lunghezza, svolgono la funzione di una veste, di una pelliccia. Lo sguardo della Maddalena è orientato all’osservatore e lo interpella direttamente, lo pone in una posizione di dover guardare. Ne sono un esempio le rappresentazioni più antiche, come la tavola agiografica di Maddalena penitente e otto storie della sua vita (Maestro della Maddalena, 1280-1285; cfr. anche Fig. 8), precedenti all’opera di Tiziano. 2. Le vesti scivolano sul corpo, lasciando in parte scoperte le spalle e i seni; alcune ciocche di capelli ne 14Sul tema della bellezza seducente della figura della Maddalena è possibile visionare anche il lavoro di Dondero (2007), in particolare l’analisi delle fotografie di Pierre et Gilles che “utilizzano la sensualità della donna fotografata per instillare nell’osservatore il dubbio sulla leggendaria conversione della santa” (p. 92). 265 limitano la visione completa. L’osservatore può percepirne le forme o avere una visione quasi perfetta del seno. In questo caso, i capelli offrono svariati gradi di visibilità, non sono più un filtro completamente opaco ma lasciano trasparire la carne; svolgono la funzione di “focalizzatore del desiderio” spostando l’attenzione su ciò che (non)coprono, impossibile però da afferrare e quindi fortemente desiderabile (Volli 2016). Rispetto allo sguardo della santa, possiamo individuare delle varianti di questa situazione: a) Lo sguardo è orientato allo spettatore ma è assente, come indifferente alla sua presenza; b) Lo sguardo è interno al quadro e rivolto a un oggetto (il teschio, il libro, il crocifisso). La santa non cerca di coprirsi ma, al contempo, non è interessata allo sguardo dell’osservatore. 3. Maddalena copre volontariamente il suo corpo dal possibile sguardo di un’intrusione improvvisa, portando le mani al petto. La semitrasparenza che offrivano i capelli è, in questo caso, negata dal gesto volontario della santa che li raccoglie tra le mani, davanti al seno (Fig. 4), mentre vengono sfruttate le proprietà coprenti del tessuto (Fig. 7). Lo sguardo è rivolto verso l’alto in direzione di qualcosa posto ai limiti del quadro o fuori di esso, che ha attirato improvvisamente la sua attenzione. Rispetto alle situazioni precedenti, si definisce una situazione di riservatezza e subentra il pudore: la santa non vuole essere guardata da questo nuovo attante, percepito come estraneo e intruso. 4. Il corpo della santa è completamente offerto alla vista dell’osservatore (Fig. 9, 5), i capelli e i tessuti non ne impediscono in alcun modo la visione. La santa può rivolgere uno sguardo completamente assente fuori dai limiti del quadro, oppure tiene gli occhi chiusi: in entrambi i casi, è indifferente alla presenza dell’osservatore e non accenna alcun gesto di copertura. 5. Conclusioni In questa serie di opere, classificate sotto la medesima configurazione iconografica definita “Maddalena penitente”, si può individuare un percorso narrativo15. Alla prima fase di presa di consapevolezza del proprio vissuto, in cui avviene la rottura dell’equilibrio, segue la meditazione, cioè il momento della manipolazione in cui la santa decide di intraprendere il percorso di conversione; la contemplazione e l’illuminazione corrispondono alla fase della competenza, in cui Maddalena si prepara all’incontro con Cristo. Infine, la fase dell’estasi, di cui vediamo solo il momento incoativo del rapimento estatico e quello terminativo della post-estasi, corrisponde da una parte alla fase della performanza, cioè della lotta interiore dell’anima contro la debolezza umana; dall’altra alla sanzione, in cui alla santa viene riconosciuta l’avvenuta conversione tramite la possibilità di incontrare Cristo. Abbiamo anche notato che gli artisti, nel corso dei secoli, danno al corpo nudo e alla sua sensualità sempre maggiore rilievo. Possiamo però osservare che la nudità della santa assume accezioni diverse nelle varie fasi del suo percorso di conversione e non rimanda necessariamente solo alla sensualità, come invece sembra emerge dall’opera di Tiziano in poi. Osserviamo che la Maddalena passa da una postura raccolta (testa china, spalle chiuse e busto ricurvo sugli oggetti della preghiera) che caratterizza i momenti della meditazione e della contemplazione, a una postura più aperta nel momento dell’illuminazione (spalle e testa dritte, sguardo verso l’alto), fino ad una completa apertura nel momento del rapimento estatico (corpo sdraiato e testa gettata all’indietro). A questa progressiva apertura, corrisponde da una parte, una tensione crescente che, come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 3), culmina nel momento del rapimento estatico per poi distendersi immediatamente; dall’altra, possiamo notare un mostrarsi graduale del corpo che, in un gioco di opacità e trasparenze che articola le vesti, le mani e i capelli, arriva ad offrirsi completamente nudo all’osservatore (Fabbri 2004; Galimberti-Zanetti 2004; Volli 2016; Chiais 2022). Sul piano del contenuto, questa inversione della postura di Maria Maddalena corrisponde al graduale allontanamento dal suo passato peccaminoso; invece, il progressivo svestirsi del corpo rimanda all’abbandono delle 15 Cfr. Greimas 1974, voce “narrativo (percorso –)”. 266 abitudini viziose e della mondanità – di cui l’abito e i capelli ne sono figura – e al graduale mutamento dello spirito che conduce Maria Maddalena alla conversione e all’incontro con Cristo. Utilizzando le parole di Paolo Fabbri: “Lo svelamento è rivelazione: può andare ben oltre la pelle – che è vestigio della veste – e cercare, nella sua effrazione e tortura (ferire, amputare, scorticare), l'accesso ad una verità incorruttibile di cui la carne è il velo” (2004, p. 7). La tensione tra carnalità e spiritualità che caratterizza la figura ambigua di Maria Maddalena è stata certamente la fortuna della diffusione e dell’interesse nei confronti di questa santa. Se nella storia dell’arte l’iconografia della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa per dare spazio al virtuosismo pittorico, dall’altra l’analisi dimostra che non ha mai perso del tutto il suo carattere devozionale. In questo modo, la carnalità sensuale che ne traspare non si pone in opposizione alla spiritualità: il corpo nudo, giovane e voluttuoso di Maria Maddalena è figura degli habitus del suo passato che, tuttavia, tramite il percorso di conversione della santa, viene risemantizzato e anch’esso diviene figura del pentimento, della conversione e della comunione con Dio. 267 Appendice Fig. 1 – Maddalena penitente, Caravaggio, 1596-1597, olio su tela, 122,5x98,5 cm, Roma, Galleria Doria Pamphilj. Fig. 2 – Santa Maria Maddalena penitente , Giovanni Maria Viani, 1690 circa, olio su tela, 96x78 cm, collezione privata. 268 Fig. 3 – Santa Maria Maddalena penitente , Bernardo Strozzi, 1620 circa, olio su tela, 97x73 cm Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco. Fig. 4 – Santa Maria Maddalena penitente , Palma il Giovane, 1615 circa, olio su tela, 132x112 cm Bergamo, Accademia di Carrara. 269 Fig. 5 – Esatasi di Santa Maria Maddalena, Alessandro Rosi, 1670 circa, olio su tela, 110x135 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi, Galleria palatina. Fig. 6 – La Maddalena penitente, Karl Wilhelm Diefenbach, olio su tela, 213x122 cm, Vienna, Fine Art Gallery Leon Wilnitsky. 270 Fig. 7 – Santa Maria Maddalena penitente , Tiziano Vecellio, 1566-1567, olio su tela, 122x94 cm, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte. Fig. 8 – Santa Maria Maddalena penitente , Donatello, 1450-55 circa, legno, 185x5x45 cm Firenze, Museo dell'Opera del Duomo. 271 Fig. 9 – Santa Maria Maddalena penitente , Guido Cagnacci, 1626-1627, olio su tavola, 86x72 cm, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica. Fig. 10 – La Maddalena penitente, Francesco Hayez, 1833, olio su tavola, 118x141,5 cm, Galleria d’Arte Moderna, Milano. 272 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Acidini, C., Brunelli G., Mazzocca F., Refice P., a cura, 2022, Maddalena. Il mistero e l’immagine, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale. Brasa, F., 2022, “Maria Egiziaca. Nudi seguire Cristo nudo”, in C. Acidini, et al., a cura, 2022, pp. 56-61. Brunelli, G., 2022, “Maddalena. Il mistero e l’immagine. Introduzione alla mostra”, in C. Acidini, et al., a cura, 2022, pp. 17-25. Calabrese, O., 1985, La macchina della pittura, Bologna, La casa Usher; nuova ed. 2012. Careri, G., 1991, “Soave tormento: il montaggio passionale in Gian Lorenzo Bernini”, in I. Pezzini, a cura, Semiotica delle passioni. 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Colmi elementali. Sulla smaniera contemporanea di Nicola Samorì Mirco Vannoni Abstract. Direct engagement with the theoretical problems of painting characterizes contemporary art. As Louis Marin (1986) points out, the idea of “artistic practice” and its emphasis on thinking about the difference between the material support and the painted surface of the work is central to contemporary art. This type of investigation deserves to be linked to reflections on the “factual power” of the materials used in contemporary art (Magli 2003) and on the enunciative role of the artist’s gestural expressiveness in the production of the artwork (Damisch 1981; Corrain 2016). This paper will focus on the work of Nicola Samorì and the material dimension of his artistic practice. It will reflect on the status of the visual material as a generative element of representation and on the relationship between the manipulative power of the materials and tools used by the artist. Taking into account Barthes’ doctrine (1982) of a not yet written history of the tools and materials of art, I will question Samorì’s work, starting from the way these works of art are realised, with the attempt to show the various sensitive relationships that can arise between surfaces, materials and the gestures of the artist. « Apercevez-vous quelque chose ?» demanda Poussin à Porbus. « Non. Et vous ? », « Rien » […]. « Le vieux lansquenet se joue de nous », dit Poussin en revenant devant le prétendu tableau. Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu La peinture pense. Comment ? C’est une question infernale. Georges Didi-Huberman, La peinture incenee 1. In apertura Come ricorda Louis Marin in un’intervista a Flash Art del 1986, molta della produzione artistica contemporanea si caratterizza per l’emergere progressivo di una riflessione teorica sulla pittura espressa attraverso il linguaggio stesso della pittura: ciò che mi sembra più caratteristico della pittura “contemporanea” (in contrapposizione alla pittura “moderna”) è che la sua nozione di pratica pittorica o, più in generale, di pratica artistica, si basa sul presupposto che la sperimentazione diretta dei problemi teorici della pittura possa in effetti diventare “il soggetto della pittura” [...]. In passato, il pittore (o il “critico”) elaborava un discorso teorico sulle procedure pittoriche. Nel “presente”, il pittore realizza un’opera, o un quadro, che dà corpo pittorico alla sua teoria della pittura (Marin 1986, p. 53; tr. nostra). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Stando a queste parole dello studioso francese, conosciuto soprattutto per le sue ricerche sulla rappresentazione pittorica dell’età classica 1 , il prisma interpretativo dell’arte contemporanea può dunque rivelarsi un ottimo luogo di analisi e di messa alla prova delle teorie della pittura espresse attraverso la pittura stessa. Ne è un caso il problema dalla dimensione alchemico-elementale della materia pittorica nel lavoro di Nicola Samorì, la cui produzione artistica si caratterizzata per una continua e costante messa in discussione della presupposta planarità del supporto della rappresentazione pittorica. Nel mio lavoro ho sempre molestato il piano, la superficie. Tutto il mio lavoro parla di questo: di un’incapacità di accogliere il sonno bidimensionale della pittura. Guardando di profilo, cosa succede a un dipinto? Il problema della rottura di integrità di una superficie, della ferita che torna e ritorna, è reale? È immaginata? Ha comunque a che fare con una sorta di inaccettabilità del piano (Samorì 20232). Nel suo lavoro Samorì erode, corrode, brucia e strappa la “pelle” della pittura. Si prenda, tra le altre, la serie di opere che compone Cammino cannibale esposta nel 2020 alla Fondazione Made in Cloister di Napoli. Sono sei progressivi strappi murali in cui la figura di Marsia, giovane sileno punito da Apollo, da un grado massimo di densità figurativa arriva alla completa astrazione, alla pura materialità della porzione muro incorniciata come ultimo elemento dell’ensemble. Fig. 1 – Nicola Samorì, Cammino Cannibale (2018-2019), chiostro di Santa Cecilia – Fondazione Made in Cloister, Napoli, 2021 (© Nicola Samorì). Il racconto della scarificazione, topos che nella storia dell’arte ha suscitato l’interesse di maestri come Tiziano, viene tradotto da Samorì in una vera e propria decorticazione dell’immagine3. Infatti, una volta realizzato l’affresco del sileno, Samorì procede a strappare l’opera muraria dal suo supporto. Esito di questa procedura di estrazione, come si può vedere (Fig. 1), sono sei livelli di intonaco che l’artista rende autonomi ed espone in serie come differenti strati dell’“epidermide” della pittura. In quest’opera il tema dell’enunciato, la flagellazione di Marsia, si trova appunto duplicato nel gesto enunciativo dell’artista ovvero nello sfregio del supporto. A discapito di una rappresentazione mimetica del racconto della punizione divina, la mise en place dei diversi strappi che compongono Cammino cannibale si configura come ri-presentazione del gesto che li ha resi possibili. Un cortocircuito tra narrazione mitologica e 1 Si faccia riferimento, a titolo di esempio, ai lavori su Caravaggio e Poussin (Marin 1978), Philippe de Champaigne (Marin 1995) o sulla pittura italiana del Quattrocento (Marin 1989). È bene notare, tuttavia, che a partire dalle sue ricerche sulla teoria del linguaggio e del segno nella Logica di Port-Royal, Marin si è lungamente occupato di temi come quello dell’efficacia dell’immagine (sia verbale che visiva), di teoria del potere, del discorso religioso così come dei testi letterari che esulano da un campo di ricerca esclusivamente votato all’età moderna come dimostrano i suoi studi su Disneyland a partire dall’Utopia di Thomas More, o quelli su Pollock, Stella, Klee e Crivelli (Marin 1971, 1982, 1992). 2 www.artribune.com/television/2023/01/video-nicola-samori-i-martedi-critici/, consultato 14 gennaio 2023. 3 Sul tema della scarificazione nelle arti visive, si veda Polacci (2018). Sul tema delle ferite, invece, Mengoni (2012). 275 pratica artistica in cui Samorì sviluppa una meta-riflessione sulle modalità di costruzione dell’opera effettuata attraverso la materialità intrinseca della pittura muraria e della sofisticata tecnica dello strappo. Quella di Samorì è infatti una gestualità che gioca costantemente in una dialettica tra figuratività e de- figurazione e in cui assume piena centralità lo statuto della materialità pittorica come elemento intrinseco della significazione, di cui si tenterà di rendere conto. 2. La s-smaniera Samorì Nicola Samorì è un artista contemporaneo che guarda con meticolosa attenzione ai maestri e alle opere del passato da cui la sua poetica prende avvio. Uno sguardo rivolto prevalentemente al Seicento italiano e spagnolo e a figure come Guido Reni, Annibale Carracci, il Guercino o José de Ribera. Forme sedimentate nella memoria collettiva della cultura occidentale che Samorì riproduce con estrema precisione attivando veri e propri giochi di intertestualità che si discostano dal mero citazionismo. A un primo momento di ri-produzione delle opere dei grandi maestri, seguono interventi successivi eseguiti direttamente sul supporto della rappresentazione che producono un costante scontro tra sostanza formata e informe. Si tratta, come già ricordato, di smembramenti, graffi, dissezioni del supporto pittorico che sono al tempo stesso sia traccia del fare artistico sia elementi significanti a livello discorsivo. I primi da interrogare a partire dalla forza manipolatoria dei materiali e degli strumenti utilizzati in relazione con il supporto della rappresentazione; i secondi, invece, in quanto in grado di abilitare a una riflessione sullo statuto della materia pittorica come elemento generativo della significazione. Questo tipo di processualità, riportando l’attenzione sul diagramma di forze che sono al lavoro nelle opere di Samorì – per dirla à la Deleuze (1983) –, impone una specifica riflessione sulla dimensione della materia, dei materiali, delle texture e delle tecniche di realizzazione, così come sulla gestualità del fare artistico, che operano all’interno della singolarità delle sue opere. È qui in discussione quanto mettono in luce anche da Stefania Caliandro e Angela Mengoni (2022, p. 2; tr. nostra) a partire da una ripresa del lavoro di Hubert Damisch: “gli elementi (fili, forme, colori), manipolati dall’artista in vista della creazione, hanno valore in definitiva solo attraverso le relazioni morfologiche e spazio-temporali che questi oggetti possono generare”. Un potenziale della significazione che esula dalla dimensione mimetica della rappresentazione prospettica e invita, piuttosto, a una riflessione sullo spessore della pittura. Nei termini di una logica del sensibile dell’immagine, sottolinea Damisch (1984, p. 290; tr. nostra), “non mi sembra che ci sia alcuna difficoltà [...] che un piano possa avere un certo spessore”. Uno spessore che manifesta nel lavoro di Samorì un rapporto indissolubile, ricostruibile àpres-coup, tra impasto materico della pittura e pelle dei soggetti rappresentati (cfr. Didi-Huberman 1985). Un legame che non riguarda ovviamente soltanto le opere dell’artista forlivese, ma che è comune a molte sperimentazioni artistiche contemporanee. Come sostiene anche Willem de Kooning (1950), infatti, “la carne è la ragione per la quale la pittura a olio è stata inventata”. Tuttavia, vi è una differenza sostanziale tra la modalità d’uso dell’impasto a olio da parte di Samorì e quello proprio, ad esempio, dei pittori fiamminghi del XV secolo (tra i primi, in epoca moderna, a utilizzare questa tecnica)4. A differenza di quest’ultimi, attenti alle qualità materiche della pittura a olio per gli straordinari effetti di mimetici che essa permetteva di realizzare, Samorì si mostra piuttosto interessato alla condotta del materiale, a quella che potremmo chiamare una “logica di significazione fondata sui comportamenti di tale sostanza” (Migliore 2012, p. 213). 4Nelle Vite Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio a Jan van Eyck. Sebbene sappiamo che la genealogia di questa tecnica pittorica sia molto più antica – ne davano notizia già Marco Vitruvio Pollione, Plinio il Vecchio e Galeno, così come alla fine del Trecento Cennino Cennini ne parlava nel Libro dell’Arte – è comunque dalla metà del XV secolo che l’olio conobbe una straordinaria diffusione. 276 Tutto il mio lavoro di pittore e scultore ha a che vedere con la pelle […] con l’organo che separa l’interno dall’esterno. Un dipinto è sempre, del resto, una pelle che riveste uno scheletro: la tela, il telaio, il muro, il foglio. Una volta costruito il corpo della pittura per me è quasi automatico pensare che se ne possa scorticare la pelle per mettere in evidenza le prime pennellate, quelle che si sono appoggiate direttamente sulla superficie levigata del rame, oppure del legno. Il rovescio della pittura, come la parte nascosta della pelle, rivela allora qualcosa di fresco e di brutale (Samorì 2021). La maniera di lavoro di Samorì è quella dello sfregio. È una s-maniera capace di cogliere gli inviti che la materialità della pittura a olio può offrire alla sua pratica artistica che si presentano come aspetti interessanti da indagare con più precisione. 3. Prodromie letterarie In apertura a un’indagine sul rapporto tra materialità e fare artistico, il racconto di Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu (1837) può consentirci di entrare con un po’ più di chiarezza nel merito di alcune questioni che sono centrali nel lavoro di Nicola Samorì: da un lato ciò a cui si fa riferimento è il rapporto che esiste tra rappresentazione mimetica e astrazione; dall’altro a essere chiamato in causa è invece la relazione tra le modalità di produzione testuale e l’opera-testo5. In breve, quella di Balzac, è la storia inventata di tre pittori. Di essi, due sono effettivamente esistiti (Nicolas Poussin e Frans Pourbus il Vecchio), il terzo invece è un personaggio di fantasia (Frenhofer). Sviluppando temi cari alla letteratura artistica come quello della verosimiglianza e del capolavoro artistico, le vicende orbitano intorno a una misteriosa opera, La Belle Noiseuse, una tela a cui Frenhofer sta lavorando da oltre dieci anni nel tentativo di renderla perfetta. Un lavoro estenuante e meticoloso che il maestro non riusciva a portare a compimento e a cui però trovò soluzione il giovane Poussin: far posare la donna che amava – la bellissima Gilette – così d’avere in cambio, anche solo per una volta, la possibilità di vedere il quadro qualora fosse stato realizzato. Sebbene le iniziali ritrosie, Frenhofer acconsente e così in poco tempo riuscì a terminare il suo capolavoro. Una volta svelata l’opera, però, essa non destò nei due pittori l’effetto sperato: “Io qui vedo soltanto un confuso ammasso di colori, delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura” fu l’esclamazione del giovane Poussin. Solo in seguito, a uno sguardo più attento, i due pittori si resero conto della bellezza del capolavoro del maestro: “Avvicinandosi scorsero in un angolo della tela la punta di un piede nudo che fuoriusciva da quel caos di colori, di toni, di sfumature indecise, di tutto, una specie di nebbia informe: ma era un piede delizioso, un piede vivo! Rimasero pietrificati per l’ammirazione dinanzi a quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione” (Balzac 1837, p. 123). Come si può notare da questa rapida ripresa del racconto, a sorreggere l’intera macchina narrativa de Le chef d’œuvre inconnu risiede una complessa e articolata riflessione sulle forme artistiche che Balzac dipinge ben prima dell’avvento dell’astrattismo. Nelle parole del romanziere emerge infatti il complesso tema della distruzione della dimensione figurativa della rappresentazione e che, seguendo la proposta di Omar Calabrese, mette a fuoco la questione squisitamente semiotica della dimensione astratta del figurativo: Il vero problema è che la perfetta verosimiglianza ricercata da Frenhofer comporta in realtà una tale sottigliezza dell’artificio tecnico che solo questo alla fine appare alla superficie, dato che non c’è più spazio per la rappresentazione come contenuto, ma solo per la rappresentazione come forma pura dell’artificio. La assoluta verità coincide anzi con l’assoluto dell’artificio. Linee senza più forme da contenere; colori 5Oltre a quelli a cui si fa riferimento, sono stati molti i lavori all’interno del panorama semiotico e di teoria dell’arte che si sono occupati del racconto di Balzac. Si vedano a tal proposito: Damisch (1984); Marin (1984a); Didi- Huberman (1985); Lancioni (1993). 277 senza più oggetti da manifestare. Le geometrie e lo spessore del supporto sono talmente trattati che la profondità dello spazio mimetico non riesce più ad apparire (Calabrese 1987a, p. 18). In aperto contrasto con le strategie della rappresentazione che hanno come obiettivo quello di restituire una resa della profondità, effetto mimetico della terza dimensione, quella che appare nel racconto di Balzac è la descrizione di una sfida aperta alla verosimiglianza. Una profezia, si potrebbe quasi dire, che troverà il suo effettivo compimento soltanto con le sperimentazioni di artisti moderni come i dripping di Jackson Pollock, le bruciature di Alberto Burri, i tagli di Lucio Fontana o, appunto, i giochi alchemico-elementali dello stesso Samorì 6. A fianco a questo tipo di considerazioni, la ripresa della lezione americana sulla visibilità di Italo Calvino può rivelarsi utile per mettere a fuoco un interessante rapporto di analogia tra la produzione del capolavoro di Frenhofer (fare enunciativo a livello dell’enunciato) e quella testuale di Balzac (livello dell’enunciazione enunciata) 7. Calvino ci ricorda infatti come la forma ultima de Le chef d’œuvre inconnu sia stata l’esito di una serie di riscritture iniziate nel 1831, anno in cui comparve per la prima volta sulla rivista L’artiste, e giunte a compimento solo nel 1837. Questo è a tutti gli effetti un “gioco di testualità”, come direbbe anche Louis Marin (1971, p. 9), le cui tracce si possono già ritrovare nell’utilizzo di differenti sottotitoli che accompagnarono l’opera e per cui – ad esempio – all’iniziale epiteto “racconto fantastico” (1831) fu infine preferito il più caustico “studio filosofico” (1837) 8 . La serie di variazioni che si possono riscontrare tra le varie edizioni del racconto, “strati di parole che s’accumulano sulle pagine come gli strati di colore sulla tela” (Calvino 1993, p. 86), permettono infatti di riconoscere un interessante relazione meta-testuale tra la produzione del racconto da parte di Balzac e le imprese di Frenhofer. Un gioco dialogico tra produzione e prodotto testuale che è fondativo della pratica artistica di Samorì come si è potuto scorgere anche in apertura con Cammino cannibale in cui la gestualità dell’artista in relazione con la materialità pittorica dell’affresco ri-presenta il processo di scorticamento a cui fu sottoposto Marsia. 4. Lo spessore della pittura: luogo del senso Per capire la portata semiotica e teorica del gesto di Samorì sembra quindi opportuno sviluppare una riflessione che si muove nel solco della proposta barthesiana di una storia ancora non scritta di strumenti e materiali dell’arte. Quando la pittura è entrata nella sua crisi storica – dice Barthes (1982, p. 147) –, così come si è assistito a una moltiplicazione degli strumenti a discapito del solo pennello, lo stesso è avvenuto anche per i materiali: “c’è stato un viaggio infinito di oggetti traccianti e dei supporti dietro la pittura. Al di là della sua superba individualità storica (l’arte sublime della rappresentazione colorata) c’è altro: i movimenti del graffio, della glottide, delle viscere, una proiezione del corpo, e non solo una padronanza dell’occhio”. 6 Sui “problemi di enunciazione astratta” è recentemente tornata Mengoni (2020). Un testo fondamentale, vista la postura mariniana che permette di tornare con acume sul problema delle marche enunciative all’opera nella produzione artistica contemporanea. 7 Come sostiene anche Emile Benveniste a proposito dell’enunciazione scritta: “questa si muove su due piani: lo scrittore si enuncia scrivendo e, all’interno del suo scrivere, fa sì che degli individui si enuncino” (Benveniste 1970, p. 127). 8 Il cambiamento di nomenclatura è a tutti gli effetti un apparato testuale che si fa ri-presentazione di variazioni operate dall’autore a livello di una semantica del discorso. Nella processualità delle riscritture de Le chef d’œuvre inconnu è allora possibile vedere una vera e propria rappresentazione (cfr. Marin 1975; 1989) dell’evoluzione stilistica della produzione balzachiana dato che questo racconto, come ci ricorda Calvino (1993, p. 84), è “situato in un punto nodale della storia della letteratura, in un’esperienza ‘di confine’, ora visionario ora realista, ora l’uno e l’altro insieme”. 278 Una questione che chiama parimenti in causa l’inscindibile rapporto tra materiali e gestualità del fare artistico. Perché, potrebbe essere legittimo chiedersi, guardare in maniera così insistente a questo tipo di rapporto? Una delle possibili chiavi di lettura a questa domanda, nel momento in cui si vuole riflettere sui meccanismi di produzione della significazione nell’arte 9 , è stata avanzata sempre da Hubert Damisch: Se vale la pena soffermarsi sulla questione dell’artista è in primo luogo in quanto essa può e deve portare a sviluppare, nel quadro di una teoria generale dell’enunciazione, una problematica coerente del soggetto non come ‘origine’ ma come operatore del messaggio: come agente tra gli altri, in un dato contesto, della funzione artistica stessa (Damisch 1981, p. 964; tr. nostra). Visto che, come ricorda anche Paolo Fabbri (1986, p. 16), la semiotica è una disciplina che “rinfresca la sua forza con l’uso”, vorrei concentrarmi adesso su alcune opere di Nicola Samorì che permetteranno di sviluppare alcune di queste premesse. I casi su cui mi soffermerò sono tra loro accumunati da una vicinanza tematica che è quella della rappresentazione dei martiri10. Questo è uno dei grandi filoni della sperimentazione artistica di Samorì in cui figurazione, de-figurazione, materia formata e informe sono indissolubilmente connessi fra loro. Si vedrà che a differenza di quella tradizione barocca che presuppone una rappresentazione trionfante del santo nel momento del martirio, le opere di Samorì sono decadenti, funeree e antimonumentali. In aperto contrasto con una retorica della meraviglia che doveva investire lo spettatore, quelle dell’artista forlivese sono piuttosto immagini abominevoli, orrorifiche. Sono opere che non hanno niente a che vedere con la stoicità cristiana. Sono immagini molli, in declino costante. 4.1. Chi ha peccato, scagli la prima pietra Pietra Penitente è un olio su tavola (100 x 100 cm) in cui vediamo ripresa la figura di San Girolamo realizzata da José de Ribera tra il 1638 e il 1640 (Fig. 2), oggi conservata al Museum of Art di Cleveland. A partire dalla riscrittura di quest’opera, il lavoro di Samorì si configura come caso paradigmatico in cui l’agire pittorico dell’artista si costituisce come meta-discorso sulla pittura. Nel rapporto di tensioni tra gestualità dell’artista e materia, infatti, il piano trasparente della rappresentazione viene messo in discussione a partire dalla relazione che si può rintracciare tra pittura e materialità dell’opera come insieme significante. Le operazioni che ne permettono la realizzazione sono l’esito di una successione di momenti ben precisi e distinti, ognuno dei quali intrattiene con la materialità della tecnica a olio un rapporto diverso. A essere in gioco nel lavoro di Samorì è l’arte dell’alchimia, per come la intende anche John Elkins (1999), ovvero come specifica competenza di chi la esercita 11. 9 La questione ovviamente è ampia, e riguarda l’annoso problema della supposta distinzione tra testo e pratica. Si veda, a tal proposito, la risoluzione del dissidio proposta da Marrone (2010, pp. 3-80) e Lancioni e Marsciani (2007). Posizioni in cui chi scrive si riconosce. 10 Su questo si veda Leone (2016), Ponzio (2018). 11 Sostiene a tal proposito Elkins (1999, p. 27): “L’alchimia è l’arte che sa come ottenere una sostanza che nessuna formula può descrivere”. 279 Fig. 2 – José de Ribeira, San Girolamo (1638-1640). Fig. 3 – Nicola Samorì, Pietra penitente (2016) (© Nicola Samorì). Nel caso di Pietra penitente (Fig. 3), si assiste a un incontro-scontro tra la maestria del saper-fare dell’artista e le proprietà materiche dalla pittura a olio, vero e proprio attore non-umano. La materialità pittorica, nella viscosità dell’olio, detiene in sé tutta una serie di proprietà intrinseche che invitano, suggeriscono, quelle che sono le azioni stesse per manipolarla12. Sono i lunghi tempi richiesti all’impasto oleoso per essiccare che permettono pertanto la realizzazione dell’opera in una serie di concatenamenti sintagmatici di avvenimenti sensomotori in cui emerge l’importanza della dimensione alchemico- elementale della pittura. Tutto prende avvio dalla sovrapposizione su una tavola di un grande strato materico di pittura (oltre 5 cm). Un momento di occultamento per stratificazione del supporto della rappresentazione che rievoca la fase di preparazione della tela che è l’imprimitura. Atteso il tempo necessario affinché il solo strato più superficiale sia asciutto (pochi mm), l’artista realizza su di esso una copia dell’opera di Ribera con una lievità del gesto simile a quella di un tatuatore sulla pelle umana13 . Un’operazione che è resa possibile dal cambiamento delle condizioni di esistenza elementali che mutano nel passaggio della materia da uno stato discreto a uno compatto. Seguendo la proposta di Françoise Bastide (1987), è questa operazione di chiusura della materia che dona alla pittura a olio più superficiale la resistenza necessaria a rendere possibile il suo uso da parte dell’artista come supporto per la rappresentazione. Tuttavia, questo processo di “compattizzazione” è solo parziale e celato dalla strutturazione più superficiale: al di sotto di essa la corposità della pittura a olio è infatti ancora molle e amorfa. Un gioco di consistenze, una co-esistenza di gradi di compattezza differenti, che permette la realizzazione del secondo atto del fare artistico di Samorì. Presa una pietra, con un gesto che rievoca la violenza del martire, fende la superficie essiccata e grazie alla mollezza sottostante de-figura l’immagine di San Girolamo. Quella dell’artista forlivese, come si può vedere, è a tutti gli effetti una pièce in due atti in cui la pratica artistica introduce due atteggiamenti tra loro in aperto contrasto in rapporto all’idea di opera-quadro. Il primo riguarda l’effetto mimetico della profondità che Samorì realizza attraverso la ricostruzione di una 12 Sulla manipolazione delle materie si veda in ambito prettamente artistico Magli (2003); in ambito culinario Pozzato (2020); Marrone (2022). 13 Si noti come di tutto l’insieme degli oggetti propri dell’iconografia del santo, l’unico a essere preservato è la pietra. Sono scomparsi dal livello figurativo dell’immagine di Samorì il testo sacro e la croce. Un processo di spoliazione che laicizza la pittura e la prepara per un discorso di altro tipo. 280 profondità al di là del quadro proprio del momento di ri-produzione dell’immagine del santo14 , il secondo invece pertiene allo statuto della pittura a olio come soggetto della rappresentazione che emerge nel momento in cui Samorì smembra lo spesso strato di impasto pittorico ancora molle. Come evidenzia anche Barthes a proposito delle opere di Cy Twombly, “il potere demiurgico del pittore consiste nel fatto che egli fa esistere il materiale come materia; anche se dalla tela scaturisce del senso, [la pittura a olio] rimane cosa, sostanza ostinata, il cui ‘esserci’ non può essere impedito da nulla (da nessun senso a posteriori)” (Barthes 1982, p. 178). C’è però una sostanziale differenza tra il Twombly barthesiano e il nostro pittore forlivese. Il primo aggiunge strati di matita e colore; Samorì invece, in un procedimento che rievoca più i grattage surrealisti, interviene per asportazione della superficie pittorica che così assume corpo, volume e senso. Materialità e significazione sono infatti nel lavoro di Samorì due elementi inscindibili. Guardando al valore che un tale avviluppamento materico assume all’interno del sistema testuale in cui è iscritto, si può rintracciare il rapporto specifico che la materia informe intrattiene con il senso complessivo dell’opera. È grazie alla relazione con gli altri elementi del quadro che la materia scarificata da Samorì può attualizzarsi in un’analogia tra pittura asportata e pelle decorticata. Un gioco significante come nel caso della rappresentazione di Girolamo, santo penitente che si percuote il petto con la pietra, il cui volto e corpo sono stati flagellati dalla mano dell’artista15. 4.2. Fendere la pelle, mostrare la violenza Questo gioco dialettico tra potenzialità della materia e produttività del senso è all’opera anche nel dittico Indovina – Abbagliata che Samorì realizza nel 2017. La prima di queste immagini, Indovina (Fig. 4), è realizzata in maniera analoga a quanto si è messo in luce con Pietra penitente. Differisce da essa solo per il tipo di gestualità con cui viene realizzato lo sfregio. Invece di ricorrere a una pietra, Samorì smembra il volto di Santa Lucia conficcando all’interno dell’impasto materico ancora duttile le sue dita. Nuovamente, si assiste a un dialogo significante tra gestualità del fare artistico e storia della passione del santo. Come si sa, la tradizione popolare ha da sempre invocato Lucia (da lux, luce), martire accecata, come la santa protettrice degli occhi e della vista. Di questa prima opera Samorì realizza in seguito un calco e con il marmo crea un’opera che è il negativo della prima, Allucinata (Fig. 5). Ne risulta in questo caso una superficie perfettamente liscia da cui in aggetto sporgono solo due protuberanze amorfe che sono il corrispettivo dell’incavo prodotto nella pittura a olio. Un processo traduttivo tra due sostanze espressive differenti in cui l’artista gioca con quelle che sono le condizioni di malleabilità dei materiali 16 : da un lato la duttilità dell’olio, dall’altro la durezza del marmo. 14 Calabrese (1987b), a proposito dello spazio prospettico come la “finestra sul mondo” proprio della teoria albertiana parla di “una spazialità illusoria della scena figurativa”. Samorì opera per ricostruire una profondità al di là del quadro. Sull’approccio alla figuratività si vede anche Bertrand (2000, pp. 97-103). 15 Come si può vedere nel caso di Pietra penitente, le operazioni di riscrittura di Samorì implicano una chirurgica procedura di neutralizzazione del valore sacro delle immagini. Non ci si addentrerà in questa sede su una puntuale analisi del tipo di valori che questa procedura mette in gioco. Si rimanda però a Vannoni (2022) in cui la questione è stata affrontata con maggiore puntualità. Sulla questione della neutralità e dei processi di ri- e de-semantizzazione si veda invece Giannitrapani (2022). 16 Sul gioco di traduzione nell’arte contemporanea si rimanda al lavoro di Lucia Corrain (2016), in cui l’autrice si concentra sull’opera di Pascal Convert Pietà Kosovo (2002), una scultura in cera realizzata a partire da un processo di traduzione della fotografia Veillée funèbre au Kosovo di Georges Merillon (1990). 281 Fig. 4 – Nicola Samorì, Indovina (2017) Fig. 3 – Nicola Samorì, Abbagliata (2017) (© Nicola Samorì). (© Nicola Samorì). Nel momento in cui queste due immagini sono chiamate a guardarsi reciprocamente, come nel caso della loro esposizione al MART di Rovereto nel 2020, è possibile riconoscere un peculiare effetto chiasmatico che si fa mostrazione17 attraverso i suoi prodotti, di una meta-riflessione sulla pratica artistica di Samorì. Un lavorio di tecniche e di materiali che si intrecciano costantemente tra loro e che lascia emergere un cortocircuito tra le condizioni di esistenza di quanto è tradizionalmente considerato pittura e quello che invece è scultura. La pittura, discostandosi da un processo di accumulo di lievi strati di materia, si avvicina all’azione propria del fare scultoreo come quello michelangiolesco, ovvero un’arte del levare, un processo sottrattivo grazie al quale la figura imprigionata nella materia è finalmente liberata. All’opposto, per quanto riguarda la scultura, vediamo una quasi completa cancellazione dello spessore volumetrico, che richiama piuttosto la bidimensionalità della pittura. 5. In forma di conclusione Gli avviluppamenti della materia al lavoro nelle opere di Samorì sono dell’ordine del figurale, mettono in gioco una virtualità di senso possibile e attivano con la loro potenza l’efficacia stessa delle immagini18. Sono delle discontinuità, delle rotture, che nel sabotare il corpo dell’immagine sono al tempo stesso “traccia violenta di un limite, marchiatura a fuoco, se così si può dire, di un margine che rompe una forma manifesta o una figura esibita” (Marin 1992, p. 222). Attraverso la forza elementale 17 È Paolo Fabbri (2020) che suggerisce di leggere l’enunciazione come gesto dell’indicare, del mostrare: “Dovremmo allora promuovere e difendere l’idea di un campo deittico in grado di allargare la pronominalità linguistica, chiusa in termini visivi, a una problematica più complessa […]. Avevo proposto “deissi”, ma non è stato accolto favorevolmente. Mostrare?” (pp. 132-4). 18 Sull’efficacia, si veda Marin (2019). 282 della materia pittorica creano dei colmi, delle interruzioni, nella sintassi visiva della rappresentazione. Con l’idea di “colmo”, si fa riferimento a quello che è il duplice statuto del termine: da un lato come “accidente” della rappresentazione; dall’altro come cumulus , eccedenza, sporgenza, sovrappiù di materia. Come ricorda Marin (1984b p. 65) in un saggio dedicato all’opera Ad Marginem di Paul Klee, “chiamo colmo della rappresentazione tutto ciò che si giocherà sui limiti del suo dispositivo, della sua costruzione in un luogo o in un momento che non è ancora il suo esterno, il suo ‘altro’, ma che non è più del tutto il suo interno, il suo stesso”. Analogamente, l’aggetto materico nel lavoro di Samorì si configura per la sua carica utopica, al tempo stesso di negazione del piano mimetico della rappresentazione e di autoaffermazione come elemento significante. Se, come abbiamo visto, la gestualità del fare artistico di Samorì si muove secondo l’analogia del martirio dei santi articolando specifici effetti di senso, allo stesso tempo la dimensione amorfa della materia ci parla anche di altro. Ci guida verso qualcosa di diverso rispetto alla dimensione transitiva della rappresentazione. Ci parla della riflessività della rappresentazione, della sua opacità, per utilizzare un termine caro a Louis Marin. Un “effetto di soggetto” reso possibile dalle condizioni materiali di realizzazione del quadro, da un a priori materiale della rappresentazione che è sempre, inevitabilmente chiamato in gioco: Opacità [opacités, al plurale]: la presenza di una materia, di una carne, di un corpo della pittura nel puro movimento della significanza dell’immagine del visibile che è il quadro di pittura, lo scheletro del suo telaio, la pelle della sua tela, ruvida o liscia, con le sue dimensioni e il suo formato, i pigmenti colorati, gli impasti, gli stucchi e le vernici; le tracce lasciate dalla pennellata del gesto del pittore; gli accenti, le spaziature, le composizioni, le dissimulazioni e gli oscuramenti, le esplosioni, i vortici, i flussi e i riflussi, le unzioni, le mellosità, le soavità, le liquidità, le viscosità, i grumi, le gocciolature e le colature, i graffi, le incisioni, gli schizzi: opacità [di nuovo al plurale] (Marin 1997, p. 67; tr. nostra). Attraverso questo percorso tra le opere di Samorì, si è tentato di sviluppare una riflessione sulle capacità e le potenzialità della materia all’interno della pratica artistica contemporanea. Riflessioni che ci si augura possano risultare utili anche a chi – di lato alle riflessioni interne al dominio dell’arte – si potrebbe interessare al “potere fattivo” dei materiali, come ricorda anche Patrizia Magli (2003), ai modi e alle modalità di manipolazione propri della materia che nel momento in cui viene in-formata diventa sostanza significante. 283 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Balzac, H., 1837, Le Chef-d’œuvre inconnu, trad. it. Il capolavoro sconosciuto, Milano, Rizzoli 2002. Barthes, R., 1982, L’obvie et l’obtus. Essais critiques III, Paris, Seuil; trad. it. 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Livelli di materialità del gusto e dell’intelligenza artificiale Karina Astrid Abdala Moreira Abstract. This article presents the main issues to be taken into account when analyzing the taste experience and its relationship with artificial intelligence. For this purpose, I base on a qualitative methodology. Firstly, I understand that to analyze this phenomenon there are different levels of taste and for each “level” there is a “translation” in terms of Lotman (1993). To distinguish the levels, I base on Hjelmslev’s linguistic analysis, understanding what happens at the level of expression and the level of content when we pass from the form to the substance and the matter of the taste experience. As far as artificial intelligence is concerned, I focus on the philosophical issues in this area. To conclude I present how the media discourse of this new mode of taste experience is presented by using the classic storytelling that appears in the gastronomy field. 1. Introduzione Per analizzare i diversi livelli di materialità del gusto, ci concentreremo innanzitutto sulla definizione di gusto. Ci sono molti teorici del gusto e del disgusto come Boutaud (2005), Bianciardi (2011), Marrone (2014, 2016, 2022), Mazzocut-mis (2015), Stano (2017, 2015). Tra le ricerche che stabiliscono i principali problemi teorici legati al gusto, vale la pena citare il lavoro di Bianciardi (2011, p. 29). L’autore sostiene che il senso del gusto è sinestetico, quindi nell’analizzarlo è necessario tenere conto di tutti gli altri sensi nel loro insieme. È per questo motivo che, quando si analizza l’esperienza gustativa, si considerano anche le dimensioni visive, uditive, olfattive e tattili, che si producono contemporaneamente nel soggetto degustatore. In quanto alla pluralità sensoriale, secondo Bianciardi (2011) il gusto implica una degustazione di diversi sapori e che l’individuo possa identificare ognuno di questi sapori; “la matrice di partenza di ogni forma di «gusto» risiede nella degustazione dei sapori alimentari: nel suo significato originario, il gusto si presenta innanzitutto come la capacità di discernere i sapori specifici degli alimenti, la qual cosa implica la preferenza per alcuni di essi” (Bianciardi 2011, p. 31). Inoltre, ogni esperienza sensibile si configura con il riconoscimento della differenza, pertanto, è grazie all’esperienza che il soggetto è in grado di classificare i gusti. Chiaramente, questa classificazione è fortemente segnata dall’aspetto sociale e culturale. La prospettiva sull’esperienza di Peirce (CP 1.335) 1 è utile in questo senso, poiché è attraverso questa teoria che possiamo capire come funziona l’esperienza: la userò per spiegare il riconoscimento del gusto. Il soggetto passa dalla Firstness (CP 1.302), – dove solo nella sua percezione compaiono le sensazioni di quel gusto, il che implica una gamma di possibilità, dove il soggetto non può conoscere nulla prima dell’assaggio, tutto è immerso nelle possibilità – alla Secondness che è fortemente legata alle caratteristiche dell’oggetto assaggiato (temperatura e consistenza, ad esempio) e Thirdness, in cui diviene possibile definire gusti e sapori. Secondo Peirce, la Firstness implica che “la libertà può manifestarsi solo in modo illimitato e incontrollato varietà e molteplicità; e così il primo diventa predominante nelle idee di varietà e 1Le citazioni dell’opera di C. S. Peirce sono fatte nel modo consueto: CP [x.xxx] si riferisce al volume e al paragrafo dell’edizione The Collected Papers of Charles S. Peirce. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). molteplicità smisurate. È l’idea guida della ‘varietà di sensi’” (CP1.302). Il numero di possibilità all’interno della Firstness dipende chiaramente dalla società dell’individuo, perché questa determina quali ingredienti è possibile assaggiare. Poi la persona giunge al riconoscimento dell’elemento che assaggia, e a questo punto del processo siamo di fronte alla Thirdness (CP 1.26), ovvero all’Interpretante, che permette una semiosi del riconoscimento del gusto. Questi stadi dell’esperienza coinvolgono diversi livelli di percezione che appaiono istantaneamente e congiuntamente. Pertanto, in questo articolo il mio obiettivo è mostrare i diversi passaggi e traduzioni in grado di attivare diversi sensi che esistono quando questi fenomeni vengono analizzati. Mentre approfondiamo gli studi di entrambi i campi (intelligenza artificiale e gusto), comprendiamo che in essi compaiono diversi livelli e il comune denominatore è la percezione e l’esperienza. In sintesi, è importante analizzare il gusto come sinestetico, poiché tutti i sensi sono attivati nella degustazione. 2. Concettualizzazione e problemi principali dell’Intelligenza Artificiale Il problema principale che si pone quando si analizza l’intelligenza artificiale è il nome che usiamo per definirla, che orienta l’interpretazione delle sue funzioni. Secondo Ienca (2019) e Cristianini (2023), esistono diversi tipi di intelligenza e non devono essere paragonati all’intelligenza degli esseri umani. “È fuorviante attribuire qualità umane a tutti gli agenti intelligenti, e quando riflettiamo sulle intelligenze che incontriamo nei nostri browser è più utile compararle alle erbe o alle lumache del giardino che a noi stessi” (Cristianini 2023, p. 9). Anche Ienca (2019) sottolinea che la questione dell’intelligenza può essere riscontrata in diversi animali e non implica che funzioni allo stesso modo degli esseri umani. Ma sottolinea come l’intelligenza umana sia ugualmente stata nella storia un modello per sviluppare forme di intelligenza artificiale. Fumo (2017) ha spiegato che la rete neurale artificiale funziona come un modello computazionale basato sul modo in cui le reti neurali biologiche del cervello umano elaborano le informazioni. L’unità di base della computazione in una rete neurale è il neurone, chiamato nodo o unità. Riceve input da altri nodi e calcola un output. “Ogni ingresso ha un peso associato, che viene assegnato in base alla sua importanza relativa rispetto agli altri ingressi. Il nodo applica una funzione alla somma ponderata dei suoi input” (Fumo 2017, p. 1). A sua volta, questo sistema neurale ha delle regole, una delle più importanti delle quali è l’apprendimento, ovvero un algoritmo che modifica i parametri della rete neurale in modo che un dato input alla rete produca un output favorito. Pertanto, ci troviamo costantemente di fronte a un’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale. Non solo perché essa simula il funzionamento del cervello umano, ma perché a differenza del resto degli animali o degli esseri intelligenti che possiamo trovare, l’intelligenza artificiale è stata possibile grazie alla mano dell’essere umano (Cristianini 2023). D’altra parte, Fry (2018) dopo aver analizzato diversi casi in cui le decisioni sono prese principalmente dagli algoritmi che sono alla base dell’intelligenza artificiale, ha mostrato il problema dell’autonomia. Fry spiega che l’algoritmo si limita a seguire le istruzioni “logiche che mostrano, dall’inizio alla fine, come eseguire un compito. Con questa definizione ampia, una ricetta per una torta è un algoritmo” (Fry 2018, p. 11). Gli algoritmi possono ricevere istruzioni, ma anche fornirne, sulla base dei modelli “che apprende dai dati, una foresta casuale è descritta come un algoritmo di apprendimento automatico, che rientra nel più ampio ombrello dell’intelligenza artificiale” (Fry 2018, p. 48). L’algoritmo di machine learning pone il problema dell’autorità che l’essere umano dà all’algoritmo: tuttavia, conclude Fry, “forse riconoscendo che gli algoritmi non sono perfetti, non più degli esseri umani, potrebbe avere solo l’effetto di sminuire qualsiasi assunzione sulla loro autorità” (Fry 2018, p. 153). Come soluzione al problema dell’autorità, si propone che non solo venga fornito un output come 287 soluzione a un determinato problema, ma che l’algoritmo fornisca una serie di opzioni, in modo che l’essere umano possa scegliere tra loro, e togliere la piena autorità alla macchina. Poiché, secondo l’autrice (Fry 2018, p. 154), è proprio qui che sorgono i problemi, quando ci si fida totalmente del risultato che appare, senza interrogare, senza considerare che i dati che sono stati dati alla macchina sono prodotti dell’ambiguità umana. Tutte queste spiegazioni sul funzionamento dell’intelligenza artificiale sono fondamentali per capire come questa possa creare suggerimenti per articolare la materialità e creare nuovi gusti, possibili grazie all’esistenza di un database. Ovvero, l’archivio di una enciclopedia di forme semiotiche che l’intelligenza artificiale è in grado di riconoscere e produrre (Eco 2007, p. 14). Nel caso dell’intelligenza artificiale nel gusto, l’opzione della macchina è quella che suggerisce un mix di ingredienti per produrre una nuova materialità di un nuovo gusto. Ma in che senso la scelta di ingredienti può essere definita come intelligente? Definiremo l’intelligenza in termini di comportamento di un agente, ovvero di qualsiasi sistema in grado di agire nel suo ambiente, usando informazioni sensoriali per prendere decisioni. Ci interesseremo in particolare agli agenti autonomi, ovvero agenti che prendono decisioni internamente senza essere controllati, e agli ambienti che possono essere almeno in parte influenzati dalle azioni dell’agente (Cristianini 2023, p. 13). In questa affermazione appare un elemento fondamentale, ovvero la percezione sensoriale. Gli studi di Parisi (2019), attraverso un’analisi del rapporto dell’essere umano con la tecnologia, permettono di delineare il processo di autopoiesi (Maturana, Varela 1980) che esiste con gli esseri umani. Si instaura quindi un rapporto con la tecnologia che dipende dal nostro corpo. Secondo Parisi (2019) il nostro corpo limita le nostre azioni, è la base delle nostre sensazioni e soprattutto della nostra percezione. È qui che si collega a quanto accennato da Cristianini (2023), dove la percezione è la base della decisione. Ma fino a che punto l’intelligenza artificiale può percepire sensorialmente gli elementi che appaiono nel suo ambiente? Uno dei primi casi di studio sulla tecnologia è la simulazione del naso elettronico, che permette la digitalizzazione dei componenti chimici di ogni ingrediente (Alphus 2009). Questa fase è stata quella che ha permesso la costruzione di un database, che successivamente, con l’intelligenza artificiale, ha potuto suggerire una miscela di ingredienti e materializzare nuovi gusti. Parisi (2019, p. 72) sostiene che, poiché le nostre sensazioni dipendono dal nostro corpo, la tecnologia e l’intelligenza artificiale devono sviluppare elementi simili, al fine di incrementare nuovi gusti. Questo è uno dei problemi centrali che troviamo quando si parla di percezione sensoriale, e della prima “traduzione”, nei termini di Lotman (1993), tra il corpo dell’essere umano e la simulazione del corpo della macchina. Pensando alla questione dell’esperienza gustativa applicata nel campo dell’intelligenza artificiale, è proprio Cristianini (2023, pp. 73-74) che fa un confronto tra alcune ricette di cucina per capire il funzionamento di un algoritmo. Egli sottolinea che ogni cambiamento nella ricetta di cucina può alterare il risultato. Ma non prende in considerazione i problemi del gusto e della percezione, limitandosi a descriverli come “ordini dettati”. L’aspetto interessante di questo discorso è che nella ricetta, come nell’algoritmo, la nozione di esperienza si basa sulle conoscenze maturate in seguito a errori commessi. Un cuoco esperto probabilmente ha provato molte variazioni prima di trovare i valori ideali, ma probabilmente continua lo stesso a sperimentare ogni volta che lavora in una nuova cucina o usa un tipo diverso di farina. In linguaggio matematico queste quantità modificabili della ricetta si chiamano parametri [...] Questo è uno dei modi più tipici in cui le macchine imparano, ovvero cambiano il proprio comportamento sulla base dell’esperienza, e può essere applicata ai parametri numerici che controllano le previsioni (e quindi i comportamenti) di agenti che raccomandano (Cristianini 2023, p. 74). 288 Pensare alla cucina come a un meccanismo di prova ed errore può essere la base per collegare i due ambiti, ma è chiaro che se si parte da questa base si tralasciano i livelli di esperienza gustativa, che sono fondamentali per la creazione della materialità dei nuovi sapori. Un altro problema che dobbiamo affrontare quando analizziamo questi temi è quello della traduzione di un mondo percettivo sensoriale, continuo, come quello del gusto, in un mondo “più matematico” come quello dell’intelligenza artificiale, discontinuo. Questo passaggio non significa che si debba cadere nella banalità di distinguere i due mondi come opposti naturali e/o artificiali. Perché sappiamo che la costruzione di un gusto ideale è un elemento chiaramente sociale, culturale, tutt’altro che naturale. Uno dei problemi che Cristianini (2023) sottolinea è la fiducia che viene data a questi dispositivi: negli studi che troviamo sull’intelligenza artificiale, compaiono autonomia e fiducia. Elementi che possono essere migliorati prendendo in considerazione il modo in cui viene creato il database e come viene pensata la traduzione degli elementi, non trascurando le questioni culturali. Soprattutto, non pensando da una prospettiva antropocentrica. Quando mi riferisco alla questione della traduzione, è necessario prendere in considerazione anche la nozione di immaginario sociale, perché, come già accennato nell’articolo, esso governa sia il gusto che l’intelligenza artificiale. Nel concetto di immaginario sociale, basato su Castoriadis (1975), troviamo gli aspetti simbolici e la rappresentazione di un ideale. A questa funzione dell’immaginario sociale sono associate le istituzioni che lo promuovono (Castoriadis 1975). Nel caso dell’intelligenza artificiale e del gusto possiamo trovare dispositivi diversi, da quelle del settore ICT a gastro-alimentare. Entrambi generano un immaginario sociale in ogni area. Per quanto riguarda il dispositivo dell’intelligenza artificiale, sempre inquadrato in ambito gastronomico, siamo all’interno dell’immaginario sociale che cerca la perfezione. Ad esempio, quando si dice che l’intelligenza artificiale può selezionare gli ingredienti in base al miglioramento dell’ambiente. Per quanto riguarda la gastronomia, esistono i discorsi che fanno gli chef sul gusto nell’area confermano la pervasività di questa ideologia culturale. Diversi chef menzionano l’importanza dello storytelling che ha luogo prima che l’individuo assaggi il cibo. Gli chef sanno che questa storia predispone gli aspetti sensoriali al momento dell’assaggio2. Uso il termine storytelling e non narrazione, perché il modo di spiegare come è stato fatto un piatto richiede tecniche artistiche profonde che gli chef conoscono per creare una certa atmosfera quando si assaggiano i loro piatti. Lo storytelling è accompagnato anche dalla decorazione e da tutti gli elementi che si trovano nel ristorante, che aiutano la credibilità dello stesso. Tutti questi elementi favoriscono un immaginario sociale che guida la costruzione del piatto e alla qualificazione sensoriale dell’esperienza gustativa. La realizzazione di piatti mediante l’uso dell’intelligenza artificiale è oggi uno storytelling centrale nella cultura gastronomica. Questo storytelling richiede anche l’istituzione dei media, dove si comunica questa nuova forma di creazione gastronomica enfatizzando certi aspetti. In questi casi si pone il problema del passaggio dall’immaginario alla materialità del gusto – nei termini di Peirce, dal simbolico (CP 1.558) all’oggetto dinamico. Ma l’immaginario sociale creerà sempre un Interpretante (CP 2.228) che sarà irraggiungibile, stabilendo una tendenza che si avvicini all’immaginario sociale. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale e il gusto, Davidsson (2021) sottolinea che l’intelligenza artificiale inizi con le reti algoritmiche, ma quando parla di ricette, sostiene che gli esseri umani si basano sull’esperienza dei sapori per realizzarle: L’odore e l’aspetto dei diversi ingredienti. Tutte queste informazioni non sono disponibili per l’algoritmo, che può solo vedere come i diversi ingredienti vengono utilizzati insieme. Per inciso, questo è un problema comune nell’apprendimento automatico, in cui il modello eredita i pregiudizi 2 Proprio su questi temi sto concentrando il mio lavoro di tesi dottorale in svolgimento presso l’Università degli Studi di Torino e l’Université de Lille. 289 dai dati. In questo modo si escludono alcune combinazioni di ingredienti che sono rare a causa delle caratteristiche geografiche (Davidsson 2021, p. 1). In questa citazione emerge l’elemento culturale centrale, dove a seconda del Paese, l’individuo trova il suggerimento di ogni ingrediente da mescolare. Ci si chiede fino a che punto si possa creare qualcosa di nuovo. Diversi chef affermano che l’intelligenza artificiale è un modo per sbloccare la creatività e creare insieme oggetti e ricette. Davidsson (2021) cita alcuni elementi che un buon pasto dovrebbe avere, come l’equilibrio, la variazione, la novità e la familiarità. Secondo l’autore, l’equilibrio degli elementi di gusto, la variazione e la novità, sono facili da comprendere dall’intelligenza artificiale, mentre tutto ciò che riguarda la familiarità è legato alla memoria gustativa del soggetto. Per quanto riguarda le spezie, sostiene che il loro abbinamento è dovuto solo ad un aspetto culturale. Le spezie sono legate all’odore e potrebbero avere “una stretta connessione tra la parte del cervello che elabora gli odori e l’ipotesi che elabora i ricordi. Ciò significherebbe che le spezie potrebbero essere utilizzate per evocare determinati ricordi” (Davidsson 2021, p. 2). Ancora una volta ci troviamo tra la traduzione tra l’essere umano e la macchina, perché ci sono componenti difficili da replicare dall’intelligenza artificiale, come la memoria del gusto, a cui fa riferimento Boutaud (2005) e l’altro elemento importante da replicare è la percezione. Per ricapitolare, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, c’è antropomorfismo, ed il database è frutto di una costante traduzione tra il corpo umano e la macchina. La traduzione appare nelle percezioni sensoriali tra gusto e matematica. Ma la percezione neanche è naturale perché entra in gioco la concezione dell’immaginario sociale, dove troviamo sia il gusto come ideale che come lo storytelling. 3. Livelli del gusto e dell’intelligenza artificiale Per comprendere i diversi livelli della materialità del gusto, e come ciascun livello venga tradotto nella sua ri-creazione con l’intelligenza artificiale, possiamo ricorrere alla linguistica di Hjelmslev (1943, p. 52). Con questa teoria possiamo distinguere in linea di principio due livelli fondamentali, quello del contenuto e quello dell’espressione. Il piano del contenuto ha un significato arbitrario se viene pensato in relazione al piano dell’espressione. Sul piano del contenuto si trovano forma, materia e sostanza, così come sul piano dell’espressione. Se applichiamo questo modello all’esperienza gustativa dell’intelligenza artificiale, possiamo riconoscere diverse tipologie di segni: gli output (ricette su schermo, algoritmi, 3D food etc.), che sono anche piani dell’espressione della stimolazione sensoriale che è l’esperienza gustativa, così come il database, cioè il paradigma di possibili combinazioni fra ingredienti. Ad ognuno di questi segni corrisponderà un piano dell’espressione e del contenuto, entrambi suddivisi in forma, sostanza e materia. Possiamo affermare che, sul piano dell’espressione, la forma è costituita dall’insieme degli output (ricette, 3D food etc.), a partire da un paradigma, che è il database, di possibili combinazioni; la sostanza sarà da individuare nell’insieme di tecnologie, ingredienti e piatti che definiscono l’intelligenza artificiale attuale e che si realizzano nei diversi segni e nelle diverse culture. Il database concerne invece il modo in cui le combinazioni fra gli ingredienti sono predisposte dall’intelligenza artificiale, cioè contengano (embedded) stereotipi culturali; la materia, infine, concerne sia il segno realizzato, sia la materialità plurilinguistica della macchina, così come il livello biologico di stimolazione sensoriale, gustativa, tattile e olfattiva, o il livello visivo del piatto, e uditivo che accompagna l’esperienza gustativa, e la materialità del contesto in generale (il luogo in cui si svolge la degustazione). Corrispondono anche al livello di espressione i segni che compongono lo storytelling, che viene realizzato nel momento che precede ogni degustazione nello restaurante. Lo storytelling può essere 290 presentato sotto forma di immagini o di parole, insieme a tutti gli elementi che fanno parte del contesto in cui si svolge la degustazione. A livello del contenuto, saranno da situare tutte le operazioni interpretative e deduttive attuali (da tutti gli attori umani e non umani) – come fra amaro/dolce/aspro/salato/umami – che intervengono nell’esperienza gustativa, fino al riconoscimento culturale di gusto e testura, l’orchestrazione sensoriale e sinestesica, la memoria, il giudizio di gusto (Bourdieu 1979). Un’altra funzione segnica è la memoria gustativa, che ha il compito di collegare gli elementi che portano al riconoscimento del piatto. Nella degustazione, l’espressione sarà individuata da un segno tattile perché attraverso la consistenza (ad esempio la croccantezza del piatto, la morbidezza, la temperatura etc.), il soggetto può riconoscere il piatto, in base alla sua esperienza gustativa. Infine, tutta questa analisi di Hjelmslev (1943) mi permette di comprendere i diversi passaggi e traduzioni che avvengono internamente ed esternamente, nei dispositivi analizzati. 4. Casi d’esperienza gustativa mediati dall’intelligenza artificiale Uno dei primi esempi che in cui possiamo trovare il collegamento tra intelligenza artificiale e gusto, si trova nella birra. Secondo Dunshea, Fuentes, Gonzalez e Torrico, (2019) l’uso di algoritmi di apprendimento automatico in alimenti e bevande “è diventato più popolare negli ultimi anni, poiché aiutano ad aumentare l’accuratezza, ridurre tempi e costi nei metodi analitici e sensoriali per valutare la qualità e accettabilità delle bevande” (Dunshea et al. 2019, p. 2). Nel caso della birra è stato verificato che esistono modelli di intelligenza artificiale in grado di prevedere il gusto al palato, come l’amarezza, “utilizzando i parametri fisici relativi al colore e alla schiuma, cosa possibile perché i consumatori possono giudicare la qualità e l’accettabilità di birra basata esclusivamente su attributi visivi” (Dunshea et al. 2019, p. 8). Ciò implica che esiste una relazione tra schiuma e parametri legati al colore e all’amaro, poiché il luppolo contribuisce allo sviluppo di aromi e sapori nella birra. Anche questo ci porta a pensare all’importanza di ogni senso quando si parla di gusto, poiché attraverso il visivo la macchina può prevedere il sapore più o meno amaro di ciò che è custodito da detta bevanda. Secondo gli autori esiste un modello di intelligenza artificiale che si basa sulla raccolta di dati attraverso l’utilizzo di un Robobeer e indaga i video grazie ad algoritmi di visione artificiale. Gli autori sottolineano che tutta questa tecnologia “offrirà all’industria della birra un processo completamente automatizzato per prevedere il gusto del consumatore e l’accettabilità delle diverse birre” (Dunshea et al. 2019, p. 8). Un altro esempio importante è la realizzazione di una ricetta creata dall’intelligenza artificiale ed è un biscotto 50%, torta 50%, pensato per le feste di Natale. Nel loro blog Markowitz e Robinson (2020), spiegano come sono arrivati a questo risultato, entrambi sono ingegneri e questo esempio mostra l’importanza di contestualizzare il luogo in cui viene realizzata la ricetta e il periodo dell’anno. Gli autori sono americani e spiegano che nel loro paese è comune mangiare torte e biscotti a Natale: questi elementi sono importanti quando l’intelligenza artificiale crea la loro nuova ricetta. Secondo Markowitz e Robinson (2020) prendendo i valori per le nuove ricette da una rete neurale, “ti mostreremo come creare un modello di apprendimento automatico spiegabile che analizzi le ricette di cottura e persino usarlo per creare le nostre nuove ricette, senza dati competenza scientifica richiesta” (Markowitz, Robinson 2020, p. 1). Il risultato ottenuto è un impasto ibrido tra biscotti e pane, in cui sono stati inseriti solo 16 ingredienti selezionati dall’intelligenza artificiale, ma includendo ingredienti che influenzano la consistenza dell’impasto. Da quanto approfondito in questo blog si capisce che il risultato della nuova ricetta dipende esclusivamente dai dati forniti al motore di ricerca, utilizzando ad esempio la parola biscotto o torta, ottenendo così un grafico che determina gli ingredienti comuni per entrambi ricette sia come farina, uova etc. La cosa importante di questo esperimento è capire cosa accadrà all’esperienza gustativa. Questo esempio ci fa anche riflettere su cosa può succedere con le ricette considerate tradizionali in un certo paese, cosa accadrà con l’unione tra piatti tradizionali e l’intelligenza artificiale. 291 Fig. 1– Biscotto torta esterna. Fig. 2 – Biscotto torta interno. Fig. 3 – Torta biscotto esterna. Fig. 4 – Torta biscotto interno. 5. Analisi del discorso: presentazione di Flavor Graph Flavor graph, una delle principali applicazioni ideate da Sony nell’ambito di un progetto dell’Università della Corea, esegue, come suggerisce il nome, la “mappatura dei sapori”. In questa applicazione viene visualizzata la composizione chimica di ogni ingrediente, che si trova all’interno del database, e poi vengono visualizzati i nomi degli ingredienti che corrispondono a ciascuna composizione chimica. Infine, l’algoritmo “rischia” di suggerire all’individuo che utilizza l’applicazione le possibili combinazioni di determinati ingredienti. Vengono visualizzate le combinazioni già realizzate, quelle che non è consigliabile realizzare e quelle che sono consigliabili ma non sono mai state realizzate. Nei casi in cui gli elementi suggeriti dall’intelligenza artificiale non vengono mai creati, si distingue la creazione da parte degli algoritmi, anche se gli chef che ho intervistato nella mia ricerca di dottorato affermano che le creazioni passano sempre attraverso l’essere umano, e ciò che l’intelligenza artificiale può fare è sbloccare la mente del creatore per ispirare nuove ricette. Comprendo che il suggerimento sia dato dall’intelligenza artificiale e che il risultato dipenda sempre dalle capacità dell’essere umano che prepara il piatto, ma la creazione del nuovo gusto è opera della macchina. In questi casi, si stabilisce sempre che si tratta di una realizzazione congiunta, perché senza la macchina non saremmo sicuri se quella combinazione esisterebbe o meno. La figura 5 mostra la costruzione della mappa dei sapori disegnata dall’applicazione Flavor Graph. 292 Fig. 5 – Design della mappa dei sapori a cura di Flavor Graph. Un’intervista di Gifford e Marcus (2022) allo chef Hajime Yoneda, disponibile sul sito web dell’applicazione Sony, lo chef spiega di aver collaborato alla creazione del database dell’applicazione, fornendo tutte le sue ricette. L’intervista è divisa sul sito in tre parti, dove nella prima troviamo un intero discorso che punta al sentimentale, dove la cucina diventa fonte di emozioni e pensa all’unione tra uomo e macchina, avvicinandola alle emozioni. Sebbene nell’immaginario sociale (Castoriadis 1975) l’intelligenza artificiale sia associata a qualcosa di “freddo” (ad esempio è sempre disegnata con il colore blu), in questo caso, si cerca di dare emozioni a qualcosa che per sua natura non le ha, e siamo ancora una volta di fronte a un’antropomorfizzazione. Questa analisi discorsiva tiene sempre conto del fatto che siamo di fronte a un’azienda che intende vendere e posizionare il proprio discorso, ma questa analisi va oltre le leggi del marketing. Uno degli elementi utilizzati per alludere alle emozioni è l’immagine che possiamo vedere nella figura 6, dove viene fatto un gioco di parole tra AI (intelligenza artificiale in inglese) e la parola amore, che in giapponese è AI. Fig. 6 – Rappresentazione delle emozioni tra uomo e l’intelligenza artificiale. Si può notare, in particolare nella seconda parte dell’intervista, un cambiamento radicale del discorso, che mira a modificare gli oggetti, in questo caso gli ingredienti, fino alla perfezione. Lo chef menziona la necessità di tagliare con precisione ogni ingrediente perché, anche il più piccolo dettaglio, ne cambierebbe il sapore. Allo stesso tempo, cita la necessità di inserire nel suo ristorante dei robot che controllino la temperatura, il suono e le altre variabili ambientali, come i livelli di dopamina dei commensali, per rendere la loro esperienza gustativa il più appropriata possibile. Alla luce di queste affermazioni, ritengo impossibile replicare i suoi piatti al di là dell’utilizzo dell’applicazione Flavor Graph. Questa serie di interviste si conclude con l’immaginario sociale della democratizzazione, che implica che tutti possano cucinare come uno chef grazie all’applicazione, cosa che, come abbiamo già visto nella seconda parte dell’intervista, è praticamente impossibile. Perché stare a tavola, come segnala 293 Boutaud (2005), implica una serie di parametri non replicabili tra l’ambiente del ristorante e quello privato. Tutta questa analisi discorsiva richiede la semiotica peirceana, poiché si passa dalle emozioni della prima parte, ovvero Firstness (CP 1.302), alla Secondness (CP 1.325), attraverso la manipolazione diretta degli oggetti, e la costante ricerca di aspetti indessicali (CP 2.281) (l’aumento di dopamina da commensali, reazioni non controllate dal soggetto). Per poi, infine, passare attraverso la Thirdness (CP 1.26), quando si parla dell’ideale di democratizzazione che implica chiaramente l’aspetto simbolico sociale. Insomma, vorrei evidenziare il ruolo del discorso mediatico, che mette in luce il nuovo storytelling che l’intelligenza artificiale e la gastronomia implicano. Nell’analisi dell’intervista, emerge la necessità di affrontare entrambi gli elementi in modo sensibile, per poi mostrare una precisione grazie all’aspetto più matematico della macchina. Una ricerca di aspetti indessicali, ovvero l’autenticità del piacere del piatto per il commensale, con la finalità di raggiungere un’accettazione sociale. 294 Bibliografia Alphus, D., 2009, Applications and Advances in Electronic-Nose Technologies, in Sensors, n. 9, pp. 5099-5148. Bianciardi, L., 2011, Il sapore di un film: cinema, sensi e gusto, Siena, Protagon Editori. Bourdieu, P., 1979, La distinction sociale, Paris, Minuit; trad. it., La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino 2001. Boutaud, J., 2005, Le sens gourmand, Paris, Le Rocher; trad. it., Il senso goloso. 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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3113
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Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale degli utenti Daria Arkhipova Abstract. This research delves into the physical implications of digital communication, with a specific focus on social media platforms that utilise Artificial Intelligence recommendation systems (AiRS). AiRS continually provide stimuli to users, encouraging their interactions with digital representations of everyday material objects. These AI- mediated representations have the potential to influence users’ behaviours and physical states, bridging the gap between the digital and the material, natural environments. The primary objective of this study is to establish a methodological framework for investigating how digital platforms can shape users’ interactions with AI-mediated digital representations and their material world objects. Furthermore, this research views digital platforms as environments capable of providing affordances to users and fostering scaffolding processes through interactions within the environment. The impact of AI-mediated social media on its users is examined by establishing connections between methodologies from cognitive science and semiotics, aiming to gain a comprehensive understanding of how these platforms influence users’ experiences and behaviours in both the digital and physical realms. 1. Introduzione Il contesto digitale è spesso considerato in contrasto con la dimensione fisica e materiale. Nella concezione comune, il digitale viene percepito come privo di una manifestazione tangibile e concreta. Dal punto di vista della semiotica, il digitale può essere compreso come un sistema semiotico che opera attraverso rappresentazioni degli oggetti del mondo fisico e materiale. Negli ultimi anni, le interazioni digitali hanno subito un notevole aumento a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia da COVID-19. Durante questo periodo, molte persone si sono trovate costrette a rimanere confinate nelle proprie abitazioni e ad interagire principalmente attraverso soluzioni di videoconferenza, social media e altre piattaforme digitali. Questa situazione di separazione fisica ha avuto delle conseguenze significative sul benessere degli individui, manifestandosi in sintomi di esaurimento, stress e burnout, che hanno influenzato anche il loro stato fisico e corporeo (Liu, Ma 2020; Shao et al. 2021; Sharma et al. 2020). Il presente studio propone un approccio metodologico per analizzare l’impatto dei social media basati sull’intelligenza artificiale (IA) sugli utenti, concentrandosi principalmente sulle dimensioni psicologica e fisica. L’obiettivo principale della ricerca è comprendere se i social media basati sull’IA abbiano un impatto concreto e tangibile sulla dimensione fisica e materiale degli utenti e come questa “materialità” possa essere identificata e analizzata attraverso i loro effetti psicofisici. Particolare attenzione è rivolta alle reazioni da stress degli utenti, ovvero alle risposte che il nostro corpo sviluppa per affrontare situazioni stressanti. Nell’affrontare una minaccia, specifiche regioni del cervello, come l’amigdala, vengono attivate per stimolare la produzione di cortisolo, glucocorticoidi e adrenalina, al fine di potenziare, ad esempio, la forza fisica o la velocità (Rabin 2002, p. 43). Questa reazione fisiologica si è sviluppata nell’ambito dell’evoluzione umana per far fronte a potenziali pericoli presenti nell’ambiente circostante. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Per analizzare la dimensione materiale del digitale, questo articolo adotta i metodi delle scienze cognitive e della semiotica. In particolare, si avvale di strumenti teorici provenienti dalla biosemiotica e dalla semiotica cognitiva per spiegare come la materialità dei social media basati sull’IA si manifesti attraverso le reazioni corporee degli utenti, focalizzandosi in particolar modo sulle reazioni da stress. La ricerca si concentra sulle interazioni degli utenti con i social media basati sull’IA che si fondano su rappresentazioni digitali, come ad esempio TikTok. Questi social media condividono molte caratteristiche nella loro logica di funzionamento, con particolare enfasi su contenuti quali immagini e video. Verranno anche esaminate le affordances offerte da queste piattaforme agli utenti e come tali affordances possano promuovere processi di scaffolding. L’articolo è diviso in sette sezioni. Il paragrafo due presenta la terminologia utile. Il terzo paragrafo discute il ruolo dei sistemi di raccomandazione basati sull’IA all’interno delle piattaforme di social media. Tali sistemi influenzano in modo significativo i processi di comunicazione tra gli utenti e hanno un ruolo cruciale nel funzionamento delle piattaforme stesse. Il quarto paragrafo analizza le affordance offerte dalle piattaforme di social media agli utenti, riferendosi alle caratteristiche e alle possibilità che esse offrono per interagire e partecipare all’interno dell’ambiente virtuale. Il quinto paragrafo spiega come i social media basati sull’IA favoriscano processi di scaffolding e pratiche interpretative che inducono reazioni fisiche all’interno dell’ambiente materiale dell’utente. Il sesto paragrafo presenta un caso studio riguardante l’uso del filtro #horseface su TikTok, evidenziando come l’impiego di filtri di realtà aumentata possa influenzare le reazioni fisiche degli utenti nella loro dimensione materiale. Infine, il paragrafo sette conclude riassumendo i risultati, evidenziando le limitazioni e fornendo suggerimenti per ricerche future. Precedentemente a ciò, il paragrafo seguente introduce la terminologia e i concetti chiave per definire e caratterizzare i social media e i sistemi di raccomandazione basati sull’IA. 2. Terminologia Il termine “social media” rappresenta un concetto generale utilizzato per indicare piattaforme digitali che permettono agli utenti di cercare, creare e condividere rappresentazioni digitali, quali immagini, video, audio e testi in linguaggio naturale, al fine di comunicare una specifica identità (Aichner et al. 2021). Questa identità, costantemente negoziata, è percepita e valorizzata come il risultato di una complessa interazione tra l’intenzione dell’utente, la materialità del supporto digitale e le dinamiche delle altre comunità di utenti (Leone 2021). I social media basati sull’IA sono piattaforme che impiegano algoritmi di raccomandazione dell’IA per fornire agli utenti esperienze personalizzate, suggerendo contenuti, prodotti, servizi o altre informazioni rilevanti in base ai loro interessi, preferenze, comportamenti e storico di utilizzo. Le raccomandazioni dell’IA sono diventate fondamentali per il funzionamento di tali piattaforme digitali, poiché consentono di organizzare e presentare in modo coerente e pertinente le informazioni a disposizione degli utenti. I Recommender Systems (RSs) sono strumenti software che suggeriscono elementi utili agli utenti (Kantor et al. 2011). I sistemi di raccomandazione basati sull’IA, come Recommendations AI, il termine proposto da Google, o AiRS, il termine proposto da Naver, utilizzano il Machine Learning per mostrare agli utenti informazioni rilevanti più rilevanti in base a vari criteri, come la cronologia precedente delle interazioni, la loro provenienza geografica etc. L’obiettivo è semplificare la ricerca e personalizzare l’esperienza online. Questi sistemi sono spesso studiati nel contesto dell’e-commerce e del consumo (per esempio, Necula, Păvăloaia 2023) e la ricerca si concentra principalmente su come migliorare le raccomandazioni al fine di soddisfare meglio le esigenze degli utenti (McNee et al. 2006). 297 3. Il ruolo delle AI Recommendation nei social media? I social media rappresentano un’interfaccia unica in cui l’ambiente digitale e quello naturale si fondono, consentendo agli utenti di amplificare le loro esperienze attraverso rappresentazioni digitali che costituiscono una parte integrante della comunicazione quotidiana. Il loro ruolo è oggetto di un ampio dibattito anche nel campo della semiotica. Alcuni studi si sono focalizzati sugli aspetti visivi dei social media (Jovanovich, von Leeuwen 2018), mentre altri hanno analizzato altri elementi come le audio (Ferguson, Greer 2018). Le analisi semiotiche hanno esplorato l’impatto dei social media sulle relazioni sociali e nella cultura, analizzando specifiche pratiche digitali come il dating digitale (Leone 2019b; Vuzharov 2019), le proteste digitali (Bonilla, Rosa 2015), il metaverso (Giuliana 2022), i selfie (Surace 2020; Leone 2019a) e la viralità (Marino 2022). Il ruolo delle AiRS per gli utenti dei social media costituisce un’area di ricerca che richiede un’analisi completa dal punto di vista semiotico. Attraverso l’approccio della semiotica narrativa di Greimas (1970, 1983; Greimas, Courtés 1979), le AiRS possono essere concepite come degli Aiutanti che assistono il Soggetto nella sua ricerca dell’Oggetto di Valore. Tuttavia, è importante notare che le AiRS hanno il potere di generare nuovo valore verso un oggetto che il Soggetto potrebbe non aver originariamente riconosciuto come di valore intrinseco per sé. Questo processo avviene all’interno di un ambiente digitale, caratterizzato da spazi e relazioni attraverso cui le AiRS possono ottenere maggiore valore e, conseguentemente, un maggiore impatto nello stimolare l’azione pragmatica del Soggetto, come ad esempio l’effettuazione di un acquisto. Le AiRS stesse giocano un ruolo fondamentale nella strutturazione degli spazi all’interno dei social media, contribuendo a determinare luoghi specifici in cui vengono collocate con maggiore frequenza, dove gli utenti sono maggiormente esposti a tali raccomandazioni. I social media costituiscono così un ambiente in cui un volume crescente di informazioni viene categorizzato e ordinato dall’IA mediante un approccio logico e statistico. Ad esempio, TikTok1 utilizza raccomandazioni dell’IA basate sulle visualizzazioni e i clic, ordinate per posizione geografica (piuttosto che basarsi su connessioni di amicizia come avviene su Instagram o Facebook). In questa prospettiva, TikTok impone agli utenti video di durata media compresa tra 7 e 60 secondi, con elementi testuali sintatticamente riutilizzabili come suoni, immagini, filtri e hashtag, che risultano utili per fini algoritmici di categorizzazione e assegnazione di valore, prima di inserirli in un loop con altri contenuti. Le AiRS di TikTok sono riconosciute come estremamente efficaci sulla base dei dati di interazione (Yao 2021; Zhang, Liu 2021). In questo contesto, l’algoritmo può definire i valori semantici dei testi e degli elementi testuali presenti nei video, senza necessariamente riconoscere il valore semantico intrinseco del testo stesso. Le raccomandazioni dell’IA si basano sul feedback dell’interazione degli utenti e sulla dimensione pragmatica delle azioni intraprese dagli stessi utenti. Ciò significa che un video o un suo elemento testuale su TikTok può acquisire un alto valore per le AiRS e, di conseguenza, essere imposto a migliaia e milioni di utenti semplicemente perché statisticamente stimola l’interazione e risulta quindi di alto valore algoritmico. Si evince quindi che nelle piattaforme social come TikTok, in cui le AiRS svolgono un ruolo cruciale nel processo di categorizzazione e assegnazione del valore alle rappresentazioni digitali, le azioni e le modalità del Soggetto-utente assumono una rilevanza meno significativa rispetto alla strutturazione dell’ambiente stesso, che è costituito da valori e relazioni complesse tra elementi digitali. Questo ambiente digitale ha il potere di influenzare il corrispondente ambiente materiale dell’utente: specifiche raccomandazioni, strategicamente collocate in determinati spazi digitali, possono indurre l’utente a compiere azioni pragmatiche, come effettuare un acquisto o seguire un nuovo profilo. Per raggiungere tale obiettivo, i valori posizionali e relazionali dei social media basati sull’IA si avvalgono 1Per un’approfondita analisi semiotica sul funzionamento e sull’impatto social di TikTok si veda il recente volume collettivo curato da Marino e Surace (2023). 298 di specifiche affordance digitali (Boccia et al. 2017), le quali saranno descritte dettagliatamente nel paragrafo successivo. 4. Affordance nei social media Il concetto di “affordance” è ampiamente studiato nel contesto degli oggetti presenti in un ambiente, poiché essi offrono specifiche possibilità d’uso ai loro utenti in relazione alle loro esigenze e abilità (Gibson 1977). Nell’ambito degli oggetti culturali, queste caratteristiche sono spesso previste dai designer stessi. Secondo Gibson (1977, 2014), l’affordance non è una proprietà statica dell’ambiente né completamente creata dagli utenti, ma emerge attraverso il processo di interazione e comunicazione tra di essi. Gli studi più recenti esplorano le affordance da due prospettive principali: l’interazione tra utente e ambiente (Nye, Silverman 2012; Nagy, Neff 2015) e le relazioni tra progettista, artefatto e utente (Van Osch, Mendelson 2011; Shaw 2017). La prospettiva della biosemiotica di Campbell et al. (2019) offre un’analisi approfondita delle affordance nel processo di apprendimento, collegandole alla nozione di umwelt, dove le proprietà dell’ambiente sono identificate dagli organismi stessi invece di essere predeterminate dall’ambiente. Il concetto di umwelt, sviluppato da Jakob von Uexküll (1982) e Thomas A. Sebeok (1989), si riferisce al mondo sensoriale specifico di un organismo. Come dimostrato da Ingold (2009), ogni organismo vivente crea affordance 1) all’interno di un determinato ambiente e 2) basate sulle capacità percettive dell’organismo stesso, identificate come umwelt. La biosemiotica si concentra principalmente sulla dimensione fisica della comunicazione tra un organismo e l’ambiente. Il caso dei social media mediati dall’IA è più complesso: per accedervi, l’utente deve avere un dispositivo portatile, come uno smartphone o un computer, l’accesso a Internet, le capacità di interazione mediante dita e così via. Le affordance dei social media possono essere individuate nel modo in cui organizzano il loro ambiente, costituito da valori posizionali e relazionali, popolato da testi, immagini, video e audio. Un’ipotesi riguardante le affordance nei social media suggerisce che le interazioni degli utenti nell’ambiente digitale di tali piattaforme, compresa la condivisione di rappresentazioni digitali come immagini, video, testi e audio, possono essere influenzate sia dalle intenzioni e dagli input dei progettisti nelle caratteristiche del sistema (AiRS), sia dalle affordance fornite dal sistema stesso. Queste interazioni si adattano, di conseguenza, alle esigenze e alle capacità degli utenti. In questo contesto, le AiRS possono svolgere un ruolo di rilievo nella strutturazione delle interazioni sociali all’interno dell’ambiente digitale, manipolando gli umwelten dei loro utenti. Seguendo il concetto di umwelt, gli organi percettivi giocano un ruolo cruciale: i social media, come TikTok, si basano principalmente sulla capacità di percezione visiva degli utenti. L’occhio è l’organo primario che permette agli utenti di interagire con le rappresentazioni digitali. Considerando che i social media sono percepiti in modo simile all’ambiente naturale, gli utenti possono avere l’esperienza della percezione olistica delle rappresentazioni digitali come parte di un messaggio generale creato dalle AiRS (Whitney, Leib 2018). Il processo di categorizzazione, successivo al processo di percezione (Klinkenberg 2015), è fortemente imposto dalla piattaforma digitale e dalle AiRS, in modo simile alla percezione umana olistica nell’ambiente naturale (Mitchell et al. 1995) che si basa sul contesto (Russell, Giner-Sorolla 2013). Poiché i social media come ambiente digitale sono in costante cambiamento e sono manipolati dall’IA, gli utenti devono adattarsi costantemente basandosi sulle informazioni relative a entrambi gli ambienti percepiti olisticamente come una fusione tra l’ambiente fisico e le sue rappresentazioni digitali. Paolucci (2021) spiega bene questo processo: il nostro cervello cerca di indovinare informazioni non disponibili sull’ambiente che alla fine corrispondono ai dati sensoriali in evoluzione, influenzando il modo in cui percepiamo il mondo e creando infine. Applicato nel caso della percezione sui social media, crea un 299 bricolage tra il mondo fisico e gli stimoli digitali mediati dall’IA. In questo contesto, la percezione di sé e degli altri sui social media può essere associata a una forma di “controlled hallucination”. [...] by ‘controlled hallucination’, I mean the product of the imagination controlled by the world. The way in which we match the hallucination’ of imagination with the ‘control’ of the world is through diagrams and narratives. The main idea is that ‘hallucination’ is the model of perception and not a deviant form of it. With ‘hallucination’, [...] I mean the morphological activity of the production of forms by the imagination, which remains crucial both when it is not controlled by the world – as in the case of hallucination, imagination or dream – and when it is controlled by the world, as in the case of online perception (Paolucci 2021, p. 127). Applicando i concetti esposti da Paolucci, emergono considerazioni rilevanti riguardo al ruolo del controllo nella descrizione dell’“hallucination” basata sulla percezione, governata dall’ambiente digitale rappresentato dai social media. Nonostante l’ambiente di tali piattaforme siano considerate di natura lontano dal naturale, sembrano essere percepite in modo olistico, seguendo la prospettiva di Paolucci (2021) sulla connettività tra organismo e ambiente, tra mente e materia, convincendo gli utenti della materialità delle rappresentazioni digitali con cui interagiscono. In altre parole, gli utenti dei social media basati sull’IA tendono a percepire queste piattaforme come un’estensione dell’ambiente naturale, integrando le rappresentazioni digitali in una visione olistica del mondo. Tale percezione coinvolge processi cognitivi intensi, poiché gli utenti devono continuamente adattarsi all’ambiente digitale e alle sue affordance, pur mantenendo una connessione continua con il mondo fisico. Questa continua negoziazione tra il reale e il digitale può comportare un carico cognitivo significativo e, a lungo termine, può essere causa di stress e burnout digitale. Gli studi indicati da Liu e Ma (2020), Shao et al. (2021) e Sharma et al. (2020) forniscono prove della rilevanza di tali effetti negativi. In conclusione, la percezione degli utenti dei social media basati sull’IA è profondamente influenzata dal rapporto tra organismo e ambiente digitale, che si traduce in un’esperienza olistica e materialità attribuita alle rappresentazioni digitali. Come social media possono influenzare gli utenti promuovendo sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee attraverso il processo di scaffolding indagato nel prossimo paragrafo. 5. I processi di scaffolding nei social media Valsiner (2005, p. 205) definisce lo “scaffolding” come “a form of guidance – and guidance is everywhere in human social and (internalized) personal lives. It is a generic process that always operates in unique forms’’. Possiamo quindi ipotizzare che i social media possano influenzare gli utenti promuovendo sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee. La semiotica offre strumenti per comprendere come le rappresentazioni digitali all’interno di tali piattaforme influenzino la percezione di sé, degli altri e dell’ambiente circostante. Paolucci (2021) spiega anche come il linguaggio naturale possa fungere da struttura portante per la cognizione umana, modellando i nostri punti di vista, ampliando e rafforzando le nostre capacità cognitive e la nostra comprensione del mondo. Allo stesso modo, tutti gli altri elementi digitali all’interno dei social media svolgono una funzione simile. La categorizzazione degli utenti fa parte di un processo interpretativo strutturato a diversi livelli. Valsiner et al. (2021, p. 4) propongono un modello che identifica cinque livelli di interpretazione. Il livello 0 riguarda le sensazioni corporee basate sugli organi percettivi (ad esempio, in caso di rappresentazioni digitali, il colore, contrasto, forme etc.), mentre il livello 1 la riflessione emergente (ad esempio, gli utenti si rendono conto di interagire con qualcosa che sarà categorizzato e interpretato ai livelli successivi). Al livello 2 vi è la riflessione in categorie verbalizzabili, che nel caso dei social media comprende le categorie offerte attraverso l’IA (ad esempio, testi ripetitivi utilizzati dagli algoritmi). Il livello 3 implica 300 la riflessione in generalizzazioni verbalizzabili, come riconoscere un influencer in base al numero di follower o video virale a base di click raggiunti. Infine, il livello 4 riguarda la riflessione in generalizzazioni non verbalizzabili, che rappresenta la percezione olistica e potrebbe influenzare il livello 0. Nell’ambito del processo interpretativo degli utenti sui social media, si ipotizza che le affordance siano presenti a tutti livelli. Un esempio della classificazione di Valsiner et al. (2021) riguarda una ricerca di Kramer et al. (2014) che dimostra come le raccomandazioni dell’IA influenzino la percezione degli utenti attraverso contenuti audiovisivi come testi, immagini e video. Durante l’esperimento, alcuni utenti hanno ricevuto una selezione di notizie positive, altri di notizie negative, alcuni in ordine cronologico e altri in modo casuale per le varie settimane. Gli utenti con notizie negative tendevano a pubblicare messaggi negativi, evidenziando l’effetto dell’IA nella categorizzazione dei contenuti e nel processo di apprendimento degli utenti basato sulle raccomandazioni. Da un lato, ciò conferma che la percezione di sé e degli altri negli ambienti digitali e in quelli naturali è simile, confermando una tendenza generale già dimostrata da Baumeister et al (2001). Dall’altro, sottolinea il ruolo dell’IA nel processo di categorizzazione adottato dagli utenti e come le raccomandazioni dell’IA influenzino il loro processo di scaffolding, basandosi sulle opportunità fornite dai social media. In sintesi, l’esperienza vissuta attraverso l’ambiente digitale può essere percepita e interpretata in modo simile all’esperienza vissuta fisicamente nell’ambiente naturale. Gli oggetti rappresentati dagli ambienti digitali e mediati dall’IA possono essere interpretati come oggetti fisici, suscitando reazioni corporee negli utenti. Il prossimo paragrafo esplora queste idee attraverso l’analisi di un caso studio su TikTok. 6. Materialità del TikTok: un caso studio Per dimostrare l’impatto dei social media nella dimensione materiale degli utenti, concentriamo la nostra attenzione su un particolare caso di studio riguardante le pratiche originate dalla pratica #horsefacefilterchallenge su TikTok. Su TikTok, #horseface è un popolare hashtag, elemento usato per cercare e far trovare i propri contenuti (Karamalak et al. 2021). Inoltre, è anche un filtro basato sulla realtà aumentata che, all’interno di un breve video di TikTok, trasforma il volto umano in quello di un cavallo. Questo paragrafo analizza le affordance offerte da questo filtro e il ruolo delle raccomandazioni dell’IA nell’esporlo a un vasto pubblico, influenzando la loro esperienza di apprendimento attraverso il processo di scaffolding. Il filtro “Horsehead” è stato inizialmente lanciato su Snapchat e successivamente adottato da TikTok con il nome di “horseface”, ottenendo notevole popolarità grazie alle raccomandazioni dell’IA. Gli utenti possono utilizzarlo per sperimentare il mascheramento digitale e condividere i video delle trasformazioni. Su TikTok, questo filtro ha dato vita alla sfida denominata #horsefacefilterchallenge, in cui gli adulti provano il filtro mentre i loro bambini osservano la trasformazione sullo schermo dello smartphone. Secondo i dati forniti da Google, sono stati pubblicati circa 31 milioni di video utilizzando questo filtro. L’analisi dei dati si è concentrata sulle espressioni fisiche di 500 video, analizzati tra gennaio 2022 e luglio 2023 e dimostra che la maggior parte dei bambini, dopo aver osservato la trasformazione della testa degli adulti in quella di un cavallo, appare spaventata e inizia a piangere, osservando sia lo schermo che la presenza fisica dell’adulto. Nella minoranza dei video in cui i bambini reagiscono in modo diverso dal pianto, si osserva una sorpresa degli adulti nei confronti della reazione dei loro bambini, poiché l’aspettativa, creata anche dagli altri video simili suggeriti, era che essi interpretassero queste rappresentazioni digitali con spavento o pianto. Le affordance che gli utenti trovano nell’utilizzo del filtro “horseface” su TikTok sono basate sul loro umwelt, dai loro bisogni e dalle loro capacità. Queste affordance sono strettamente legate alla funzione delle raccomandazioni dell’IA. La maggior parte degli utenti partecipa a questa esperienza, che 301 coinvolge la realizzazione di un video con un bambino, per tre motivi principali: 1) l’esposizione al filtro è stata suggerita dalle raccomandazioni dell’IA; 2) cercano di sperimentare alterazioni del loro stato cognitivo e fisico ispirandosi alle reazioni osservate nei video di altri utenti; 3) sperano che le raccomandazioni dell’IA possano individuare il loro video, consigliarlo ad altri utenti e ricevere reazioni e feedback dal resto della comunità online. Tuttavia, i risultati indicano che la maggior parte degli utenti espone i bambini a un’esperienza potenzialmente stressante, in cui possono verificarsi “controlled hallucination” nell’ambiente digitale (Paolucci 2021) e ciò può influenzare il modo in cui i bambini imparano a comprendere il mondo. Inoltre, TikTok impone i strumenti di interpretazione, come evidenziato applicando la classificazione di Valsiner et al. (2021), specialmente in contesti di esperienze complesse offrendo le categorie attraverso le raccomandazioni dell’IA nei testi ripetitivi e negli elementi testuali utilizzati dagli algoritmi per manipolare gli elementi all’interno dello spazio della piattaforma. 7. Conclusioni e prospettive future Questo articolo ha analizzato l’influenza dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale e fisica degli utenti. Ha dimostrato che tali piattaforme possono avere effetti significativi sul corpo degli utenti, nonostante nel senso comune siano percepite come separate dalla dimensione fisica e materiale. Da un lato, gli utenti sono esposti a rappresentazioni digitali mediate dall’IA, dove quest’ultima decide quale valore attribuire a determinati testi, inducendo l’utente ad adottare determinati stati fisici attraverso le varie affordance riconosciute all’interno dei social media. D’altra parte, gli strumenti di scaffolding dei social media mediati dall’IA possono guidare gli utenti a interagire con strumenti interpretativi che promuovono determinate reazioni e si manifestano in cambiamenti fisici all’interno del loro corpo. Questa ricerca, basata su un quadro metodologico della biosemiotica e della semiotica cognitiva, mira a spiegare come gli stimoli mediati dall’IA possano offrire affordance e promuovere processi di scaffolding agli utenti dei social media. Il caso di studio presentato ha evidenziato come gli utenti possono essere esposti a esperienze potenzialmente stressanti con la possibilità di influenzare i loro stati fisici. Questo impatto è attribuito all’interazione tra lo spazio digitale dei social media, le rappresentazioni digitali e le raccomandazioni dell’intelligenza artificiale che sovrastimolano gli utenti, favorendo un maggiore coinvolgimento. Ricerche future dovranno aprire la discussione non solo verso gli effetti dei social media basati sull’IA a livello individuale, ma anche a livello sociale e della cultura, nonché testare altri metodi di raccolta dati per ottenere una comprensione più completa della complessa interazione tra utenti, ambienti digitali e tecnologie IA. 302 Bibliografia Aichner, T., Grünfelder, M., Maurer, O., Jegeni, D., 2021, “Twenty-five years of social media: a review of social media applications and definitions from 1994 to 2019”, in Cyberpsychology, behavior, and social networking, vol. 24, n.4, pp. 215-222. Baumeister, R. F., Bratslavsky, E., Finkenauer, C., Vohs, K. D., 2001, “Bad is stronger than good”, in Review of general psychology, vol. 5, n. 4, pp. 323-370. Boccia, A. G., Gemini, L., Pasquali, F., et. al., 2017, Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online, Firenze-Milano, Connessioni 2018. 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In materia di materiali Elisa Sanzeri 1. Materie e materiali A leggere il dizionario, luogo in cui si sedimenta la memoria semantica della lingua rendendo conto di occorrenze e usi di un certo lessema, materie e materiali sono quanto di più concreto e tangibile ci sia. Vediamo la definizione di materia fornita dal Devoto-Oli (2023). materia (ma-te-ria) (arc. matera) s.f. 1. Tutto ciò che ha una propria consistenza fisica ed è percepibile con i sensi; sostanza, materiale: materia organica, inorganica; materia malleabile, elastica, infiammabile; di che materia è fatto?; una statuetta di materia preziosa | CHIM., INDUSTR. materia plastica → PLASTICO; materie prime, quelle che servono di base alle lavorazioni industriali; FIG., SCHERZ.: materia prima, l’intelligenza o il denaro. 2. FILOS. Nella filosofia greca, in particolare in quella di Aristotele, la sostanza indistinta che ha dato origine alla realtà e che si contrappone alla forma || TEOL. Nella concezione cristiana, la realtà soggetta ai sensi (contrapposta allo spirito) || SCIENT. Nel pensiero scientifico moderno, insieme di atomi e molecole soggetto alle leggi dell’universo, oggetto di studi fisici e chimici: materia solida, liquida, gassosa 3. ANAT. Sostanza organica, tessuto cellulare: materia cerebrale | materia bianca, sostanza bianca → SOSTANZA) | materia grigia → GRIGIO 4. Argomento di cui si parla in un testo o in un discorso; soggetto, tema: c’è materia per un libro: catalogo per materie; una materia scabrosa, delicata | in materia, riguardo all’argomento in questione: non sono un esperto in materia | in materia di, relativamente a, riguardo a: fornire consulenza in materia di investimenti 5. Disciplina di studio o di insegnamento: materie letterarie, scientifiche; materie d'esame; andare bene in tutte le materie 6. Occasione, motivo, pretesto: dare, offrire materia a chiacchiere, a sospetti […] • Dal lat. materia, der. di mater ‘madre’ • sec. XIII •. Nell’accezione più generica, la materia è la sostanza fisica che forma ogni corpo, dotata di estensione spaziale e qualità sensibili che la rendono percepibile ai sensi e ne consentono la riconoscibilità, una sostanza uniforme che investe gli oggetti e le cose che ci stanno intorno. Che dire invece dei materiali? Di seguito la voce corrispondente estrapolata dallo stesso dizionario. materiale (ma-te-rià-le) agg., s. A. agg. Della materia, che riguarda la materia o è costituito di materia: la realtà materiale; cose, oggetti materiali 2. Relativo agli aspetti fisici e concreti della vita umana (contrapposto a morale, spirituale, intellettuale): aiuto materiale; benessere materiale; lavoro materiale | errore materiale, che incide soltanto sull’esecuzione o sulla realizzazione pratica di qualcosa || Effettivo, reale: mi trovo nell’impossibilità materiale di aiutarti; non ho il tempo materiale per fare sport | autore materiale di un delitto, chi lo ha effettivamente compiuto (distinto dal mandante) | DIR. costituzione materiale, l’insieme dei principi che, pur non essendo formalmente contemplati nella costituzione, regolano le strutture fondamentali dello stato 3. Grossolano, rozzo, volgare: un uomo materiale; avere modi materiali B. s.m. 1. Prodotto o manufatto dotato di proprietà o caratteristiche particolari, individuato o definito spec. in rapporto all’origine e all’impiego: materiali naturali, artificiali; materiali da costruzione; materiale esplosivo 2. Insieme di oggetti o strumenti necessari per lo E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). svolgimento di una determinata attività: materiale ferroviario, rotabile; materiale scolastico; materiale chirurgico | FIG., materiale umano, gli individui che sono oggetto di ricerca o trattamento o in quanto mezzo per il conseguimento di un fine 3. Insieme di appunti e documenti raccolti per una successiva elaborazione o compilazione: ho già tutto il materiale per la tesi […] • Dal lat. tardo materialis, der, di materia ‘materia’ • inizio sec. XIV •. Come è evidente, tra i due lessemi c’è una stretta vicinanza semantica, tanto da renderli in buona parte interscambiabili. Tuttavia, è possibile rintracciare alcune differenze, in particolare nel modo in cui si articolano certe categorie a livello semantico e aspettuale. Laddove infatti materia sta a indicare per lo più un qualcosa di omogeneo al suo interno, conchiuso, naturale, puro o quanto meno semplice – si pensi alle materie prime (cfr. Campailla in questo volume), alla materia cerebrale, a quelle zuccherine – il materiale è invece spesso non-omogeneo, composto da elementi diversi. Si tratta in genere di una pluralità di sostanze, ma anche di oggetti, raggruppati in virtù di alcuni caratteri comuni, come l’origine o la destinazione d’uso, e che sono già stati sottoposti a un qualche tipo di elaborazione. In questo senso, sono materiali, ad esempio, quelli metallici, i sintetici o gli isolanti, come anche quelli scolastici, ospedalieri o edilizi sino a quelli preparatori pensati come un complesso di informazioni raccolto in vista di un futuro lavoro. Così, se la materia è investita del tratto semantico della continuità, il materiale di contro è non-discontinuo; se la materia si presenta come una totalità integrale, il materiale invece si configura come un’unità integrale. Un altro tratto semantico differenziale che è possibile rilevare dal confronto delle due definizioni interessa la dicotomia natura vs cultura: in un’ottica un po’ naïve, la materia sarebbe naturale, qualcosa che ricostruiamo come autentico, genuino e spontaneo, all’opposto dei materiali, frutto invece della cultura, sostanze lavorate dall’uomo e dunque artificiali e artificiose. Al di là di queste differenze, materie e materiali appaiono entrambi come qualcosa di fisico e terreno, reale e palpabile, in ogni caso evidente. Una realtà fenomenica data e oggettiva, a tratti ovvia e banale, dotata di valori e sensi che dovrebbero esserle intrinseci e determinati da qualità e proprietà che essa possiede di per sé e che ne condizionerebbero l’uso e l’impiego in certi contesti e oggetti. Non a caso, materiale, in quanto aggettivo, si contrappone a termini come morale, spirituale, intellettuale, astratto o ideale e prevede come parasinonimi attributi come concreto, corporeo, effettivo, sensibile. Ciononostante, la definizione di materia fa accenno alla lunga storia che il concetto ha avuto nell’evoluzione del pensiero filosofico, portando alla luce come di fianco a questa accezione ne scorra un’altra che vuole la materia come grezza e amorfa, una sostanza primordiale indifferenziata, in sé inaccessibile, solo ed esclusivamente pensabile. E d’altro canto, gli usi che se ne fanno del termine rendono conto in parte anche di quest’altra faccia della materia che si trova così a essere insieme qualcosa di informe e differenziato, intellettivo ed empirico, cognitivo e sensoriale, incorporeo e fisico. Come si legge dal dizionario, essa infatti è anche l’oggetto o il soggetto di un discorso, il tema di un romanzo, di una conversazione, di una conferenza; una questione, in altre parole, che può essere identificata, determinata e magari riconosciuta come scottante, controversa, delicata o difficile. Oppure ancora un insieme di nozioni ordinate che finiscono per formare discipline di studio o d’insegnamento. È interessante notare a questo proposito che la voce ripropone il dualismo tra matters of fact e matters of concern di latourinana memoria (cfr. Latour 2005, 2008). Si passa infatti da una definizione della materia come fatto della scienza, dato oggettivo e incontrovertibile a quello di materia come oggetto di dibattito e discussione. In un certo senso è lo stesso passaggio che è stato svolto in questo volume e che il semiologo si trova a eseguire nel momento in cui indirizza il suo sguardo a materie e materiali: essi da fatti indiscutibili tramutano in questioni da interrogare. All’interno del paradigma semiotico, come è noto e come più volte è stato ribadito in questo volume, la materia assume un particolarissimo ruolo. La disciplina, fondandosi sulla quadripartizione hjelmsleviana, considera la materia come antecedente ai meccanismi di senso – massa amorfa ma già dotata di una qualche organizzazione, substrato virtuale per significazioni future – e al contempo posteriore a essi, essendo ricavabile solo a partire dalle sostanze formate e dunque dal ritaglio che la 306 forma ha impresso sulla materia. Materie e materiali, trasposti entro la teoria della significazione, richiedono dunque di essere distinti più di quanto non faccia il senso comune, non fosse altro perché ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana, nel mondo-della-vita campeggiato da effetti di senso, sono sempre e solo le sostanze, materie per definizione già messe in forma. Lo spiega bene Floch, punto di riferimento per molti dei saggi che compongono il volume: “Il materiale non è la materia, poiché l’uomo utilizzandolo l’ha caricato di senso; e non è nemmeno una forma, poiché dipende dall’uso […]. Come si sarà compreso, il materiale va concepito secondo noi come sostanza, come materia formata, assunta dalla forma significante” (1984, p. 176). Che sia ferro, vetro o legno, caffè, grani o pelli, sangue, organi o carni, plastiche, cemento o carta, per le scienze semiotiche è sempre di materiali che si tratta, e non di materie, di sostanze che hanno già una propria foggia, che sono già figure del mondo, che plasmano già oggetti e cose senza le quali non potremmo percepirle (cfr. Ventura Bordenca 2009). E ciò vale tanto per i materiali compositi e artificiali quanto per le materie sedicenti pure e naturali. Prendiamo ad esempio il cotone, quello che compone i bastoncini di ovatta, i dischetti struccanti, le lenzuola o le camicie, ma anche le tende del bagno, gli strofinacci della cucina e una miriade di altri oggetti della nostra vita quotidiana. Ora, la materia che costituisce tutti questi artefatti la si otteniene di fatto per astrazione, mettendo a confronto bastoncini, dischetti, lenzuola, camicie, tende e strofinacci, e ricavando così il batuffolo della pianta di cotone, che è già tuttavia per il semiologo materia formata. Anche il marmo, di cui parla Festi, l’acqua, intorno alla quale ruota il saggio di Fadda, o la polvere, oggetto di riflessione nei contributi di Bassano e Burgio, solo ingenuamente e nel senso comune possono esser ritenute materie. Marmo, acqua e polvere, tanto quanto il cotone, non esistono di per sé: esistono come idee, concettualizzazioni astratte che ricaviamo a posteriori, a partire da una serie di occorrenze che, mettendole in forma, danno loro sostanza (Marrone 2023). Così, persino ciò che può apparire a un primo sguardo materia pura è già materiale, è già un oggetto culturale che, in quanto tale, si trova investito di sensi e di valori. Questi sensi e valori che investono i materiali non sono intrinseci ai materiali stessi ma derivano da usi collettivi e abitudini individuali che ovviamente non sono dati una volta e per tutte: mutano nel tempo e nello spazio, cambiando da cultura a cultura e modificandosi nel corso della storia. Se per gli amerindi incontrati dai primi colonizzatori il rame era stimato più dell’oro, utilizzato nei riti religiosi e per la fabbricazione di gioielli, nello stesso periodo e dall’altra parte del globo, le cose non stavano affatto così. Nell’Inghilterra di Enrico VIII l’impiego massiccio del rame nelle monete d’argento fu motivo di malcontento per il popolo e valse al sovrano l’appellativo “Old Coppernose”, letteralmente “vecchio naso di rame”: infatti le parti in rilievo delle monete, come il naso del profilo del re, lasciavano comparire il rosso non appena si consumavano un po’ (Aldersey-Williams 2010). Per fare un esempio a noi più vicino basti pensare all’inversione di reputazione che ha subìto la plastica nell’arco di meno di un secolo: osannata dapprima per la sua praticità, resistenza ed economicità, vero e proprio mito della società borghese (cfr. Barthes 1957), oggi, sulla scorta dell’ideologia ecologista, è messa al bando. Alla plastica, difficile se non impossibile da smaltire, si preferiscono così altri materiali, come il vetro, il legno o la ceramica, che si trovano a significare la natura. Un valore euforico, quello della natura, che non sta, lo ripetiamo, nei materiali in sé, ma che siamo noi in una certa misura ad attribuire loro. Ciò non significa tuttavia che da una parte ci sono i materiali e le cose da essi composti e dall’altra i significati, come se venissero loro aggiunti ex post: il senso che i materiali acquisiscono non arriva, per così dire, dopo, ma insieme ai materiali stessi, secondo quel rapporto di presupposizione reciproca che collega il piano dell’espressione con quello del contenuto. Ad ogni modo, il materiale, come visto nel caso della plastica, si carica di significati anche in virtù delle relazioni che intrattiene con altri materiali, ma è evidente che il senso che acquisisce è strettamente legato anche alla forma oggettuale che assume o ha assunto (cfr. Ventura Bordenca 2009). Una cosa sarà, poniamo, l’oro di una collana, un’altra sarà lo stesso oro che troviamo nei chip dei computer o nel celebre risotto di Gualtiero Marchesi. Allo stesso modo, una cosa sarà il valore della ceramica dei servizi igienici, del tutto diverso sarà il senso che ha per noi la stessa ceramica del vaso per i fiori o del servizio da thè. Lo stesso, è chiaro, è valido all’inverso, considerando non più i materiali che compongono 307 oggetti di diverso tipo bensì i medesimi oggetti costituiti da materiali differenti. Ciò significa che oggetti e materiali si costruiscono reciprocamente, di modo che, ad esempio, il senso di un metallo come l’acciaio dipende dalle sue occorrenze oggettuali; in maniera analoga, il valore assunto da un oggetto come il sofà potrà variare al variare delle sostanze di cui si compone. L’acciaio, dopo esser stato protagonista della Rivoluzione industriale, impiegato in artefatti più disparati – dalle travi strutturali dei ponti alle linee ferroviarie, dalle caldaie delle navi ai grattacieli – negli anni Trenta del Novecento assume un nuovo aspetto e viene utilizzato per la realizzazione di oggetti come poltrone, sedie e divani, per i quali non sembrava di per sé adeguato perché considerato troppo duro e freddo per adattarsi ai cosiddetti mobili sostenitori, in linea di principio morbidi, comodi e caldi. Reso in forma tubolare e piegato ad arte, l’acciaio intesse una stretta relazione con le pelli e il gommapiuma, la corda e il legno, dando luogo a celebri pezzi di design come la Chaise Longue di Le Corbusier. Ecco così che il materiale si carica di caratteri come la linearità, la leggerezza e l’eleganza che non sembravano appartenergli, mentre la poltrona a sdraio viene investita di un senso di razionalità e funzionalità del tutto inedito per l’oggetto in questione che ben si esplica nell’espressione “macchina per riposare” che usava lo stesso Le Corbusier per descrivere il frutto del suo ingegno. La storia del tubolare metallico permette, inoltre, di sottolineare come occuparsi di materiali significhi spesso addentrarsi nel mondo delle sperimentazioni e della creatività. Il mito racconta che l’idea di adoperare l’acciaio per realizzare eleganti sedute nasca da un’intuizione tanto semplice quanto geniale di Marcel Breuer: se il tubolare è in grado di sostenere un corpo soggetto a sollecitazioni su strada, come fa quello che compone i telai delle biciclette, sarà capace di fare altrettanto entro le mura domestiche o nell’ufficio di un avvocato (cfr. Dardi, Pasca 2019). Da qui, una serie di tentativi e aggiustamenti, come quelli dell’architetto olandese Mart Stam che sfrutta dei tubi del gas per realizzare uno dei primi prototipi di sedia a sbalzo. Così, dalle navi e dai ponti che mettevano in contatto le persone si arriva sino ai mobili razionalisti, passando per le biciclette e i condotti del gas, facendo di fatto bricolage con l’acciaio, imparando a lavorarlo per dargli lucentezza, a sfruttare le sue potenzialità per nuovi usi e portando alla luce caratteri che non pensavamo possedesse, facendoli passare da uno stato virtuale a uno realizzato. In tal senso, anche quel fascio di qualità sensibili che attribuiamo ai materiali, e che essi sembrano avere a prescindere da noi, sono in una certa misura frutto del nostro modo di conferire senso al mondo, esito di una serie di processi semiotici – pragmatici, cognitivi, passionali, somatici – attraverso cui stabiliamo ad esempio che il marmo è freddo e compatto mentre il sughero è caldo e poroso, la lana è soffice e la seta è liscia, il metallo è rigido e il legno è flessibile, il vetro è fragile e duro e la plastica è resistente e morbida, e così via (Marrone 2023). Proprietà sensibili, dunque, che, ancora una volta, non hanno nulla di oggettivo e naturale ma dipendono dalla cultura e dalla società in cui siamo immersi, dagli usi e dalle abitudini della gente, dai gusti e dai disgusti, dai rapporti tra materiali e con oggetti e soggetti. In definitiva, è solo entro una rete di relazioni significanti che le materie, pure virtualità di significazione, assumono una forma e si fanno materiali, organizzandosi sulla base di differenze e opposizioni e, collegandosi a certi contenuti, diventando luogo di investimento di valori. 2. Materiali in circolo Affermare che le materie sono sempre sostanze, e dunque formalizzazioni materiali, comporta per la semiotica oltrepassare il senso comune e l’evidenza fenomenologica per considerare i materiali come veri e propri testi, dotati di una propria articolazione formale interna. Ricordando che per la semiotica il testo è una costruzione teorica, un modello per l’analisi dei fenomeni di senso, diventa possibile abbordare i materiali interrogandoli con gli strumenti elaborati dalla teoria e rintracciando così non solo organizzazioni plastiche, fatte di contrasti sensibili e trasformazioni materiche, ma anche, ad esempio – in una logica generativa e sulla base di precise pertinenze – meccanismi discorsivi, organizzazioni narrative e passionali e articolazioni assiologiche. In altre parole, sostenere che i materiali possano esser 308 concepiti come oggetti testuali significa dichiararli oggetti di conoscenza e descrizione scientifica: su di essi allora sarà possibile proiettare i tratti di chiusura, coerenza e coesione, molteplicità di livelli, etc. Come le analisi di questo volume hanno dimostrato, indagare semioticamente la dimensione materica della significazione può voler dire, a livello operativo, volgere il proprio sguardo analitico a costrutti culturali di diverso tipo – oggetti, alimenti e bevande, pubblicità e media digitali, romanzi e libri, ricettari e manuali, opere d’arte e film, pratiche e architetture, spazi e mappe, etc. – entro i quali la materia stessa si dà come effetto di senso, esito di una serie di meccanismi e processi di produzione del senso. I lavori qui presentati, nella loro eterogeneità, affrontando la questione della materia da angolazioni differenti, mettono in luce come entità anche molto diverse tra loro contribuiscano a portare avanti un discorso comune. Un discorso proferito non solo da quell’insieme di materiali che consideriamo testi, ma anche da tutto un complesso di prodotti culturali di altra natura che, per così dire, parlano i materiali e che in tal modo, a vario titolo, prendono parte alla costruzione di ciò che intendiamo e chiamiamo materia. Il volume così interseca da una parte ciò che possiamo definire il discorso dei materiali – ossia il discorso che i materiali stessi producono con gli oggetti del mondo attraverso cui si fanno manifestazione – e che ha dato il titolo alla raccolta di saggi; dall’altra ciò che è possibile identificare come il discorso sui materiali – ovverosia quello che ha i materiali come proprio argomento, più o meno esplicito, più o meno consapevole, e che può assumere forme assai diverse. Due discorsi che si presuppongono reciprocamente e i cui confini, come si può facilmente immaginare, non sono mai così netti, finendo spesso per diventare la medesima cosa. Ma ciò che forse ancora di più emerge dall’insieme di questi saggi è la natura dinamica e processuale, pervasiva e traduttiva che un tema discorsivo come quello della materia e dei materiali può acquisire. Dal punto di vista discorsivo, materie e materiali, lungi dall’essere entità statiche e stabili, sono unità semantiche in continuo mutamento e trasformazione, flussi di senso che variano, si muovono, si convertono e si traducono e, traducendosi, cambiano faccia e assumono sembianze di volta in volta diverse a partire dalle varie configurazioni testuali che danno loro corpo e dai vari discorsi entro i quali si collocano e che ne ridisegnano i profili. D’altra parte, come sappiamo, il discorso stesso è un processo che entra in relazione con altri discorsi con cui si incrocia e si ibrida (cfr. Marrone 2001, 2010). Così, non stupisce affatto che in questo numero, nel tentativo di intercettare semioticamente la materia, non solo siano state prese di mira forme testuali fondate su sostanze espressive diverse, ma che inoltre questo eteroclito insieme di testi, pur parlando di materiali ed essendo dai materiali parlato, attraversi discorsi sociali d’altro tipo. Il discorso dei e sui materiali, in altre parole, si avviluppa e si intreccia col discorso storico, economico, politico, ecologico, turistico, enogastronomico, pubblicitario, artistico, religioso, mediale, etc. che al contempo alimenta e da cui è alimentato. Guardando in controluce i contributi che compongono il volume, quel che si vede è allora una catena interdiscorsiva che mette in collegamento oggetti, pratiche e immaginari che circolano nella semiosfera, complesso e frammentario serbatoio di senso in cui materie e materiali trovano posto e migrano da un discorso a un altro. 3. Relazioni materiche Il discorso dei e sui materiali risulta dunque quasi un campo trasversale, ma non per questo laterale, che riunisce oggetti culturali differenti e richiama attorno a sé formazioni discorsive difformi. Le esplorazioni svolte in questo volume mettono in evidenza, d’altro canto, come vi sia una dimensione elementale, materica della significazione che investe l’esperienza umana e sociale a tutto tondo. Ciò ha comportato la messa in campo di modelli teorici e di analisi eterogenei, l’impiego di prospettive diverse e l’impegno di differenti branche della semiotica – dalla sociosemiotica alla semiotica interpretativa passando per la semiotica della cultura e l’etnosemiotica – ma anche di discipline altre, più o meno vicine – come l’architettura o la filosofia del linguaggio. 309 Le riflessioni condotte, sebbene svolte sulla base di domande di ricerca di volta in volta specifiche, hanno avuto come obiettivo principale quello di indagare la dimensione culturale e sociale dei materiali nel tentativo di mettere in luce il ruolo da essi giocato nei meccanismi di significazione e organizzazione del senso. Riflessioni che non guardano né alla sola teoria né alla sola analisi ma che mettono in moto quel circolo virtuoso che consente alla semiotica di osservare il mondo e tornare su sé stessa. Da qui la possibilità di individuare, a dispetto dell’eterogeneità dei contributi, alcuni orientamenti comuni che ribadiscono certi postulati semiotici e che possono venire a configurarsi come alcune possibili direzioni di una ricerca ancora tutt’altro che conchiusa. Abbiamo già sottolineato come il senso dei materiali si dia sempre per differenza, di modo che, seguendo il dettame epistemologico strutturalista, le relazioni siano primarie mentre gli elementi – è il caso di dirlo – siano secondari. È l’instaurazione di una differenza tra le cose a renderle percepibili e dunque significanti, e ciò diventa ancora più vero se pensiamo proprio ai materiali come sostanze dell’espressione. Se la significazione si manifesta a partire dalle sostanze del mondo in cui l’uomo è immerso, richiamando il suo apparato sensoriale (Greimas 1968), il compito del semiologo, dinnanzi ai materiali con i loro caratteri sensibili, è quello di passare dalla semplice percezione di una differenza mediante i sensi alla precisa identificazione di una serie di relazioni significanti. Fermo restando che la percezione sensoriale, l’esperienza estesica non sono attività originarie che, per così dire, stanno prima di ogni possibile significazione ma rientrano nelle condizioni immanenti del senso (Greimas 1987). Il sensibile, come ha evidenziato anche Floch lavorando sulla fotografia e il visivo (1986, 1995), non è separato dall’intelligibile e la predilezione per l’uno o per l’altro non ha alcuna ragion d’essere: il sensibile è già intelligibile e, al contempo, l’intelligibile è già sensibile, essendo l’una e l’altra due facce della stessa medaglia. Con la materialità quindi si apre anche il vasto campo della sensibilità e di una semiotica del sensibile (cfr. Bertrand), entro le quali diventa pertinente interrogarsi sulla relazione tra materialità differenti. C’è, in altre parole, una sensibilità costitutiva dei materiali che emerge nel momento in cui essi entrano in rapporto tra loro. Non si tratta solo di un problema di accostamento o abbinamento ma di vero e proprio di contatto, fatto di aderenze e giunture, frizioni e rotture, che interessa i materiali nelle loro interazioni intra- ed extra-oggettuali. Negli oggetti, d’altra parte, è raro trovare un singolo materiale. Molto più spesso essi sono composti da un complesso di materiali che, come nel caso delle sedute razionaliste, costruiscono come dei sintagmi (quello della Chaise longe di Le Corbusier potrebbe essere sintetizzata nella formula “acciaio + écru + pelle + poliuretano”). Diventa dunque essenziale vedere come le parti si adattano o meno tra loro e nell’insieme dell’oggetto, in che modo la sensibilità dell’uno o dell’altro materiale produce determinati effetti, ancor di più nel momento in cui, come nei binari ferroviari analizzati da Bertrand, la materia è in movimento. Lo stesso vale per le relazioni extra-oggettuali che si svolgono attraverso catene interoggettive e intersoggettive. Ad esempio, nel caso dei cocktail analizzato da Giannitrapani la materialità degli oggetti e i loro caratteri sensibili svolgono un ruolo di primordine nella preparazione del miscuglio, chiamando in causa inoltre un soggetto operatore – il bartender – a cui è richiesta una competenza non solo tecnica ma anche e in primo luogo estesica, sensibile. Al contempo, il contatto tra materialità diverse può dar luogo a trasformazioni che ridefiniscono le identità dei materiali stessi. Nel caso del legno, ricorda Giannitrapani, c’è tutto un problema di memoria olfattiva rilevante soprattutto in ambito culinario, dove i materiali di cui si compongono strumenti e oggetti, entrando in relazione con gli ingredienti, possono subire delle alterazioni e, così facendo, produrne a loro volta delle altre, con il rischio di mandare all’aria la ricetta. Scegliere l’oggetto giusto e il materiale giusto, preferendo ad esempio nel caso del pestello per gli aromi l’acciaio al legno, ma anche, più in generale, convocare le sensibilità dei corpi e degli oggetti, e quindi dei materiali di cui sono fatti, diventa decisivo per la riuscita del cocktail. Le qualità sensibili dei materiali hanno dunque un’influenza tanto nei rapporti tra materie entro il medesimo oggetto, quanto nei rapporti con e tra oggetti e soggetti, artefatti e corpi. Emblematico ed estremo è il caso delle protesi in cui materiali inorganici si trovano a integrarsi se non addirittura a fondersi col materiale organico del corpo umano (cfr. Piluso, Pelusi). Dagli apparecchi odontoiatrici, 310 alle protesi ortopediche o cardiovascolari sino a quelle articolari, passando per gli impianti cocleari, oggetti e tecnologie con le loro materialità, realizzandosi come protensioni sensoriali, arrivano a modificare la stessa percezione. Ma non sempre le integrazioni di materiali altri hanno buon esito e molto più spesso di quanto pensiamo il corpo li rifiuta, richiedendo a professionalità diverse, dagli artigiani ai medici, di trovare la giusta combinazione. Da questi pochi esempi si vede insomma come l’intermatericità rappresenti una condizione costitutiva dei materiali stessi che pone una serie di quesiti a cui la scienza della significazione può provare a dar risposta. Esiste o meno un confine materiale tra materiali differenti? tale confine è determinato dalla forma oggettuale che essi assumono, dalle loro funzioni o dalle situazioni in cui si trovano ad operare? come vengono a configurarsi queste relazioni, ora contrattuali, ora conflittuali, che i materiali intrattengono tra loro? quali sensibilità sono messe in gioco? quali i principi che li rendono possibili? esistono dei legami prescritti e altri vietati, delle gerarchie, una grammatica dei sintagmi materiali? In altre parole, secondo quali logiche i materiali si accoppiano tra loro per formare configurazioni materiche più vaste? Ancora: in che modo i materiali, interagendo tra loro, provocano trasformazioni? e tali trasformazioni a quali criteri sono sottoposti? Le discipline semiotiche hanno tutti gli strumenti per affrontare queste questioni. Lo studio delle qualità o proprietà dei materiali, delle loro reazioni e interazioni, così come delle trasformazioni a cui danno adito può essere pienamente sviluppato nell’ambito di una semiotica narrativa, passionale e discorsiva, come molti dei contribuiti qui presentati hanno mostrato. Materiali o combinazioni tra questi a livello semio-narrativo possono essere infatti concepiti come attanti, entità astratte e formali che si differenziano dalle figure del mondo che li prendono in carico. In conformità con uno dei presupposti della semiotica narrativa per la quale la distinzione tra umano e non-umano, animato e inanimato, non ha alcuna ragion d’essere, dei materiali siamo in grado di individuare il carattere agentivo e performativo considerandoli come soggettività al pari dei soggetti umani, attanti che fanno e fanno fare entro una precisa cornice narrativa. Basti pensare a un materiale conduttore come il rame a cui abbiamo delegato l’ardua impresa di connetterci e illuminare le nostre città. Oppure ancora a un materiale come la lana, che avvolge i nostri corpi da tempo immemore per proteggendoci dai rigidi inverni ma a cui abbiamo affidato anche il compito di isolare termo-acusticamente le nostre case, ponendo sottili materassi di lana sotto il parquet o tra le pareti. Soggetti attivi, i materiali non solo agiscono ma permettono o impediscono, incoraggiano o dissuadono dal compiere certe azioni, mettendo in moto tutta una serie di manovre di manipolazione che hanno spesso ricadute passionali. Come non pensare al vetro che con la sua trasparenza è in grado di istallare un soggetto modalizzato secondo il poter-vedere e di costruire al contempo un oggetto di visione dotato di un poter-esser-visto, realizzando tra i due una congiunzione visiva ma impedendo a conti fatti una congiunzione somatico-tattile (Hammad 2003)? Ma questo materiale fa di più: nello scarto tra poter- vedere e non-poter-toccare, il vetro dà luogo alla configurazione della promessa, prospettando al soggetto la futura congiunzione somatico-tattile con l’oggetto di visione. Ed è facile immaginare, a partire da qui, il dispiegarsi di tutta una serie di sviluppi narrativi e passionali che il vetro può generare nel momento in cui, ad esempio, la promessa viene infranta o esso diviene dispositivo scopico che consente di acquisire un poter-sapere entro un percorso passionale come quello della gelosia. I materiali dunque possono assurgere a differenti ruoli attanziali, vestendo ora i panni del Soggetto, ora quelli del Destinante, ma anche quelli di Antisoggetto, Aiutante o Opponente, ed essere coinvolti a vario titolo tanto in programmi d’azione quanto in processi passionali. Si è visto bene, ad esempio, nel lavoro di Costanzo in cui i materiali impiegati nella lotta allo sporco, quel processo di trasformazione della materia che da uno stato disforico di sporcizia conduce a uno stato euforico di pulizia, assumono volta per volta all’interno di precise situazioni narrative una particolare funzione. In questo caso, il contatto tra materialità differenti – da una parte la macchia, l’unto e l’incrostato, e dall’altra le polveri e i saponi detergenti – dà luogo a vere e proprie trasformazioni materiche (Bastide 1987), processi che possono esser figurativizzati in vario modo e manifestarsi a livello espressivo in maniere differenti ma che fanno capo a operazioni elementari di trasformazione di stati che una grammatica narrativa è in 311 grado di rendere intelligibili. All’interno di una teoria della narratività è allora possibile individuare ruoli e strutture attanziali, modalizzazioni, programmi d’azione, stati e trasformazioni che consentono di andare al di là dell’empiria degli oggetti e dei materiali per ritrovarne la forma. A livello discorsivo invece sembra possibile in primo luogo ragionare sulle marche dell’enunciazione che i materiali portano inscritte, tracce che da una parte fanno capo all’istanza di creazione, ovvero l’enunciatore, e dall’altra a quella di ricezione, ossia il suo enunciatario. Come ogni enunciato presuppone un soggetto enunciatore che l’ha prodotto e un soggetto enunciatario a cui è rivolto, allo stesso modo, ogni materiale presuppone al suo interno un produttore e un utilizzatore impliciti. Laddove le marche dell’enunciazione funzionano come “istruzione per l’uso” dei materiali, si apre, è chiaro, la questione degli usi effettivi dei materiali che possono rivelare uno scarto tra ciò che era stato pianificato a monte e l’utilizzo concreto che di quel dato materiale viene fatto a valle. Il loro uso produttivo, come la risematizzazione degli stessi e le operazioni di bricolage, può esser identificato come un atto di ri- enunciazione dei materiali che da singolo e individuale, puro fatto di parole, può sedimentarsi fino a istituzionalizzarsi secondo il meccanismo della prassi enunciativa. Ancora, a tale livello, dove si interseca la teoria dell’enunciazione e l’allestimento figurativo dei testi, diventa interessante lavorare sugli effetti di matericità e, di conseguenza, di realtà che vengono prodotti e ricercati nel momento in cui la materia viene tradotta da un linguaggio a un altro (cfr. ad esempio Ceriani; Abdala Moreira; Costanzo). Come restituire consistenze e texture? come tradurre la morbidezza, l’elasticità o la ruvidità di un materiale, poniamo, in formato digitale? come fare in modo che l’enunciatario possa creder-vero, quali strategie mettere in campo? Ragionare intorno a materie e materiali ci costringe a guardare qualcosa a cui di solito non prestiamo attenzione, forse perché ritenuta troppo ovvia e banale. Le riflessioni condotte in questo volume mostrano come indagare la dimensione materica della significazione sia imprescindibile per una semiotica che si voglia scienza dei meccanismi e dei processi di articolazione del senso umano e sociale. Non è possibile indagare semioticamente spazialità, gastronomia, letteratura, religione, arte, architettura, politica, mondo digitale, pratiche e design senza volgere lo sguardo alle costruzioni materiche. Esse hanno, al di sotto della patana di evidenza che le ricopre, un valore rilevante nelle nostre vite: assumono significati sociali e culturali, influenzano la formazione delle identità collettive e individuali, sottendono visioni del mondo. Le riflessioni intorno ai materiali possono dunque considerarsi come l’estensione e il coronamento di una semiotica che si interessa al design e agli oggetti quotidiani, ma anche al cibo e all’architettura, alle arti e al digitale, alla storia e alla politica, alle mitologie e alle pratiche. Una semiotica che si mette alla prova e, osservando il mondo, riflette su sé stessa. 312 Bibliografia Aldersey-Williams, H., 2011, Periodic Tales. The Curious Lives of the Elements, NY, Viking Press ; trad. it. Favole periodiche. La vita avventurosa degli elementi chimici, Milano, Rizzoli 2011. Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi 1974. 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Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok Maddalena Sanfilippo Abstract. In this paper, we discuss about the phenomenon of intersemiotic translation of recipe genre within digital media, with specific reference to audiovisual content produced by food influencers in social media. After examining studies on the semiotics of taste in relation to recipe and the relationship between the Internet and cuisine, we focus on the analysis of a group of social video-recipes. The objective is to understand, through a socio- semiotic comparative analysis, the dialogue between the language of digital media and the culinary system, aiming to identify the mechanisms of signification that characterize this part of contemporary gastronomic discourse. 1. Introduzione “È solo parte del menù. Fa parte dello spettacolo. Questo è ciò per cui state pagando. Questa è un’esperienza esclusiva. Vi prego, tornate ai vostri posti” Lo chef stellato Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, nel recente film The Menu (Mylod, 2022), liquida così il suicidio, da lui stesso indotto, di un aspirante chef della sua brigata, troppo poco talentuoso per vivere la vita di uno chef di alto livello. E fra grida, scompiglio, stupore e assurdo compiacimento per il privilegio di poter far parte di questo spettacolo gastronomico, i “poveri” ospiti del ristorante esclusivo nell’isola dispersa di Hawthorn tornano ai loro posti. Le parole dello chef colpiscono e allo stesso tempo rassicurano, probabilmente perché dicono quello che i commensali vogliono sentirsi dire, facendo leva sugli aspetti che sembrano caratterizzare maggiormente il panorama mediatico culinario: intrattenimento, performance, esperienza, spettacolo. Nelle pagine che seguono ci soffermeremo sul fenomeno della traduzione intersemiotica del genere testuale della ricetta all’interno dei mezzi di comunicazione digitale, con specifico riferimento ai contenuti audiovisivi prodotti dai food influencer nei social media, in cui gli aspetti legati all’entertainment e alla spettacolarizzazione dell’universo gastronomico sembrano essere oggi maggiormente pervasivi. Grazie a un’analisi sociosemiotica comparativa approfondiremo il dialogo fra il linguaggio dei media digitali e il sistema culinario, cercando di rintracciare quei meccanismi di significazione che caratterizzano questa composita porzione del più ampio discorso gastronomico contemporaneo, partendo dagli aspetti superficiali (inquadrature, tempi, montaggio, comportamenti degli attori coinvolti nei racconti culinari) e scendendo verso le strutture significative più profonde (organizzazione narrativa, valori culinari). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). 2. La natura semiotica della ricetta Di ricette e ricettari, di cucina e media, della relazione fra linguaggio e cibo, del valore culturale e semiotico del sistema culinario, si è ampiamente occupata la semiotica del gusto negli ultimi anni. Grazie a numerosi studi1 è stata dimostrata la natura intrinsecamente semiotica del cibo, il suo essere linguaggio per raccontarsi, parlare con gli altri, produrre significazione. A ben vedere, però, non c’è un linguaggio del cibo, ma un più ampio discorso gastronomico costituito da “entità linguistiche come da forme d’azione e di passione, di testi che parlano di altri testi, di metatesti che discutono di piatti, rituali, cerimoniali, pose più o meno caricaturali, saperi taciti e sapori dichiarati, assetti disciplinari, letture e scritture, assunti etici, poetiche ed estetiche, sistemi di senso, pacchetti di valori” (Marrone 2022, p. 9). Il sistema alimentare può essere pensato come una semiosfera, un insieme di testi e linguaggi, di processi e azioni, di rimandi continui che partecipano alla formazione e alla trasformazione delle entità che compongono il discorso gastronomico, il quale si configura a partire da processi traduttivi. Ragionare dunque sul genere testuale della ricetta, sulla sua evoluzione, significa ricostruire tutti quei meccanismi di funzionamento discorsivo, ricercare le condizioni di possibilità, i processi di significazione nonché tornare a riflettere sulle lazioni fra pratiche culinarie e linguaggio, fra cibo e mondo. La ricetta in quanto testo culinario, dal punto di vista semiotico, è un’unità di senso variabile e dotata di una struttura organizzativa interna che va a determinare il senso di un’esperienza gastronomica (Mangano 2022, p. 293). Come sappiamo, le ricette di cucina sono soggette a reinterpretazioni continue, agiscono alla stessa stregua di spartiti musicali, come massime da poter seguire per l’esecuzione del piatto. È in questo senso che la cucina può essere definita, riprendendo Goodman (1968), come un’arte allografica. Un testo che per sua natura si evolve, attraversando generi testuali, linguaggi, stili discorsivi, epoche, tendenze, mode (Marrone 2016). Dal ricettario tradizionale al giornale, alla radio, al cinema, alla televisione, ai siti internet, ai blog, ai video-tutorial, ai social media. Da Il Talismano della felicità di Ada Boni, a Cotto e mangiato di Benedetta Parodi, a Masterchef, al Pranzo di Babette, a Giallo zafferano, a Benedetta Rossi fino ai più recenti food influencer, attori sociali che abitano gli universi della rete di Instagram e Tik Tok. La ricetta è un genere che cambia, senza forse cambiare davvero. In questo processo di rinascita continua mutano i sistemi di valori, cambiano le strutture manifeste, ma allo stesso tempo si riscontra la resistenza di alcuni tratti invarianti dell’articolazione interna del testo in questione. Appare dunque centrale nel discorso sui ricettari, il fenomeno della traduzione, comunicare la cucina significa tradurre da un linguaggio, quello orale per esempio, a un altro linguaggio, quello scritto, ma anche quello audiovisivo etc. Trascrizioni del saper-fare delle mani tramandate oralmente, le ricette di cucina si scontrano da sempre con l’impossibilità di tradurre perfettamente la gestualità sapiente delle operazioni culinarie. Vi è un inevitabile divario fra il linguaggio delle istruzioni e il corpo, fra le procedure e le azioni fisiche, fra la scrittura e il fare delle mani (Sennett 2008). La forma testuale della ricetta, nell’attualizzare un saper-fare, pone per definizione il problema dello scarto di conoscenze pregresse fra l’enunciatore e l’enunciatario. È un testo istruttorio che diventa luogo di negoziazione fra due tipi di conoscenza, quella di chi scrive, teoricamente competente, e quella di chi legge una pagina o guarda un video, che si presuppone poco preparato. Ogni forma testuale della ricetta ipotizza quindi un contratto tacito fra i due soggetti del discorso, che negoziano il detto e il non detto, l’esplicito e l’implicito, dando vita a differenti patti comunicativi (Marrone 2014, p. 29). Arriviamo così ad affrontare un altro aspetto costitutivo della ricetta, ovvero il suo essere, in quanto testo prescrittivo, intrinsecamente narrativo. Come per i racconti, la prassi culinaria è una messinscena di azioni di soggetti umani e non umani, che trasformano ingredienti, che modificano oggetti all’interno di cornici temporali e di inscatolamenti di programmi narrativi (Greimas 1983). Emerge così la natura performativa del testo di cucina, trascrizione di un fare pregresso, esibizione 1 v. Barthes (1961); Greimas (1983); Bastide (1987); Fontanille (2006); Marrone, Giannitrapani (a cura, 2012); Marrone (a cura, 2014); (Marrone 2013, 2014, 2016, 2019, 2022); Giannitrapani (a cura, 2021); Giannitrapani, Puca (a cura, 2020). 315 di un fare gastronomico di un soggetto operatore. La ricetta è per definizione un testo sfuggente, aperto, frammentato, imperfetto, sempre correggibile, mai definitivo (Capatti 2020). È un testo che mette in scena un fare, fin dalle sue prime apparizioni trascritte in prosa o in versi, in radio o in televisione, al cinema o in rete. Il cuciniere è innanzitutto un attore del fare gastronomico e la ricetta è un copione da interpretare ed eseguire all’interno di una cornice che, sia nei media tradizionali che nei nuovi mezzi digitali richiama irrimediabilmente quella dello spettacolo, del divertimento, e più in generale del macrogenere dell’entrateinment, il quale ha come scopo primario far divertire il pubblico assumendo forme diverse: talk show, game show, reality, e oggi reel e tik tok (Giannitrapani 2014). 3. La rete e le forme brevi della ricetta Di cibo su Internet se n’è parlato sin dagli albori, ma è con l’avvento del web 2.0 che si è assistito all’esplosione dei blog culinari2, alla crescita di materiale audiovisivo fatto di video-ricette e reportage fotografici, e alla degenerazione mediatica delle pratiche di food porn. Ciò ha comportato un ampliamento dell’immaginario culturale legato al cibo. I social media, di fatto, “ci hanno resi tutti registi, conduttori, operatori, attori, desiderosi di comunicare attraverso un linguaggio un tempo riservato a specialisti [...]” (Mangano 2013, p. 213). I blog, invece, hanno reso eroi intermediali (Marrone 2003) autori di culto e non, generando schiere di lettori, pronti a seguire il proprio beniamino ovunque: in rete, in libreria, e in giro per i festival di cucina (Mangiapane 2014). Il risultato di questo fenomeno, che Marrone (2014) ha definito gastromania, è stato un delirio culinario, un megatrend che ha raggiunto il suo apice con l’Expo del 2015. Uno scenario ghiotto di aspiranti chef, tutorial, video, post, foto, recensioni, e soprattutto backstage, alla scoperta dei segreti delle ricette più famose. In questo panorama variopinto, e grazie alla diffusione e all’intreccio di nuovi mezzi di comunicazione digitale, il video sembra essersi affermato come il linguaggio della contemporaneità, ideale per raccontare l’esperienza alimentare e tradurre il genere testuale della ricetta. Negli ultimi anni, la comunicazione enogastronomica su Internet e nei social media non è scomparsa, si è, al contrario, evoluta insieme alle piattaforme digitali, interiorizzandone le trasformazioni, sempre più repentine e confermando il sodalizio intrinseco fra cibo, media e rete. Lo abbiamo osservato nel corso del 2020, nei mesi della pandemia del Covid-19, in cui la gastromania è tornata alla ribalta, a far parlare di sé, a scandire i tempi delle giornate, a saturare i feed dei social network. La quarantena, dunque, non ha trovato impreparata la produzione dell’intrattenimento digitale, come neanche l’industria alimentare. Adepti, vecchi e nuovi, della loggia culinaria della rete hanno dato avvio a una nuova ondata, fatta di panificazioni lunghe, preparazioni di gnocchi, tagliatelle, pizze soffici o croccanti, esperimenti, farine, lieviti. Tutto ciò ha risvegliato il web, battezzando Tik Tok come il social del momento, “il posto dove oggi accadono le cose” (Marino 2023, p. 77). Parlare, quindi, di cibo oggi significa interrogare social network come Instagram e Tik Tok, capaci di catalizzare l’attenzione di ampie fasce di popolazione, rispondendo a logiche complesse e non ovvie. I social media sono spazi virtuali abitati dalla contemporaneità, in cui si costruiscono regimi identitari, in cui si interagisce e si definiscono legami sociali e politici. Nuovi sistemi linguistici, culturali, oggetti da analizzare per mettere in risalto le peculiarità delle forme politiche e sociali presenti in rete. Luoghi che riflettono la società, influenzandola al contempo. Instagram e Tik Tok, come anche Facebook, YouTube e così via, non sono delle bolle chiuse e circoscritte. I loro linguaggi interni, i loro contenuti mediali circolano nella semiosfera, fuoriescono dai confini, viaggiano nella rete e negli altri medium, dalla televisione, alla radio e ai giornali, influenzandosi, inevitabilmente a vicenda. Essendo immersi, inoltre, in un ecosistema transmediale, si integrano reciprocamente, dando vita a incastri di senso, narrazioni disperse in modo sistematico, esperienze 2 Per un approfondimento sui blog culinari cfr. Mangiapane (2014, 2018). 316 digitali unificate nella loro frammentarietà. L’utente social rimbalza dal video breve su Tik Tok a quello completo su YouTube, dal post di presentazione su Instagram al sito web per l’acquisto di una master class. Così, ininterrottamente. Salti continui, fatti di click e scroll, che conducono incessantemente avanti, allo step successivo. In questo flusso inarrestabile, di foto, sorrisi, suoni, aperitivi, è il video il contenuto mediale maggiormente pervasivo, quello che più di selfie e tramonti catalizza l’attenzione degli utenti online. L’audiovisivo, lo abbiamo detto, è il linguaggio dell’oggi. Lo si è visto con la diffusione dei tutorial, con la scalata degli youtuber, con le IG stories, le dirette Facebook, le clip di Tik Tok e i reel di Instagram. Le piattaforme si sono evolute e ne sono arrivate di nuove, che hanno dato ancora maggiore spazio alla componente audiovisiva, risemantizzandola al proprio interno. Le video-ricette su Instagram e Tik Tok sono distanti dai primissimi video-tutorial di YouTube. La prima differenza sostanziale rispetto al passato è legata alla durata dei video-clip, oggi sempre più brevi, condensati in pochissimi minuti se non secondi. In secondo luogo, a mutare è il ritmo che emerge dal montaggio, molto spesso accelerato. Sebbene siano clip di durata molto breve, si prestano perfettamente a raccontare l’alimentazione, così come oggi viene percepita a livello culturale e sociale, dentro e fuori lo schermo dello smartphone. Per tale ragione si è deciso di soffermare lo sguardo sui contenuti audiovisivi, cercando di superare una loro visione semplicistica e ingenua, dal momento che risultano essere forme brevi di comunicazione che rispondono a logiche tutt’altro che scontate, che mostrano la complessità strutturale dei testi in questione (Peverini 2012). In un testo audiovisivo i movimenti di macchina, l’uso della colonna sonora, la diversa articolazione dei punti di vista, e infine il montaggio, assumono un ruolo decisivo nella costruzione del senso complessivo dell’opera e costituiscono un oggetto di studio (Peverini 2012). I contenuti audiovisivi che si osserveranno sono testi rapidi, di pochi secondi o minuti. Sono forme brevi (Pezzini, a cura, 2002) che, al pari degli spot o dei trailer, vengono confezionate con cura dal punto di vista comunicativo. Sono testi brevi e densi, capaci di intrecciare, grazie alla loro struttura ritmica e alle scelte stilistiche, diversi livelli di significazione. Come scrive infatti Pezzini (2002), in questi casi, la questione dell’estensione del testo sul piano dell’espressione va intrecciata con l’intensità, la forza, l’energia e la passione messa in scena dal testo stesso, poiché “uno stesso breve tempo, una stessa estensione si può riempire secondo strategie e intensità differenti” (p. 18). In quanto prodotti audiovisivi di breve durata, appare particolarmente centrale l’organizzazione del tempo delle azioni messe in scena sia in relazione all’aspettualizzazione, ma soprattutto, come vedremo, in riferimento all’agogia, ovvero alle variazioni di movimento delle operazioni da svolgere: lentamente o rapidamente, frenando o accelerando. Questo ci porta a riflettere anche sulla questione del ritmo, il cui andamento non è altro che il risultato percettivo, l’effetto di senso, scaturito da una organizzazione complessa sul piano dell’espressione che, a livello discorsivo, intreccia tempi, spazi e attori, ma anche temi e figure. Riprendendo quanto scrive Ceriani (2003, pp. 102-103) possiamo infatti definire il ritmo come un sistema, “una struttura composta di correlazioni differenziali: in quanto tale, esso rappresenta un codice, e quindi una regola, un meccanismo di trasformazione responsabile, che si può riconoscere sia a livello dell’espressione sia a livello del contenuto […]”. 4. I social e l’expertise culinaria “Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori, non avere paura, ma soprattutto divertiti”. Le parole di Julia Child – cuoca, scrittrice e personaggio televisivo statunitense – sembrano sintetizzare perfettamente la strada che l’arte culinaria percorre ormai da qualche anno all’interno dell’arena digitale dei social media. Nel reticolo della rete social quasi nessun food creator vanta più la sua expertise gastronomica, pochissimi a oggi si definiscono esperti. Tutti, invece, sono appassionati, amatori, cultori di cibo e social, di cucina e tecnologie. Ma soprattutto, tantissimi cucinano perché hanno il desidero di assaporare e mangiare (finalmente!) un piatto che li soddisfi, a livello estetico, nutrizionale, etico e, a detta 317 loro, gustativo. Sembra che su Instagram e Tik Tok si cucini quindi per assaporare, provare, condividere storie, intrattenere, creare engagement, divertirsi, costruire community, quasi mai per istruire. Dove sono finiti allora gli esperti culinari della rete (blogger e youtuber) a cui l’esplosione mediatica ci aveva abituati? Forse sono diventati gli “snob” del web, come li ha definiti Benedetta Rossi, una delle food creator più seguite d’Italia, in un suo recente sfogo contro i suddetti esperti gastronomici3, dai quali, esplicitamente, lei prende le distanze in difesa dei propri follower, gente comune e semplice, che non può permettersi cibi sofisticati perché costretta a farsi i conti in tasca al supermercato. Ma c’è di più. L’influencer afferma con vigore la sua totale mancanza di competenze nel settore culinario, che l’ha resa famosa. Dichiara la sua incapacità di cucinare, il suo non-saper fare, il non voler impartire insegnamenti, la sua totale assenza di expertise, a differenza degli chef, ai quali si oppone. Tutto torna al suo posto, ricostruendo un nuovo equilibrio, con un ordine chiaro e preciso, quando Benedetta asserisce che il suo unico volere è quello di “condividere” ciò che nella vita di tutti i giorni le “viene bene”, sperando che possa essere utile a qualcuno. È così che la star culinaria della rete vince la sua battaglia contro i colleghi “snob”, giocando la sua partita su un terreno che, ovviamente, conosce molto bene, ovvero quello dei social media, e si appella a ciò che questi ultimi sono sempre stati: spazi di socializzazione, che nulla di per sé hanno a che spartire con la formazione culinaria di alto livello o con l’esibizione di maestrie da chef stellati. Luoghi in cui risulta fondamentale la condivisione, il contatto, l’interazione, tutto ciò che rimanda a una comunicazione fàtica, orientata al canale, alle tecnologie e ai media adoperati per creare o mantenere contatto fra gli interlocutori (Marrone 2017). Una comunicazione in cui parlare “non serve dunque a trasmettere informazioni o a esprimere pensieri, e nemmeno a manifestare emozioni; svolge tuttavia un fortissimo ruolo antropologico, quello, diciamo così, fondamentale di istituire la socialità, di foraggiare il legame sociale” (ibidem, p. 3). Ritornando alla figura dell’esperto, sembra si stia assistendo a un’inversione di marcia nell’ampio dibattito sulla competenza dei soggetti. Come scrive Marrone (2020) “Mai come oggi l’esperto, il competente, il navigato conoscitore di uomini e cose è sotto i riflettori della cronaca, protagonista indiscusso, ma anche antagonista acclamato, del discorso dei media, e dunque, per proprietà transitiva, della vita di tutti noi, tanto sociale quanto individuale” (p. 7). Osservando social media e blog, si riscontra la presenza di una relazione spesso conflittuale fra chi cucina e una parte del pubblico che giudica negativamente le ricette proposte. Molti food creator si ritrovano spesso a motivare le scelte degli ingredienti, a giustificare la loro scarsa abilità tecnica e a marcare il loro essere appassionati di cucina e non cuochi professionisti. Altri, invece, si impegnano a criticare aspramente il fare culinario altrui, disprezzando ricette, alimenti e gusto. Questi ultimi, valorizzando fortemente la loro expertise culinaria, si configurano come esperti del settore, opponendosi a tutti coloro che si approcciano alla cucina per diletto. Sembra quindi emergere, da un lato, la figura del food creator dilettante, che ama condividere la sua passione con la propria community, e dall’altra quella dell’esperto/critico gastronomico. 5. Le forme della ricetta social Il discorso gastronomico nei social media è caratterizzato da un fluire costante di immagini in movimento, di colori, suoni, parole, sussurri, storie, sbattitori che montano instancabilmente, piatti che splendono, arnesi antichi e moderni, carni pregiate del Nebraska, che dopo tanta strada vengono gettate ferocemente, prima, su taglieri lucenti, che diventano podi da esibizione, e poi su padelle ardenti, per conferirgli il giusto onore. Un organismo interconnesso, transmediale, in cui le pratiche di utilizzo si differenziamo da un social all’altro, anche per i fruitori che interagiscono, e dove risultano essere fondamentali le scelte stilistiche e identitarie dei produttori. 3 www.instagram.com/reel/Cr6Tf-cgFUE/, consultato il 06/05/2023. 318 Dopo aver guardato, in modo trasversale, numerosi profili social di content creator del settore food presenti nelle differenti piattaforme digitali (Pinterest, Facebook, Twich, Twitter, YouTube, Instagram e Tik Tok), ci si è resi conto che i cambiamenti odierni relativi al testo gastronomico della ricetta, risultano di forte rilevanza soprattutto su Instagram e Tik Tok. Il corpus d’analisi selezionato è composto da casi di particolare successo, che si richiamano a vicenda, dai quali emerge una rete di analogie e differenze di tipo strutturale. Uno dei modi in cui si può analizzare l’articolazione del testo ricetta è l’osservazione della sua struttura narrativa attraverso il modello dello schema narrativo canonico. Osservando i racconti delle video-ricette prese in considerazione, si è notato come non tutte le fasi del percorso canonico risultano sempre presenti e come spesso alcune fasi siano maggiormente dominanti rispetto ad altre. In alcune ricette, per esempio, predomina il momento della manipolazione, in altre quello della competenza, in moltissime prevale la performance, e in altre ancora la sanzione. Occorre precisare che i tratti distintivi delle quattro funzioni convivono nelle diverse tipologie di ricette, ma seguono gerarchie di rilevanza variabili, che lasciano emergere come pertinente ora una precisa fase narrativa ora un’altra, che sembra padroneggiare rispetto alle altre. Il concetto di dominante, a cui qui stiamo facendo riferimento, è stato approfondito da Jakobson (1963) in relazione alla prevalenza di alcune delle funzioni comunicative (emotiva, poetica, conativa, metalinguistica, referenziale, fàtica) all’interno dei processi comunicativi. La dominante è “un élément linguistique spécifique domine l’oeuvre dans sa totalité; il s’agit de façon impérative, irrécusable, exerçant directement son influence sur les autres éléments” (Jakobson 1971, p. 77). Quel tratto centrale di un testo che presiedendo e modificando gli elementi interni, assicura la coesione del testo stesso (Marrone 2017). Detto questo, riprendiamo quando elaborato da Calabrese e Volli (1979), poi riadattato da Marrone (1998) in riferimento all’articolazione narrativa delle notizie dei telegiornali, e proviamo a individuare quattro tipologie di ricetta social: 1. virtuale, in cui domina l’aspetto manipolativo del racconto messo in scena dal food creator; 2. potenziale, in cui a prevalere è la competenza culinaria da trasmettere allo spettatore; 3. performativa, in cui predomina la performance del cuoco; 4. cerimoniale, in cui emerge fortemente il giudizio del fare culinario altrui. Vediamo nel dettaglio come si manifesta questa organizzazione narrativa. 5.1. Ricetta virtuale Come trasporre sullo schermo di uno smartphone i ricordi della nonna, le tradizioni di famiglia e le esperienze personali? Valeria Raciti4, vincitrice dell’ottava edizione di Masterchef Italia, sceglie di farlo all’interno di una cornice narrativa, in cui l’esecuzione della ricetta diventa parte di un racconto che attrae lo spettatore, dotandolo di un voler-sentire e voler-vedere. L’enunciatore mette in scena un fare semplice, tendenzialmente casalingo, in cui le pietanze realizzate evocano la tradizione. Le storie raccontate da Valeria donano alla ricetta un valore aggiunto, un’anima, una vita, proiettando lo spettatore fuori dalla sua dimensione quotidiana. La ricetta trascritta trova spazio al di fuori dei contenuti audiovisivi, nelle poche righe della caption di Instagram o della descrizione di Tik Tok. Tutte le video-ricette sono libere da voci descrittive fuori campo che enunciano le fasi della preparazione, ma anche da sottotitoli e infografiche. Scorrono, invece, lentamente le inquadrature in primissimo piano del cibo, il cui sfondo è caratterizzato da piccole porzioni di ambiente casalingo (Figg. 1.1. - 1.2.). Si confeziona così un testo mediatico culinario in cui il tempo dal punto di vista agogico procedere lento e il cui effetto di senso complessivo richiama eleganza, 4 www.instagram.com/valeria.raciti/, www.tiktok.com/@valeriaraciti.masterchef, consultati il 10/05/2023 319 pacatezza, finezza, magia. L’obiettivo di Valeria non è insegnare a cucinare tramite le sue brevi video- ricette, bensì condurre il pubblico che la segue all’interno del suo mondo, della sua storia. Fig. 1.1. – Lo sfondo della cucina Fig. 1.2. – Inquadratura ravvicinata di casa. del piatto realizzato. 5.2. Ricetta potenziale I tutorial che abbiamo imparato a conoscere anni fa su YouTube non sono scomparsi. Esiste ancora qualcuno che si ostina a volere insegnare al mondo come cucinare la “carbonara perfetta”. Nei social, infatti, emergono varie forme di video-ricette dal carattere formativo, che mirano a trasferire una competenza, un saper fare culinario. Un tratto comune a tutti casi che vedremo di seguito è la presenza di sottotitoli che accompagnano lo scorrere delle fasi di preparazione dall’inizio alla fine dei brevi filmati, marcandone la finalità didattica. Non tutti i video, però, seguono la medesima impostazione discorsiva. Riportiamo di seguito tre casi esemplificativi in cui la ricetta conserva il suo valore istruttorio, manifestandolo secondo articolazioni attoriali, spaziali e tematiche differenti. Il “grado-zero” delle ricette social, che evoca gli ormai classici tutorial, si può rintracciare nei contenuti audiovisivi di Benedetta Rossi, la food influencer di Fatto in casa da Benedetta, nome dello storico blog e degli account social connessi5. I reel di Benedetta infatti mettono in scena una ricetta referenziale, una competenza acquisita che vuole essere trasmessa allo spettatore, il quale potrebbe voler replicare la ricetta. Il patto comunicativo che si delinea è quello che regola normalmente il testo istruttorio. Dal retro del bancone da cucina, la cuoca-insegnante descrive, passo dopo passo, la preparazione che sta eseguendo (Fig. 2.1. – 2.2.) Per coadiuvare la descrizione orale, i passaggi fondamentali della preparazione vengono riportanti in sovraimpressione creando un ancoraggio (Barthes 1982) tra parte visiva e parte verbale, mentre l’intera ricetta viene trascritta, quindi ridetta, nella caption dei post di Instagram. Le inquadrature e il tipo di montaggio costruiscono una struttura ritmica in cui il tempo delle operazioni svolte, dal punto di vista agogico, viene percepito come disteso e rilassato. L’obiettivo è farsi comprendere. 5 www.instagram.com/fattoincasadabenedetta/reels/, www.tiktok.com/@fattoincasadabenedetta?lang=it-IT, consultati il 10/05/2023. 320 I piatti realizzati sono semplici, la cucina è casalinga, pratica. In questo scenario narrativo, la ricetta finisce per costituirsi come un vero oggetto di valore che lega i due soggetti coinvolti: cuoca e spettatore. Fig. 2.1. – Benedetta mostra il piatto Fig. 2.2. – In sovrimpressione appare il finito come copertina del video. testo che rafforza la descrizione orale. Ma la ricetta, anche nella sua veste pedagogica, all’interno del variegato mondo social, scavalca i propri confini predefiniti, linguistici e spaziali. Finisce, per esempio, per abbandonare lo spazio utopico della cucina, e approdare fuori, nel balcone di casa. È l’idea che ha avuto lo chef romano Ruben Bondi nel corso del lungo lockdown del 2020. Grazie ai video del suo canale, Cucina con Ruben6, è diventato uno dei primi food creator di successo in Italia su Tik Tok, seguito oggi da 1.4 milioni follower. Dal suo balcone, con fornelli d’accomodo e utensili casalinghi, ha iniziato a dispensare ricette succulenti a un pubblico costretto a stare a casa, demotivato, ma certamente affamato (Fig. 3.1.). Ruben è il protagonista, nonché il soggetto operatore, di un racconto corale, in cui sembra essere coinvolto in modo attivo il destinante, ovvero l’utente da casa, a cui lo chef si rivolge costantemente e per il quale si mette all’opera. Al termine di ogni ricetta ricorda al suo pubblico di segnalargli la prossima ricetta che vogliono vedere realizzata (“Fatemi sapere quale ricetta volete vedere nella prossima ricetta!”). Il pubblico si configura, da un lato come destinante manipolatore, poiché indica al cuoco la prossima ricetta da realizzare, mentre dall’altro lato come destinante giudicatore, poiché, rispondendo a tale richiesta, dimostra apprezzamento per quanto ha appena visto. Partecipano, inoltre, al siparietto culinario molti altri attori, con ruoli narrativi precisi. Si alternano dirimpettai, fratelli, amici, sorelle, zie e, di recente, anche personaggi più conosciuti. Questi attori nella parte iniziale dei video vengono chiamati in causa da Ruben (“Ehi, Luca! Che te vò magnà oggi?!”), a cui rispondono con la richiesta di uno specifico piatto, imponendo così al soggetto un dover-fare e fungendo, quindi, da destinanti iscritti nel testo. Nel corso della preparazione, fra i vari intermezzi in cui il giovane chef regala consigli tecnici e batture ai suoi follower (“Con questo piatto la fai innamorare!”), accade spesso che il fratello o l’amico di turno partecipi alla realizzazione della ricetta, diventando un aiutante. Al termine della preparazione sia Ruben che l’assistente addentano voracemente la pietanza e ovviamente la giudicano, trasformandosi entrambi in dei destinanti sanzionatori a livello narrativo (Figg. 3.2.-3.3.). Lo spettatore viene dunque iscritto all’interno dell’enunciato stesso. L’utente da casa, infatti, si identifica con la figura dell’amico di Ruben. Cucina 6 www.tiktok.com/@cucinaconruben, consultato il 10/05/2023. 321 con Ruben si configura come un racconto famigliare e d’amicizia, in cui ogni singolo attore coinvolto manifesta il proprio entusiasmo, la gioia di stare insieme e il gusto di mangiare un buon piatto in compagnia dell’amico-chef. A marcare questo effetto complessivo è anche il nome del canale, Cucina con Ruben, che sembra riferirsi sia alla relazione fra il cuoco e lo spettatore da casa, sia alla messa in scena culinaria, in cui Ruben cucina con gli altri attori. Le riprese alternano, con ritmo accelerato, inquadrature frontali dei personaggi e riprese dall’alto su fuochi da campeggio, padelle, taglieri e piatti da portata. Il risultato è un prodotto audiovisivo dinamico e giovanile. Accresce, inoltre, l’effetto di realtà casalinga e quotidiana il dialetto romanesco di Ruben e compagni, ricco di esclamazioni (“Dajè!”, “Bona!”), che manifesta in modo esplicito il patto comunicativo amichevole, informale, alla pari. Un effetto di senso che richiama la cucina più autentica, quella domestica, d’arrangio, all’interno di una cornice visiva a tratti grezza e rudimentale, ma al contempo genuina. Fig. 3.2. – L’amica di Ruben si Fig. 3.3. – Ruben e l’amica unisce alla preparazione. assaggiano il piatto appena preparato insieme. Un’estetica del goffo che risponde, opponendosi, all’estetica del bello e della perfezione, a cui l’alta cucina e social come Instagram ci hanno abituati negli anni d’oro della gastromania. E ancora, si assiste all’avvento di un nuovo modo di raccontare il fare culinario, più teso verso l’esaltazione della convivialità, della chiacchera, del piacere d’assaporare un succulento manicaretto appena tolto dal fuoco. Cosa accade, invece, quando i saperi della ricetta vengono trasmessi al pubblico da un format video che è un mix di differenti linguaggi che evocano insieme gli show televisivi, i classici tutorial e gli odierni social media? Arriva sui nostri touch screen la produzione audiovisiva dello Chef Max Mariola7 (Fig. 4.1.), una star di Tik Tok con 4.4 milioni di follower. Fra un’indicazione di cottura e un commento sul gusto di un piatto, lo chef si rivolge direttamente alla camera e con sguardo complice, intimo e malizioso sussurra all’orecchio dello spettatore consigli spassionati da navigato seduttore (“Cena romantica a casa tua o a casa mia?”, “Hai passato una notte fantastica e lei sta ancora dentro al letto mò ti faccio vedè che colazione gliè devi fa!”). Max è l’amico esperto di cucina e d’amore, è il confidente, di lui ci si può fidare. Per lui il cibo è passione, seduzione, sapore intenso della vita, armonia, buona compagnia e allegria. Ma soprattutto è suono, “the sound of love”, come recita una delle sue massime più gettonate, 7 www.tiktok.com/@chefmaxmariola, consultato il 10/05/2023. 322 con la quale accompagna ogni sfrigolio di cipolla o effetto crunch del pane tostato. La bontà del piatto si sente, e in modo sinestetico richiama il senso del gusto e dell’olfatto. La dimensione sensoriale e corporea sembra essere cruciale in queste video-ricette; lo chef esalta attraverso i suoi movimenti, le sue espressioni facciali e la sua voce dal tono appetitoso, le caratteristiche delle pietanze, alternando giudizi che rimandando ora al gustoso, ora al saporito8. Infine, Max è un affezionato del saltapasta, del bancone da cucina (Fig. 4.2.), che altro non è che il suo personale palcoscenico, allestito in uno spazio esterno che sembra essere un terrazzo, e da cui anima la sua performance culinaria con l’ausilio di diversi aiutanti non umani: dagli ingredienti, presentati in modo dettagliato nella parte introduttiva dei video, ai coltelli, ai taglieri, alle pentole e padelle (Mangano 2013). Fig. 4.1. – Lo chef assaggia il Fig. 4.2. – La terrazza-cucina piatto appena realizzato. dello chef. 5.3. Ricetta performativa Entriamo adesso dentro tutta quella ampia fetta di materiale audiovisivo social, in cui il testo della ricetta perde quasi del tutto il suo carattere istruttorio, diventando un pretesto per esaltare ora la personalità di uno chef, ora la dimensione ludica, ora quella estetica e sensoriale, ora passionale. I soggetti operatori delle video-ricette che andremo a vedere mettono tutti in scena un fare culinario che tende alla spettacolarizzazione. Essi sembrano infatti presuppore come enunciatario un soggetto mosso dal desiderio di voler-guardare e assistere a una esibizione gastronomica, che richiama maggiormente il genere dell’intrattenimento e assume forme e sfumature sempre più fantasiose e teatrali. Vediamo qualche esempio. Maestria culinaria e personalità sfrontata, sicura e spavalda caratterizzano lo spettacolo del giovane cuciniere del canale Tik Tok e Instagram Notorious_foodie9. Un ragazzo londinese a cui piace cucinare (“I like to cook”, enunciano le sue biografie social), di cui viene celato il nome, e di cui si conosce poco il volto. Solo in tratti precisi e salienti della performance mostra allo spettatore viso e corpo. Di contro, 8 Il gustoso e il saporito sono due linguaggi specifici del gusto. Il gustoso è quel sistema di senso che si istaura grazie al riconoscimento sensoriale delle figure del mondo già note; il saporito è il luogo della sensorialità, in cui emergono le qualità sensibili delle sostanze gastronomiche (Marrone 2022). 9 www.tiktok.com/@notorious_foodie, consultato il 10/05/2023. 323 l’osservatore conosce perfettamente l’abilità tecnica delle sue mani (Fig. 5.1.). Le sue video-ricette evocano le esecuzioni musicali. Le sue sono le mani di un pianista intento a mettere alla luce la sua opera, con un ritmo incalzato, accelerato, che toglie il fiato, stordisce e affascina, cattura. Le riprese avvengono nella cucina di casa, le inquadrature mostrano spazi angusti, ristretti, dove attrezzi e taglieri professionali sembrano non trovare respiro. Il montaggio serrato delle azioni svolte innesca un movimento agogico incalzante. Le fasi delle preparazioni sono tante, e così anche gli stacchi della camera. Siamo all’interno di una cucina casalinga, ma le pietanze realizzate sono elaborate, degne di un ristorante di medio-alto livello. Come detto, all’osservatore in preda al delirio visivo ed emotivo, viene negato, per la maggior parte della durata del video l’accesso al volto del soggetto in azione, sono le mani a rappresentarlo per sineddoche. Sono loro le protagoniste della scena, è il loro saper-fare che viene messo in mostra, non per istruire, ma semplicemente per il gusto di esibirsi, dimostrando il proprio valore, il proprio sapere cognitivo al mondo, o forse all’alta-cucina, un possibile anti-soggetto di questa storia. Il corpo e il volto del cuoco appaiono solo nella parte finale dei video, al momento dell’assaggio (Fig. 5.2.), in cui lui, vestendo i panni del destinante giudicatore, valuta la propria creazione. Con fare solenne, mangia l’opera succulenta che le sue mani hanno creato e gusta con piacere. Ma non finisce qui. A dispetto di chi guarda dall’altra parte dello schermo e non può provare questo piacere estesico, decide di lanciare un canovaccio bianco sull’obiettivo della camera. Una firma irriverente che impedisce definitivamente l’accesso visivo dell’osservatore (Figg. 5.3.-5.4.). Fig. 5.2. – Il cuoco mangia Fig. 5.4. – Infine, lancia il il suo piatto. canovaccio alla camera. Enfatizza l’effetto drammatico e spettacolare della messinscena culinaria lo sfondo sonoro: brani classici strumentali, in cui Vivaldi e il suo tempo impetuoso fanno da padrone. Nel corso dei brevi video, nessuna voce o sovrimpressione fornisce spiegazioni sulla preparazione. A parlare sono le inquadrature, il sound musicale e il suono del cibo, il rumore degli attrezzi, il tonfo dei tocchi di carne lanciati sul tagliere, lo sfrigolio dell’aglio in padella, la potenza della mannaia, il crunch della baguette abbrustolita. Ancora una volta, come nelle video-ricette di Chef Max Mariola, il cibo scuote l’udito dell’ascoltatore, e in modo sinestetico ci comunica il suo gusto. Vedremo a breve come questo aspetto sensoriale, plastico del linguaggio del cibo, risulti cruciale in particolari forme testuali della ricetta. Se le video-ricette di Notorious_foodie stordiscono e provocano tensione, sul piano passionale, quelle di Men with the pot10 rilassano, cullano dolcemente lo spettatore, ricongiungendolo con il proprio “io” 10 www.tiktok.com/@menwiththepot, consultato il 10/05/2023. 324 sensibile e la dimensione naturale. Perché limitarsi a cucinare piatti complessi all’interno dei propri templi casalinghi se si può dare vita a pietanze eccellenti e prelibate all’aperto, in montagna, circondati dal verde, fra una scalata e una lunga sessione di trekking? È quello a cui hanno pensato Slawek Kalkraut e Krzysztof Szymanski, due amici polacchi, residenti in Irlanda, creator del profilo Tik Tok Men with the pot, seguito da più di 12 milioni di persone. Nei loro video provano a mettere in relazione la passione che nutrono per la cucina, insieme a quella per la vita rurale, ponendo in evidenza una configurazione valoriale profonda, che oppone natura a cultura. Lo scorrere lento del tempo, la tranquillità dello spazio, il suono della foresta vengono, tuttavia, interrotti, a intervalli puntuali, da una civiltà primitiva ma affascinante, messa in risalto dal tonfo di una mannaia in azione. Le qualità tecniche di questo speciale coltello vengono ampiamente enfatizzate, finendo per configurala come un possibile oggetto di valore da raggiungere per un potenziale consumatore-spettatore che ne rimane ammaliato. La mannaia con eccellente maestria, infatti, tronca, taglia, sminuzza ferocemente e velocemente tutto ciò che incontra: cipolla, carni, patate, prezzemolo, pane tostato, pizza, legnetti. Si nota, inoltre che dalla cucina di casa, fuori campo, sopraggiungono altri attori non umani, come padelle, coperchi, casseruole, taglieri, ma anche sale, farina, spezie, pomodori, salsicce, lattuga (Figg. 6.1.-6.4.). Dalla civiltà, insomma, non si può del tutto fare a meno, soprattutto se si vuole cucinare un piatto elaborato, fortemente culturalizzato. Non basta, infatti, trasformare due pezzetti di legno in posate, gettare il pesce nel fiume per pulirlo, accendere il fuoco o sollevare una graticola con le pietre. La messa in scena di un’estetica naturale, rudimentale, d’accomodo, che contribuisce a innescare, a livello del contenuto, l’effetto natura-wild, si scontra quindi con tutta una serie di attori che richiamano inevitabilmente luoghi altri da cui provengono, quello della città, dei supermercati, della cucina di casa. Fig. 6.1. – La mannaia Fig. 6.2. – Sempre la Fig. 6.3. – Padella e Fig. 6.4. – Una ciotola in sminuzza il prezzemolo. mannaia, affetta la carne. cucchiaio di legno. legno con diverse spezie. Si osserva quindi come l’effetto di natura selvaggia che si coglie a prima vista, in realtà pone in risalto una natura negata, una non-natura, che finisce inevitabilmente per tendere, in molti momenti del racconto culinario, verso il polo della cultura che si vuole silenziare. I video di Men with the pot – dicevamo – hanno una particolare effetto: rilassano. Grazie alle note ancestrali della natura, al fruscio delle foglie, ma anche ai suoni del cibo, che stride o arde sulla piastra, o ai rumori dell’azione culinaria, che taglia, spreme, monda, e infine, al mormorio dell’atto gustativo. Quando i creator masticano, lo spettatore lo sente, e partecipa all’esperienza in modo sinestetico. Questa sinfonia sensoriale, che fonde i sussurri della natura a quelli dell’azione gastronomica, in questo specifico testo mediale, come in tantissimi altri della medesima tipologia, risulta particolarmente enfatizzata tanto 325 da farlo rientrare nella categoria ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) 11 . Video che stimolano a livello visivo e soprattutto uditivo lo spettatore, suscitando una gradevole sensazione di relax che parte dalla testa e scende fino alle spalle, finendo per rilassare del tutto il corpo. Quello che molti descrivono online come “orgasmo cerebrale”, che prevede la sollecitazione di tutti i sensi mediante meccanismi sinestetici. Dal punto di vista semiotico si può affermare che si assiste alla messa in scena delle qualità sensibili degli ingredienti stimolando vista e soprattutto udito. Si enfatizza la percezione, per esempio, della croccantezza della pancetta soffritta o la sofficità di una pagnotta, ma anche il calore dell’olio bollente, il crunch del pane tostato. Ne deriva una performance culinaria che si fonda sul regime estesico tipico del linguaggio saporito, sistema basato su ragionamenti percettivi e polisensoriali, “dove si opera tramite processi percettivi non più legati a schemi cognitivi dati ma a una presa in carico diretta delle qualità sensibili proprie alle sostanze gastronomiche – in rapporto fra loro per contrasti sintagmatici o per rinvii paradigmatici, e in relazione a contenuti specifici grazie a sistemi semisimbolici ad hoc” (Marrone 2022, p. 105). Se Men with the pot riesce a rilassare lo spettatore proiettandolo in un ambiente naturale, il profilo Instagram di Turkuaz Kitchen12 , gestito dalla fotografa e food creator Betul Tunc, ha il potere di incantare e distendere il corpo dell’osservatore grazie alla visione di un fare culinario che pone in risalto l’aspetto estetico del cibo, la sua bellezza esteriore, all’interno di una cornice vintage-country dai toni cromatici caldi e dalle linee morbide e avvolgenti. L’inquadratura dall’alto mostra infatti un piccolo set allestito in ogni dettaglio. Si distingue il legno antico del tavolo che funge da base, si notano i fogli di giornale d’epoca che sostituiscono panni da cucina e carta da forno, ma anche i frullini a manovella, i setacci di ferro, i piatti e le ciotole. L’isotopia del vintage (Panosetti, Pozzato 2013) agreste viene inoltre enfatizzata dall’abbigliamento rustico della cuoca, della quale si conosce solo la parte centrale del corpo, di cui spiccano le mani, riprese nell’atto di esprimere il loro sapere (Figg. 7.1-7.2). Fig. 7.1. – La cuoca utilizza foto e Fig. 7.2. – La cuoca utilizza uno giornali vintage come sfondo per la strumento antico per spremere i limoni. preparazione. 11 www.wikipedia.org/wiki/Autonomous_sensory_meridian_response, consultato il 10/05/2023. 12 www.instagram.com/turkuazkitchen/reels/, consultato il 10/05/2023. 326 Ad accompagnare questa messinscena teatrale, non vi è alcuna voce umana e non vi sono sottotitoli che istruiscono sulla ricetta. Conducono lo spettatore a livello sonoro brani strumentali, classici e non, dall’andamento alterno, lento o rapido, insieme a una serie di suoni tecnici, emanati da ingredienti e utensili, che sembrando voler far sentire all’ascoltatore estasiato la loro di voce, il loro linguaggio culinario, fatto di contrasti sensoriali. In questi ultimi due casi, emerge uno scenario dominato dall’estesia, in cui prevale la componente plastica del linguaggio, e dove sembra di assistere a vere messinscene teatrali. Lo spazio riservato alla ricetta scritta, sia su Instagram che su Tik Tok, è la caption dei post. Uno spazio “altro”, didascalico, percepito dall’utente come marginale e secondario in relazione ai prodotti audiovisivi. I piatti realizzati sono spesso elaborati, le preparazioni sono complesse, richiedono diversi passaggi, sovente celati e dati per impliciti. Tutto questo contribuisce a far emergere la figura di un cuoco competente, ripreso nell’atto di un’esibizione culinaria, e nell’esaltazione dei suoi valori identitari, del suo stile di vita, ora green e wild, ora vintage e country. Contenuti digitali che si possono definire come espressioni di forme di vita, rotture delle strutture narrative e discorsive predefinite, dove a essere valorizzata è solamente l’estetica del comportamento, della pratica messa in risalto, del gesto esibito (Marrone 2007). L’enunciatario presupposto, in questi casi, è un soggetto alla ricerca di una sensazione euforica, piacevole, ipnotica, in cui proiettarsi per qualche minuto, abbandonando il proprio corpo e i propri sensi a un’esperienza polisensoriale e sinestetica, costruita dal testo come un oggetto di valore a cui ambire. Come si può dedurre, la trasformazione del testo gastronomico della ricetta in un “fare esibizionista” appare come una tendenza molto diffusa nei social network, ma i patti comunicativi che si riscontrano fra enunciatori ed enunciatari sono sempre differenti. In alcuni casi prevale un rapporto dialettico critico e arrogante (come per Notorious_foodie), in altri amichevole (come per Cucina con Ruben e per Chef Max Mariola), in altri ancora ironico e divertente, in cui la valorizzazione ludica della performance culinaria appare esplicita e fortemente marcata. Quest’ultima dimensione la ritroviamo, per esempio, nei contenuti audiovisivi dei profili Tik Tok e Instagram di Man can cook13 e di 2men1kitchen14. Nel primo, assistiamo agli spettacoli esilaranti di Daniel Rankin, un food creator e coach sportivo dal fisico palestrato, accompagnato dal suo fedele amico a quattro zampe, un carlino paziente, immobile, dallo sguardo sovente spaesato, il cui unico compito è osservare l’agire danzante del suo padrone/cuoco sex- symbol, accrescendo, sul piano del contenuto, l’effetto di senso stravagante della messinscena culinaria. A ballare non è solo Daniel, ma ruotano e saltano con lui anche fruste, scope, frullini, sbattitori in un susseguirsi di inquadrature ammiccanti di muscoli, volti e cibo (Figg. 8.1-8.3). Esaltazione visiva del gusto, come fattore estetico, umano e culinario. Uno spettacolo eccentrico, che mira a far emergere le qualità ipersensibili del cibo come del cuoco, mediante riprese ravvicinate, spezzate, di pietanze e corpi strabordanti, in un processo di richiamo continuo e identificazione reciproca. Man can cook innesca un’estrema spettacolarizzazione, che si manifesta con la quasi totale scomparsa dell’attenzione verso le fasi di preparazione dei piatti. Queste si confondono, fra balli e travestimenti vari, annullando del tutto l’intento istruttorio. Se si vuole comprendere i passaggi della ricetta bisogna uscire fuori dalla cornice del video, leggere la descrizione del post o cercare all’interno del sito web. Nel secondo caso preso in esame, 2men1kitchen, i due protagonisti della performance gastronomica, con fare ironico e divertito, mettono in scena opere di camouflage sempre più ambiziose, svelandone al contempo il retroscena e tutto il lungo processo che le ha portate alla ribalta. Si è di fronte a un attante duale (Greimas 1976), la coppia di amici, entrambi agenti di un unico programma d’azione, esibire la loro capacità di produrre magie culinarie, svelandone i meccanismi celati e, di conseguenza, la loro competenza tecnica. I piatti che vengono realizzati giocano sui regimi di veridizione, sui giochi di finzione, quindi sull’opposizione semantica fra essere e apparire. Per esempio, ciò che, a livello dell’espressione, appare come un arrosticino di carne, a livello gustativo risulta essere una torta al cioccolato (Figg. 13 www.tiktok.com/@mancancooknz, consultato il 10/05/2023. 14 www.tiktok.com/@2men1kitchen, consultato il 10/05/2023. 327 9.1.-9.2.). Si innescano, così, dei cortocircuiti percettivi, che attirano lo spettatore e lo spingono a voler scoprire l’inganno. Il soggetto enunciatore, dal canto suo, vuole sorprendere, vuol far-vedere, all’enunciatario, che si presuppore essere incredulo, tutti quei meccanismi segreti che consentono la realizzazione del camuffamento. Fig. 8.1. – Daniel presenta la sua Fig. 8.2. – Daniel mentre cucina canta Fig. 8.3. – Daniel affronta la ricetta ricetta in modo seducente davanti e utilizza la frusta come microfono. con un travestimento da saldatore. a un camino. Fig. 9.2. – Si mostra il Fig. 9.1. – Questi arrosticini si procedimento, l’utilizzo di rilevano essere una torta Sacher. utensili da cucina e di dosi precise. 328 5.4. Ricetta cerimoniale Il destinante giudicatore nella stragrande maggioranza delle video-ricette prese in esame appare iscritto nel testo stesso. Solitamente chi cucina, al termine della preparazione, assaggia il proprio piatto, sanzionando positivamente, attraverso sguardi compiaciuti, esclamazioni colorite e pollici all’insù, l’ottima riuscita della ricetta. Negli ultimi anni, tuttavia, spopolano su Tik Tok i cosiddetti duetti, video in cui il soggetto operatore, che realizza il piatto, e il soggetto giudicatore, che lo valuta, si scindono, e in cui a prevalere è la figura del giudice. Lo spettatore assiste alla visione contemporanea di due esibizioni. Lo schermo appare diviso in due parti: da un lato, vi è la ripresa, solitamente frontale, dell’autore del duetto, intento a guardare, commentare e giudicare il video riportato a fianco. Sembra che l’autore del duetto, assuma su di sé anche il ruolo di attante informatore, poiché commentando il video, fornisce indicazioni e indirizza lo sguardo dell’osservatore. Questi video, soprattutto nel settore food, hanno spesso una natura polemica, conflittuale, critica, a volte parodica. Tendono a screditare il fare culinario altrui, giudicandolo negativamente. È ciò che accade in profili come ilmori15, in cui viene messo in mostra lo scontro fra un expertise, quella del chimico gastronomico, e un’altra, quella dei food creator più popolari. Il “tiktoker” Guido Mori si diletta nella demolizione della competenza degli altri, sottolineando gli errori commessi e spiegando le ragioni tecniche e chimiche delle sue osservazioni (Fig. 10.1.). Dal punto di vista dell’enunciazione, si può presuppore come enunciatario del testo, un soggetto diffidente nei confronti dei fenomeni del web, alla ricerca di una attendibilità scientifica, “vera”, forse anche un po’ complottista. Fra i commenti dei follower che supportano il chimico Mori, si leggono frasi come “Maestro ci faccia la ricetta vera”, “Mi viene da piangere, la gente che ha soldi spesso non rispetta la cucina e non pensa a cosa c’è dietro un prodotto”, “L'avevo sospettato che fosse un impostore... Tu me lo confermi”, “a parte il discorso economico, credo che sia una mancanza di rispetto verso l’essere vivente che è stato ucciso per fare questa m°°°data immonda”. Oltre ai sostenitori, fra i commenti, si trovano anche coloro che criticano l’azione demistificatrice del Mori, accrescendo l’effetto polemico che caratterizza il tipo di contenuto (“Sai che puoi criticare senza essere spocchioso e maleducato?”, “Caro Mori sembri la parodia di te stesso… fai ridere già solo per questo…”, “Qualcuno ha mai visto un video dove cucina di questo personaggio oppure sa solo criticare”, “Sei sgradevole”). Indagando a fondo sugli audiovisivi di questa tipologia, ci si è resi conto che, in effetti, esistono differenti casi in cui lo scopo del duetto non è denigratorio, ma opposto: di esaltazione, magnificazione e di piacevole visione. È ciò che si ritrova in molti video di Tik Tok del celebre Gordon Ramsay16 (Fig. 11.1.), in cui lo chef-commentatore vive la visione della video-ricetta con trepido interesse, culminando con esclamazioni di ammirazione ed entusiasmo (“Gorgeous!”, “Very beautiful!”) Non fornisce informazioni e dettagli aggiuntivi, si limita a mostrare allo spettatore la sua esperienza di osservazione, iscrivendo nel testo un tipo di reazione ideale, quella che lo spettatore potrebbe avere da casa guardando la medesima ricetta. Il destinante giudicatore, in questi casi, si configura infatti come un attante osservatore, imita il fare dello spettatore, un enunciatario ideale giovane che utilizza i social per divertirsi e cedere all’intrattenimento spassionato. Emerge, quindi, come questo genere testuale ponga al centro gli aspetti legati alla sanzione gastronomica, che appare articolata mediante un discorso di tipo passionale, euforico o disforico, in continua oscillazione fra la patemizzazione e l’emozione, che lo spettatore avverte. Il chimico Mori, per esempio, appare quasi sempre arrabbiato e irritato, in uno stato passionale disforico, al contrario lo chef Ramsay risulta assoggettato a una passione euforica, preso da gioia, entusiasmo e gola. 15www.tiktok.com/@ilmori?lang=it-IT(profilo), www.tiktok.com/@ilmori/video/7198933155187821829?lang=it-IT (duetto). 16 www.tiktok.com/@gordonramsayofficial?lang=it-IT (profilo), consultato il 10/05/2023. www.tiktok.com/@gordonramsayofficial/video/7231662442361670939?lang=it-IT (duetto), consultato il 10/05/2023. 329 Fig. 10.1. – Duetto di Guido Mori. Fig. 11.1. – Duetto Gordon Ramsay. 6. Conclusioni Proviamo adesso a tirare le fila di questo percorso, focalizzando l’attenzione sugli aspetti che maggiormente caratterizzano il genere testuale della ricetta nei social media. Come in ogni fenomeno di traduzione intersemiotica, anche in questo caso, vi sono degli elementi invarianti e sopravvissuti al processo di trasposizione, come ad esempio la relazione fra enunciatore dotato di un saper fare ed enunciatario poco competente, ma vi sono anche dei tratti varianti, inediti, che ricorrono nei diversi video sottoposti ad analisi, i quali risultano portatori di cambiamenti significativi. Una prima considerazione riguarda il ruolo tematico del cuoco, la cui personalità, nelle video-ricette osservate, risulta essere elemento indispensabile per l’affermazione della popolarità del content creator e, di conseguenza, della validità delle ricette proposte. Sembra che sui social il ruolo tematico del cuoco si dia in concomitanza ad altri ruoli tematici: ci sarà così il cuoco-amico, il cuoco-confidente, il cuoco- sex symbol, il cuoco-palestrato, il cuoco-amante della natura, il cuoco-ex concorrente di Masterchef, il cuoco-chimico, il cuoco-giudice, il cuoco-fotografo, il cuoco-prestigiatore. Tale combinazione influenza fortemente lo stile culinario delle video-ricette nonché i patti comunicativi. Il cuoco-sex symbol (Man can cook), in modo ironico e divertente, mette in scena uno spettacolo gastronomico, saltando, ballando e ammiccando alla camera; il cuoco-amico (Cucina con Ruben), cucina con piacere insieme ai suoi convitati; il cuoco-wild (Men with the pot) si avventura in lunghe preparazioni in mezzo alla natura, ai suoi suoni, con utensili d’accomodo e non; e ancora, il cuoco-prestigiatore (2men1kitchen), si diverte a svelare i suoi trucchi, e quindi le sue abilità di camouflage, al pubblico. Affiora, così, contrariamente a quanto accade in molti ricettari tradizionali, una forte componente autoriale. Lo stile delle ricette di Bendetta Rossi è ben riconoscibile, come anche quello dello Chef Max Mariola, di Notorious_foodie, di Turkuaz Kitchen. Questa ampollosità mediatica della personalità dei food creator, ci porta a riflettere sull’obiettivo che costituisce lo sfondo della maggior parte delle video-ricette social, ovvero quello di attrarre lo spettatore, istallando un rapporto di fiducia duraturo che porti il follower fidelizzato a seguire il proprio beniamino ovunque, dentro e fuori la rete. Un tipo di comunicazione che, recuperando quanto formulato da Landowski (1989) in merito al discorso pubblicitario, segue la logica del contratto più che quella dell’acquisto, poiché, ponendo in primo piano i desideri e non i bisogni degli spettatori, la sfera soggettiva dei food creator e la relazione intersoggettiva con i propri follower, lascia sullo sfondo la trasmissione del valore istruttorio della ricetta. 330 Una seconda considerazione è legata all’estesia, alla forte sollecitazione sensoriale che permea la stragrande maggioranza delle ricette social, nonché alla relazione fra corpo, sensi e cibo messa in scena. Foto, inquadrature e suoni mettono sotto i riflettori le qualità sensibili degli ingredienti e della pratica gastronomica, dando maggiore enfasi alla dimensione plastica del linguaggio. Si susseguono immagini contrastanti, materiche, che istallano nell’osservatore un tipo di sguardo aptico, “cioè tattile, sinesteticamente capace di far emergere, grazie all’ipertrofia della visione, la materia supposta ‘pura’ del cibo” (Marrone 2016, p. 233), tipico del food porn. Rispetto al passato, oggi sembra avere un ruolo determinante la componente sonora, focalizzata molto spesso sulla riproduzione del suono del cibo (pane abbrustolito, cipolla croccante), delle tecniche di cottura (arrostire, bollire, friggere), delle azioni messe in atto (tagliare, tritate), ma anche degli ambienti che accolto la performance culinaria (cucina, montagna, balcone). Nell’universo social, non si mangia più solo con gli occhi. L’udito diventa un senso privilegiato, forse ancor più della vista, per sollecitare, in modo sinestetico, il senso del gusto e comunicare il fare culinario. Riassumiamo nella tabella di seguito (Tab. 1) le differenze fra tutte le video-ricette analizzate. 331 Tabella 1 Tabella comparativa delle video-ricette social Valore Ruolo del Spazio Agogia Spettatore istruttorio Valori culinari cuoco ricetta Angoli Vuole Ricetta della Cuoca- Non Tradizione e Valeria Raciti Rilassato ascoltare e virtuale cucina di narratrice presente famiglia guardare casa Condivisione Fatto in casa da Cucina di Cuoca- Vuole Fortement Lento di saperi Benedetta casa insegnante sapere e presente culinari Ricetta Amicizia, potenziale Cucina con Balcone di Vuole convivialità, Rapido Cuoco-amico Presente Ruben casa sapere arte di arrangiarsi Chef Max Fluido e Cuoco- Vuole Amore e Terrazzo Presente Mariola rilassato confidente sapere passione Spazi ristretti Veloce, Cuoco-artista Vuole Notorious_foodie della fortement Assente Arte culinaria misterioso guardare cucina e scandito di casa Cuoco-wild Vuole Men with the Lento e Montagna (amante della guardare e Assente Relax e natura pot rilassato natura) ascoltare Cuoca- Bellezza Ricetta Turkuaz Sezione di Lento e fotografa Vuole Assente estetica performativa Kitchen un tavolo rilassato (appassionata guardare vintage) Cucina di Cuoco-sex Vuole Divertimento e Man can cook Rapido Assente casa symbol guardare gioco Sezione di Rapido e Cuoco- Vuole 2men1kitchen un Assente Sorpresa, gioco fluido prestigiatore guardare bancone Spazi Cuoco- Professionalità Vuole ilmori interni o Fluido giudice Assente e sapere guardare esterni negativo scientifico Ricetta cerimoniale Spazi Cuoco- Vuole Gordon Ramsay interni o Rapido giudice Assente Gioco guardare esterni positivo 332 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. 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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3117
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Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario Lucio Spaziante Abstract. The paper deals with a semiotic analysis of the literary text, focusing on Richard Yates’ novel Revolutionary Road (1961): a dramatic mid-twentieth-century portrait of social appearances and their negative impact on personal identities. The analysis was carried out by a group of students as part of a seminar at the University of Bologna, in the master’s degree program in Semiotics, and constitutes the outcome of an experiment that led to a research product through a didactic process. In the first phase, the novel was analyzed in each individual chapter; then, through didactic coordination, a few macro-themes (spatiality, temporality, corporeity, gender) emerged which the subgroups proceeded to a specific in-depth study. Among the results, it appeared how spatiality is a relevant feature not in itself, but in relation to the sense effects it produces: such as the opposition between public and private, and the relationship between social appearances and intimate dimensions. The temporal dimension was also considered relevant: a back-and-forth between past and future related to the characters’ nostalgia for a future they never realized. Finally, the analysis showed the relevance, within the novel, of the correlation between corporeality, gender and passions, not only functional to describe the characters, but to define their status as social bodies, which in the fictional story possessed a higher value than natural bodies. 1. Introduzione. Un esperimento metodologico L’articolo è il risultato di un esperimento che intendeva incrociare la didattica con la ricerca, e assieme ragionare sulla metodologia di analisi semiotica del testo, in special modo quello letterario. Si tratta di un’analisi del romanzo Revolutionary Road di Richard Yates (1961), libro che ha vissuto di una rinnovata notorietà grazie all’omonimo adattamento cinematografico 1 , diretto e prodotto da Sam Mendes (USA 2008), con protagonisti Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. L’analisi è stata portata avanti da un gruppo2 di studentesse e studenti del corso di laurea magistrale in Semiotica dell’Università di Bologna, da me coordinato, all’interno di un seminario extra-curriculare legato all’insegnamento di Metodologia di analisi II. L’idea era quella di provare ad analizzare un corpus di taglia ampia, quale è un romanzo, grazie alle forze collettive di un gruppo composto da una decina di persone. Di fronte ad un corpus simile, si pongono anzitutto problemi di articolazione e selezione del testo, nonché l’ardua decisione di quali criteri analitici adoperare. Se si fosse trattato di un convegno, si sarebbe data ampia scelta agli studiosi di approcciare l’analisi secondo le rispettive peculiarità, con il 1 Il piano di lavoro prevede anche una seconda fase successiva da dedicare all’analisi del film Revolutionary Road, sempre con una chiave laboratoriale, con una comparazione tra i due testi e un approfondimento sul tema della traduzione intersemiotica tra letteratura e audiovisivi. 2 Il gruppo di ricerca coordinato da Lucio Spaziante è composto da: Stefano Acquisti, Delia Cabrelli, Nicolas Chiappucci, Federico de Filippis, Elena Evangelista, Lucia Lorusso, Adele Piovani, Lorenzo Ravizza Maritano, Alessandro Rugiati, Rachele Vanucci. In nota ai titoli dei singoli paragrafi sono indicati specifici riferimenti ad autrici e autori, ma la stesura è stata operata mediante un confronto continuo tra i diversi paragrafi, operato collettivamente. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). risultato di una pluralità di voci, e con un focus molto mirato. Trattandosi di un progetto didattico, la scelta è invece ricaduta su una sorta di screening totale del testo. Il romanzo possiede una propria suddivisione interna in tre parti, per una complessiva articolazione in ventidue capitoli. Ognuno dei dieci componenti del gruppo, dunque, ha ricevuto un numero equo di capitoli da analizzare, senza una articolazione precostituita: ciò ha significato “mettersi davanti al testo”, e procedere a fare emergere ciò che le salienze indicavano. Sin dall’inizio questo lavoro “grezzo” è stato accompagnato da incontri e scambi di idee, nonché dall’uso di una piattaforma online di condivisione, dove poter leggere i rispettivi lavori in corso. Gli incontri nelle aule universitarie sono iniziati nel dicembre 2022, a margine delle lezioni del corso. Sono poi proseguiti durante l’intero anno successivo, compreso il periodo delle vacanze estive, grazie all’ausilio di piattaforme online. Un passaggio importante è stato quello di armonizzare secondo un modello condiviso le analisi dei capitoli che venivano portate avanti, con i loro approcci individuali, da singole studentesse e studenti. A questa fase di confronto, ho contribuito cercando di fare emergere le tematiche prevalenti nel romanzo e nelle analisi (spazio, tempo, corporeità e genere) attorno alle quali si sono poi costituiti quattro sottogruppi, ognuno dei quali ha realizzato la stesura collettiva di un paragrafo. Il mio compito successivo è stato quello di: unificare le parti, compiere una revisione con richiesta di ulteriori interventi di modifica, e realizzare un controllo editoriale complessivo, senza però modificare nella sostanza i contenuti originali. La stesura finale di questo articolo si è conclusa nel settembre del 2023. 1.1. Breve sinossi Per apprezzare l’analisi sarebbe naturalmente utile conoscere il romanzo, ma per facilitare la lettura dell’articolo è comunque possibile fornire alcune minime informazioni sulla trama. Frank e April Wheeler sono una giovane coppia – un impiegato e una casalinga con due bambini – che negli anni Cinquanta prende casa in un quartiere residenziale nel Connecticut, sotto la guida dell’agente immobiliare, Mrs. Givings. Il loro apparente quieto benessere borghese nasconde la frustrazione di due giovani di belle speranze che anelavano, o almeno lo credevano, ad una vita avventurosa da artisti in Europa. La nascita dei bambini li costringerà a rinunciare ai loro progetti, rinfacciandosi la reciproca infelicità. I tentativi di affrancarsi dalla normale routine quotidiana risulteranno vani e aggraveranno ulteriormente la loro situazione iniziale. Attraverso i protagonisti, e alcune figure di contorno altrettanto efficaci nei loro ruoli, come la famiglia Givings o i vicini di casa Campbell, il romanzo presenta un efficace e drammatico affresco di metà Novecento sulle apparenze sociali e la loro ricaduta negativa sulle identità personali. 2. Spazialità e interiorità: i luoghi della finzione e della sincerità3 In questo paragrafo ci concentreremo innanzitutto sulla spazialità, concetto cardine dell’intera opera, a causa della rilevanza dei diversi luoghi nella narrazione, in base alla quale si possono avanzare varie riflessioni sulle opposizioni isotopiche a essi associate. In primo luogo, si possono notare due opposizioni principali: 1. pubblico/privato: si riferisce ai luoghi fisici, e agli ambienti in cui si muovono i personaggi; 3 A cura di Elena Evangelista e Lucia Lorusso. 336 2. esteriore/interiore: non riguarda luoghi concreti, ma quelli legati alla corporeità. Cioè, da un lato il modo con il quale i personaggi si mostrano all’ esterno e le azioni che compiono (dimensione del fare); dall’altro quello che i personaggi pensano e provano (dimensione dell’ essere e del sentire). Ma queste opposizioni spaziali non restano mai isolate: i luoghi, fisici o corporei, si associano sistematicamente ad un’altra coppia di isotopie, cioè quella di finzione/sincerità. Nel corso del romanzo vedremo quanto tali opposizioni siano intrecciate tra loro e varino per la coppia protagonista, April e Frank Wheeler, in base a quanta affinità c’è tra di loro, creando un vero e proprio semisimbolismo figurativo tra pubblico/privato ed esteriore/interiore e la coppia finzione/sincerità4. Si può notare da subito, inoltre, un’ulteriore isotopia che, alla fine, si rivelerà centrale, quella della malattia: uno stato interno e corporeo che influenza e sconvolge le opposizioni spaziali fino ad annullarle. 2.1. Una continua messa in scena Il romanzo si apre con uno spettacolo teatrale, mostrando con ciò la centralità della dimensione finzionale e assieme fornendo da subito una possibile chiave interpretativa: una traccia cooperativa (cfr. Eco 1979) che nello sviluppo della lettura diventa una caratteristica comune ai vari personaggi. Lo spettacolo è destinato al fallimento per la malattia di uno degli attori che dovevano andare in scena: una malattia, cioè uno stato interno, che conduce però a un cambiamento negativo nel mondo esterno. Qui April e Frank Wheeler vengono introdotti nella narrazione: la delusione per lo spettacolo porterà ad un loro litigio che andrà ad occupare l’intera prima parte del romanzo, rendendoli uno l’Anti- Soggetto dell’altro, fino a quando non emergerà quel comune Oggetto di Valore – il trasferimento a Parigi – che definirà un Programma Narrativo (PN) condiviso. È possibile individuare un ulteriore criterio di suddivisione degli spazi, relativamente alla prima parte: 1. privato, quando un personaggio è da solo o in luoghi di passaggio; 2. pubblico, quando un personaggio è con altri. Tale divisione è motivata dal fatto che i due personaggi, a causa della lite, si trovano molto spesso da soli con i loro pensieri e cambiano radicalmente atteggiamento quando sono in compagnia di altri. La cosa appare evidente, ad esempio, nella sequenza in cui Frank percorre il corridoio per andare nel camerino di April, sino a quando ne esce per disdire l’appuntamento con i Campbell: egli passa da uno stato angoscioso (quando è nel privato), ad una simulazione (quando è in pubblico con April), fino ad una totale messa in scena, quando è con gli amici (RR5, pp. 52-56). Questa associazione tra spazi e finzione/sincerità non è esclusiva di April e Frank, ma è presente anche negli altri personaggi, sebbene in modo diverso. Mentre tra i due protagonisti l’intreccio tra le opposizioni evolve e varia in base al loro rapporto, nelle diverse parti del romanzo (come vedremo nei prossimi paragrafi), questo non accade a tutti gli altri personaggi, per i quali l’associazione rimane la medesima. Lo dimostrano, ad esempio, il vicino di casa Shep Campbell nel capitolo 2 della seconda parte o l’agente immobiliare, la signora Givings, nel capitolo 3 della seconda parte. Tutto ciò che è esterno e pubblico è generalmente associato con l’isotopia della simulazione. È come se gli attori ricoprissero un ruolo tematico da loro scelto o a loro associato, ma sempre caratterizzato da una dimensione finzionale: “il buon collega”, “il marito” o “l’intellettuale”. Lo si può notare, ad esempio, quando i Campbell vanno a cena dai Wheeler, e Frank Wheeler inizia un monologo su un tema di portata universale che occupa un’intera pagina: “È di decadenza che parlo […]” (RR, p. 115). 4 Il semisimbolismo figurativo nel testo letterario, cui questa analisi fa riferimento, si può trovare in Lancioni (2009), in particolare in relazione all’esempio di Pinocchio. 5 Le citazioni dal romanzo Revolutionary Road (Yates 1961) verranno d’ora in poi sempre indicate con RR. 337 L’interno, dall’altra parte, è il luogo della sincerità. Nel corso delle pagine, infatti, esplorando principalmente il personaggio di Frank, notiamo che nel privato, nonostante lui cerchi di autoconvincersi delle sue azioni, in realtà si tradisca e lasci andare tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, facendo emergere uno stato passionale caratterizzato dall’ansia. Tutto questo permette di rilevare, fin da subito, un semisimbolismo che si articola sull’asse valoriale e su quello modale (Lancioni 2009, p. 70). La correlazione reggerà l’intero romanzo fino all’emergere della malattia come isotopia centrale: Pubblico ed esteriore Privato e interiore Valoriale Finzione Sincerità Modale Sembrar-essere Essere 2.2. Il sogno bohémienne La seconda parte del romanzo si apre con un equilibrio ristabilito: Frank e April non sono più in contrasto, ma condividono lo stesso PN principale – cioè la comunicazione della loro partenza – composto a sua volta dai tanti PN d’uso. Qui l’opposizione precedente si modifica: il privato diventa il luogo della coppia e della sincerità. I due riescono a parlarsi e a comprendersi senza la necessità di recitare. Luoghi come la casa, passano da disforici a euforici e, apparentemente, ciò che prima avveniva in solitudine, adesso contempla sempre anche il partner. Il pubblico è legato a tutti i luoghi in cui Frank e April, assieme o da soli, interagiscono con altri nel comunicare la loro partenza. Per esempio, il comportamento dei Campbell a casa loro è cosparso di finto perbenismo e falsa felicità per la loro scelta di partire, mentre Frank e April recitano il ruolo di improvvisati “avventurieri” (finzione): “Abbiamo deciso di trasferirci in Europa. A Parigi. Una volta per tutte! […] Oh, una o due settimane fa… […] non ricordo esattamente. So solo che ad un certo punto abbiamo deciso di andarcene, ecco tutto” (RR, p. 215). L’opposizione interiore/esteriore, quindi, si annulla nel privato, cioè quando Frank e April non fingono l’uno di fronte all’altro, dicendo finalmente ciò che pensano e provano. Resta invece valida nel pubblico, come nella prima parte del romanzo. Un altro tema ad emergere in questi capitoli è quello della malattia, incarnata principalmente da John Givings, figlio della signora Givings (l’agente immobiliare), e da tempo in cura per patologie psichiatriche. Egli si comporta in modo brutalmente schietto, creando così un’associazione valoriale tra malattia e sincerità. Ad esempio, esprime un punto di vista rivelatorio su ciò che ha portato Frank a fare un lavoro che non lo soddisfa: “[…] se uno vuole mettere su una casa molto carina, molto deliziosa, deve accettare un lavoro che non gli piace. Semplice” (RR, p. 261). Tra il suo personaggio e i Wheeler si creerà una sorta di connessione proprio nel momento in cui questi ultimi diventano sinceri tra di loro. Ciò diventerà evidente al termine della passeggiata nel bosco, ovvero l’unico luogo pubblico in cui prevale la sincerità. April dice a Frank riferendosi a John: “È la prima persona che dà sul serio l’impressione di capire quello che diciamo” (RR, p. 267). In questo apparente climax di felicità ed euforia, dove i protagonisti si sentono finalmente connessi ai loro progetti bohémienne, April rimane incinta. Questo sarà l’elemento che innescherà la crisi e la seguente rottura della stabilità di coppia. Dal punto di vista di April, anche la gravidanza indesiderata può essere intesa come una malattia. E ciò porterà al ripetersi della situazione descritta all’inizio della prima parte: un cambiamento interno, porta alla rottura dell’equilibrio esterno. 338 2.3. La malattia che annulla le opposizioni La terza parte del romanzo è caratterizzata, dunque, dal caos più totale e dal capovolgimento delle dinamiche di coppia: si ritorna al punto di partenza, ma con un netto peggioramento. La gravidanza inattesa porta uno sconvolgimento, con Frank e April che, collocati su due PN opposti, ritornano ad essere l’uno l’Anti-Soggetto dell’altro: lui vuole tenere il bambino e sospendere il viaggio; lei vuole abortire e non ha alcuna intenzione di rinunciare a Parigi. La novità emerge nel personaggio di April, che qui cade in depressione (malattia), iniziando a non curarsi più del luogo e delle persone, e abbattendo anche il velo di finzione. Ella è finalmente sé stessa, mostrando ciò che pensa: sia in casa – per esempio dicendo a Frank: “[…] io non ti amo […] e non ti ho davvero mai amato” (RR, p. 370); sia nella Capannina, il locale in cui si trovano con i Campbell, togliendosi la maschera della “brava moglie”. “April appariva remota ed enigmatica, distaccata da chi le stava attorno come non era mai stata neppure nei suoi momenti peggiori, ma con la differenza che ora Frank rifiutava di preoccuparsene” (RR, p. 335). Quando April comunica a Frank la fine del suo amore, avviene un punto di rottura significativo: da lì in poi tutti luoghi sono contraddistinti dalla sincerità. Quando i due litigano tra di loro o con i Givings, sono sempre sinceri. Il romanzo [spoiler] si conclude con l’aborto pianificato da April, che la condurrà dapprima al ricovero in ospedale e poi alla morte. L’ospedale sarà caratterizzato allo stesso tempo dalla malattia e dalla massima sincerità: qui finalmente tutti i personaggi si lasciano andare e agiscono senza pensare a indossare alcuna maschera. Frank dirà: “Gesù, Shep non sono riuscito a capire neppure metà delle cose che mi ha raccontato” (RR, p. 417), mostrandosi vulnerabile per la prima volta. Ciò dimostra quello che fin dall’inizio il romanzo ha suggerito al lettore, che cioè la malattia è l’unica isotopia che annulla il semisimbolismo creatosi all’inizio e, quindi, la rilevanza dei diversi luoghi e della finzione, permettendo alla sincerità di primeggiare. 3. Il valore del tempo6 In relazione al discorso sulla temporalità, la scelta è stata innanzitutto quella di concentrarsi sulle diverse valorizzazioni (cfr. Pezzini 1998) che i Wheeler assegnano ad alcuni periodi della loro vita, e su come tali differenze assiologiche costituiscano il nucleo polemico (in senso semiotico)7 della vicenda. Partendo dalla suddivisione in passato, presente e futuro, riscontrabile anche nei meccanismi di prolessi e analessi (cfr. Genette 1972; Eco 1994) che abbondano nel romanzo, abbiamo operato ulteriori suddivisioni che ci permettono di rendere conto dei rapporti tra i vari personaggi. Il risultato ha assunto la forma di una struttura a cinque termini verso i quali April e Frank mostrano passioni, desideri, e valorizzazioni differenti: passato remoto / passato prossimo / presente / futuro / futuro anteriore. 3.1. L’organizzazione a cinque termini del tempo Il punto di partenza della nostra analisi è il presente, in quanto la sua centralità si riscontra soprattutto nella funzione di rendere intellegibili i rapporti che la gran parte dei personaggi intrattiene con gli altri tempi: non solo i coniugi Wheeler ma anche i coniugi Campbell, così come John Givings e sua madre. 6 A cura di Delia Cabrelli, Federico de Filippis e Alessandro Rugiati. 7 Cfr. Greimas, Courtés (1979, voce “contratto”, p. 53, e voce “polemico”, p. 245). 339 Passato remoto Passato Prossimo Presente Futuro Futuro anteriore Euforico per Frank Tempo dei rimpianti Disforico per entrambi Tempo dei progetti Euforico per April “Che razza di vita era mai quella? Quale in nome di Dio, era il succo o il significato o lo scopo di una vita del genere?” (RR, p. 104). Questo è uno dei tanti pensieri che i personaggi – in questo caso Frank – rivolgono al presente8 (ossia l’anno 1955, ovvero il T0 della narrazione) nella prima parte del romanzo. La valorizzazione della situazione odierna è percepita come disforica dai Wheeler, specie in due momenti consecutivi della narrazione. Nel primo (RR, cap. 4), Frank, conversando in salotto con i Campbell, rivolge parole di scherno verso certe abitudini borghesi, non rendendosi conto di come siano proprio quelle che caratterizzano la sua quotidianità. In un secondo momento (RR, cap. 7), più precisamente durante la notte del compleanno di Frank, April sottolinea come la loro vita coniugale non sia altro che una “oscena illusione” (RR, p. 170) che soffoca le loro vere essenze. Emblematico, in questo senso, è il personaggio di John Givings, ostracizzato e biasimato da tutti per il suo disagio psichiatrico, e che, come abbiamo già visto, è caratterizzato come l’unico personaggio (fatta eccezione per April) capace di vivere il presente per quello che effettivamente è: egli infatti, costretto a vivere la sua vita giorno per giorno, a causa della malattia che gli impedisce di avere ogni tipo di progettualità, possiede una visione estremamente cinica e disillusa della realtà. Ne è un esempio la discussione che intrattiene con Frank e April, nel quinto capitolo della terza parte, nella quale egli rivela a tutti la cruda realtà ipocrita della loro relazione e il reale motivo per cui non sono mai partiti: «Grand’uomo si è presa, April» [...] «Bravo capofamiglia, solido cittadino. Mi dispiace per lei. O forse siete degni l’uno dell’altra. Anzi, stando all’aria che lei ha adesso, comincio a dispiacermi anche per lui. Voglio dire, a ben pensarci deve avergli dato ben poche soddisfazioni, se fare dei figli è l’unica maniera che ha per dimostrare che possiede un paio di coglioni» (RR, p. 381). Il presente è una gabbia che, da un punto di vista passionale, genera repulsione e frustrazione e che fa sì che nei due personaggi si manifestino due atteggiamenti opposti. Frank viene caratterizzato come qualcuno per il quale “non c’era mai stato posto per il peso e l’urto della realtà” (RR, p. 51). Egli, infatti, mostra la tendenza a rifugiarsi in mondi possibili 9, da lui stesso creati per evitare di confrontarsi con il presente. Questo atteggiamento tiene ancorato Frank a una concezione di sé ormai anacronistica, appartenente al suo passato remoto10: egli si considera ancora quel ragazzo che appariva intelligente agli occhi di tutti coloro che lo incontravano. Come possiamo notare in molti flashback, Frank connota positivamente quel periodo. Queste analessi, oltre a servire allo scopo di riempire i vuoti lasciati nel passato, sono interessanti perché ibride a livello enunciativo, come se le soggettività del narratore e del personaggio si sovrapponessero nello stesso luogo. Infatti, se è il narratore che introduce il flashback (non siamo in presenza di un 8 Consideriamo come appartenenti al presente, le sequenze temporali che, a partire dal T0 della narrazione, proseguono in maniera lineare. Pertanto le prolessi e le analessi non rientrano in questa parte dell’analisi. 9 Il concetto di mondo possibile, mutuato dalla logica modale, viene teorizzato in chiave semiotica da Eco (1979), per renderlo uno strumento di analisi testuale. Con questo termine faremo riferimento a un qualsiasi corso degli eventi (sia esso un flashback o un agire predittivo-progettuale verso il futuro) sostenuto dagli atteggiamenti proposizionali (credere, volere, ricordare, pensare etc.) di uno dei personaggi. Per motivi di spazio abbiamo scelto di non eseguire un’analisi dettagliata come negli esempi proposti da Eco, quindi di tralasciare le proprietà S- necessarie et similia. Quello che ci interessa è mettere in rilievo la presenza di mondi alternativi rispetto al mondo di partenza del romanzo, che si manifestano nell’interiorità dei personaggi. 10 Da un punto di vista della fabula, consideriamo il passato remoto quel periodo della vita dei personaggi che termina con il trasferimento nella casa di Revolutionary Road. Questo include tutte le sequenze che riguardano l’infanzia e le sequenze che raccontano della loro vita giovanile nel Greenwich Village, a Bethune Street. 340 débrayage enunciazionale), e ciò porta ad assumere la veridicità dei fatti narrati, da un punto di vista passionale e percettivo, invece, sembra che l’ultima parola sia lasciata ai personaggi stessi, in una sorta di débrayage passionale: “L’odore della scuola nel buio – matite e mele e colla per rilegature – fece salire agli occhi di Frank una dolce, dolorosa nostalgia” (RR, p. 57, corsivo nostro). C’è quindi una revisione emotiva da parte del personaggio rispetto al tempo presente11. A un passato remoto memorabile – almeno per Frank – fa da contraltare un passato prossimo che si configura come l’origine dei mali del presente. Se a livello cronologico i due tempi in questione sono piuttosto vicini, da un punto di vista assiologico il passato prossimo è molto più vicino al presente, come evidenziato da April stessa: “È stato così che noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione” (RR, p. 170). Infatti, la prima gravidanza, avvenuta sette anni prima del T0, ha segnato una cesura tra una gioventù spensierata e quella fase della vita in cui le necessità prendono il posto dei sogni. A causa di una tragica infanzia e di una solitaria adolescenza (“Ti pareva ancora che stessi perdendo il meglio della vita?” “In un certo senso, sì. [...] Ero una specie di brutto anatroccolo tra i cigni”, RR, p. 346), April è portata a non avere un atteggiamento euforico nei confronti del passato e dimostra più volte, al contrario di Frank, di avere contezza del presente. Sono varie le interazioni tra i due dove April sembra assumere il ruolo della realtà, opponendosi ai mondi ideali di Frank: “L’unico vero errore, l’unica cosa falsa e disonesta, era stata semmai quella di aver scambiato Frank per qualcosa di molto più importante. Oh, per un mese o due, tanto per divertirsi un po’, poteva anche andar benissimo un giochetto del genere con un ragazzo; ma tutti quegli anni!” (RR, pp. 400-401). Queste caratteristiche portano April ad avere un atteggiamento opposto a quello del marito: data la consapevolezza della loro situazione, ella progetta allora il trasferimento in Europa. Un mondo futuro che permetta loro di uscire dal loro presente disforico e che, trattandosi di un sogno di gioventù, abbiamo definito come futuro anteriore (“Era un nuovo, complicato piano per trasferirsi in Europa”, RR, p. 165). L’atteggiamento dei due personaggi è opposto, inoltre, anche per quanto riguarda l’aspettualizzazione. In entrambi c’è la volontà di rendere iterativo qualcosa, ma c’è una profonda differenza riguardo alla natura di questo oggetto: Frank si protende verso l’iterazione di qualcosa di terminativo (il passato remoto), mentre April lo fa verso qualcosa che non è mai andato oltre lo stato incoativo (la loro intenzione di andare in Europa, rimasta solo un progetto). A questo punto entra in gioco la questione del futuro, cioè il tempo delle proiezioni. Dal primo capitolo della terza parte in poi, infatti, April e Frank sviluppano due programmi narrativi (PN) oppositivi proprio a partire dalle due rispettive aspettualizzazioni (passato remoto per Frank e futuro anteriore per April). I due attori ricoprono gli stessi ruoli attanziali: sono entrambi due Soggetti che si rinfacciano a vicenda di essere l’uno il Destinante negativo dell’altro, rendendosi due Anti-Soggetti speculari. Il raggiungimento dell’Oggetto di valore per uno, corrisponde all’allontanamento dall’Oggetto di valore per l’altro. I due PN sono quindi mutualmente esclusivi, e per questo la vicenda assume la forma di uno scontro. Come sottolinea Guido Ferraro: nei casi più interessanti lo scontro fra i Soggetti è scontro fra concezioni del mondo, e dunque fra criteri alternativi per l’investimento di valori: in tal caso, Soggetto e Anti-Soggetto non potranno, per definizione, competere per qualcosa che sia allo stesso modo Oggetto di valore per entrambi (2012, p. 45). E questo è il nostro caso. Il futuro per April è andare in Europa (futuro anteriore), mentre il futuro per Frank è restare in America (passato remoto) ed entrambi gli Oggetti di valore sono dipendenti dal verificarsi o meno della gravidanza. Frank è quindi l’ostacolo al PN di April e viceversa e, nonostante 11 Da questo tipo di analessi si differenziano, ad esempio, quelle messe in scena nell’ultimo capitolo, in cui il débrayage è completo, e sia la narrazione degli eventi sia la ricezione passionale sono lasciate ai personaggi. 341 questo, entrambi hanno bisogno dell’altro per il raggiungimento dell’Oggetto di valore. Per questo motivo il controllo del tempo è valorizzato euforicamente (vi sono continui riferimenti all’osservazione di calendari e orologi, soprattutto nel momento di decidere in merito alla gravidanza) in una illusione di controllo sugli eventi futuri, poiché chi perde il controllo perde l’Oggetto di valore. Entrambi i Soggetti portano a compimento il loro PN attraverso l’unica tragica soluzione alla quale sono destinati, ovvero separarsi: Frank proseguirà con la sua vita lavorativa e April interromperà la gravidanza, pur con tragiche conseguenze, perché “se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli” (RR, p. 409). 4. Il controllo dei corpi12 La logica del sentire tensivo, nel romanzo, ha a che vedere con gli sviluppi figurativi di tematiche relative alla corporeità e alla sensorialità. La descrizione della sfera emotiva non è esplicita, ma piuttosto passa per la corporeità, ed il lettore percepisce i sentimenti attraverso gli effetti somatici delle passioni. È il corpo ad esprimere il groviglio di emozioni, mentre i giudizi, indirettamente, passano per la conformazione plastica quotidiana dei corpi. Il linguaggio corporeo, nella sua apparente naturalità, “connota” e si sostituisce al puro parlato dei personaggi, divenendo atto di significazione (Greimas 1976, p. 231). A seguito della lite con April, che apre drammaticamente la vicenda, ci vengono mostrate l’impotenza e la frustrazione di Frank la mattina seguente, a partire dalla descrizione delle sue mani: gonfie e pallide, con unghie smangiate (RR, p. 78). La configurazione corporea rende conto di un indiretto /non-poter- fare/ da parte del Soggetto, una disposizione d’animo in un atteggiamento di distacco dal quotidiano; un sentore di insoddisfazione che si mostra come aspetto terminativo di un precedente PN vanificato, ossia il litigio con la moglie. Persino l’interazione tra soggetti passa per indirette delucidazioni offerte dal corpo: la signora Givings coglie la disposizione emotiva di Frank a partire dalla sua “contrazione dei muscoli” (RR, p. 230), che ella avverte a livello somatico come “un colpo al petto”. Le contrazioni muscolari, generalmente impercettibili, divengono qui erogatori delle strutture timiche profonde. I Wheeler spesso tradiscono l’apparenza sociale attraverso il corpo: di conseguenza la distinzione tra somatico e mentale, nel quotidiano, viene meno. La salvaguardia delle apparenze viene tradita dai movimenti e dalle reazioni dei corpi, che esprimono e realizzano le vere emozioni dei soggetti. Ed è mentre i corpi mostrano i particolari stati emotivi dei personaggi che il loro pensiero viene costantemente rilevato ed esposto. 4.1. La percezione della malattia Nel corso della narrazione, i personaggi nascondono le loro vere intenzioni attraverso abitudini e quotidianità, sostenuti dalle loro reti sociali. Chi rifiuta il consenso si trova in un complesso rapporto disgiunto dal reale e viene immediatamente bollato come “malato”. Non solo chi lo è davvero, ma anche chi – nella narrazione – esce dalla conformità, come si nota sin dai primi capitoli, quando Frank durante un litigio asserisce: “Sai che cosa sei quando fai così? Sei malata, sei. E dico sul serio” (RR, p. 64). In ogni visita dai Wheeler, i figli di April e Frank vengono portati dai Campbell, onde evitare l’“infezione” da parte di un personaggio malato come John Givings. Costui agisce in modo contorto e destabilizzante rispetto a quei canoni di normalità vigenti che il narratore presenta nei capitoli precedenti (ad esempio, con la visita della signora Givings). Durante il primo incontro con i Wheeler, John beve un drink in modo sconveniente, appoggia il cappello su uno scaffale, indossa abiti ospedalieri, ed al 12 A cura di Nicolas Chiappucci, Stefano Acquisti e Adele Piovani. 342 contempo sanziona negativamente l’operato della madre, a causa del suo essere completamente modalizzata verso il /sembrar-essere/ agli occhi degli altri (cfr. infra, par. 2.1.). Inoltre, le discussioni avviate da John oltrepassano ampiamente le consuetudini conversazionali: egli è il solo personaggio capace di utilizzare il linguaggio ironico, riferendosi a quelle strutture sociali predeterminate, e attualizzandone la dimensione tragica. Eccone un esempio: “è proprio un bel granaio antico, mamma”. “E quella dei Wheeler è una bella notizia, e tu sei tanto carina. Non è vero, papà, che è tanto carina?” (RR, p. 376). Inoltre, John si pone come destinante sanzionatore del mancato conseguimento del PN di April e Frank, rispetto al loro voler andare oltreoceano. Egli critica la rinuncia di entrambi alla realizzazione personale, dovuta al loro incorporare ruoli tematici stereotipici: riconosce Frank come “capofamiglia” e “solido cittadino” (RR, p. 325), oppure April come semplice donna di casa. È attraverso le esternazioni di John che i coniugi Wheeler raggiungono la piena consapevolezza del loro stato, sia personale che matrimoniale. Egli è fuori dalla società: una non-conformità attestata del resto dal suo modo di esprimersi. John è in grado di vedere oltre quell’illusione di normalità che permea la società civile e ne mette in luce tutte le contraddizioni: rifiutando le regole previste, egli riesce a far luce sulle maschere degli altri personaggi. D’altra parte, il suo PN, teso verso una sorta di performanza sanzionatoria nei confronti della coppia, come tutti i “baccelli reazionari” della società (come anche April) non si conclude con una sanzione positiva. La madre ne definisce l’operato in modo negativo e deleterio, invitando il medico a non concedergli alcun contatto con persone esterne. Mentre John viene segregato in una maniera ancor più oppressiva, venendo escluso dalla conformità felice e funzionale, la vita della signora Givings, dei Campbell e dell’intera Revolutionary Road riprende, relegando ad un puro pettegolezzo (unica fonte di verità per la società qui descritta) i tristi accadimenti della vicenda. 4.2. Controllo: la rete e l’alcol Lungo l’intero romanzo, emerge anche un percorso tematico del controllo, caricato di investimenti tematici parziali e di atti di figurativizzazione dei contenuti. Attori, tempi e spazi risultano continuamente sottoposti ad una rete di decisioni, prese dalla società nel suo essere collettivo, che influenzano i ritmi e le direzioni della narrazione. Lo si osserva, ad esempio, attraverso il tema dell’alienazione sociale: la casa dei Wheeler o l’ufficio di Frank, sono descritti nella loro conformazione eidetica sempre secondo una regolare e spigolosa perfezione geometrica, veicolando un distacco, sia spaziale che temporale, rispetto a ciò che si trova al di fuori. Frank entra come un automa nell’azienda Knox: una struttura nella quale i piani “sembravano tutti uguali” ed in cui “aveva scoperto solo lievi differenze sensoriali tra questo (il suo) e gli altri piani dell’ufficio” (RR, p. 132). La descrizione dell’ufficio in questo senso è esemplare, con i tratti semantici di staticità ed angustia rilevati attraverso una efficace metafora collegata al tema dell’acqua: L’effetto generale, agli occhi di chi, uscito dall’ascensore, contemplasse il panorama dello stanzone, era quello di un ampio lago chiuso tra mura, in cui si muovessero vicino e lontano dei nuotatori, alcuni intenti ad avanzare, altri immobili nell’acqua, altri ancora sorpresi nell’atto di emergere o affondare, e molti immersi, i volti dissolti in tremolanti macchie rosa, mentre annegavano alle rispettive scrivanie (ibid.) Se il controllo funziona per abitudine, ecco come nel lavoro di Frank l’aspettualizzazione temporale sottolinei una certa iteratività quotidiana: si ripete nelle mansioni e nei tempi con le medesime caratteristiche del giorno precedente. Alle cinque del pomeriggio, Frank porta avanti la consuetudine di lasciare il lavoro in vista dell’appuntamento quotidiano con l’amante (RR, p. 128). La ricerca della promozione, l’immobilità del lavoro ed i tradimenti giornalieri sono forme di controllo che seguono Frank per l’intera giornata. Maureen Grube, la segretaria con cui Frank avrà una relazione, è parte di quell’ingranaggio di rinnovata iteratività giornaliera. Non è un caso, del resto, che il romanzo si apra 343 con la vicenda della Compagnia dell’Alloro (cfr. infra, par. 2.1.), una filodrammatica di attori dilettanti che, con il suo conseguente fallimento, rinvia immediatamente April ad un piano de-realizzato di sé stessa e della sua possibile fuga dalla quotidianità13. Eppure, l’omologazione del comportamento nella società, in cui vivono individui intrisi di sentimenti come l’appartenenza e la realizzazione, si scontra con un certo /voler-essere/; ciò si nota bene attraverso i sintomi passionali, generati durante le situazioni delicate che i personaggi si trovano ad affrontare. Infine, l’alcol: durante la narrazione, i personaggi non fanno che bere, nelle situazioni più disparate. L’uso e l’abuso della sostanza e la sua capillarità descrivono l’ambiente in cui i personaggi si collocano. I soggetti sono dominati dalla paura e dall’ansia di essere equiparati agli altri, e l’alcol funziona come una medicina, una via di fuga dal senso di inadeguatezza. Ciò accade poiché, rispetto a tematiche che restano nascoste, l’alcol è sotto gli occhi di tutti e liberamente usufruibile: i soggetti sono consci che, senza alcol, non sarebbero in grado di gestire le situazioni. Sono così consapevoli di questa necessità che spesso fingono addirittura di essere più ubriachi di quello che sono. Anche dal punto di vista narrativo, questo è un ottimo escamotage: i personaggi si comportano in un modo non previsto dalle rigide imposizioni sociali, perché sono, oppure fingono di essere, ubriachi. Nella diegesi del romanzo l’alcol viene somministrato anche in modo manipolativo, per fare in modo che i personaggi si sciolgano e dimentichino a poco a poco le briglie dei ruoli sociali pre-imposti: “in ufficio, Frank, che non era poi così ubriaco come voleva far credere, aveva sospinto Maureen Grube contro uno schedario e l’aveva baciata a lungo, violentemente, sulla bocca” (RR, p. 102). La manipolazione tramite l’alcol viene espressa chiaramente all’interno del romanzo, e diventa quasi l’adiuvante narrativo per compiere il proprio PN. 5. Corpi e valori14 Come è già emerso nei paragrafi precedenti, il corpo dei personaggi funge da dispositivo mediatore del rapporto dei soggetti con l’ambiente facendosi filtro della percezione e assieme terreno di emersione e strumento di regolazione delle passioni. Oltre a queste funzioni attanziali però, i corpi, in quanto figure appartenenti alla macrosemiotica del mondo naturale, partecipano all’interno del testo anche alla articolazione e messa in forma del livello discorsivo del romanzo. Il corpo è in grado di determinare l’articolazione dei linguaggi in sostanze significanti, fungendo da base per la formazione di categorie semantiche, per poi in seguito installarsi sul piano del contenuto come elemento figurativo che concretizza i temi astratti del testo. In questo paragrafo ci si concentrerà quindi sui processi di figurativizzazione dei corpi dei personaggi, cercando di mostrare come la produzione di diverse immagini della corporeità faccia da supporto per il dispiegamento dell’universo valoriale che investe i corpi stessi (cfr. Marrone 2005). Lo spazio del corpo, diventa così il territorio di articolazione di diverse opposizioni semantiche (sociale/naturale, vita/morte, salute/malattia), che come vedremo sono strettamente connesse l’una all’altra e organizzate secondo una logica di incassamento isotopico (Marsciani, Zinna 1991). 5.1. Corpo sociale e corpo naturale La principale opposizione rilevabile, sulla quale si sviluppano le altre, organizza i corpi in due ordini: quello del corpo sociale e quello del corpo naturale. 13 È il primo contratto offerto dall’enunciatore al lettore ed ai personaggi del testo. Un contratto di veridicità che non assumerà su di sé alcun piano che non sia quello reale. 14 A cura di Lorenzo Fabrizio Ravizza Maritano e Rachele Vanucci. 344 Il corpo sociale, composto da atteggiamenti, azioni e comportamenti, è il terreno di mediazione intersoggettiva dei personaggi, ed è laddove viene valorizzata la modalità performativa basata sul “fare”, soprattutto nella sua specificazione manipolatoria del /far-fare/. Il corpo sociale, che è teso all’ottenimento di riconoscimento da parte dell’altro, si manifesta tramite azioni e comportamenti che evidenziano la competenza del soggetto, valorizzata positivamente in prospettiva dell’ottenimento di una sanzione positiva da parte di un Destinante extra-individuale. Il corpo sociale installa, inoltre, una isotopia della teatralità, in cui il corpo viene impiegato strategicamente e coscienziosamente come strumento di esibizione performativa nei PN dei personaggi: “A volte c’era una punta di ironia in questi abbracci scambiati solo con gli occhi: so che sto dando spettacolo, sembravano dire, ma anche tu lo fai, e ti amo” (RR, p. 188). Il corpo naturale è invece il corpo fisico, centro di costituzione dell’identità degli attori tramite i processi percettivi e passionali. Come notato nel paragrafo precedente, i sintomi passionali dei personaggi contraddicono ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, facendosi rivelatori di una sorta di dimensione passionale autentica. In ciò si può ritrovare una relazione tra l’opposizione sociale/naturale e l’opposizione essere/sembrare, alla base del quadrato di veridizione (Greimas, Courtés 1979). Rifuggendo il controllo e scontrandosi con le norme imposte dall’orizzonte sociale, inoltre, il corpo naturale convoca anche le opposizioni semantiche individuale/intersoggettivo e privato/pubblico. Per spiegare meglio come queste opposizioni vengano attualizzate nel testo, prendiamo come esempio due tra le prime descrizioni che introducono i personaggi principali, cominciando con Frank: Nonostante la mancanza di vistose particolarità fisiche, Franklin aveva un volto straordinariamente mobile, capace di suggerire una sequela di personalità del tutto diverse a ogni minimo mutamento d’espressione. Se sorrideva, era un uomo perfettamente consapevole che il fiasco di una rappresentazione filodrammatica non era cosa di cui si dovesse preoccupare troppo, un uomo gentile, dotato di umorismo, il quale avrebbe trovato proprio le parole che ci volevano per confortare dietro le quinte la moglie; ma negli intervalli tra un sorriso e l’altro, mentre a colpi di spalle si incuneava nella folla, e nei suoi occhi si scorgeva una lieve, cronica febbre di perplessità, si sarebbe detto che anche lui avesse bisogno di conforto (RR, pp. 50-51). Da subito il volto è descritto come uno strumento del /poter-fare/ di Frank: egli è consapevole di essere pienamente in grado di sfruttarlo per mettere in scena un certo stato d’animo, per autodeterminarsi in quanto soggetto sociale e attribuirsi un ruolo tematico strategicamente scelto. Di contro, la realtà delle sue emozioni traspare nei momenti in cui abbassa la guardia, e nel resto della scena tutte le figure del corpo fisico propongono uno stato disforico del soggetto: “piedi indolenziti”, “odore acidulo”, “nocche arrossate”. In Frank viene così incorporata la tensione causata dalla mediazione tra una corporeità mediata dalla ragione e una non mediata e incontrollata. La dimensione somatica diviene per Frank luogo di conflitto in cui esperienze presoggettive ed istanze intersoggettive competono nella caratterizzazione della sua soggettività. È importante precisare che queste due categorie non sono indipendenti l’una dall’altra: come ricorda Marrone, il corpo in quanto dispositivo semiotico “si concretizza ora nei processi sensoriali e fisiologici di una dimensione somatica prettamente soggettiva, ora negli investimenti sociali che riceve dalle istituzioni sociali e politiche, ora nei processi di passaggio dagli uni agli altri e viceversa” (Marrone 2005, p. 80). All’interno del testo però, come abbiamo appena visto, questi due ordini della corporeità costruiscono due diverse immagini di corpi inserite in una assiologia che valorizza la dimensione intersoggettiva a discapito di quello individuale. La presa in carico di questa opposizione sul piano narrativo (da una organizzazione polemica della narrazione) e sul piano discorsivo (dalle diverse manifestazioni della corporeità nei personaggi di April e Frank) produce all’interno del testo una dialettica tra due punti di vista ideologici. 345 5.2. Padronanza del corpo e mascolinità Sul piano narrativo questa assiologia si incarna in una organizzazione ideologica (Greimas, Courtés 1979) per la quale i PN dei Soggetti presentano Destinanti intersoggettivi, incarnati di volta in volta nei vicini, nei conoscenti della coppia e – nella parte finale – nel capo dell’azienda. Nel caso di Frank, che partecipa pienamente a questa ideologia, ciò si trasforma sul livello discorsivo in percorsi figurativi che tematizzano anche una “padronanza” del corpo fisico, intesa come sussunzione della materia fisica sotto il controllo della ragione e della volontà del soggetto. Un esempio molto denso lo si trova nel terzo capitolo, figurativizzato nella descrizione delle mani del padre di Frank, investite di un nostalgico valore euforico per “[…] la loro sicurezza e sensibilità” e per “l’aria di padronanza che donavano a tutto ciò di cui Earl Wheeler si serviva” (RR, p. 79). Questo ricordo introduce anche un’altra isotopia rilevante nel testo, cioè quella della mascolinità, qui costruita come immagine euforica della realizzazione del Soggetto in seguito ad una sanzione positiva. Oltre all’immagine di fisicità, la mascolinità gioca un ruolo fondamentale nell’universo di valori di Frank: a costituire la desiderabilità dello spazio utopico dell’Europa, su cui fa leva la proposta di April, è la possibilità di riconoscersi in uno dei “grandi uomini” (RR, p. 63). Nella terza parte del romanzo sono, inoltre, prettamente maschili gli spazi aziendali in cui Frank si ritrova riconosciuto come soggetto dotato di valore. In uno dei primi litigi, invece, è proprio la sua mascolinità che viene messa in dubbio da April: “Guardati e dimmi se con tutta la buona volontà del mondo […] puoi definirti un uomo” (RR, pp. 69-70). 5.3. Corpi malati e corpi sessuali L’ideologia del controllo del corpo sociale ha effetti significativi anche sulle valorizzazioni del corpo naturale, che viene connotato come “malato” nel momento in cui vi è una discrasia tra le tensioni dei due protagonisti, ovvero quando la passionalità disforica del corpo naturale tradisce la pretesa di controllo di quello sociale. La malattia, che colpisce tanto il fisico quanto la mente – caso in cui compare come sottoclasse la “follia” – è incarnata nella prima parte del romanzo e soprattutto dal personaggio di April. Fin dalle prime descrizioni della protagonista, la malattia viene collegata al fallimento sociale: se nel primo capitolo la bellezza di April sul palco teatrale bastava “perché la parola «carina» volasse in un sussurro da un capo all’altro della platea” (RR, p. 44), in seguito al disastro dello spettacolo il suo corpo diventa prefigurazione di morte sotto lo sguardo di Frank, a cui appare “una creatura sgraziata e sofferente la cui esistenza egli tentava di negare ogni giorno della sua vita” (RR, p. 52). Il fatto che il romanzo sia in gran parte costruito nella prospettiva di Frank, porta all’attribuzione della malattia soprattutto nei litigi di coppia, durante i quali April viene accusata dal marito di essere “malata” (RR, p. 69) (cfr. infra, par. 4.1.) e “pazza” (RR, p. 384). Nei casi, invece, in cui vi è un equilibrio tra corpo sociale e corpo naturale, quest’ultimo viene allora valorizzato in quanto “sessuale”, diventando oggetto di investimento erotico e di una passionalità euforica. Il corpo sessuale si ritrova nelle sequenze di maggiore passione amorosa tra i protagonisti, quando costoro condividono PN e Oggetto di valore. Inoltre, il corpo sessuale – sia in quanto territorio di incontro fisico tra due soggetti, sia oggetto dello sguardo erotico – è sempre uno spazio di intersoggettività tra due attanti: in questo modo non vi è tanto una neutralizzazione dell’assiologia sociale/naturale, quanto una configurazione nella quale è il corpo naturale a farsi oggetto. Esempio di ciò sono le scene del primo incontro di April e Frank e del loro innamoramento, dove il corpo della donna appare come uno strumento sotto il controllo dell’uomo: “coscia tesa e calda sotto il tocco della sua mano”, “schiena che si muoveva perfettamente sotto la sua mano” (RR, p. 65). In altri casi, invece, il corpo sessuale diventa un oggetto di scambio simbolico, nel momento in cui la sua presenza segna la sanzione positiva del corpo sociale: nella sequenza del primo incontro tra i due protagonisti, April, prima 346 ancora di venire avvicinata da Frank, viene definita una “donna di prima qualità” che poteva dargli “un senso di puro trionfo” (RR, p. 63). 5.4. Fuga dal sociale Se, come abbiamo visto in precedenza (cfr. infra, par. 4.1.), il controllo sociale del corpo malato di John Givings comporta il suo isolamento dalla società e la reclusione nella clinica psichiatrica, l’uscita di April dallo spazio sociale avviene invece tramite un ribaltamento dell’ordine assiologico. Dopo l’ennesimo litigio, April, dopo essersi resa conto della insincerità dei propri sentimenti per Frank, decide di praticare su di sé l’aborto. Nel relativo percorso narrativo, assieme ad una rivoluzione dell’ordine di veridizione (quello che era vero, in realtà è falso), vi è una trasformazione nella valenza dei valori in gioco; ovvero, nel “valore attribuito ad un valore” (Bertrand 2000, p. 208), socialmente condiviso e alla base delle strutture assiologiche. April, che riscopre un ordine di verità situato nel suo corpo naturale, ribalta la predominanza del sociale e riesce così ad uscire dalle maglie ideologiche in cui invece soccombe Frank. Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo, quello che né i suoi genitori né zia Claire né Frank né chiunque altro avevano mai dovuto insegnarle: che se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli (RR, p. 409). Parallelamente, questa inversione di valenza investe anche il corpo di Frank, che dopo la morte della moglie sembra aver perso la brillantezza e agilità sociale che lo avevano caratterizzato nei capitoli precedenti l’incidente. Nell’ultimo capitolo del romanzo, Frank non solo è “diventato terribilmente noioso” (RR, p. 432), dimostrando così di aver perso la sua competenza sociale, ma perfino il suo corpo naturale perde ogni spinta vitale, finendo nello stato adiaforico del “non-morto”, incapace di sentire ed esprimere emozioni, come emerge dai giudizi di Shep Campbell: “Così gli era apparso Frank […] un cadavere che camminava, parlava sorrideva. […] Era impossibile immaginarselo sul serio nell’atto di ridere o piangere o sudare o mangiare o entusiasmarsi” (RR, p. 431). 6. Conclusioni La metodologia di analisi collettiva ha consentito una lettura completa di Revolutionary Road, attraverso un confronto di differenti punti di vista individuali che hanno permesso anche di far affiorare le ricorrenze che emergevano dalle diverse parti. La spazialità, ad esempio, è emersa come caratteristica rilevante non in sé, ma in relazione agli effetti di senso che ad essa si legavano. Il diverso comportamento dei personaggi nel romanzo, a seconda dei luoghi, ha consentito di evidenziare la pregnanza delle opposizioni tra pubblico e privato, ovvero l’individuazione di un sistema di apparenze sociali che condizionava anche la dimensione intima. Da questo stesso sistema, scaturiscono in modo conseguente i tratti della simulazione e della finzione che caratterizzano i singoli personaggi, e dunque l’intera rete sociale nella quale essi sono immersi. Se la simulazione risulta essere la condizione “normale”, ciò che ne fuoriesce diventa caratterizzato dall’ “anormalità”, ovvero dalla patologia. Sarà infatti la malattia a divenire, e sempre di più, un elemento di rivelazione della verità. Ma il romanzo si caratterizza anche per una sapiente articolazione della dimensione temporale, e per un’efficace costruzione di un andirivieni temporale tra passato e futuro. Frank e April vivono con nostalgia le loro passate proiezioni verso un futuro non realizzato. Dunque se c’è un tempo da loro vissuto in modo particolarmente disforico, quello è proprio il presente, per il suo aspetto scevro da 347 illusioni e per essere irraggiungibile dai loro mondi immaginari. Saranno le loro rispettive proiezioni, a loro modo egoistiche, a rompere ogni possibile alleanza e a determinare una loro crisi irreparabile. Una ulteriore caratteristica rilevante nel romanzo è la correlazione tra corporeità e sentire passionale. Gli attori manifestano elementi euforici o disforici attraverso una manifestazione corporea, la quale non si limita a “descrivere” gli stati dei singoli personaggi, ma è funzionale a fare emergere il loro status di corpi sociali. Ad esempio attraverso forme di controllo o, viceversa, di disinibizione attraverso l’uso di bevande alcoliche. Se i corpi sociali in Revolutionary Road sono corpi teatrali, la passionalità dei personaggi contraddice invece ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, rivelando una sorta di passionalità autentica, e instaurando una gerarchia assiologica che valorizza il corpo sociale a discapito di quello naturale. Tutto il romanzo, infine, è sostanzialmente la lettura del mondo condotta attraverso la prospettiva “controllata” del protagonista maschile, cioè Frank Wheeler. Ad essa si oppone April, la quale fa emergere la verità attraverso il proprio corpo naturale, affrancandosi dal predominio del sociale e dalle costrizioni nelle quali è imbrigliato Frank. In conclusione, l’esperimento metodologico può ritenersi riuscito, il che non evita che questa analisi possa essere considerata oggetto di osservazioni critiche, o non debba essere ulteriormente approfondita e integrata. 348 Bibliografia Bertrand, D., 2000, Précis de sémiotique littéraire, Paris, Nathan; trad. it. Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi 2002. Eco, U., 1979, Lector in fabula, Milano, Bompiani; nuova ed., La nave di Teseo, Milano 2020. Eco, U., 1994, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani; nuova ed., La nave di Teseo, Milano 2018. Ferraro, G., 2012, “Attanti: una teoria in evoluzione” in A. M. Lorusso, C. Paolucci, P. Violi, a cura, Narratività. Problemi, analisi, prospettive, Bologna, Bononia University Press, pp. 43-60. 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Rivista dell’Associazione Direttore responsabile Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone mimesisjournals.com Anno XVII, n. 38 - 2023 ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 Il discorso dei materiali Senso e significazione – vol. I n.38 EC a cura di Maria Cristina Addis, Giorgia Costanzo, Dario Mangano, Elisa Sanzeri contributi di: Karina Astrid Abdala Moreira Giulia Ceriani Francesco Pelusi Maria Cristina Addis Pierluigi Cervelli Francesco Piluso Daria Arkhipova Giorgia Costanzo Davide Puca Giuditta Bassano Emanuele Fadda Ramon Rispoli Paolo Bertetti Giacomo Festi Maddalena Sanfilippo Denis Bertrand Maria Giulia Franco Elisa Sanzeri Giorgio Borrelli Francesco Galofaro Lucio Spaziante Gianluca Burgio Alice Giannitrapani Mirco Vannoni Carlo Campailla Luigi Lobaccaro Anna Varalli Valentina Carrubba Enrico Mariani EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici mimesisjournals.com Direttore responsabile Gianfranco Marrone (Università di Palermo) Vicedirezione Alice Giannitrapani (Università di Palermo) Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo) Comitato Scientifico Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité) Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia) Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2) Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis) Lucia Corrain (Università di Bologna) Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia) Jacques Fontanille (Université de Limoges) Manar Hammad (Université Paris III) Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos) Tarcisio Lancioni (Università di Siena) Massimo Leone (Università di Torino) Anna Maria Lorusso (Università di Bologna) Dario Mangano (Università di Palermo) Francesco Mangiapane (Università di Palermo) Tiziana Migliore (Università di Urbino) Claudio Paolucci (Università di Bologna) Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki) Paolo Peverini (LUISS, Roma) Isabella Pezzini (Università La Sapienza, Roma) Piero Polidoro (LUMSA, Roma) Maria Pia Pozzato (Università di Bologna) Franciscu Sedda (Università di Cagliari) Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid) Stefano Traini (Università di Teramo) Patrizia Violi (Università di Bologna) Comitato editoriale Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli Metodi e criteri di valutazione La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (double blind peer-review). Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005 Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 ISBN: 9788857598321 Fotografia in copertina di Gianfranco Marrone © 2023 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 EIC - n. 38 Il discorso dei materiali Senso e significazione – vol. I a cura di Maria Cristina Addis, Giorgia Costanzo, Dario Mangano, Elisa Sanzeri INDICE Introduzione Le ragioni dei materiali. Sguardo semiotico e mondo delle cose.............................................................................................................................. pp. 1-7 Maria Cristina Addis 1. Narrazioni e ideologie Du ballast, de la traverse et du rail, ou : l’immobilité dure au service de la mobilité douce. Pour une sémiotique de la matérialité..........................pp. 8-21 Denis Bertrand Retoriche e politiche dei materiali: dall’efficacia simbolica alla semiosi ermetica.................................................................................................pp. 22-32 Pierluigi Cervelli “Questa è l’acqua”. Semiotizzare il mare.............................................................................................................................................................. pp. 33-44 Emanuele Fadda Iste ego sum. Specchi, materialità ed enunciazione............................................................................................................................................... pp. 45-55 Luigi Lobaccaro Le crociate per le materie prime. Circolazione e valorizzazione dei materiali nel discorso storico........................................................................ pp. 56-68 Carlo Campailla La materia nel discorso vinicolo: semiotica del terroir Etna DOC..........................................................................................................................pp. 79-85 Davide Puca Forma, trasformazioni materiali e sostanza nella teoria marxiana della merce. Proposte per una lettura semiotica................................................ pp. 86-99 Giorgio Borrelli 2. Pratiche e trasformazioni Mixology e creazioni elementali. Trasformazioni semiotiche della materia liquida...............................................................................................pp. 100-113 Alice Giannitrapani Il marmo oltre la vena. Per una semiotica alternativa dei materiali.....................................................................................................................pp. 114-124 Giacomo Festi Il diagramma nascosto. La materia della carta nella pratica degli origami......................................................................................................... pp. 125-135 Valentina Carrubba Spazialità e materialità urbane: incontri e dialoghi per un’analisi topologica delle nuove risemantizzazioni post-pandemiche..........................pp. 136-146 Maria Giulia Franco Osservare, immergersi, produrre. Immagini del borgo e forme di valorizzazione nelle aree interne italiane: il caso di Castelluccio di Norcia.........................................................................................................................................................................pp. 147-162 Enrico Mariani EIC - n. 38 3. Poetiche e immaginari Figura, immagine, materia. L’immaginazione materiale di Gaston Bachelard..................................................................................................... pp. 163-167 Paolo Bertetti Sulle tracce della polvere. Brevi note sul potere materiale del quasi-niente....................................................................................................... pp. 168-178 Gianluca Burgio Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze.................................................................................................................................................... pp. 179-196 Giuditta Bassano Porte, ripostigli, soffitte e scantinati. L’architettura e la partizione del sensibile..................................................................................................pp. 197-204 Ramon Rispoli Schiume, polveri, saponi: i materiali dell’igiene nell’immaginario pubblicitario.................................................................................................pp. 205-222 Giorgia Costanzo 4. Contrasti e traduzioni Materialità immateriali: il paradosso delle skin.................................................................................................................................................pp. 223-229 Giulia Ceriani La materia dello spirito: ontologia o semiotica?...............................................................................................................................................pp. 230-243 Francesco Galofaro Bodies of the Future. Il farsi senso della materia...............................................................................................................................................pp. 244-257 Francesco Piluso, Francesco Pelusi Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente...................................................................................................pp. 258-273 Anna Varalli Colmi elementali. Sulla smaniera contemporanea di Nicola Samorì.................................................................................................................. pp. 274-285 Mirco Vannoni Livelli di materialità del gusto e dell’intelligenza artificiale...............................................................................................................................pp. 286-295 Karina Astrid Abdala Moreira Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale degli utenti.................................................................... pp. 296-304 Daria Arkhipova Conclusione In materia di materiali...................................................................................................................................................................................... pp. 305-313 Elisa Sanzeri Miscellanea Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok......................................................................................................................... pp. 314-334 Maddalena Sanfilippo Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario............................................................................................................................... pp. 335-349 Lucio Spaziante
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Le ragioni dei materiali. Sguardo semiotico e mondo delle cose Maria Cristina Addis 1. Face à Gaïa: l’orizzonte materiale contemporaneo Il Discorso dei materiali esplora l’universo degli artefatti, delle sostanze e degli elementi alla ricerca delle loro ragioni: dei progetti e programmi che dischiudono, delle operazioni tecniche che li coinvolgono, dei ragionamenti costruiti tramite le loro proprietà, delle retoriche, poetiche e ideologie di cui sono a vario titolo “materia” e degli ordini discorsivi responsabili, di volta in volta, del loro senso. Come osservano in termini non dissimili Michel Serres (1980) e Bruno Latour (1991, 2015), le tradizionali differenze ontologiche tramite cui abbiamo teorizzato, studiato e gestito “il contesto fisico” collassano di fronte al grado di complessità e interrelazione degli ambienti entro cui si svolge l’umana esistenza sul Pianeta. Osserva Latour nell’incipit di Face à Gaïa (2015): […] il contesto fisico, che i moderni avevano dato per scontato, il terreno su cui la loro storia si era sempre dispiegata, è divenuto instabile. Come se lo scenario avesse calcato la ribalta per condividere la trama con gli attori. A partire da questo momento, tutto cambia nel modo di raccontare storie, al punto da far entrare in politica tutto ciò che, fino a poco prima, apparteneva ancora alla natura – figura che di riflesso, diviene un enigma ogni giorno più indecifrabile (Latour 2015, p. 11). L’era dell’Antropocene – e più ancora la repentina attenzione politica e mediatica, a partire dalla fine del secolo scorso, di un concetto nato centocinquanta anni fa – definirebbe secondo Latour il compiuto collasso della separazione “costituzionale” fra natura e società e con essa delle categorie tramite cui la società occidentale si è pensata per differenza rispetto ai propri antenati e per omologia rispetto ai propri vicini, le culture non occidentali1. Come gestire e prima ancora pensare la “realtà fisica”, oggi, se le pratiche di depurazione messe a punto dai moderni per conservare separati gli ambiti della scienza e della politica collassano miseramente di fronte a una distopica ecologia globale, il Nuovo regime climatico, in cui tutto reagisce a tutto e crisi 1 Com’è noto, l’archeologia dell’episteme moderna proposta da Latour individua a fondamento della modernità la separazione artificiale di natura e società come dominii ontologicamente distinti e ambiti di legalità parimenti separati, l’uno della scienza e l’altro della politica. Come riassume Federico Silvestri: “[...] alla scienza spetta di conoscere l’ordine naturale per poter giungere alla definizione della verità, alla politica spetta il compito di costruire, in base a tale definizione, le condizioni utili a regolare il giusto funzionamento dell’ordine sociale. Il sapere della modernità risulta così concepito come un’esplorazione diretta delle forme naturali, necessarie ed universali attraverso cui poter realizzare un modello universalizzabile di umanità. [...]” (Silvestri 2012, p. 154). La “Grande Divisione” dicotomica tra modernità e tradizione che separa i moderni dal loro passato e dai popoli non occidentali, assimilati ai premoderni, richiede di essere costantemente costruita tramite opposte pratiche di ibridazione e depurazione: da un lato la modernità produce continuamente mescolanze sempre più complesse di natura e cultura, dall’altro rimuove le proprie operazioni di assemblaggio dal discorso sull’una e sull’altra, distinguendo “per legge” il mondo degli umani e il mondo dei non umani. Cfr. in particolare Latour (1991, 2015, 2021). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). ecologiche, guerre, pandemie, flussi migratori, processi di globalizzazione vi si annodano in un ibrido non ulteriormente riducibile, il Cosmocolosso, chimera “metà uragano e metà Leviatano” (Latour 2015, p. 10), né conoscibile né governabile? Che farne, oggi, di modelli di mondo e di società fondati sulla distinzione ontologica fra “scenario” e “attori”, laddove l’oggetto delle scienze esatte varia a velocità maggiore delle culture e persino i dati un tempo fra i più stabili e certi – la morfologia terrestre, i profili delle coste e dei ghiacciai, il livello del mare – sono divenuti variabile di un’azione umana le cui politiche si mostrano molto più restie al cambiamento? Se da tempo l’epistemologia e la sociologia della scienza denunciano la sterilità degli approcci atomistici e isolati ai fenomeni di natura e a quelli di cultura, numerose voci dell’antropologia e la paleontologia hanno costantemente richiamato l'attenzione sulla necessità di integrare la cultura materiale e la dimensione vivente nello studio della cultura, sviluppando modelli in grado di apprezzare la complessità cognitiva e culturale delle azioni strumentali e tecniche degli esseri umani, all'interno delle quali nessuna delle componenti – linguaggi, tecniche, pratiche, simbolizzazioni – può essere pensata in modo isolato. La crisi dei sistemi di categorizzazione del mondo e della società non è del resto una semplice preoccupazione accademica. Prendiamo ad esempio la definizione di patrimonio mondiale offerta dall’UNESCO nella Convezione di Parigi del 1972, che stabilisce cosa è da considerarsi rispettivamente “patrimonio culturale” e “patrimonio naturale”, e le successive estensioni e specificazioni di cui è stato in seguito oggetto. La progressiva inclusione di nuove “specie” e “sotto-specie” – paesaggistico, integrato, patrimonio culturale mobile e immobile, patrimonio culturale subacqueo, patrimonio immateriale, patrimonio di comunità – mostra l’ingresso di nuovi “attori” (l’ambiente, le conoscenze, le persone) nella definizione Outstanding Universal Value (valore eccezionale universale per l’umanità) e dei beni meritevoli di tale titolo, in un tentativo mai del tutto riuscito di “depurazione”. La netta distinzione fra “prodotti dell’uomo” e “prodotti della Natura” promessa dai due termini della dicitura si sfalda di fronte all’elenco dei beni supposti appartenere all’uno o all’altro: fra i monumenti troviamo riunite sotto la stessa voce “opere architettoniche” e “grotte”, fra i siti “opere coniugate dell’uomo e della natura”, così come il patrimonio naturale è tale “per ragioni di interesse scientifico, [...] conservativo, [...] estetico naturale”, quello paesaggistico è in sé esito del rapporto fra uomo e natura e il patrimonio integrato include nella propria definizione l’indiscernibilità dei due poli2. La stessa scelta di pensarli insieme, come le due facce di una medesima “cosa”, e la descrizione simmetrica che ne propone la Convenzione, inaugura un sempre più intenso tentativo di pensare e gestire la complessità dei loro rapporti, sfociante nella definizione di approccio olistico. Il termine indica un metodo di studio e di governo del patrimonio in grado di cogliere i rapporti che ogni attore intrattiene con gli altri e rispetto all’insieme, nel quadro di reti relazionali sempre più fitte ed eterogenee. La conservazione e lo studio del “patrimonio culturale subacqueo”, per esempio, necessitano delle scienze fisiche, chimiche e biologiche quanto della storia e dell’archeologi; le pratiche che comportano sono parimenti soggette alle istituzioni scientifiche e politico-giuridiche e condizionate a ogni stadio dalle tecnologie informatiche; il reperimento dei reperti implica pari attenzione all’obiettivo di sottrazione al deperimento di un bene culturale e di conservazione degli ecosistemi marini di cui nel frattempo esso è divenuto parte integrante; le letture che ne offrono chimici e biologici sono cruciali nei processi di interpretazione storico-artistica e antropologica dell’artefatto o insediamento scoperto, così come i suoi materiali e le sue fatture costituiscono habitat di svariate forme di vita e partecipano della composizione geologica del fondo marino. Le stesse pratiche conservative e conoscitive rispettose e del bene culturale e del bene naturale potrebbero comunque entrare in conflitto, ad esempio, con attività produttive come la pesca o il turismo, così come queste stesse pratiche sono inscindibili da quelle di visualizzazione e rappresentazione visiva di dati e oggetti, che riannodano a un altro livello le ragioni della scienza e quelle dell’estetica. 2UNESCO, Convention Concerning the Protection of the World Cultural and Natural Heritage, accessibile online sul sito https://whc.unesco.org (ultimo accesso 15 ottobre 2023). 2 Il Discorso dei materiali si situa allo snodo fra un progetto di critica della cultura di cui Bruno Latour è una delle principali voci contemporanee e la densità discorsiva delle “cose”, di cui il caso del patrimonio e del suo governo può costituire un buon esempio. Paradossalmente (in apparenza), è proprio la vocazione all’immanenza, la scelta di eleggere a oggetto di studio le relazioni responsabili del senso assunto dalle “cose” piuttosto che le cose in sé, a permettere alla semiotica di nutrire proficuamente un dibattito contemporaneo sui materiali, attingendo a una cassetta degli attrezzi ormai ben nutrita e stringendo nuove alleanze interdisciplinari di fronte a fenomeni in parte anch’essi nuovi. 2. Percetti e concetti: la svolta semiotica In generale, la concezione differenziale e relativa della significazione che fonda l’epistemologia semiotica e orienta i suoi strumenti teorici e obiettivi euristici trova la disciplina “preparata” a gestire la complessità dell’orizzonte materiale additata da Latour e l’eterogeneità delle sostanze che lo compongono, degli attori che vi interagiscono e con cui interagisce, dei sistemi di valori e campi di legalità che vi si intrecciano. “Non è più vero che il significante è percettivo e il significato è concettuale: ogni percettivo può diventare concettuale per una nuova espressione percepibile, e ogni contenuto concettuale può diventare espressione per un nuovo contenuto” (Fabbri 1998, p. 212). La svolta semiotica segnalata da Paolo Fabbri descrive uno strutturalismo topologico efficace in quanto vuoto: condizione necessaria della significazione è la correlazione di almeno due piani (o serie, nella terminologia deleuziana ripresa da Fabbri), un’espressione e un contenuto, sollevati da assunti sostanziali e predefiniti. La stessa significazione, a monte di ogni realizzazione specifica, non ha altra “essenza” che quella di un processo dinamico e differenziale di strutturazione animato da un principio traduttivo, “trasposizione di un piano di linguaggio in un altro, di un linguaggio in un linguaggio diverso” (Greimas 1970, p. 13). Quali “scarti differenziali” organizzino quali materie, quali sostanze fungeranno da espressione e quali da contenuto è variabile dei singoli testi e dei criteri di pertinenza con cui li costruiamo. Come scrive Giulia Ceriani nel saggio qui pubblicato: […] tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del tutto antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben prima degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce ‘oggetti di valore’, pure posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di discorso (Ceriani infra, p. 226) Distinzioni fra umano e non umano, naturale e artificiale, vivente e inerme e tutte le altre ripartizioni operate dai saperi costituiti o dal senso comune, perfino quelle all’apparenza più solide e indiscutibili, sono sub specie semiotica altrettanti effetti di discorso, categorizzazioni e valorizzazioni più o meno implicite o naturalizzate – quelle che Michel Foucault definisce “le continuità irriflesse con cui si organizza in anticipo il discorso che si vuole analizzare” (1969, p. 33) – che lo sguardo semiotico, come quello dell’archeologo del sapere, è tenuto a mettere fra parentesi per indagarne semmai i modi di costruzione. La mobilità di sguardo con cui la semiotica avvicina i fenomeni di significazione è la stessa che intesse il dialogo – costante, fitto, costitutivo della disciplina – con le altre scienze dell’uomo. A proposito del lavoro di Bruno Latour, e in particolare di uno dei concetti-chiave che ricorre sistematicamente nei saggi qui raccolti, ibrido, osserva Gianfranco Marrone: Per usare una nota distinzione, potremmo dire che dei quattro livelli della semiotica – empirico, metodologico, teorico, epistemologico – Latour considera più che altro il primo e l’ultimo. Da una parte, molto spesso, le sue indagini prendono avvio da concreti case studies, [...] che funzionano dunque [...] come altrettanti esperimenti di pensiero: non exempla finta su cui fantasticare 3 metafisicamente ma corpora discorsivi esplicitamente costruiti per lavorare un’ipotesi speculative, o se si vuole oggetti teorici, testi da cui dis-implicare una teoria. D’altra parte, [...] Latour sembra interessato a ragionare su grandi problematiche epistemologiche [...]. Quel che si crea è allora una specie di effetto tunnel, un passaggio diretto dall’empiria all’epistemologia che salta, di fatto, l’elaborazione di una metodologia e un suo concomitante controllo teorico. Da questo punto di vista la semiotica può contribuire attivamente a evitare quest’effetto tunnel (Marrone 2023, p. 52). La semiotica beneficia doppiamente dei concetti latouriani, come di quelli di affordance (Gibson 1979) e material engagement (Malafouris 2019), per citare solo alcuni dei riferimenti che ricorrono negli studi qui raccolti. A livello epistemologico, in quanto invitata a esercitare un “pensiero relazionista” all’interno di un comune progetto di critica del senso comune. A livello empirico, in quanto fornita di preziose indicazioni di lettura riguardo fenomeni e oggetti di senso insieme singolari e paradigmatici, talmente pregnanti da incarnare una teoria o mettere in crisi tassonomie e assiologie ben radicate. Allo stesso tempo, il suo contributo attivo al dibattito consiste nell’intessere, appunto, relazioni fra questi e gli altri livelli, nel cogliere la sfida all’intelligibilità o la pregnanza teoretica espressa da oggetti che è spesso il paleontologo, il filosofo, l’antropologo, lo scienziato a pre-costruire, nella consapevolezza che ogni testo implica una sua propria epistemologia, estetica, ergonomia, una sua teoria del mondo, del corpo e della società. Riassumendo trivialmente la “svolta semiotica” descritta da Fabbri, possiamo dire che pensare la complessità significa, per la semiotica, rendere conto della singolarità dei testi, che comporta metodi di “parafrasi artificiale” della significazione teoricamente adeguati. La specificità del contributo alla riflessione sui materiali proposta in questa sede consiste nello spazio che aprono fra “livello empirico” e “livello epistemologico”, lavorando ad evitare l’effetto tunnel segnalato da Marrone fra oggetti e fenomeni la cui pregnanza è quasi auto-evidente (basti pensare all’Intelligenza Artificiale) e concetti esplicativi che illuminano fenomeni anche molto complessi ma non esimono dal lavoro di ricostruzione locale delle forme del discorso che li realizzano. 3. Ratio semiotica e antropologia simmetrica: la cassetta degli attrezzi La riflessione sui materiali convoca alcune tradizioni di studio che proprio tramite la frequentazione di testi resistenti al metodo hanno incrementato l’accesso alla descrivibilità di fenomeni un tempo collocati “al di qua” della soglia della semiotica. La prima è quella che si dipana attorno al concetto di figuratività. A partire dalla celebre riformulazione greimasiana del rapporto di referenza fra lingua e mondo in termini di traduzione reciproca fra macro- semiotiche (Greimas 1970), le ricerche sul livello figurativo dei testi hanno progressivamente messo in luce una densità significante irriducibile all’effetto di realtà e mera specificazione di un tema più astratto. Come nel caso della parabola analizzata da Greimas (1983) e Geninasca (1997), le figure e le proprietà del mondo fisico supportano la costruzione di ragionamenti e strategie veridittive anche molto complessi che, così definiti, non preesistono alla parabola stessa. Le tattiche di descrizione e articolazione del livello figurativo e figurale della significazione, maturate prevalentemente in seno al testo letterario e poetico e nell’analisi delle arti visive, offrono in questa sede altrettanti strumenti di descrizione della manifestazione sensibile del “mondo non linguistico della significazione” e delle forme di ragionamento dischiuse dalle sue figure. È tramite l’attenzione alle articolazioni del sensibile e ai percorsi figurativi che istruisce che Denis Bertrand, nel saggio che apre la raccolta, ricostruisce le retoriche e ideologie dischiuse dal micro-universo materiale delle ferrovie, imperniato sui rapporti fra pietra, legno e metallo. Questa stessa attenzione alle forme di conoscenza e di efficacia prodotte dall’organizzazione figurativa e figurale del mondo fonda l’“antropologia simmetrica” della semiotica nei confronti del discorso scientifico 4 ed estetico, riconducibili ad altrettante forme di razionalità molto meno distinte di quanto preveda la concezione moderna. Scrive Lévi-Strauss in uno dei passaggi de Il pensiero selvaggio più celebri fra i semiologi: La chimica moderna riconduce la varietà dei sapori e dei profumi alla diversa combinazione di cinque elementi: carbonio, idrogeno, ossigeno, zolfo e azoto. Attraverso la compilazione di tavole delle presenze e delle assenze e la valutazione di dosaggi e di soglie, la chimica riesce a spiegare certe differenze e certe rassomiglianze tra qualità che una volta avrebbe escluso dal suo ambito perché “secondarie”. Ma questi accostamenti e queste distinzioni non colgono alla sprovvista il sentimento estetico […]; il fumo del tabacco risulta, per una logica della sensazione, dall’intersezione di due gruppi, uno comprendente tra l’altro la carne in graticola e la crosta scura del pane (anch’essi composti d’azoto), l’altro di cui fanno parte il formaggio, la birra e il miele, a causa della presenza di diacetile. [...] Tuttavia non bisogna vedere in questo soltanto di una frenesia associativa, a volte destinata al successo per un semplice gioco delle probabilità. […] l’esigenza di organizzazione è una necessità comune all’arte e alla scienza e quindi, come logica conseguenza, la tassonomia, che è criterio ordinativo per eccellenza, possiede un eminente valore estetico […]. Dopo di che ci si meraviglierà meno che il senso estetico, con le sue sole risorse, possa aprire la strada alla tassonomia e anzi anticiparne in parte i risultati (Lévi-Strauss 1962, pp. 25-26). Le tassonomie della scienza e quelle dell’arte e del pensiero mitico, mostra uno dei padri dello strutturalismo, sono altrettanti modi del conoscere, accomunati dal tentativo di introdurre un principio d’ordine nel mondo dell’esperienza che sottragga l’uomo e la società alle doppie spinte dell’insensatezza, eterogeneità in cui niente è in relazione con niente, e dell’insignificanza, in cui niente si distingue da niente (Landowski 2006): la scienza pura “ha il solo scopo di portare al suo punto più alto e più cosciente la riduzione di quel modo caotico di percepire [...] alle origini stesse della vita” (Levi-Strauss, ibidem). Il ragionamento figurativo non è peraltro una peculiarità dei testi estetici o mitici. Come mostra Tarcisio Lancioni (2009) nell’analisi delle organizzazioni semi-simboliche che sovra-articolano i resoconti di Charles Darwin in The Voyage of the Beagle, la descrizione scientifica cede il posto all’invenzione figurativa quanto si pone un problema conoscitivo, ovvero l’esigenza di esprimere qualcosa per cui la lingua non offre soluzioni pre-codificate. Più in generale, diverse voci della sociologia delle scienze e della storia e teoria delle arti e delle immagini hanno mostrato come il discorso scientifico non sia affatto indifferente e indipendente dalle forme sensibili che ne visualizzano i concetti. Horst Bredekamp (2005), sempre a proposito di Darwin e del ruolo conoscitivo svolto dall’immagine del corallo all’interno della teoria dell’evoluzione, osserva che “in nessun altro momento della storia della scienza la forma del modello e stata discussa così intensamente come negli anni compresi tra il 1835 e il 1860, quando vennero formulati i diversi avvii della teoria evoluzionistica” (Bredekamp 2005, p. 92): albero, catena, scala, rete sono figure del mondo che fungono da diagrammi illustrativi delle diverse tesi naturaliste, a partire da percorsi figurativi e complesse configurazioni discorsive cui i biologi coinvolti nel dibattito si appellano per supportare la propria tesi o confutare quella altrui. Le qualità sensibili di alcune figure sembrano costituire simultaneamente, all'interno del discorso scientifico, un mezzo strutturante per le nascenti posizioni teoriche, un potente strumento retorico e un insieme di vincoli e restrizioni che imbricano strettamente la dimensione semantica e valoriale e quella espressiva. Lo studio del sensibile e del potere costruttivo dei linguaggi si intreccia a più livelli con lo sviluppo di un approccio semiotico alle passioni (Greimas 1987; Greimas e Fontanille 1991) e alla corporeità (Marrone 2001, Fontanille 2004), che ha superato già in tempi non sospetti la distinzione fra corpo e mente, ego e mondo, individuo e società, a favore di metodi sempre più raffinati di descrizione delle modulazioni discorsive e modalizzazioni narrative che istruiscono i due poli a volte come radicalmente dicotomici, a volte come indiscernibili. 5 Questa stessa confidenza con la “manifestazione sensibile del mondo” nutre ad altro livello la capacità di descrizione narrativa delle operazioni tecniche e delle funzioni di mediazione svolte dagli artefatti nel nostro rapporto con il mondo. Sul primo versante, il lavoro in particolare di Françoise Bastide (1987) sugli stati della materia affina lo sguardo verso la memoria sintattica dei materiali e la dimensione processuale, temporale e tensiva costitutiva delle categorizzazioni che ne fa la scienza, l’estetica o il senso comune. Sul secondo, la sociosemiotica ed etnosemiotica hanno a lungo lavorato sulle funzioni attanziali suscettibili di essere prese in carico dai “non umani”. La poltrona del dentista (Marsciani 1999), il telefonino (Marrone 2004), l’I-Pod (Mangano 2009) sono a tal proposito solo alcuni degli oggetti teorici a partire dai quali la ricerca semiotica ha dis-implicato i regimi discorsivi e i modelli narrativi che co-istituiscono diversamente soggettività e oggettività in seno alla “società degli ibridi”. 4. Né parole né cose: il discorso dei materiali Forti di una densa e stratificata cassetta degli attrezzi, di cui abbiamo ripercorso solo alcuni degli aspetti principali, i saggi qui raccolti affrontano materie, sostanze, materiali, artefatti e ambienti in quanto pieghe del discorso, nodi singolari fra forme della sensibilità, forme della conoscenza e forme dell’agire intrecciati di volta in volta da testi dal taglio e genere fra i più vari, dal quasi-niente della polvere a una formazione discorsiva complessa come la mobilità ferroviaria francese. Da questo punto di vista, la semiotica del sensibile proposta da Denis Bertrand è di fatto variamente costruita e sviluppata trasversalmente da ognuno dei contributi. Un primo filone riguarda le forme di concettualizzazione e rappresentazione mobilitate da materie “critiche” e resistenti alla presa conoscitiva, come la “polvere ordinaria” (cfr. i saggi di Giuditta Bassano e Gianluca Burgio), l’acqua e la correlata figura del mare (cfr. il saggio di Emanuele Fadda), i liquidi alcolici (cfr. il lavoro semiotico di differenziazione sotteso alla pratica di costruzione dei cocktail messo in luce da Alice Giannitrapani), bolle e schiume di sapone, di cui il discorso pubblicitario, mostra Giorgia Costanzo, sfrutta la narratività in nuce ai fini strategici. Un secondo concerne l’efficacia simbolica, avvicinata a partire dagli effetti di credenza e veridizione cui concorrono nel discorso politico (cfr. oltre al già citato Bertrand, il saggio di Pierluigi Cervelli), storico (cfr. il saggio di Carlo Campailla), enologico (cfr. il saggio di Davide Puca), mistico (cfr. il saggio di Francesco Galofaro). Un terzo verte su artefatti e ambienti, analizzando le forme di emergenza del senso nel quadro di pratiche professionali e ludico-estetiche di trattamento dei materiali (cfr. rispettivamente il saggio di Giacomo Festi, dedicato al marmo, e a quello di Valentina Carrubba, sull’origami), la costruzione dell’esperienza sensibile via intelligenza artificiale (cfr. i saggi di Karina Astrid Abdala Moreira e Daria Arkhipova), i principi d’ordine e programmi d’azione che definiscono il nostro rapporto con gli ambienti domestici (cfr. il saggio di Ramon Rispoli), orientano le pratiche di risemantizzazione degli spazi urbani (cfr. il saggio di Maria Giulia Franco) e dei borghi (cfr. il saggio di Enrico Mariani). Il quarto riguarda la logica del sensibile elaborata dalle arti visive a livello iconografico (cfr. i saggi di Francesco Piluso e Francesco Pelusi, e quello di Anna Varalli) e materico (cfr. il saggio di Mirco Vannoni) o tramite l’articolazione sinestesica del visibile, responsabile di effetti di materialità digitali e della loro agency (cfr. il saggio di Giulia Ceriani). Nutrono infine la riflessione collettiva gli affondi teorici di Paolo Bertetti e Luigi Lobaccaro, dedicati rispettivamente al rapporto fra la teorizzazione greimasiana del figurativo e l’opera di Bachelard e alle forme di soggettività e intersoggettività implicate da una materia anomala come lo specchio. Assemblaggi di corpora eterogenei e ibridi concettuali intessono qui il tentativo corale di mappare il discorso contemporaneo dei materiali e nel migliore dei casi introdurvi un po’ d’ordine, praticando l’interstizio fra estetica e antropologia culturale in cui si colloca, secondo Jean-Marie Floch, il fare semiotico. 6 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Bastide, F., 1987, “Le traitement de la matière : opérations élémentaires”, in Actes sémiotiques – Documents, 89; trad. it. “Il trattamento della materia”, in G. Marrone, A. Giannitrapani, a cura, Cucina del senso, Milano, Mimesis 2012, pp. 163-185. Bredekamp, H., 2005, Darwins Korallen. Frühe Evolutionsmodelle und die Tradition der Naturgeschichte, Berlin, Verlag Klaus Wagenbach; trad. it. J coralli di Darwin. 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Du ballast, de la traverse et du rail, ou : l’immobilité dure au service de la mobilité douce. Pour une sémiotique de la matérialité Denis Bertrand Abstract. Because of its low ecological impact, the train is a favoured means of mobility. We focus on the materials that justify this. This technical field calls for some introductory definitions and opens up the general problem: the semiotics of the sensible and the figurative paths of meaning. After tracing the theoretical history of this field and highlighting its topicality, we focus on the substance of expression: the materiality of the objects from which we draw meaning. We then move on to the study of the mineral world (ballast), woody matter (sleepers) and the metallic world (rails), from both a paradigmatic and syntagmatic point of view. We’ll be looking at how these expressive substances harbour, in their materiality, a universe of content: what forces are they subject to? What tensions and resistances determine their form of existence? What are the paths of matter that drive them? To conclude, what is at stake in a tribological semiotics of materiality. À Didier Pesteil Travailleur de la traverse et du rail Le fer est plus dur que le granit. À l’extrémité de la rêverie dure règne le fer Gaston Bachelard, Le cosmos du fer Le train a le vent en poupe. En ces temps de mobilité contrariée par le désastre planétaire qu’elle contribue à engendrer, le train bénéficie d’un crédit d’innocence. Son empreinte sur le climat est faible, le voyageur qui l’utilise émet peu de dioxyde de carbone. Il est léger sur la terre. Mais le vent ? et de plus, en poupe, c’est à dire poussé sans effort par un vent arrière ? Serait-il devenu voilier, comme les cargos du futur, éoliens ? Non, “avoir le vent en poupe” est une métaphore figée en français qui signifie “avoir de la chance”, “être favorisé par les circonstances”. Ici, c’est le mode d’adhérence du train à la voie qui fait son mérite et sa légèreté. Et sur ce socle, loin de la plasticité marine ou de la voltige aérienne des planeurs, on est dans le dur : de la pierre, du fer et du bois. De la matière lourde. La dureté de ces matériaux conditionne la douceur de la mobilité. C’est à eux que je vais m’intéresser, et à ce rapport “énergétique” singulier qu’ils engendrent. La clef de ce paradoxe des chemins de fer se trouve donc dans la traverse, qui est cette pièce transversale en bois ou en béton, perpendiculaire aux rails, assurant leur rigidité et leur bonne assise sur le ballast, le matelas de pierres. Sans perdre de vue la question qui est posée dans le texte d’orientation de ce dossier, concernant la matérialité et sa “capacité de produire des articulations spécifiques de signification”, je choisis de traiter cet ensemble de matériaux dans la perspective d’une nouvelle approche de la figurativité, portant sur les matières et substances d’expression que la sémiotique a faiblement étudiées. On pourrait le faire en E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). relation, sur le plan du contenu, avec les imaginaires du “chemin de fer”, si foisonnants dans le roman, comme La bête humaine de Zola, dans la peinture, comme chez Manet, Monet, Delvaux..., dans le cinéma, comme dans La bataille du rail de René Clément et dans une myriade d’autres œuvres, si grande a été et est toujours la fascination du train. Mais mon investigation portera davantage ici sur la relation sémiotique que ces matériaux entretiennent avec les problématiques, décisives aujourd’hui, de l’énergie et de la mobilité. On aperçoit alors les disciplines qui se profilent à l’horizon : physique des matériaux, ingénierie et transformation industrielle, sociologie de la mobilité, écologie et science politique enfin... Autour de la matérialité, la sémiotique voit se réactiver une de ses préoccupations les plus tenaces, celle des relations interdisciplinaires que la nouvelle donne climatique, affectant tout le vivant sur la planète, rend plus que jamais impérieuse. Fig. 1 – Ballast, traverses, rail (Biars-Bretenoux). Voici donc le programme que je me propose de suivre. Nous trouvant dans un domaine technique, même s’il est apparemment simple, je commencerai par quelques définitions liminaires de termes avant de présenter la problématique générale dans laquelle cette étude s’inscrit : celle de la sémiotique du sensible, mobilisant les voies figuratives du sens. Après avoir parcouru, rapidement, l’histoire théorique de ce domaine en sémiotique, et surtout ouvert la réflexion aux orientations actuelles, je focaliserai mon attention sur la substance d’expression, domaine assez négligé de la sémiotique : celui de la matérialité des choses du monde, celui des objets en eux-mêmes dans lesquels on puise le sens. On passera alors à l’univers minéral de la pierre avec le ballast, à la matière ligneuse du bois avec la traverse et au monde métallique du fer avec le rail : on s’intéressera au sens de ces matériaux, paradigme de base du “chemin de fer”. Et enfin, nous examinerons comment ces substances d’expression abritent aussi, dans leur matérialité elle-même, un univers de contenu : à quelles forces sont-elles soumises ? Quelles tensions et résistances déterminent leur forme d’existence ? Quels parcours syntagmatiques de la matière les animent ? Dans le contexte actuel du changement climatique, on l’a vu, le chemin de fer apparaît, après la marche, le vélo, le voilier et le char à voiles, comme le plus vertueux des instruments de la mobilité : celui dont l’empreinte carbone est la plus faible. La SNCF, Société Nationale des Chemins de fer Français, déclare ainsi qu’un voyage en TGV équivaudrait à “12 fois moins de CO2 émis qu’en voiture électrique, 26 fois moins de CO2 émis qu’en voiture thermique, et 65 fois moins de CO2 émis qu’en avion”1. Chiffres discutables et discutés, variables selon les paramètres retenus, mais globalement partagés : “Selon les 1 “Avion, train, voiture... Quel moyen de transport pollue le plus ?”, par Caroline Quevrain et Samira El Gadir, TF1 Info, (en ligne) publié le 6 février 2023. 9 calculs de l’ADEME, l’Agence officielle de la Transition écologique, voyager en train pollue 32 fois moins que circuler en voiture, et 23 fois moins que voyager par les airs.”2 Cette prouesse écologique, c’est au rail, aux traverses et au ballast, d’une rigidité et d’une immobilité parfaites, que le train la doit ! Car le lourd convoi ferroviaire, transportant une masse de monde en un trajet (1032 personnes pour un double TGV Dupleix), limite considérablement les frottements en raison de la zone de contact très réduite de la roue en fer sur le rail en fer (environ 1,5 cm2, ce qui est très peu au regard de leurs tailles respectives). Claire Nicodème, docteure de l’École des Mines (Paris), a traité dans sa thèse le problème de l’évaluation en continu des variations de l’adhérence roue-rail. Elle écrit : L’avantage du train depuis sa création est sa faible résistance à l’avancement du fait du contact fer- fer de la roue sur le rail conduisant à une adhérence réduite. A charge équivalente, le train consomme beaucoup moins d’énergie que les autres modes de transports (Nicodème 2018, p. 9). Fig. 2 – Extrait de Claire Nicodème, L’évaluation de l’adhérence au contact roue-rail par l’analyse d’images spectrales (2018, p. 21). C’est ce phénomène qui permet de dire que l’immobilité dure est au service de la mobilité douce. Mon objet ici est d’analyser, non pas techniquement mais sémiotiquement, cette fonction ancillaire et d’en tirer quelques conséquences. De ce point de vue, cette étude s’inscrit dans la problématique générale de la Sémiotique du sensible. 1. Éléments de tribologie Voici, extraites du dictionnaire Petit Robert, les définitions de nos trois mots-clefs, auxquels on a ajouté ici le “tirefond”, élément essentiel de jonction entre les matériaux transformés. Ballast, n. m. – Pierres dures concassées qu’on met sous les traverses d’une voie ferrée. Ballaster, v. tr., répartir du ballast sur une voie de chemin de fer. Granulat. Lit de cailloux qui supporte une voie de chemin de fer. Traverse, n. f. – Pièce de bois, d’acier ou de béton placée en travers de la voie pour maintenir les rails et transmettre les charges du rail au ballast. 2 Information Greenly. Institute. ADEME (Agence De l’Environnement et de la Maîtrise de l’Énergie), établissement public créé en 1991, connue également sous le nom d’Agence de la Transition Écologique. Elle est placée sous la tutelle du Ministère de l’Enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et du Ministère de la Transition écologique et solidaire. 10 Rail, n. m. – Chacune des barres d’acier profilées, mises bout à bout sur deux lignes parallèles et posées sur des traverses pour constituer une voie ferrée ; chacune des deux bandes continues ainsi formées. Tirefond ou tire-fond, n.m. – Grosse vis à bois ou longue tige filetée à tête de forme variable selon l’utilisation (carrée, hexagonale, en anneau etc.) ; sert en particulier à la fixation des rails sur les traverses en bois. Mon propos n’est pas ici d’analyser l’écriture définitionnelle. Observons seulement que l’énoncé se focalise d’abord sur l’identification de la matière (pierre, bois, acier) et se poursuit immédiatement par les opérations effectuées sur elle (concassage des pierres, disposition des bois, profilage et alignement des barres d’acier, utilisation de la vis etc.). Cette matière n’existe que par ce qu’on en fait, que par ce en quoi elle est transformée et vouée à une destination : définition fonctionnelle qui efface en quelque sorte la matérialité inerte de la chose pour n’en retenir que la syntaxe qui l’actantialise. De son côté, le sujet du faire est en lui-même, occulté (participe passé, “on”) : il est l’un des pôles du programme transformateur et se suffit lui aussi comme pure actantialité présupposée. Notons encore que les opérations retenues sont évidemment très partielles, chacun des matériaux étant en réalité, à partir de son état brut initial, l’objet de très nombreuses manipulations techniques ici occultées. L’élision définitionnelle ne vise donc qu’à retenir les traits permettant d’assurer, a minima, l’identification de l’objet par sa fonction. Tout commence donc par le ballast – posé sur un sol préparé, nivelé, égalisé. Il est en pierre de basalte concassée, réduite en cailloux aux formes aléatoires mais à angles aigus, de 3 à 5 cm d’épaisseur. On en met 2000 tonnes par km, sur une épaisseur de 20 à 30 cm. Ces cailloux ont pour fonction de supporter la pression et d’amortir les vibrations au passage du train : l’onde de choc est absorbée par ce matelas qui la diffuse de caillou en caillou et empêche qu’elle soit répercutée et perçue dans le voisinage. De plus, ce dispositif est perméable et favorise le ruissellement de l’eau en empêchant toute stagnation. Ce ballast a globalement une durée de vie déterminée (40 ans), modulée par les efforts qu’il endure, son mode de tassement, son usure (les cailloux de surface sont changés tous les 7 ans environ). Ses traits principaux sont donc : compacité et perméabilité, absorption des ondes de choc. Le ballast enchâsse les traverses, assure leur immobilité et garantit leur résistance. Celles-ci, en forme de parallélépipède allongé, sont disposées avec rigoureuse régularité (une tous les 60 cm, soit 1666 traverses/km). Elles ont pour mission de maintenir l’écartement des rails, ainsi que leur légère inclinaison vers l’intérieur (au 1/20e à la SNCF) afin que l’effort des roues soit bien maintenu dans l’axe vertical du rail. Elles transmettent au ballast la charge du train. Elles sont traditionnellement en bois dur, en chêne notamment, imprégné de créosote de goudron de houille – produit hautement toxique qui les rend imputrescibles et leur garantit une vingtaine d’années de vie. Aujourd’hui, les traverses sont le plus souvent en béton (plus durable (50 ans), non putrescible et moins cher. L’article de Wikipédia apporte d’autres précisions : Leurs dimensions sont généralement, à la SNCF, de 2,6 m de long, 25 cm de large et 15 cm d’épaisseur (les bois d’appareils ont des longueurs variant de 2,60 à 6,00 m.). Elles sont entaillées pour permettre l’appui des rails. La zone d'appui, dite “table de sabotage”, est délimitée de manière à déterminer l'écartement des rails et leur inclinaison. Une traverse pèse environ 80 kg. Voici donc posés les acteurs de la tribologie : “La tribologie est la science qui étudie l’interaction de deux objets en contact, en particulier les frottements” (Nicodème 2018, p. 15)3 . On comprend les contraintes tensives qui déterminent les conditions tribologiques entre la roue et le rail : il faut le moins d’adhérence possible pour limiter la dépense énergétique ; mais il faut assez d’adhérence, c’est-à-dire 3 “Tribologie ( grec tribein = frotter) – Partie de la mécanique traitant du frottement et de ses effets” (Petit Robert). 11 des frottements suffisants pour, d’un côté, amorcer le mouvement, permettre l’accélération et assurer le maintien de ce mouvement, mais aussi, d’un autre côté, permettre le ralentissement et l’arrêt du matériel roulant : qu’il s’agisse de traction ou de freinage, l’adhérence est l’enjeu fondamental. Restons un instant sur ce point pour montrer que le sensible se trouve aussi dans la relation entre les choses mêmes. Et, précisément, entre des exigences contraires qu’implique par exemple le contact fer-fer entre la roue et le rail. Ces choses, comme en toute relation mécanique – et plus largement –, réclament un ajustement entre leurs dynamiques réciproques, elles demandent un point de justesse (Bertrand 1993, p. 37-51) qui définira l’optimalité de ce contact, de cette adhérence dans le contact, et de la fiabilité qui en résultera. On comprend qu’il faille une thèse pour “estimer le coefficient d’adhérence au contact roue- rail”, avec des instruments d’analyse très élaborés (ici “images spectrales”), cette adhérence étant confrontée à des “contaminants” qui la contrarient tels que l’eau, les corps gras, les feuilles mortes, les poussières polluantes... Ce contact roue-rail, qualifié de “complexe et imparfait” (Nicodème 2018, p. 21), repose donc sur une acception particulière du terme “sensibilité”, rapportée à l’univers des objets techniques, et comprise comme “aptitude à détecter et à amplifier de faibles variations d’une grandeur, ou à réagir rapidement à un contact” (Petit Robert, entrée “Sensibilité”). Il convient d’évoquer ici l’importante contribution de Jean-François Bordron à la sémiotique des matières à travers son “esquisse d’ontologie matérielle” dans l’étude des processus méréologiques sous le titre “Les objets en parties” (Bordron 1991, pp. 51-65). Il y analyse les différents types de relations entre les parties et les totalités qu’elles viennent ainsi à constituer, et il en construit une minutieuse typologie : il distingue les “compositions”, les “configurations”, les “architectures”, les “agglomérations”, les “chaînes” et les “fusions”. Les désignations sont assez suggestives pour donner une idée des modes de combinaison sans qu’il soit nécessaire de s‘y arrêter. Car pour nous l’essentiel n’est pas là. Que les parties soient serrées et soudées comme le granit, ou qu’elles soient relativement lâches et dilatables comme dans un vol d’oiseaux, le problème des zones de contact se pose, que l’étude ici citée ne traite pas. Or cette question semble essentielle dès qu’un ensemble de parties s’ajuste à d’autres parties, en une totalité (ou non), par le moyen d’un mouvement : les frottements, la friction, les froissements, les glissements, le grattage, le grippage, le fricativité etc., avec leurs manifestations transformatrices, entre la résistance, l’usure, la fêlure et la rupture, deviennent autant de motifs tribologiques, pourvus de leurs logiques propres, de leur sensibilité et de leurs effets réciproques. Ainsi la tribologie peut être considérée comme une partie de la méréologie, et le chantier en est ouvert4. 2. Problématique générale de la Sémiotique du sensible Ces dernières observations justifient qu’on situe donc la présente étude dans le cadre plus général d’une sémiotique du sensible. Eu égard à notre objet, et à son ancrage dans l’épaisseur du réel, deux mises au point préalables me semblent ici nécessaires. 4 La sémiotique tribologique – sémiotique des interactions entre les matériaux –, pose d’importants problèmes théoriques à une analyse de la signification: qu’est-ce qu’une “interaction mécanique”? Quel est le statut du concept central de transformation dans le contexte proprement matériel (usure, cassure, fonte, vaporisation etc.) en relation avec sa fonction d’opérateur de la narrativité? Comment cette phénoménalité peut-elle être décrite hors de la présupposition d’un observateur (cfr. J. Fontanille)? Comment appréhender enfin cette propension de l’interaction des matériaux à “prendre la valence d’une parabole”, sous la houlette d’un observateur justement, générant des fables de l’usure, de la résistance, de l’explosion etc.? (Merci au relecteur qui a suggéré cette question). 12 2.1. Les deux voies du sensible Notre excursion du côté de la sensibilité au sens technique, celle qui concerne les matériaux, nous amène à catégoriser à grands traits cet espace signifiant. Ce qu’on appelle en phénoménologie le “monde sensible” (Merleau-Ponty) est mobilisable, actualisable, accessible et “éprouvable”, en suivant deux grandes voies : la voie directe par l’expérience de nos sens, et la voie indirecte par la médiation d’un langage (quel qu’il soit, verbal ou non verbal) qui restitue cette expérience, d’une manière ou d’une autre, jusqu’à nous la faire “revivre”. Par la voie directe, ce qui permet la relation entre sujet et monde sensible, c’est donc l’expérience des cinq sens, de leur syncrétisme poly-sensoriel et de leur sensori-motricité. Je renvoie ici aux innombrables travaux sur le sujet – en psychologie (Straus 1935), en phénoménologie (Merleau-Ponty 1945), en sémiotique (Fontanille 2011). Et il y a aussi la sensibilité intra-objectale, celle que j’évoquais il y a un instant, sensibilité des instruments (comme celle d’un thermomètre) et des machines (comme l’analyse spectrale des conditions tribologiques de frottement). Par la voie d’accès indirecte, et donc médiée par les langages, le concept-phare qui permet d’en rendre compte est à mes yeux celui de figurativité. Greimas l’a proposé pour nommer la manière dont certains textes, certaines images, certaines musiques même, nous restituait l’expérience “vécue”. C’est évidemment l’espace immense du discours documentaire et de la fiction romanesque, filmique et autre qui s’ouvre ici. Et je retiens que les codifications de la figurativité font l’objet d’affinements spécifiques aux cultures, qui vont rhétoriquement s’amplifier en registres de discours et en genres textuels. Un des chantiers de la sémiotique aujourd’hui, surtout depuis la grande transformation épistémique de la discipline due à son “tournant phénoménologique”, est précisément d’articuler l’accès dit “direct” et l’accès “indirect”, de décrire les deux d’un seul tenant, en somme de tenir ensemble les deux expériences du sensible, ce que Jean-Claude Coquet appelle la phusis et le logos. Je renvoie ici au numéro de la revue Littérature intitulé “Comment dire le sensible ? Recherches sémiotiques”, dirigé par Jean-Claude Coquet et moi-même (Bertrand, Coquet 2011), dont le but était précisément de faire face à cette double direction, et même cette double rection, du sensible. Car nous devons retenir aussi les corrélations entre les deux versants du “sensible” condensés dans le même lexème en français, que ce soit dans l’une ou dans l’autre voie d’accès : le versant perceptif (ou sensoriel) et le versant pathémique (ou passionnel). On peut s’émouvoir à la vue d’un paysage ou d’un accident, comme on peut s’émouvoir en lisant un roman ou en regardant un film. Cette première mise au point, pour être élémentaire, n’en recouvre pas moins de redoutables problèmes d’analyse, qui ont été et sont au cœur de bien des débats en sémiotique, en pragmatique et en théorie littéraire. 2.2. Evolution du concept de figurativité en sémiotique La seconde mise au point croise, à bien des égards, la problématique précédente : la figurativité me semble un marqueur des états de la discipline au fil de son évolution. Il me faut là aussi être extrêmement synthétique, car mon objectif n’est pas de retracer l’histoire d’un concept au sein de notre discipline – un concept du reste relativement tombé en désuétude chez beaucoup de sémioticiens. Je n’oublie pas que notre affaire c’est le ballast, la traverse et le rail ! Mais il s’agira plutôt de montrer une limite de cette conceptualisation, et d’expliquer comment, d’une certaine façon, la figurativité sémiotique nous barre le chemin de la traverse et du rail. Je rappelle donc que la première définition de la figurativité est admirablement structurale – comme l’est, de par son origine théorique, la sémiotique elle-même. L’effet “figuratif” du sens résulte du mode de combinaison différentielle des sèmes qui aboutissent à la signification des mots – les fameux “sémèmes”. Il résulte d’un phénomène de “densité sémique” : si un terme admet très peu de 13 combinaisons sémiques, donc peu de contextes d’emploi, il sera porteur d’un sens très spécifique, le plus souvent concret, et il sera qualifié de haute densité sémique. C’est le cas par exemple avec “ballast”. Ce mot a, à ma connaissance, deux domaines d’acceptions en français : celui du chemin de fer, comme on l’a vu, les cailloux concassés qui font le matelas de la voie ferrée ; et celui de la marine où il désigne un compartiment qu’on peut remplir ou vider d’eau pour alourdir ou alléger une embarcation (un sous- marin par exemple). Il serait évidemment possible d’élargir le champ des contextes (en élargissant du même coup la combinatoire sémique) si on cherchait à faire un emploi métaphorique du mot “ballast”, et il faut reconnaître que c’est un bon candidat à la métaphore. Quoi qu’il en soit, la haute densité sémique définit la figurativité en sémantique. Alors que si on envisage, à l’inverse, des lexèmes tels que “beauté”, ou “concept”, ou “tableau”, on voit tout de suite que ces mots sont de faible densité sémique car ils sont utilisables dans une multitude de contextes différents. Cette faible densité sémique définit les termes abstraits, non-figuratifs. Une deuxième étape de la définition de la figurativité vient avec le développement de la théorie générative en sémiotique, la formulation du parcours génératif de la signification. Ce modèle, bien connu mais assez faiblement exploité et soumis à de rudes critiques, conçoit donc la formation du sens selon un parcours qui va du plus général et du plus abstrait, vers le plus particulier et le plus concret. Ainsi, au plus profond on a les catégories qui structurent un univers de sens, susceptibles de s’organiser en un carré sémiotique de relations fondamentales. Celles-ci se spécifient au niveau des structures narratives, dont les chevilles ouvrières sont les actants, sujets qui se conjoignent aux objets de valeur ou s’en disjoignent. Leurs agencements formant la grande nappe narrative stéréotypée du “schéma narratif”. Et ces actants, à un troisième niveau, se thématisent – les “sujets” deviennent professeur, gendarme ou voleur – cette thématisation indiquant leur mode d’insertion dans l’actant collectif. Et enfin, ils se figurativisent : ce gendarme est roux, il a des yeux bleus, il a un uniforme noir, il est très poilu, il tire avec son Manurhin X1/357 Magnum sur le manifestant qui s’enfuit etc. La personne, l’espace et le temps sont les trois grands domaines de la figurativité. C’est par elle que les langages nous restituent une expérience du sens, sinon analogue, du moins comparable à celle que nous vivons ou pouvons ou pourrions vivre dans la réalité (cf. la peinture hyperréaliste). Cela nous mène au troisième âge de la figurativité, celui de sa définition phénoménologique. Elle est alors rapportée à la perception elle-même, et à ses conditions d’exercice que les philosophes (de Husserl à Merleau-Ponty, et de Pradines à Maldiney) ont si admirablement décrites : la suspension phénoménologique des croyances et des savoirs qui enveloppent la perception (l’épochè), la saisie inévitablement fragmentaire du monde sensible (les esquisses) qui rendent inaccessible le “quoi” des choses perçues, le “monde naturel” compris comme un “logos à l’état naissant” (Merleau-Ponty), c’est- à-dire comme une “sémiotique naturelle” dit Greimas, bref, l’objet – même mis en discours, que ce soit par un Zola, une Sarraute ou un Beckett – ne peut être séparé du sujet qui perçoit. Le phénomène est tout entier dans leur interaction, et la figurativité est le résultat de la sémiose perceptive. Jean-François Bordron (2011), en a décrit l’architecture en distinguant trois phases dans cet avènement du sens sensible – ou figuratif : la phase indicielle du “il y a quelque chose qui me fait signe”, la phase iconique du “ce quelque chose me rappelle quelque chose” qui me permet de l’identifier, et la phase symbolique, lorsque ce quelque chose devient la chose que je reconnais entièrement, inscrite dans un contexte d’usage, en vertu des règles qui lui confèrent son statut. Pour lui, la figurativité greimassienne correspondrait à ce stade symbolique. Et la matière dans sa forme brute, immédiatement donnée aux sens, correspondrait au mieux au stade indiciel de la sémiose perceptive, lorsqu’on pressent qu’il y a quelque sens qui cherche à se dire ou qu’on cherche à éveiller, mais qui reste dans l’épaisseur insondable de la matérialité. Ainsi donc, à travers ces trois grands moments analytiques, la figurativité s’enrichit de perspectives nouvelles – qui ne s’annulent pas du reste, et se potentialisent plutôt. Mais elle reste pour l’essentiel un concept descriptif centré sur la “forme du contenu” de la sémiose : le sens qu’elle délivre et non la 14 matière à travers laquelle elle se manifeste, le recours à l’expérience du monde sensible en tant qu’il fait sens, mais non la texture du monde au sein duquel nous sommes nous-mêmes enfouis. 2.3. La sémiose (Hjelmslev) enrichie Eclairons l’expression “forme du contenu”, bien connue des sémioticiens. Elle vient comme on sait du célèbre schéma hjelmslévien de la semiosis, fondé sur la soudure des deux plans de tout langage, le plan de l’expression et le plan du contenu, le signifiant et le signifié, une matérialité génératrice d’une représentation mentale. Tout cela est familier : c’est ce qu’on apprend en première année de formation en linguistique. Mais on peut, me semble-t-il, ajouter deux observations à ce dispositif. Premièrement, la distinction entre substance et forme – substance et forme de l’expression, substance et forme du contenu – n’est pas toujours très claire : et pour cause. Cette distinction a été d’une certaine manière limitée par l’univers strictement linguistique auquel elle a été initialement appliquée. Alors, pour l’illustrer, on disait – c’est ce qu’on trouve dans le dictionnaire de Greimas-Courtés (1979) – que la substance de l’expression, c’est la phonétique : les sons produits dans notre bouche, ce qui sort de notre physiologie corporelle, de notre appareil phonatoire ; et que la forme de l’expression c’est la phonologie, c’est-à-dire non plus les sons mais les phonèmes, les modulations sonores de la langue en tant qu’elles s’interdéfinissent par différence et opposition pour faire sens, en tant qu’elles deviennent par là des signifiants dans tel ou tel idiome selon son propre système différentiel. Même chose pour la substance du contenu – les universaux chromatiques, les universaux de parenté etc. – articulés différemment en formes du contenu selon les cultures. Ces deux substances sont devenues plus ou moins marginales, laissées en friche, et la sémiotique s’est bâtie “de forme à forme”, dans la relation exclusive entre forme d’expression et forme du contenu. Or aujourd’hui on s’intéresse aux matériaux, aux objets du monde, à leur texture, à leur dureté ou à leur mollesse, à leur présence, charnelle ou autre, opaque et résistante, à notre relation de sujets avec eux, dans et par la perception. Cet intérêt renouvelé n’est ni gratuit ni le fait d’un hasard épistémique. Il est nécessaire et même décisif : car le changement climatique a fait remonter à la surface de notre attention la température de l’air et celle de l’eau, les changements de matières comme les glaciers qui fondent, la forme de la pluie comme ces grêlons qui, gros comme des balles de tennis, bombardent les toitures et font éclater les tuiles. Alors il devient urgent de se tourner vers les substances d’expression qui sortent de l’inertie et de l’imperceptibilité où l’usage les avait reléguées. Ma seconde remarque sur le modèle classique concerne ce qui apparaît à gauche sur le schéma de la sémiose présenté ci-dessous, et qui est absent de sa version formelle, structurale. Rapportée au sujet de la perception comme au sujet de l’énonciation et à leurs diverses instances, la relation entre les deux plans ne peut être acceptée en elle-même, comme une simple idéalité, un concept platonicien, une pure forme. Quelles que soient leur manifestation, quelle que soit leur inscription dans un langage (plastique, musical ou verbal, ou autre) ou plus immédiatement encore dans la perception du monde, la relation ainsi isolée est soumise à une contrainte inhérente à notre nature terrestre, et propre à notre espèce, définitoire de notre Umwelt, qui est la contrainte de perspective. Pas de sens, dans le monde animé, sans perspective. Pas de vu sans non vu, pas de su sans non su, pas d’entendu sans non entendu, pas de senti sans non senti. Cette idée, au moins depuis Uexkull (1934), est banale, chaque espèce est dans son monde, s’en contente et même s’en satisfait. Qu’est-ce que ça fait d’être dans la peau d’une vache, ou d’une fourmi, ou d’un cachalot... ? Ces questions hantent la littérature5. 5La question de savoir comment, par quelles sélections, par quelles occultations, par quelle motricité s’est forgé au cours de l’évolution l’univers perspectif à travers les modalisations perceptives pour telle ou telle espèce est d’ordre ontologique et, pour passionnante qu’elle soit, se situe à mes yeux hors du champ proprement sémiotique. 15 C’est pourquoi il me semble que le modèle de la sémiose devrait intégrer le paramètre de la perspective, à même hauteur (ou profondeur, ou généralité) conceptuelle et théorique que la relation réciproquement fondatrice entre les deux plans. Et j’ajoute : la perspective augmentée de ses deux branches, qui en encadrent et en spécifient la portée : le point de vue, pour le sujet qui perçoit, la focalisation pour l’objet qui est perçu... en aménageant évidemment tous les allers et retours possibles, les entrecroisements, les réciprocités et les confusions entre ces deux opérations qui font advenir à nos sens, le sens. Fig. 3 – Le modèle de la sémiose enrichie. Enfin, avant de nous focaliser sur le ballast, la traverse et le rail, revenons in instant sur la substance de l’expression et son rapport avec la matérialité elle-même. 3. Matérialité et substance de l’expression Voici la définition sémiotique classique : “On entend par substance la “matière” dans la mesure où elle est prise en charge par la forme sémiotique en vue de la signification.” J’en ai librement adapté la formulation à partir de celle d’A. J. Greimas et J. Courtés dans le dictionnaire de sémiotique (1979, p. 368). Elle montre une transformation graduelle entre trois termes : 1. Matière, 2. Substance, 3. Signification. C’est ce parcours, entièrement pris dans l’enveloppe de la perspective, c’est-à-dire du sujet énonçant et simultanément percevant, qui montre le passage du matériau brut, ce que Paul Valéry appellera dans un instant “l’informe”, à la forme de l’expression qui se collera, comme par un adhésif double face, à la forme du contenu. La substance est donc, à mi-parcours de ce matériau et de la forme d’expression, cette matière en tant qu’elle est déjà informée de langage, prête à se mouler dans une relation de forme à forme, d’expression à contenu, prête à signifier. Cet état est celui qui me semble admirablement décrit dans le texte de Paul Valéry , “Du sol et de l’informe”, un des chapitres de Degas Danse Dessin, ouvrage d’analyses et de réflexions sur le peintre qu’il admirait, sur le dessin, sur la création. Il y écrit (1938, p. 102) : “Il y a des choses, des taches, des masses, des contours [...] qui n’ont qu’une existence de fait : elles ne sont que perçues par nous et non sues”. Et il ajoute plus loin : “Dire que ce sont des choses informes, c’est dire, non qu’elles n’ont point de formes, mais que leurs formes ne trouvent en nous rien qui permette de les remplacer par un acte de tracement ou de reconnaissance nets”. Pas de geste d’iconisation – pour reprendre la sémiose perceptive de Bordron. Paul Valéry inventait ainsi la suspension phénoménologique, l’épochè évoquée tout à l’heure. La forme informe précède le jugement d’identification, soumis à l’habitude de voir. Et de reconnaître. Si elle ne nous laisse pas immergés dans la matière, elle nous tire vers la substance d’expression. Ainsi en va-t-il du ballast : si on le regarde de près – comme tout matériau du reste, et en dehors d’un regard scientifique – on est dans la forme de l’informe. Or ce qui compte aussi, dans l’examen de ces matériaux, c’est l’ordre et le mouvement de leur relation. De quoi donc est fait cet ordre, par delà la pure fonctionnalité des choses ? 16 4. La pierre, le bois, le fer : de l’informe à la ligne Les trois matériaux retenus forment un paradigme des matières : la pierre, le bois, le fer. Et leur état de choses, disposées en contiguïté comme elles le sont, se prête à cette lecture paradigmatique. On peut observer alors une gradation de leur état. Quand on passe du ballast à la traverse et de la traverse au rail, une série d’“événements de matière” se produisent, qu’on interprétera comme une transformation qualitative, une réduction quantitative, et une augmentation fonctionnelle – on pourrait même la dire axiologique. Dans la hiérarchie de choses, c’est le rail qui occupe le premier rang, la plus noble fonction : la traverse et le ballast sont, littéralement, à son service. Mais, si l’on s’en tient à la description formelle des propriétés de ces matériaux, on peut dire que l’ensemble, régi par la catégorie élémentaire continu vs discontinu, passe progressivement du plus discontinu au plus continu. Cette catégorie “profonde” sous-tend une série de différenciations catégorielles des matériaux que l’on peut décliner comme suit : 1. Sur le plan qualitatif, on passe du plus informe au plus formé et (trans-)formé ; 2. Sur le plan quantitatif, on passe du plus multiple au plus unique ; 3. Sur le plan du faire (des programmes d’action que leur réalisation présupposent), on passe du plus brut au plus travaillé ; 4. Sur le plan des états enfin, on passe du plus inerte au plus mouvant (la dilatation du rail). Examinons de plus près ces matières et le chemin par lequel elles deviennent substances d’expression. 1. Les cailloux du ballast tout d’abord : une pluralité sans ordre. Voici une matière naturelle à l’état brut, minérale, géologique (le basalte), retenue pour sa dureté et ses cassures nettes. Cette matière détachée de la terre pour y revenir est le produit d’une transformation élémentaire aléatoire, le concassage. Elle se présente comme un agrégat de parties aux arêtes aigües, sans formes définies, indifférenciées, grossièrement (et aléatoirement encore) réunies en tas pour donner l’impression d’une forme grossière comme la base d’une sorte de pyramide. Ce qui caractérise cet ensemble, c’est doncle pluralisé, le fragmenté, le dispersable (chercher à dessiner un tas de ballast serait faire, comme le suggère Paul Valéry, un “exercice par l’informe”). Néanmoins, dans son inertie même, ce tas de pierre exerce, du fait de son état, plusieurs fonctions élémentaires, comme “primaires” : une fonction de socle : immobiliser, assurer la stabilité de l’ensemble ; une fonction d’éponge : amortir les vibrations, briser l’onde de choc en la répartissant sur les cailloux, atténuer le bruit, absorber les eaux de pluie ; et une fonction de régulation : contenir les traverses, leur transmettre l’immobilité. 2. Les traverses (en bois) : la série. Voici une matière naturelle, bois de chêne ou de hêtre, mais transformée, objet de nombreuses opérations : séchage, découpe, pose de colliers de fer pour éviter l’éclatement des fibres (frettage et soudure), injection de créosote de goudron de houilles pour l’imputrescibilité, découpe de la “table de sabotage” pour l’appui du patin du rail et son inclinaison vers l’intérieur (1/20e). Tout cela afin de réaliser une série ordonnée de parallélépipèdes identiques, innombrables, chacune des traverses dotée de quatre “tirefonds” et d’autant de “crocs” pour fixer le rail, présente ainsi forme matérielle régie par des paramètres physiques quantifiés et constants (dimensions, poids, type etc.). Lorsqu’elles supportent des aiguillages elles sont plus longues, jusqu’à 6 m, et on les appelle “longrine”. Enfin, ces traverses de bois, souples mais mortelles, ont des concurrentes plus durables : le fer et le béton (elles-mêmes objet de plusieurs variantes), qui tendent aujourd’hui, quoique partiellement, à s’y substituer. 3. Le rail : l’unité duelle. Les traverses se présentent comme une sorte d’état de matière intermédiaire entre le ballast et le rail. Celui-ci est caractérisé par l’unité, une unité duelle. Matériau transformé, usiné, unifié, aux formes élaborées entre son champignon, son âme et son patin, il appartient à une famille de formes. Il est le matériau-agent, au contact de la roue, fer sur fer, faisant alors apparaître une zone brillante et argentée de l’acier frotté. Son inclinaison sur la traverse (1/20 e) permet la bonne transmission de l’effort, dans l’axe de l’âme du rail. Le rail se définit par sa 17 gémellité, il est duel, au parallélisme rigoureux et intangible. À eux deux, les rails dessinent une double ligne continue, à l’infini. Passage du discontinu désordonné du ballast et ordonné des traverses au continu du rail ? Non, pas tout- à-fait, car le rail vit, se dilate et se rétracte selon les variations de la température. C’est un matériau mouvant: les joints de dilatation rompent la continuité et transmettent leur effet vibratoire et sonore au voyageur. Cette expérience sensorielle est même devenue l’emblème du voyage en train : “tac-tac, tac-tac, tac-tac”. Pourtant, au terme de ce processus de réduction de l’agrégat pluralisé et informe en série géométriquement ordonnée, puis de la série à l’unité duelle, le rail incarne, pourrait-on dire, l’essence de la ligne. Dans Logique du sens, sous le titre “Zola et la fêlure”, Gilles Deleuze observe que, dans tous les romans des Rougon-Macquart, “il y a un énorme objet phantasmé, qui est aussi bien le lieu, le témoin et l’agent” (Deleuze 1969, p. 383). Il reconnaît dans la locomotive de La Bête humaine, La Lison, cette fonction syncrétique, où se répercutent et se rejoignent, par une sorte de congruence, les thèmes, les valeurs et les figures éparses par ailleurs dans le roman. On pourrait selon moi attribuer aussi, et surtout, ce statut à la ligne, celle qui assure le va-et-vient entre Paris-Saint-Lazare et Le Havre, et sur laquelle se produisent et se concentrent tous les événements majeurs du roman : les assassinats, suicide, catastrophe... Ligne du rail, sur laquelle se trouve également, rompant la continuité, la fêlure du joint de dilatation, emblème de toutes les fêlures psychiques de l’univers zolien. Fig. 4 – Ballast, traverses, rail : joint de dilatation (Biars-Bretenoux). Photo de l’auteur. Plus généralement, dans l’imaginaire de la praxis énonciative, et sans doute par un effet de son parallélisme rigoureux, la ligne de chemin de fer incarne aussi la ligne droite, avec ses effets axiologiques convenus de rectitude, que l’on retrouve dans plusieurs métaphores figées : “être sur de bons rails”, “sortir des rails”, “vous déraillez mon ami !”. On le voit, au sommet de la composition matérielle qu’elle a en partage avec le ballast et les traverses, la ligne du rail élève pour ainsi dire le débat6 : son statut fait qu’elle accueille la figurativité abstraite des axiologies et se transcende ainsi, alors que ses deux partenaires – ballast et traverse – restent inexorablement engoncés dans leur statut de matérialité. Cette dernière observation nous mène directement au dernier point que nous ne pouvons ici qu’évoquer succinctement : l’approche syntagmatique des matériaux. 6 Voir, pour une réflexion plus étendue sur la problématique de la ligne, mon essai “La ligne et le son” (Bertrand 2018, pp. 71-80). 18 5. Approche syntagmatique : les interactions matérielles Au sein de la matière, si on la considère dans l’épaisseur de ses formants et en amont de la substance d’expression, un problème sémiotique se pose : comment appréhender les relations signifiantes qu’elle entretient avec elle-même et avec les autres matériaux de son environnement ? Une “physique du sens” ne s’impose-t-elle pas, en amont des simulacres sémantiques, énonciatifs, symboliques, narratifs et passionnels dont, de l’extérieur, nous les affectons ? On revient ici aux conditions tribologiques de la signification matérielle : les tensions, les frottements, les contrariétés internes aux choses comme les fluidités, les graisses etc. Un vaste domaine de parcours signifiants, qu’on n’ose appeler “narratifs” par crainte d’un anthropocentrisme naïf mais qu’atteste pourtant ces mouvements naturels, parfois caressants comme une brise, souvent violents et brutaux comme un séisme, au sein des matières. Ils se déroulent indépendamment de notre perception et ne sont pour autant pas sans effet sur elle. On pourrait les identifier comme des configurations dynamiques, au tempo varié, susceptibles d’une approche tensive, et générant de véritables motifs (au sens sémiotique), motifs qui émergent et jaillissent des choses, en les transcendant parce qu’elle les donnent à lire et à interpréter. Dans le domaine étroit que nous avons parcouru ici, celui des relations matérielles entre le ballast, la traverse et le rail, on a déjà identifié des relations paradigmatiques. Un pas de plus nous permet maintenant de reconnaître des configurations syntagmatiques dont je me contente ici d’esquisser un inventaire partiel et provisoire. 1. Motif de l’usure : il affecte tous les matériaux dans leur devenir, selon des temporalités différentes de la dégradation liées à leur texture, à leur dureté, à leur enveloppe. L’usure est essentiellement une affaire de tempo et appelle une sémiotique de l’échelle et de la mesure. Les dégradations infinitésimales d’un côté, les détériorations foudroyantes de l’autre. 2. Motif de la résistance : il prolonge le précédent, comme un de ses programmes d’usage, la résistance déterminant le tempo de l’usure. Mais elle s’en différence également, faisant apparaître des traits spatio-temporels qui lui sont propres. Ainsi, en qui concerne la résistance des traverses, celle-ci peut être affectée de degrés différents selon qu’elles sont soumises à la seule force linéaire en ligne droite, ou que vient s’ajouter la force centrifuge en courbe, étirant les matières vers l’extérieur d’elles-mêmes, affectant les tirefonds dans la texture du bois et suscitant des énergies obscures au sein des fibres. 3. Motif de la hiérarchie : on peut parler d’une relation de “service” entre les matériaux : la pierre au service du bois, le bois au service du fer (le fer au service du train). Indépendamment de leur affectation – au sens administratif – à ces fonctions, s’exercent néanmoins les effets d’une hiérarchie interne traduite en tensions, en blocages, en assouplissements, et autres configurations tribologiques. 4. Motif de la solidarité : il concerne les différents modes d’interaction et de jonction au sein des matériaux. La solidarité peut aussi se présenter selon divers degrés de proximité, allant du contact jointif, par serrage ou emboîtement par exemple, jusqu’à la fusion (par soudure naturelle) qui s’exerce au foyer le plus intime des matières. Par elle se réalise l’unité de l’hétérogène, l’alliage et même l’alliance. Ce motif est également soumis à la contrariété des déchirures, des ruptures, des explosions. La liste n’est pas close, bien sûr, et une grammaire syntagmatique des matières, qui reste à construire, serait à coup sûr, riche d’enseignements. En définitive, que devons-nous comprendre ? La leçon des choses ? Le dialogue des matières ? L’harmonie ? La catastrophe ? Dans tous les cas, nous nous dirigeons vers l’expression d’un contenu propre au plan de l’expression, en amont même ce qu’on nomme “substance d’expression”7. 7Je renvoie ici à l’étude réalisée conjointement par Denis Bertrand et Verónica Estay Stange, sur la charpente déictique élémentaire révélée par les propriétés tensives, aspectuelles et rythmiques du sensible. L’article invite à une plongée dans le sensible afin d’explorer son substrat déictique et par là, sa signifiance inhérente (Bertrand, Estay Stange 2021, pp. 69-81). 19 6. Conclusion Une des premières conclusions de l’analyse qu’on vient de présenter, me paraît être le bien fondé d’une sémiotique de la matérialité. Celle-ci réclame l’autonomie de la substance d’expression – que l’on sait informée de langage, donc de sens potentiel – mais en suspendant, en retenant en quelque sorte, ce passage de la matière à la substance. Loin d’être un simple complément théorique, comme un champ particulier qui viendrait élargir un domaine académique et le compléter, cette sémiotique de la matérialité reçoit du monde contemporain une justification majeure : le changement climatique fait remonter sous nos yeux et à tous nos sens les impératifs d’une matérialité que l’usage et les habitudes culturelles avaient désémantisée sous la forme de simples supports silencieux de nos vies. Voici qu’ils surgissent en signifiants nouveaux dont il nous revient d’interroger la matière même. À partir de l’exemple simple de la pierre, du bois et du fer, exprimés en ballast, en traverses et en rails, on a pu ainsi dégager, par une lecture paradigmatique, le dispositif hiérarchisé des matières assemblées : il en résultait une taxinomie orientée. De manière complémentaire, une lecture syntagmatique s’est imposée. Elle faisait apparaître les parcours dynamiques transformateurs, qu’ils soient intra-matériels, inter-matériels ou extra-matériels, les critères auxquels ils sont ou doivent être soumis – tempo, échelle, mesure –, les motifs à travers lesquels ils prennent forme sur la base du projet plus ambitieux d’une syntaxe générale des matières. Ainsi, dans le cas qui nous a occupé, le ballast, la traverse et le rail présentent un statut “actoriel” complexe, qu’on ne peut hélas nommer que de manière anthropomorphe. Statut ancillaire tout d’abord, de qui se contente de faire son job en se faisant oublier : dans ce domaine comme dans celui de la santé, le silence des choses, à l’instar de celui des organes, est la marque de la perfection. Statut autoritaire ensuite, cette modalisation concernant aussi bien les relations internes entre matériaux que la visée même du service auquel ils contribuent : imposer un chemin unique, sur les rails, et sous peine de “déraillement”. Statut en définitive idéologique et même, en l’occurrence, politique dans la mesure où cette composition matérielle se présente aujourd’hui, à titre de modeste programme d’usage, comme une contribution à la sobriété écologique. Pour finir, le message de cette étude pourrait être celui d’une sémiotique au plus près des choses, sachant qu’au plus près des choses se découvre une sémiotique au plus près des Sujets. Elle s’exprime dans la quadruple valence du sensible : le sensible dans le rapport sujet  objet ; dans le rapport objet  sujet ; dans le rapport objet  objet ; dans le rapport sujet  sujet (cfr. la susceptibilité). C’est ainsi que, de même que la structure peut être au service d’une meilleure connaissance des modulations subjectives, l’immobilité dure se révèle être au service de la mobilité douce. Fig. 5 – Machine de déraillement (Biars-Bretenoux). 20 Références bibliographiques Bertrand, D., 1993, “La justesse”, in RSSI – recherches sémiotiques – semiotic inquiry, vol. 13, n. 1-2, pp. 37-51. Bertrand, D., 2018, “La ligne et le son”, in M. Colas-Blaise, V. Estay Stange, dirs., Synesthésies sonores. Du son au(x) sens, Paris, Classiques Garnier, pp. 71-80. Bertrand, D., Estay Stange, V., 2021, “Les propriétés déictiques du sensible”, in A. Biglari, M. Colas-Blaise, éds., Les déictiques à l’épreuve des discours et des pratiques, Paris, Classiques Garnier, pp. 69-81. Bertrand, D., Coquet, J.-Cl., éds., 2011, Comment dire le sensible ? Recherches sémiotiques, in Littérature, n. 163. Bordron, J.-F., 1991, “Les objets en parties (esquisse d’ontologie matérielle)”, in Langages, n. 103, pp. 51-65. Bordron, J.-F., 2011, L’iconicité et ses images. Études sémiotiques, Paris, PUF. Deleuze, G., 1969, “Zola et la fêlure” et “Appendices. 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Retoriche e politiche dei materiali: dall’efficacia simbolica alla semiosi ermetica Pierluigi Cervelli Abstract. This article aims to reflect on the political use of materials, on the models of semiosis underlying such strategies, and on the effects they can have from the point of view of belief, starting from Louis Marin thinking about the portrait of the king. Then the article thematizes the theoretical question of the relationship between matter and materials in relation to two theoretical reflections related to belief: that of Eco on hermetic semiosis and that of Fabbri and Marrone on symbolic efficacy. Finally, the article considers italian fascist regime as a case study from the perspective of political strategies of materials uses, which can be traced back to a hermetic semiosis, in order to emphasize the limits of intersemiotic translation when diversity in the matter of expression arises. 1. Introduzione: materiali e potere, fra efficacia, potenza e somiglianza Nella sua ricerca sul ritratto del re, Louis Marin afferma che l’essenza del potere risiede nella sua rappresentazione. Ma con “rappresentazione” Marin non intende la produzione di un segno sostitutivo o descrittivo di una realtà esterna ad esso, cui sarebbe referenzialmente legato. La rappresentazione che interessa Marin ha piuttosto una funzione di “valore pragmatico, istruzione cognitiva e prescrizione normativa” (Marin 1980, p. 18, trad. mia) e può infatti essere espressa, indifferentemente, attraverso un’immagine o un discorso verbale, agiografico. La sua funzione semiotica, secondo Marin, non è quella di mostrarne l’effigie ma la “forza” in quanto condizione di possibilità stessa del potere: la sua capacità costante di passare all’atto anche quando non si è ancora manifestata, il suo essere sempre attuale anche quando non si è ancora realizzata. Il concetto di a rappresentazione slitta perciò, nel corso della riflessione sulla “storia metallica di Luigi XIV”, quasi impercettibilmente, nel concetto di ri-presentazione: la storia del fare del re è tradotta da “l’avvenimento dell’atto reale da traccia in marca e da marca in segno” (Marin 1980, 18 trad. mia) e così trasformata in memoria collettiva, resa presente e praticata attraverso la sua iscrizione materiale in una medaglia-moneta, di cui non si può fare a meno. La ri-presentazione si compie infatti solo attraverso la sua iscrizione materiale, in quelle “vere e perfette medaglie” dotate per questo di una “potenza efficace”, definita da Marin come la capacità di “far credere irresistibilmente alla verità e all’autenticità” del rappresentato (Marin 1980, p. 9 trad. mia). Essa si basa su una “doppia autorità” indissolubile che solo l’iscrizione materiale, “storia metallica” nelle parole di Marin, esprimono assieme: quella della “figura privata” del principe – in una faccia – e quella dell’“uso pubblico” che se ne fa, dall’altra, nella sua circolazione. (ib., trad. mia). L’ipotesi che intendo dimostrare è che i materiali, intesi come sostanze formate, hanno, durante il regime fascista, la stessa funzione che ha la medaglia-moneta di Luigi XIV analizzato da Marin: quella di produrre memoria credibile, rendere possibile un uso pubblico di essa – la sua circolazione nella società – e infine creare un noi collettivo che si relaziona al potere stesso. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Certo, con alcune differenze evidenti fra cui due fondamentali: la prima è che i materiali inediti che il potere fascista privilegia, come il travertino, non sono usati per rappresentare l’effigie del soggetto del potere, o non solo, ma comunicano questi valori anche solo di per sé, in quanto sostanza semiotica, materia dell’espressione formata, con cui si “pietrifica”, rivestendola, la città santa dei Papi e quella monarchica dei Savoia. La seconda è che occorre domandarsi quanto sia stato efficace l’uso dei materiali durante il regime fascista e se abbia raggiunto, cosa che non credo, l’efficacia simbolica dell’immagine trasformata in storia e modello su cui verte la riflessione acutissima di Marin. Mi sembra centrale invece, anche nel caso del fascismo, che questa traduzione del potere, politico o reale, in un’altra sostanza espressiva, e questo è chiarissimo per Marin, non ha niente a che fare con la somiglianza: Quale sarebbe, in questo rituale di ricognizione, il ruolo della somiglianza, di una mimesi che, come nel caso di Alessandro e Apelle, sarebbe portata alla perfezione? Leggendo il testo, si vedrà che non si tratta di una questione di somiglianza, e questo per una semplice ragione: il re è inimitabile, sia attraverso la scrittura che attraverso l’immagine (Marin 1988, p. 211, trad. mia). Per Marin non si tratta di produrre una somiglianza perché il re è imparagonabile – e infatti egli è sempre rappresentato di profilo, come qualcuno che non è mai un interlocutore di chi lo osserva – ma di presentarlo come modello (il tipo del semidio, afferma Marin), ossia di tradurre in diverse sostanze espressive – dal racconto verbale delle imprese all’iscrizione del volto nella sostanza metallica della moneta-medaglia – la sua specifica forza, che è infatti espressa verbalmente nella sua specificità e unicità concreta dall’uso dei dimostrativi. Sono convinto che ogni potere possa essere efficace solo traducendosi nel numero più ampio e diverso possibile di discorsi e sostanze, ma quali sono i limiti della traduzione materiale del potere? Come accade che la sua iscrizione in sostanze diverse non diminuisca l’informazione trasmessa ma anzi aumenti l’efficacia del senso trasposto? Se Marin ha descritto perfettamente l’efficacia di questo processo di traduzione intersemiotica, Umberto Eco ne ha messo in luce i limiti. 2. I limiti della traduzione intersemiotica e la deriva materiale della semiosi ermetica L’adeguatezza della traduzione intersemiotica si trova per Eco in una dialettica fra materia dell’espressione e forma del contenuto espresso. Nella sua riflessione sulla traduzione (Eco 2003) egli considera casi concreti di traduzione intersemiotica (che preferisce definire trasmutazione) che pongono il problema teorico delle “costrizioni” imposte dalla specificità delle diverse materie dell’espressione all’ universalità delle forme del contenuto al momento della manifestazione testuale. “c’è un limite della traduzione, quando si ha ‘diversità nella materia dell’espressione’” (Eco 2003, p. 228). Il passaggio da una materia espressiva ad un’altra impone infatti, secondo Eco, di dover esplicitare, nella traduzione, quello che in un altro linguaggio poteva restare implicito: se il testo originale proponeva qualcosa come inferenza implicita, nel renderla esplicita si è certamente interpretato il testo, portandolo a fare ‘allo scoperto’ qualcosa che originalmente esso intendeva mantenere implicito. Né la forma né la sostanza dell’espressione verbale possono essere mappate una a una su altra materia. Nel passaggio da un linguaggio verbale a un linguaggio, poniamo, visivo, si confrontano due forme dell’espressione le cui ‘equivalenze’ non sono determinabili così come si poteva dire che il settenario doppio italiano è metricamente equivalente all’alessandrino francese (Eco 2003, p. 321). Le diverse materie espressive non sono più concepite come indefinibili, come nell’ipotesi hielmsleviana, a cui si impone una forma definente ma diventano il luogo di manifestazione, su scala 23 testuale, della ipotesi teorica echiana delle linee di resistenza dell’essere (Eco 1997): anche se non impongono nulla di specifico, impediscono una traducibilità totale. Questo perché nella manifestazione in altra sostanza espressiva del contenuto tradotto l’equivalenza fra i piani dell’espressione di partenza e di arrivo non è mai completa: essi non sono “mappabili” punto a punto. Mi pare interessante che quando Eco deve individuare un criterio di adeguatezza della traduzione tale da superare i limiti della materia espressiva, deve far intervenire un criterio di efficacia semantico- pragmatica. Per poter accettare una espressione in altra sostanza di un contenuto già espresso come equivalente (o quasi-equivalente) all’espressione originale una traduzione deve produrre “l’impressione che il testo originale voleva produrre sul lettore” (Eco 2003, p. 139). E questo criterio semantico prevale su ogni criterio referenziale: una traduzione efficace può infatti per Eco anche violare il riferimento referenziale. Mi pare che il caso di studio del fascismo possa aiutarci a riflettere sul duplice ruolo possibile delle sostanze dell’espressione: quello di ostacolo alla traducibilità, come sostiene Eco, e quello, opposto, di veicolo della sua efficacia semantica, secondo Marin. Il ruolo della materia espressiva è in relazione col tipo di semiosi attivata: il passaggio da espressione a espressione può originare secondo Eco una abduzione innovativa se il passaggio è regolato e circoscritto dalla mediazione del contenuto (Eco 1989, p. 428), che limita e orienta la semiosi illimitata. Esiste però anche una semiosi patologica in cui la differenza di materia espressiva non può esprimere nessuna resistenza alla deriva interpretativa: quando il rinvio da segno a segno non è mediato da nessun contenuto ma avviene solo “per simpatia”: per analogia espressiva o somiglianza materiale. Eco definisce patologica questa forma di semiosi e la riferisce alla “semiosi ermetica”, rinvenibile per la prima volta storicamente nello gnosticismo del II secolo dopo Cristo. Secondo Eco il discorso ermetico è la forma storicamente determinata e originaria di “deriva della semiosi illimitata” (Eco 1989) perché in esso la differenza espressiva non si correla ad alcuna differenza di contenuto e tutte le materie possibili dell’espressione sono considerate “materia prima” in quanto oggetto dell’operazione alchemica. Qualunque sostanza può essere perciò “materia prima” e per questo tutto può rimandare a tutto. Questo tipo di ragionamento non è limitato al fenomeno storico dell’ermetismo classico o rinascimentale: Eco riunisce sotto il modello della semiosi ermetica anche teorie superomistiche, razziste e complottiste, accomunate dal non rispettare i limiti dell’interpretazione per ritrovare e intensificare lo stesso contenuto in espressioni senza legami semantici (che si confermano così a vicenda). In questo caso nè la forma né la materia della sostanza pongono alcun limite al contenuto che si può enunciare, e non vi è né incremento di conoscenza né l’efficacia (di far-credere) nel passaggio da una sostanza espressiva all’altra. Il discorso ermetico origina così un lettore modello paranoico, impegnato a interpretare in continuazione contro il senso comune, adottando la somiglianza espressiva o materiale, come criterio unico per produrre una serie potenzialmente infinita di rimandi da una espressione all’altra. In questo modello in cui la forma espressiva non stabilisce più nessuna differenza, perché il rapporto fra forma, materia e sostanza non è più di interdefinizione o presupposizione reciproca. Ognuna di esse invece è separata, o separabile, dalle altre nel processo di semiosi e per questo la nominazione, manipolazione e trasformazione delle sostanze del mondo contano solo per il gioco di rinvii che si proiettano nelle loro trasformazioni. Possono così diventare così motore di interpretazioni sempre più antieconomiche ed essere usati al fine di far credere che ci sia un segreto da scoprire e allo stesso tempo del suo differimento: rivelare un segreto serve solo a produrne uno nuovo, posto sempre più al fondo delle pieghe del discorso alchemico. Occorre concludere da questo che la materialità delle sostanze costituisca un ostacolo alla trasmissione del senso a meno di non ignorarne ogni specificità? La semiotica di impostazione strutturale e generativa ha indicato un’altra strada possibile. 24 3. Materia, sostanze e credenza: l’efficacia simbolica La materialità dei linguaggi era secondo Greimas un fattore fondamentale del credere vero. L’esempio di Greimas (1984, p. 105) era relativo al “[...] fenomeno della distorsione ritmica che si ritrova in contesti culturali molto diversi e lontani [...] la sovrapposizione, all’accentuazione normale, di uno schema ritmico secondo che deforma e distorce la prosodia della lingua naturale [...] L’uso della materialità del significante per segnalare la verità del significato sarebbe così uno dei modi della connotazione veridittiva”. La materialità dell’espressione linguistica è centrale in quanto selezionata dal contenuto espresso, e da questo deriva la credibilità/verità del contenuto espresso. Si tratta di quella rimotivazione dell’arbitrario linguistico a partire dalla co-selezione di espressione e contenuto, generalizzata da Greimas (1972) oltre il linguaggio verbale ai linguaggi plastici. Questo principio di poeticità generalizzata si basa sul presupposto di una plasticità totale della materia espressiva, articolabile senza limite per far balzare in primo piano una distorsione contestuale dei significanti. Riprendendo la riflessione di Lévi-Strauss, la riflessione semiotica sull’efficacia simbolica (Fabbri 2000, 2017; Marrone 2001) ha mostrato come la rimotivazione dell’arbitrario possa andare oltre la materia espressiva delle lingue naturali, cui si limita l’esempio di Greimas, ma come l’efficacia simbolica si possa realizzare coinvolgendo le sostanze materiali del mondo naturale, superando così, a mio parere, le critiche radicali dell’antropologia. Il racconto del percorso nella caverna dello sciamano era per Lévi-Strauss una metafora di taglia narrativa dell’allargamento del corpo per permettere il parto: attraverso il racconto di una storia la paziente poteva riconoscere e padroneggiare il suo dolore senza esito. Si tratta del problema del rapporto fra antropologia e psicanalisi, posto in un modo che riguarda direttamente il tema della materia del mondo naturale e del corpo come sua parte: collegare quello che Lévi-Strauss (1966, p. 200) definisce “il funzionamento bio-chimico dell’organismo” – ossia dal punto di vista semiotico la strutturazione della materialità del corpo in sostanza – e la stratificazione simbolica dell’inconscio? É possibile cioè, pensare che esista un livello culturale della psiche individuale in cui il discorso può operare narrativamente, attraverso “il modo di agire delle rappresentazioni inconsce come comunicanti [...] con le patologie somatiche?” (Severi 2000, p. 76)? Il pilastro della riflessione del maestro dell’antropologia strutturale – l’interpretazione semiotica della relazione fra corpo e racconto, intesa saussurianamente come una relazione linguistica fra significante e significato, ne costituiva per Severi una fragilità ineludibile. Severi infatti afferma di essersi subito reso conto – attraverso un periodo di etnografia presso i Cuna – di come la donna non potesse comprendere la lingua iniziatica dei rituali sciamanici: “una lingua speciale, il cui apprendimento richiede una lunga iniziazione, e che nessun paziente, tanto più in stato di intensa sofferenza, può comprendere” (Severi 2000, p. 76). Per Severi questo costituiva uno scacco insuperabile rispetto alla spiegazione narrativa fornita dall’antropologo francese “interamente postulata su una comprensione del testo” (Severi 2000, p. 76). Il motore della trasformazione non causalistica ma simbolica della carne intima, della materia del corpo proprio che porta al parto, non poteva risiedere nella mediazione simbolica del racconto. All’interno di una riflessione di estrema finezza, Severi formula una ipotesi secondo cui la possibilità di iscrizione dell’esperienza individuale nel rituale avviene proprio a causa della sua vaghezza e parziale incomprensibilità in cui si svolge il rituale, affermando però che la donna ha probabilmente afferrato qualche parola del canto cerimoniale. Questa spiegazione a mio parere presenta una contraddizione: riafferma infatti la centralità, almeno parziale, del linguaggio verbale proprio in quella componente rappresentativa che metteva giustamente in discussione. Se la lingua non era così oscura come si può falsificare con tanta radicalità l’ipotesi levistraussiana? La sua interpretazione non tiene in conto inoltre, a differenza di quella di Sherzer (Sherzer e Urban 1986), della forma dell’espressione verbale e della relazione dell’efficacia simbolica con le sostanze sensibili che lo stesso Lévi-Strauss non mancava di sottolineare: “L’efficacia simbolica consisterebbe appunto in questa «proprietà induttrice» 25 di cui, le une rispetto alle altre, sarebbero dotate strutture formalmente omologhe, edificabili, con materie prime differenti, ai differenti stadi del mondo vivente: processi organici, psichismo inconscio, pensiero riflesso” (Lévi-Strauss 1966, p. 200, corsivo mio). Ed è proprio a mio parere sottolineando il ruolo delle sostanze, dei materiali del mondo, che Fabbri e Marrone hanno proposto una diversa riflessione sull’efficacia somatica del rito assumendo interamente la critica etnografica ma ipotizzando che la trasformazione simbolica deve essere avvenuta per l’azione dei materiali del mondo che si trasformano nel rituale sulla materia del corpo, la carne che si trasforma e palpita nel parto. Scrive con estrema chiarezza Marrone: La comunicazione che si svolge tra lo sciamano e la partoriente non è legata alla trasmissione del contenuto semantico del canto [...] Il linguaggio che rende efficace la cura, pertanto, è d’altra natura: da un lato fa ricorso a logiche di tipo sensoriale, agisce per “contagio” sul piano uditivo, adeguando i ritmi somatici a quelli del canto (lentissimi all’inizio e alla fine, sempre più rapidi al centro) (Marrone 2001, p. XXXIV). Mi sembra fondamentale come Marrone affermi la centralità delle materie del mondo sensibile in traduzione reciproca – in isomorfismo categoriale, e in intensificazione sintagmatica del significato (l’aumento dell’efficacia cui faceva riferimento Marin) – nel processo rituale: il ritmo del canto, il tono della voce, gli abbozzi di schemi prosodici e di sequenze fonemiche che si ripetono, ma anche le qualità sensibili delle fumigazioni, la forma della luce e del buio (“ondulato tremolio” lo definisce Severi), i gesti e la grana della voce dello sciamano nel canto. Per Fabbri e Marrone la relazione è sempre di significazione ma nella loro rilettura del saggio – secondo Severi uno dei più complessi, ambiziosi e meno esplorati della produzione levistraussiana – mi pare si operi un passaggio fondamentale dalla relazione saussuriana significante/significato a quella hielmsleviana fra forma, sostanza e materia. Questo passaggio permette, ed è questa l’innovazione centrale, di mettere in primo piano le sostanze formate e la loro traducibilità e così di formulare una spiegazione che può fare a meno della centralità della dimensione figurativa del linguaggio verbale: un modello dinamico di significazione in cui i linguaggi ricontrattano “in situazione” i reciproci spazi di pertinenza e permettono ad ogni enunciato (o segno equivalente) di giocare il ruolo di “sistema” locale per gli altri che lo seguono1. Nel corso del rituale infatti il corpo della donna partoriente, sfinito fino al rischio di diventare massa amorfa cadaverica, agisce come materia che si adegua alle forme delle sostanze sensibili trasformate nel corso della pratica rituale. Il ritmo di questa trasformazione produce una forma fatta di intensità (prosodiche) e ripetizioni (ritmiche), adeguandosi alla quale la donna fa sì che il suo stesso corpo divenga sostanza espressiva motivata dal ritmo sintagmatico del processo rituale. A questo non è necessariamente estranea la dimensione rappresentativo/metaforica ma per comprenderne appieno la dinamica occorre a mio parere riprendere e raddoppiare specularmente l’idea di Greimas sul rapporto fra lingua naturale e mondo naturale 2. Greimas (1968) avanzava l’ipotesi che le figure del piano dell’espressione del mondo naturale siano rinvenibili come figure del piano del contenuto delle lingue naturali. Alla luce della riflessione semiotica sull’efficacia simbolica potremmo forse pensare che le forme del contenuto del corpo che si trasforma – in quanto parte del mondo naturale – siano isomorfe alle forme dell’espressione della lingua naturale, evidenti nella prosodia poetica e musicale dei riti curativi Cuna: sincopi, intensificazioni, distorsioni capaci di produrre inglobamenti sintagmatici, estensioni fonematiche, ripetizioni ritmiche, vibrazioni 1 Su questo specifico tema si veda la riflessione ricca pertinente e innovativa svolta da Jacoviello (2012). Si tratta, a mia conoscenza, dell’unico studio di caso di traduzione intersemiotica fra musica e pittura, peraltro di estremo rigore teorico e grande finezza analitica, mai svolto nell’ambito delle discipline semiotiche. 2 Devo questa indicazione a Francesco Marsciani (conversazione privata), che ringrazio. 26 rallentamenti e accelerazioni. Tutto il campo dunque delle “resistenze e spinte” di cui parlava Lévi- Strauss (1966, p. 219): allargamenti, restrizioni, intensificazioni e distensioni attraverso cui il corpo della partoriente può assumere la funzione di “grande traduttore” del semantico nel somatico (Marsciani 1999). Si tratta, e questo pare particolarmente importante, delle stesse identiche forme proprie della distorsione ritmica ed espressiva del canto rituale Cuna che Sherzer aveva messo in evidenza in una meticolosa descrizione di un canto di cura per il morso dei serpenti: Il discorso fa uso di vari processi poetici e strategie retoriche quali [...] volume e delicatezza [della voce N.d.A.], velocità e rallentamento del discorso, modulazione del tono, schemi di pausa, e due caratteristici sistemi espressivi propriamente Kuna, la distensione della voce e la vibrazione della voce (Sherzer 1986, p. 175, trad. mia, corsivo mio). Si tratta, in una chiave sensibile, di quella trasformabilità generale delle sostanze espressive nel quadro di una efficacia della correlazione di forme (del contenuto e dell’espressione) che Greimas (1972) presentava (in modo antitetico all’ipotesi di Eco delle “linee di resistenza” della materia nella traduzione intersemiotica) come una “co-selezione reciproca” del contenuto e dell’espressione. E proprio questo aspetto indica credo la differenza di fondo fra efficacia simbolica e semiosi ermetica: nell’efficacia simbolica la forma del contenuto cambia forma sostanziale alla materia del mondo (del corpo, nel caso specifico), mentre per la semiosi ermetica la forma o la materia dell’espressione manifestano una rete di influenze (intese come relazioni di causa-effetto) presupposte fra materie del mondo, indifferenti fra loro al contenuto espresso. 4. Credere: usi e abusi politici dei materiali Secondo Marrone un problema centrale poco considerato da Lévi-Strauss era quello della variabilità credenza: “Se tra i Cuna il credere ai rituali e ai miti è dato per scontato, nella nostra cultura uno dei problemi sociocomunicativi più delicati è proprio quello della costruzione delle credenze” (Marrone 2001, p. XXXV). Mi sembra perciò interessante leggere l’uso politico delle sostanze, materiali del mondo in rapporto alla costruzione di una credenza collettiva. La trasformazione di Roma in capitale del fascismo si basa sull’uso politico dei materiali attraverso cui il fascismo cerca di usare la città come un’arma di costruzione di credenza di massa, prima di tutto per fini interni, ma anche per impressionare i leader politici e le opinioni pubbliche mondiali. I leader dei partiti fascisti europei, tutti invitati da Mussolini a Roma, ne furono profondamente colpiti. Kallis (2014) dedica un capitolo del suo libro su Roma fascista alle reazioni commosse dei leader fascisti europei alla visione di Roma: “Anche Oswald Mosley, leader del BUF, sembrò per un periodo attratto dalla forza magnetica della capitale fascista [...] Mosley organizzò un viaggio di ‘studio’ a Roma nel gennaio del 1932” (Kallis 2014, p. 238, trad. mia), e i leader fascisti romeni definirono la loro visita a Roma nel 1938 un “pellegrinaggio di devozione alla ‘madre Roma’” (ib., trad. mia). Essi affermarono apertamente dunque di credere alla verità del fascismo a causa della materialità della città, in cui lo strato romano è palcoscenico delle adunate del regime ma anche “il luogo dove queste credenze vengono negoziate tra i vari attori sociali” (Marrone 2001, p. XXXV) proprio perché permette una forma di “immediatezza” nel contatto diretto col fascismo. Sulla base delle testimonianze citate la trasformazione sembra efficace per gli storici, ma a mio parere il fascismo italiano rappresenta un caso emblematico in cui il tentativo di uso dei materiali per far credere si risolve nella semiosi della simpatia ermetica. 27 5. L’inefficacia simbolica della semiosi fascista Passando dal mondo antico all’attualità dell’ermetismo, Eco ne identifica alcuni elementi nel pensiero fascista e razzista di Julius Evola: “Come esempio di affabulazione alchemica contemporanea, in cui si mescolano farneticazioni operative e farneticazioni simboliche nel quadro di un superomismo razzistico, si veda La tradizione ermetica di Julius Evola” (Eco 1989, p. 99). Credo che non si tratti di una eccezione estremistica ma che durante il regime fascista italiano si sia affermata una semiosi ermetica patologica generalizzata, che ha investito i materiali (di costruzione) ma anche il corpo in quanto materia formata 3 . Riguardo ai materiali, nel discorso fascista si evidenzia sin dall’inizio del regime una semiosi ermetica relativa al rapporto fra la trasformazione di Roma ed il riferimento all’essenzializzazione e astrazione della identità imperiale cui il fascismo si riferisce esplicitamente, espressa dal termine “romanità”, il cui uso si diffonde nel discorso politico all’inizio del regime. L’uso dei simboli della Roma imperiale, e in particolare del periodo augusteo, non ha tuttavia nessuna relazione di significazione col contenuto espresso ma funziona esclusivamente per relazione di somiglianza espressiva. A detta degli stessi pseudo-intellettuali del regime questi simboli sono infatti pensati agire per una relazione di causalità, legata alla loro natura di sostanze. Dato che sono riprodotti in forme identiche rispetto al modello romano, si afferma infatti che l’effetto che producono sia una sorta di riproduzione dello “spirito di Roma”, di cui resta vago e misterioso il senso e inspiegabile il funzionamento. Riferendosi ai “segni distintivi della romanità” (i simboli imperiali replicati dal fascismo) Cecchelli scrive infatti che “[alla] coscienza di Roma contribuisce, oltre [...] alla eredità di tendenze proprie della razza [...] una serie di elementi d’origine culturale che è difficile, talvolta impossibile, individuare” (1925, p. 422). E aggiunge poco dopo che “l’azione di questi sul nostro aggregato sociale può paragonarsi a quella fisica e fisiologica del cibo, o del farmaco sul corpo dell’individuo. Vi è perciò una rielaborazione interna che svela l’esistenza di un ‘io’ immutabile ed onnipresente” (ibid., p. 422). Come si può facilmente vedere questa spiegazione non spiega nulla ma sposta la causa nelle pieghe del discorso e risolvendosi in una pretesa di riproduzione dell’identico attraverso l’identico: che cosa significa infatti “rielaborazione interna”? Interna a che cosa, svolta da chi e in quale modo? Per questo a mio parere l’attribuzione di senso è tautologica e avviene per “simpatia”, nella versione semplificata e immediatamente accessibile del segno ottenuto per replica della forma espressiva. Restando misterioso il processo di azione della materialità della pietra, l’effetto è quello della produzione di un senso abbastanza vago da permettere quella “sinonimia generalizzata” che è propria della semiosi ermetica, cui contribuiscono l’uso pubblico della materialità della lingua latina 4 . Per una direttiva ministeriale del 1926 sulle facciate di tutti gli edifici di nuova costruzione diventa obbligatorio indicare l’anno di edificazione in numeri romani, a partire dall’inizio della “Era fascista” (come Mussolini inizia a fare dal 1923) ed è frequente l’apparizione di frasi e motti in latino. Ma il loro senso non ha relazioni precise con la lingua (perché non esprimerlo in italiano?) e inoltre il latino usato, spesso scorretto, non è certo il latino classico colto (Cervelli 2020). Esso non conta per il contenuto trasmesso ma solo per la 3 Per ragione di spazio non posso approfondire in questa sede il tentativo di far credere attraverso il trattamento e l’iscrizione dei valori collettivi nei “corpi sociali”, che ha a mio parere un ruolo fondamentale nel regime fascista. Altrove ho mostrato (Cervelli 2020) come per il fascismo il corpo sia fondamentale per far credere alla verità dei valori politici. Per questo il corpo dei bambini nel regime è ascrivibile a una materia che deve essere formata fin dall’infanzia secondo precise condizioni fisiologiche ed estetiche, all’interno di una isotopia della guerra che verte sul concetto di gerarchia. In questo quadro la descrizione delle famiglie marginali è emblematica: verte su una generalizzata semiosi ermetica, operante per somiglianza fra forme “difettose” del corpo dei bambini, forme della casa e forme di vita, supposte immorali, dei genitori. 4 Questo processo era generalizzato: si pensi all’uso di parole latineggianti nel linguaggio politico e comune (come figli della lupa, quadrumviri, centurie, duce etc.). 28 materialità espressiva della lingua latina: un’altra forma della “simpatia” ermetica. Anche al travertino e al mattoncino era attribuito un valore di “verità identitaria” per somiglianza espressiva. Sulla rivista ufficiale del Governatorato di Roma, Capitolium si legge che il Ponte delle milizie si sarebbe dovuto costruire con la più severa semplicità, intonata alla maestosa tipica purezza di linea delle opere romane, in cui la decorazione è data [...] dall’opportuno ed equilibrato impiego del materiale (travertino e cortina di mattoni) [e] […] per quest’ultimo si adopereranno mattoni speciali aventi le caratteristiche dimensioni dei mattoni romani del periodo ‘Augusteo’ in modo che lo stesso paramento laterizio rievochi nel suo aspetto le gloriose forme dell’architettura ‘Romana’ [...] (Bianchi 1925, pp. 281-283). Nell’articolo è dato per scontato che un processo di produzione segnica per replica delle sostanze espressive5 produca la creazione ex novo dello “spirito di Roma” purché realizzato con il massimo dell’aderenza figurativa. Il ragionamento analogizzante svolto serve all’“l’apprendimento progressivo di simboli [...] che permettono l’entrata nel gruppo” (Fabbri cit. in Padoan 2021, p. 76 6 ), cioè all’acquisizione della nuova identità politica del regime, ma le sostanze del mondo sono convocate e messe in forma per pura somiglianza espressiva: l’autodefinizione identitaria (il contenuto che si vorrebbe esprimere) si basa sull’uso costante e diffuso di materiali all’apparenza identici a quelli usati nelle costruzioni romane antiche. Alla base di tutto questo un evidente paralogismo, ancora riferibile a mio parere alla semiosi ermetica: formare le sostanze espressive (anche linguistiche) significa meccanicamente e misteriosamente – dal punto di vista del contenuto – rappresentare davvero la riapparizione contemporanea dell’impero romano7. Il problema espressivo da risolvere è quello di esprimere una solidità e superiorità bellica dello stato fascista, che diventa, nella sua espressione architettonica, la ricerca di un effetto generalizzato di monumentalità. Nonostante l’indubbio valore estetico di molti edifici dell’epoca, attraverso il rivestimento in travertino si valorizza infatti la componente “massa” e non “superficie” degli edifici. Essi non si presentano più, come nell’architettura precedente (neoclassica) come insiemi stratificati di livelli sovrapposti la cui separazione è visibile attraverso la presenza di linee-contorno (ad esempio attorno alle finestre o attraverso le linee marcapiano che seguono l’andamento dei solai) ma come masse unitarie, il che produce l’impressione che gli edifici siano un blocco unico, con un effetto di senso di omogeneità, solidità e dunque monumentalità. Questi effetti sono dati dalla presenza attorno alle aperture, al posto delle linee contorno, di linee-spessore. Come ha dimostrato Floch (1995) analizzando la differenza fra logo IBM e Apple, gli ispessimenti delle linee producono l’annullamento della distinguibilità, per un osservatore, fra primo piano e sfondo, cui contribuisce l’omogeneità dei rivestimenti, presentando le facciate e gli edifici come un blocco unico. Il rivestimento generalizzato in travertino totale o parziale degli edifici contribuisce a questo effetto di senso simulando, anche quando gli edifici non ne sono interamente rivestiti (ma solo fino al primo o secondo piano, di solito) la presenza di uno zoccolo come quelli su cui sono poste le statue nei musei, un basamento materiale che produce un effetto di monumentalità di tutti gli edifici, anche quelli destinati ad abitazione o ca fini commerciali. 5 È un processo di simbolizzazione selettivo, metonimico perché non si riguarda altri materiali tipici della città, come l’intonaco color ocra rossa e gialla e il tufo (Segarra Lagunes, Vittorini, a cura, 2002). 6 Padoan si riferisce al corso Codici esoterici: per una semiotica delle Massonerie svolto da P. Fabbri in collaborazione con T. Migliore, afferente all’insegnamento Letteratura artistica del CdL in Arti Visive e dello Spettacolo dello IUAV di Venezia nel 2008. 7 Di questo fenomeno fanno a mio parere parte anche le “feste romane” descritte da Kallis (2014), in cui al Circo Massimo si radunano per alcuni giorni all’anno un migliaio di persone vestite da antichi romani. L’effetto non doveva essere molto diverso dalla visione dei figuranti vestiti da centurioni oggi visibili presso il Colosseo, tuttavia per il regime erano parte della “riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma”, per dirla con le parole di Mussolini, di cui il travertino era altra parte integrante. 29 L’uso del travertino inoltre, a seconda di quanto materiale è utilizzato, definisce una gerarchia di tipo elementare e simbolico: il travertino copre completamente gli edifici pubblici del centro storico ed i più importanti del regime sparsi nella città, arriva ai primi due piani negli edifici residenziali dei quartieri nuovi, destinati alla borghesia impiegatizia (una classe media che il regime si sforza in ogni modo di creare) ma è ridotto a circa mezzo metro nelle borgate migliori, fino ad essere completamente assente nelle aree destinate alla popolazione più marginale. Se questi “ragionamenti plastici” possono argomentare una traduzione in spazio costruito della cosiddetta “era fascista”, e la sua graduazione simbolica nell’intero spazio urbano, l’intera operazione è tale da produrre la ripetizione infinita – che diventa celebrazione – di un significato unico: l’identificazione del regime fascista con l’impero romano del secolo d’oro. Gli edifici interamente rivestiti di travertino costituiscono inoltre, a mio parere, un particolare caso di invenzione di memoria collettiva di cui si impone l’uso pubblico semplicemente abitando la città. Questo aspetto ne rende l’uso simile a quanto teorizzato da Marin a proposito della medaglia-moneta, ma esso funziona ancora solo per somiglianza espressiva. Non si riproduce infatti l’apparire attuale delle rovine romane ma un loro presunto essere immanente: il modo in cui dovevano essere quando l’impero romano era al massimo della sua espansione. Altrettanto falsa è la scelta di selezionare, sempre per simpatia (rispetto al modello di autodefinizione culturale imposta, l’immagine “modellizzante” che il fascismo vuol dare di sé nel presente) i resti dell’antico da rendere visibili per riprodurre in forma analogica nel presente “l’impero romano”. La somiglianza col presente è fondamentale per selezionare arbitrariamente i resti archeologici da mantenere o magnificare, per cui non c’è nessun recupero filologico del passato ma piuttosto la sua umiliazione. Quando infatti gli stessi resti romani testimoniamo la degenerazione ed il crollo dell’impero vengono distrutti senza pudore, anzi rivendicando orgogliosamente un falso archeologico: è il caso dei resti di tabernae tardo-romane trovate in largo Argentina dopo la distruzione del convento medievale di San Nicola dei Cesarini nel 19288. Dato che ostruivano parzialmente la vista del tempio di Ercole, vengono distrutti. Ma quello che colpisce è il modo in cui ne parla l’allora sovrintendente alle belle arti, Antonio Muñoz: “[...] qualche cosa fu invece tolto e sfrondato. C’erano a ridosso dei quattro vetusti templi antichi, muracci di tabernae elevate in epoca romana tarda, con poco rispetto agli edifici venerandi, di cui ostruivano la vista, e se potevano formare la delizia di qualche archeologo, davano all’area sacra l’aspetto di una zona terremotata. Quei muri furono perciò ridotti e abbassati in modo che i quattro templi arcaici potessero grandeggiare nella necessaria imponenza” (Muñoz 1935, p. 153). 6. Conclusioni Il tentativo fascista di manipolazione dei segni e delle sostanze espressive è a mio parere affine a quello che Fabbri attribuisce al rituale di iniziazione massonico: “strutturare l’esperienza dello spettatore in un certo modo [...] simbolico – dunque pluri-isotopico, figurale, riflessivo e perciò auto-costitutivo, allusivo ed efficace a livello enunciazionale” (Fabbri cit. in Padoan 2021, p. 75 9 ). Nonostante il modo di significare vago e allusivo del regime fascista, resta il fatto che questi tentativi costituiscono una forma 8 La demolizione del convento medievale in Largo Argentina era stata decisa per costruire al suo posto un albergo. Muñoz racconta che Mussolini abbia scorto da uno dei balconi di abitazioni private addossate al tempio una porzione di colonna romana e abbia per questo bloccato il progetto imponendo che il convento fosse demolito ma solo per rimettere in visibilità i resti romani sottostanti. Al momento dell’inaugurazione dell’area restaurata, nel 1929, Mussolini annuncia alle personalità presenti che, di fronte a tanta magnificenza rinvenuta, avrebbe voluto vedere presenti coloro che si erano opposti alla sua decisione “per farli fucilare” (sic.). L’episodio è raccontato interamente da Antonio Muñoz (1935). 9 Anche qui, Padoan si riferisce al corso Codici esoterici: per una semiotica delle Massonerie del 2008. 30 di ripetizione ossessiva con qualche eccezione di effettiva rimotivazione creativa dell’arbitrario (come per esempio, in ambito architettonico, i lavori di Terragni) e per questo non sono credibili, proprio come i significati sociali che tentano di magnificare. Quando questi limiti non vengono superati attraverso una forma inedita di rimotivazione dell’arbitrario capace di produrre efficacia simbolica (come non avviene praticamente mai nel caso del fascismo se non, con significative eccezioni, nel campo delle avanguardie artistiche e in particolare della pittura e della poesia futurista) o quando il contenuto da trasmettere forzatamente è falso, troppo povero e ripetitivo, l’uso semiotico dei materiali si risolve alla significazione per simpatia propria della semiosi ermetica. Il tentativo fascista si configura così in un abuso simbolico dei materiali che oscilla fra la distruzione arbitraria e la finzione, e che, come sottolineava Padoan (2021) riprendendo una riflessione di Lotman e Uspenskij, riguarda in gran parte “l’aspetto esteriore” del segno. Anche se alcuni architetti dell’epoca hanno inventato in modo creativo nuovi modi di espressione, il progetto di credere cui il fascismo mira si risolve in un processo, metonimico e forzato, di falsa analogia. Il discorso fascista cerca di navigare in vista dell’efficacia simbolica ma si infrange sugli scogli aguzzi della semiosi ermetica. 31 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Cecchelli, C., 1925, “O Roma nobilis”, in Capitolium, n. 7, p. 421-426. Bianchi, A., 1925, “Il nuovo ponte delle milizie”, Capitolium, n. 5, p. 281-283 Cervelli, P., 2020, La frontiera interna, Bologna, Esculapio. Eco, U., 1989, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani; ed. 2023, Milano, La nave di Teseo. Eco, U., 1997, Kant e l’ornitorinco, Milano, Bompiani. 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“Questa è l’acqua”. Semiotizzare il mare Emanuele Fadda Abstract How to describe the sea? How to tell about it? One of the most universal experiences – soaking in seawater – is also one of the most individual, whose characters are defined over time through habit, associations, readings and character evolution. Yet the need to talk about the sea, to semiotize it, is fundamental, in contexts of literature, marketing, or others. In this paper I will aim the (hopeless?) undertaking of describing, defining and classifying the sea (and beaches), reasoning about the respective roles of cognition and experience, and about the relationship between sea and musement. My conclusions will deal with the role of the sea as a challenge for the expressive power of languages. Ognuno ha la sensazione di aver qualcosa da dire del mare e del suo aspetto e che si tratti di una cosa effettivamente importante Predrag Matvejević 1. Introduzione: il mare è tutto (e il suo contrario) Il mare ha sempre avuto un legame forte con la filosofia (e con la semiotica). Simbolo enantiosemico1, può connotare di volta in volta la familiarità così assoluta da essere invisibile (“cos’è la filosofia? Insegnare al pesce cos’è l’acqua…!”)2 o, al contrario, l’estraneità più inattingibile (troppo vasta, troppo profonda per essere toccata). I problemi divengono poi ancora maggiori quando non si tratta più di parlare per metafore, o per simboli (casi nei quali vi è almeno la risorsa della generalità), ma di descrivere letteralmente il mare – non il mare in generale, ma quello che di volta in volta è l’oggetto della nostra esperienza, del nostro desiderio, del nostro ricordo o delle nostre aspettative. Ovviamente dei parametri “oggettivi” ci sono, ma in molti casi sembrano avere un’importanza molto relativa (a partire dal riferimento cromatico al blu/azzurro – una categoria che l’antichità non conosceva come la intendiamo noi). Una delle esperienze più universali – quella del bagnarsi nell’acqua marina – è anche una delle più individuali, i cui caratteri si definiscono nel corso del tempo attraverso l’abitudine, le associazioni, le letture e l’evoluzione del carattere. 1 Come nota Bachelard a proposito dell’acqua in generale, è proprio questo carattere che soddisfa “le manichéisme de la rêverie” (Bachelard 1942, p. 19), che vuole che ogni elemento o materia originale debba essere insieme desiderabile e temibile, estatico e spaventoso. 2 In un discorso assai noto (e da cui traggo il titolo di questo testo), pronunciato durante una cerimonia di laurea, David Forster Wallace (2017, pp. 140-152) assegna questo compito – insieme cognitivo ed esistenziale – non alla filosofia, ma agli studi umanistici nel loro insieme. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Alla dimensione individuale dell’esperienza fa da complemento (e, talvolta, da contraltare) la dimensione più propriamente comunicativa. Per ragioni di marketing turistico, culturale o semplicemente di gestione dell’immagine pubblica di un territorio si ha la necessità di raccontare, semantizzare e assiologizzare l’acqua del mare, che invece sfugge per molti versi alla semiotizzazione, ed è anzi spesso citata paradigmaticamente ad evocare i territori dell’ineffabile (e le esperienze paniche e quasi-mistiche). Da un lato troviamo dunque le caratterizzazioni generali del mare (mai troppo loquaci e articolate, se non per ciò che concerne aspetti tecnici legati alla navigazione, alla pesca etc.), dall’altro uno sforzo continuo di dire-questo-mare-adesso. Come si fa, dunque, a parlare dell’esperienza del mare? A raccontare e descrivere il mare? Nel tentativo di dare determinatezza all’indeterminato per eccellenza, assumerò come riferimento principale (almeno per i primi passi) l’unico autore che conosco che abbia preso sul serio l’idea di una “filologia del mare” (Magris 2004, pp. 7-12): Predrag Matvejević3. Prendere come guida lo scrittore croato significa fare delle scelte, a partire da quella di privilegiare il Mediterraneo, che è, come già il nome ci indica, mare “fra le terre” – non mare-deserto, ma mare-strada). È un mare in cui, in qualche misura, possiamo avere un’idea di ciò che c’è dall’altra parte: qualcuno con cui condividiamo, almeno in maniera molto generale, una parte importante di esperienza4. Per chi abita una delle periferie del Mediterraneo, esso è “a un tempo un mondo a sé e il centro del mondo” (Matvejević 1987, p. 23), qualcosa che è accessibile da ogni luogo ma non coincide con nessuno di essi. Il mare è dunque l’accesso al mare: non il centro, ma ciò che al centro si connette. L’altra scelta principale che assumerò con Matvejević è quella di non fornire un’immagine del mare riduttiva o riduzionista, ma ampia e sfaccettata: il mare non è l’acqua, ma è tutto ciò che ha a che fare col mare, e dunque un campionario di contesti e situazioni, collegati a comportamenti da tenere in queste situazioni (parzialmente codificati, per esempio, da proverbi). In questo senso il mare – e il Mediterraneo in particolare – non è tanto un oggetto, quanto un sistema di segni, conosciuto in qualche misura da tutti coloro che vi hanno a che fare, e con una tradizione millenaria. Matvejević non è il solo, né il primo, a insistere su questo aspetto: su un piano strettamente semiotico, Ferruccio Rossi-Landi (1968) si era posto il problema della effettiva consistenza e della natura di un tale sistema, a partire dal confronto con quelli linguistici5. 2. La descrizione del mare: il colore e gli altri aspetti Torniamo ora alla descrizione del mare. Come già accennato, sembra difficilissimo compierla senza fare riferimento all’esperienza, alle prassi, all’ambiente che il mare contribuisce a definire. Ma vediamo fin dove potremmo arrivare. Iniziamo da quella che dovrebbe essere la caratterizzazione principale: il 3 La prima edizione croata del Breviario mediterraneo è del 1987, e la prima traduzione italiana del 1991. Io mi riferirò qui all’edizione ampliata del 2006. 4 Questa esperienza si concreta linguisticamente in due elementi principali. Il primo è un lessico composito. Matvejević mostra come una delle caratteristiche dell’identità mediterranea è quella di conoscere parole derivate dalle fonti più disparate (ma che denotano oggetti più o meno conosciuti da tutti), e il suo traduttore italiano testimonia la sua richiesta espressa di lasciare tutti questi termini con una trascrizione il più possibile fedele alla pronuncia in lingua originale (cfr. Matvejević 1987, p. 318). Il secondo è la costituzione di lingue franche, spesso a base genovese, la cui funzione non si esaurisce nell’aspetto mercantile. Su questi idiomi, fondamentale è il lavoro di Fiorenzo Toso, purtroppo scomparso prima di aver potuto fornire una sistematizzazione (ma una summa delle sue ricerche si trova in Toso 2020). 5 Diverso è il caso dei codici internazionali istituiti per la navigazione, come quello che utilizza le bandierine, analizzato da Prieto (1966) per illustrare le nozioni di funzioni ed economia nella semiotica della comunicazione. Il padre di Prieto (come quello di Barthes, che morì durante la prima guerra mondiale) fu un militare di marina. 34 colore. Nel libro di Matvejević, lo spazio dedicato al colore del mare è sorprendentemente scarso, e in qualche modo non fa che esprimere lo scacco della semantica rispetto alla realtà infinitamente cangiante che resiste a ogni tentativo di essere “catturata”, quasi come se fosse un mistero, o il nome di un dio che si cela dietro mille altri nomi. È difficile indovinare il vero colore del mare – ce ne sono tanti, vari, irraggiungibili. Lo definiscono solitamente azzurro, ma non lo è sempre. Sotto le nuvole è grigio, nell’oscurità nero, al sorgere e al tramontare del sole dorato, talvolta, sul far della sera, roseo o perfino rosso, nel momento in cui si orla di spuma diventa bianco ed effervescente, nelle intemperie è plumbeo, dov’è poco profondo risulta verde, qui trasparente e là torbido (Matvejević 1987, p. 25). Il mare viene visto da terra con colori diversi, in tutte le sfumature dell’azzurro e del verde, come argento e oro sotto la luna o sotto il solte, di notte, di giorno, come olio e sale, terso come il cielo nelle metafore virgiliane (caeruleum mare), scuro come il vino negli epiteti omerici (oinops) (ivi, p. 222). Alcune precisazioni ulteriori sono riservate al colore dell’acqua nelle grotte marine, che ha caratteri particolari: Delle grotte marine [… c]e ne sono alcune facilmente accessibili, altre in cui si entra con difficoltà. [...] Hanno colori diversi o almeno questa è l’impressione che ne abbiamo: l’azzurro, l’azzurro scuro e il verde, forse, sono più densi. La luce, dove c’è, sembra essere liquida (ivi, p. 52). Le descrizioni di Matvejević ci illustrano non come il mare è, ma come lo vediamo. Del resto “il colore del mare” non è il colore del mare : il cielo, il fondo e la profondità, le condizioni di luminosità e quelle metereologiche, il riflesso delle rocce – mille altri elementi esterni determinano la nostra esperienza 6. Inoltre, tutti i fattori cui abbiamo già accennato sopravanzano di gran lunga l’elemento propriamente percettivo 7: Se abbiamo creduto che si trattasse soltanto di colori o di immagini, bisogna riconoscere che talvolta si trattava invece di connotati pratici: delle direzioni e dei punti cardinali del mondo. L’influsso delle nostre rappresentazioni o illusioni non può per questo essere escluso: esse hanno contribuito, nonostante tutto, al fatto che le singole denominazioni sopravvivessero e venissero adottate (ivi, p. 222). Insomma, per esprimerci nei termini di Eco (1997, cap. 3), è estremamente difficile delineare un tipo cognitivo dell’acqua marina, ed è senz’altro impossibile (perfino se si dispone della prosa di Matvejević) fornirne un contenuto nucleare. Ma cosa dire invece della definizione come oggetto di una porzione di mare – per esempio di una spiaggia 8? Per definire cos’è un oggetto materiale, possiamo adottare la strategia di Prieto (2021), e distinguere tre tipi di oggetti: 1. oggetto spaziale (dunque insieme di tratti spaziali pertinenti, prescindendo dal tempo); 2. oggetto spazio-temporale (insieme di tratti spaziali e temporali pertinenti – dunque, un evento ); 6 Ancora diversa è l’esperienza della crociera, in cui il mare è cornice o sfondo, laddove la figura – per così dire – è la nave e quello che vi accade. Cfr. il contributo di Giannitrapani (2022, p. 9), che insiste sulla “progressiva focalizzazione dell’esperienza vacanziera verso l’interno” sicché “il mare v[ie]n[e] espunto dal viaggio” per quanto resti “presente sullo sfondo di tantissime attività, inquadrato come elemento pittoresco da cui trarre godimento estetico” Si potrebbe dire, in questo caso, che il mare è una sorta di analogo dello scontornamento delle figure nei meme: serve a isolare ciò che si vuole pertinentizzare (o almeno focalizzare). 7 Questo, del resto, accade perfino per le immagini scientifiche, come ha mostrato egregiamente Françoise Bastide (2001, pp. 139-214) – e, prima di lei, con argomenti non semiotici, Ludwig Fleck (2019, pp. 133-154, 251-274). 8 Per una caratterizzazione articolata della spiaggia come soglia terra-mare cfr. Bassano (2022), in cui alcuni aspetti che qui mi limito ad accennare sono ampiamente sviluppati, e ve ne sono inoltre vari altri che qui sono assenti. 35 3. oggetto temporale (decorso temporale di uno stimolo pertinente – normalmente, sonoro – a prescindere dalle coordinate spaziali in cui questo è avvertito). La spiaggia come oggetto spaziale sarebbe dunque costituita da una certa porzione di sabbia (o di sassi), più un tratto di mare, più il paesaggio retrostante; la spiaggia come oggetto temporale sarebbe “una giornata al mare” (o anche un tempo più ristretto. In molti, per fortuna, abbiamo ricordi come questo, che ci rendono meno noiose le ore passate a crogiolarsi al sole senza far niente); infine, la spiaggia come oggetto temporale sarebbe il rumore del mare (ma anche, eventualmente, il vociare degli altri bagnanti) avvertito nel dormiveglia o durante l’immersione e il nuoto. Di fatto, però, la caratterizzazione e la stessa identità delle spiagge sembra più dipendente da quelle che Prieto chiamava “funzioni predicative di relazione”: qualcosa che non fa parte della spiaggia stessa, ma che la definisce. Non solo – come accennavo sopra – un ricordo personale, ma il legame con eventi, situazioni o testi di varia natura. Per esempio, la spiaggia di Cala Luna, nella costa di Baunei 9, trae molto del suo fascino (a prescindere da quanto sia bella – ed è bellissima…!) dal fatto che sia l’ambientazione del film Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmuller (1974), così come la spiaggia ragusana di Punta secca è ormai per tutti (o quasi) “la spiaggia dove nuota Montalbano”, ed è denotata da molti con la denominazione (fittizia) di “Marinella”, che riceve nella fiction 10. Strategie di identificazione come queste sono fondamentali in diversi campi, a partire dal marketing turistico, ma non sono le uniche, come vedremo. 3. Il quadrato del mare Dopo avere visto i modi (sostanzialmente poco efficaci) in cui il mare può essere caratterizzato come oggetto, poniamoci il problema di un’articolazione semantica interna della categoria. Una strategia che appare produttiva è quella di provare a generalizzare l’opposizione tra gustoso e saporito che Gianfranco Marrone ha costruito per parlare della gastronomia. Riprendiamone i termini, espungendo i riferimenti troppo espliciti al cibo. Una cosa è la percezione legata alla dimensione del gustoso (che dalla sensorialità va verso il riconoscimento cognitivo […], al sapere, alla cultura, un’altra è invece [quella] legata al saporito (sensorialità – anch’essa culturalmente determinata – che mira piuttosto a rilevare parallelismi e inversioni fra le qualità sensibili […], senza nominarle, senza dar loro una dimensione linguistica) (Marrone 2022, pp. 9-10). Quale è la pertinenza di questa opposizione? Naturalmente, non si introduce il mare nell’organismo (al massimo, lo si “beve” con gli occhi), ma semmai si introduce il corpo nel mare. E però l’esperienza dell’immergersi nel mare corrisponde con quella del mangiare almeno per le dimensioni sensoriali visiva, tattile e olfattiva (c’è anche quella uditiva, che è più importante per il mare che per il cibo). 9 L’espressione “costa di Baunei” potrà apparire strana al lettore, perché Baunei è un paese in montagna. D’altra parte, è difficile definirla in altro modo, giacché si tratta di un litorale roccioso (che va da S. Maria Navarrese a Orosei, nella parte orientale della Sardegna, tra le province di Ogliastra e di Nuoro) in cui si aprono alcune spiagge, bellissime ma difficilmente accessibili (vi si arriva solo via mare, o attraverso ore di trekking, e le presenze sono contingentate). In questo stesso tratto di costa si trovano anche Cala Goloritzé e Cala Mariolu, cui mi riferirò in seguito. 10 Sulla costruzione dell’universo marino nella fiction (e nei libri) su Montalbano tornerò nel §4, ma solo brevemente. Per informazioni più ampie e prospettive differenti (su questo come su altri aspetti della vasta galassia montalbaniana), cfr. Marrone (2018) e Sturiale, Traina e Zignale (2019). 36 Questo seleziona un nucleo che mi sembra importante: vi è un percorso (“gustoso”) in cui la cognizione precede (e orienta) l’esperienza, e un altro (“saporito”) in cui l’esperienza precede (e orienta) la cognizione. Ma avere una coppia di opposti, come sappiamo, vuol dire avere la chiave per realizzare un quadrato semiotico, che potremmo costruire così 11: (spiaggia “da cartolina”) (“da sotto”, “da dentro”) CONOSCENZA ESPERIENZA ESPERIENZA NEGATA CONOSCENZA NEGATA (mare “da fuori”) (mare esotico) Il quadrato si applica non solo e non tanto al mare in sé, quanto alle spiagge 12, che sono a un tempo oggetto di conoscenza ed esperienza (effettive o desiderate) e oggetto di marketing (e in questa sede, non mi riferirò separatamente a quest’ultimo aspetto, se non in pochi casi). Il primo termine è quello del mare conosciuto (che potremmo chiamare scherzosamente mare nostrum): si tratta di spiagge “da cartolina”, che presentano un’immagine riconoscibile (o un numero relativamente ridotto di immagini riconoscibili), le quali vengono costantemente replicate. Spesso è un elemento “esterno” (per esempio una roccia o una formazione montuosa con una figura particolare) che ci permette di identificare quella spiaggia e di consolidarne l’immagine condivisa. Le Figg. 1a-1b mostrano quattro esempi di spiagge che sono definite anzitutto dalle rocce (o dalle colline) che ne chiudono il perimetro, e che l’occhio cerca istintivamente come riferimento. Questi elementi funzionano insieme come marche indicali (un po’ come la torre di Pisa o il Colosseo) e come formanti plastici che consentono una “chiusura” testuale della spiaggia nella sua apparenza visiva. a. b. c. d. Spiaggia del Poetto Cala Goloritzé (costa di Spiaggia di S. Vito Lo Tropea (VV): paese, spiaggia (CA) con profilo della Baunei, OG). Capo (TP). e faraglione con la basilica. sella del diavolo. Fig. 1 11 In questo schema, “cognizione” è un modo abbreviato per dire “percorso dalla cognizione all’esperienza”, ed “esperienza” è un modo abbreviato per dire “percorso dall’esperienza alla cognizione”. 12 Sulle spiagge vedi ora l’importante contributo di Bassano (2022), che prende in esame diversi aspetti che qui io non posso nemmeno accennare (né, del resto, avrei saputo sviluppare allo stesso modo). 37 La spiaggia cittadina del Poetto (Fig. 1a) viene chiusa da una collina detta “Sella del diavolo” per il suo profilo particolare13, che segna in qualche modo l’inizio della spiaggia, ma anche la fine della città (e la separazione tra spiaggia e porto); Cala Goloritzé (Fig. 1b) è caratterizzata soprattutto da una roccia a punta, che rompe la simmetria (e la prospettiva) di chi si avvicina via mare; San Vito Lo Capo (Fig. 1c) è quasi “sorvegliata” da una collina con una parete a picco sul mare; la spiaggia di Tropea (Fig. 1d), infine, è in qualche modo “schiacciata” tra le rocce-bastioni su cui è edificata la cittadina e il gigantesco faraglione su cui sorge la chiesa di S. Maria dell’Isola. Passiamo ora al secondo termine, il mare “esperito”. Densità, salinità, temperatura, odore (e altri) sono invece elementi che non entrano nella descrizione visiva (e non solo): bisogna esperirli per poi eventualmente arrivare a una categorizzazione. In questo caso un’apprensione complessiva, “esterna”, del luogo fatto ha poco senso (per varie ragioni): più rappresentativo (o più efficace a livello di marketing) risulta riprodurre in qualche modo le condizioni dello stare nell’acqua, sia presentando immagini che rappresentino la prospettiva del soggetto sia rappresentando il soggetto stesso nel contesto. Un buon esempio può essere la spiaggia di Cala Mariolu. A differenza di altre spiagge della costa di Baunei, essa non ha un profilo particolarmente riconoscibile, ma – oltre al colore dell’acqua (dato dai sassolini bianchi sul fondo che riflettono la luce del sole, e che accentuano l’effetto di trasparenza) – ha un’altra caratteristica ben nota: una colonia di pesci “addomesticati”, per così dire, che restano sulla riva, sono abituati alla presenza degli umani, e si fanno nutrire di buon grado. Dunque sono proprio questi pesci i protagonisti delle immagini che definiscono la spiaggia (e la sua esperienza), tanto dal punto di vista di chi la compie (Fig. 2a) che includendo il soggetto come elemento dell’esperienza (Figg. 2b, 2c)14. a. b. c. Fig. 2 – Pesci a Cala Mariolu (Costa di Baunei, OG). Il terzo termine – l’esperienza del mare negata – non necessita (quasi per definizione) di immagini esplicative. In quel caso, abbiamo con il mare il rapporto che tutti abbiamo con certe persone: ci stiamo benissimo, ma a una certa distanza. Questa figura può declinarsi di volta in volta come: 1. un’impossibilità soggettiva (gli esempi sono innumerevoli, a partire da Falsetto di Montale (1984, p. 15), che guarda Esterina tuffarsi “tra le braccia del tuo divino amico”, e conclude ascrivendosi alla “razza di noi che rimaniamo a terra”) 2. un’impossibilità oggettiva (è il vasto territorio del sublime dinamico kantiano, ma anche il fascino perenne del mare d’inverno, che è bello soprattutto perché non ci si può entrare ) 13 La denominazione è legata alla leggenda per cui, in seguito a uno scontro tra S. Michele Arcangelo e il diavolo stesso, quest’ultimo sarebbe precipitato sulla collina, causando l’affossamento che ne caratterizza il profilo. 14 Naturalmente, si tratta di un’arma a doppio taglio. Sono segnalati casi in cui immagini dei pesci nella spiaggia di Cala Mariolu sono state utilizzate per pubblicizzare il mare di altri luoghi (per esempio, della Grecia: www.vistanet.it/cagliari/2019/08/08/cala-mariolu-finisce-in-grecia-la-spiaggia-gioiello-della-sardegna-usata-come- pubblicita-per-corfu-ma-non-e-la-prima-volta/) 38 3. il rifiuto esplicito del mare come ambientazione, in contesti dove pure il mare è vicino e incombente (che si trova come costante – a prima vista sorprendente – in tanta narrativa di autori insulari, da Deledda a Sciascia a Niffoi). Il quarto termine – la cognizione negata – definisce il mare esotico . Per qualificare in questo modo la spiaggia e il mare, è essenziale che lo si pensi (e lo si mostri) come qualcosa che non si sa dove comincia e dove finisce . Chi provi a compiere l’esperimento di digitare “mare esotico” su Google immagini sarà posto di fronte a una serie di immagini come quelle della Fig. 3, in cui abbiamo una semplice costruzione plastica di quattro elementi (cielo, sabbia, mare, vegetazione) che non concorrono a costruire una forma (o una forma particolare), ma vivono solo dei loro rapporti cromatici, topologici ed eidetici (e anzitutto della loro compresenza). Se figurativo ci sarà, sarà ridotto al minimo (una palma-esempio, come in Fig. 3a); negli altri casi, ciò che conta sarà la costruzione orizzontale (Fig. 3a, 3d) o verticale (Fig. 3b, 3c), con possibilità di variazione minima (come l’esclusione della vegetazione e l’inclusione del profilo costiero sullo sfondo, come nella Fig. 3d). Il mare così definito è anzitutto un’eterotopia: non questo o quel luogo, ma un altrove con una consistenza quasi onirica. a. b. c. d. Fig. 3 – Immagini di spiagge esotiche. Non ho qui lo spazio (né le capacità) di mostrare la pertinenza o la capacità euristica di questa classificazione per ragionare sui modi di vedere il mare nella letteratura e nelle arti15; mi limiterò a una precisazione, forse superflua, ma comunque importante. L’appartenenza di una spiaggia/mare a una delle quattro categorie non dipende solo dalle sue caratteristiche intrinseche (che comprendono la localizzazione geografica) non è data per sempre e anzi, in certi casi, può essere utile (anche a livello di marketing, quando si tratti di “vendere il mare”) variare rispetto alle aspettative. La Fig. 4 illustra due esempi di questa strategia di “inversione”: 1. nell’esempio 4a (la copertina di un numero recente di una rivista di ambiente e turismo) si adotta una politica fin troppo sfruttata per pubblicizzare le spiagge sarde: l’idea di avere un mare esotico (fotografato conseguentemente), ma “sotto casa” 16; 2. nell’esempio 4b, la politica è opposta: la spiaggia di Maya Bay è una spiaggia davvero esotica (il cui profilo è però riconoscibile perché è l’ambientazione del film The Beach , di Danny Boyle del 15 Vorrei però fare almeno un accenno all’ambito (apparentemente) più effimero e più superficiale, ma che proprio per questo è ricco di spunti e indizi per una caratterizzazione dell’immaginario sulle spiagge e sul mare: la musica leggera. Una rapida ricognizione nella memoria di ciascuno basterà a trovare esempi ascrivibili chiaramente ai quattro termini del quadrato. Per il mare cognito è fin troppo facile citare Stessa spiaggia, stesso mare (1963), resa celebre da Mina e Eduardo Vianello; per il mare esperito, Dolcenera (1996) di Fabrizio de André (che descrive l’esondazione di un torrente – ma è un torrente che rende la terra come il mare); per l’esperienza negata, Il mare d’inverno (1983) di Enrico Ruggeri; per il mare esotico, In qualche parte del mondo (1967) di Luigi Tenco o Poster (1975) di Claudio Baglioni. Ma gli esempi, naturalmente, sono innumerevoli (e il lettore ne saprà trovare di migliori). 16 Questo modo di presentare la Sardegna è però particolarmente irritante per chi conosce i costi e i disagi dello spostarsi spesso dall’isola al continente, e viceversa (e sa che spiagge davvero esotiche sono a volte, paradossalmente, più abbordabili dei luoghi in cui si vive, o in cui si è nati). 39 2000, con protagonista Leonardo di Caprio), ma è presentata come mare cognito (con i turisti e le imbarcazioni) proprio per significare l’accessibilità di un luogo pure fisicamente tanto lontano. a. b. Fig. 4 – Esempi di “inversione” delle categorie del quadrato del mare. 4. Un mare per (non) pensare: mare e musement Prima di arrivare alle mie conclusioni, vorrei sviluppare un aspetto legato a una delle diagonali del quadrato, quella che oppone l’esperienza del mare alla negazione di quella stessa esperienza. Questa opposizione si dimostra particolarmente pertinente in relazione a un tema rilevante per il marketing turistico, ma ancor più (e primariamente) per la letteratura, la filosofia e la scienza. Si tratta del musement, ovvero il particolare esercizio di rilassamento mentale che prelude a una prestazione intellettuale e avvicina all’idea di una dimensione divina. Sotto quest’aspetto, come si sa, l’aveva presentato Peirce (1908), mentre gli studi successivi – a partire da Eco e Sebeok (1983) – hanno insistito sul valore strumentale del musement per il lavoro del medico, e soprattutto del detective, che hanno necessità di “ripulire” la mente dalle ipotesi preconcette, per permettere a quelle “giuste” di affacciarsi spontaneamente alla soglia della coscienza, e in fretta. Per questo, una parte importante di ciò che genericamente chiamiamo “creatività” consiste nel prendersi cura della propria mente (senza dimenticarsi che non siamo cervelli disincarnati) e metterla nelle condizioni di lavorare al meglio. Vorrei dunque proporre un esempio, mettendo in opposizione due produzioni televisive italiane recenti, di valore ineguale 17: la lunga serie di episodi (1999-2021), con protagonista Luca Zingaretti, tratti dai libri di Andrea Camilleri su Montalbano, prodotti dalla Palomar e messi in onda sui canali Rai, e la serie “L’isola di Pietro”, con protagonista Gianni Morandi, prodotta da RTI e Lux Vide e trasmessa sulle reti Mediaset per tre stagioni (2017-2019). Le due produzioni – entrambe legate a una commissione pubblica a fini di promozione turistica – si oppongono però per tanti motivi: nella prima un’ambientazione fittizia (“costruita” e “montata” mettendo insieme vari luoghi della provincia di Ragusa e di quella di Siracusa) viene creata per corrispondere a un’ambientazione letteraria diversa 18, ma “lasca” quanto basta per non essere stridente rispetto a quella architettata per la fiction; nel secondo caso, non vi è alcun testo preesistente, ma la sceneggiatura è costruita per corrispondere a un’ambientazione definita, cui manca solo il nome (che è comunque richiamato nel titolo) 19 per arrivare a una situazione di realismo assoluto. 17 Sviluppo qui un esempio già abbozzato in Fadda (2019, pp. 177-178). 18 Nella serie dei romanzi editi da Sellerio, Vigata corrisponde pressappoco a Porto Empedocle (paese natale di Camilleri), e Montelusa ad Agrigento. 19 Il luogo di ambientazione della fiction è l’isola di S. Pietro, nel sud-ovest della Sardegna (con Carloforte come unico centro abitato). Non viene nominata, ma vi sono riferimenti espliciti ai centri abitati di Carbonia e Cagliari. 40 Ma l’aspetto su cui vorrei concentrarmi è quello della diversa modalità di musement marittimo esibita dai due protagonisti (e che costituisce un pilastro della strategia di marketing turistico messa in atto)20. Come si è detto sopra, esso si snoda sull’asse che oppone l’esperienza all’esperienza negata, e i due poli sono esemplificati dalle pratiche messe in atto dai personaggi (ed esemplificate dagli attori): di fatto Zingaretti/Montalbano per pensare nuota, mentre Morandi/Pietro per pensare corre – vicino al mare, sopra il mare, ma (ovviamente), non nel mare. In entrambi i casi questo sembra frutto di una scelta precisa. Vediamo perché, iniziando dal caso di Montalbano. Sappiamo che il protagonista dei libri di Camilleri ha una fisicità diversa rispetto a Luca Zingaretti: è più alto (con i capelli e i baffi), ma forse meno prestante, e quando ha bisogno di pensare fa lunghe passeggiate sul molo21. Zingaretti ha invece un fisico più compatto, adatto al nuoto, e questo permette di realizzare determinate inquadrature e movimenti di macchina che valorizzano la spiaggia e il mare dove nuota (Fig. 5a). Nel caso di Morandi, la scelta sembra dettata da esigenze almeno parzialmente differenti22: dunque si è scelto un attore che, sebbene abbia un fisico abbastanza minuto, ha doti podistiche (conosciute dal pubblico, che lo ha visto, per esempio, cimentarsi in diverse maratone), e può dunque prestarsi a una rappresentazione del territorio ben diversa (e sostanzialmente corretta: l’isola di S. Pietro è un dedalo di sentieri naturalistici che sembrano fatti apposta per gli amanti del trekking), in cui l’acqua rimane, per così dire, sullo sfondo (Fig. 5b). a. b. Fotogramma dal teaser sui nuovi episodi Fotogramma dalla sigla della seconda stagione de della serie su Montalbano (2018)23. “L’isola di Pietro”. Fig. 5 Si tratta, dunque, di una strategia di posizionamento rispettivo come quelle analizzate a suo tempo da Floch (1995). Ma ciò che in questa sede ci interessa di più è ciò che questa strategia mette in evidenza: la qualità del musement (il che non vuol dire l’efficacia, naturalmente) cambia molto da una situazione all’altra. Nel primo caso, si tratta di un musement immersivo, panico per così dire, e il corpo nell’atto di fendere l’acqua è immagine di una discontinuità che viene tracciata nel continuo (dunque, l’immagine 20 In opposizione al musement marittimo, possiamo immaginare anzitutto un musement montano, dove l’ampiezza degli spazi e degli orizzonti la fa da padrona, ma le condizioni climatiche e metereologiche sarebbero ben diverse – e soprattutto, mancherebbe il mare. All’estremo opposto, vi sono forme di musement urbano, da praticare in spazi angusti, in perfetta solitudine o inghiottiti dalla folla. 21 A porto Empedocle, in effetti, vi è un lungo molo (mentre raramente i moli vengono inquadrati nella fiction), e in paese è visibile anche una statua dedicata a Montalbano, ritratto con le fattezze che ha nei libri. 22 Non è possibile dire quanto questo tipo di posizionamento sia il frutto di una scelta di contrapposizione esplicita, e quanto invece sia frutto di necessità dettate dalla committenza. Ai fini dell’analisi, l’opposizione rimane indicativa. 23 Il teaser completo (in cui si vede Zingaretti/Montalbano nuotare, prima di fermarsi a fare il morto a galla) è disponibile qui: www.facebook.com/watch/?v=1667919026580474. 41 stessa, per Peirce, di un qualche livello di cognizione)24; nel secondo, il ruolo del corpo è più attivo (il che è reso ulteriormente evidente dal cane che segue), ma si muove attraverso percorsi in qualche misura tracciati, e il caos/mare (affascinante ma pericoloso) viene lasciato sullo sfondo25. 5. Conclusione: il mare e l’onniformatività Alla luce di quanto detto finora, possiamo ritornare ancora una volta – l’ultima – alla prosa di Matvejević, e riprendere per esteso il passo la cui conclusione ho scelto come exergo. Le immagini del mare e tutto ciò che si trova lungo la sua distesa, i suoi stati, i riflessi del cielo, del sole e delle nuvole su di esso, i colori che assume il fondo degli abissi e i luoghi dove invece l’acqua è bassa, la pietra, la sabbia e le alghe sul fondo, i punti scuri e trasparenti lungo la costa o lontano da essa, i paesaggi intermedi, il mare del mattino e quello della sera, quello diurno e quello notturno, quotidiano ed eterno (si potrebbero aggiungere molti aggettivi che di solito vengono adoperati – ahimè – per simili descrizioni) ognuno ha la sensazione di aver qualcosa da dire del mare e del suo aspetto e che si tratti di una cosa effettivamente importante (Matvejević 2004, p. 59). Le parole dello scrittore croato appaiono come un inno alla voglia di dire e all’impossibilità di dire (o almeno di dire tutto). Quest’esigenza riporta al dibattito sulla cosiddetta (soprattutto in seno alla tradizione italiana) “onniformatività”, ovvero la capacità delle lingue storico-naturali di far fronte in qualche modo – o, secondo alcuni, di esprimere senz’altro in maniera compiuta – a ogni contenuto di coscienza26. Se nella tradizione strutturalista di area francese questa idea è stata spesso trattata alla stregua di un dogma, enunciato una volta per tutte e da non mettere in discussione, nella semiotica italiana degli anni 60 e 70 (caratterizzata da un proficuo dialogo con l’estetica, e memore, tra gli altri, della lezione di Pagliaro: cfr. Fadda 2017) è stata oggetto di un dibattito concluso (o almeno sintetizzato) da Tullio De Mauro (1982, pp. 135-136). Il linguista di Torre Annunziata ha notato come, se da una parte sarebbe ingenuo ragionare su un’idea di effabilità totale, dall’altra non possiamo mai, a priori, porre limiti al campo dell’effabile. Inoltre, questo campo non è dato una volta per tutte, e se non lo possiamo mappare è perché siamo capaci di ampliarlo in maniera – se non infinita – indefinita. Anzi, questo è una sorta di compito etico che la lingua – “prodotto sociale” di tutti e di nessuno: cfr. Saussure (1922, p. 19) – ci assegna nella nostra qualità di parlanti: Una lingua, per dir così, ci costringe o, perlomeno, ci sospinge sempre a essere adeguati alle situazioni. Ci sospinge sempre a riscoprirci esseri umani tra gli altri, non più sapienti degli altri perché tutti indefinitamente capaci di accrescere, nella lingua e con la lingua, il nostro sapere. Il fatto è che non siamo in grado di indicare qual è il tipo, qual è la qualità di un piano d’esperienza che non possa trovare posto tra i contenuti dicibili con le parole e frasi di una lingua (De Mauro 1982, p. 136). Proprio il mare rappresenta, in questo senso, una sfida forte, ben colta da Matvejević: vogliamo dire, pensiamo che ci sia qualcosa di importante da dire, e però arriviamo sempre fino a un certo punto. Ma è davvero un male? Nel testo che abbiamo visto sopra, dopo una breve elencazione di antonimi – secondo il modulo “bachelardiano” che abbiamo introdotto all’inizio – c’è una parola apparentemente 24 È impossibile qui perfino accennare alla questione della continuità matematica nella filosofia di Peirce, e ai suoi risvolti logici, semiotici e metafisici. Rimando dunque il lettore a Fadda (2013), dove si trova anche una bibliografia specifica. 25 La contrapposizione tra queste due forme di musement e di rapporto col mare rende ancora più emblematica la fine dello scrittore Sergio Atzeni (1952-1995), sbattuto dalle acque sulla scogliera della Conca, proprio nell’isola di S. Pietro. 26 Come è noto, il termine deriva dall’affermazione, presente nei Fondamenti di Hjelmslev, per cui la lingua ha la capacità di “formare qualunque materia” (Hjelmslev 1943, p. 117). 42 fuori luogo, un’interiezione che non ci aspetteremmo: “ahimè”. L’autore insinua dunque (neanche tanto velatamente) che seppellire la realtà esperita del mare sotto una catasta di aggettivi non renda un gran servizio al mare stesso, che forse di tutte quelle parole non sa che farsene. Ma allora il mare è un simbolo enantiosemico anche, per così dire, al livello meta- dell’onniformatività: se da una parte ci fa urlare il bisogno di pertinenze nascoste ma fondamentali, dall’altra ci inchioda all’ultima proposizione del Tractatus – o, più modestamente, al De André che consigliava di “non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole” – e ci ricorda che il silenzio ben inteso fa parte del dire, e talvolta ne è la parte più importante27. 27È quasi superfluo osservare come questa duplicità riprenda quella sviluppata sopra: la spinta alla verbalizzazione corrisponde alla modalità “gustosa” del mare (quella in cui è la cognizione a orientare l’esperienza), mentre la spinta al silenzio – o alla reticenza – è la modalità “saporita”, che invita a godere i vari aspetti dell’esperienza “senza dar loro una dimensione linguistica” (Marrone 2022, p. 19). 43 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. 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Iste ego sum. Specchi, materialità ed enunciazione Luigi Lobaccaro Abstract. Starting from Eco’s and Fabbri’s theories on mirror image status, this paper aims to construct a theoretical framework that redefines the intricate relationship between subjectivity, enunciation, and mirror prosthetic status. If we consider the mirror in its material characteristics, it will be possible to state how its first function is space reduplication. This function is possible because the mirror does something to the observing subject, bringing forth possible worlds through the material agency (Malafouris, Koukouti 2022). In this framework, self-image recognition is only one of the possible enunciative relations that mirrors shape and facilitate (Lobaccaro, Bacaro 2021). I will argue that the possibility of recognising one’s own image, is the result of a form of impersonal enunciation that the mirror image opens through its material attributes (Paolucci 2020). The engagement with the reflective surface distributes simulacra that serve as enunciative instances of different kinds: the self, me, you, and the other interchange within the mirror, concealing the catoptric nature of the phenomenon. 1. Introduzione Questo articolo affronterà due temi centrali nel dibattito della semiotica contemporanea quali la materialità e l’enunciazione, mostrando i possibili legami tra queste due dimensioni attraverso un oggetto, una materia, che accompagna homo sapiens da almeno ottomila anni (Pendergast 2003), che ossessiona la cultura occidentale da sempre, almeno a partire dai miti greci di Medusa e di Narciso, e che ha interessato la semiotica sin dai dibatti sull’iconismo degli anni 70 (Eco 1975): lo specchio. Sullo specchio e sullo statuto semiotico dell’immagine speculare si è molto discusso e numerose sono le posizioni emerse che hanno cercato di individuare nello specchio un punto centrale e dirimente per evidenziare il legame che unisce semiosi, percezione e soggettività. Tuttavia, non è mai stato riscontrato un accordo generale sulle modalità attraverso cui lo specchio esibisce i rapporti tra queste dimensioni, rendendo l’oggetto un campo di conflitto teorico e il terreno di prova per i diversi approcci e modelli semiotici che si sono di volta in volta cimentati nel tentativo di rintracciare le logiche attraverso cui il senso si articola e si manifesta. In queste pagine tenteremo di fornire una integrazione di due delle posizioni semiotiche per noi più interessanti sul rapporto tra specchio e semiosi, quelle di Eco e Fabbri, evidenziando come solo un’attenta riflessione sullo statuto materiale dello specchio e uno studio delle modalità cognitivo-percettive attraverso cui esso è capace di generare i suoi effetti di senso possano permetterci un avanzamento nella comprensione del più misterioso degli artefatti. 2. Lo specchio come fenomeno-soglia La più nota teoria semiotica circa lo statuto dell’immagine speculare è certamente quella di Umberto Eco, che del tema si è occupato sin dal Trattato di semiotica generale (1975) fino all’ultima formulazione in Kant e l’ornitorinco (1997). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). La tesi di Eco, riassunta brevemente, è che l’immagine speculare abbia uno statuto pre-semiotico, in quanto essa si manifesta sempre in presenza del suo referente (che è causa necessaria dell’immagine), ed è strettamente dipendente dalla superficie riflettente (Eco 1984). Più che essere un segno vero e proprio, l’immagine speculare si configura come una sorta di doppio, di “icona assoluta” legata al fatto che lo specchio non traduce ma registra ciò che lo colpisce, restituendolo in una forma veridica. Proprio per questa ragione ci fidiamo degli specchi e li utilizziamo come delle protesi affidabili, essi fungono cioè da “apparecchio che estende il raggio di azione di un organo” (Eco 1997, p. 380). Lo specchio dice la verità: esso è un canale protesico, può creare illusioni, certo, ma solo illusioni percettive e non semiotiche, in quanto si può mentire sugli specchi, attraverso gli specchi, o circa gli specchi, ma l’immagine speculare in sé non è in grado di mentire, proprio perché impossibilitata a permanere in assenza del suo referente. La proposta di uno statuto pre-semiotico dell’immagine speculare è stato oggetto di un dibattito acceso nella semiotica cognitiva, che ha visto oppositori come Sonesson (2003), il quale ha tentato di ribaltare le argomentazioni di Eco modificando la nozione di segno verso una direzione fenomenologica, e sostenitori come Brandt (2017), il quale invece ha sostenuto che il requisito necessario per parlare di semiosi è la presenza dell’intento di veicolare un contenuto attraverso una determinata espressione da parte di un produttore. È possibile notare come entrambi gli autori approfittino del dibattito sullo statuto dell’immagine speculare per modificare la nozione di segno e semiosi, l’uno in una direzione psicologica e fenomenologica, e l’altro in direzione di una pragmatica legata alla situazione di discorso comunicativo tra due soggetti. Allo stesso tempo, è da sottolineare come questo dibattito “cognitivo” abbia portato a una estrema semplificazione della teoria echiana sullo specchio riducendola a una sterile posizione sulla tipologia dei segni. In realtà la riflessione di Eco nasce sì dalla stranezza dell’immagine speculare, ma la usa come base per una più profonda e radicale riflessione sul segno e la semiosi. Per Eco, infatti, l’immagine speculare non è semplicemente un fenomeno pre-semiotico, ma un fenomeno del tutto particolare che funge da crocevia strutturale per la semiosi: Che l’immagine speculare sia, tra i casi di doppi, il più singolare, ed esibisca caratteri di unicità, spiega appunto perché gli specchi abbiano ispirato tanta letteratura: questa virtuale duplicazione degli stimoli (che talora funziona come se ci fosse una duplicazione e del mio corpo oggetto, e del mio corpo soggetto che si sdoppia e si pone di fronte a sé stesso), questo furto di immagine, questa tentazione continua di ritenermi un altro, tutto ciò fa dell’esperienza speculare una esperienza assolutamente singolare, sulla soglia tra percezione e significazione. È proprio da questa esperienza di iconismo assoluto che nasce il sogno di un segno che abbia le stesse caratteristiche (Eco 1985, p. 24). L’immagine speculare rappresenta il “sogno di un segno” (ibidem) perché presenta in maniera assoluta i tratti che tutti i segni recano in modo minore e ai quali in un certo modo aspirano. Lo specchio non interpreta, riproduce il campo stimolante senza ribaltarlo; è un doppio, una icona assoluta, che è indistricabilmente legata al suo referente, tale da essere un designatore rigido assoluto o un nome proprio assoluto, o un pronome assoluto. Per Eco, quindi, lo specchio non è solo non semiotico, ma è trans-semiotico, è un fenomeno-soglia che si situa tra percezione e significazione. La riflessione che rende particolarmente evidente questa caratteristica di crocevia strutturale dello specchio è, secondo Eco, la teoria di Lacan (1966) sullo stadio dello specchio del bambino: Che l’uomo sia animale semiosico pare assodato, ma il dirlo non esclude che esso lo sia proprio in virtù di una ancestrale esperienza speculare. Certo il mito di Narciso sembra mettere in scena un animale già parlante, ma quanto ci si può fidare dei miti? […] Da un lato siamo incerti se la semiosi fondi la percezione o la percezione la semiosi (e quindi se la semiosi fondi il pensiero o viceversa). Le riflessioni di Lacan sullo stadio dello specchio ci suggeriscono che percezione (o almeno percezione del proprio corpo come di una unità non frammentata) ed esperienza speculare vadano 46 di pari passo. Ed ecco che percezione, pensiero, coscienza della propria soggettività, esperienza speculare, semiosi, appaiono come momenti di uno nodo abbastanza inestricabile, come punti di una circonferenza a cui sembra arduo assegnare un punto di inizio (Eco 1985, p. 12). Stando a Eco, quindi, lo specchio emerge come fenomeno-soglia per almeno due ragioni, che non vengono però connesse all’interno di una teoria unificata: 1) lo specchio permette il passaggio da uno stato pre-semiotico ad uno semiotico della soggettività e 2) lo specchio è fenomeno che si colloca tra percezione e significazione. Cercheremo allora di mostrare come, se si vuole approfondire lo statuto di soglia dell’immagine speculare è necessario approfondire esattamente cosa accade nel momento in cui il bambino sviluppa l’immagine speculare. Si tratta, infatti, del punto in cui la dimensione della soggettività, della semiosi e della percezione si fondono, ed è proprio in questo stadio che sarà possibile rintracciare il forte legame tra materialità ed enunciazione. Prima sarà però necessario analizzare come queste due dimensioni siano profondamente connesse già nella riflessione di Paolo Fabbri sugli specchi. 3. Giochi di specchi: istanza dell’enunciazione, istanza di sostanza e statuto protesico. Il tema dello specchio è affrontato da Fabbri in un contributo del 1999, poi confluito nel volume Eco in fabula (Musarra et al. 2002), proprio a partire dalle idee di Eco sullo statuto dell’immagine speculare. In questo intervento Fabbri dimostra di essere uno dei pochissimi ad aver compreso fino in fondo lo spirito della riflessione echiana sullo specchio come “sogno di un segno” e come fenomeno-soglia di accesso alla semiosi. È chiaro per il semiologo che sullo specchio non si gioca una semplice battaglia sulla tipologia dei segni, ma l’intera riflessione semiotica sul rapporto tra realtà, percezione e semiosi (Fabbri 2002). L’idea che lo specchio sia in qualche modo una forma pura di semiosi, talmente pura da non essere un segno, affascina Fabbri, il quale ritiene che lo specchio rappresenti molto più di un’icona assoluta o di un nome proprio assoluto, come in Eco, ma che esso possa essere assunto come il prototipo assoluto di ogni sistema pronominale: A mon avis, le miroir est un pronom, et je dirais même plus : il est le prototype du mécanisme de l’énonciation elle-même. Nous nous retrouvons devant le miroir à une sorte de degré zéro minimal du mécanisme d’énonciation. Nous sommes devant quelque chose qui est un tu, qui nous dit tu. Dès lors, notre rapport avec le miroir prend la forme d’une relation je-tu (Fabbri 2002, p. 49). Davanti allo specchio, quindi, noi ritroviamo il grado zero del meccanismo di enunciazione. Per Fabbri siamo di fronte a un qualche cosa che è un tu, che ci dice tu. Dunque, per testare l’ipotesi di uno statuto pronominale assoluto Fabbri indaga come l’istanza dell’enunciazione si manifesta di fronte allo specchio operando una serie di esperimenti mentali a partire da quello fatto da Eco del soggetto che si rade la barba la mattina, in cui il soggetto assume perfettamente attraverso un embrayage l’immagine speculare, passando per tutti quei casi in cui vi sono giochi di débrayage ed désembrayage, da Proust a Van Eyk, da Alice nel Paese delle meraviglie agli esperimenti sull’autoriconoscimento allo specchio delle scimmie. A partire dallo specchio è insomma possibile individuare in diverse occorrenze testuali tutti quei rapporti tra istanza dell’enunciazione e oggetto e i tipi di soggettività che essi possono co-articolare. Un’altra dimensione che bisogna considerare è quella dell’istanza della sostanza. Fabbri fa infatti notare come Eco consideri lo specchio come un fenomeno puramente visivo, quando le caratteristiche materiali dell’artefatto sono ugualmente importanti per la comprensione dei fenomeni di senso che può produrre: esso è fragile, è duro, si rompe, si frammenta in diverse direzioni. Tale inattenzione nei confronti della materialità dello specchio riflette anche una forma di ingenuità sulla funzione cognitiva del percepire. Infatti, citando gli studi a lui contemporanei sulla percezione (Gregory 1997), Fabbri mostra come la 47 percezione sia lontana dall’essere un’attività passiva che ci colpisce, ma sia una forma di attività che coinvolge la sensomotricità e la palpazione, per cui lo specchio non è semplicemente un oggetto che riflette una immagine che noi subiamo, come sembra invece suggerire Eco, ma è un oggetto che ci costringe a costruire un’immagine. Lo statuto protesico dello specchio consiste allora proprio nella sua forma di agency che ci costringe a proiettarci nel mondo che esso riproduce attraverso l’istanza di sostanza e alla modalità attraverso cui si articola il suo rapporto con l’istanza dell’enunciazione. A seconda dei rapporti che il soggetto nel suo sforzo percettivo è in grado di articolare con lo strumento protesico, allora, avremo la produzione di determinati rapporti enunciativi da esaminare: si può inglobare la protesi o rigettarla. In questa prospettiva, Fabbri propone di utilizzare la nozione di enunciazione per pensare lo specchio in particolare e le protesi in generale. Proprio a partire da queste riflessioni che pongono in profonda relazione la soggettività, cioè l’istanza della enunciazione, la materia, cioè l’istanza della sostanza, e lo statuto protesico dello specchio credo sia possibile fare un passo avanti nella riflessione. Nei saggi di Eco è evidente come, di fronte allo specchio, il soggetto sia l’unico responsabile della semiosi e che l’immagine speculare sia poco più che un elemento del mondo che colpisce il suo sistema percettivo. In Fabbri, invece, nonostante l’istanza di sostanza abbia un suo ruolo, è l’istanza dell’enunciazione a essere responsabile del tipo di articolazione che determina tanto i rapporti soggettivi quanto lo statuto protesico dell’oggetto. Ma cosa accadrebbe se ribaltassimo o rivalutassimo il rapporto che lega fra loro questi termini? Se fossero la protesi e l’istanza di sostanza il punto di partenza per leggere l’enunciazione e la soggettività, e non l’enunciazione e la sua istanza il punto di partenza per comprendere lo statuto della protesi? Questa strada può essere intrapresa guardando al material turn nella semiotica contemporanea (Dondero 2020), a una semiotica cognitiva fondata sulle 4E Cognition (Paolucci 2021) e a una teoria semiotica dell’enunciazione evenemenziale (Paolucci 2020). 4. Protesi, 4E cognition e Material Engagement Proprio come hanno fatto sia Eco che Fabbri a loro tempo, è il caso di dare uno sguardo alle scienze cognitive contemporanee per vedere come il rapporto tra percezione, cognizione e protesi viene pensato oggi. Nelle 4E cognition (embodied, embedded, enactive, extended) si è da tempo mostrato come la cognizione sia un fenomeno distribuito tra il cervello, il corpo, l’ambiente e la nicchia socioculturale. Si pensi alle analisi di Hutchins (1994) che affrontano i casi di cognizione distribuita sulle navi militari e nelle cabine di pilotaggio degli aerei: l’idea in questo caso è estremamente latouriana, la cognizione è il risultato di una rete di attori umani e non umani che contribuiscono alla riuscita di un tipo di compito complesso. Continuamente la cognizione è scaricata su segni esterni dell’ambiente, che fungono da materiale protesico o implementativo che fa qualcosa per noi e a noi: questa è l’idea della mente estesa di Andy Clark (2008). Gli oggetti esterni con cui entriamo quotidianamente in contatto non solo possono sostituire le nostre funzioni cognitive (in questo senso siamo vicini alla nozione di protesi di Eco), ma possono fungere da elementi complementari che spingono la cognizione oltre i suoi limiti imposti dai vincoli dell’organismo e del cervello. A partire dalle idee della mente estesa, e della cognizione enattiva (Varela et al. 1991) che vede la cognizione come un processo di sense-making generato dalla circolarità dinamica delle interazioni tra corpo, cervello e mondo, Lambros Malafouris (2013) ha sviluppato la sua idea di material engagement. La teoria di Malafouris tenta di mostrare come la cultura materiale ha un ruolo fondamentale nel plasmare la nostra cognizione e nel generare processi di sense-making. L’artefatto materiale non è un oggetto semplicemente utilizzato dal soggetto, ma è una parte di un processo cognitivo che attraverso 48 una agentività materiale è capace di generare una forma di intenzionalità dinamica con l’individuo che lo manipola, manipolandolo a sua volta e guidandolo nell’interazione. Da questo incontro tra la materialità e la corporeità si genera una modalità di pensiero che è definita thinging e una forma di semiosi enattiva, in cui la materialità degli artefatti è in grado di generare e allo stesso tempo istanziare un concetto generato nel corso dell’interazione. In due saggi fondamentali per noi, Malafouris (2008a, 2008b) ha spiegato come il material engagement sia profondamente coinvolto anche nelle forme di cognizione e di semiosi legate alla soggettività: prendendo come casi esemplari reperti archeologici come le conchiglie di Blombos o l’anello e la spada micenea, è possibile ricostruire come questi oggetti personali non costituiscano solo il segno di una raggiunta forma di soggettività, ma come essi siano stati degli agenti attivi nel favorire il raggiungimento di forme di soggettività e identità (2008b). Questo tipo di ricognizione mostra come al momento le scienze cognitive stiano virando verso una profonda riconcettualizzazione del rapporto tra mente e strumenti, evidenziando come l’intera nicchia ambientale nel quale gli individui sono inseriti sia in grado di intervenire attivamente nei processi cognitivi plasmandoli e arricchendoli. Tutto ciò è ancor più rilevante se si pensa che attraverso concetti come quello di sense-making (Paolucci 2021), le scienze cognitive contemporanee si avvicinino a una sensibilità semiotica riconoscendo come l’intera cognizione umana, a partire dalla sensomotricità fino ad arrivare alle forme di riflessività che caratterizzano lo sviluppo dell’autocoscienza, sia il risultato di processi di produzione e trasformazione di senso (Fusaroli, Paolucci 2011; Lobaccaro 2022). 5. Protesi speculari e tecnologie del sé Torniamo allora alla questione aperta da Fabbri sul rapporto tra protesi ed enunciazione alla luce di questi studi contemporanei. Se è certamente vero che in una prospettiva testualista è possibile vedere come l’istanza dell’enunciazione sia in relazione con le protesi attraverso processi di incorporamento o di rigetto, da un punto di vista connesso alla semiosi in atto e ai processi di sense-making è invece possibile indagare lo statuto dell’enunciazione a partire dagli effetti generati proprio dalla protesi. Infatti, seguendo Malafouris, è la materialità della protesi a generare i modi di darsi del soggetto e non le operazioni di débrayage e désembrayage dell’istanza dell’enunciazione a gestire lo statuto della protesi. Non è quindi un caso che nel loro ultimo libro dedicato agli specchi Koukouti e Malafouris sviluppino una riflessione proprio a partire dalle caratteristiche materiali della protesi speculare, mostrando come queste permettano allo specchio di fungere da “powerful attractor within a dynamic semiotic field of subjectification and self-identification” (Koukouti, Malafouris 2021, p. 104). Proprio grazie a questa ipotesi è possibile oggi indagare la relazione tra specchio, percezione, semiosi e soggettività durante lo stadio infantile del riconoscimento allo specchio, strada che Eco a suo tempo aveva ritenuto impervia. Le teorie contemporanee della psicologia dello sviluppo (Rochat 2009) presentano lo stato dello specchio come un processo graduale che passa per diverse fasi dai sei ai ventiquattro mesi: una prima fase dell’ignoranza dello specchio, in cui l’immagine dello specchio è assunta come un “tu”, come un altro soggetto, che passa da una fase di disaccoppiamento dal tu (che vede il bambino indagare lo specchio come un gioco legato alle proprie contingenze sensorimotorie) fino ad arrivare alle forme di identificazione e della permanenza dell’immagine corporea. A partire da questi dati, è stata recentemente fornita una lettura semiotico cognitiva dello stadio dello specchio infantile (Lobaccaro, Bacaro 2021) dove facendo appello alle riflessioni di Merleau-Ponty (1964) e Zazzo (1993), si è mostrato come il passaggio tra i diversi livelli di consapevolezza dell’immagine speculare sono legati proprio all’esplorazione fisica delle caratteristiche materiali dello specchio e all’esplorazione sensorimotoria delle caratteristiche di quella che Fabbri chiama istanza della sostanza: la sua durezza, la sua bidimensionalità, 49 la sua freddezza. Nei primi mesi di vita il bambino si interfaccia con lo strumento girandogli attorno, toccando, abbracciando invano, leccando e baciando l’immagine speculare. In questa serie di operazioni lo specchio agisce attivamente sul bambino: l’illusione di un prolungamento spaziale del mondo si perde per effetto della materialità dello strumento (del resto è quello che accade ogni volta agli adulti che corrono in una casa degli specchi: è proprio il contatto con la superficie solida del vetro a smascherare l’illusione di un prolungamento spaziale). L’immagine speculare diviene dunque per il bambino uno strano oggetto, una materia magica da cui si dipartono infinite e alternate dinamiche di significazione con sentimenti inquietanti legati a quello che è chiamato il me-but-not-me paradox. In questa fase il bambino è preda dello specchio, non riesce a capire perché quell’immagine inquietante è un “io” che non è un “io”, si tratta di una fase di indistinzione in cui ognuno dei due attori sembra volersi appropriare dell’altro: il bambino sente che la sua immagine non dovrebbe trovarsi altrove e che se quell’immagine lo osserva allora non può trattarsi di sé stesso. In questo rimando tra dimensione egocentrica e dimensione allocentrica, elementi come la coordinazione visuo-motoria, il ruolo dei caregiver 1 e soprattutto l’esplorazione tattile (oltre all’impossibilità di passare dall’altra parte dello schermo, lusso non concesso a Narciso e Alice) permettono al bambino di comprendere quale sia la sua immagine corporea vista dall’esterno2. 6. Il qui-altrove: lo specchio come grado zero dell’enunciazione impersonale Il caso del riconoscimento allo specchio del bambino ci pare quindi confermare completamente la tesi di Fabbri, cioè l’idea che lo specchio sia in qualche modo la forma di un grado zero di enunciazione in quanto esibisce esattamente i rapporti che permettono a un “io” di riconoscersi in un “tu” che dice “io”. Allo stesso tempo, il ruolo dei caregivers e della materialità in questo processo ci porta a dubitare che essa sia la forma di enunciazione per come classicamente pensata dalla semiotica, cioè come la forma di débrayage dalla situazione di comunicazione io-tu all’egli, ma di una forma di enunciazione come forma di passaggio, di invio, come allestimento di un campo che alloca posti tanto di soggetto quanto di oggetto. Ci pare insomma che sarebbe meglio inquadrare il rapporto tra la materialità dello specchio e l’enunciazione non appoggiandoci alla teoria classica benvenistiana che vede l’atto di enunciazione come una produzione di un enunciato da parte di un soggetto localizzato in un dato contesto pragmatico (Benveniste 1966). Al contrario, dovremmo intendere l’atto di enunciazione per come è stato recentemente modellizzato da Paolucci (2020), cioè come un evento, un atto impersonale legato a un concatenamento di istanze eterogenee che apre posizioni che i singoli individui possono occupare identificandosi come istanze dell’enunciazione e soggetti. 1 È importante sottolineare le riflessioni psicologiche sullo stadio dello specchio abbiano spesso sottolineato l’importanza dell’intersoggettività come guida nella fase dello specchio (Rochat 2009), cosa quasi completamente dimenticata dalle riflessioni semiotiche. Questo dato risulta ancora più rilevante se si tiene conto di come già Lacan, autore fondamentale per lo sviluppo della riflessione semiotica sugli specchi, in una riflessione del Seminario X tematizzi il ruolo del movimento del bambino e dell’interazione con il caregiver per l’acquisizione dell’immagine speculare (Lacan 2004; cfr. anche Cimatti 2016). Seguire la riflessione lacaniana su questo punto permetterebbe di raffinare ulteriormente una comprensione semiotica dell’acquisizione dell’immagine speculare. Ci ripromettiamo di farlo in futuro, ringraziando il reviewer che ci ha fornito questo spunto di riflessione. 2 Non è un caso che quando la coordinazione sensorimotoria, la dimensione intersoggettiva e di conseguenza l’engagement con lo strumento sono profondamente inficiati come in alcuni casi di disturbi psichiatrici si verificano fenomeni molto simili alla fase del me-but-not-me paradox. Ad esempio, alcuni pazienti schizofrenici colpiti da deliri di transizione non vogliono specchiarsi per paura di essere rapiti dalla propria immagine speculare e finire intrappolati nella superficie riflettente (cfr. Parnas 2003). 50 La teoria dell’enunciazione di Paolucci (2020) ha una posizione antitetica rispetto a quella sostenuta da Benveniste: dove per il linguista francese l’io linguistico è il motore del meccanismo di enunciazione, per Paolucci è il meccanismo di enunciazione a produrre l’ io linguistico. Infatti, l’enunciazione è una caratteristica propria dei sistemi semiolinguistici e consiste nella “proprietà dei linguaggi di allestire delle posizioni di soggetto che stabiliscono i ruoli per chi, fuori dai linguaggi, viene di volta in volta a occupare” (Paolucci 2020, p. 13). In altre parole, la posizione di soggetto non è aperta dal pronome “io” che può in seguito proiettarsi in un “egli”; al contrario, la posizione di soggetto è già sempre un “egli” impersonale che può essere variamente occupata da io, tu ed egli. Questo può accadere perché sono gli stessi sistemi semiotici a prevedere una topologia di relazioni volte alla loro trasformazione e non necessitano di operatori incarnati per la costruzione di tali topologie. L’utilità degli attori è quella di prendere posizione in un campo attanziale definito a monte dalle strutture semiotiche. Questo vuol dire che non ci sono nella lingua delle categorie specialissime, come lo sono i pronomi io tu per Benveniste, tali da permettere l’ancoramento in prima e seconda persona del discorso, ma ci sono solo posizioni virtuali allestite dalle strutture semiolinguistiche, che costituiscono un’alterità rispetto all’attore concreto di discorso e che il parlante dovrà imparare a occupare. Tant’è che nella sua teoria Paolucci propone, nel caso dei sistemi semiotici fondati sull’audiovisivo, di sostituire la categoria di embrayeur e quindi dei pronomi “io”, “qui” e “ora” (che rimane perfettamente valida per i sistemi fondati sul linguaggio) con la categoria di protesi. Quando parliamo di una struttura protesica e non simulacrale dell’enunciazione intendiamo esattamente questo: nell’enunciato non ci sono i simulacri dell’enunciazione, ma ci sono elementi che, senza essere parti dell’enunciazione, si sostituiscono a essa, prolungandola, completandola o garantendo nuove funzioni (posso vedere cose che non vedevo prima, posso sapere di più etc.). Inoltre, senza essere davvero fatte a immagine dell’enunciazione (per questo nell’audiovisivo non ci sono simulacri dell’enunciazione nell’enunciato), le protesi posseggono una certa autonomia tecnica, modale e morfologica. Si pensi per esempio ai punti percettivi diffusi dentro a un film o agli avatar del giocatore in un videogioco: il loro statuto tecnologico non è pressoché mai a immagine di un soggetto esterno di cui rappresenterebbe il simulacro, ma è dell’ordine di una protesi tecnologica che ne aumenta o ne diminuisce le capacità (Paolucci 2020, p. 333). L’enunciazione è insomma un atto impersonale attraverso cui si installano diversi elementi (forme e posti) che possono permettere vari ingressi all’interno del mondo semiotico per gli individui in carne e ossa. L’enunciazione è una modalità di passaggio contenuta nel sistema semiotico stesso per riprodursi dinamicamente, una realtà pre-individuale fatta solo di differenze e relazioni in cui diverse grandezze prendono posto, e concatenandosi aprono lo spazio che può essere occupato dal soggetto attraverso una mediazione tra il proprio punto di vista e quello degli altri. In altre parole, in un atto di enunciazione non vi è la sola istanza dell’enunciazione costituita dal soggetto che prende in carico solipsisticamente il sistema semiolinguistico, al contrario vi è una polifonia di voci, una serie diverse di istanze enuncianti fatte da istituzioni, leggi, artefatti, tecnologie etc. che permettono agli individui di concatenare la propria voce alla loro e di poter prendere parola e dire io come una “voce in un’assemblea” (Paolucci 2020, p. 254). È insomma la forma impersonale della terza persona, dell’illeità che abita il sistema semiotico, che garantisce al soggetto di agganciarsi all’interno del sistema e guardarsi dall’esterno potendo modulare il proprio punto di vista con quello di un altro. Ma non è forse quello che accade nello specchio? Se guardiamo allo statuto protesico con gli occhi della Material Engagement Theory, possiamo ancora concordare con Eco sul fatto che l’immagine speculare non sia un segno, ma dobbiamo anche considerare come essa sia un elemento che permette grazie alla sua agency materiale di produrre segni 3 : l’immagine fornita dallo specchio diviene un agente capace di entrare in una forma di 3 Per approfondire lo statuto semiotico dell’immagine speculare per una semiotica cognitiva che si fonda sul material engagement si consulti il commento “Ridentem dicere verum: quid vetat?” in Koukouti et al. (2022, pp. 239-244). 51 assemblaggio con noi e fornirci un punto di vista privilegiato da cui guardarci come se fossimo altri, creando allo stesso tempo un punto di fuga capace di reduplicare i piani di realtà e immaginare mondi possibili (Koukouti, Malafouris 2021). Si può quindi dire che l’istanza di sostanza, che Fabbri ha individuato, è anche, a questo punto, una delle grandezze che pulsa nell’enunciazione allo specchio, anzi è il motore principale di tale forma di enunciazione e permette tanto all’immagine di fungere da tecnologia del sé (Koukouti, Malafouris 2021) e allo specchio di essere protesi della soggettività (Paolucci 2017, 2020) quanto di aprire lo spazio per il magico, per il doppleganger, per regni delle ombre, e per stimolare l’immaginazione. In pratica, non è affatto l’istanza dell’enunciazione a gestire i débrayage e i désembrayage che determinano lo statuto protesico, si tratta piuttosto del contrario, è l’engagement con l’istanza della sostanza a determinare le modalità attraverso cui la protesi assiste e partecipa agli atti di enunciazione. Possiamo quindi tranquillamente dire, grazie agli studi sullo stadio dello specchio, che lo specchio molto prima di lavorare come un “tu” che dice “io” (cioè prima di arrivare allo stadio di auto-riconoscimento speculare che si è sinora indebitamente eletta a funzione principe dello specchio) funziona come un pronome impersonale, un terzo che permette all’io, al tu e all’egli di posizionarsi e strutturarsi relazionalmente. Se assumiamo questa prospettiva, lo specchio perde completamente la forma dell’io- tu, e diventa la forma stessa dell’illeità dell’enunciazione, dell’evento che permette l’allocazione di posti. Per prendere coscienza della propria immagine corporea, il bambino è costretto a una serie di passaggi enunciativi che consistono proprio nella sospensione della forma di percezione immediata di fronte allo specchio. L’incontro tra la propria corporeità e la materia (guidata anche dal ruolo del caregiver) allontana il bambino dalla percezione immediata di un “tu” e lo proietta in un gioco, un gioco semiotico, che assumerà le sue fattezze definitive dopo una lunga storia di interazioni, in un processo di rinvii e di deleghe in cui hanno un ruolo fondamentale anche le strutture socioculturali che gestiscono e implementano tali pratiche di interazione. In questo sdoppiamento, in questo sganciarsi dal piano percettivo per favorire un nuovo ordine di relazioni, nella disillusione dalle costrizioni percettive, lo specchio funge da supporto e spinge attivamente verso quella dimensione semiotica che Basso Fossali (2009) definisce il fittivo: il primo ingresso guidato dal piano percettivo a quell’illeità che è la forma dei giochi semiotici. Non si può quindi non essere d’accordo con Fabbri quando dice che lo specchio è “le lieu privilégié de la manifestation sémiotique” (2002, p. 50) in cui possono darsi tutti gli altrove, gli altri e gli allora, aggiungendo però che esso è anche il luogo in cui possono apparire tutti i qui, tutti gli ora e tutti gli io, come dice Eco. Solo così possiamo spiegare tutti gli effetti di senso che lo specchio è in grado di creare, non perché un soggetto può embrayarsi o desèembrayarsi a suo piacimento, ma perché la struttura della relazione con lo strumento è costitutivamente impersonale e capace di aprire a un’infinità di giochi semiotici, da quello che dice “io” di Eco, agli innumerevoli Gedankexperiment presi in considerazione da Fabbri. Forse non v’è termine migliore di quello utilizzato da Michel Serres proprio parlando dell’enunciazione strutturale per descrivere il grado 0 dell’enunciazione rintracciabile nello specchio: un “luogo qui-altrove” (Serres 1972, p. 150). 7. Conclusione Diventiamo animali catottrici, come afferma Eco, non perché assoggettiamo lo specchio, ma perché impariamo ad interagire con esso, a farci guidare in uno dei tanti percorsi enunciativi che propone grazie alle sue proprietà materiali. Ci riconosciamo nello specchio solo in quanto lo specchio ci permette di riconoscerci allestendo una posizione di soggetto che può essere o meno occupata. Le posizioni di Eco e Fabbri sullo statuto dell’immagine speculare e una loro integrazione con una teoria dell’enunciazione impersonale e con le scienze cognitive contemporanee ci hanno quindi permesso di mettere in luce il 52 ruolo della materialità dello specchio nel generare e favorire la proiezione nel dominio del fittivo e dei giochi semiotici. Ma in fondo una tale proposta non si configura certo come una novità, chiare indicazioni le aveva già fornite Ovidio nelle Metamorfosi, quando nel narrare il mito di Narciso, racconta come siano le lacrime del giovane cacciatore che infrangono lo specchio d’acqua a generare l’inquietante consapevolezza di un non-tu, di un indistinto, che infine diventa io. Lo specchio non è il tu che ci dice io, è il questo a partire dal quale nasce la consapevolezza di sé. “Iste ego sum” (Ov. Met. v.463), pensa Narciso mentre affoga nello specchio d’acqua, “questo son io” pronuncia il bambino dopo aver poggiato il viso contro il più misterioso degli artefatti. 53 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Basso Fossali, P., 2009, La tenuta del senso: per una semiotica della percezione, Roma, Aracne. 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Le crociate per le materie prime. Circolazione e valorizzazione dei materiali nel discorso storico Carlo Campailla Abstract. This paper aims to investigate the relationship between materials and historical discourse, through the semiotic analysis of a corpus of historical texts on raw materials and their history. This paper will focus on the role and the values that raw materials has had in relation to the social structure of each époque. According to the texts, the circulation of raw materials, new materials introduction or scarcity are crucial factors that determine fractures and remodulations of the whole social and historical context. However, this kind of description is deeply influenced by the theoretical viewpoint and the discoursive strategies that each text enacts. 1. Introduzione Questo lavoro si propone di esplorare il rapporto tra materiali e discorso storico, indagando a quali condizioni semiotiche un determinato materiale, con le sue proprietà, può diventare oggetto di trattazione storica. A partire dai testi considerati, questo scritto verificherà l’ipotesi per cui i materiali, e i valori di cui sono investiti, ricoprano un ruolo centrale nelle trasformazioni strutturali osservabili nella storia. Concentrandoci inoltre sul punto di vista adottato nel corpus esaminato rispetto alla temporalità, si proporrà in conclusione una riflessione sul tipo di intelligibilità che i testi considerati conferiscono al tempo storico. L’utilizzo dei materiali e delle materie prime, sia in quanto documento che in veste di “soggetto” della storia è d’altra parte cosa nota. Basti citare, da un lato, Febvre (1952) il quale affermava che, in assenza di documenti scritti, l’ingegno dello storico può “fare storia” con tutto ciò tramite cui si è dato l’operato dell’uomo. Dall’altro lato Foucault, nell’Archeologia del sapere (1969), parla di quelle che lui chiama “delle storie quasi immobili allo sguardo, delle storie a pendenza lieve: storia delle vie marittime, del grano o delle miniere d’oro, storia della siccità e dell’irrigazione” (p. 6). Compito dello storico sarebbe quello di “isolare, raggruppare, rendere pertinenti, mettere in relazione, costituire in insiemi” (p. 11) quegli elementi da lui stesso selezionati. Cosa che, ovviamente, pone le basi per nuovi tipi possibili di testi storici, laddove la messa in serie genera “il moltiplicarsi degli strati, il loro disarticolarsi, la specificità del tempo e delle cronologie loro proprie” (p. 6). Da cui la scelta di quali discontinuità, di quali eventi porre come determinanti all’interno del testo, delle periodizzazioni più opportune, delle durate da mettere in risalto. Del resto, come scrive anche Pomian, non può esistere oggi storia generale che non sia storia di qualche cosa (cfr. Pomian 1984). Una lunga tradizione di storici ha inoltre messo in luce quale ruolo i materiali abbiano svolto nello sviluppo delle strutture sociali nel corso della storia, basti ricordare i lavori di Bloch (1959) e Braudel (1967), che hanno dimostrato come lo sviluppo sociale sia stato da sempre connesso a come l’uomo si è rapportato con i materiali, soprattutto attraverso la tecnica. La letteratura storica che ha come oggetto le materie prime è dunque molto vasta, si pensi ancora al ruolo dell’energia nello sviluppo industriale, E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). agli usi del legno lungo il corso della storia, o alle superfici che hanno permesso lo sviluppo della scrittura (ad esempio, Clayton 2013; Ennos 2021; Pagnotta 2020). Il corpus di cui ci occupiamo in questa sede è costituito da diversi aneddoti storici, di carattere divulgativo, che hanno come oggetto la circolazione delle materie prime nel corso della storia, i conflitti causati dal desiderio di appropriarsene e i commerci che ne hanno diffuso l’utilizzo (contenuti rispettivamente in Cipolla 1988; Giraudo 2015, 2017a, 2017b). Questo corpus è stato scelto sulla base del punto di vista adottato, nei testi che lo compongono, rispetto al rapporto tra storia e materiali. Vedremo come, in questi testi, le materie prime circolino lungo il globo modificando equilibri economici, permettendo la crescita delle diverse strutture storiche e favorendo espansioni, crisi, scoperte. I materiali dunque “fanno la storia” non solo attraverso i valori di cui sono investiti e la domanda che di essi fanno i soggetti che si alternano nel tempo, ma anche attraverso le loro trasformazioni ed evoluzioni storiche. La mancanza di specifici materiali, dovuta al loro esaurimento, può causare la ricerca di questi in altre zone del pianeta, mentre i produttori possono arricchirsi con scambi ed esportazioni, con le conseguenti fluttuazioni dei prezzi, legati alla disponibilità di materiali. Come scrive Giraudo “le materie prime hanno influenzato l’intera storia umana e continuano ad avere un ruolo centrale negli equilibri tra le placche tettoniche dell’economia mondiale. In passato era il pepe, oggi è l’energia” (Giraudo 2017a, p. 14). A partire da quanto detto, possiamo iniziare a delineare quali specificità assuma il concetto di materiale per il discorso storico e per i testi considerati in questa ricerca. È nota la distinzione di Floch tra materie e materiali. Se il concetto di materia fa riferimento a qualcosa ancora in attesa di ricevere un significato, nel nostro caso parliamo piuttosto di materiali come elementi già culturalizzati, la cui forma dipende dall’uso che se ne fa. Parafrasando Floch, potremmo dire che il materiale è la materia informata dalla cultura (cfr. Floch 1984; Ceriani 2008). Riflettere sul ruolo delle materie prime nel discorso storico, quindi, significherebbe riflettere sui significati che queste hanno ricevuto per l’uomo nel tempo, su come queste hanno “fatto” non solo la storia, ma anche l’umanità stessa. Infine, prendere in esame la storia dei materiali significa riflettere sulle connotazioni ideologiche che questo tipo di trattazione storica porta con sé, nella misura in cui si tratta di una storia che presuppone necessariamente una determinata idea di natura, già culturalizzata e, come vedremo, messa a valore dall’essere umano1. 2. Le dimensioni della storia e il posto dei materiali Facendo riferimento ai lavori di Bloch e Braudel, e accennando al corpus analizzato per questa ricerca, abbiamo detto che i materiali entrano in rapporto con diverse “strutture” storiche. Prima di procedere con la presentazione dell’oggetto d’analisi, è necessario chiarire questo concetto, che può costituire fonte di dialogo tra semiotica e storiografia. Secondo l’ormai classica definizione di Fernand Braudel, possiamo distinguere tre livelli in base ai quali ordinare il tempo della storia: un livello evenemenziale, dominato dalle durate brevi e punteggiato da un’infinità di avvenimenti, che rappresenta il riferimento della storiografia classica nonché “la più capricciosa, la più ingannevole delle durate” (Braudel 1969, p. 41). Vi sarebbe poi un livello strutturale, dominato da oscillazioni di media durata, che sarebbe il tempo dell’economia, della politica, delle fluttuazioni demografiche, caratterizzato da un tempo “congiunturale”; livello, questo, costituito da una molteplicità di eventi ricorsivi, da ripetizioni che ne determinano l’andamento ciclico e ondulatorio. Infine, un tempo lunghissimo, “di ampiezza secolare” (ibidem), quasi immobile e stazionario, che nei lavori dello storico francese coinvolge i movimenti delle strutture, come accade ad esempio nel campo della cultura. Dunque, tre tipi di durata, a cui 1 Sarebbe utile approfondire a questo proposito il contributo che scienze come la geologia hanno dato ai recenti sviluppi della disciplina storica, modificando la concezione stessa di tempo storico attraverso l’annessione di tempi lunghissimi come quello della Terra. Su questo si vedano, tra gli altri, Hartog (2022), Pomian (1984), Serres (2015). 57 corrispondono anche tre forme di cambiamento: il primo di tipo puntuale, una “novità rumorosa” (ivi, p. 40) che può essere espressione di moti più profondi, quelli delle strutture, il secondo di tipo congiunturale, calcolabile sulla base di un ritmo oscillatorio e ciclico costituito da fatti ripetitivi, e il terzo di tipo quasi impercettibile. Evidente la vicinanza tra questa concezione del tempo storico e quella di un teorico come Koselleck, la cui idea di tempo guarda al livello strutturale come qualcosa di irriducibile agli eventi, seppur legato indissolubilmente ad essi. Scrive l’autore che “i due livelli, degli eventi e delle strutture, si riferiscono l’uno all’altro, senza che l’uno si risolva nell’altro”, per cui “l’evento diventa il presupposto di asserzioni strutturali. D’altra parte strutture durevoli o meno durevoli, comunque di scadenza protratta, sono condizioni di possibili eventi” (Koselleck 1979, p. 127). Le strutture sono per Koselleck antecedenti agli eventi, ne costituiscono le condizioni di possibilità, e in un movimento circolare di condizionamento reciproco, sono da questi modificate. È da sottolineare il fatto che per lo storico tedesco “il carattere processuale della storia moderna può essere colto in un unico modo: con la spiegazione degli eventi mediante le strutture, e viceversa” (Koselleck 1979, p. 129). Il dialogo tra queste due prospettive storiche e la semiotica greimasiana è senz’altro fecondo. Greimas, rifacendosi proprio alla scuola delle Annales, propone una definizione delle dimensioni storiche in continuità con quanto esposto precedentemente, assumendo l’esistenza di un livello superficiale, dove la storicità si rende manifesta, costellato da una infinità di microeventi impossibili da descrivere esaustivamente. A questo si oppone una dimensione fondamentale, “luogo di organizzazioni tassonomiche e di trasformazioni strutturali dei fenomeni sociali” (Greimas 1976, p. 159). Nel mezzo, una dimensione evenemenziale costituita da quegli eventi che, selezionati dalla dimensione superficiale e disposti in successione, formano le serie di avvenimenti che vengono integrate nel discorso storico2. Anche il concetto di evento viene in questo modo ad assumere una diversa colorazione, da intendersi quindi come una discontinuità, “manifestazione visibile di una rottura dell’equilibrio o del suo ristabilimento” (Lozano 1990, p. 150). Avvenimenti che, quindi, acquistano significato in base alla posizione che occupano all’interno del testo e alle strutture che gli sono logicamente anteriori3. Dunque, per Greimas la storia assume una dimensione “a pasta sfoglia”, da cui consegue che le strutture storiche per il semiologo sono ordinate secondo livelli di profondità. Potrebbe essere utile guardare alla sistemazione di questi livelli strutturali e alla gerarchia che essi assumono all’interno dei testi in relazione all’effetto di senso che se ne trae in sede d’analisi. La priorità di una struttura sull’altra potrebbe infatti contribuire a determinare il connotato ideologico del discorso storico. Ci torneremo. La relazione tra le strutture e le serie evenemenziali può inoltre verificarsi nello stesso tempo tra ogni evento e più livelli strutturali. Nelle parole di Greimas: Ammesso che esistano più strutture convergenti per produrre uno stesso oggetto evenemenziale, si possono manifestare talune incompatibilità tra di loro: esse possono escludersi vicendevolmente; alcuni elementi possono escluderne altri; ma si possono presentare vasti spazi di compatibilità. Ed è appunto in queste zone di confrontabilità strutturale che pare collocarsi la libertà storica degli uomini; è qui che vengono a manifestarsi le scelte originali della storia (Greimas 1976, p. 162). Da ciò deriva l’idea che le strutture rispondano ad una grammatica della storia, le cui regole limiterebbero le possibilità di manifestazione del discorso storico. Come sappiamo infatti, nell’ottica di Greimas la storia si configura non tanto come uno spazio d’apertura su infinite possibilità di manifestazione, quanto piuttosto come la chiusura, la limitazione di una serie di virtualità strutturali (cfr. Greimas 1970). Bisogna infine sottolineare, per il discorso che seguirà, che a questi livelli strutturali di cui si compone il discorso storico, possono corrispondere i soggetti collettivi che dominano il panorama della storia. Stati, 2 È interessante notare qui la vicinanza tra il pensiero di Greimas e il passo di Foucault citato in sede di introduzione. 3 Sul concetto di evento nel discorso storico, si vedano anche Ricoeur (1983), Veyne (1973). 58 folle, eserciti si costituiscono, come vedremo, “attraverso l’integrazione del voler-fare condiviso da tutti e tramite la realizzazione di un poter-fare collettivo” (Greimas 1976, p. 166). Come dice sempre Greimas “la definizione di questi soggetti collettivi […] è di natura tassonomica e si riporta, in definitiva, alla struttura sociale e alla sua tipologia” (ivi, p. 167). Data questa struttura della storia, nei paragrafi che seguiranno metteremo a verifica l’ipotesi che ognuno di questi attanti collettivi, dotato di proprie modalità e di un proprio programma narrativo, possa entrare in una determinata relazione con i materiali, con la possibilità di programmi narrativi antitetici e di conflitti sulla valenza dei materiali. Sappiamo infatti che il concetto semiotico di valenza fa riferimento al valore dei valori, dunque al metavalore che consente di stabilire che tipi di valore hanno le cose, permettendo di operare una scelta tra più oggetti/valore in ragione di questo metavalore (cfr. Fabbri 1991). Diremo quindi che, ponendo una gerarchia assiologica, la valenza dipende da un’assiologia superiore, i valori da assiologie inferiori. Il concetto di valenza e la sua differenza rispetto al valore permette quindi di spiegare come vengano applicate delle meta-valorizzazioni agli oggetti e in questo caso ai materiali, ad esempio considerandoli secondo il loro valore di scambio piuttosto che d’uso (cfr. Marrone 1994). Inoltre se, come abbiamo detto, è una certa struttura che determina il valore di un certo materiale, allora nella storia si daranno conflitti sulla valenza di un certo materiale da un lato, e un mutamento di valenze osservabile in termini diacronici dall’altro. I casi, di cui parleremo a breve, del pepe (cfr. Cipolla 1988) o dei conflitti consumatisi tra più soggetti (Stato, industria bellica e navale, manifattura del quotidiano, mercato) sul valore del legno (cfr. Giraudo 2015, 2017a) possono essere esemplificativi. 3. Oggetto d’analisi 3.1. Allegro ma non troppo Il primo testo considerato, scritto dallo storico italiano Carlo M. Cipolla, è un breve racconto della storia del Medioevo, alla luce del ruolo che pepe, vino e lana hanno avuto lungo l’intera parabola medievale. Ad aprire e chiudere la vicenda tre crisi, ovvero la caduta di Roma, la peste del 1300, la Guerra dei Cent’anni. In mezzo, le due crociate. Se queste sono causate dal desiderio di pepe, la Guerra dei Cent’anni lo è da quello di vino. Come scrive l’autore, “in tutte le forme di migrazione umana, vi sono forze di attrazione e di spinta. Il pepe fu certamente la forza di attrazione; il vino fu la forza di spinta” (Cipolla 1988, p. 20). Per l’autore, lo stato di disgiunzione dal pepe è la manque da cui hanno inizio le Crociate. Scarsità di tipo sì quantitativo e sostanziale, ma che nel testo di Cipolla viene risemantizzata e omologata ad una scarsità esistenziale. Il pepe assume per Cipolla il ruolo di “motore della storia” (p. 34): Pietro l’Eremita, amante dei cibi pepati, agisce da “catalizzatore” (p. 18) ovvero da Destinante, promuovendo le Crociate per le quali i miliziani ebbri di vino, loro Aiutante, partono per Gerusalemme. Se l’esercito si realizza congiungendosi col proprio oggetto di valore, ovvero l’oro, i commercianti veneziani “si impadronirono del commercio traendone profitti notevoli” (Cipolla 1988, p. 24), poiché “di Pietri in Occidente ve n’erano decine di migliaia” (ibidem). Dunque, per questi il pepe viene utilizzato secondo il suo valore di scambio. Per la popolazione, come per Pietro l’Eremita, è invece afrodisiaco e fonte di energia, e determina una trasformazione patemica ed esistenziale del soggetto che vi si congiunge: Da luogo tetro e triste qual era, l’Europa occidentale si trasformò d’incanto in una terra traboccante di vitalità, energia e ottimismo. L’aumento del consumo del pepe incrementò l’esuberanza degli uomini che, con tante belle donne d’attorno chiuse nelle loro cinture di castità, provarono un improvviso grande interesse per la lavorazione del ferro; molti si trasformarono in fabbri e quasi tutti si diedero a produrre chiavi (Cipolla 1988, p. 25). 59 In questo passaggio vediamo come la suddetta mancanza sia poi colmata da un’abbondanza anch’essa sostanziale ed esistenziale a un tempo, che non produce soltanto un abbassamento del prezzo, ma genera piuttosto una euforia diffusa su tutti gli strati della società, producendo sul livello discorsivo nuovi temi e figure. La circolazione del pepe, da un momento di euforia iniziale produce successivamente esiti disforici, con la sovrappopolazione delle città, data secondo l’autore dalla ricerca di pepe e dall’aumento demografico dovuto al suo consumo, e la comparsa dell’Anti-Soggetto peste. Diminuendo la popolazione, aumentarono i salari e “ceti sempre più grandi poterono permettersi il pepe” (p. 39), da cui conseguì “una pesante scarsità di pepe sul mercato e un aumento iperbolico del suo prezzo” (ibidem). Ritorna, quindi, lo stato di disforia generale dato da una scarsità al contempo quantitativa e qualitativa, a cui seguirà la comparsa di un nuovo Soggetto – i Portoghesi –, dotato di un programma narrativo che prevede l’appropriazione da un soggetto di stato – l’Africa –. Individuiamo, rispettivamente nella crociata e nella peste, due congiunture che modificano le dimensioni profonde della storia, determinando un andamento ciclico del decorso storico, su cui torneremo in conclusione. Come per il pepe, il culto del vino, e la sua contemporanea scarsità presso gli inglesi, fece sì che “sorgesse una grave disputa per il controllo delle zone viticole francesi. L’infausto risultato di questo litigio fu una guerra che va sotto il nome di Guerra dei Cent’Anni” (ivi, p. 35), che rovinò l’economia di entrambi i paesi. È interessante notare sin da subito come in questo racconto il pepe ricopra diversi ruoli attanziali e venga valorizzato diversamente dai vari soggetti collettivi che si alternano nelle vicende narrate – in quanto moneta per i mercanti, in quanto fonte di energia per le migliaia di “Pietri” sparsi per l’Europa –: si tratta, in breve, di un conflitto sulla valenza del materiale, sul valore dei valori. Dall’altro lato, come già accennato, vediamo come tra i diversi attori collettivi che si alternano in questa vicenda – gli eserciti, la popolazione, la Chiesa, i “mercatanti italiani” –, il mercato sia quello determinante, per cui la scarsità di un bene sul mercato, o viceversa la sua abbondanza, si riverberano dalle strutture economiche sulle altre dimensioni della storia, producendo identità, passioni, valori socio-culturali. Riprendendo quanto già accennato a proposito della valenza dei materiali (cfr. supra §2), il valore che in questo testo determina i valori è di tipo economico, e si assiste ad una omologazione di scarsità quantitativa e qualitativa. Questo passaggio dalla scarsità all’abbondanza produce quindi euforie collettive, rende esuberanti, è causa di riorganizzazioni strutturali, dell’ingresso di nuovi valori e modi di pensare, segnalati nel testo dalla nuova configurazione discorsiva chiamata in causa dalle materie prime. 3.2. Storie straordinarie delle materie prime Gli altri testi presi in esame per la presente ricerca sono tratti da una serie di piccoli aneddoti presenti in tre raccolte di racconti, scritti dallo storico ed economista Alessandro Giraudo (2015, 2017a, 2017b). Si tratta, in breve, di aneddoti divulgativi sulla storia economica mondiale, guardata attraverso la circolazione delle materie prime, l’oscillazione dei prezzi e la caduta o la nascita di periodi storici o centri del potere. Nello specifico, e in linea con il testo precedentemente esposto, ho preso in considerazione gli aneddoti riguardo quei materiali il cui rapporto con le diverse strutture storiche è segnato da momenti di crisi, di rotture e riorganizzazioni sistemiche, quali ad esempio il legno, il carbone, alcuni colori come il rosso e il blu, metalli come il bronzo e il ferro. In maniera simile a quanto accadeva per il pepe in Cipolla, anche per Giraudo le materie prime vengono valorizzate in maniera diversa da soggetti diversi, spesso con esigenze incompatibili quando non direttamente in reciproco conflitto. Come per Cipolla, inoltre, l’ingresso o la scomparsa di un nuovo materiale porta ad una generale risistemazione delle strutture sociali e dei loro valori. Guardiamo qualche esempio dai testi. Un buon punto di partenza può essere un aneddoto che ha come oggetto il passaggio dall’Età del Bronzo a quella del Ferro (cfr. Giraudo 2015). Nella prima di queste due epoche il ferro era considerato un 60 materiale sacro per la sua origine meteoritica, dunque un bene raro e prezioso, utilizzato da autorità religiose e militari, e in parte per oggetti decorativi e di alto valore, mentre le esigenze del quotidiano erano soddisfatte principalmente dall’uso del bronzo. Con il cosiddetto “collasso delle civiltà”4, si ha una penuria di stagno e quindi un forte impatto sulla produzione di bronzo, di cui lo stagno era ingrediente principale, ponendo fine all’Età del Bronzo. Con l’arrivo dell’Età del Ferro si ha una riorganizzazione strutturale, per cui il legno, precedentemente molto costoso, diviene largamente utilizzato per lo sviluppo della manifattura del fuoco, e il ferro diventa il materiale prediletto dai fabbri, che “cominciarono a cercare miniere poco profonde e grandi quantità di legname per lavorare sempre più ferro” (cfr. Giraudo 2015, p. 19). Il crollo del prezzo del ferro quindi modificò la manifattura degli strumenti quotidiani, le tecniche militari e le strutture economiche (cfr. Giraudo 2015, pp. 15-19, 29-34). Cambiando la struttura descritta, cambia dunque il valore del materiale e il suo rapporto con le diverse dimensioni storiche, in questo caso attraverso il miglioramento tecnico degli eserciti e del commercio. Come nel caso già visto di Cipolla, vediamo come il passaggio dalla scarsità all’abbondanza di materiale chiami in causa una ristrutturazione sistemica e, a livello discorsivo, produca temi e figure diverse. Lo stesso materiale può inoltre ricevere valorizzazioni diverse in epoche storiche successive, a partire dal crollo del suo prezzo; il ferro, prima materiale sacro, diventa materiale di uso comune, e la sua abbondanza determina il soddisfacimento dei bisogni esistenziali di ogni soggetto collettivo. Notiamo di passaggio, per poi tornarvi in conclusione, che all’andamento ciclico menzionato anche in precedenza si affianca un’idea di sviluppo della società, di tipo sostanzialmente progressivo e lineare. Scrive infatti Giraudo: Il passaggio da un’era tecnologica a quella successiva è sempre violento, perché l’uomo è un ‘animale’ che cerca stabilità. Ci sono state sollevazioni contro la prima rivoluzione industriale, la nascita della ferrovia ha suscitato sermoni infiammati del mondo religioso, l’introduzione della robotica nelle fabbriche ha scatenato lunghi scioperi, ma il rullo compressore del progresso non si ferma (Giraudo 2015, p. 34). Facciamo un altro esempio. Il colore blu, derivato dal guado, aveva un valore essenzialmente disforico in Occidente. Il passaggio ad una valorizzazione euforica da parte della Chiesa instaura un voler-fare negli altri soggetti – la politica, l’esercito, il mondo dell’arte –, e quindi la mobilitazione da parte del mercato, che in esso vede un mezzo di scambio, l’opportunità del profitto. Il blu acquista quindi un nuovo valore sociale legato al sacro e alla sfera celeste, e alla prosperità economica portata dal commercio di guado – l’espressione “Paese di Cuccagna” secondo l’autore deriva proprio dal nome francese delle palle di guado da cui si ricavava il colore –. Determina, in breve, anche una trasformazione estetica della società, che cambierà nuovamente nel momento in cui la stessa forma sarà ritagliata da una nuova sostanza, in questo caso l’indaco (cfr. Giraudo 2017a, pp. 80-84). Ancora una volta, con l’ingresso di nuovi materiali nella storia, e con il passaggio dalla scarsità all’abbondanza, si dà omologazione del legame tra abbondanza sostanziale e soddisfazione dei bisogni esistenziali, determinando un cambiamento delle strutture sociali, un nuovo immaginario e nuovi valori in gioco. 3.3. Conquiste e perdite delle materie prime Da questa breve panoramica del corpus esaminato, emerge come la mancanza o viceversa l’abbondanza delle materie prime regoli i grandi movimenti della storia. Nei testi presi in considerazione, le diverse strutture che animano il panorama storico possono ricondursi a soggetti collettivi – stati, classi sociali, 4 Per approfondimenti in merito, si veda anche Cline (2015). 61 eserciti, mercati – dotati rispettivamente delle proprie modalizzazioni e dei propri programmi narrativi che, come abbiamo visto, possono valorizzare diversamente i materiali. La storia delle materie prime sembra quindi poter essere vista come la storia dei valori che queste assumono per i diversi attori storici. Queste possono servire per portare a termine un programma d’uso – come il guado in quanto mezzo di scambio –, o come oggetto del desiderio per un programma di base – come il pepe per Pietro l’Eremita –. Può anche darsi che l’oggetto di valore sia un sapere sulla lavorazione di un materiale: in Giraudo, le tecniche di lavorazione del legno per l’industria navale, e la sericoltura per la produzione di seta, quindi un certo saper-fare, diventano oggetto di valore delle spie che cercano di appropriarsene (cfr. Giraudo 2017a). I programmi narrativi innescati dalla ricerca di un materiale possono portare a diversi tipi di congiunzione o disgiunzione con l’oggetto di valore: nel caso di Cipolla si parla di un’appropriazione, nel caso del bronzo in Giraudo di una spoliazione. Potremmo collocare la relazione che lega ciascun attore con un determinato materiale utilizzando la categoria elementare della giunzione, da cui uno schema di questo tipo, leggibile sia in senso statico che dinamico5: Articolando in questo modo la relazione di ogni soggetto con uno specifico materiale, e tenendo conto della struttura polemica della significazione, possiamo anche rendere conto dei programmi dei diversi soggetti collettivi che entrano in relazioni di conflitto, compatibilità o incompatibilità, come nel caso delle guerre per appropriarsi di determinate risorse: così ad esempio il caso già accennato dei vigneti francesi, la disputa per il monopolio dei quali fu causa, per Cipolla, della Guerra dei Cent’anni. Un altro caso interessante è quello del legno per cui, a una fase di perdita del materiale – attraverso la deforestazione – per via del suo utilizzo da parte di due soggetti – l’industria bellica e siderurgica –, il prezzo aumentò drasticamente con un impatto negativo sul commercio. Il re Edoardo VI vietò dunque qualsiasi utilizzo del legno che non fosse destinato alla produzione di carbone, privilegiando l’industria energetica con la conseguente disgiunzione degli altri soggetti dal materiale. Da ciò, ebbe origine la ricerca delle miniere di carbone minerale da parte degli imprenditori inglesi (cfr. Giraudo 2015). In questi casi si dà, come abbiamo visto, incompatibilità tra i programmi narrativi dei diversi soggetti, che quindi possono entrare in conflitto rispetto alla valenza del materiale. Può essere utile mettere in relazione l’alternarsi di questa pluralità di soggetti e di programmi narrativi con quanto detto precedentemente a proposito delle dimensioni storiche e della loro possibile gerarchizzazione (cfr. supra §2). Abbiamo infatti visto come i diversi soggetti collettivi possano essere ricondotti alla tipologia della struttura sociale descritta, e ai diversi livelli strutturali riscontrabili nei testi. Ciò che origina la ricerca di materie prime, come s’è detto, è una manque esistenziale da parte di un soggetto (per esempio Pietro l’Eremita per il pepe in Cipolla, la Chiesa nel caso del colore blu e gli 5 Il quadrato di riferimento è preso da Greimas (1983). 62 intellettuali per il caffè in Giraudo) il cui soddisfacimento è dato dall’abbondanza di materiali, a sua volta assicurata dal mercato. Questo, misurando il valore dei suddetti materiali secondo una prospettiva strumentale, dipendente da un valore gerarchicamente superiore, quello del denaro (cfr. Fabbri 1991), dunque utilizzando le materie prime in ragione di un programma d’uso, ne assicura la circolazione tra i diversi soggetti. È quindi il progredire del commercio a favorire un meccanismo di domanda e offerta allo stesso tempo quantitativo e qualitativo. Come abbiamo visto soprattutto a proposito del pepe per Cipolla, in cui lo zelo dei mercanti veneziani garantì il fiorire dell’Europa, l’opposizione tra scarsità e abbondanza per le strutture economiche, determinando il valore di scambio del materiale e la sua circolazione, viene così posta ad un livello di profondità maggiore rispetto al valore che le materie prime assumono per gli altri attori della storia. Il volere del mercato viene omologato nei testi al volere degli Stati, degli eserciti, della Chiesa, e la dicotomia tra scarsità e abbondanza sostanziale di materiale viene in questo modo ad assumere una posizione gerarchicamente superiore, facendosi valore esistenziale per tutte le dimensioni storiche e i soggetti che vi si riconducono. 4. Modi di esistenza dei materiali nella storia Per esplorare la relazione che nei testi considerati lega i soggetti storici e i materiali, è necessario avanzare adesso una riflessione sul loro modo di esistenza semiotica, direttamente chiamato in causa dal quadrato presentato nel paragrafo precedente. Come leggiamo infatti nel Dizionario alla voce “Esistenza semiotica”, questa viene “determinata dalla relazione transitiva che la lega, in quanto oggetto di sapere, al soggetto cognitivo” (Greimas e Courtés 1979, voce “Esistenza semiotica”). Come sappiamo, in semiotica si riconoscono un’esistenza di tipo virtuale, in absentia, legata all’asse paradigmatico del linguaggio, e un’esistenza di tipo attuale, in praesentia, che rende conto del passaggio all’asse sintagmatico, per cui si definisce attualizzazione un passaggio dal sistema al processo prevedibile ma non ancora verificatosi. Abbiamo poi un’esistenza realizzata, ovvero direttamente percepibile nel discorso, e infine un modo di esistenza potenziale, corrispondente alla messa “tra parentesi” di una grandezza precedentemente realizzata, ma comunque sempre disponibile a essere chiamata in causa6 (cfr. Fontanille e Zilberberg 1998; Marrone 2007). Come scrive Marrone (2007) “nel discorso ci sono sempre un primo piano e uno sfondo che, grazie alla prassi enunciativa possono scambiarsi i ruoli nel corso del tempo” (p. 236). Si dirà inoltre, dell’attante soggetto, che esso esiste nella misura in cui entra in relazione con un oggetto di valore, e sarà la relazione di giunzione che li lega a determinare il modo di esistenza del soggetto, per cui esso sarà considerato come virtuale prima della giunzione, per poi attualizzarsi una volta disgiunto dall’oggetto, e infine realizzarsi una volta portato a termine il proprio programma narrativo. Dunque declineremo, ad esempio, l’appropriazione e la spoliazione precedentemente citate (cfr. supra § 3.3.) come due diverse forme di attualizzazione (cfr. Greimas e Courtés 1979; Greimas 1983). Prendendo come esempio il testo di Cipolla, vediamo facilmente il momento di attualizzazione di Pietro l’Eremita, il quale “soffriva in silenzio e pregava costantemente la Divina Provvidenza per un po’ di pepe” (p. 18). Da cui l’instaurazione della disgiunzione che segna l’inizio del suo programma narrativo, il suo “grande disegno” (p. 19): del resto, come scrive l’autore, “è incredibile come un’idea possa trasformare un uomo” (ibidem). Allo stesso modo, quando il commercio del pepe entra in una “fase secolare di eccezionale espansione” (p. 24), questo si realizza sia per i mercanti veneziani che di esso fanno una moneta, sia per le migliaia di “Pietri” sparsi per l’Europa, per i quali è afrodisiaco e fonte di 6 Inoltre, com’è noto, il passaggio da un modo di esistenza all’altro può essere articolato secondo il “campo tensivo delle modalizzazioni esistenziali”. Riprendendo la formulazione di Fontanille e Zilberberg (1998), ripresa anche da Marrone (2007), definiamo il passaggio da un modo di esistenza all’altro in termini di emergenza (da virtuale ad attuale), apparizione (da attuale a realizzato), declino (da realizzato a potenziale), scomparsa (da potenziale a virtuale). 63 energia. Questa forma di circolazione dei materiali può essere facilmente riscontrabile anche nei testi di Giraudo, in cui possono verificarsi casi di declino di una materia prima, come nell’esempio già accennato della crisi del bronzo o del parziale esaurirsi del legno, associate all’apparizione di un materiale che sostituisca il primo, rispettivamente il ferro e il carbon fossile. In questi casi la fine del commercio di un materiale e la successiva sostituzione con un altro, determinano cambiamenti che si riverberano su tutte le dimensioni storiche e che preludono a una riorganizzazione sistemica. Il caso già citato del guado è esemplare dell’emergenza del materiale, con la Chiesa che “rilancia” il colore blu – in quanto colore associato alla sfera del sacro – dopo le Crociate, per passare poi all’utilizzo realizzato del materiale, in quanto moneta secondo il suo valore di scambio, e in quanto colorante utilizzato da artisti e industria tessile, da cui una trasformazione estetica della società nel suo complesso (cfr. Giraudo 2017a, pp. 81-83). Nel caso del caffè, si segue il movimento che va dall’attualizzazione – con le lettere di Pietro della Valle che fanno conoscere la bevanda tra gli italiani – alla realizzazione – con la conquista della produzione o il monopolio del commercio –, a sua volta vettore della trasformazione culturale dei centri di produzione e commercio dell’ambita bevanda (ivi, p. 167-173). Attraverso questi esempi, vediamo come l’apparizione o il declino di un materiale possano avere effetti esplosivi che si riverberano sui diversi ambiti della semiosfera (cfr. Lotman 1992). Riprendendo quanto detto nei paragrafi precedenti, vediamo anche come la già menzionata risemantizzazione della manque originaria, e dunque la dicotomia tra scarsità e abbondanza, assumendo carattere non solo sostanziale ma altresì esistenziale, convochi nuove configurazioni discorsive, il cui mutamento si accompagna all’ingresso e alla scomparsa delle materie prime lungo la storia. Ora, prima di andare verso la conclusione, può essere di particolare interesse guardare quanto detto sino ad ora alla luce della dicotomia tra materie e materiali secondo Floch (cfr. supra §1), che sembra essere legata ai modi d’esistenza esplorati in questo paragrafo. Abbiamo già segnalato come il materiale sia un elemento già culturalizzato, che dipende nella sua forma dall’utilizzo che ne viene fatto. Esso pertanto si fa testimone dei suoi usi culturali e di tutto ciò che con esso è stato realizzato (cfr. Floch 1984). Diremo quindi che la materia, una volta culturalizzata, può essere analizzata in quanto linguaggio, e quindi come oggetto di sapere dotato delle proprie articolazioni interne. L’ingresso della materia nel “linguaggio” materiale, in un dato momento storico, si dà dunque attraverso i ritagli che la cultura opera su di essa caricandola di senso, quindi attraverso l’utilizzo che ne viene fatto in seno a una cultura la quale viene a sua volta trasformata dall’utilizzo dei materiali. Nel caso del pepe o del blu ad esempio, abbiamo visto chiaramente come il materiale e il suo utilizzo una volta realizzato chiamino in causa una determinata configurazione discorsiva con specifici ruoli tematici. Dunque, se il passaggio da materia a materiale obbedisce al passaggio da un modo di esistenza all’altro, questo passaggio diviene naturalmente condizione di possibilità dell’instaurazione della manque, di cui l’attualizzazione del materiale diventa presupposto necessario. 5. Conclusione. I materiali e la ciclicità delle crisi Per concludere il ragionamento, che resta comunque in una fase preliminare e necessiterebbe di integrazioni successive, rimane da mettere in luce quale punto di vista rispetto al tempo storico si possa trarre dai testi presi in esame. Pomian, parlando della storia demografica dell’Europa Occidentale dal X al XVIII secolo, definisce le fluttuazioni strutturali susseguitesi fino alla “rivoluzione” demografica del XVIII secolo in termini di mutamenti reversibili e irreversibili, questi ultimi generalmente chiamati “rivoluzioni”. Secondo lo storico polacco, queste investono le strutture in momenti diversi, per cui si può parlare di rivoluzioni economiche, politiche etc. Quindi, quando si vuole indicare un determinato cambiamento, bisogna necessariamente precisare il livello strutturale in cui ci si colloca, ponendo al 64 contempo la necessità di indagare i rapporti sincronici tra più strutture e il rapporto delle loro successioni diacroniche (Cfr. Pomian 1984, Greimas 1976). Ora, per Greimas i mutamenti che autorizzano a parlare di successione tra due stati sono trasformazioni di strutture e non estensioni d’uso: infatti, per definizione, si può dare rottura nel corso della storia solo se il modello già esistente non rende più conto dei nuovi avvenimenti che si manifestano, per i quali si dovrà postulare un nuovo modello. Le categorie della significazione su cui operano tali trasformazioni non sono necessariamente quelle che si trovano già realizzate nello stato a quo, come non sono le stesse negli usi che si succedono (1970, p. 118). Dunque per il semiologo il passaggio da una struttura alla sua trasformazione diacronica equivale a considerare due diverse strutture, due diversi modelli storici7. Possiamo ora provare ad avanzare delle conclusioni rispetto a come nel corpus esaminato si dia intelligibilità al cambiamento storico, e quindi come si dia passaggio da una struttura all’altra e come i materiali vi risultino implicati. Abbiamo visto come la riorganizzazione di una determinata struttura finisca per coinvolgere anche le altre, determinando soprattutto in alcuni casi una riorganizzazione generale di tutte le dimensioni della storia e quindi la nascita di un nuovo periodo storico, una nuova struttura. I casi esaminati sono quindi esemplari di come la nuova configurazione discorsiva chiamata in causa dal materiale possa essere utilizzata come elemento periodizzante. L’arrivo del blu in Occidente, così come quello del pepe, determinano inoltre non solo una riorganizzazione dei vari strati sociali, ma un nuovo immaginario che si riverbera sulle differenti dimensioni storiche. In questo senso, la storia dei materiali può essere anche la storia dei modi di pensare di una società, di come queste due dimensioni siano indissolubilmente legate: del resto, abbiamo sottolineato come il pepe rendesse esuberanti, il vino garantisse un certo fervore, e come il blu abbia portato in Occidente un nuovo immaginario e una nuova estetica. Ciò che nei testi considerati costituisce una costante, e su cui si propone di valutare il punto di vista rispetto alla temporalità nel presente corpus, è il movimento ondulatorio delle dimensioni storiche, le quali entrano in periodi di prosperità se in possesso di determinate materie prime, per entrare in periodi di crisi per la loro perdita o per la loro sovrabbondanza. La mancanza di materiale, o viceversa un suo eccesso, e quindi il movimento oscillatorio dei prezzi, preludono alla crisi che vedrà la sostituzione di una struttura con quella che le seguirà. Come scrive lo stesso Giraudo “la storia delle materie prime è la storia dell’umanità stessa attraverso i profumi, i fetori, le fragranze, i gusti, i sapori”, e l’uomo ha spesso dovuto il suo benessere a queste materie prime “valorizzandone alcune e riducendone altre a mero ricordo, il tutto in un’infuocata sarabanda di prezzi” (ivi, pp. 14-15). Sarabanda che investe la stessa dimensione esistenziale degli attori della storia: da un prezzo quantitativo ad uno qualitativo. A livello narrativo, questa costante è il percorso che va dalla disgiunzione al congiungimento con l’oggetto di valore, cui segue costantemente una successiva disgiunzione e un momento di ristrutturazione sistemica. Scrive Cipolla che, per il mercato, quello che conta è “il desiderio così come viene espresso” (Cipolla 1974, p. 19). Come abbiamo già ripetuto, nei testi questa manque, data dalla scarsità di materiale e dunque di profitto per il mercato, viene risemantizzata e omologata alla manque esistenziale degli altri soggetti della storia. La scarsità o l’abbondanza, in breve, si fanno valore e determinano identità socio- culturali, passioni e valori collettivi. Il valore che in questo caso determina i valori, lo si è detto, è di tipo economico. È il bisogno di arricchirsi, con la conseguente messa in circolazione delle materie prime ad assicurare la soddisfazione dei bisogni esistenziali dei soggetti storici. In questo modo, una visione economica della storia si fa letteratura. Da questa prospettiva storica, deriva una concezione del tempo per la quale troviamo, sullo sfondo lineare del “progresso” e dello “sviluppo”, un movimento iterativo di crisi e prosperità, di domanda sociale e sua soddisfazione da parte delle strutture economiche, in cui si susseguono costantemente 7 Da cui anche la possibilità di analisi di tipo comparativo tra strutture che pertengono a diversi momenti storici. 65 nuovi tipi di rapporto tra uomo e materie prime8. Nei testi analizzati, il fatto che venga proposta una gerarchia delle strutture storiche che vede l’economia situata ad un livello di profondità maggiore rispetto alle altre, e soprattutto il fatto che il ritmo congiunturale di questa venga omologato a quello delle altre dimensioni della storia, può essere ricondotto a un modello storico di natura essenzialmente determinista e materialista, che formula periodi di ascesa e declino dell’economia sulla base dei quali spiegare il mutamento sociale e culturale9. Materialismo che, nei casi considerati si applica, spingendosi sino alle sue estreme conseguenze, sul piano sociale, da cui anche l’ironia di Cipolla. Pertanto vediamo l’applicazione, su più momenti storici, dello stesso modello 10 che, proiettandosi su uno “spazio di esperienza” molto vasto è in grado di produrre un certo “orizzonte di aspettativa”, una determinata idea di futuro formata sulla base di questo spazio esperienziale11 (cfr. Koselleck 1979, 1983). Come del resto scrive lo stesso Giraudo “la saga delle materie prime dura da oltre diecimila anni. E non è ancora pronta a fermarsi; sono gli ingredienti che cambiano” (Giraudo 2017b, p. 255). 8 Come scrive Jean-Marc Daniel, Giraudo “ha preso la strada del passato per farci capire meglio il presente e, incidentalmente, farci prevedere le sfide del nostro futuro” (Giraudo 2015, p. 287). 9 Potrebbe essere interessante esplorare il legame tra questo modo di spiegare il cambiamento storico e la teoria di Hayden White. Nello specifico, l’applicazione in forma narrativa di un determinato modello storico viene definito da White come un modo “meccanicistico”, che “‘studia’ la storia per individuare le leggi che effettivamente governano le sue operazioni e ‘scrive’ storia per mostrare in forma narrativa gli effetti di quelle leggi” (White 1973, p. 66). 10 Sulla capacità esplicativa dei modelli economici nella storiografia di tipo scientifico, e il loro rapporto con la durata storica si veda anche, fra gli altri, W. Kula (1960). 11 Scrive Koselleck che esperienza e aspettativa “instaurano una distinzione temporale nell’oggi, nello stesso presente, in quanto intrecciano l’uno nell’altro il passato e il futuro in modo diseguale. Coscientemente o incoscientemente, la connessione cui danno luogo ogni volta in modo diverso ha essa stessa una struttura prognostica” (1979, pp. 308-309). 66 Bibliografia Bloch, M., 1959, Lavoro e tecnica nel medioevo, Torino, Einaudi, ed. 1981. 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La materia nel discorso vinicolo: semiotica del terroir Etna DOC Davide Puca Abstract This work discusses the relationship between wine, matter and terroir. In the first part of the essay, I explore the themes of wine and terroir with the aim of moving beyond a naturalist and exclusively chemical- physical vision of wine. To do so, I propose to approach the wine field through the semiotic definition of “wine discourse”, as a transversal field that brings together, alongside wine, countless different cultural objects such as landscape, packaging, cartography and architecture. The terroir can be seen as an isotopic device that, as a red thread, allows a number of cultural objects to be constructed and experienced within the wine discourse. I will test this hypothesis with the semiotic analysis of a particular case, the Etna production area, and some of its objects such as terroir maps and architectures. 1. Introduzione: la materia e il discorso Se vi è mai capitato di imbattervi in una discussione tra appassionati di vino o, più semplicemente, di ruotare una bottiglia sullo scaffale del supermercato e leggere la retroetichetta, avrete con buona probabilità vagato tra suoli calcarei, argillosi e vulcanici, fecce nobili e barrique di quercia, palpando texture morbide, setose, ruvide, levigate o cerose – l’elenco potrebbe proseguire a lungo. Nel loro incedere, i testi del vino ricongiungono bevanda e territorio centellinando consistenze, elementi, stati fisici, pesi, volumi, formati, architetture. Le modalità con le quali la degustazione tenta di tradurre la materia enologica su un piano verbale è stato affrontato più volte dalla semiotica1. Tuttavia, in questa circostanza non intendiamo soffermarci sulle complesse pratiche somatiche e linguistiche che regolano la degustazione del vino, quale percorso di traduzione dal sensibile all’intelligibile (Moutat 2015), ma sulla materia come costrutto semiotico e culturale. Accanto alla materia del vino, il liquido enologico inteso come luogo pre-semiotico e disponibile ad essere perlustrato e segmentato dall’esperienza di consumo, vi è la materia come effetto di senso, continuamente scambiata e manipolata dai testi, dalle loro relazioni reciproche e col mondo esterno. Superare l’ambito dei meta-linguaggi professionali stricto sensu, ci permetterà, inoltre, di affrontare il tema allargato del discorso del vino, come luogo di incontro tra testi e società, di traduzione e compresenza tra linguaggi molteplici2. Così facendo, vogliamo estendere al vino una nota definizione- manifesto che Roland Barthes diede alla gastronomia, inaugurando un filone di studi semiotici sul tema: “non è soltanto una collezione di prodotti, bisognosi di studi statistici o dietetici. È anche e nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di 1 Solo per citare alcuni dei casi di analisi dei metalinguaggi di degustazione professionali: Moutat (2015), Basso Fossali (2009) e Grignaffini (1997). 2 Ci accostiamo al percorso di ricerca sulla gastronomia delineato da Marrone (2022), in particolare nell’intento di riportare il vissuto alimentare in un quadro di reciprocità tra espressione e contenuto. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). comportamenti” (Barthes 1961, p. 49). Questo era lo spirito col quale lo stesso Barthes (1957) aveva già azzardato un’originale – quanto memorabile – lettura culturale del vino e del suo negativo, il latte, miti della Francia e degli Stati Uniti, quanto metafore della loro incolmabile distanza. Se accettiamo l’idea, oramai mainstream, che anche il vino è cultura, dovremo prendere altrettanto sul serio una prospettiva strutturale che riveda in modo non accidentale, bensì vivo e dialogico, l’intreccio tra tutte quelle singole entità enologiche, che in semiotica chiamiamo testi, e il tutto della semiosfera (Lotman 1984). La cultura del vino è, in questo senso, non una attribuzione retorica e ornamentale, pensata per aumentare il valore merceologico di questa o quella etichetta, ma un sistema di relazioni che conferisce senso a oggetti disparati e apparentemente distanti, oggetti che vanno ben oltre la bottiglia e il calice. Possiamo allora considerare come testi enologici, lo vedremo in questa circostanza, oggetti d’analisi inconsueti come le cartografie e le architetture delle cantine. Tuttavia, una indagine sulla materia nel discorso vinicolo non può prescindere dalla problematizzazione del rapporto tra vino e territorio, chiave di volta dell’intero settore eppure, al tempo stesso, relazione ambigua e al centro di un dibattito oramai pluridicennale. 2. Per una semiotica del terroir La posizione teorica che abbiamo appena proposto potrà forse apparire scontata in questa circostanza. Tuttavia, una prospettiva semiotica sulla materia si rivela decisamente polemica quando ci affacciamo sulla filiera del vino e sulle sue professioni, sulle rigide categorie empiriche e sui presupposti epistemici che ne determinano la legittimità. Un esempio è la rigida gerarchia reputazionale dei brand e delle zone produttive, sempre giustificate dagli attori interni al settore facendo ricorso a condizioni qualitative a priori, condizioni che in realtà si reggono su complesse reti di legittimazione sociale (Origgi 2018; Demossier 2011). Da un lato un’ideologia romantica del terroir – dai tratti totemisti (Marrone 2016) – presidiata per lo più dalla cerchia dei cosiddetti vini naturali3. Andando un po’ oltre l’analogia letterale tra i vini naturali e le (sempre supposte) ragioni di madre natura, ciò che balza agli occhi nel confronto tra vini naturali e la loro antitesi, i famigerati vini convenzionali, è piuttosto l’opposizione tra vignaiolo artigiano VS industria, unicità individuale VS grigia serialità. Paradossalmente, può darsi che il vino naturale costituisca piuttosto il polo della società, per dirla alla Latour (1999), dell’ontologia naturalista su cui tutto l’occidente – anche vinicolo – si regge. Le piccole cantine cosiddette naturali necessitano di un garante umano che sancisca il tramutarsi del terroir in vino, senza immissioni né adulterazioni. Per queste non c’è certificazione che tenga. Di là c’è il polo delle cose: le cantine convenzionali ripetono che la fedeltà tra terroir e vino vada garantita dalla pratica enologica rigorosa e dai suoi protocolli scientificamente validati. Vini convenzionali e naturali, riletti alla Latour, vivono sì da separati in casa, ma entrambi nella casa dell’ontologia naturalista. Da un lato gli artigiani della vigna, dall’altro i sostenitori dell’oggettività del gusto e delle scienze enologiche. Li separa uno specchio, si guardano l’un l’altro ricevendo un’immagine rafforzata dei propri pregiudizi reciproci. Eppure, così facendo, si interdefiniscono e si rendono reciprocamente indispensabili. 3 In questa circostanza sintetizziamo una questione ben più articolata e che meriterebbe decisamente più spazio. La definizione “vino naturale” si è consolidata negli ultimi due decenni e indica una categoria di vini ottenuti con uve solitamente biologiche o biodinamiche e col minimo ricorso possibile ad adiuvanti enologici in fase di vinificazione. Nonostante il successo di mercato dei vini naturali e la grande diffusione di questa problematica etichetta, non esistono in Italia normative o discipline ufficiali e che consentano di stabilire in modo condiviso a quali condizioni un vino possa dirsi naturale. Oltre al già citato Marrone (2016, pp. 129-138), per approfondire la definizione v. il testo dell’opinion leader italiano Sangiorgi (2011 e una panoramica sulle associazioni di categoria italiane e sulle rispettive definizioni in Corbo, Lamastra e Capri (2014). 70 Ma cosa intendiamo con naturalismo rispetto al vino, rimanendo sul senso latouriano, e dunque antropologico e semiotico della parola? Per rispondere, giungiamo alle fondamenta della casa comune, cioè a quello che le due fazioni (per quanto grossolanamente delineate) tendono a condividere. Sotto ai piedi di produttori naturali e convenzionali c’è un terroir irriducibilmente materiale, geologia talvolta condita di saper fare genericamente umani che contribuiscono ad estrarre dalla terra le sue verità. Ci riferiamo al paradigma dominante che concepisce il vino, alla base di tutto, come quel percorso di costruzione oggettuale e orientato che parte dal suolo, attraversa le radici e la vite fino ad arrivare ai grappoli e agli acini. Qui incontra successivamente l’uomo, che mette in condizione la natura, attraverso la pratica enologica più o meno spinta, di esprimersi nella bottiglia e, infine, nel calice. Per poter restituire, nel momento di consumo, le stesse forme percettive di cui il terroir è fatto. Il cosiddetto buon intenditore soppeserà infine le parole, così da cogliere le fattezze chimiche del vino e la loro (auspicata) corrispondenza con l’origine. La tipicità del vino è quel dispositivo narrativo che permette, dal qui e ora del consumo, un percorso a ritroso, una ricongiunzione tra il prodotto finale e l’ambiente fisico originario. Linguaggio, vino e territorio, in questa visione dominante, sono isomorfi4. La materia è fisica. Essa attraversa, tramutandosi, un’intera filiera. Sarà grazie questa narrativa di fondo che, diversamente da tutti gli altri alimenti, il vino è venduto senza gli ingredienti in etichetta? Da una prospettiva semiotica, una narrativa del terroir come quella di matrice naturalista e poi referenzialista che abbiamo appena delineato è quantomeno problematica5. Accanto alla materia del vino, esito di un processo di depurazione scientifica, vi è il continuo e quotidiano lavorio di mediazione culturale svolto dall’esperienza sia professionale che disinteressata di consumo. Il terroir è, innanzitutto, un ibrido e un principio di articolazione mitica dei rapporti tra esseri umani e non-umani. Benché reclami, in ultima istanza, una presenza chimica e oggettuale nel vino. L’esistenza di caratteristiche organolettiche territoriali, pur quando riscontrate nel maggior grado di oggettualità e oggettività possibile, portano con sé strutture soggiacenti eterogeneee, complessi sistemi sociali di gusto e valutazione, competenze trasversali sul mondo del vino che superano di gran lunga le semplici molecole del liquido odoroso (Shapin 2012; Perullo 2021). Se così non fosse, per parlare di vino basterebbero un’analisi chimica e un vocabolario, e non la frequentazione di produttori, enoteche, ristoranti, eventi di settore. “Per parlare di vino – citiamo una fortunata affermazione del produttore Angelo Gaja – bisogna raccontare ciò che accade fuori del bicchiere”. Accanto alle fattezze chimico-fisiche del vino, vi sono quindi il vino e la sua materialità come oggetti di senso, parte integrante dell’esperienza sociale che del vino facciamo. Proprio per questo, lo ripetiamo, affianchiamo la parola vino al discorso: il vino non in quanto bevanda isolata, ma colto nella sua esistenza sociale (Marrone 2001 e 2022). Il terroir è uno dei principali fili rossi che permette agli attori sociali di abitare e attraversare in modo trasversale i tanti oggetti diversi che popolano questo spazio di senso. Il corpo del vino, dunque, vive non nelle molecole come fatto a sé stante, ma trasversalmente nelle etichette e nei pack (Ventura Bordenca 2022); nella ricca produzione culturale e cinematografia a tema vino (Mangiapane 2021); nelle forme e nell’interazione con bicchieri, bottiglie, tappi e cavatappi (Galofaro 2005; Marsciani 1998); nello statuto sociale dei critici e nelle loro note di degustazione (Grignaffini 1997); nel branding dei consorzi di tutela (Polidoro 2019); nell’architettura sempre più ricercata delle cantine dove il vino è ottenuto e visitato; nel design dell’esperienza enoturistica; nei trionfali stand fieristici di cantine e consorzi; nella fotografia d’autore che ha oramai dato adito a un vero e proprio genere – e potremmo proseguire ancora a lungo. In un lavoro sul paesaggio e il terroir, Fontanille (2005) ha già osservato come l’universo concettuale e semiotico del vino sia costituito da una serie numerosa di semiotiche oggettuali, tra cui annoveriamo quelle appena elencate. A queste, lo stesso si aggiunge il ruolo delle semiotiche del mondo naturale (Greimas 4 Per una definizione ampiamente condivisa di terroir vinicolo, v. il testo degli enologi Van Leeuwen e Seguin (2006). 5 Su questo tema, tra i tanti lavori critici, raccomandiamo l’analisi di matrice latouriana svolta da Teil (2012). 71 1968), ossia tutto l’universo che ci circonda e si propone a noi attraverso le sue qualità sensibili: lo stesso vino nel calice, così come il paesaggio agricolo e vitivinicolo. Dietro la sua apparente immediatezza, anche il mondo naturale è un “mondo parlato” esistente grazie all’articolazione semiotica che ne facciamo. Ragione per cui, è facile intuirlo, il percepito del vino sarà diverso in luoghi diversi del pianeta, o tra bevitori esperti e non. Ma anche il cosiddetto mondo naturale, come tutte le altre semiotiche, vive nel discorso del vino in stretta interrelazione con i testi che lo traducono, lo rievocano, lo manipolano. Il paesaggio, per esempio, è un linguaggio suscettibile di infinite traduzioni e riarticolazioni successive: si pensi a come la comunicazione enogastronomica riesce a creare connessioni tra il paesaggio e le qualità sensoriali di cibo e vino, o a come la consacrazione di terroir vitivinicoli in qualità di patrimonio UNESCO possa incidere sul valore estetico dell’area, dapprima enfatizzandone le pertinenze enologiche, per esempio contribuendo a identificare il luogo col vigneto, a lungo termine finendo per plasmare il paesaggio e il tessuto socio-economico dell’area in modo sostanziale6. Non siti, ma appunto paesaggi, dove una certa forma di vita estetica assume un peso tutt’altro che scontato nell’identità del luogo. Tutte le semiotiche elencate formano dunque una rete strutturata, organizzata in modo non accidentale: il passaggio da una semiotica all’altra è regolato dagli usi degli attori sociali, o può essere addirittura predisposto da uno sforzo di progettazione e interdefinizione. Aggiungiamo: il marketing e la comunicazione vitivinicola si muovono proprio con questo obiettivo, plasmando reciprocamente l’identità del vino e quella del luogo con fare strategico, creando sistemi di branding territoriale dai connotati olistici7. Nella pratica, è grazie ai processi di traduzione intersemiotica che possiamo sconfinare continuamente dallo château ai tannini, dall’affusolata forma della bottiglia renana alla freschezza tagliente dei Riesling alsaziani che contiene, dalla primazia storica e qualitativa della viticoltura di Langa piemontese al classicismo austero che caratterizza il layout dei suoi grandi vini rossi. Il terroir è, in termini semiotici, l’effetto di senso che deriva da questa rete di relazioni sincretiche. Di conseguenza, l’origine non è tanto un punto di partenza fisica, quanto un punto di arrivo. Il discorso del vino usa il terroir per distribuire su innumerevoli supporti le competenze semiotiche e i simulacri referenziali che ci porranno in condizione di assaporare l’identità territoriale. È così che, accanto a un movimento che procede dal sensibile all’intelligibile, ve n’è uno forse più importante – specie per una pratica intellettualizzata come il consumo di vino (Grignaffini 1997) – che procede dall’intelligibile al sensibile. Fontanille (2005) illustra come, alla base delle traduzioni intersemiotiche che costituiscono il simulacro del terroir, insistano dei meccanismi di sintassi figurativa che consentono una tenuta del senso complessiva. Sono gli stessi meccanismi che rendono la metonimia e la sinestesia circostanze tanto comuni nella significazione. Riprendiamo, per spiegarci meglio, uno dei nostri esempi. La valuta che consente lo scambio di valore tra la forma della bottiglia renana e la dimensione organolettica del Riesling alsaziano è una valuta semiotica e formale. Verticalità, sottigliezza, slancio, freddezza – in contrapposizione al modello standard di bottiglia e ai cliché organolettici più grassi dei vini bianchi longevi8. Cambiano le sostanze in gioco, le modalità di espressione e i canali di ricezione, ma si ritrovano le stesse relazioni formali (e le stesse interazioni tra materia ed energia, per dirla nei termini di Fontanille). Più la 6 La letteratura scientifica sul tema della patrimonializzazione e sui suoi impatti a breve e lungo termine è molto ampia. Per una lettura antropologica di un caso di patrimonializzazione UNESCO nella Sicilia orientale v., tra i tanti, Palumbo (2003). 7 Una interessante case history di approccio trasversale al branding vitivinicolo, alimentare e turistico, e quello dell’Alto-Adige/Südtirol (Puca 2021), ben coordinato dall’uso di lungo corso di un marchio ombrello collettivo, detenuto dalla stessa provincia autonoma. Si veda www.idm-suedtirol.com/it/il-nostro-lavoro/marchio-alto-adige, ultimo accesso giugno 2023. 8 Va da sé che anche la sintassi figurativa, come tutte le relazioni semiotiche, implica un sistema di opposizioni strutturali che permettono l’esistenza di valori tipici: è tanto più facile da capire se pensiamo a come la zonazione produca una competizione di valore tra aree produttive diverse, senza segmentazione non vi è valore (Puca 2021). La bottiglia renana, in pratica, ha valore nella misura in cui esistono le più tozze e robuste bottiglie borgognone e albeise. 72 disseminazione di queste relazioni formali è coerente, tanto più il processo di iconizzazione risulterà efficace: il terroir sintetizza in sé tutte quelle varie figure “nomadi” che messe in rete possono diventare, di fronte a nuove manifestazioni testuali, indizi, segni motivatori, tracce dell’origine. Tante figure, non più singolari, che intratterranno tra loro un rapporto di identità anche sensoriale (Floch 1995). Un terreno, un paesaggio, una voce, una texture, possono essere rocciosi. Al contempo, la materia olfattiva del vino può essere riconfigurata come rocciosa, al momento della degustazione, sulla base di un principio di coerenza formale con l’areale produttivo in quanto icona9. Come i grandi brand, anche il terroir è un’icona culturale solo nella misura in cui questo processo di disseminazione formale su ordini diversi – somatico, figurativo, figurale, tematico, timico, passionale – agisce e reagisce sotto traccia anche di fronte all’introduzione di nuovi oggetti. Come può essere l’apertura di una nuova cantina in un’area vinicola consolidata, o l’introduzione nelle tipologie produttive consentite dal disciplinare di produzione di un’inedita versione del vino (spumante, rosato, classico etc.). C’è di più: nella nostra epoca sono i prodotti a raccontare il brand, più che il contrario (Marrone 2007; Ventura Bordenca 2022). Accanto al ben noto meccanismo della traduzione intersemiotica vi è un altro tipo di relazione traduttiva, tanto feconda quanto sottovalutata: la traduzione interdiscorsiva (Marrone 1998). Il discorso del vino è un punto di snodo non solo tra sostanze diverse, ma anche tra discorsi sociali di statuto diverso. La vicenda del terroir vitivinicolo è, sin dalla ribalta del termine nell’Ottocento (Trubek 2008; Demossier 2010; Parker 2015), una storia di mobilitazione di domini preesistenti o in fase di costituzione: l’enorme lavoro compiuto dal discorso giudirico per concepire e istituire una nuova forma di proprietà intellettuale legata al territorio, il processo di zonizzazione territoriale proveniente dall’urbanistica dell’epoca, la geografia umana che giustifica i caratteri antropologici del terroir, la geologia che a poco a poco ne legittima i fondamenti pedologici, l’agronomia, la bio-chimica e la genetica che spingono un imponente sviluppo enologico. Tutti questi discorsi di stampo moderno – solo per limitarci al tardo Ottocento – hanno ceduto al discorso del vino le proprie condizioni epistemiche, un certo modo di concepire i suoi oggetti e di parlarne: mappe cartografiche, toponomastica, testi legali e disciplinari di produzione, campionamenti, composti aromatici e altro ancora. 3. Il terroir come simbolo Giungiamo a un ultimo punto più generale, prima di accingerci all’analisi di un caso specifico. Pronunciare il nome dei mostri sacri del vino – lo Champagne, la Borgogna, le Langhe o, come approfondiremo più avanti, l’Etna – vale a evocare veri e propri simboli del vino. Associare al terroir le parole simbolo e icona, tuttavia, chiama in causa ulteriori ambiguità teoriche, riaffrontate di recente dalla semiotica10. Senza ripercorrere l’intero dibattito sul simbolo, e ponendoci in continuità con quanto abbiamo appena detto sulla degustazione dei vini di terroir, possiamo aggiungere che il terroir, come tutti i simboli, è innanzitutto un potente dispositivo di rimotivazione (Sedda 2021). Intendiamo quella capacità di “sfruttare l’apertura della relazione fra espressione e contenuto per ‘ritrovare’ nel simbolo motivi che risultano essere pertinenti ed efficaci rispetto a motivazioni contingenti” (ibidem, p. 24). Incasellare i profumi del vino ricorrendo al simbolo della sua origine fisica, il terroir, è non molto distante dallo spiegare le parole risalendo alle etimologie originarie: “la lingua evolve proprio attraverso un sistematico conflitto contro la sua arbitrarietà […] Il linguaggio scopre ‘poeticamente’ somiglianze interne di forma e contenuto, inventa 9 Il terroir differisce, in questo modo, dal semplice paesaggio. Ne articola nel discorso dei tratti formali identificanti, ma li riconfigura in una rete eteroclita. 10 Ci riferiamo a una serie di discussioni annuali sul tema che si sono svolte nel Cento Internazionale di Scienze Semiotiche di Urbino. I primi interventi sono confluiti in Contaminazioni simboliche (Marrone, a cura, 2021), primo volume pubblicato nella nuova collana degli Annali del centro internazionale di Scienze semiotiche. 73 etimi, cioè verità etimologicamente verosimili” (Fabbri 2000, p. 77). Il simbolo, insomma, è un dispositivo performativo, che allude sempre con anticipo ai motivi che vi ritroviamo. Tutta una serie di serie di “oggetti simbolici” secondari (Turner 1967), sono trattenuti dai simboli grazie a questa azione performativa. Gli oggetti che assumono lo statuto sociale di simboli sono quindi, in realtà, un esito dei modi simbolici di generazione del senso soggiacenti: i simboli sono dei “modi” più che delle cose (Eco 1984). Questa performatività è stata affrontata a più riprese da Marrone (2001, 2005), il quale si rifà al concetto di “efficacia simbolica” dell’antropologo Levi-Strauss (1958) per evidenziare un rapporto stretto e biunivoco tra la dimensione somatica e la dinamica di significazione. Proprio a questo proposito, Levi- Strauss utilizzò l’espressione “efficacia simbolica” in una nota analisi del rituale del parto nella comunità centroamericana dei Cuna. In estrema sintesi, alla comparsa delle doglie, la partoriente veniva affidata a uno stregone che emette canti, gesti e figure mitiche tradizionali: l’antropologo osservava come questo rito fosse in grado di produrre una corrispondenza simbolica tra gli atti dello stregone e la sfera somatica della partoriente, stimolando una dilatazione necessaria allo svolgersi del parto e risolvendo una condizione iniziale di squilibrio per via narrativa. L’efficacia del rituale, ricorda Marrone, non è di natura causale, bensì semiotica: si dà luogo a un linguaggio che traduce, sul piano dell’espressione corporea, i contenuti del rituale messo in scena dallo stregone. L’opposizione tra causalità e significazione ci permette di aggiungere un altro tassello alla percezione organolettica del terroir. Come abbiamo evidenziato nel paragrafo precedente, i grandi terroir tengono a sé serie di forme pre-articolate dal discorso. Queste forme del contenuto possono essere proiettate, al momento della degustazione, sulla materia del vino, permettendoci di ritrovare le pertinenze territoriali opportune, e validando l’aderenza di un vino a una data aspettativa sul territorio. O, molto più spesso, ponderando lo scarto tra questo stereotipo percettivo e il singolo vino in questione, così da delineare una specifica espressione del territorio, come sempre si dice, magari manipolata dallo stile della cantina e del vignaiolo. L’efficacia simbolica del terroir sta anche nell’elasticità e nell’apertura enunciazionale che caratterizza i simboli: non una immagine prototipica del territorio, basata su un unico tratto dominante, ma un costrutto condiviso, sempre in espansione e cambiamento, un luogo di negoziazione, incontro e scontro tra gli attori del discorso (Teil 2012): si pensi alle innumerevoli letture del terroir che ne fanno i suoi enunciatari (i consumatori e degustatori, che ritrovano motivi di territorialità diversi e talvolta discordanti), così come i suoi enunciatori (le cantine, che immettono sul mercato una propria espressione del terroir). Per comprendere l’annosa questione del gusto del terroir, insomma, la semiotica può ricollocare il tema delle determinanti chimico-fisiche dei sapori in un quadro estetico più olistico, che non consideri il vissuto individuale e collettivo come un bias, ma come una condizione strutturante. 3. L’Etna: “l’isola nell’Isola” Come ben testimoniato dall’editoria di settore e da alcune campagne di comunicazione recenti, una delle più interessanti categorie enologiche venute negli ultimi anni alla ribalta è quella dei “vini vulcanici”. La crasi, oramai di uso corrente, sta ad indicare, ovviamente, i vini provenienti da aree produttive con suoli di origine vulcanica. Passando in rassegna i vari vini vulcanici notiamo che la fortunata categoria ombrello racchiude al suo interno paesaggi di matrice molto diversa tra loro11. A un livello superficiale, una grande differenza è data dai paesaggi marcati, anche nel senso comune, come vulcanici e da quelli che non lo sono e che il discorso vinicolo sta contribuendo a riposizionare come tali. Un esempio di questi ultimi è l’area di Soave in Veneto, capitale dei vini bianchi italiani, così come tante altre zone in Toscana, Campania, Lazio e Basilicata. 11 Per una rassegna più esaustiva sui terroir vulcanici v. i due volumi di Szabo (2016) e Frankel (2019). 74 Tra i vari areali vulcanici l’Etna gode di uno status particolarmente favorevole. L’affermazione di una nota critica di settore, nel corso di un reportage sui vini vulcanici italiani, ben riassume questa supremazia quando dice “Nessuna menzione delle regioni vinicole vulcaniche sarebbe completa senza l’Etna […]. I vini incontaminati dell'Etna dovrebbero mettere a tacere qualsiasi discussione sul fatto che la mineralità percepibile sia un mito” (O’Keefe 2018, trad. mia). Con un’altezza di più di 3.300 mslm, in costante crescita, e ben 212 km di perimetro basale, l’Etna costituisce il vulcano attivo più grande d’Europa12. Questa prominenza fisica, unita alla sua costante e visibile attività eruttiva, ha reso il profilo del vulcano un’icona della Sicilia orientale. Nel 1987 è stato istituito il “Parco naturale dell’Etna” al quale, in alcuni punti, si sovrappone l’estesissimo vigneto che caratterizza l’attività agricola. Ulteriore notorietà turistica è stata data dall’iscrizione dell’area, nel 2013, nella Lista dei Patrimoni Mondiali UNESCO. Il paesaggio del vulcano (Fig. 1) è solcato da numerose valli coltivabili e delimitato da corsi d’acqua (l’Alcantara e il Simeto). La sua enorme superficie coltivabile lo pone ai vertici, anche quantitativi, delle aree vinicole che sorgono su pendici vulcaniche: oggi l’Etna conta quasi 400 aziende vinicole e quasi 1.200 ettari coltivati di vigneto iscritti nella DOC, entrambi pressoché raddoppiati nel giro di un decennio13. Se l’area dell’Etna DOC viene comunemente definita “un’isola nell’Isola” è per rimarcare una differenza non solo rispetto agli altri vini italiani ma, al contempo siciliani. Una partizione spaziale e valoriale che è già ben riconosciuta dal mercato, considerando la quotazione ben diversa dei vini del vulcano rispetto alla media degli altri vini della regione14 – oltre che l’attenzione entusiastica dei pubblici di opinione del settore. Fig. 1 – Un paesaggio etneo del versante nord con vigneti, muretti a secco e la cima del vulcano sullo sfondo. Foto di repertorio del Consorzio Etna DOC. In figura 2 riportiamo il logo dei vini dell’Etna. La C rovesciata nel pittogramma corrisponde, a ben vedere, all’area produttiva designata dalla denominazione di origine. Questa stessa forma è protagonista 12 Enciclopedia Treccani, ad vocem: “Etna”. 13 Dati relativi all’’imbottigliamento nel 2021, provenienti dal Consorzio di tutela dei vini Etna DOC. 14 Delle stime aggregate sono state date dall’economista Sebastiano Torcivia nella relazione “Il valore commerciale dei vini etnei” tenuta ad aprile 2023 in occasione della XIV edizione de Le Contrade dell Etna. Si veda www.winingpress.it/il-valore-commerciale-dei-vini-etnei-una-ricerca-inedita-delluniversita-di-palermo-prova-a- rispondere-nellambito-dellevento-le-contrade-delletna (ultimo accesso giugno 2023). 75 della mappa ufficiale dell’area produttiva Etna DOC (v. Fig. 3), rilasciata di recente dal Consorzio per presentare la zonazione delle 142 “Contrade”15. L’area vitivinicola designata è una fascia continua che si estende dal versante nord al versante sud del vulcano, coprendo una serie di comuni in successione lineare, e un territorio su una quota altimetrica compresa grossomodo tra i 400 e i 1000 mslm (leggermente inferiore a nord). Altitudini elevatissime rispetto alle medie consuete, consentite dalla posizione meridionale della Sicilia, addirittura infrante dalla presenza di vigneti oltre i mille metri (e dunque fuori dall’area DOC). Fig. 2 – Il brand del Consorzio di tutela dei vini Etna DOC. Fig. 3 – La mappa ufficiale dell’area di produzione dei vini Etna DOC con le 142 “Contrade”. 15 Le “Contrade” sono sottozone produttive riconosciute dal disciplinare di produzione. Equivalgono legalmente alle “menzioni geografiche aggiuntive” che i produttori possono utilizzare in etichetta come complemento all’indicazione geografica “Etna DOC”. 76 Il versante a nord, si intuisce a occhio dalla concentrazione di piccole e numerose Contrade, è quello enologicamente più attivo; il versante est si affaccia direttamente sul mare ed è il più condizionato dalla sua influenza; mentre nei versanti sud-est e sud-ovest il clima diventa via via più caldo e asciutto e il numero di produttori diminuisce. La natura del terreno è strettamente legata alla sua matrice vulcanica: può essere formato dal progressivo sgretolamento delle colate di lava di diverse età, da lapilli, ceneri e sabbie (Foti 2020, p. 79). L’ostacolo della lava, le piccole superfici coltivabili, le notevoli pendenze a cui si è risposto con fitti terrazzamenti, l’impossibilità di praticare un’agricoltura meccanizzata e di larga scala, sono tutte circostanze che rendono il lavoro dei viticoltori arduo e dispendioso (North Spencer 2020). Per tutte queste ragioni, la viticoltura etnea è spesso rapportata a quella di numerose aree alpine caratterizzate da condizioni simili. Al loro pari, viene definita una “viticoltura eroica”. 4. Un simbolo ideale La cartografia ufficiale della Denominazione sarebbe di per sé sufficiente a trasmettere la straordinaria identificazione tra la viticoltura etnea e il vulcano in quanto simbolo, tanto distintivo quanto culturalmente denso, polisemico, portatore di innumerevoli stereotipie culturali disponibili a successive traduzioni e ibridazioni discorsive. L’adesione tra viticoltura e vulcano rende il terroir etneo, per quanto complesso, un caso studio di grande interesse per l’analisi semiotica. La semplice cartografia dell’area DOC è, per iniziare, una prima traduzione intersemiotica le cui implicazioni in termini di significato sono troppo spesso sottovalutate. La mappa, lo sappiamo, è cosa ben diversa dallo spazio: ne rappresenta un suo simulacro, basato un dispositivo moderno e geometrico- euclideo di traduzione e che porta con sé una serie di impliciti culturali non da poco16. Un diffuso riduzionismo tenderebbe a dare alla mappa una funzione puramente referenziale, ovverosia legata alla sua rappresentazione topologica del mondo reale. Invece, considerare la cartografia del terroir come un testo del discorso vinicolo permette di intravedere tutta una serie di significazioni ulteriori e soggiacenti che la mappa stessa, in quanto oggetto di senso, attiva e contribuisce a mettere in circolo. Sulla superficie planare della mappa, l’Etna si sviluppa in larghezza, assumendo una forma orizzontale e circolare antitetica (per quanto ne sia una trasposizione) al cliché paesaggistico del vulcano, una forma triangolare e tesa in verticale, verso l’alto. L’area DOC assume la forma di un semi-anello caratterizzato da una topologia continua17, uniforme, isotropica (vale a dire che tutta la superficie è rivolta armonicamente verso il centro). Sono qualità formali invidiabili, che fanno della mappa di Etna DOC, in sé, un’oggetto semplice e memorabile e, al tempo stesso, la mettono in diretta reciprocità con la figura del vulcano, favorendone l’iconizzazione e la simbiosi col terroir produttivo vitivinicolo. Ciò è possibile grazie ai processi intertestuali e intersemiotici che la mappa di per sé attiva, richiamando altre grandezze, linguaggi e supporti: la forma conica del vulcano, l’altitudine che cresce procedendo verso il centro della mappa, la storia geologica e le colate laviche che seguono una direzione fisica inversa, l’adesione costante alla superficie del cono. Dai punti di vista figurativo, figurale e tematico, il vulcano incarna una serie di opposti altrettanto potenti. L’alto e il basso innanzitutto, una doppia protensione verso il cielo e le viscere del pianeta. Ne deriva una compresenza tra due accezioni diverse della terra che, rifacendoci alla cultura ellenica, possiamo definire come Gaia e Ctòn: “la prima si riferisce alla Terra come qualcosa di evidente cioè chiaro, superficiale, 16 Sul paradigma cartografico nella geografia moderna e contemporanea v. Farinelli (2003, 2009). In semiotica, sulla rappresentazione cartografica e il suo potere deontico v. in part. Marin (1994) e Pezzini (2006). Sulle mappe e la contrapposizione tra spazio oggettivato e soggettivato, o spazio globale e locale, v. Cavicchioli (2002). 17 Circostanza non scontata dal momento che, nel resto dell’Italia e del mondo, sono comunissime le zonazioni vinicole frammentate, frastagliate e discontinue. 77 disposto secondo l’andamento orizzontale; la seconda, all’opposto, implica l’invisibilità cioè l’oscurità, l’interno e non l’esterno, la profondità e la verticalità e non l’orizzontalità” (Farinelli 2003, par. 2). E, omologa alla precedente, l’opposizione tra vita e morte, a cui fanno eco le grandi narrazioni mitologiche18. Sulla superficie aerea del vulcano, la terra è feconda e la natura è florida. Nei propri abissi, la terra sviluppa (e presentifica nel discorso) una forza mortifera, turbolenta, distruttiva. Fanno il paio, con queste, altre coppie semantiche quali la leggerezza aerea e la pesantezza della roccia, la materialità del vulcano e la immaterialità scaturita dalla sua tensione verso l’alto e l’altro. Non stupisce che il vulcano, simbolo della potenza e solidità terrestre, abbia al contempo ispirato poeti e artisti dal carattere spirituale, incorporea ed eterea, uno su tutti Franco Battiato, il più noto cittadino di Milo. La capacità di ricomprendere simbolicamente il cielo e il mare attorno a sé rende l’Etna, inoltre, una fusione perfetta dei quattro elementi materici fondamentali: l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. I numerosi contrari paradigmatici che il vulcano trattiene a sé danno luogo non solo a una grande complementarietà semantica ma anche, più in sintesi, a un generale effetto di senso che è tipicamente simbolico: la completezza. Complementarietà e completezza si ritrovano, puntualmente, sulle caratteristiche degli stessi vini del vulcano: meridionali e settentrionali, montani e marini, profondi ed esili, caldi e freschi, lavici e salini, solidi ed elettrici. Già nel 1968, lo scrittore Mario Soldati, apre il suo celebre viaggio per i “vini genuini” d’Italia con l’Etna, dove sembra cogliere e al tempo stesso subire il fascino di questa duplicità: È Sicilia, e mi pare Piemonte […] Lo confesso ora: ieri sera la squisitezza, la raffinatezza del bianco di Villagrande mi aveva stupito: a momenti, quasi vi sospettavo un artificio. E adesso mi spiego tutto. È un vino di Sicilia, sì, ma è anche vino di montagna: e quale montagna! Come il Gattinara sembra che attinga la sua forza più segreta al vento che passa sui ghiacciai del Rosa pochi minuti prima di soffiare tra le vigne; come il Rossese cresce tra il mistral e lo scirocco, tra i riflessi, egualmente vicini, del Mar Ligure e del Clapier: così l’Etna Bianco raccoglie e fonde, nel suo pallore e nel suo aroma, nella sua freschezza e nella sua vena nascosta di affumicato, le nevi perenni della vetta e il fuoco del vulcano. Quassù, insomma, tutta quella secchezza e quella freschezza che facevano pensare addirittura a un vino nordico, e che potevano anche, a momenti, insospettire, sembrare un trucco di lavorazione, non stupiscono più (Soldati 2017, pp. 35-37). Il testo di Soldati offre un esempio concreto del fenomeno di efficacia simbolica del terroir, negli stessi termini in cui lo abbiamo delineato nei paragrafi precedenti. Da un lato, circostanza comune nel discorso vinicolo, il terroir agisce nel discorso come un vero e proprio dispositivo di mediazione, permettendo di ritradurre nel vino gli stereotipi discorsivi di un ambiente, un paesaggio, una popolazione. Questa traduzione può agire a ritroso al momento della degustazione, innescando una vera e propria narrativa di rimotivazione che risale dal bicchiere sino al luogo d’origine. Si ritrova il senso delle caratteristiche organolettiche nella complessa progenie vulcanica, negli agenti che hanno forgiato narrativamente odori e sapori (i venti, le nevi, il fuoco etc.), nelle parziali analogie con i paesaggi nordici. Nel caso di Soldati, la cui ricerca letteraria è mossa da un desiderio di genuinità, la rimotivazione è parallela a un percorso di stupore e svelamento veridittivo: qualità che inizialmente sembrerebbero frutto di un artificio o di un’adulterazione testimoniano in realtà le nobili e sincere origini del vino. Mentre stabilisce un rapporto intertestuale con il paesaggio etneo, il vino ne eredita quindi il mitismo, ossia la stessa tendenza a mediare narrativamente tra una serie di opposti inconciliabili: nord e sud, caldo e freddo, neve e fumo. La potenza comunicativa dei vini etnei sta anche nella loro capacità di 18Lo storico Braudel ne riporta proprio questo aspetto: “Ed ecco il re delle fucine, l’Etna (3313 metri), che si erge, sempre attivo, sulla meravigliosa piana di Catania. Luogo di leggende, l’Etna: i Ciclopi, fabbricanti delle folgori celesti, vi manovravano, nelle forge di Vulcano, i loro enormi mantici di pelle di toro; il filosofo Empedocle si sarebbe gettato nel suo cratere, che ne restituì, si dice, soltanto un sandalo” (Braudel 1985, p. 13). 78 prendere parte alle ambivalenze costitutive del territorio, diventando parte di un certo modo di produzione simbolica che lo caratterizza. 5. L’Etna e le sue architetture contemporanee Giungiamo a un ambito specifico di manifestazione discorsiva del terroir: l’architettura delle cantine, uno dei più sofisticati strumenti odierni di marketing vinicolo e territoriale. La cantina è certamente luogo funzionale, di trasformazione e affinamento dei vini e di svolgimento delle attività ricettive, commerciali ed enoturistiche. Queste funzioni, tuttavia, sono prese in carico ed espletate dall’architettura e dal design in un orizzonte di senso, nel quale anche l’estetica rientra (Hammad 2003; Mangano 2008). Gli interventi architettonici nel settore enologico sono oggi un importante tema di esplorazione – anche teorica – per architetti e designer (Bosi e Chiorino 2022). L’ambizione delle cantine contemporanee è, sempre più spesso, quella di ergersi a veri e propri “musei della natura” 19 , instaurando relazioni intersemiotiche complesse col paesaggio. Che la cantina sia uno strumento di branding cruciale lo dimostrano, d’altronde, gli ingenti investimenti del settore in nuove costruzioni avveniristiche. Anche su questo fronte, l’Etna ha contribuito a posizionare la Sicilia sulla scia di regioni storicamente più sviluppate, in particolare l’Alto Adige e la Toscana (ibidem). Pur non potendo affrontare il tema dell’architettura vinicola con la giusta ampiezza che meriterebbe, desideriamo mostrare due casi recenti e significativi. In primo luogo, come dicevamo, la cantina consente al brand di abitare anche fisicamente il paesaggio e l’areale produttivo. In altre parole, di congiungere narrativamente il brand vinicolo al territorio: un placement che attiva un primo trasferimento di valore, dallo spazio di senso del terroir alla marca, e potenzia quindi l’identificazione della marca stessa con un ambiente geografico. Contemporaneamente, tuttavia, la costruzione di una nuova cantina introduce una nuova grandezza semiotica nel paesaggio vinicolo, mutandolo: anche la cantina, a sua volta, trasferisce quindi valore al territorio, e così facendo lo riconfigura tanto nella sua patina visibile quanto nei significati. Non è un caso che sul rapporto tra cantina e territorio si discuta sempre più spesso in termini di landmark (ibidem) e che gli interventi architettonici sulle cantine pongano problemi che rientrano nell’ordine del design paesaggistico. Il rapporto tra la cantina e lo spazio in cui si situa, in altre parole, è un rapporto reciproco tra locale e globale, testo e semiosfera. Quando sorge una nuova cantina, in uno spazio denso e interconnesso come quello del terroir, cambia il senso del terroir nel suo complesso e, al contempo, persino il senso delle altre costruzioni architettoniche è destinato ad evolversi. Questo perché esiste un rapporto orizzontale e diretto anche tra testi e testi, un po’ come accade tra etichette di diverse cantine che provengono dalla medesima area produttiva. Riassumendo, e rifacendoci alle nostre premesse iniziali, possiamo dire che l’architettura della cantina contribuisca, assieme a tutti gli altri testi vinicoli, a nutrire quella rete trasversale di ridondanze formali che, nei primi paragrafi, abbiamo visto costituire le tessiture semiotiche del terroir. Il primo caso che trattiamo è “Feudo di Mezzo” una tenuta inaugurata nel 2013 dal brand vinicolo Planeta nell’omonima contrada (Passopisciaro). Il complesso, progettato dagli architetti Santi Albanese e Gaetano Gulino, sorge “all'interno di una colata lavica del 1566, come un giardino di pietra” 20. 19Cito una concisa definizione data dall’architetto e amico Diego Emanuele in una conversazione sul tema. 20 V. il sito web ufficiale della cantina e, in part., il comunicato stampa di presentazione: www.planeta.it/wp- content/uploads/2013/03/Nasce_la_quinta_cantina_PLANETA_1063.pdf (Ultimo accesso giugno 2023). 79 Fig. 4 – Planeta “Feudo di Mezzo” (2013). L’edificio principale (di fronte) e la barricaia (a destra). La cantina è in verità un complesso di due corpi separati (Fig. 4): una costruzione principale, composta da una sorta di parete di cinta in pietra e un parallelepipedo centrale in cemento e una barricaia parzialmente ipogea, rivestita da un muro di pietra lavica a secco. Come appare evidente, lo scarto materiale e aptico tra una superficie e l’altra svolge una funzione cruciale che è non solo estetica, ma narrativa. La roccia è via via trasformata in una successione che procede, nell’ordine, dai grossolani blocchi della barricaia (“pensata come una pietraia”), passando per il muro di cinta dove la pietra è saldata dal cemento, sino all’unità più compatta in cemento levigato che si erge sulla precedente. Le tre unità si innalzano progressivamente e sono in evidente dialogo. Tra le tre, scorre una sintassi narrativa che rimanda a stati della materia che si rinsaldano – procedendo dal basso verso l’alto – da totalità di parti a unità, dal discreto al compatto, dal discontinuo al continuo. Questa progressione è al tempo stesso una inversione poetica, ad opera antropica, rispetto al corso naturale (e plurisecolare) di disfacimento della lava: dal compatto delle colate più recenti al discreto delle pietre e infine della sabbia. Il cemento è la roccia dell’uomo. Fig. 5 – Planeta “Feudo di Mezzo” (2013). L’edificio e il paesaggio. 80 Mantenendo un punto di vista esteriore – e dunque inevitabilmente parziale – sull’architettura, osserviamo ora il profilo di “Feudo di Mezzo” con un campo più largo, immerso nel paesaggio circostante (Fig. 5). L’estremo minimalismo eidetico, cromatico e topologico della struttura aiuta il suo formato a prendere il sopravvento. La cantina si staglia così sull’intorno come un puro volume, una massa quadrangolare in rapporto diretto, ovviamente, con l’enorme vulcano situato sullo sfondo. C’è di più: la nettezza del profilo fa sì che il corpo diventi complementare al vuoto che vi è attorno, inglobandolo, proprio come il profilo del vulcano fa con il paesaggio aereo attorno a sé21. Possiamo confrontare questo primo caso con un altro intervento sul versante nord del brand Alta Mora, su progetto dello studio Ruffinoassociati. La struttura si chiama “Verzella” (Fig. 6) ed è sita nell’omonima contrada (Castiglione di Sicilia). Stavolta si tratta di un edificio rivestito esternamente non in pietra, com’è usuale nella zona, bensì in cor-ten, una pregiata lega metallica il cui aspetto vira nel tempo verso un tono ruggine che, in questa circostanza, vuole richiamare un divenire cromatico (e semantico) della materia vulcanica: In un territorio reso unico dalla colata lavica che lo avvolse e stravolse nel lontano 1879, la cantina secondo un progetto ecologico e all’avanguardia è realizzata fondendo i materiali del luogo con il cor-ten che il tempo sta trasformando e variando nel colore, così come il magma che da distruttore si trasforma e diventa presto fertile, nel pieno rispetto della natura22. Ci troviamo di fronte a due strategie narrative opposte. Mentre Planeta “Feudo di Mezzo” inscenava una sintassi di stati della materia che mutavano in modo sintagmatico, ovverosia nel passaggio tra unità compresenti nel complesso, la costruzione di Alta Mora mette sì in atto una sintassi di stati della materia vulcanica ma che, in questo caso, si avvicendano in modo diacronico, cioè mutando in successione con l’avanzare del tempo. Fig. 6 – Alta Mora “Verzella” (2013). A questa sintassi si sovrappone una temporalizzazione più complessiva: se entrambe le costruzioni emanano un’aura di eternità, questo dipende dal loro tempo doppio (Sedda 2021). Il tempo arcaico dei richiami materici e ancestrali al vulcano, da un lato, e il tempo futuribile dell’architettura avveniristica, 21 Questa dialettica richiama un’altra asserzione teorica importante: l’architettura è progettazione del vuoto, prima ancora che del costruito (Hammad 2003). 22 Cit. dal sito web della cantina: www.altamora.it/it/verzella (ultimo accesso giugno 2023). 81 dall’altro, generano nello stesso oggetto una tensione durativa indefinita, protesa contemporaneamente verso l’anteriore e il posteriore. Come anticipavamo poc’anzi, l’architettura può contribuire a instaurare nuove relazioni semiotiche orizzontali tra i brand vinicoli presenti sul territorio. Nello specifico, il breve confronto abbozzato tra le due costruzioni presagisce lo sviluppo, in corso, di uno stile contemporaneo e locale caratterizzato da costanti espressive facilmente riconoscibili23. In tutti i casi il rapporto mimetico tra l’architettura e l’Etna è tale che, come emerge in modo più forte dalla fig. 5, queste costruzioni si ergono come veri e propri totem del vulcano. Si noti anche la vigorosa messa a terra delle due cantine: due prismi monolitici completamente adesi al suolo, una scelta non scontata nel linguaggio architettonico odierno. Entrambe le costruzioni stabiliscono un rapporto di emulazione con l’esteriorità del vulcano, è evidente, ma lo fanno sulla base di strategie discorsive precise. L’enfasi su volumi architettonici netti e quadrangolari mira a traslare ed enfatizzare, sul piano semantico, quei tratti di solidità, rigidità, forza, inamovibilità, pesantezza e mascolinità del vulcano che ci sono familiari. Tuttavia, come in tutte le traduzioni qualcosa si perde, a vantaggio di altro: la scelta progettuale di puntare sulla forma quadrangolare, anziché triangolare e apicale che ci aspetteremmo, produce una rarefazione del piano espressivo e risponde proprio al tentativo di imperniare la mimesi sul piano semantico e, nello specifico, attraverso quei tratti di contenuto appena elencati 24 . All’emulazione speculare del vulcano nella sua esteriorità, si antepone un’emulazione – iperbolica – del suo valore. Proprio come in un simbolo, i contenuti dell’architettura esorbitano così il suo piano dell’espressione: una scelta poetica e strategica che finisce per conferire alle due costruzioni un’aura metafisica25, in virtù della loro esasperata fisicità semantica. Siamo così per l’ennesima volta posti di fronte a un’ambivalenza mitica tra materiale e metafisico, le due facce complementari del vulcano. 6. Conclusioni In questo lavoro abbiamo affrontato il tema della materia nel discorso vinicolo e, in particolare, il concetto di terroir, con l’obiettivo di mettere in discussione una visione sostanzialista e ontologizzante del vino e del suo valore che tende a prevalere tra esperti e appassionati. Innanzitutto, una rilettura semiotica del terroir ci spinge a concepire la vita materiale del vino in modo inseparabile dalla fitta e densa rete intersemiotica occupata da discorsi, pratiche e testi quantomai eterogenei: il branding e il packaging, l’architettura, le estetiche di consumo e degustazione, le fiere e gli eventi, l’editoria, i luoghi di distribuzione, gli eventi, il cinema e i media, le cartografie, e molto altro ancora. Tutto ciò non è ornamentale, ma costituisce il discorso del vino, e mette il vino in condizione di significare e, quindi, di essere vissuto e apprezzato. Nel settore si tenta usualmente una oggettivazione di quelle componenti chimiche che, a ritroso, dovrebbero far aderire il vino a una origine geografica precisa e a dei fattori ambientali e produttivi determinanti (Teil 2012). Il terroir, in questo senso dominante, permette una connessione materiale e causale tra i fattori pedo-climatici del luogo produttivo e le caratteristiche organolettiche apprezzabili nel prodotto finale. Da un punto di vista semiotico questa visione risulta assai limitante. 23 Un filone che potrebbe essere approfondito con l’ulteriore analisi di altri interventi architettonici ma che qui, per ragioni di spazio, lasciamo in secondo piano. 24 Si pensi, per abbozzare una prova di commutazione, al diverso effetto di senso che una emulazione iperrealista avrebbe prodotto, per esempio con la costruzione di un corpo conico o piramidale. 25 Anche nel senso semiotico e letterale del termine, dal momento che la fisica del vulcano è ricompresa meta- semioticamente sul piano del contenuto nel testo architettonico. 82 Il terroir, lo abbiamo visto, può essere riletto mediante gli strumenti della sintassi figurativa (Fontanille 2005) e della semiotica del discorso (Marrone 2022) come un fascio isotopico che, attraversando configurazioni testuali e linguaggi diversi, crea ridondanze formali e effetti di iconizzazione. Il vino stesso, come tutti gli oggetti semiotici, va collocato in questa rete di senso e ne è un’abitante tra tanti. È grazie a questa rete che possiamo ritrovare, a ritroso, le qualità organolettiche del vino in termini di origine geografica. Se il terroir, insomma, diviene spesso un simbolo, ciò dipende in primis dalla convivenza tra eterogeneità dei supporti e coerenza trasversale. Nella seconda parte del lavoro abbiamo infine affrontato un caso di particolare di terroir vulcanico, oggi di grande successo: l’Etna. Un successo che può essere spiegato in termini semiotici con l’analisi dei rapporti formali che intercorrono tra l’iconografia del vulcano, le sue innumerevoli trasposizioni e gli oggetti di comunicazione più disparati. Elementi troppo spesso considerati accidentali o secondari, quali la cartografia e l’architettura, rivelano l’essenza del terroir quanto il vino stesso, grazie al sistema di relazioni formali in cui si situano. Abbiamo osservato, a questo proposito, come la cartografia e le nuove architetture etnee contribuiscano ad alimentare una duplicità mitica che caratterizza, sin da tempi non sospetti, il simbolo del vulcano. Un’architettura semioticamente funzionale, in questi termini, entra in rapporto col sistema di relazioni formali consolidato, stabilisce in che modo inserirvisi, contribuendo così a determinare il valore vino, la sua unicità e al tempo stesso i modi di aderire al territorio. Grazie a questo processo di disseminazione, inoltre, il vino stesso trarrà vantaggio in termini di accessibilità e significatività. Il marketing vinicolo e territoriale possono contribuire, utilizzando un approccio progettuale, alla produzione di nuovi oggetti di comunicazione efficaci. La semiotica, da parte sua, può stimolare la comprensione di questi meccanismi e, con un po’ di ambizione, la diffusione tra addetti ai lavori di una cultura del vino che sia propriamente tale, dotando la parola cultura di buona consistenza e un proprio territorio, come il vino. 83 Bibliografia Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi 1974. Barthes, R., 1961, “Pour Une Psycho-Sociologie de l alimentation Contemporaine”, in Annales. Histoire, Sciences Sociales, vol. 16, fasc. 5, pp. 977–986; trad it. “L’alimentazione contemporanea”, in G. Marrone, A. Giannitrapani, a cura, 2012, pp. 47-57. Basso Fossali, P., 2009, La tenuta del senso: per una semiotica della percezione, Roma, Aracne. Bosi, R., Chiorino, F., a cura, 2022, Nuove cantine italiane: territori e architetture = New Italian wineries: territories and architectures, Milano, Electa architettura. Cavicchioli, S., 2002, I sensi, lo spazio, gli umori e altri saggi, Milano, Bompiani. 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Forma, trasformazioni materiali e sostanza nella teoria marxiana della merce. Proposte per una lettura semiotica Giorgio Borrelli Abstract. This contribution intends to outline a semiotic reading of the Marxian categories of “Form”, “Matter” and “Substance”. More specifically, an attempt will be made to show how “Substance of Value” – as defined by Marx – is the result of a process of transformation – or translation -- of different materials through certain Forms. To do this, it is proposed to read the Marxian theory of the commodity as a “scientific discourse” – understood in a Greimasian sense –, identifying its transformations on both the logical-semantic level (deep level) and the narrative level (surface level). Finally, an attempt will be made to show how, in Marxian theory, the relationship between “Form”, “Matter” and “Substance” generates a specific “meaning effect”. 1. Introduzione In questo contributo proverò a inquadrare in una prospettiva semiotica le categorie marxiane di “forma”, “materia” e “sostanza”. Per fare ciò procederò con due ipotesi di ricerca strettamente collegate. In primo luogo proporrò di leggere la teoria della Forma Merce – tematizzata ne Il Capitale (Marx 1867) – come un discorso scientifico in senso greimasiano (cf. Greimas 1976): cioè, come un discorso che trova il proprio fondamento in una struttura costituita da opposizioni, contraddizioni e implicazioni; una forma (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 148) a partire dalla quale si generano strutture logiche più complesse in grado di determinare la struttura di partenza – cioè, di articolarne il senso. Più specificamente, questa proposta di lettura trova un punto di appoggio in ciò che Marx chiama “metodo di esposizione [Darstellungsmethode]” (Marx 1867, p. 19) o “modo di esposizione [Darstellungsweise]” (ivi, p. 21); due espressioni che indicano – appunto – il metodo o modo attraverso cui la logica del modo di produzione capitalistico può essere spiegata e compresa. Partendo da questo ordine di considerazioni e facendo riferimento al quadro categoriale greimasiano, cercherò di mostrare il carattere elementale (cf. la voce “Elemento” in Greimas, Courtés 1979, pp. 118-119) della Forma Merce; più specificamente proverò a mostrare perché la Forma Merce possa intendersi come una “unità elementare prima” (ivi, p. 119). In secondo luogo, proporrò di leggere la teoria della Merce come una semiotica in cui si espongono dei processi di trasformazione della materia attraverso Forme che originano una Sostanza – la Sostanza di valore [Wertsubstanz]. In linea con il concetto greimasiano di “trasformazione” (cf. Greimas, Courtés, 1979, p. 368), cercherò di mostrare come questi processi siano leggibili sia sul piano logico-semantico (livello profondo) che sul piano narrativo (livello superficiale). Attraverso questa analisi proverò a mostrare come – coerentemente con una prospettiva semiotica – la materialità – intesa in senso Marxiano – non sia una proprietà ontologica ma una proprietà relazionale:1 cioè, il risultato delle interazioni tra 1 L’idea secondo cui la materia – o, se si preferisce, il carattere di “materiale” – sia una proprietà relazionale trova una particolare esposizione nella semiotica di Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985). Chiaramente, questo assunto ha il proprio fondamento nel modello della semiosi di Charles Morris (1938). Secondo Morris, infatti, ciascun E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). gli elementi di un determinato sistema. Più specificamente, proverò a mostrare come – nella teoria marxiana della Merce – il lavoro umano possegga una materialità anteriore e una materialità posteriore al suo processo di informazione (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 148): il lavoro, anteriormente all’“impronta” (Bellofiore 2013, p. 21) della Forma di valore, è una materialità allo “stato fluido” (Marx 1867, p. 61); successivamente diventa una “gelatina [Gallerte]” (ivi, p. 48) – coincidente con la Sostanza di Valore. 2. La Forma Merce come relazione elementare Per leggere la teoria della Forma Merce come un discorso scientifico, sarà necessario considerare il discorso marxiano come una semiotica, cioè “un insieme significante che possiede un’organizzazione, un’articolazione interna autonoma” (Greimas, Courtés 1979, p. 314). Questo insieme costituirà l’oggetto di analisi, la semiotica-oggetto (cf. ibidem)2; inoltre, occorrerà considerare questa semiotica-oggetto come una semiotica scientifica (cf. ivi, p. 311); più specificamente, come un discorso scientifico (cf. ivi, p. 312). Di conseguenza, le categorie della semiotica geimasiana che adotterò per descrivere la teoria marxiana della Forma Merce – cioè, la semiotica oggetto – costituiranno gli strumenti analitici di una meta- semiotica scientifica (cf. ibidem). Di fatto, Marx fa riferimento al concetto di “segno” [Zeichen] per spiegare come il Valore – inteso in senso economico – si manifesti. Innanzitutto, Marx pone l’assunto secondo cui “ogni merce sarebbe un segno [Zeichen] perché come valore esse sono involucri cosali [sachliche Hülle] del lavoro umano speso in esse” (1867, p. 103). Tuttavia, Marx non struttura una teoria generale del processo di significazione, né un linguaggio per descrivere tale processo – cioè quello che Greimas e Courtes chiamano appunto “linguaggio di descrizione” (1979, p. 318). Pertanto, restando in una prospettiva greimasiana, potremmo considerare l’analisi marxiana della merce come un metalinguaggio non scientifico (cf. ivi, p. 212); una scelta teorica e terminologica che non esclude la possibilità di considerare l’analisi della Forma Merce come un discorso scientifico. Secondo Greimas, il discorso scientifico – come ogni tipo di discorso – implica un “attante sintattico” (1976, p. 4), cioè il soggetto inteso come “produttore del discorso” (ivi, p. 5). Il soggetto del discorso scientifico istituisce “il primo livello del suo discorso, non con un linguaggio-oggetto, ma attraverso un elemento del processo di semiosi (veicolo segnico, designatum, interpretante, denotatum, interprete) non è ciò che è per una sua supposta proprietà ontologica, ma per il tipo di relazione che intrattiene con gli altri elementi. Articolando la sua lettura semiotica della teoria marxiana, Rossi-Landi sembra leggere il concetto marxiano di “processo lavorativo” [Arbeitprozeß] attraverso questa idea di Morris. Per Marx, il processo lavorativo si compone di quattro elementi o momenti: “l’attività conforme a scopo [zweckmäßige Tätigkeit], ovvero il lavoro stesso [Arbeit selbst], il suo oggetto [Gegenstand] ed il suo mezzo [Mittel]” (Marx 1867, p. 198). Il “prodotto [Produkt]” (ivi, p. 200) costituisce il momento finale del processo. La convergenza tra Morris e Marx viene a configurarsi nel momento in cui Rossi-Landi osserva che “il carattere di materiale non è […] inerente all’oggetto da cui si parte, sul quale si comincia a lavorare. Il materiale è tale solo in quanto venga assunto in un ciclo lavorativo, cioè solo in quanto ci si lavori sopra” (Rossi-Landi 1985, p. 14). L’idea secondo cui i materiali possano essere letti come effetti relazionali è stata delineata nell’ambito dell’Actor- Network Theory dalla semiotica materiale di John Law e Annemarie Mol (1995). 2 Anche a questo proposito, occorre citare la ricerca pionieristica di Rossi-Landi. Infatti, secondo Rossi-Landi, “Marx, ex abundantia cerebri, aveva quasi fondato una semiotica del non-verbale” (Rossi-Landi 1985, p. 241). In particolare, la critica marxiana dell’economia si configurerebbe come una semiotica per aver mostrato la possibilità di considerare la Forma merce come un tipo particolare di messaggio non verbale (cf. Rossi-Landi 1968, pp. 115- 120). Come è noto (cf. Bankov 2019, pp. 339-340), il lavoro di Rossi-Landi è stato successivamente approfondito da Augusto Ponzio e dalla Scuola semiotica di Bari. Per un approfondimento sulla semiotica di Rossi-Landi e della Scuola di Bari si vedano: Rossi-Landi (1968, 1972, 1975, 1977, 1985, 2016); Petrilli (1987, 2004); Ponzio (1988, 2008); Borrelli (2020). 87 ‘linguaggio degli oggetti’” (ivi, p. 8). Questo linguaggio coincide con una tassonomia specifica, cioè con un insieme di “oggetti semiotici (elementi, unità, gerarchie)” (Greiams, Courtés 1979, p. 354) che il soggetto costruisce “con l’aiuto delle identità e delle alterità riscontrate” (ibidem). Pertanto, il discorso scientifico è “il luogo di un fare tassonomico” (Greimas 1976, p. 8) e l’universo semantico esplorato dal discorso scientifico consiste nel “progetto scientifico di questo fare” (ibidem). Più specificamente, questo progetto costituirà il referente del discorso scientifico e “il percorso genealogico di una data scienza si giustificata solo se riesce a produrre – e a istituire, come discorso referenziale – un algoritmo di carattere generativo della scienza in questione” (ivi, p. 21). Come è noto, l’algoritmo è “la prescrizione di un ordine determinato nell’esecuzione di un insieme di istruzioni esplicite in vista della soluzione di un certo tipo di problema dato” (Greimas, Courtés 1979, p. 29). Secondo Greimas e Courtés, la metasemiotica ha il compito di “rappresentare il funzionamento di un sistema semiotico sotto forma di sistema di regole” (ibidem). In questa prospettiva, “l’algoritmo corrisponde ad una conoscenza sintagmatica che può programmare, sotto forma di istruzioni, l’applicazione di regole appropriate” (ibidem). Partendo da queste definizioni, è possibile individuare un algoritmo nell’analisi marxiana della Forma Merce che sia rappresentabile da un algoritmo metasemiotico? A mio modo di vedere, questo interrogativo può avere una risposta positiva: tale algoritmo coincide con ciò che Marx stesso definisce “metodo di esposizione [Darstellungsmethode]” (1867, p. 19) o “modo di esposizione [Darstellungsweise]” (ivi, p. 21); come accennato nel paragrafo introduttivo, con il termine Darstellung – appunto, “esposizione” – Marx vuole indicare il metodo o il modo attraverso cui spiegare e comprendere la logica del modo di produzione capitalistico. Questa esposizione – o presentazione (cf. Bellofiore 2013, p.19) – consiste in una “progressione sistematica delle categorie” (ivi p. 7) che consente di “apprendere domini-oggetti di complessità crescente” (ibidem); una progressione che si fonda sull’assunto secondo cui “ogni categoria analizzata risulta […] deficitaria in termini di determinazione rispetto alla successiva” (ibidem). Questo deficit di senso, da un lato, costituisce il “il limite delle categorie ad ogni stadio della progressione concettuale” (ibidem); dall’altro, “dà l’impulso a una ‘transizione’, a una determinazione successiva di categorie, in una sequenza di ‘arricchimento’ di ogni categoria” (ibidem). Restando nel quadro concettuale greimasiano, può essere interessante rilevare come questo processo di esposizione – inteso come semiotica-oggetto – abbia il proprio referente in una semiosi (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 313) costituita da determinati movimenti di espressione [Ausdruck]. Più precisamente, la Darstellung può essere intesa come la semiotica che descrive “un movimento che dall’interno (come realtà ‘latente’ o ‘potenziale’) va verso l’esterno (la forma ‘oggettualizzata’)” (Bellofiore 2013, p. 19). L’Ausdruck – dunque – può essere intesa come il “processo “genetico” che “costituisce” la Darstellung” (ibidem). Ai fini dell’argomentazione che sto cercando di costruire, è possibile individuare questa corrispondenza tra espressione ed esposizione – intesa, appunto, come progressione sistematica delle categorie – in due passaggi fondamentali dell’analisi marxiana. 1. Il primo passaggio riguarda uno degli assunti di partenza del discorso marxiano: “la ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si manifesta fenomenicamente come una ‘immane raccolta di merci’, la merce singola come sua forma elementare. La nostra indagine comincia perciò con l’analisi della merce” (Marx 1867, p. 45). Sono queste le parole con cui si apre il “Capitolo primo” del Primo Libro del Capitale; la merce è posta esplicitamente come categoria iniziale del discorso. Per Marx, inoltre, “il punto cruciale [Springpunkt] attorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica” (ivi, p. 52) è il doppio carattere del lavoro contenuto [enthaltenen] nella merce (v. ivi, p. 51). L’opposizione interna della merce – cioè, l’opposizione tra valore d’uso e valore – deriva da questa “duplice natura” (ibidem) del lavoro, che si esprime [Ausdrückt] (v. ibidem) come “lavoro utile concreto [konkrete nützliche Arbeit]” (ivi, p. 57) e come “lavoro astrattamente umano [abstrakt menschliche Arbeit]” (ibidem). Il lavoro utile concreto è il lavoro che produce valori d’uso per la soddisfazione di determinati bisogni umani; il lavoro astrattamente umano coincide con il tempo di 88 lavoro socialmente necessario, cioè con “il tempo di lavoro richiesto per produrre un qualsivoglia valore d’uso con le date condizioni di produzione socialmente normali e con un grado medio d’intensità e qualifica del lavoro” (ivi, p. 49). Questo tipo di lavoro costituisce la Sostanza di valore [Wertsubstanz], una proprietà [Eigenschaft] comune a tutte le merci. Marx attribuisce alla Sostanza di valore due attributi: a) essa possiede una “spettrale oggettualità” [gespenstige Gegenständlichkeit]” (ivi, p. 48); b) essa è “una mera gelatina [Gallerte] di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza-lavoro umana senza riguardo alla forma del suo dispendio” (ibidem). Nel paragrafo 3 mostrerò come il “modo d’esistenza ‘fantasmatico’” (Bellofiore 2013, p. 11) della Sostanza, la sua spettrale oggettualità, implichi – nell’argomentazione Marxiana – che essa debba necessariamente manifestarsi attraverso una forma – una relazione – e che debba “‘prendere possesso’” (Bellofiore 2013, p. 25) del corpo di un’altra merce: più specificamente, del corpo della merce che assume il ruolo di Denaro – cioè, di merce in grado di esprimere il valore di tutte le altre merci. Il corpo del Denaro sarà costituito da un materiale specifico: l’oro; e il processo attraverso cui la Sostanza di valore si esprimerà nella Forma Denaro sarà definito Materiatura [Materiatur]; questo processo di espressione richiede che il materiale – in cui la Sostanza sarà incorporata [verkörperter] – possegga delle qualità peculiari. Nei paragrafi 4 e 5 mostrerò, invece, come l’attributo materiale della Sostanza di valore – il suo carattere “gelatinoso” – sia il risultato di un processo operato dalla Forma di valore che – coerentemente con l’impostazione greimasiana – “‘informa’ [la materia] mentre ‘forma’ l’oggetto conoscibile” (Greimas, Courtés 1979, p. 148). Queste argomentazioni conducono al secondo passaggio. 2. La duplice natura del lavoro esposto nella merce pone la merce stessa come una categoria fondata su un’“opposizione immanente [immanenten Gegensatz]” (Marx 1867, p. 117): appunto, l’opposizione “tra valore d’uso e valore” (ibidem, corsivo mio). La merce “si espone [darstellt] come questo doppio che essa è, non appena il suo valore possiede una propria forma fenomenica [Erscheinungsform] diversa dalla sua forma naturale, quella del valore di scambio” (ivi, p. 71, corsivo mio). Pertanto, il valore di una merce può apparire [Erscheinen] solo in una forma diversa dalla forma corporea della stessa merce – cioè, dal suo valore d’uso. Inoltre, la merce il cui valore deve esporsi “non possiede mai questa forma considerata isolatamente, bensì sempre solo nel rapporto di valore, ovvero di scambio, con una seconda merce di genere diverso” (ibidem). Dunque, “l’espressione di valore [Wertausdruck]” (ivi, p. 63) può avvenire solo attraverso l’equiparazione di due merci. Quando una merce viene scambiata con un’altra, l’opposizione interna [innere Gegensatz] a ciascuna di esse si sviluppa [entwickelt] in una “opposizione esterna [aüßeren Gegensatz]” (ivi, p. 72). Il rapporto di scambio tra due merci coincide con il valore di scambio, cioè con la Forma di valore: la forma senza la quale il valore – inteso come Sostanza – non può manifestarsi. Per Marx, “lo sviluppo della forma di merce coincide con lo sviluppo della forma di valore” (ibidem). Di conseguenza, questo sviluppo [Entwicklung] può essere inteso come il processo attraverso il quale la Sostanza di valore si espone in determinate relazioni, cioè attraverso Forme diverse e progressivamente determinate: dalla Forma Semplice di Valore – cioè, il più elementare rapporto di scambio tra due merci – alla Forma Denaro – e al Denaro come capitale. Per definire l’atto attraverso cui avviene questo processo, Marx utilizza il concetto di “Darstellung”: la opposizione interna della forma di merce è presentata o esposta – cioè, determinata a un livello concettuale più complesso – da un’opposizione esterna. Infatti, “il valore di una merce è espresso [ausgedrückt] in modo autonomo attraverso la sua esposizione [Darstellung] come ‘valore di scambio’” (ivi, p. 71, corsivo mio)3. Queste considerazioni permettono di chiarire la progressiva determinazione categoriale su cui si fonda il metodo marxiano: il dominio-oggetto “merce” – il punto di partenza dell’indagine – si determina in primo luogo attraverso l’esposizione della relazione oppositiva tra valore d’uso e valore; tuttavia, dice 3 In questo passaggio si nota la continuità tra il verbo ausdrücken – designante i processi di semiosi – e il verbo darstellen – designante i processi della semiotica scientifica, intesa come la semiotica-oggetto di cui mostrare le regole. 89 Marx, “al valore non sta scritto in fronte che cosa esso sia” (Marx 1867, p. 85). Infatti, il “valore” è un concetto complesso e, da un punto di vista logico, di esso non si può esporre nulla anteriormente alla sua manifestazione [Erscheinung] in determinate Forme [Formen]. Una prospettiva che presenta delle assonanze con l’assunto greimasiano secondo il quale, “anteriormente alle sue manifestazioni sotto forma di significazione articolata, nulla si può dire del senso” (Greimas, Courtés 1979, p. 320). Il valore – da un punto di vista marxiano – è sia Forma che Sostanza; e come Sostanza, il valore non può esistere separatamente dalla sua Forma (v. Fineschi 2001, p. 79). Ciò vuol dire che il senso della categoria di “Merce” si è maggiormente articolato grazie all’individuazione del rapporto oppositivo tra altre due categorie: Valore d’uso e Valore; che questa opposizione si espone attraverso la relazione con un’altra merce caratterizzata da un’omologa relazione oppositiva; e che la relazione tra le due merci viene a sua volta determinata dalla relazione dialettica tra altre due categorie: la Forma e la Sostanza di valore. Partendo da queste premesse generali, penso che sia possibile definire la Forma Merce ricorrendo alla voce “Elemento” del Dizionario (1979) di Greimas e Courtés; più specificamente, la merce si può identificare come una “unità elementare prima” (Greimas, Courtés 1979, p. 118), un “reticolo relazionale” (ibidem) articolante la “categoria” (ibidem) di “Merce” attraverso relazioni di contrarietà, contraddizione e implicazione. In questa prospettiva, la Forma Merce può configurarsi come una “struttura” (ivi, p. 34) ed essere rappresentata da un quadrato semiotico4. 4 Mi permetto di rimandare a Borrelli (2020) per un’analisi approfondita del quadrato semiotico della Forma Merce. 90 3. Il quadrato semiotico della Forma Merce Fig. 1 – Quadrato semiotico della Forma Merce. Il quadrato semiotico illustra un rapporto di scambio tra due merci: La Merce 1 è di proprietà del Produttore 1; questi, scambiando la sua Merce 1, vuole ottenere la Merce 2 (di proprietà del Produttore 2). Per quanto riguarda il Produttore 2 – ovviamente – vale il contrario. In una prospettiva greimasiana, si potrebbe affermare che il microuniverso semantico della merce sia in realtà costituito dal rapporto tra due merci, perché – secondo Marx – “il rapporto con le altre merci […] è immanente al concetto stesso di merce” (Fineschi 2006, p. 147, corsivo mio); ciò implica che, per essere una merce, ogni merce deve essere in rapporto con altre merci; altrimenti, “non è una merce” (ibidem). In linea con le argomentazioni di Marx, l’asse dei contrari espone il fatto che i valori d’uso di due merci siano incommensurabili: esponendo un differente lavoro utile concreto e soddisfacendo un differente tipo di bisogno, ogni valore d’uso è differente dal punto di vista qualitativo – e, di conseguenza, incommensurabile. Dunque, la categoria dell’Incommensurabilità pone la prima opposizione fondamentale del quadrato. L’asse dei sub-contrari, di converso, espone il fatto che i valori di due merci 91 siano non-incommensurabili e perciò siano commensurabili da un punto di vista quantitativo. Più precisamente, secondo Marx è possibile comparare il valore di due merci perché sono riducibili quel “qualcosa di comune” (Marx 1867, p. 47) costituito dalla Sostanza di valore. Dunque, l’asse dei subcontrari esprimerà la relazione che nega l’incommensurabilità dei valori d’uso: la relazione di Non- Incommensurabilità o Commensurabilità. Gli schemi – cioè, le relazioni di contraddizione (v. Greimas, Courtés 1979, p. 79) – collegano i contrari con i sub-contrari. Nel quadrato semiotico della Forma Merce gli schemi rappresentano la Forma di valore intesa come rapporto tra due merci: una merce in Forma Relativa e una merce in Forma d’equivalente. Per Marx, la merce in Forma relativa non può esprimere il proprio valore attraverso il suo “corpo” o la sua “pelle naturale [Naturalhaut]” (Marx 1867, p. 67) – cioè, attraverso il proprio valore d’uso; per fare ciò, questa merce avrà necessariamente bisogno del corpo – cioè, del valore d’uso – della merce in Forma d’equivalente, che dovrà fungere da materiale per l’espressione del valore della merce in Forma relativa. Si arriva così alla questione della Materiatura. Come detto, la Sostanza di valore è un fantasma che, per manifestarsi in una Forma, deve “‘prendere possesso’” (Bellofiore 2013, p. 25) del corpo di un’altra merce, cioè del suo valore d’uso; questa presa di possesso – corrispondente all’espressione del valore [Wertausdruck] – può essere letta come un passaggio dell’algoritmo di trasformazione del discorso scientifico di Marx; più specificamente, penso che l’algoritmo di trasformazione marxiano possa essere letto come un algoritmo dialettico (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 30). Secondo Greimas e Courtés, “quando un algoritmo comporta delle istruzioni che prevedono il passaggio, sul quadrato semiotico, da un termine primitivo (s1) al suo contraddittorio [n](s1), e da questo, per implicazione, al contrario del primo (s2), può essere detto dialettico” (ibidem). Mi sembra che questo tipo di passaggio possa essere riscontrato anche sul quadrato semiotico della merce, consentendo di impostare una lettura semiotica del rapporto tra le categorie marxiane di forma, sostanza e materia. Fig. 2 – La Forma Denaro attribuisce la funzione di Wertkörper all’oro. 92 Consideriamo la forma corporea della Merce 1 – cioè, il suo valore d’uso (Vdu1) – come il termine primitivo (s1). La Merce 1 può esprimere il suo valore (V1) – cioè il termine contraddittorio (ns1) del termine primitivo (s1) – solo attraverso il contrario del suo valore d’uso (Vd1), cioè attraverso il termine (s2). Si può quindi affermare che il termine contraddittorio V1/ns1 implichi necessariamente il termine Vdu2/s2. Questo livello di analisi, tuttavia, suppone che l’universo semantico della Forma merce sia maggiormente determinato; pertanto, il ruolo della Merce 1 sarà svolto da una merce generica (ad esempio la tela) e il ruolo della Merce 2 sarà svolto da una merce particolare: l’oro; questa rappresentazione sul quadrato mira a mostrare perché la Forma di valore – nel suo sviluppo di Forma Denaro – implichi l’oro come propria “materialità conforme” (Fineschi 2001, p. 109). Secondo Marx, considerato nella sua semplice dimensione materiale, l’oro non ha un valore intrinseco; l’oro in sé non è denaro: l’oro serve ad esempio “per otturare denti cariati, come materia prima per articoli di lusso, ecc.” (Marx 167, p. 102). È la Forma di valore – cioè il rapporto di scambio tra una merce in Forma Relativa e un’altra merce in Forma d’Equivalente – che designa l’oro come materialità appropriata della Forma Denaro; dunque, all’interno della dialettica della Forma di valore, la funzione del denaro è quella di “servire da forma fenomenica [Erscheinungsform] del valore delle merci, vale a dire da materiale in cui le grandezze di valore delle merci si esprimono [ausdrücken] socialmente” (ibidem). L’oro diventa così un corpo di valore [Wertkörper]. Pertanto, “forma fenomenica adeguata di valore, o materiatura [Materiatur] di lavoro umano astratto e perciò uguale, può esserlo solo una materia [Materie] tutti gli esemplari della quale posseggano la stessa qualità uniforme” (ibidem). Inoltre, “poiché la distinzione delle grandezze di valore è puramente quantitativa, la merce-denaro deve essere capace di distinzioni puramente quantitative, deve dunque essere divisibile ad arbitrio e di nuovo ricomponibile dalle sue parti. Ma oro ed argento posseggono queste proprietà per natura” (ibidem). Dunque, La prima funzione dell’oro consiste nel fornire al mondo delle merci il materiale della sua espressione di valore, vale a dire nell’esporre il valore delle merci come grandezze uniformi, qualitativamente uguali e quantitativamente comparabili. Così esso funziona da misura universale dei valori e solo attraverso questa funzione l’oro, la specifica merce equivalente, diviene in primo luogo denaro (ivi, p. 107). Quindi, è la dialettica della Forma di valore che attribuisce all’oro questa specifica funzione sociale: cioè, essere il materiale attraverso cui misurare le grandezze di valore delle merci. La deissi del quadrato semiotico può illustrare questo concetto; in particolare, è possibile affermare che il Denaro – inteso come “progresso” (ivi, p. 81) della Forma Universale d’Equivalente – implica l’oro come valore d’uso specifico. 5 Attraverso la Forma di valore, l’oro “riceve un valore d’uso formale che sorge dalle sue specifiche funzioni sociali” (ivi, p. 101). Quest’ultimo assunto consente di chiarire le relazioni logico- semantiche del quadrato semiotico della merce. Marx sottolinea che non è la merce in Forma di Equivalente “ad esprimere il proprio valore” (ivi, p. 59); in effetti, la Forma di Equivalente “fornisce solamente il materiale all’espressione di valore di un’altra merce” (ibid.). Questo concetto può essere illustrato dagli schemi del quadrato: La Merce 2 (con il suo specifico valore d’uso Vdu2) costituisce il materiale attraverso cui può essere espresso il valore della Merce 1 (NVdu1, cioè V1). Ovviamente, è il contrario se la Merce 1 è considerata come Forma di Equivalente. Tuttavia, attraverso i diversi passaggi che dalla Forma semplice di valore portano alla Forma Denaro questa reciprocità è esclusa: perché è solo la Merce 2 – in quanto Merce-Denaro – a garantire l’espressione di valore di qualsiasi altra merce. 5“Il progresso consiste solo nel fatto, che la forma di immediata scambiabilità universale, ovvero la forma universale di equivalente , si è adesso definitivamente unita, grazie alla consuetudine sociale, alla specifica forma naturale della merce oro” (Marx 1867, p. 81). 93 4. Dal livello profondo al livello superficiale: attanti e attori Partendo da queste considerazioni, diviene possibile comprendere perché la teoria marxiana della Merce possa essere intesa come una semiotica in cui si espongono dei processi di trasformazione della materia attraverso Forme che originano una Sostanza – appunto, la Sostanza di valore [Wertsubstanz]. Per comprendere ulteriormente questo punto è opportuno procedere con alcune specificazioni. Si è detto che il valore – inteso come Sostanza – non può esistere separatamente dalla sua Forma. A ciò va aggiunto che, in linea con il quadro categoriale hegeliano (cf. Ehrbar 2010, p. 29), Marx pone la Sostanza come una grandezza [Größe] che deve essere misurata – e, di conseguenza, determinata. In quanto grandezza, la Sostanza deve essere determinata come misura [Maß], cioè come “giusta quantità per una data qualità” (ibidem, trad. mia). Per essere determinata quantitativamente – cioè per essere misurata – la sostanza di valore deve manifestarsi [Erscheinen] in una Forma specifica, appunto la Forma di valore costituita dal rapporto di scambio tra due merci – cioè, dal valore di scambio6. Ciò significa che la Sostanza di valore può essere misurata solo attraverso la sua Forma (cioè, il valore di scambio) e dunque che può essere determinata quantitativamente solo nel rapporto di scambio. L’elemento che permette questa determinazione quantitativa è il Denaro. Come visto, Marx definisce il lavoro astrattamente umano – la Sostanza di valore – come una “grandezza misurata in unità di tempo […] secondo una qualche media sociale” (Bellofiore 2013, p. 20): il tempo di lavoro socialmente necessario. Tuttavia, se il tempo di lavoro sia o meno socialmente necessario lo decide “lo stomaco del mercato” (Marx 1867, p. 120): se il mercato non sarà in grado di assorbire una certa quantità di merci prodotte, vorrà dire che nella produzione di quella quantità di merci sarà stata spesa “una parte troppo grossa del lavoro sociale complessivo” (ibidem), e dunque che quelle merci conterranno “tempo di lavoro speso in modo superfluo” (ibidem). Il Denaro è il misuratore (cf. Fineschi 2001, p. 59) attraverso cui determinare se il tempo di lavoro da dedicare alla produzione di una certa quantità di merci sia stato superfluo o necessario. Ma come avviene in realtà questa misurazione? Secondo Bellofiore (2009), per rispondere a questa domanda è necessario considerare il mercato del lavoro, dove la “compera della forza-lavoro […] permette all’imprenditore capitalista di dare inizio alla produzione immediata” (ivi, p. 158); un acquisto che avviene “in cambio di un salario monetario da spendere nell’acquisto dei beni salario” (ivi, p. 173). Più specificamente, il salario monetario corrisponde al “tempo di lavoro (produttore di merci) richiesto alla riproduzione della capacità di lavoro [degli operai]” (ivi, p. 175); Marx definisce questo tempo come “lavoro necessario”, corrispondente al tempo di lavoro impiegato per produrre quei beni salario. In cambio del salario, i capitalisti ricevono una quantità di “pluslavoro” che supera il tempo di lavoro necessario e – di conseguenza – i costi pagati per la riproduzione dei lavoratori. D’altro canto, questo atto di apertura presuppone – a sua volta – una fase precedente. Infatti, prima di iniziare con la produzione effettiva di merci, i capitalisti stimano il valore ipotetico della forza lavoro – cioè, quanto dovrebbero spendere per la riproduzione dei lavoratori – e, sulla base di questa stima, chiedono un credito alle banche; è questa la fase in cui le imprese stabiliscono il loro “monte salari monetario” (ivi, p. 174). Dunque, alla luce di questi presupposti, è possibile affermare che l’atto di misurazione avvenga prima dell’inizio della produzione effettiva; inoltre, questa “ante-validazione monetaria” (ivi, p. 182) coincide con il momento in cui inizia l’“astrazione” del lavoro. Tuttavia, questa è solo una “valorizzazione potenziale” (ivi, p. 175) e, in questa fase, il lavoro astrattamente umano si presenta in uno stato “latente” (ivi, p. 193). È possibile misurare il tempo di lavoro socialmente necessario solo nel momento in cui avviene un ulteriore atto di misurazione: cioè, quando le merci vengono effettivamente scambiate sul mercato con il denaro – il misuratore del valore; grazie a questo scambio, 6 Questa sinonimia è stabilita dallo stesso Marx. Il paragrafo 1.3. del Primo Libro del Capitale è in realtà intitolato “La forma di valore ovvero il valore di scambio” (Marx 1867, p. 57). 94 l’astrazione del lavoro diventa effettiva e il lavoro astrattamente umano “viene ad esistere” (ivi, p. 196) come Sostanza di valore. Il risultato finale di questo processo è il seguente: l’espressione monetaria del tempo di lavoro socialmente necessario – cioè, la misura determinata attraverso il misuratore “denaro” – coincide con il “valore aggiunto” (ivi, p. 160) che le imprese conseguono vendendo le proprie merci; questo plusvalore deriva dal pluslavoro, cioè dalla “differenza positiva tra, da una parte, tutto il lavoro vivo speso nella produzione del prodotto netto del capitale, e, dall’altra, la quota di lavoro vivo necessaria alla riproduzione dei salari, che Marx chiama lavoro necessario” (ibidem). È così che avviene il processo di costituzione del valore nel modo di produzione capitalistico: “nel capitalismo c’è ‘creazione’ di valore solo in quanto c’è ‘creazione’ di plusvalore, ossia valorizzazione” (ivi, p. 175). Da tutte queste argomentazioni si dovrebbe facilmente comprendere come – in una prospettiva marxiana – l’“astrazione” del lavoro sia il risultato di determinati processi economici. Dunque, la dialettica tra Forma e Sostanza di valore espone – cioè, spiega la logica di – una determinata pratica, una pratica che si articola tra il mercato delle merci e quello del lavoro; la teoria marxiana della Forma Merce – con tutte le sue determinazioni categoriali – può essere quindi considerata la semiotica oggetto che descrive questi processi pratico-semiosici. Queste ulteriori specificazioni categoriali potrebbero consentire di delineare una riformulazione verticale (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 368) dalla struttura profonda – costituita dal quadrato semiotico della merce – a un livello superficiale costituito da strutture semiotiche e narrative. In linea con la teoria greimasiana, va sottolineato che questo livello è caratterizzato da una sintassi antropomorfa che “sostituisce alle operazioni logiche i soggetti di fare e definisce i soggetti di stato attraverso la loro giunzione con oggetti suscettibili di essere investiti di valori che li determinano” (ivi, p. 33). È possibile individuare un omologo procedimento di conversione (cf. ivi, pp. 81-82) nelle modalità in cui Marx struttura la propria teoria? Ritengo che si possa rispondere in maniera positiva; in particolare, questa risposta si basa sulla possibilità di considerare i valori d’uso posti sull’asse dei contrari come oggetti di valore a cui un certo attore sociale è congiunto o da cui è disgiunto. Concentriamoci sulle argomentazioni di Marx. Per ciascun possessore, la propria merce non ha alcun valore d’uso immediato. Altrimenti non la porterebbe al mercato. Essa ha valore d’uso per altri. Per lui essa ha solo il valore d’uso di essere portatrice di valore di scambio e, dunque, mezzo di scambio. Perciò egli la vuole alienare per una merce il cui valore d’uso lo soddisfi. Tutte le merci sono non-valore d’uso per i loro possessori, valore d’uso per i loro non-possessori (Marx 1867, p. 98). In questo passaggio, Marx illustra una situazione astratta in cui ogni soggetto considera la propria merce come un mezzo di scambio per ottenere – cioè per congiungersi con – la merce di un altro soggetto. Gli attori sociali si oppongono come proprietari o non proprietari di certi oggetti di valore. A mio modo di vedere, è interessante sottolineare che questa opposizione, secondo Marx, risiede in quella che potrebbe essere considerata la “struttura profonda” del percorso generativo della sua teoria economica: la Forma Merce (schematizzata nel quadrato semiotico); a livello superficiale questa opposizione prende la forma di un “contratto” (ivi, p. 97) tra “possessori di merci” (ivi, p. 98). A questo proposito, è interessante osservare che Marx descriva i possessori di merci coinvolti in questa relazione superficiale come maschere di carattere [Charaktermasken]: queste “maschere [di carattere] economiche delle persone sono solo le personificazioni [Personifikationen] dei rapporti economici” (ibid., trad. leggermente modificata da me). Quest’ultimo punto richiede un chiarimento categoriale e teorico. Il concetto di “personificazione” [Personifikation], cui fa riferimento Marx, non va confuso con la “personificazione” [Personnification] come definita da Greimas e Courtés; in realtà, Marx non si riferisce qui a “un procedimento narrativo che consiste nell’attribuire a un oggetto (una cosa, un’entità astratta, o un essere non umano) delle 95 proprietà che permettono di essere considerarlo come un soggetto” (Greimas, Courtés 1986, p. 252); piuttosto, le “maschere di carattere” possono essere considerate gli attanti di una relazione di superficie: il contratto, appunto. Come sottolinea Ehrbar, “la maschera di carattere è una relazione superficiale: essa consiste nei ruoli sociali che le persone svolgono nelle loro interazioni. Questi ruoli non sono una creazione degli individui stessi, ma una conseguenza delle relazioni economiche in cui questi individui si trovano” (Ehrbar 2010, p. 589, trad. mia). Secondo Ehrbar, Marx prende in prestito il concetto di “maschera di carattere” “dal teatro greco, dove gli attori indossavano maschere rappresentanti i personaggi che impersonavano” (ivi, pp. 588-589). Partendo da questa considerazione, si può ipotizzare un parallelo tra il concetto di “maschera di carattere” e la “dramatis persona”, la categoria da cui deriva il concetto di “attante” (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 40); più specificamente, mi sembra possibile stabilire il seguente parallelo: gli attanti possono essere considerati come funzioni che operano sulla struttura di superficie, proprio come le “maschere di carattere” (i possessori delle merci) sono elementi che operano – come direbbe Marx – “sulla superficie [die Oberfläche] della società borghese” (Marx a Engels 2 Aprile 1858, cit. in Ehrbar 2010, p. 589, trad. mia). Proprio come gli attanti, i soggetti sociali – in quanto possessori di merci – possono essere considerati come emanazioni di “operazioni più profonde [tiefern Operationen]” (ibid.). Queste operazioni più profonde sono costituite – appunto – dalle relazioni articolate sul quadrato semiotico della Forma Merce. Le “maschere di carattere” dei possessori delle merci – intesi come loro venditori e acquirenti – riceveranno il loro contenuto semantico nel momento in cui Marx introdurrà l’opposizione tra le due soggettività fondamentali del modo di produzione capitalistico: cioè l’opposizione tra capitalisti e lavoratori. Da questa prospettiva, la mia ipotesi è che gli attori della “narrazione” marxiana siano costituiti dalla classe dei proprietari dei mezzi di produzione (lavoro morto) e dalla classe dei proprietari della forza lavoro (lavoro vivo). Fig. 3 – Quadrato semiotico dello scambio (disuguale) tra lavoratori e capitalisti. 96 5. Conclusioni In queste pagine, ho provato a mostrare come la dialettica della Forma di valore possa essere considerata l’algoritmo che genera un processo continuo di dematerializzazioni e rimaterializzazioni. A eventuale – ulteriore – supporto di questa proposta, propongo di leggere il capitolo terzo del Libro primo del Capitale – intitolato “Il denaro ovvero la circolazione delle merci” – come un testo in cui vengono presentate efficacemente delle traduzioni intersemiotiche. Come visto, la dialettica della Forma di valore designa l’oro come materialità appropriata della Forma Denaro: l’oro diviene merce-denaro grazie alla sua proprietà materiale di essere “scomponibile e ad arbitrio di nuovo ricomponibile” (Marx 1867, p. 102); una qualità che rende l’oro – e gli altri metalli preziosi – in grado di svolgere la funzione di misuratori del valore, cioè di consentire la distinzione puramente quantitativa dei valori delle merci. Ed è a questo punto che Marx pone una traduzione intersemiotica; la distinzione quantitativa dei valori viene rappresentata attraverso un’altra distinzione quantitativa: la scala [Maßstab] del peso dell’oro e degli altri metalli preziosi7. Questo processo traduttivo ha come punto di partenza la prassi sociale che fissa una quantità d’oro corrispondente a una determinata misura di peso – p.es. la libbra, da cui il nome monetario “lira” – e fraziona questa misura in altre misure di peso – p.es. le once. Queste denominazioni delle misure di peso dei metalli preziosi – principalmente oro e argento – diventano denominazioni del denaro e, di conseguenza, denominazioni della scala dei prezzi. Il prezzo è quindi una “denominazione monetaria [Münzname]” (ivi, p. 81); un nome numerico che traduce un determinato peso d’oro; dunque, un’altra quantità, un altro nome numerico. Una traduzione da un’unità di misura a un’altra unità di misura, da un numero a un altro numero. Come figura [Gestalt] della Forma Denaro, la moneta [Die Münze] – definita da Marx “segno di valore [Das Wertzeichen]” (ivi, p. 138) – è un pezzo d’oro avente lo stesso nome [gleichnamig] del peso dell’oro. Tuttavia questa omonimia si interrompe nel momento in cui, passando di mano in mano, le monete d’oro si consumano, perdono il proprio peso: letteralmente, si dematerializzano. Il corpo deperibile dell’oro non assolve più la sua funzione di denaro in maniera efficiente. E così, a partire dal medioevo, si afferma la tendenza a trasformare l’essere d’oro della moneta [das Goldsein der Münze] in una parvenza d’oro [Goldschein], una parvenza che può essere assunta da simboli [Symbole]; cioè, una parvenza che può essere assunta prima da monete di altro materiale – p.es., di argento o di rame – e successivamente da “cose relativamente prive di valore, cedole di carta” (ivi, p. 140) il cui carattere puramente simbolico è ancora più evidente (cf. ibidem). Si afferma in questo modo il “denaro cartaceo statale con corso forzoso” (ibidem). Dunque, dice Marx, il denaro cartaceo è segno d’oro, ossia segno di denaro. Il suo rapporto coi valori delle merci consiste solo nel fatto che essi sono espressi idealmente negli stessi quanta d’oro, che vengono esposti simbolicamente ai sensi dalla carta. Solo nella misura in cui è rappresentante di quanta d’oro, che, come tutti gli altri quanta di merce, sono anche quanta di valore, il denaro cartaceo è segno di valore (ivi, p. 141). L’essere divenuto segno di valore implica che l’esserci materiale [materiell] del denaro è stato assorbito 8 dal suo esserci funzionale [funktionell Dasein]. Il denaro può così ridursi a mera funzione priva di corpo metallico. Con questa breve ricostruzione dell’esposizione marxiana della Forma Denaro ho provato a mostrare come, in un processo di manifestazione attraverso forme differenti, il valore abbia preso corpo in materie 7 Dice, a questo proposito, Marx: “pima di diventare denaro, oro, argento e rame posseggono già tali scale nei loro pesi metallici” (ivi, p. 110). 8 Marx usa il verbo absorbieren. 97 differenti: dapprima si è materializzato nell’oro; ma la dematerializzazione dell’oro ha reso necessaria l’istituzione sociale di un segno di valore – il denaro cartaceo – e, con esso, la designazione di una nuova materia adeguata allo sviluppo della forma di valore – la carta, appunto. Questa ricostruzione potrebbe supportare quanto affermato da Rossi-Landi a proposito del carattere tipicamente semiotico (cf. Rossi- Landi 1968, p. 119) della critica marxiana dell’economia politica. Attraverso l’esposizione della Forma di valore, Marx mostra il carattere segnico-comunicativo delle complesse relazioni che si stabiliscono tra le proprietà di determinati materiali e le funzioni sociali che quegli stessi materiali sono chiamati ad assolvere. Questo tentativo di lettura semiotica dei rapporti tra le categorie di Forma, Sostanza e Materia(/e) si conclude con alcune considerazioni sulla metafora utilizzata da Marx -- con un tono tra l’allegorico e il satirico (cf. Sutherland 2008, p. 9) – per identificare la Sostanza di valore: la gelatina [Gallerte]. Precedentemente, ho accennato al fatto che l’attributo materiale della Sostanza di valore – il suo carattere “gelatinoso” – sia il risultato di un processo operato dalla Forma di valore; in questa prospettiva – e coerentemente con l’impostazione greimasiana – la Forma di valore “‘informa’ [la materia] mentre ‘forma’ l’oggetto conoscibile” (Greimas, Courtés 1979, p. 148) – lo stesso principio della Darstellung. Verrebbe da chiedersi perché Marx abbia scelto proprio questo materiale – la gelatina [Gallerte] – per parlare della Sostanza. Una scelta casuale? Ovviamente no. Si potrebbe dire che, connotando la Sostanza di valore come una gelatina, Marx abbia voluto provocare uno specifico effetto di senso (cf. Greimas, Courtés 1979, p. 117). Secondo Keston Sutherland, raffigurando il lavoro astrattamente umano come una gelatina, “Marx non ha voluto semplicemente dare un’informazione ai lettori, ma disgustarli” (2008, p. 7, trad. mia). Citando la voce “Gallerte” della Meyers Konversations-Lexicon – un’enciclopedia molto nota all’epoca di Marx -- Sutherland mostra come il termine sia un esplicito riferimento alla gelatina animale: una “massa semisolida e tremula, ottenuta raffreddando una concentrato di soluzione collosa” (ivi, p. 8). Un concentrato colloso che si può ottenere facendo bollire – e raffreddare – le più svariate materie di origine animale: “carne, ossa, tessuto connettivo, colla di pesce, corna di cervo, ecc.” (ibidem, trad. mia). Secondo Sutherland, il paragone con il lavoro umano è chiaro: prima di essere erogata in cambio di un salario, la forza lavoro umana – il “dispendio produttivo di cervello, muscoli, nervi, mani ecc. umani” (Marx 1867, p. 54) – si trova in uno “stato fluido” (ivi, p. 61). Il lavoro vivo si coagula in una gelatina di lavoro umano indistinto nel momento in cui viene erogato – cioè, sfruttato oltre il tempo di lavoro necessario – in cambio del salario – la forma monetaria dei beni che consentono la riproduzione dei lavoratori – e le merci prodotte vengono scambiate sul mercato – realizzando un plusvalore. Il Denaro come capitale – stadio finale della Forma di valore – ha trasformato una materia fluida e vivente in una gelatina esanime: “le mani, i cervelli, i muscoli e i nervi viventi dei lavoratori sono solo mere ‘sostanze animali’, ingredienti al banchetto del capitalista” (Southerland 2008, p. 8, trad. mia). In questa prospettiva, si può dire che la metafora della “gelatina” sia un punto di arrivo – a mio modo di vedere – semioticamente interessante. La Sostanza di valore è il risultato di una serie di trasformazioni – e traduzioni – in cui entrano in gioco materiali differenti (i corpi delle merci, i corpi dei lavoratori, l’oro) e pratiche sociali semiosiche (la produzione e lo scambio di merci). Queste trasformazioni non potrebbero avvenire senza un determinato rapporto formale, di cui è possibile ricostruire – almeno in parte – il funzionamento. Vorrei concludere sottolineando che il mio tentativo di inquadramento semiotico della teoria marxiana è ben lontano dall’essere esaustivo, e il risultato che ho provato a raggiungere in questo lavoro non è che un’ipotesi da sviluppare attraverso ricerche future. 98 Bibliografia Bankov, K., “From gold to futurity: a semiotic overview on trust, legal tender and fiat money”, in Social Semiotics, 29, 3, pp. 336-350. Bellofiore, R., 2009, “Marx e la fondazione macro-monetaria della microeconomia”, in R. Bellofiore, R. Fineschi, a cura, Marx in questione. Il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory, Napoli, La Città del Sole, pp. 151-208. Bellofiore, R., 2013, “Il Capitale come Feticcio Automatico e come Soggetto, e la sua costituzione: sulla (dis)continuità Marx-Hegel”, in Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità. www.consecutio.org/2013/10/il-capitale-come-feticcio-automatico-e-come-soggetto-e-la-sua-costituzione- sulla-discontinuita-marx-hegel/. 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Mixology e creazioni elementali. Trasformazioni semiotiche della materia liquida Alice Giannitrapani Abstract. This paper focuses on the art of mixology, taking into consideration the transformations of matter that ingredients go through in their preparation, on the basis of an analysis of the recipe books dedicated to the topic. We will begin by questioning the meaning of the term cocktail and will continue by identifying the elementary composition of a drink to then focus on four aspects: 1) operations on the ingredients: the creation of a cocktail involves the execution of actions that can be described according to the terminology used by Bastide (1987); 2) material characteristics of the drink: different mixing techniques produce different effects in terms of colourations, consistencies, kinds of drinks produced; 3) intersubjectivity/interobjectivity: from production to tasting, several subjects and objects intervene and they are linked to each other in chains of relations definable in attantial terms; 4) enunciational subjects: the mixologist and the taster are required to master specific gestural syntagmas that produce further materiality effects. 1. Introduzione Il mondo del cocktail incrocia aspetti sociali e tecnici, salutisti ed edonistici e, nella sua complessità, si presta a essere studiato da diversi punti di vista. Se ne può tracciare una storia, se ne possono prevedere tendenze, si può analizzare il valore – relazionale – che ciascun drink assume sulla base di ciò che lo accompagna e/o dell’occasione di consumo. Affronteremo qui, tra i tanti tagli possibili, quello del discorso sulla materia. Faremo questo sulla base di quanto emerge da alcuni manuali sui cocktail1 (le pubblicazioni – più o meno specialistiche – sull’argomento sono tantissime), prendendo dunque in considerazione il dover essere e il dover fare (di bevande, bartender e degustatori) e tralasciando tutto l’ampio e pur interessantissimo ambito relativo all’etnografia del bere, ovvero agli usi concreti che dei drink si fanno. Le origini dei cocktail sembra siano legate alla necessità di ingentilire il sapore di alcune sostanze medicalizzanti, da cui Bitter curativi, mixati con acqua, zucchero e distillati da utilizzare come cura contro i morsi di serpente (Jerry Thomas Project 2019). Tra fine 700 e inizi 800, la miscela di liquidi edibili transita dal discorso medico a quello gastronomico (caso non inedito nel campo alimentare, se si pensa che un simile excursus è toccato alla Coca-Cola; cfr. Mangano 2014), istituzionalizzando il cocktail come bibita da gustare – ludicamente – per puro piacere e non – in termini pratici – a fini di cura. Secondo sorti alterne, che, come sempre, hanno intrecciato congiunture storiche, economiche, sociali (si pensi al proibizionismo, che provocò la diffusione dei cosiddetti speakeasy, bar segreti in cui si poteva consumare alcool), la moda dei drink mixati arriva fino a noi, imponendosi in nuovi generi di pasto (l’aperitivo, l’apericena, l’happy hour) e affermando nuovi luoghi della commensalità (lounge bar, concept bar, fino alle iperspecializzate ginerie o gintonicherie contemporanee). 1Si farà riferimento in particolare a Baiguera e Caselli (2021); Jerry Thomas Project (2019); Mastellari (2021); Mastellari e Ceccarelli (2018), che costituiscono il corpus di questo lavoro. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Grande impatto hanno avuto poi sulla storia dei cocktail i discorsi mediatici, che, andando a legare indissolubilmente bevande e personaggi, hanno contribuito, contemporaneamente, alla mitizzazione di entrambi. Da Hemingway, noto consumatore che ha dato il nome a uno dei cocktail ufficialmente riconosciuti dall’IBA (International Bartender Association), a 007 e il suo Vesper Martini – rigorosamente mescolato e non shakerato –, passando per il Latte+ venduto al Korova Milk bar con cui si apre Arancia meccanica (“Il Korova Milk Bar vende lattepiù, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quel che stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza”; Kubrick 1971) e naturalmente a Cocktail (Donaldson 1988) con Tom Cruise, che tanto diffuse la moda del flairtending su cui ritorneremo. Solo per citarne alcuni ovviamente. 2. Il termine cocktail Per iniziare ad addentrarci in questo composito mondo, partiamo dalla definizione dizionariale: ‹kòkteil› s. ingl. [propr. «coda (tail) di gallo (cock)», ma la formazione della parola non è certa; tra le varie etimologie proposte, la più probabile e più accolta è quella che ritiene la voce una riduzione dell’angloamer. cocktailed (horse) «cavallo cui è stata parzialmente tagliata la coda, che si raddrizza come quella di un gallo», da cui «cavallo bastardo» (in quanto tale operazione non veniva fatta su cavalli di razza), e per estens. «uomo imbastardito», e infine (inizio sec. 19°) «bevanda bastarda» preparata cioè con un miscuglio di varî ingredienti] (pl. cocktails ‹kòkteil∫›), usato in ital. al masch. – 1. Bevanda alcolica costituita in genere da una miscela di vermut o vini da dessert, a volte anche di champagne, oppure succhi di frutta, con liquori forti, dolci oppure secchi (whisky, gin, cognac, vodka etc.), talora con l’aggiunta di aromi o liquori amari, preparata in proporzioni assai variabili al momento dell’uso e sbattuta o mescolata, per lo più con ghiaccio in frantumi, in un recipiente chiuso (detto shaker) o in apposito bicchiere. 2. Lo stesso che cocktail-party (v.). 3. a. estens. Come termine generico, preparazione gastronomica formata con vari ingredienti; particolarm. noto e diffuso il c. di scampi (o di gamberetti, o anche d’aragosta), raffinato antipasto ottenuto con code di questi crostacei lessate e, se necessario (come nel caso dell’aragosta), tagliate a pezzetti, presentate in una coppa di cristallo sopra foglie di lattuga e ricoperte con una sorta di maionese leggera e vellutata, preparata sbattendo insieme tuorlo d’uovo sodo schiacciato, senape, olio, succo di limone, sale, pepe, salse aromatiche, cognac o brandy e panna liquida. b. fig. Miscuglio di più cose o elementi (cfr. l’uso simile di macedonia): un profumo ottenuto con un c. di varie essenze orientali; un c. di canzoni; un c. di razze; un cocktail di farmaci2. Cocktail indica innanzi tutto una bevanda “alcolica”, dice il dizionario. Non a caso, i mix analcolici, peraltro oggi di moda, sono chiamati mocktail – cocktail finti – poiché appunto non alcolici. La presenza dell’alcol è in altri termini ciò che fa di un mix edibile di liquidi, un cocktail. Altro tratto definitorio è proprio l’essere un miscuglio di sostanze, di più cose diverse tra loro, in un’accezione che tende sempre ad avere un senso negativo, a tratti dispregiativo. L’idea di miscuglio, tratto semantico identitario della bevanda, permane anche nella traduzione futurista italianizzata del termine. Marinetti & co. parlavano infatti di polibibite, sottolineando grazie al prefisso la compresenza congiunta di più sostanze. La ricetta di un cocktail è dunque sintetizzabile in un’operazione di affermazione che consente di passare da ingredienti dotati di una propria individualità (ingredienti intesi come totalità integrale) a un composto che si presenta come unità integrale. Questo passaggio è reso possibile da una metaoperazione sulla materia – “meta” in quanto, come vedremo, ne prevede altre inglobate al suo interno – di 2 È la definizione che ne dà il Treccani online, www.treccani.it/vocabolario/cocktail/ (consultato il 20 maggio 2023). 101 miscelazione, ovvero quell’operazione che nei termini di Bastide (1987) consente di passare da uno stato semplice a uno composto. Diversi studi hanno messo in luce come la sensibilità culturale alimentare si sia mossa nel tempo da una cucina sintetica a una analitica, da una in cui ingredienti e sapori sono fusi fino a divenire inconfondibili a una in cui prevale invece la discontinuità, la giustapposizione di gusti e ingredienti, riconoscibili nella loro singolarità (Montanari 2004). Due tendenze che presuppongono patti comunicativi diversi con l’enunciatario (cfr. Marrone 2022 e infra par. 6). Di simili argomenti ha parlato anche Rykwert (1982), sottolineando come la cucina sia passata dalla valorizzazione di un’estetica del liscio, in cui prevaleva l’amalgama indifferenziato (pensiamo – dice l’autore – alla maionese o alla besciamelle, come emblema di salse di quel tipo di cucina), a quella di una estetica del grezzo, in cui gli alimenti sono riconoscibili. Il carattere materico del grezzo rimanda sul piano del contenuto alla valorizzazione dell’imperfezione, che a sua volta si lega all’artigianalità contrapposta al liscio perfetto tipico dei prodotti industriali. Non è un caso che questa estetica materica del grezzo costituisca una moda trasversale rispetto a diversi discorsi – pensiamo alla valorizzazione del grezzo nell’ambito della moda (dove spesso le etichette sottolineano come la presenza di eventuali imperfezioni nella texture dei tessuti non sia un difetto ma garanzia di produzione artigianale) o in quello alimentare (dove vanno di moda biscotti, fette biscottate, paste dalla texture bitorzoluta). Il cocktail è in questo senso una bevanda demodé: fa del liscio, del barocco, del sintetico il suo baluardo identitario. Sebbene vada sottolineata l’emergenza, anche in questo ambito, di tendenze alla separazione. Basti per tutti l’esempio di cocktail stratificati, ottenuti con la tecnica del layering, che ha come esito una bevanda in cui la cui coesistenza di materie è resa immediatamente visibile sul piano topologico e cromatico (Fig. 1). Fig. 1 – Cocktail stratificato, preparato con la tecnica del layering. Tornando al dizionario, il mix cui si riferisce il termine cocktail ha la caratteristica di essere indeterminato: nella definizione 1 colpisce la ricorrenza di termini come “in genere”, “per lo più”, “in proporzioni variabili” e il gran numero di “o” e “oppure” che indicano tutte possibili virtuali variazioni paradigmatiche la cui realizzazione non fa venir meno l’idea di cocktail. Il cocktail è insomma un mix, non si sa bene di cosa, né in che termini. Per sineddoche (definizione 2) “cocktail” indica un genere di ricevimento caratterizzato da una certa forma di socialità e da una specifica sequenza alimentare. Di seguito la definizione che il Treccani online dà di cocktail-party: 102 ‹kòkteil pàati› locuz. ingl. [comp. di cocktail e party] (pl. cocktail-parties ‹… pàati∫›), usata in ital. come s. m. (e comunem. pronunciata ‹kòkteil pàrti›). – Ricevimento, di solito del tardo pomeriggio, in cui si servono bevande alcoliche, bibite, sandwich e sim.: essere invitato a un c.-p.; abito da c.-p., abito elegante da tardo pomeriggio3. Si tratta dunque di una festa elegante ma allo stesso tempo poco strutturata, in cui si degustano bocconi leggeri e bevande alcoliche (i cocktail, appunto) e che riesce addirittura a dar vita a un preciso genere di abbigliamento (l’abito da cocktail, sobrio ed elegante, ma non troppo). La definizione 3a tiene fermo il motivo del miscuglio, allargando il campo semantico dal mondo delle bevande al più generale discorso alimentare, indicando preparazioni allo stato solido ma che ancora una volta producono un amalgama confuso, in cui tendono a perdersi le distinzioni tra ingredienti. Infine (definizione 3b), il motivo del miscuglio si estende al di là del discorso gastronomico, e l’estensione corre in parallelo a una ancor più esplicita disforia associata al termine. Il cocktail indica qualcosa di imbastardito, sia esso un prodotto alimentare, sonoro, olfattivo etc. L’essenza “bastarda” è presente in una delle possibili origini del termine, riportata nel Treccani online in apertura, ma anche in tutte le pubblicazioni che parlano di cocktail, riferendosi alla coda che veniva mozzata ai cavalli non di razza e che la faceva somigliare a quella di un gallo. Dalla lettura del dizionario emergono insomma alcune proprietà identitarie dei cocktail riassumibili in: miscuglio, indeterminatezza, ampia varietà, mancanza di purezza. I cocktail sarebbero dunque per definizione bevande ibride (cfr. Marrone 2023), perché ambigue, difficilmente definibili, risultanti di assemblaggi di elementi precedenti dotati di una propria identità, destinata in qualche modo a perdersi con la miscelazione. 3. Componenti Come è noto, la ricetta è un testo programmatore che fornisce all’enunciatario un saper fare, calibrando, sulla base della competenza presupposta del lettore, ciò che può rimanere implicito e ciò che invece va esplicitato (Greimas 1983; Marrone 2016). La ricetta mette in scena un vero e proprio racconto che, a livello narrativo, prevede l’esecuzione di programmi e sottoprogrammi, in cui umani e non umani sono chiamati a coordinarsi per la riuscita del piatto (nel nostro caso, della bevanda). A leggere i libri sui cocktail e le relative ricette, si apprende che la struttura profonda della bevanda è composta da tre categorie di elementi: 1. Base (solitamente un distillato, ma anche un liquore o un succo di frutta): in termini attanziali, lo possiamo definire come il soggetto del cocktail, quello che gli fornisce il tratto caratteriale fondamentale; 2. Coadiuvante (può essere un Vermouth, uno spumante, un succo etc.): è l’aiutante della struttura interna del cocktail, ciò che gli attribuisce una specifica funzione (per es. un Vermouth rende il drink un pre-dinner; un succo può servire a diminuire il tenore alcolico della bevanda etc.); 3. Correttore (un succo, uno sciroppo, una scorza di agrume etc.): è una sorta di aiutante secondario che agisce non come il precedente in termini categoriali, conferendo una precisa direzione alla ricetta, ma aggiungendo sfumature e generando trasformazioni spesso descritte in termini di “note” plastiche: note di colore, sentori di profumo etc. Vale, trattandosi di struttura profonda dell’enunciato-cocktail, il principio attanti/attori: il ruolo ricoperto da ogni singolo componente non dipende dalla specificità dell’ingrediente ma dalle relazioni che esso intrattiene con gli altri (tale per cui un succo può, a seconda dei casi e degli abbinamenti, essere una base, un coadiuvante o un correttore). 3 www.treccani.it/vocabolario/cocktail-party (consultato il 20 maggio 2023). 103 3.1. Il ghiaccio Uno statuto peculiare in questa struttura occupa il ghiaccio, ingrediente/non ingrediente che trasforma il cocktail ma che è a sua volta una materia trasformata. Da cui tutta una serie di questioni propedeutiche a esso relative: da dove proviene? L’acqua di cui è composto è pura o impura? E, cosa non meno importante di cui gli esperti tengono conto, che odori ha assorbito nel processo di congelamento (odori che potrebbero a loro volta riversarsi nel drink contaminandolo)? Questa fondamentale componente dota il cocktail di una matericità interna in evoluzione: le preparazioni con ghiaccio si trasformano infatti al trascorrere del tempo (si vanno diluendo), cosa di cui i dosaggi previsti nella ricetta devono tener conto a monte. Se mal utilizzato, questo ingrediente può rivelarsi un temibile antisoggetto in grado di mandare a monte l’intera preparazione. Il punto di equilibrio si raggiunge con una giusta misura: il ghiaccio deve diluire – smorzando anche la forza alcolica di preparazioni a elevata gradazione – ma non troppo; deve sciogliersi – e così trasmettere la sua temperatura agli ingredienti –, ma non annacquare. La ricetta deve cioè strategicamente prevedere la capacità di diluizione dei cubetti e il tempo di degustazione. Ne consegue, con riguardo a quest’ultimo aspetto, che la bevanda va bevuta senza troppa fretta ma neanche con eccessiva lentezza, ovvero che c’è una “giusta” temporalità e un corretto ritmo del bere inscritti nel cocktail stesso e nella sua ricetta. Per questo i ricettari si affannano a fornire suggerimenti su come calibrare il ghiaccio in termini di quantità, forma e presenza nella bevanda: se i prodotti sono ben freddi, ad esempio, sarà sufficiente un blocco unico, che, avendo minore superficie di contatto con il composto, diminuirà la diluizione; per lo shaker meglio utilizzare i cubetti, ma non fino a riempire il contenitore; con la tecnica del blend il ghiaccio, frullato, serve a garantire una giusta consistenza – morbida – al drink; etc. (Mastellari 2021). Tutti i manuali dedicano all’uso del ghiaccio grande spazio, anche perché si rivela un’interfaccia mediatrice rilevante: esso deve adattarsi alla forma del contenitore per la preparazione (shaker, mixing glass, blender), a quella del bicchiere che ospita la bevanda finita e, allo stesso tempo, alle caratteristiche della composizione del drink. L’ossessione per il raffreddamento senza annacquamento prevede poi tutta una serie di pre-operazioni sulla materia che, nei termini di Bastide (1987), possiamo indicare come selezioni: tra gli oggetti del bartender, per esempio, il secchiello deputato a contenere il ghiaccio ha una base filtrante che consente di raccogliere separatamente l’acqua che via via si va formando; allo stesso modo, nel bicchiere e nello shaker, prima di introdurre gli ingredienti, si devono far ruotare per un po’ dei cubetti nel contenitore, al fine di raffreddarlo, e poi filtrare con lo strainer (il colino del bartender) in modo da eliminare l’acqua in eccesso e lasciare la parte solida. La selezione si rivela una preliminare operazione che tende a una purificazione del ghiaccio e, con esso, dell’intera bevanda (Bastide 1987). Ancora, in alcune preparazioni, il ghiaccio è bandito: utilizzato come elemento di raffreddamento iniziale del bicchiere, viene poi del tutto eliminato. Anzi, per alcuni puristi, i cocktail migliori sono proprio quelli privi di cubetti e serviti invece in bicchieri ben refrigerati. In generale, questo ingrediente/non-ingrediente ha uno statuto ambiguo nella composizione del drink. Non apporta un sapore ma trasforma quello degli altri e allo stesso tempo ha una forte personalità: è un soggetto operatore delegato in grado di provocare trasformazioni sulle materie (raffredda, diluisce, trasforma consistenze). 104 4. Classificazioni Nei discorsi più o meno tecnici che circolano sui cocktail, capita di imbattersi in varie tipologie che seguono differenti criteri di catalogazione delle bevande. C’è innanzi tutto una classificazione riconosciuta dagli addetti del settore, promossa dall’International Bartender Association (IBA), che incanala i novanta cocktail “ufficiali” in tre categorie, distinte sulla base di quella che è la permanenza del drink nella memoria collettiva: si identificano così gli unforgettable, i cocktail storici, tanto da essere definiti come indimenticabili; i classici contemporanei, tradizionali ma di più recente ideazione; e i new era drinks, legati alla contemporaneità. Assimilabili alle tre storie teorizzate da Braudel (1949), i primi si troverebbero in linea con la storia di lunga durata, permanenti e quasi immobili; i secondi con una storia intermedia, radicata ma più superficiale; gli ultimi con una storia di breve durata, che cattura avvenimenti non si sa quanto destinanti ad avere effetti sistemici. Va sottolineato come attraverso la classificazione IBA (inaugurata nel 1961 e periodicamente rinnovata) si istituisca una vera e propria langue del bartending, nel senso che si definiscono preparazioni ufficiali e ricette standard, istituzionalizzando allo stesso tempo alcuni cocktail (e, di converso, facendone cadere nel dimenticatoio altri, gli esclusi). Le preparazioni entrano nella langue per prassi enunciativa, che tiene conto delle ripetizioni di atti, di stabilizzazioni di usi, di creazioni di norme e, in ultimo, di definizioni di schemi. Quotidianamente nuovi cocktail vengono inventati da barman più o meno affermati, ma poche creazioni vengono riprese, diffuse e rilanciate e possono ambire a ricevere questo riconoscimento ufficiale; altre, invece, nel tempo non vengono più “parlate”, riprodotte e reiterate e fuoriescono progressivamente dalla gastrosfera di riferimento. Ne consegue una topografia cangiante, variabile nello spazio e nel tempo. I cocktail oscillano sempre tra un dover essere posto come assoluto nella ricetta e tanti poter essere cui le continue variazioni nella realizzazione danno vita (e che di fatto rimettono in discussione lo statuto definitivo del testo programmatore). Dinamica magistralmente esemplificata in Come si fa un Maritini4, dove bartender, aiuti bar e avventori per caso riuniti di fronte a un bancone disquisiscono in più punti sulla “vera” composizione del cocktail Martini, sulle dosi di vermouth e gin e sul loro “corretto” equilibrio da raggiungere. E ciascuno dei presenti, certo di possedere l’autentica ricetta, contraddice l’altro e legittima la propria posizione in virtù di una presunta verità che imputa a un qualche istanza di destinazione superiore (Hemingway, il manuale sui cocktail, l’Harris bar etc.) detentrice del valore di verità. Proponendo ricette “ufficiali” l’IBA sancisce altresì l’importanza della replicabilità del cocktail. La serialità che ne deriva fa della mixology un’arte allografa (Goodman 1968), quasi una scienza esatta, in linea nei suoi principi più con la pasticceria (in cui la precisione di dosi è la regola da seguire per la garanzia del risultato) che con la più generale arte culinaria (in cui i q.b., i pizzichi e gli “aggiustamenti” sono la norma; cfr. Marrone 2016). Chiaramente, dato il type, il token è in mano al mixologist e agli ingredienti. La qualità di questi ultimi è unanimemente promossa come una delle caratteristiche fondamentali per la riuscita della ricetta; da cui l’enorme attenzione per i prodotti da parte dei bartender. Una cura che non si limita ai distillati, ma si estende alle componenti analcoliche, come la tonica o i succhi, i cui brand – specie se artigianali e di nicchia – vengono sempre più spesso snocciolati nei locali à la page per costruire un effetto di specializzazione e di expertise in ambito mixology. L’ossessione per la precisione e la replicabilità della ricetta emerge anche da alcune strumentazioni del bartender. Il jigger, ovvero il misurino a doppio imbuto (Fig. 2), per esempio, consente di dosare velocemente – la velocità sempre richiesta al bartender – la quantità dell’ingrediente utilizzato, scientificizzando il lavoro del preparatore. Così come, in termini ancor più prescrittivi perché delegati sull’oggetto (Latour 1993), intervengono i tappi dosatori, che predefiniscono esatte quantità di liquido in uscita (il tappo da 20, inserito nella bottiglia, farà sì che per ogni versamento fuoriusciranno 20ml di 4 Si tratta di un racconto contenuto in Come i delfini di Marina Mizzau (1988), da cui è stato tratto l’omonimo film (Stella 2001). 105 quell’ingrediente, Fig. 3). Esistono anche, a dire il vero, dei cosiddetti tappi versatori, dotati di un beccuccio che incanala il flusso in uscita ma lascia in mano al mixologist la competenza del dosaggio. In tutte le pubblicazioni sui cocktail vengono proposte le ricette IBA (oltre a ricette di altri cocktail classici ma esclusi dalla lista ufficiale, per tutti, caso in Italia eclatante, il Gin Tonic). Accanto a esse, però, compaiono spesso proposte di variazioni sul tema, i cosiddetti twist o twist on classic, tocchi che personalizzano la norma, quando non ricette di nuove creazioni. Tentativi di autorializzazione provenienti da parte di bartender affermati, che, solo in quanto tali, esperti e competenti, possono permettersi di distaccarsi dallo schema condiviso e di innovarlo. Talvolta c’è una vera e propria artificazione del cocktail, con bartender-star che propongono nuove creazioni a partire da stravolgimenti operati sulla materia. Si pensi ai cocktail solidi, in cui l’alterazione dello stato, modifica una delle proprietà semantiche necessarie del drink: la sua liquidità. Del cocktail definito dal dizionario, in altri termini, rimane solo l’idea di mix. Fig. 2 – Jigger. Fig. 3 – Tappo dosatore. Altre classificazioni dei cocktail (Baiguera, Caselli 2021) si focalizzano su: 1. quantità di liquido previsto: si possono distinguere così short, medium e long drink. È una tipologia che si basa su caratteristiche quantitative delle bevande, dunque ha come focus l’oggetto di gusto. 2. momento del consumo, che rileva la scansione aspettuale del drink rispetto al più ampio sintagma- pasto in cui si inserisce: avremo così i pre-dinner o aperitivi (con funzione incoativa), gli after dinner o digestivi (con funzione terminativa), gli all day drink, spesso coincidenti con i long drink o dissetanti (caratterizzati da una aspettualità iterativa). Questa tipologia si focalizza sulla degustazione, dunque ha come focus l’enunciatario presupposto dalla bevanda. 3. tecnica di preparazione, che prende in considerazione il modo in cui gli ingredienti sono assemblati tra loro: ci saranno i cocktail realizzati con la tecnica build, con lo strain, con lo stir etc. Si tratta di una classificazione che si focalizza sul lavoro del barman, dunque sulla figura dell’enunciatore. Essendo la tipologia che più si ricollega alle trasformazioni operate sulla materia, sarà quella su cui ci soffermeremo nel prosieguo. 5. Tecniche di costruzione Le tecniche di costruzione si legano a precisi luoghi utopici di trasformazione della materia (Greimas 1983) e prevedono una serie di processi traducibili in quelle che Bastide (1987) chiama operazioni elementari (ed elementali, potremmo dire), accoppiate a due a due. A due a due perché la fabbricazione di un oggetto, che la studiosa intende come pratica di bricolage, prevede l’alterazione di alcune caratteristiche delle componenti di partenza (una negazione o trasformazione del loro valore) finalizzata 106 alla produzione di un nuovo oggetto (e all’affermazione, di conseguenza, di un nuovo valore). Di seguito una breve ricognizione delle principali tecniche di preparazione dei cocktail. 5.1. Build (e pestati) Con il build l’operazione di miscelazione avviene nel bicchiere da servizio (in questa tecnica cioè il luogo utopico della preparazione coincide con quello della degustazione). Una preliminare operazione richiesta è quella che riguarda il raffreddamento del contenitore: il ghiaccio va inserito nel bicchiere, mescolato, e scolato con un cucchiaio forato per separare il ghiaccio dall’acqua in eccesso (un’operazione di selezione, nei termini di Bastide 1987, cfr. par. 3.1). La composizione del cocktail è semplice poiché prevede la miscelazione degli ingredienti con un bar spoon – il tipico cucchiaio dal manico lungo del bartender. Unica accortezza, la direzionalità del gesto: si mescola dal basso verso l’alto, in modo da amalgamare le sostanze più pesanti, che tendono ad andare verso il fondo, con quelle più leggere (in superficie). In ultimo, si aggiunge la guarnizione, che a sua volta prevede una serie di programmi aggiuntivi rispetto a quello principale (Greimas 1983): si tratterà per esempio di tagliare la scorza di limone (un’operazione di apertura, che consente il passaggio dal compatto al discreto), di intingere una spezia (operazione di espansione dell’aroma della spezia nel liquido) etc. Questa tecnica di costruzione è semplice e si utilizza con ingredienti non troppo alcolici e che dunque non necessitano di essere diluiti con il ghiaccio. La riuscita della ricetta si lega al corretto dosaggio di ingredienti e la miscelazione è blanda, poco intensa. In questo modo vengono ad esempio realizzati il Cuba Libre o il Moscow Mule. Una variante del build è quella che dà vita ai pestati (Mojito, Caipirinha etc.) e prevede, prima dell’introduzione degli ingredienti liquidi, di schiacciare con un pestello – detto muddler – alcuni ingredienti solidi (tipicamente agrumi e aromi, quali possono essere lo zucchero e il lime per la Caipirinha oppure la menta, lo zucchero e il succo di lime per il Mojito). Si aggiunge cioè alla sequenza precedente un’intermedia operazione di apertura, grazie alla quale gli aromi si diffondono poi nel composto. 5.2. Stir Con la tecnica stir, il luogo utopico della trasformazione è il mixing glass, un boccale (solitamente in vetro, più raramente in acciaio) dotato di un beccuccio che agevola il travaso nel bicchiere da servizio. Anche in questo caso la miscelazione è poco intensa, poiché provoca trasformazioni minime: la finalità è semplicemente quella di mescolare sostanze con densità simile (Baiguera, Caselli 2021) e dunque non difficili da unificare e da far reciprocamente compenetrare. Le operazioni sulla materia prevedono per prima cosa il raffreddamento del mixing glass con il ghiaccio (un’operazione di selezione, identica a quella che avveniva con il build direttamente nel bicchiere e descritta al paragrafo precedente). In secondo luogo, vengono introdotti gli ingredienti, a loro volta mescolati insieme al ghiaccio con il bar spoon (operazione di miscelazione). Contrariamente a quanto avviene con il build, qui il movimento richiesto al bartender è rotatorio (e non va dal basso verso l’alto), in modo non solo da raffreddare ma anche da attivare il ruolo diluente del ghiaccio. Il composto viene dunque filtrato grazie allo strainer e versato nel bicchiere da servizio (operazione di selezione). Infine, si completa con la guarnizione che, come nel caso della tecnica precedente, può prevedere operazioni di espansione, apertura etc. Cocktail preparati con questa tecnica sono il Negroni (il cocktail più bevuto al mondo) e il Bloody Mary. 107 5.3. Shake Con lo shake (o shake and strain), il luogo utopico della trasformazione è lo shaker, interfaccia mediatrice tra oggetto di valore (cocktail) e soggetto operatore (barman). La sequenza di base di questa tecnica prevede dapprima il raffreddamento del contenitore: il ghiaccio va inserito nello shaker, mescolato e filtrato (operazione di selezione). Dopo si aggiungono gli ingredienti, che vanno agitati (operazione di miscelazione). Il contenuto va poi filtrato e separato dal ghiaccio, grazie allo strainer (nuova selezione). Infine, nel bicchiere vanno aggiunte eventuali guarnizioni (operazioni di apertura e/o di espansione). A questa sequenza di base possono aggiungersi programmi narrativi paralleli, come per esempio, nel caso del Margarita, la preparazione del bordo del bicchiere con il sale: si crea in questo caso uno strato di materia all’interno della coppa, traducibile come un’operazione di chiusura, ovvero quella che consente di passare dal discreto al compatto. Bevendo, poi, il liquido passerà attraverso il sale, che in esso si espanderà prima di raggiungere il cavo orale (apertura). In generale, con questa tecnica l’operazione di miscelazione è intensa poiché consente non solo di congiungere gli ingredienti, ma anche di alterarne la consistenza di partenza, favorendo, grazie al veloce movimento del liquido, la dispersione di aria (cfr. Mastellari 2021). Il mixaggio è deciso, in grado di amalgamare sostanze anche molto diverse tra loro, fino a farle compenetrare in termini quasi mitici. La preparazione presuppone inoltre precisi sintagmi gestuali (un saper fare da parte di chi utilizza lo shaker) e una logica di aggiustamento (Landowski 2005) rispetto alla materia: la cosiddetta “danza del barman” deve infatti terminare quando si avverte, dicono i manuali, una netta sensazione di freddo e quando lo shaker – spesso antropomorfizzato nelle descrizioni – “canta ad voce alta” (Baiguera, Caselli 2021, p. 99). 5.4. Blend Infine, la tecnica del blend, ovvero quella in cui lo spazio utopico della preparazione è il blender, un frullatore “potente” in grado di tritare il ghiaccio e di utilizzarlo non solo per diluire e raffreddare, ma per alterare radicalmente la consistenza della bevanda, conferendo al cocktail una certa “morbidezza”, tipica dei cosiddetti frozen drink. Con questa tecnica si dà la maggiore intensità di trasformazione della materia: il cocktail tende quasi a divenire granita e ad approssimarsi dunque allo stato solido. In questo caso i ruoli attanziali risultano quasi invertiti: il vero soggetto operatore (che provoca le trasformazioni) è il frullatore, mentre il bartender diventa un semplice aiutante che si limita a inserire gli ingredienti. È significativo allora notare come questo genere di preparazioni sia quasi del tutto assente dai cocktail IBA (limitato a Pina colada e Zombie): come se tale svalutazione del ruolo del mixologist svilisse allo stesso tempo il prodotto delle sue azioni. La sequenza tipo di questa tecnica prevede l’inserimento degli ingredienti nel blender, l’aggiunta del ghiaccio e l’azione del frullare che, nel loro insieme, si caratterizzano come un’operazione di miscelazione. Alcuni manuali suggeriscono di eseguire questa operazione secondo un preciso ritmo dall’andamento parabolico che procede per intensificazione e decremento di intensità in modo da far adattare progressivamente le materie alla trasformazione. Si aggiunge infine la guarnizione, che, come sempre, prevede operazioni di apertura e/o di espansione. Interessante citare un passaggio di uno dei manuali consultati (Baiguera, Caselli 2021): “[…] guarnite e aggiungete le cannucce. Se il frozen è riuscito le cannucce tuffate nel drink restano immobili, sorrette dallo spessore finissimo del ghiaccio tritato” (p. 102). Ancora una volta, sembra che con questa tecnica l’attore umano scompaia, in favore di una totale delega agli oggetti: qui sono le cannucce che sanzionano la corretta consistenza del drink, vero punto critico di questo genere di cocktail. 108 6. Bartender e degustatori Se il cocktail è l’enunciato, rimane da verificare la catena enunciativa in cui esso si inscrive, ovvero individuare l’enunciatore (simulacro testuale del barman – sia esso mixologist, flairtender etc.) e l’enunciatario (simulacro testuale del degustatore, caratterizzato a sua volta da diversi gradi di expertise e abilitato a più o meno liberi interventi sulla materia). Il bartender è colui che mette in forma l’enunciato, facendolo diventare sostanza. Colui che, come in qualsiasi catena enunciativa, trasforma la langue in parole, realizzando la sua creazione. A livello narrativo è un soggetto operatore, che, per svolgere il proprio lavoro, deve prima rendersi competente, cosa che può fare non solo frequentando corsi e scuole di specializzazione (che, anche in questo campo, sono numerose), ma anche allenandosi. Basti questo stralcio: “Per agire in breve con destrezza è sufficiente un periodo di esercizio pratico sotto lo sguardo vigile di un barman o esercitandosi con spirito critico allo specchio, attenti a correggere le posture errate e i gesti scoordinati” (Baiguera, Caselli 2021, p. 96). A essere rilevante, infatti, nella pratica è, come in parte emerso, la gestualità. Una gestualità che i ricettari difficilmente riescono a spiegare e che è più semplice trasmettere per contatto diretto. Una sorta di palestra fa sì che i sintagmi gestuali divengano una danza coordinata introiettata come automatisimo, che si traduce a sua volta in velocità, destrezza, disinvoltura nella realizzazione di drink – caratteristiche identitarie di un bravo bartender. In fondo è proprio questa la traiettoria di Tom Cruise nel già citato Cocktail. Ma al barman è richiesto anche un saper fare di tipo sociale, relazionale, sottolineato nei manuali come qualità altrettanto fondamentale. Il perfetto mixologist deve essere discreto ma allo stesso tempo saper entrare in relazione con il proprio interlocutore, deve essere in grado di ascoltare ma anche di capire quando non farlo. L’aggiustamento che deve saper mettere in atto rispetto agli ingredienti delle ricette è cioè valido anche per la materia umana, dal momento che gli è richiesto di comprendere con grande intuizione l’interlocutore e di adeguarsi di conseguenza. Un vero e proprio fare strategico, che prevede, in quanto tale, di programmare le proprie azioni anche sulla base del simulacro costruito dell’altro e di intervenire, tatticamente, con riprogrammazioni, nel caso in cui si renda conto di una mancanza di allineamento tra idea costruita e consumatore empirico. Il ruolo tematico di mixologist, però, non è unitario, perché è scomponibile in almeno ulteriori due figure, distinte sulla base dello stile di miscelazione preferito. Avremo da un lato il bartender tradizionale, discreto e silenzioso, che prepara le ricette nella parte bassa – nascosta – del bancone; dall’altro il flairtender, caratterizzato da un fare rumoroso e dall’ostentazione delle proprie competenze, che prepara le ricette sulla parte alta del bancone, a servizio di un osservatore/cliente che trae godimento non solo dalla degustazione, ma anche dalla performance che gli si propone di fronte 5 . Anche l’organizzazione degli spazi del bancone, al pari delle articolazioni di cucina a vista o nascosta nei ristoranti (Giannitrapani 2014), presuppone differenti utenti: uno – quello del barman tradizionale – proteso verso la sorpresa di una creazione che gli si propina di fronte nel suo stadio finale; l’altro – quello del flairtender – affascinato dallo spettacolo della preparazione. Scendendo ancor più nel dettaglio, si scopre che il flair può seguire a sua volta due diverse scuole: il working flair, in cui il fare ostentativo si pone a servizio della riuscita del cocktail, e l’exhibition flair, tutto sbilanciato sullo show, in cui il gesto prevale sul prodotto, fino a fargli perdere consistenza e valore. Uno show comunque sinestetico in cui ha un ruolo la musicalità e il ritmo prodotto dalla gestualità del flairtender in associazione con gli strumenti che utilizza, in quella che diviene una musicalità della trasformazione della materia (“Si dice che il mestiere del barman sia musicale: il ghiaccio canta nello shaker e il barspoon 5 Che i due ruoli siano ben distinti lo testimoniano anche le competizioni ufficiali promosse dall’IBA, che dedicano alle due figure challenge differenti. 109 suona a ritmo mentre mescola i prodotti nel mixing glass; i fiotti di liquidi densi e zuccherini gorgogliano mentre i distillati scorrono come acqua leggera che si ode appena”, Baiguera e Caselli 2021, p. 104). Il grado zero dell’enunciatario è quello che degusta, come dicevamo, il drink nei tempi “giusti”: né troppo velocemente (non deve trangugiare ma assaporare), né troppo lentamente (pena il rischio di un drink annacquato). Ma il cocktail, in quanto preparazione sintetica in cui si fondono sapori e consistenze, prevede, come accennavamo, un preciso patto comunicativo: l’enunciatario, infatti, dopo aver riposto fiducia nel preparatore e nella sua abilità a ricreare nuovi sapori a partire da singoli elementi, è in un certo senso sfidato a posteriori a riconoscere e ad apprezzare le differenti componenti, le tecniche utilizzate, le sfumature e le note disseminate nella bevanda (Marrone 2022). In altri termini, più il cocktail si presenta come sintetico, più si delega al degustatore la capacità di discernere, da cui diversi tipi di consumatori, più o meno esperti in questo processo di riconoscimento. Laddove il barman con la preparazione afferma una unità integrale a partire dalla totalità integrale delle componenti (cfr. par. 2), al cliente è richiesta la competenza di risalire ai presupposti della composizione. In alcuni casi, seguendo una più ampia tendenza culinaria, l’enunciatario è presupposto proseguire il lavoro del mixologist, personalizzando la bevanda, aggiustandola secondo i suoi personali gusti. A volte si tratta di dosare a proprio piacimento la tonica nel gin, definendo e calibrando il tasso alcolico del cocktail (l’operazione principale – di miscelazione – diviene propria dell’enunciatario). Altre di scegliere se aggiungere anice stellato o rosmarino da un potenziale ventaglio di aromi che si attualizzano sotto il suo sguardo (nelle mani del bevitore, dunque, l’operazione di espansione). Le trasformazioni sulla materia che il degustatore provoca presuppongono ancora una volta una competenza, nonché un patto seduttivo con il bartender, che lascia incompiuto il lavoro proprio perché consapevole del (e fiducioso nel) saper fare dell’interlocutore. A tali principi si ispira per esempio Dario Comini, star della mixology italiana, proprietario del Nottingham Forest a Milano, che traspone i principi della cucina molecolare nell’arte della mixology, creando cocktail obliqui 6 : drink che negano il loro essere cocktail e che richiedono un lavoro interpretativo (e spesso anche pragmatico) da parte dell’utente per la riuscita della degustazione. Come accade con il Green Lantern, un cocktail fluorescente, che va completato a tavola aggiungendo una vodka infusa con il Butterfly Pea e del carbonato di calcio servito in una provetta. Alla gestualità richiesta al bartender si aggiunge insomma quella richiesta al cliente. Al consumatore che sta al suo posto e si accontenta di degustare si affianca così quello che vuole proseguire l’opera di creazione fino al limite a sostituirsi al creatore. Da cui il fiorire di scatole e abbinamenti più o meno commerciali che consentono di ricevere a casa propria con cadenza regolare bottiglie di gin, toniche ricercate e stuzzichini, in modo da attrezzare un angolo privato professionalizzato dedicato all’aperitivo. Distillati recapitati tra le mura domestiche e manco a dirlo prodotti artigianalmente: perché dopo le birre si è diffusa la moda dei craft spirits, produzioni home made e lontane dall’industriale, con tutto l’effetto di senso di naturalità, genuinità e tradizionalità che si estende così dal campo dei biscotti, delle verdure, del pane a quello dei superalcolici. C’è addirittura la possibilità in pochi click di creare una propria linea di gin, personalizzando sentori ed etichetta e ricevendo a casa la propria creazione. All’estremo opposto, in direzione di un’opera seriale, mera esecuzione sempre uguale a sé stessa c’è NIO, un produttore di cocktail prêt-à-porter, che offre i drink più noti in buste di plastica sigillata, sempre pronte all’uso e da consumare dove si vuole (Fig. 4). 6Il riferimento va a Floch e alle sue analisi sui generi pubblicitari (1990). Il genere obliquo, in particolare, negazione del referenziale, richiede un lavoro interpretativo da parte dell’enunciatario, posto di fronte a un testo che esprime il suo messaggio in maniera indiretta. 110 Fig. 4 – NIO, i cocktail in busta già miscelati. 7. Conclusione Possiamo tentare in conclusione di tradurre la definizione di cocktail fornita dai manuali nei termini delle operazioni sulla materia descritte da Bastide (1987): il cocktail è il risultato di un’operazione di miscelazione, eventualmente preceduta e seguita da operazioni di selezione relative al trattamento del ghiaccio e che solitamente si conclude con operazioni di apertura e/o espansione. In generale il cocktail è quello che consente a ingredienti semplici, che compaiono in uno stato strutturato e concentrato, di passare a un prodotto composto, amorfo ed espanso 7 . La traduzione semiotica delle tecniche di miscelazione consente insomma di andare al di là della superficie variabile descritta nei ricettari con riferimento alle singole bevande, evidenziando la struttura profonda della conformazione di un drink. Sintetizzando le trasformazioni elementali previste dalle diverse tecniche di preparazione, si avrà uno schema di questo tipo: Sequenza di operazioni di base Build Selezione miscelazione apertura o espansione Pestati Selezione apertura miscelazione apertura o espansione Stir Selezione miscelazione selezione apertura o espansione Shake Selezione miscelazione selezione apertura o espansione Blend miscelazione apertura o espansione L’operazione di miscelazione – che ricordiamo essere quella che consente di passare dal semplice al composto – non è una trasformazione di tipo categoriale, ma graduale: a seconda dell’intensità con cui è compiuta, come abbiamo visto, essa pone in ballo diversi semi relativi a diluizione, raffreddamento, 7Ricordiamo che nei termini di Bastide (1987) l’operazione di miscelazione è quella che consente la trasformazione dal semplice al composto, la destrutturazione prevede il passaggio dallo strutturato all’amorfo, l’espansione dal concentrato all’espanso. 111 trasformazioni di consistenza, passaggi di stato. E sulla base di queste caratteristiche i manuali distinguono le diverse tecniche di miscelazione e le classificazioni dei drink: Diluzione Raffreddamento Trasformazione Passaggi di stato di consistenza Build - + - - Pestati - + - - Stir + + - - Shake + + + - Blend + + + + Nell’immaginario collettivo sembrerebbe che la minore intensità di miscelazione possa legarsi a una maggiore autenticità del cocktail, come se la sintesi degli ingredienti appena accennata, tendendo all’analitico, possa far apprezzare le singole componenti senza stravolgerle. Ne sono un esempio le mitizzazioni di personaggi noti abbinati alla mixology: è il caso del già citato Martini mescolato e non shakerato di 007 o del Maritini cocktail di Hemingway, che in alcuni racconti leggendari si vuole preparato semplicemente avvicinando la bottiglia di vermouth al bicchiere (senza miscelare il Martini con il gin). Si ritorna così alla definizione dizionariale da cui siamo partiti e allo statuto ambiguo, tendente al disforico, del motivo del miscuglio. Il bartender, per portare a termine le sue creazioni, deve riuscire a “sentire” gli ingredienti e le loro trasformazioni. Durante la preparazione, il regime di programmazione (che prevede ricette molto dettagliate e relativamente poche varianti, nonché una rigida preparazione dell’angolo bar) man mano piega verso uno di aggiustamento, basato sulla conoscenza di sintagmi gestuali specifici (Giard 1980) e sempre mediato da qualche strumento che si rivela in grado di trasmettere un’estesia transitiva. Emblematico il caso dello shaker, che, attraverso l’acciaio, riesce, come abbiamo visto, a comunicare l’avvenuta trasformazione della materia. Il barman è, soprattutto in questa tecnica, in primo luogo un corpo e la competenza che gli è richiesta è di tipo estesico. Diventa di conseguenza fondamentale quella che possiamo chiamare intermatericità: per la riuscita del cocktail conta il materiale di cui gli oggetti – spesso legati in catene interoggettive – sono fatti, ovvero il modo in cui le materie, interagendo tra loro, provocano trasformazioni. Così, in generale, l’acciaio è preferibile per la semplicità di lavaggio e per il suo essere buon conduttore. O, altro esempio, si pensi alle varianti dello shaker: uno, detto continentale, chiuso e già dotato di filtro integrato; l’altro, detto Boston shaker, formato da una parte in acciaio e una in vetro – posta a servizio di un osservatore che guarda ipnoticamente la trasformazione della materia e che, grazie al vetro, riceve promessa della prossima degustazione (Hammad 2003). Se con il continentale l’operazione di filtraggio è integrata nell’oggetto, con il boston si presuppone l’entrata in gioco di un altro strumento – lo strainer, un filtro flessibile, che, grazie a una molla, si adatta alla bocca dello shaker e consente il filtraggio. O, per finire, si pensi al muddler in legno, sconsigliato da alcuni manuali (Baiguera, Caselli 2021), in favore di un pestello in acciaio o in policarbonato, più facilmente lavabile e meno intriso di odori. Il problema, proseguendo in una antropomorfizzazione degli oggetti deputati al contatto con le materie, è qui quello di una memoria delle precedenti preparazioni che potrebbe alterare la ricetta da realizzare. E in termini di interoggettività conta ovviamente molto anche il bicchiere, che, con la sua forma, anticipa e prefigura alcune caratteristiche del drink (e del bevitore; cfr. Galofaro 2005): le coppe martini saranno in genere deputate a ospitare cocktail privi di ghiaccio; i tumbler alti conterranno long drink o fizz, ovvero bevande poco alcoliche e con molto ghiaccio; viceversa il tumbler basso accoglierà cocktail molto alcolici, da diluire con ghiaccio. Il materiale e la conformazione degli oggetti che sono a monte e a valle del drink rientrano dunque a pieno titolo nella ritualità della preparazione e della degustazione e contribuiscono alla conformazione materica del cocktail stesso. 112 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Baiguera, G., Caselli, U., 2021, Manuale del barman, Milano, Giunti. Bastide, F., 1987 “Le traitement de la matière: opérations élémentaires”, in Actes Sémiotiques, n. 89; trad. it. “Il trattamento della materia”, in G. Marrone, A. Giannitrapani, a cura, La cucina del senso, Milano, Mimesis 2012, pp. 163-185. Braudel, F., 1949, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris, Colin; trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi 1986. Floch, J.-M., 1990, Sémiotique, marketing et communication, Paris, PUF; trad. it. Semiotica, Marketing, Comunicazione, Milano, FrancoAngeli 1992. Galofaro, F., 2005, “Degustare il vino: il bicchiere come macchina sinestetica”, in E|C, www.ec-aiss.it. Giannitrapani, A., 2014, “Ristoranti & co”, in G. Marrone, a cura, Buono da pensare, Milano, Carocci. Giard, L., 1980, “Faire-la-cuisine”, in M. De Certeau, L. Giard, P. Mayol, L’invention du quotidien , vol. II, Paris, U.G.E. 10/18. Goodman, N., 1968, Languages of Art, Indianapolis, Bobbs-Merril; trad. it. I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore 1976. Greimas, A.J., 1983, Du sens II, Paris, Seuil; trad.it. Del senso 2, Milano, Bompiani 1984. 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ec
https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3097
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Il marmo oltre la vena. Per una semiotica alternativa dei materiali Giacomo Festi Abstract. The research presented here starts from an experience of collaboration with the company of Lasa Marmo in Val Venosta, within the framework of a didactic/experimental project of the University of Bolzano, in the design area. Lasa Marmo covers the entire production chain of marble, from quarrying, to processing, to the production of slabs to be placed on the market, mainly addressed to the world of architects, i.e. a further trajectory of processing aimed at site-specific installations. Against this design background, the research grafts a reconsideration of the status of the semiotics of materials. Semiotics has looked at them through the main filter of aesthetics, without forgetting metaphorical convocations, in a more epistemological key. Marble is a striking example of this, starting with its veins, conceived as lines of resistance of the being to be grasped (negatively) from an operability of the materials themselves (the cut). The contribution relocates the semiotics of materials within the framework of a dialogue with design practices on the one hand (Material Driven Design in particular) and with material historians on the other (Bensaude-Vincent), in order to renew the semiotic scientific project. Characterising marble then means not only showing its possible plastic qualities, but also highlighting its paradoxes on an ecosystemic level, between perenniality and instability, sustainability and extraction, iconodulia and iconoclasm. Sustainability, in particular, will become the thematic pivot of a targeted study, linked to the projects of some students throughout the semester. The marble is going to reveal itself as the quintessential material for semioticians, given its unpredictable richness of semiotic possibilities. “Ils ne comprennent pas que je ne peux pas penser autrement qu’en contes. Le sculpteur ne cherche pas à traduire en marbre sa pensée; il pense en marbre, directement” André Gide Oscar Wilde. In Memoriam (Souvenirs) L’esergo di Gide può essere preso a mo’ di monito per il semiotico, che si è spesso pensato, à la Barthes, come un prolungamento naturale dello scrittore: occuparsi di significazione, in quel caso, implica il ragionare per storie, è noto. Lo stesso semiotico saprà tuttavia pensare “in marmo” e il marmo, come lo scultore? Una semiotica dei materiali non può eludere tale questione e per circoscriverla proponiamo un percorso scandito in tre tappe. Innanzitutto, avanzeremo una discussione più teorica relativa allo statuto di una semiotica dei materiali, statuto malcerto non tanto a livello epistemologico, quanto rispetto ad affondi interpretativi o analitici e, conseguentemente, a progetti e programmi di ricerca. In un secondo tempo introdurremo una semiotica del marmo, così apparentemente compromessa con la storia dell’architettura e della scultura, alla ricerca di una propria specificità. Infine, approfondiremo ulteriormente alcuni aspetti della connessione tra marmo e sostenibilità, a partire da un’esperienza di E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). progettazione didattica svolta presso l’Università di Bolzano, all’interno della Facoltà di Design, in ambito di prodotto e in collaborazione con l’azienda Lasa Marmo, di Lasa, in Val Venosta1. 1. Che cos’è una semiotica dei materiali? Qualunque tentativo di inquadramento teorico volto a trovare un posto ad una semiotica dei materiali, dovrebbe plausibilmente avere uno sguardo bifocale. Una prima direzione di interesse si calerebbe, evidentemente, nella storia disciplinare, quindi in una zona del tutto interna alla semiotica, per rinvenire i luoghi in cui materia e materiali sono stati già pensati in un paradigma più canonicamente orientato all’immaterialità del senso. Una seconda direzione di sguardo, invece, punterebbe verso un confronto con altre letterature non propriamente semiotiche ma all’avanguardia rispetto alla definizione e alla caratterizzazione dei materiali, ovvero invece alla loro implementazione in prodotti che entrano in circolo nella vita culturale. Queste letterature “altre”, o dal potenziale divergente, finiranno per portarci, come vedremo, verso uno spazio teorico allargato, quello dei collettivi, termine volutamente latouriano che tiene assieme umani e non umani nella ricomprensione delle “forme dell’insieme”2. Il primo snodo ci pone di fronte a una domanda piuttosto generica: esiste o è esistita una semiotica dei materiali nella storia disciplinare? Ricordiamo che l’impostazione glossematica della semiotica sia strutturalista, sia interpretativa, ha posto la materia (al singolare generale) come un “fuori” rispetto alla pertinenza semiotica3, come spazio inarticolato dei possibili, in attesa di una presa formale che trasformi quindi materia in sostanza, in relativa continuità con i fondamenti dell’impostazione saussuriana. È vero altresì che Eco è tornato in più occasioni sullo “zoccolo duro” dell’essere (ad esempio Eco 1997, 2004), rappresentato non a caso attraverso le venature del marmo, linee di resistenza del referente, morfologie già offerte dalla materia ai vari “tagli” della cultura. In quel senso, Eco sembrava aprire le porte a una caratterizzazione anche fenomenologica dei materiali. Purtuttavia, l’esempio ricorrente del marmo non ha mai generato a mia conoscenza un prolungamento che uscisse dall’alveo della discussione meramente epistemologica. Peraltro, il mirabile sonetto michelangiolesco4, che Eco usava come perno per discutere teorie della creatività anti-crociane, avvalora in realtà una mistica dell’artista che riuscirebbe magicamente a vedere “attraverso” il blocco di marmo, spazialmente e temporalmente, ponendo il proprio agire come già iscritto in potenza nella materia (Eco stesso, però, lo attribuisce lui per primo all’“amor d’iperbole” di Michelangelo…). È proprio quest’altra forma di idealismo materiale che vorremmo neutralizzare qui, trattando semmai la dichiarazione poetica dello scultore come testo semiotico ulteriore che informa le pratiche, al pari di altri modi di approcciare il materiale, più indifferenti rispetto a presunte affordance morfologiche o, se non altro, in grado di rigiocarsele in indefiniti altri modi. Quella parte della semiotica interessata al mondo plurale del design non pare aver dato un contributo davvero significativo alla riflessione sui diversi materiali del design, se non localmente, all’interno di 1 Ringrazio per l’ideazione del progetto e il confronto continuo il responsabile dell’atelier, il designer Klaus Hackl; estendo il ringraziamento all’esperto di tecnologie e materiali, Camilo Ayala Garcia, così come agli studenti del corso, veri protagonisti della progettazione. 2 Cfr. il dibattito sul rinnovo di un’antroposemiotica, a seguito di Fontanille (2021). 3 Per una discussione teorica più recente del concetto di materia, cfr. Caputo (2010) con un rilancio, rispetto all’integrazione tra posizioni peirciane e glossematiche, in Galofaro (2010). 4 “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / che un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo a quello arriva / la mano che ubbidisce all’intelletto” (Buonarroti 1960, p. 151). 115 analisi mirate5. Vale la pena invece riconsiderare due riferimenti ulteriori, pubblicati in anni più recenti, votati alla ricostruzione di una storia della disciplina sul tema dei materiali e a un rilancio della ricerca. Il primo è il contributo di Beyaert-Geslin (2008), dedicato ad approfondire il peso dei materiali nelle pratiche artistiche, da Dubuffet a Beuys. Soprattutto a quest’ultimo, con feltro e grassi naturali (tipo la margarina), è dedicata un’analisi in cerca di modelli che superino l’idea classica di texture, elaborata in primis dal Gruppo μ (1992), come spazio categoriale interno a una prensione plastica che apriva, di fatto, una riflessione sul ruolo della matericità nella pittura. Beyaert-Geslin inizia a immaginare un processo di attanzializzazione e attorializzazione della materia, abitata da tensioni in divenire, assunte ovviamente dalla pratica artistica. Ecco che: [C]es premiers résultats tendent à révéler une autre acception de la matière qui, loin de se limiter à un statut de matériau non finalisé et inorganisé, renvoyant seulement à un point de vue épistémologique situé en amont des pratiques, s’impose comme une instance de renouvellement de la semiosis (Beyaert-Geslin 2008, p. 104). I materiali come istanze che premono, all’interno delle configurazioni empiriche che li ospitano, a favore di un rinnovo della semiosi, certo offrendo, echianamente, le loro tensioni interne (il carattere microscopicamente caotico e destrutturato delle fibre nel feltro, ad esempio, cruciale per comprendere il lavoro di Beuys). In continuità parziale con Beyaert-Geslin si pone la voce “Materia” dei Vissuti di significazione di Basso (2008). L’autore è recentemente intervento al convegno AISS 20226 con un prolungamento dei concetti teorici principali già elaborati in precedenza, a conferma della densità di quell’esplorazione seminale. In sintesi, si procede verso un’osservazione dei modi in cui la matericità dei materiali dell’arte emerge come luogo estremo di recalcitranza al principio formativo. Basso ci dice che “[L]a materia acquista un pieno protagonismo sulla scena semiotica quando è proiettata in uno spettro di fungibilità, ossia è colta come materiale interno a uno svolgimento di senso gestito da specifiche pratiche” (Basso 2008, p. 27). Dalla materia teorica alla pluralità dei materiali e aggiungo infine, dai materiali ai processi di rimaterializzazione in cui le pratiche d’uso, di ri-appropriazione, rispetto ai possibili, alle aperture plastiche dei materiali diventano una posta in gioco dei collettivi, in una dimensione fin da subito politica ed etica7. La materia rimarrebbe un’inattingibile semiotico, ma i processi di rimaterializzazione come dimensione costitutiva dei collettivi sono approcciabili da una semiotica delle pratiche e, appunto, dei collettivi. Il tema è quindi, fin da subito, a quali materiali dare cittadinanza, cosa rendere parte attiva delle reti plurali di relazioni che alimentano il rigenerarsi di un collettivo, diverso da un aggregato proprio per la qualità delle relazioni interidentitarie. Tale politicizzazione dei materiali è uno dei modi in cui intendere la provocazione del sottotitolo, “per una semiotica alternativa dei materiali”. Per un verso vorremmo resistere alle tentazioni ipnotiche della poetica della materia e dei materiali verso cui spesso corre la sensibilità semiotica. C’è una sottile vena rossa che lega assieme, attorno al marmo, Bachelard e Caillois, cantori di una lirica materiale in uno spazio discorsivo para-barthesiano. Nel suo testo dedicato all’immaginazione della terra, Bachelard (1948) cita Pierre-Jean Fabre, alchimista del XVII secolo, a supporto di un’idea di impeto estetico dell’onirismo. In tale citazione compare la natura come artista ante litteram: nascoste in alcune pietre 5 Floch (1995), tra gli altri, mostra benissimo come il tweed come materiale per il fashion designer venisse ridestinato da Chanel a un uso diverso, non più centrato sulle qualità tattili, quanto su quelle visibili, dipendenti dal modo in cui il tweed assorbiva e prendeva il controllo della circolazione luministica. 6 Comunicazione dal titolo “Ecologia semiotica e materia simbolica: dove la materia si piega, dove essa spiega”, 1 dicembre 2022, Palermo. 7 Cfr. sulla rimaterializzazione Keane (2003), mentre la politicizzazione della materia, a partire da una sua riabilitazione simil-animista, trova fertile terreno nel dibattito intellettuale seguito alla pubblicazione del testo di Bennett (2010). 116 come il marmo ci sono immagini naturali, non fatte da mano d’uomo, con un loro potere figurativo, in grado di rappresentare paesaggi e personaggi. È nell’interiorità intima e opaca della roccia che si riscopre l’esito ultimo e alto della creatività umana. Quasi a prolungamento di Bachelard, Caillois (1985), nel suo testo sulle pietre, torna sul motivo della natura anticipatrice dell’arte con la “spontanea bellezza” delle immagini iscritte causalmente al loro interno. Se il marmo contiene paesaggi e figurazioni, altre pietre come la Septaria, anticipano l’arte a suo tempo contemporanea, più astratta. Ma rimaniamo sul marmo: [W]e have now pinpointed the oddity around which the rest of the interpretation has organized itself: the ferns, the palace, the birds, and the lightning, this last just an ordinary veining that might be found in any piece of marble. Here is neither miracle nor mystery, just an extraordinary combination of signs which have no meaning but which are swiftly given a meaning that the ensnared imagination finds it hard to withhold (Caillois 1985, p. 95). Coazione alla significazione, irresistibile attrazione di una distribuzione casualmente integrata di segni, a ricostruire non solo rassomiglianza locale (iconizzazione), quanto una forma di paesaggio (naturalizzazione 8 ). Le pietre raccolte e finemente analizzate da Caillois, con una sensibilità simil- semiotica verso il loro linguaggio plastico, alimentano quindi la fascinazione verso una scrittura o una pittura già presente nella durezza imperitura della roccia. Volendo resistere a tale pulsione artistico-rappresentativa o alla dominante estetica nella lettura dei materiali, spostiamo il focus del discorso sul design e sui designer, verso una dimensione potenzialmente più etnografica, votata alla caratterizzazione del range di pratiche di trattamento dei materiali. Dei diversi materiali, infatti, la semiotica potrebbe iniziare a offrire dei ritratti, ripercorrendo le traiettorie di senso date dall’intersezione tra materiali e collettivi. E veniamo infatti alla seconda direzione di sguardo che evocavamo a inizio capitolo. Se uno scienziato dei materiali leggesse il programma del convegno AISS 2022 dedicato alla materia e ai materiali, noterebbe probabilmente l’assenza di ricerche e quindi di comunicazioni su alcuni luoghi di interesse, di tendenza, di frontiera e persino di dibattito pubblico allargato nel suo campo di pertinenza. Non è difficile indicarne alcuni: i biomateriali9, i nanomateriali10 e alcuni materiali monstre del momento, come litio11 o grafene12. Ci interessa qui sottolineare come vi siano almeno due dialoghi mancati che testimoniano forse e per ora, un ruolo di rincalzo della semiotica sulle tematiche materiali rispetto ad altri terreni d’indagine più consolidati della disciplina. Un primo confronto mancato è con i lavori di Bernadette Bensaude-Vincent, storica della chimica e dei materiali, che propone metodologicamente un’ontografia 13 , una scrittura dei modi di esistenza dei materiali nei collettivi. Tra i suoi contributi, vale la pena richiamare qui un suo testo post-foucaultiano di ricostruzione della nascita e dello sviluppo delle scienze dei materiali negli States (Bensaude-Vincent 2001), in ambito ingegneristico, come esempio emblematico della costruzione di una tecnoscienza ibrida, in cui la produzione di conoscenza e di esistenza di materiali finiscono per sovrapporsi. Risulta quindi impossibile e improduttivo mantenere la distinzione classica tra soggettività del ricercatore e oggettivazione dei materiali, dipendente da processi di innovazione degli strumenti di lavorazione. È nella moltiplicazione dei legami che vengono contemporaneamente ad esistere “qualcosa come un 8 La distinzione tra iconizzazione e naturalizzazione è ripresa da Fontanille (1998), in un saggio di analisi dell’iconografia dei vasi berberi. 9 Cfr. ad esempio Chen e Thouas (2015). 10 Cfr. ad esempio Bensaude-Vincent (2006). 11 Cfr. ad esempio Barandiarán (2019). 12 Cfr. ad esempio Alvial-Palavicino (2015). 13 Il suo testo sul carbonio (Bensaude-Vincent e Sacha Loeve 2018) è un esempio insuperabile di ontografia di una sostanza così pervasiva, dibattuta e polimorfa, nelle sue forme materiali di manifestazione. 117 materiale” e la rete socio-tecnica di supporto, un collettivo che lo rende possibile. Le scienze dei materiali si pongono quindi come luogo-laboratorio, terreno di sperimentazione multilaterale delle identità. Un secondo terreno di confronto invitante per la semiotica particolarmente interessata alla progettazione è quello che vede protagonista il Material Driven Design, un approccio sviluppato nell’ultimo decennio in alcune università europee, tra cui il Politecnico di Milano (Karana et alii 2015). Tale metodologia progettuale, costantemente alimentata da un’elaborazione teorica di base, bypassa al momento un confronto diretto con la semiotica, preferendo integrare nei suoi modelli una prospettiva più chiaramente fenomenologica sui materiali. Il MDD, come vuole il nome stesso, innesca processi di design a partire dalla complessità dei materiali considerati come elemento d’innesco, al posto di un approccio che prende il via dalle astrazioni di un concept, magari marketing oriented. Il MDD perviene così a una proposta di metodo che distingue più fasi, una sorta di schema canonico centrato su una prima tappa di intimizzazione con i materiali e una loro manipolazione aperta, non immediatamente finalizzata, da cui far emergere ciò che possiamo reinterpretare, semioticamente, come dei pattern figurali trasponibili. Queste strutture diagrammatiche più astratte saranno quindi in grado di informare un concept di design, il quale possa poi essere sviluppato ulteriormente in una direzione plausibile rispetto a uno scenario di trend culturali e di mercato. In sostanza, il MDD combina: 1) un’avveduta archeologia produttiva dei materiali (come si rigenerano? Come si lavorano?); 2) un’esplorazione dell’interattanzialità (dimensione interattiva dei materiali), ovvero delle proprietà tipicamente studiate da fisica e chimica; 3) un approfondimento sperimentale dei modi di relazione sensibile col materiale, in un corpo a corpo polisensoriale. È da questa triplice istanziazione dei materiali, produttiva, interattiva, sensoriale, che si riconoscono forme di rimotivazione tra caratterizzazioni processuali dei materiali e valori di progetto. 2. Il marmo e i suoi paradossi Come si caratterizza, allora e più concretamente, un materiale dal punto di vista semiotico? È qualcosa di più o di diverso rispetto al pensarlo come un fascio di tratti plastici attualizzabili nel contesto di pratiche specifiche? Torneremo sulle qualità plastiche attribuibili al marmo, ma se prendessimo come riferimento di base i collettivi, composizioni eterogenee di uomini e cose o, in questo caso, pietre, possiamo inizialmente cogliere alcuni paradossi ecologici del marmo stesso come pietra ambiziosamente “naturale”. La pietra assunta come segno di permanenza imperitura, il “duro come il marmo”14 , è contemporaneamente il materiale più malleabile nel variegato mondo delle pietre scultoree e architettoniche, ampiamente riutilizzato e quindi instabile nella storia politico-culturale dell’architettura, di cui le spolia ne rappresentano l’istituzionalizzazione15 . In secondo luogo, il marmo come risorsa limitata che può entrare in circolo nello spazio culturale solo grazie a pratiche estrattive altamente invasive verso il territorio16 e quindi per definizione non sostenibili, ovvero di consumo intransitivo di una risorsa, diventa il centro di nuovi discorsi e di nuove pratiche creative di sostenibilità. Durante il salone del marmo, il Marmomac 2022, è stata presentata ad esempio “Etica litica”, variante di reinterpretazione del sostenibile come sfida per i designer: essi dovevano progettare e comporre usando il massimo di materiale da un’unica lastra, minimizzando i residui, ovviamente con un sistema oculato di tagli. Una terza tensione paradossale del marmo ce la indica Dario Gamboni (2021) in un saggio recente, di stampo latouriano, cruciale per approcciare l’estetica del marmo in una chiave storico- comparativa. Gamboni mostra benissimo come il marmo oscilli, nelle forme di riappropriazione dei suoi giochi superficiali, tra due polarità opposte. Da un lato il marmo esemplifica, come già visto (cfr. 14 Nella canzone di Leopardi Bruto minore (1824), la rabbia di Bruto si dirige verso i “marmorei numi”, dall’animo duro come il marmo, quindi insensibili alle ragioni dell’umano. 15 Cfr. ad esempio Brenk (1987). 16 Cfr. ad esempio Piccini et alii (2019). 118 supra), una possibilità di iconizzazione naturale, iscritta nella pietra, e in quanto tale figurazione perfetta per iconoduli pronti a mettere in valore una traccia iscrittiva di intenzionalità non umane (sacralizzazione). Per un altro verso, il marmo alimenta una spinta aniconica adatta per pulsioni iconoclaste. Si ritrova qui il tema modernista di Adolf Loos, autore che criminalizzava l’ornamento con un uso massivo di marmo venato17. Infine, il marmo è da un lato un prototipo di tipo di superficie (battezzata come “marmorizzato”) che esso stesso, come occorrenza concreta (“quel marmo lì”), non sempre riesce a manifestare. Il termine “marmorizzato” indica infatti un effetto di texture pregiato e quindi palesemente imitato da altri materiali artificiali, laddove il marmo stesso non sempre lo incarna, dato che, in fondo, il marmo esiste nella singolarità dei luoghi di estrazione. Per il marmo si palesa infatti la centralità indessicale della provenienza. Il marmo è quindi coglibile più che mai come una famiglia di trasformazioni: non esiste “un” marmo, ma sempre il “marmo di”, che sia Carrara o altro luogo estrattivo. Nel caso di Lasa, ad esempio, l’azienda unica estrattrice, la Lasa Marmo, ha progressivamente definito, caratterizzato e commercializzato due macro famiglie di marmo, il Bianco (il famoso statuario, come quello di Carrara, che deve il nome alla prefigurazione dell’uso), il quale può essere però “nuvolato”, e il Venato, in cui varia la determinabilità eidetica della vena, generalmente più definita rispetto all’effetto nuvola. Ogni famiglia ha poi 5 o 6 sottotipi, ognuno ben differenziato dagli altri, e infatti, dal punto di vista corporate, ogni tipo di marmo è un tipo di prodotto e viene brandizzato nella sua specificità riconoscibile. Lasa ha recentemente lanciato la linea Individuale in cui cerca di valorizzare le singolarità fuori-norma di alcune lastre, ad esempio per un eccesso di venatura. Tali configurazioni tendono ad amplificare le proprie qualità auto-espressive, a far transitare la vena da sfondo a figura che si impone percettivamente. Lasa propone delle scannerizzazioni ad alta definizione delle singole lastre per consentire, attraverso la mediazione digitale (valorizzazione autografica 18 ), una messa in posa virtuale, ovvero un rendering realistico, incrementando il controllo delle venature in fase progettuale per l’interior designer o l’architetto. Sul sito web di Lasa o nei cataloghi promozionali è possibile ritrovare esempi specifici di styling, di messa in posa, volti a dimostrare la capacità di arredamento estetico di tale linea. La disposizione controllata delle lastre consente infatti di ricostruire una continuità eidetica della vena tra i pannelli disposti orizzontalmente (in un caso, in cucina), con l’emersione di un effetto- paesaggio (sorta di linea d’orizzonte che rinvia a un profilo simil-montuoso). A questo proposito vale la pensa di riprendere Gamboni (2021) per ripensare assieme effetto-paesaggio ed effetto-corpo. L’autore recupera la proposizione di Rorshach di una “scrittura” delle macchie (klecksography), enfatizzata dalla posa “a libro” delle lastre, storicamente praticata in architettura. L’idea di Gamboni, volendo tradurla semioticamente, è che la disposizione a libro generi una simmetria tipicamente verticale e questa, accompagnata alla dissimmetria locale dei profili, istituisca una pressione analogizzante (prensione iconica 19 ) per proiezione dello schema corporeo di base: una simmetria verticale imperfetta. La reincorporazione della macchia diventa quindi caso limite di antropomorfizzazione e di antropizzazione del naturale. Il marmo come materiale fungibile per design e architettura articola infine, da canone semiotico, un fascio di proprietà plastiche che l’antropologa Leitch (1996, 2010), a seguito di un’etnografia nelle cave di Carrara, ci restituisce. Le valenze plastiche in gioco si espliciterebbero in: bianchezza, traslucenza, durezza, permeabilità, mutabilità, peso/densità e venatura. Il marmo di Lasa, ad esempio, avendo subito due metamorfosi geologiche e non una come la maggior parte dei marmi, incluso Carrara, risulta più duro e più resistente, adatto per installazioni in esterno20 rispetto al marmo carrarino che invece si usura 17 Si veda anche Flood (2016) sulle connessioni più o meno velate tra modernismo e tradizione aniconica. 18 Sull’opposizione tra autografia e allografia nelle arti, cfr. Goodman (1968). 19 Sulla rilettura husserliana di una semiotica della corporeità, cfr. Fontanille (2004). 20 Tra gli usi del marmo di Lasa vale la pena segnalare da un lato la stazione della metropolitana newyorkese di Calatrava, la Oculus, adiacente al World Trade Center, dall’altro le croci di marmo dei caduti di guerra americani, in rigoroso statuario bianco. 119 più facilmente se lasciato all’azione delle intemperie. Rispetto a queste proprietà magnificabili o narcotizzabili, ci interessa tuttavia ragionare in termini di rimaterializzazione del marmo come tentativo di negare o di risignificare il suo necessario offrirsi come attore-corpo a tutti gli effetti, come filtro, medium. L’opposizione di base tra i due grandi formati in cui si offre il marmo, la lastra e il blocco, ben esemplifica la tensione tra una “superficializzazione” del marmo, un suo farsi rivestimento, pelle, involucro con iscrizioni o come pura texture, in contrapposizione a una sua rimaterializzazione come corpo-limbo, corpo in potenza, in attesa di un Michelangelo che ne estragga la forma scultorea. Il blocco attende sblocchi di immaginazione del suo dentro imperscrutabile. Tra le forme di rimaterializzazione, va considerata senz’altro anche quella, indagatrice, dello sguardo geologico che trasforma il marmo in un corpo incavo, in cui leggere le tracce di una diegesi cosmologica, indici di un racconto di interazioni tra pressioni, forze ed energie che vi rimangono scolpite. È interessante notare infatti due grandi tipi di racconti geologici. Da un lato il carbonato di calcio si pone come risultato di un deposito di elementi che originariamente facevano da guscio a corpi organici (origine organogena), prima della metamorfosi. È il trapassato remoto del marmo (“così era stato”), puramente presupposto dalla composizione attraverso la conoscenza dei processi necessari a generarlo. Invece i segni visibili, le vene, le screziature, indicano tutti eventi, accidenti puntuali, imputabili a uno spazio-tempo del passato remoto (“questo fu”). Il marmo è quindi interpretabile come patchwork di materia-tempo, contenente un dispiegamento di figure del tempo21. La promessa imperitura vi si iscrive culturalmente così come il “fuori dal tempo” del discorso del lusso, che lo elegge a elemento di longevità. Un caso recente, piuttosto emblematico, è quello del brand svizzero di lusso La Prairie, che propone un oggetto di marmo, la Nocturnal Massage Stone, per un trattamento skincare votato a costruire una figura dell’oltre-tempo22. 3. Il peso della sostenibilità Come anticipato (cfr. supra), il marmo si trova a fare i conti con la sostenibilità, a fronte di una costitutiva e ineliminabile insostenibilità estrattiva. Processi di deposito millenari, singolari eventi metamorfici nel cuore di alcune rocce, vengono accostati giocoforza a rapide estrazioni, traslazioni del materiale in ogni angolo del pianeta e forme di consumo, ancora principalmente legate all’esclusività spesso pacchiana del lusso23. I tentativi di reintrodurre un’affermazione di sostenibilità spostano costantemente il suo stesso orizzonte definizionale. Sarà più sostenibile il trasporto dalla cava agli stabilimenti di lavorazione; sarà più sostenibile la vigilanza delle falde acquifere contaminate dalle polveri del marmo di cava o deviate nei propri percorsi; sarà più sostenibile la rete logistica di movimentazione del materiale commercializzato; sarà più sostenibile la riduzione dei resti nel taglio e nella lavorazione. E queste sono solo alcune direzioni che prendono i discorsi sulla sostenibilità del marmo. Un caso ben studiato (Carretero-Gomez e Piedra-Munoz 2021) è quello delle cave di Macael, in Spagna, in cui l’amministrazione locale ha coinvolto diversi attori sociali del territorio, a partire dalle compagnie estrattive, invitandole a sostituire il marmo con percentuali crescenti di surrogati, con la conseguente 21 Cfr. su questo tema Bensaude-Vincent (2021). 22 Si veda ad esempio la campagna video 2022 “Pure Gold Radiance Noctural Balm Ceremony”, accessibile qui: www.youtube.com/watch?v=ar3dYPjzXt4&t=28s>. La pietra per massaggi ha una doppia sagomatura, concava e convessa, progettata per seguire i contorni del viso. Il ragionamento è interamente di tipo analogico: la pelle farà propria la proprietà marmorea di ciò con cui entrerà in contatto. La promessa d’eternità diventa più di un laico rituale notturno: è promossa a cerimonia, da prendere alla lettera nel tentativo di celebrare il carattere simil-sacro della pelle. Aggiungiamo che gli spot del brand mostrano spesso interni impreziositi dal marmo posto un po’ ovunque, a pavimento e a parete, con superfici luminose e riflettenti, a risignificare il codice persistente del lusso. 23 Questa dimensione estetica del lusso kitsch è ben testimoniata, ad esempio, al Marmomac, la fiera mondiale del marmo di Verona, visitata nel settembre 2022. 120 necessità di implementare innovazione tecnologica per migliorare la qualità del marmo estratto, riducendone la quantità. Le compagnie estrattive imparavano strada facendo a riutilizzare gli scarti generando una moltiplicazione di altre micro-attività imprenditoriali, infine ricostruendo una comunità più consapevole della natura limitata della risorsa e votata a re-inventare il modo di intrecciare il proprio destino a quello del materiale. Vorrei accennare in coda a come molti tra gli studenti dell’esperienza bolzanina si siano cimentati con i residui, i resti dei processi di estrazione, presenti sotto vari formati: cilindri di carotaggio preliminari allo scavo, pezzi di lastra di varie dimensioni, sassi di marmo, sassolini e polveri, con diametri diversi. Fig. 1 – Presentazione dei progetti degli studenti Fig. 2 – Presentazione dei progetti studenteschi in Unibz (foto dell’autore). in Unibz (foto dell’autore). Fig. 3 – Presentazioni dei progetti studenteschi in Unibz (foto dell’autore). Il problema progettuale trasversale è quello di come impedire il processo di trasformazione del marmo in detrito abbandonato ma ricomprendere tale pulviscolare eterogeneità di formati materiali, in una logica di circolarità, reimmettendoli all’interno di un mondo di materiali spendibili socialmente. Il marmo torna ad essere in quel caso persino sostanza, mera estensione chimica, carbonato di calcio con proprietà interessanti per il mondo organico, come mangime, fertilizzante di terreno e pronto a seconda vita una volta disindividuato e asperso. Si pone a quel punto, ribadiamolo, il problema di un’etica della rimaterializzazione, laddove essa sia colta come parte delle dinamiche di collettivi che problematizzano l’ingombro materiale, la coesistenza tra umani e non umani in uno spazio di materiali in divenire. Il marmo è materiel trouvé, oro bianco, che chiede in fase di estrazione la supervisione del geologo per seguire la vena dentro la montagna, prima ancora della vena nel taglio del blocco. La sua fungibilità semiotica, rispetto all’oro o ad altri materiali preziosi, dipende dal fatto che contiene già, come abbiamo 121 visto, sia scrittura, sia immagine in potenza, sia purezza risplendente, da cui i diversi trattamenti. Barthes (1959) diceva che l’oro è il segno per eccellenza, proprio perché principio generalizzato della convertibilità. Il marmo potrebbe sembrare a questo proposito un memento segnico, nel suo prefigurare tutta la complessità dei giochi di linguaggio, verbale o visivo, continuamente richiamando quell’eccedenza materiale che al contempo sfugge ai tentativi di imbrigliarne la significazione in linguaggio. Il marmo non è affatto il segno per eccellenza, ma è semmai il materiale per eccellenza, come fungibile semiotico generalizzato sull’intero arco delle produzioni di senso culturalmente attestabili. La semiosi marmorea, tutt’altro che imperitura, sgorga dentro impensate vene di senso. 122 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Alvial-Palavicino, C., 2015, “The Future as Practice. A Framework to Understand Anticipation in Science and Technology”, in Tecnoscienza. Italian Journal of Science & Technology Studies, vol. 6, n. 2, pp. 135-172. Bachelard, G., 1948, La Terre et les rêveries du repos : essai sur les images de l’intimité, Paris, Librairie Jose Corti. Barandiarán, J., 2019, “Lithium and development imaginaries in Chile, Argentina and Bolivia”, in World Development, Vol. 113, pp. 381-391. 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Il diagramma nascosto. La materia della carta nella pratica degli origami Valentina Carrubba Abstract. A destination reserved for paper, origami makes it an incommutable material: only paper can hold so many folds, it’s an irreplaceable element, a kind of principle. This special feature of paper, of generative order (materia mater), more than in the realised artwork, is expressed in the artistic practice, in the relationship between the creative act and the material. Already starting with the origami frame, the Zen spirit animating the art reveals the contrast between a discipline that requires commitment, patience, study, perseverance, and the material it addresses, transient, destined not to last, common and vulnerable (that of paper castles). But if it is true that paper, impermanent, poor, has the effect of thwarting the art’s vocation to the absolute, it is also true that paper has a great memory, and it is in this respect, this ability to keep track, to remember the fold, that origami considers it. Without taking anything away from or adding to the initial extension of the sheet, the architecture of the fold, together with the logic of layering, restores, re-initialises, the structural virtues of the fibre from which the material was originally taken. The paper, which is profiled above all under this temporal-cosmogonic aspect (end, beginning, origin) finds, in the practical scene of origami, with its space and its actors, in the horizon of a strategy and during narrative transformations, a further (inter)definition. From the virtuality of the diagram to the geometric matrix that explains itself on the sheet, from the signed matter that instructs the gesture to the Hyletic component on which the hand adjusts itself and the tool becomes necessary, in the gap between the programme and the execution, this intervention intends to explore the ways in which, through a practice variously attested and first-person experienced, the sense of the material is expressed and managed. 1. Materia e pratica Questo intervento si propone di indagare un materiale attraverso l’intelligenza che può offrirne la pratica. L’idea è che il materiale si comprenda meglio nella dimensione del fare, nell’imprescindibile corporeità di un’azione che non si è ancora consegnata all’enunciazione che fu. D’altra parte, la scelta di trattare dell’origami e della carta dipende dal fatto che in questa pratica non si può sostituire l’identità del materiale – l’elemento cartaceo è imprescindibile. Sicuramente si possono fare modelli semplici di origami con la stoffa, o magari anche con fogli sottili di metallo. Ma in senso stretto, nei diagrammi più complessi, l’origami corrisponde alla carta, e dipende in maniera così decisiva dal materiale che può esigere un tipo particolare di carta, con tipi particolari di cellulosa, magari provenienti da una città particolare del Giappone. Alta individuazione sul versante del materiale, insomma, e bassa sul versante del soggetto, perché, come mostreremo, la pratica dell’origami, con fare zen, estromette per più versi la soggettività; non ne è interessata. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Il nostro percorso di indagine comincerà con una piccola genealogia, in cui mostreremo il vario inquadramento dell’origami nelle pratiche, tra i vari destini e destinazioni del materiale, per poi focalizzarci sull’analisi di quell’arte di piegare la carta che ha preso la direzione ludica che conosciamo meglio. Segmenteremo la pratica in una fase, progettuale, di disegno e una fase, esecutiva, di piegatura. In entrambi i casi tratteremo del rapporto che la pratica intrattiene con il materiale e con la materialità del corpo, nella convinzione che la mano e il gesto abbiano una parte rilevante in questa storia e che, sotto la soglia delle nostre lessicalizzazioni, si muova una dialettica di autoascrizioni e imputazioni talvolta difficile da sceverare nella coppia di soggetto e oggetto, come in quella di materia e forma. In parte l’intervento approfitta degli studi di una semiotica delle pratiche, in parte si avvale di strumenti dell’indagine fenomenologica, proponendosi di indagare quei vissuti di significazione che animano la dimensione pratica. 2. Genealogie Origami è una parola che in giapponese si compone di due parti: ori, parte verbale, che significa piegare, e kami, che indica la carta: “piegare la carta”. Ma kami significa anche, più generalmente, “ciò che sta sopra”, ovvero le divinità. Questa relazione tra la carta e le divinità, cui la parola allude, si spiega anzitutto nella demiurgia del materiale: la fibra (cellulosa di origine vegetale o animale), dopo essere stata ridotta in frammenti e buttata nell’acqua, galleggia; come gli dei è “ciò che sta sopra”. In secondo luogo, e sempre ad uno sguardo genetico, il termine ci porta sulla genealogia dell’origami, che trova una prima attestazione nell’ambito di pratiche rituali religiose e cerimoniali. L’origine degli origami si lega alla religione shintoista: pezzi di carta piegati (go-hei) si mettevano davanti al tempio, in funzione protettiva, oltre che per ricordarne la permanente caducità. Servivano anche, originariamente, a tutelare il luogo in cui si fabbricavano le spade e potevano essere, durante l’epoca Muromachi, il premio del vincitore di una lotta di sumo, ma anche l’incartamento dei doni cerimoniali che si facevano ai samurai, l’elemento di decoro dell’etichetta sociale (e l’etichetta prevedeva origami con pieghe specifiche e codifiche, i girei origami). Fintanto che la carta era un bene di lusso, l’origami si faceva popolare solo in occasioni importanti, come il matrimonio, in una funzione di augurio e buon auspicio che ancora oggi mantiene una tradizione figurativa (dalle farfalle del matrimonio alle bambole del giorno delle bambine, alla rana, che propizia il ritorno del viaggiatore, alla gru che promette lunga vita e prospera); attuale resta anche la funzione di incartamento, nelle varietà dei tato (buste, involucri di varia foggia), che danno vesti rituali agli scambi di messaggi o doni. La pratica di piegare la carta ha a che fare con il segreto, non solo perché il diagramma resta nascosto nella figura realizzata, e nemmeno per il mistero con cui si trasforma un pezzo di carta in un oggetto tridimensionale (e in effetti è sotto il rispetto di qualcosa di “magico” che gli origami sono stati inizialmente importati), ma anche perché alcuni diagrammi di origami sono gelosamente custoditi da élite sociali (di carattere religioso, ma anche afferenti a una determinata realtà urbana-territoriale) che hanno il compito di presidiare una tradizione: tra l’allografia del diagramma e l’autografia dell’esecuzione, il materiale, la carta, che non dura, impone la ripetizione. Nella cornice tradizionale dell’origami, tra i diversi esiti della pratica, è interessante il caso degli Hidden senbazuru orikata (Fig. 1). Si tratta di 49 disegni/diagrammi, dichiarati “proprietà culturale intangibile di Kuwana”, che si sviluppano a partire dalla figura della gru, con cui si auspica una lunga vita (e la leggenda vuole che piegare, o regalare, molte gru allunghi la vita). I diagrammi, che prevedono il taglio e un solo foglio di carta, sono la mutevole composizione di gruppi di gru, di diverse grandezze, unite nei più vari modi: ora c’è una piccola gru sulla coda di una gru più 126 grande, ora c’è una composizione ordinata di tre gru della stessa dimensione attaccate per le ali, oppure sono una decina di gru che paiono sfumare verso l’alto come una voluta di fumo, fino ad arrivare alle famose cento gru che si raccolgono nella forma di un fiore (www.orizuru49.com/en/). I gruppi di gru sono realizzati su carte tradizionali giapponesi, con decori geometrici e floreali, e la pratica, esclusiva di Kuwana, è appannaggio di maestri della piega (come nel caso di Yurami Otsuka, definita Preserver of “Kuwana-no Senbazuru”skills designated by Kuwana city). Fig. 1 – Hidden senbazuru orikata (© Yurami Otsuka). In questo esito della tradizione, la gru è figura che ora mantiene ora perde una propria riconoscibilità, in un discorso, a taglie diverse, sul rapporto tra il tutto e le parti. Come la decorazione, inscritta sulla carta, mette in questione la riconoscibilità figurativa della gru (di cui si mantiene una sagoma) così si comporta la composizione delle gru, che diventa sagoma, formante figurativo che rende evanescenti le parti di cui si assomma. Si ragiona sul tutto e sulle parti, sulla figura e sull’individuazione, sul ritmo di un collettivo, sull’equilibrio e lo squilibrio compositivo, sull’organizzazione e su forme più armoniche di comunità. E in questo esito si esplora la carta come archè della pelle, principio originario delle cose: involucro, forma che individua, e superficie di iscrizione, ornamento che accora. Al di là della tradizione, la pratica dell’origami ha percorso la direzione ludico-ricreativa che meglio conosciamo e si è diffusa nel mondo in ambito prima educativo, a partire dall’opera di Yoshizawa, che la usava per insegnare la geometria, e poi puramente estetico-ludico. Nella genealogia degli origami si definisce la differenza tra l’origami vero e proprio, che non prevede il taglio, ma soltanto la piega, e preferibilmente a partire da un foglio quadrato, e altre pratiche similari, come quella degli orikata o dei kirigami (che prevedono anche il taglio). È di questo origami, fuori dalla tradizione e rigorosamente senza taglio, che ci occuperemo da qui in avanti. Questa breve introduzione, che descrive la destinazione pratica del materiale, illumina alcuni aspetti del suo arché, come analogon di un corpo-involucro (Fontanille 2004, pp. 191-235): involucro, che ora protegge, ora decora, ora individua, supporto (necessariamente) caduco della tradizione, materiale memore, che ricorda e tiene le pieghe del diagramma, elemento e principio di una pratica disciplinata quando non esoterica. 3. Attestazioni La pratica si attesta in diversi terreni mediazionali: dalla rivista specializzata, cartacea (Origami Tanteidan Magazine, Noa magazine, The British Origami magazine, per citare le riviste più importanti) 127 o online, ai libri che, tra elaborazione teorica e istruzioni per la piega, si rivolgono a un pubblico più o meno esperto, fino alle raccolte di diagrammi delle diverse Convention e agli svariati video e siti che si trovano in rete, da YouTube a Instagram. Il linguaggio dei diagrammi e il disegno delle diverse pieghe e operazioni sul materiale, a partire da Yoshizawa, è stato progressivamente codificato e ha trovato infine una sistemazione convenzionale ad opera di Robert Lang (langorigami.com/article/origami-diagramming-conventions/) nell’elaborazione del giusto compromesso tra la fedeltà del disegno e la sua esplicatività in termini operativi (non ci soffermeremo, qui, sul modo in cui le diverse soluzioni grafiche, succedutesi nel tempo, gestiscono il senso delle istruzioni di montaggio). In generale, a parte nel caso dei video, perlopiù tutorial che mostrano, piega dopo piega, come costruire la figura, quello che si trova nelle diverse pubblicazioni comprende: il disegno del diagramma sul foglio (prevalentemente quadrato), un disegno o una fotografia dell’origami realizzato e, ma non necessariamente, le istruzioni per la piega (Fig. 2). Fig. 2 – Samurai helmet beetle, realizzazione e diagramma (© Google images). Ma la pratica non comprende soltanto la realizzazione del diagramma e le pubblicazioni possono riguardare i metodi per progettarlo. Sempre Lang, che di formazione è un fisico, ha elaborato anche un programma, e diversi algoritmi in grado di disegnare diagrammi altamente complessi. La pratica, poi, vive di diverse conventions, in cui gli origamisti provenienti da diverse parti del mondo mostrano la propria opera, fatta del diagramma e della piega. Le sculture di carta trovano posto anche nel dominio delle arti, dall’atelier dell’origamista all’esposizione museale. La nostra analisi, in linea con le attestazioni, analizzerà la pratica in due parti: quella che riguarda la progettazione del disegno e quella che comprende l’esecuzione delle pieghe. In entrambi i casi si tratterà di indagare il modo in cui la pratica si incontra e scontra con la materialità della carta. 4. Il diagramma e la progettazione Gli origami che normalmente si conoscono sono figure semplici, spesso figure di base: dalla barchetta che ci si è presentata nell’infanzia, magari alla gru, fino all’unicorno di Bladerunner, perlopiù si tratta di rappresentazioni molto stilizzate, in cui è tangibile un’opera di estrema geometrizzazione della realtà. Sul 128 versante dell’iconismo, però, l’arte degli origami è in grado di eseguire riproduzioni molto fedeli della realtà, e tanto più la figura è fedele quanto più l’architettura diventa un mistero (matematico) insondabile. Ci sono poi, in direzioni più astratte, tecniche di origami poco note, come la tesselation (Fig. 2), che rende possibile creare pattern ripetitivi e complessi su un piano piegando un solo foglio di carta, e tecniche di lavorazione della carta in cui si compongono moduli elementari, così che diverse tecniche possono partecipare alla costruzione di un origami (tartarughe e pesci, ad esempio, possono comprendere una tesselation per la riproduzione delle squame o della corazza). La pratica di progettazione dell’origami parte dal disegno della figura che si vuole realizzare. Si disegna la figura e si contano le estremità che la compongono, per poi metterle sul foglio: nel caso della gru tradizionale, ad esempio, abbiamo le due ali, la testa e la coda. Ogni estremità richiede una certa quantità di carta, a seconda di dove viene posizionata: se messa nel centro chiede l’intero angolo giro, mentre sul lato e sull’angolo prende rispettivamente metà e un quarto dell’angolo giro. Uno dei metodi più semplici per disegnare il diagramma è quello di posizionare questi cerchi e semicerchi, e poi scomporli nella forma base del diamante (si tratta di pieghe che permettono l’estrusione dell’estremità), come si vede in figura 3. Fig. 3 – Foto tratte da Origamix, Tetsuya Gotani, 2019. Se l’obiettivo della pratica, sul versante tattico, è quello di realizzare la figura desiderata, va detto che una stessa figura può essere realizzata in diversi modi, con diagrammi più o meno efficienti dal punto di vista del risparmio della carta. Il disegno, infatti, mira all’ottimizzazione del foglio (ed è per questo che spesso, nelle pubblicazioni, si mostra la proporzione tra il diagramma e l’oggetto realizzato), oltre che alla resa della figura. Altri principi regolatori si trovano nella complessità delle pieghe da eseguire: il disegno può svilupparsi a partire da una figura di base nota e con pieghe conosciute, ma può anche tentare soluzioni senza nome, al di là dei protocolli consolidati. Infine abbiamo il vincolo del foglio di partenza: se negli anni 70, discostandosi dalla tradizione, si facevano diagrammi su fogli di varia forma quadrangolare, si è progressivamente tornati a rispettare il vincolo del formato quadrato iniziale; una condizione che complica notevolmente l’origami e che, d’altra parte, dimostra quanto, in quest’arte, non valga semplicemente il risultato: ciò che conta il rapporto tra la fermezza e unicità del principio (in principio deve essere il quadrato) e la varietà dei risultati. Il modo in cui viene generato il diagramma ci porterebbe su un discorso di ordine matematico: si tratta di ragionamenti geometrici e di euristiche della soluzione che mostrano qualità come l’eleganza, esattamente come quando, in gergo tecnico, si parla dell’eleganza di una dimostrazione. La pratica, 129 purificata da ogni contaminazione materiale, ci porta infatti su una branca della geometria, la geometria dell’origami, messa a punto da Humiaki Huzita e Koshiro Hatori in 7 assiomi e che trova applicazione in diversi campi del sapere, dalla cibernetica allo studio del dna. Dal punto di vista del problema dei fondamenti della matematica, la geometria dell’origami offre l’esempio, husserliano, di quello scorporamento dal mondo sensibile che mette in questione l’esistenza di giudizi sintetici a priori, giudizi puri e forme pure. E non solo: la geometria dell’origami, di origini umili, empiriche, è in grado di risolvere problemi irrisolvibili con gli strumenti della geometria euclidea, come la trisezione di un angolo o la costruzione di un cubo di volume doppio rispetto al cubo iniziale. Conoscere qualcosa, avrebbe detto Platone, significa conoscerne la legge di costruzione: conosco il triangolo perché so costruirlo, riesco a fare una dimostrazione perché ho costruito delle figure sul disegno iniziale, capaci di rivelare dei rapporti. Rispetto al sistema di Euclide, la geometria dell’origami offre quell’insight che esce dai confini del problema per trovarne la soluzione: scorpora la pratica dal foglio di carta per farla lavorare in astratto, così che il gesto, invisibile, diventa principio di costruzione alternativo in cui si possono sovrapporre e allineare dei punti. Dal materiale, che si presta immediatamente alla piega (l’operazione più primitiva che possiamo compiere sul foglio), che è in grado di sovrapporsi più volte, viene l’elemento, il principio, di una costruzione ideale. Il disegno, d’altra parte, più è complesso, più chiede alla carta di assottigliarsi (ci sono carte da 30/40 grammi), più pretende che sappia tener traccia, che abbia memoria. Accanto allo sviluppo dei diagrammi c’è lo sviluppo del materiale, nella sua componente più strettamente hyletica, in una direzione che al limite la trasforma in un piano, capace di piegarsi innumerevoli volte, e di aver memoria senza patire il tempo e l’usura, una memoria che pare il controcanto della caducità di tutto quel che è sensibile. Il diagramma tende a un idealismo allografico in cui non ci sono margini di autografia, né da parte dell’esecutore né da parte del materiale - quello che conta, di una figura, è il rapporto, la proporzione, in una leibniziana indifferenza all’estensione. Non è un caso che l’origami abbia percorso, nei suoi esiti creativi, direzioni che esplorano dimensioni-limite, come nel caso dell’opera di Naoki Onogawa, che realizza gru di carta (Fig. 4) che stanno (larghe) sulla punta di un dito (destinate, peraltro, alla composizione di bonsai di carta) - la materia della carta tiene, nella sua inconsistenza, nella sua essenza fibrosa, tanto alla tensione all’infinitamente piccolo, quanto alla complessità di diagrammi che tracciano, per centinaia di pieghe, i rapporti più realistici. Fig. 4 – La gru di Naoki Onogawa (© Google images). 5. Realizzazione e categorizzazione Passiamo quindi alla seconda parte della pratica dell’origami: la parte in cui si eseguono le pieghe, più strettamente operativa. In questa scena predicativa gli attori sono le mani, le loro possibili protesi, la carta e il gesto che li rapporta, il piano/tavolo che sostiene il tutto. 130 Cominciando con il fare, con il gesto, ogni divulgazione dell’origami comprenderà in primo luogo la descrizione di una serie di pieghe che hanno trovato una lessicalizzazione (mountain/valley fold; rabbit fold; spread sink etc.) e che descrivono una procedura. Rispetto alla procedura, sempre restando sulle attestazioni lessicali, possiamo trovare indicazioni intorno alla delicatezza/decisione del gesto che deve compiere la piega (ci sono pieghe che chiedono di essere risoluti e pieghe che, al contrario, richiedono delicatezza). L’aggiustamento del movimento e la sua modulazione, d’altra parte, rilevano anche dalla risposta del materiale, che obbedisce più o meno alle intenzioni del gesto. D’altra parte, la lessicalizzazione non copre tutte le possibili pieghe dell’origami, che spesso si escogitano sul momento, potendosi svolgere in diverse maniere, specialmente quando si tratta di eseguire un collapse (piegare in una volta sola l’intera figura). È un problema di soglie e demarcazioni, che pure si producono nel corso della pratica, ma che restano al di sotto di una salienza categoriale. Per quanto riguarda la temporalizzazione del processo, abbiamo casi in cui l’origami si ottiene facendo una piega alla volta, e la struttura si ottiene cumulando delle pieghe, così che la modifica della figura (il foglio, che assume forme diverse) si sviluppa parallelamente a quella del tempo, in aspettualizzazione durativa, e casi in cui, invece, il foglio viene prepiegato inizialmente, senza che se ne modifichi la forma (si piega e si ridistende la piega), per poi essere piegato al termine, tutto in una volta. Ma il tempo non riguarda solo l’esecuzione, perché, come si è più volte detto, nella pratica dell’origami è in gioco la memoria del materiale. Non si tratta della memoria di una superficie di iscrizione, come un quaderno, o della memoria del supporto su cui si ispessisce la pittura: la memoria della carta è una memoria-azione, è la capacità, insediata nella carta, di replicare una determinata posizione. La creazione di una nuova piega, per esempio, può far perdere alla carta la memoria immediata della precedente, così che bisogna ravvivarla, ci sono pieghe che verranno immediatamente sfruttate e pieghe che verranno utili in seguito, e quando ci sono molte pieghe pretracciate si tratta spesso di doverle attualizzare, in modo che ogni piega abbia la stessa forza dell’altra; il gesto va dosato, in base a quanto è distante, nel tempo, la sua traccia. Ma il gesto può anche creare nella carta delle linee di forza che la portano in conflitto con se stessa, ciò che spesso accade quando si devono ribaltare le pieghe precedentemente eseguite. E qui si deve percepire la tensione limite oltre alla quale il materiale si spezza. Ed è a questo punto che la scena pratica si apre su fattori di indeterminazione, perché l’incontro sensibile e tattile con il materiale mette in gioco la dialettica tra assimilazione e dissimilazione, imputazione e autoascrizione. La carta può assorbire l’umidità delle mani e perdere, in parte, memoria delle pieghe oppure può richiedere una pressione maggiore perché la piega si tracci; così pure può doversi decidere se lo spessore della carta ripiegata è un difetto di pressione o rileva del tipo di materiale; o ancora, questa indecisione di confini, tra ciò che rileva da me e ciò che rileva dal materiale, si può mostrare a partire dall’esecuzione di una singola piega: si decide dove la piega comincia, si regola la sovrapposizione del foglio e si comincia a piegare, ma da un certo punto in avanti – e quando, di preciso? – è la carta che sa dove andare e non c’è più bisogno di monitorare l’andamento della piega. 6. Reazioni e imputazioni L’identità del materiale, sintesi distintiva del gesto, si esprime, nell’origami, attraverso la varietà delle pieghe che possiamo eseguire. Momento preliminare alla pratica di piegatura, rispetto a un certo diagramma, è la scelta della carta. Sebbene l’origamista conosca, generalmente, le varietà di carta su cui lavorare, può rendersi necessaria un’opera di assaggio del materiale ed è sempre necessaria quando si lavora su carte che impongono una direzione precisa. La fibra, infatti, si dispone generalmente in una direzione, così che certe pieghe seguiranno, in armonia, la direzione delle fibre, mentre altre dovranno spezzarle. L’incurvamento della carta dimostra la direzione della fibra: il materiale tende a curvarsi in 131 maniera più stretta lungo le fibre, mentre invece farà fatica a curvarsi in perpendicolare. Alcune carte, come la carta kinumomi, impongono una direzione stringente e le pieghe perpendicolari alle fibre rischiano di indebolire la struttura. Curvando il foglio, o sovrapponendo i suoi lembi emergerà anche la qualità elastica del materiale (in asse di contrarietà con la rigidezza, il cui contraddittorio sarà il malleabile o il duttile). Lo strappo ci potrà dare una indicazione sulla lunghezza delle fibre, laddove nell’origami è bene lavorare con fibre lunghe (il foglio A4 che normalmente si usa per stampare, di solito, ha fibre molto corte e si può usare solo per origami semplici). Producendo invece una semplice piega sul foglio, potremo ascrivere al materiale qualità come il nitore della piega, oltre che la malleabilità e la flessibilità (carte composte da fibre di cotone, piegate, risulteranno meno nitide, e la flessibilità verrà sacrificata a favore della malleabilità). Qualità diverse dimostra l’inversione della piega (componente essenziale di diverse pieghe, rabbit fold, petal fold etc.) che rileva difetti o eccessi di memoria da parte del materiale, individua la presenza di alluminio (la carta tissue foil, che assembla carta velina e alluminio, ad esempio, in virtù del metallo, ha una grande memoria, ma tiene la piega rigidamente, così che diventa difficile invertirla, trasformarla da montagna a valle), e dimostra la forza di coesione della carta. La grana del materiale, assieme alla sua elasticità e duttilità, si dà a vedere in pieghe a ri-orientamento, come la spread sink (Fig. 6). Fig. 5 – Tessellation, fasi della pratica, emergenza del materiale. In figura 5, oltre alla direzione della fibra (la piega perpendicolare, nella spread sink, non è nitida) si può osservare anche come il punto d’intersezione di diverse pieghe, girate più volte, si sia slabbrato: la piega, ribaltata, rende conto della resistenza del materiale ma rivela anche, nel caso delle carte colorate, come si è svolto il processo di tintura (nella carta tant, ad esempio, le fibre vengono colorate prima della preparazione dei fogli, così che non si perde colore iterando la piega; d’altra parte è una carta piuttosto debole, che tende facilmente a slabbrarsi). Ciò che più rende conto della capacità della carta di tenere memoria è il collapse, che si esegue, come si è accennato, prepiegando l’intero foglio e poi facendolo collassare, da piatto in figura tridimensionale, in una volta sola. È qui che si apprezza la quantità e la qualità della memoria della carta, la tenuta nel tempo delle pieghe e la capacità di mantenerle distinte, specialmente nei punti in cui si intersecano (la carta di gelso, ad esempio, non ha memoria). 132 Ma la memoria non riguarda solo la capacità di ricordare la traccia, perché ci porta su una reminiscenza hyletica: alcuni origami, il cui sviluppo coinvolge anche la scienza dei materiali, reinizializzano il potere strutturante della fibra, in pieghe che formano lo scheletro di alcune forme geometriche. Un cilindro reticolato, ad esempio, fatto da un semplice foglio A4, è in grado di reggere un dizionario. Dissimilata dal gesto e dalla piega, l’identità del materiale si spiega su un sensorium che raccoglie il contributo di diverse percezioni. Alcune qualità della carta, sperimentate dal gesto e sentite sul piano estesico, si danno poi ad intendere, per ripetuta associazione, ad altri sensi. In particolare è l’udito a manifestare una particolare intelligenza della carta, e si affina nei generi della croccantezza (la carta resistente è croccante). Le qualità tattili della carta, dal canto loro, come quelle visive, possono testimoniare della grana, o rilevare la presenza e consistenza delle fibre, mentre il tatto è centrale nella lavorazione a umido della carta, che, colta con un reagente, dimostrerà in prima istanza la propria qualità di coesione e la presenza di colle. 7. Autoascrizioni In questo discorso, che riguarda imputazioni e le autoascrizioni nella relazione con la carta, considereremo ora quello che è l’effetto del materiale, il modo in cui il materiale stesso, attraverso la pratica, esplora la nostra soggettività, a cominciare da un corpo a corpo. In questo corpo a corpo è centrale, come in tante altre arti, la mano e la maniera in cui la pratica opera una rigerarchizzazione delle sue parti. Da un punto di vista strutturale l’origami elegge, in modo privilegiato, l’unghia, con cui si percorre la piega e che è in grado di appiattirsi e di scorrere, tra il piano e il foglio. Si trovano valorizzate la rigidità, la liscezza, la non porosità e l’insensibilità dell’unghia, assieme alla sua capacità, in coppia, di farsi protesi restrittiva e funzionare da pinzetta per estrarre lembi di carta. D’altra parte, gli strumenti dell’origamista sono tutte protesi dell’unghia, dalla pinzetta alle diverse spatole per la piega, alle mollette con cui si tiene la forma. L’origami è una pratica in punta di dita, e diventa centrale il ruolo del polpastrello, capace di fare grip sulla carta e indispensabile nel caso di carte molto lisce. Del polpastrello, però, come del resto della mano, come si è accennato, diventa centrale l’umidità: avere le mani con una giusta umidità garantisce la presa ed è un requisito fondamentale per l’origamista. La carta rigetta mani troppo secche o troppo umide e domanda una giusta misura. È poi importante che le dita sappiano essere forti, oltre che delicate: si richiede estensione, sul piano dell’intensità della forza, per poter sovrapporre diverse pieghe una sull’altra, in contrasto con l’elasticità e lo spessore della carta. Nel corso della pratica, l’elezione di queste pertinenze del corpo rende insensibili a qualità come la decorazione del foglio o la sua liscezza, caratteristiche che si apprezzeranno solo sul piano dell’esito, a origami concluso. Ma la materialità della carta, al di là del piano corporeo, ha una direzione figurale: è retta, è rettitudine. Nella pratica dell’origami c’è una costante tensione tra l’aggiustamento (si sovrappone la carta, si prendono misure) e la risoluzione del gesto: a livello aspettuale il monitoraggio lento della misura si oppone alla decisività dell’azione - l’errore è fatale e comporta il rifacimento di tutto il lavoro. La pratica è ponderata, spassionata, è un costante esercizio della ratio, del rapporto, dell’allineamento, porta in primo piano qualità come l’attenzione, la concentrazione, la presenza. Non si può pensare ad altro, non si può sentire troppo. Non c’è una dimensione evenemenziale - una componente casuale che parteciperà del risultato. Tantomeno, come si accennava sopra, una soggettività, dal momento che nella parte più strettamente esecutiva dell’origami l’identità dell'esecutore è sospesa: la piega non ha uno stile, è impeccabile oppure no. Al centro è la ripetizione, piega dopo piega, la costanza, la pazienza, che, iterate, estromettono il 133 soggetto. All’origamista resta, al massimo, la parte dello spettatore che apprezza la precisione della piega, l’aderenza matematica al diagramma. Nel vivo della pratica, nella realizzazione del disegno, l’origami è una téchne che non ha la vanità e i trionfi dell’arte. È piuttosto una metis, un sapere pratico, una manipolazione che non prende la direzione dell’inganno (la metis di Ulisse), ma la via della disciplina, nell’idea che la formazione cominci dalla dimensione corporea: è il gesto iterato che sedimenta nell’abitudine e l’abitudine che sedimenta nel carattere. Ma l’origami, se da una parte forma il soggetto, via concentrazione, verso la costruzione di una tenuta identitaria, d’altra parte volge questa tenuta all’accettazione dell’evanescenza di ogni opera, decostruendo il mito egoico dei percorsi d’individuazione. Nel diagramma quel che si (s)piega è il disegno nascosto del mondo: geometrico e imperturbato, anonimo e allografico. 134 Bibliografia Basso Fossali, P., 2008, Vissuti di significazione, Pisa, Edizioni ETS. Basso Fossali, P., 2017, Vers une écologie sémiotique de la culture, Limoges, Lambert-Lucas. Beyaert-Geslin, A., 2008, “De la texture à la matière” in Protée vol. 36, n. 2 (hors dossier), pp. 101-110. 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Spazialità e materialità urbane: incontri e dialoghi per un’analisi topologica delle nuove risemantizzazioni post- pandemiche Maria Giulia Franco Abstract. During the pandemic, urban spatiality has been involved in new constitutive dynamics responsible for acting on its identity and semantic value, as it is implicated in new and inevitable processes of resemantization. The historical period in which we live therefore recalls the need to rethink spaces today as the product of new translations, born to reshape the link between city and nature, to enhance new relationships between humans and non-humans, between citizens and external space; the latter thought of as less polluted, closer and for this reason promoter of a specific effect of nature, through the inclusion of new objects made eco-sustainable by their very materiality (as in the case of wood). Through the analysis of three new spaces in the city of Palermo, the aim of this study will therefore be to investigate semiotically how today's forms of urban materiality set in motion a series of processes that will act in the identity constitution of the new post-pandemic urban imaginary. 1. Introduzione Questo studio è incentrato sull’osservazione diretta e sull’analisi semiotica ed etnosemiotica1 del modo in cui oggi le nuove forme di materialità urbana, istaurando una relazione con lo spazio e con i soggetti, mettono in moto una serie di processi che agiscono nella costituzione identitaria del nuovo immaginario urbano post pandemico. Facendo una breve premessa, per comprendere il senso della nuova dialettica tra gli spazi e i soggetti, considero significativo il ribaltamento valoriale vissuto durante il periodo di confinamento pandemico; ribaltamento dato dalla sostituzione degli spazi pubblici, resi impraticabili e dunque negati, con quelli privati. Questi sono stati risemantizzati in qualità di nuovi delegati di ogni possibile scambio sociale in una forma di spazialità indiretta e virtuale. La pandemia e gli effetti provocati dal confinamento pandemico hanno dimostrato l’ipersemiotizzazione della dimensione spaziale, su cui oggi agiscono pratiche di riappropriazione e riconsiderazione di specifiche aree2, quelle precedentemente negate. Il periodo storico che stiamo vivendo avvia così un processo urbano già in atto prima della pandemia ma accelerato da quest’ultima; processo caratterizzato da un nuovo punto di vista che predilige un modello di spazio pubblico e sociale più vivibile in cui ritrovare un potenziale legame tra città e natura. Si pensa alla possibilità di vivere e praticare maggiormente le aree esterne, meno inquinate, più prossime 1 La metodologia etnosemiotica individua nel processo osservativo le basi garanti per comprendere gli spazi analizzati, migliorandone la descrizione. “Un’etnosemiotica costruisce le proprie analisi a partire dall’osservazione diretta, ricostruendone il senso rispetto a ciò che si è visto” (Marsciani 2007, p. 10). 2 In relazione a uno studio approfondito sui molteplici progetti di riconsiderazione e re-design dello spazio pubblico cfr. Clemente (2017). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). e per questo promotrici di uno specifico effetto di natura3; ciò anche mediante l'inclusione di oggetti4, ritenuti ecosostenibili dalla loro stessa materialità. Si tratta di interventi di piccola e grande scala, in grado di innescare processi virtuosi di appropriazione dello spazio urbano, operando sul grado zero dell’architettura. Lo sfondo della città assume, in tal senso, un ruolo da protagonista, portatore di una nuova dimensione immateriale, capace di generare nuovi contesti per il collettivo urbano (Clemente 2017, p. 7). Alla luce di ciò, riporto un’analisi di tre microcasi di spazialità5, ritenuti pertinenti per la questione affrontata, in quanto in essi vi si trovano specifici oggetti che agiscono nella loro destinazione d’uso, determinando nei fruitori nuovi comportamenti. I primi due casi riguardano differenti aree esterne dell’Università di Palermo e l’ultimo ha come oggetto l’area divenuta pedonale, confinante con il liceo palermitano “Finocchiaro Aprile”; il primo spazio è quello in prossimità della facoltà di Scienze della Formazione, risemantizzato da un nuovo uso, quello della didattica all’esterno, il secondo è un’area verde, punto di raccolta per molteplici universitari, rivalorizzata e riarticolata da nuovi arredi urbani. Nel terzo caso poi, sono stati gli stessi studenti a trasformare parte della strada confinante con la scuola in un nuovo spazio sociale, mediante l'uso di arredi in pallet e legno. Uno degli obiettivi dell’analisi sarà far emergere le logiche e le modalità secondo le quali i casi affrontati attualizzano il senso e il valore di specifici materiali agenti come attanti della passione, “la reattività della materia non è per niente passiva ma partecipativa e non solo a livello pragmatico. Non si può negare, infatti, che le sostanze materiche siano anche attanti della passione” (Ventura Bordenca 2009, p. 14). Oggetti, materialità che assumendo sempre più il ruolo di soggetti e in particolare il ruolo di Destinanti (Marrone 2013), conferiscono la possibilità di instaurare nuove relazioni sociali, espressioni di un nuovo modo di percepire e di abitare lo spazio urbano6. In questa analisi tenterò di dimostrare la funzione di specifiche materialità nel conferire allo spazio una differenza, innescando determinate procedure valorizzanti che inducono i fruitori a prendere possesso del luogo rivalorizzandolo come proprio e dunque come bene comune. Emergerà dall’analisi la natura degli oggetti che in qualità di attori non umani, vengono qualificati come mediatori, “masse mancanti” (Latour 1992), responsabili di regolare i nostri comportamenti e di influenzare il nostro stato d’animo. Inoltre, metterò in luce le procedure semiotiche del processo per cui le nuove aree esterne acquisiscono una rinnovata efficacia simbolica, grazie all’interazione con le nuove materialità urbane. 2. Ripensare la potenzialità degli spazi oggi: analisi del primo caso di materialità urbana Alla luce delle conseguenze provocate dalla didattica a distanza, emergono nuove forme di sperimentazione spaziale riguardanti sia la comunità universitaria sia quella scolastica; collettività interessate a risemantizzare specifiche aree esterne, prive di una destinazione d’uso sociale ma riscoperte come nuove potenzialità esperienziali. 3 “La natura come effetto di senso, come ciò che appare tale, per una serie di processi sociali e culturali che hanno generato tali abitudini, costumi e codici” (Marrone 2012, p. 20). 4 Si faccia riferimento a Landowski (1989). 5 Per un approfondimento di analisi di testi spaziali cfr. Pezzini, Finocchi (2020), Marrone, Pezzini (2006). 6 Si fa riferimento anche ai criteri che orientano a una maggiore vivibilità e vitalità dello spazio pubblico; come il suo grado di liveliness responsabile di influenzarne la percezione individuale e sociale anche in termini di affettività, Cfr. Lynch (1990). 137 In riferimento alla questione della risemantizzazione urbana è determinante considerare che per tutti e tre i casi studio analizzati, essa si realizza mediante l’inserimento di arredi urbani responsabili di trasformare l’identità e l’uso di specifiche aree. Analizzo infatti quelle pratiche di risemantizzazione collettiva che dimostrano la necessità di sfruttare l’efficacia di micro-spazi già esistenti al fine di farne un riuso e trasformarli in possibili soluzioni abitative, mediante iniziative e interventi “dal basso”7. È questo uno dei modi che permette ai soggetti di valorizzare e riconsiderare gli spazi esterni a partire da strategie per viverli in maniera sociale, sostenibile8 e condivisibile (Migliore, Bertolotti 2019). I nuovi progetti infatti mirano a trasformare i luoghi in nuovi aggregatori sociali e a renderli promotori di iniziative diverse, come nel caso del primo oggetto di studio riguardante uno degli spazi esterni dell’Università di Palermo. Prima della pandemia, questo spazio era privo di un particolare segno di riconoscimento, in quanto solitamente utilizzato dagli studenti come zona libera e di passaggio. Oggi diviene luogo di sperimentazione di una nuova pratica, quella della didattica all’esterno. Osservando i comportamenti agenti in essa in differenti in periodi dell’anno accademico, ho potuto costatare che la nuova fruizione dell’area esterna si è resa volàno di nuove modalità di apprendimento, rienunciando una forma nuova di “fare lezione” incentrata su uno studio più comunitario e partecipativo. Come mostra l’immagine (Fig. 1), la disposizione plastica dell’aula e degli oggetti non cambia, i banchi e le sedie vengono posti o di fronte alla cattedra o a cerchio ricreando lo spazio dell’insegnamento e inducendo gli studenti a uno specifico uso. L’aula una volta dislocata e sconfinata all’esterno, non presenta più il medesimo confinamento fisico: vengono meno le porte, limiti (Giannitrapani 2013) che abitualmente le strutturano e le delimitano, differenziandole le une dalle altre. Viene percepito dagli studenti come uno spazio ibrido, prodotto dall’integrazione di spazialità differenti: l’area da aperta priva di una funzione stabile, diviene non chiusa, ben diversificata dal suo al di là contestuale. A differenza dell’interno però, gli oggetti sistemati su due file ben distanziate, fanno emergere un effetto di continuità dello spazio e una sua maggiore dinamicità che orienta a una nuova socialità fra i gruppi. L’area esterna viene così articolata da nuove soglie, oggetti che in qualità di attori non umani, ricreano uno specifico contesto dotandolo di una nuova identità, il cui ruolo e funzione si riconoscono come socialmente rilevanti. La nuova spazialità, infatti, acquisisce una particolare efficacia9, in quanto provoca trasformazioni sia nelle pratiche e nei comportamenti che negli stili di vita dei suoi fruitori. Una volta sospesa l’opposizione tra uso interno ed esterno, il fenomeno analizzato non solo funge da caso empirico di dispersione dello spazio di insegnamento, ma anche attualizza una nuova dialettica sintagmatica tra i soggetti e le materialità; la convenzionalità del rapporto che legava gli oggetti al proprio ambiente, l’aula interna, viene dunque sospeso. Dall’analisi viene alla luce la duplice natura degli oggetti, quella funzionale attribuibile alla didattica e quella puramente semiotica, in quanto coinvolgendo anche la sfera affettiva dei soggetti, vengono promosse nuove esperienze, nuovi stili di vita e di abitabilità facenti riferimento a nuovi valori, come quelli etici o identitari. Si tratta del fenomeno di prassi enunciazionale10, in quanto l’uso concreto dello spazio 7 In riferimento alla partecipazione di singole comunità agli interventi di progettazione, si ricorda il tema del placemaking, cfr. Dusp Mit (2013); Celestini (2018); Granata (2021). 8 In riferimento alle politiche e ai progetti di sostenibilità urbana: l’European Environmental Agency (EEA) associa all’idea di sostenibilità la creazione di aree esterne attrezzate al fine di favorire un “addomesticamento” del paesaggio pubblico. 9 Facendo riferimento alla teoria di Lévi-Strauss (1958), nel nostro caso l’efficacia simbolica si afferma quando “Il significato dello spazio sta nell’azione efficace che esso provoca sui soggetti che entrano in contatto con esso e che seppur tentano di modificarlo ne risultano essi stessi trasformati” (Marrone 2001, p. 323). Cfr. Fontanille (1994). 10 “Una sorta di ricaduta delle tradizioni interpretative e degli usi concreti dei testi nei testi stessi, al fine di adeguarli alle sopravvenute esigenze culturali e sociali della ricezione” (Marrone 2001, p. 322). 138 non risponde più a quello originario: la nuova spazialità induce i soggetti a una nuova modalità di fruizione in cui si affermano rinnovate relazioni interoggettive (agenti nell’articolazione spaziale) e tra spazi-oggetti. Fig. 1 – Primo caso di materialità urbana e di sperimentazione didattica. 3. Il sistema simbolico dei materiali: il legno “Il legno è ricercato oggi per nostalgia affettiva: perché trae vita dalla terra, vive, respira, lavora: il legno è un essere” (Baudrillard 1968, p. 34). L’analisi del secondo case study ha l’obiettivo di dimostrare la diffusione delle nuove priorità urbane e sociali rese possibili anche grazie a rinnovate relazioni tra gli spazi e specifici oggetti, selezionati rispetto al valore di economicità sostenibile (Clemente 2017), coerente con il risparmio di risorse e lo scarso impatto sul territorio. È questo, infatti, uno dei casi rappresentativi che fa emergere la portata valoriale e simbolica dei materiali, espressione di rinnovati sensi e linguaggi. Analizzo un altro spazio esterno dell’Università di Palermo, uno dei punti di incontro per la comunità studentesca, in quanto si trova in prossimità di uno dei bar maggiormente frequentati. Prima della pandemia era ritenuto un luogo vuoto, privo di una destinazione d’uso ufficiale, ma unicamente praticato come zona di passaggio, di vicinanza e di espansione per la consumazione improvvisata di cibi e bevande; appariva come area neutra, di frontiera che rendeva possibile una convivenza paritetica delle pratiche (Hammad 2003). Lo spazio, durante gli ultimi anni, è stato riacquisito e rivalorizzato dalla stessa comunità di studenti, la quale ha risemantizzato l’area trasformandola in modo creativo in ritrovo sociale, orientato alla partecipazione, alla conoscenza e all’inclusione. Come mostra l’immagine (Fig. 2), l’area viene riarticolata mediante l'inclusione di tavoli in pallet11 e di tronchi in legno che, lasciati alla loro forma originaria e al loro colore naturale12, specifico della loro identità, vengono risemantizzati in sedili e dunque rinvestiti di un’altra funzione, quella pratica; emerge così il valore riconosciuto all’identità semantica del legno, le cui dimensioni pragmatica e mitica si fanno portatrici di uno specifico significato e discorso collettivo. Il nuovo processo di risemantizzazione dimostra infatti la forza espressiva di specifiche materialità, le quali agiscono nel promuovere nuove esperienze che contribuiscono a migliorare gli stili di vita universitari e a fornire maggiori opportunità per rendere vivibile ogni spazio. 11Sulla trasformazione della materia si veda Bastide (1987). 12 In riferimento allo studio sulla simbologia del colore dei materiali, cfr. Baudrillard (1968, p. 29): “il colore assume senso fuori da se stesso: è metafora di significazioni culturali obbligate”. 139 Osservando più da vicino la nuova funzione fornita ai tronchi, è determinante riconoscere come essi vengano reinterpretati, resi significanti in un nuovo contesto, acquisendo un’identità e un uso culturale. Le loro dimensioni materica, patemica e socio-simbolica divengono espressione di un nuovo modo di vivere e di valorizzare gli spazi sociali in modo più ecologico, spazi in cui ritrovare una possibile idea di naturalità. Infatti, riconoscendo un’astrazione, in riferimento a Latour, si verifica un processo di spostamento 13 , dato da ciò che la sua stessa materialità rappresenta nell’immaginario collettivo. L’identità del legno è infatti espressione di uno specifico sistema simbolico, caratterizzato da un’ideologia sostenibile, reso così espressione di uno stile di vita universitario. I tronchi fungono da destinanti di un discorso ambientale, naturale caratterizzato da un rinnovato sistema di valori, di ideologie e di narrazioni14 da condividere. Grazie a essi, infatti, i soggetti istaurano una nuova relazione con l’ambiente esterno, percependo lo spazio secondo un grado di prossimità più immediato che garantirà l’emergere di nuove pratiche spontanee (Marrone 2010). “L’osservatore non si introduce soltanto nella catena degli usi di un oggetto, ma entra a far parte di una vera e propria forma di vita” (Peverini 2019, p. 72); forme di vita, di abitabilità dalle quali emergono nuove procedure valorizzanti15 che qualificano lo spazio come bene comune da salvaguardare. Durante le varie fasi di una ordinaria giornata universitaria, osservo le modalità e le pratiche secondo le quali gli studenti si adattano a una idea di spazio fruibile per molteplici usi, come l’incontro, lo studio o i lavori di gruppo; condizione sicuramente favorita dalla tipologia di arredamento e di “addomesticamento” dell’area che ricrea una spazialità ibrida, priva di una funzionalità rigida e per questo soggetta a molteplici proiezioni di significati. Nascono nuovi legami relazionali poiché l’area diviene meta di pratiche “dal basso”, pratiche quotidiane spontanee, per le quali il senso e l’identità dello spazio si riaffermano continuamente. L’area è pensabile come un caso di spazio semi-determinato (Hall 1966), in quanto strutturato secondo una logica improvvisata che non si impone nel territorio e per questo in sintonia con un progetto ecosostenibile in cui i soggetti si pongono in relazione con l’ambiente esterno. “Il legno come sostanza familiare e poetica che lascia in una continuità di contatto con l’albero; può durare a lungo e modificare a poco a poco i rapporti con l’oggetto e la mano” (Barthes 1957, p. 52). Fig. 2 – Secondo caso di materialità urbana, area esterna Università di Palermo. 13 Latour (1999a) sostiene che in ogni fase della trasformazione scientifica si realizzi una trasformazione degli elementi coinvolti, precisamente un passaggio dalla dimensione concreta della materialità a quella astratta della sua rappresentazione. Questo tipo di passaggio da cosa a segno viene definito debrayage di affissione (Peverini 2019, p. 78). Cfr. Peverini (2023). 14 Cfr. Lévi-Strauss (1978). 15 Si fa riferimento al sistema meta-semiotico di procedure valorizzanti (Floch1990), di cui fa parte la socializzazione utopica che mira alla costituzione di soggettività individuali e collettive, cfr. Marrone (2010, p. 69). 140 4. Analisi del terzo caso di materialità urbana: il pallet come Destinante affettivo e pragmatico L’analisi del terzo case study ha l’obiettivo di far emergere il ruolo che le materialità in qualità di mediatori urbani (Landowski, Marrone 2002) assumono nel trasformare l’identità e la destinazione di uno spazio pubblico, favorendo nuove associazioni tra umani e non umani (Latour 2005). A dimostrazione di quanto lo spazio sia un continuo risultato del riarticolarsi di materialità eterogenee, analizzo una particolare caso di risemantizzazione urbana: l’area pedonale realizzata a Palermo confinante con l’Istituto “Finocchiaro Aprile”. L’ area è stata ideata dal corpo studentesco grazie a un intervento di co-progettazione partecipativa che ha indotto non solo gli studenti ma anche potenziali pedoni a prendere parte al nuovo spazio secondo usi coerenti con i valori di sostenibilità urbana e benessere del cittadino. Infatti, il materiale utilizzato per la sua articolazione è il pallet, oggetto ecosostenibile ricavabile dal legno; quest’ultimo solitamente adoperato per il trasporto delle merci, questa volta viene risemantizzato e investito di un’altra funzione mediante un atto che riprende la classica definizione lévistraussiana della pratica del bricolage (Lévi- Strauss 1958)16. In riferimento a ciò, è determinante sottolineare come sia il senso connotativo (Eco 1968, pp. 191-249) attribuibile al materiale a far emergere e ad attivare specifici effetti di senso, divenendo manifestazione17 di un modello di vivibilità sostenibile. Come mostra l’immagine (Fig. 3), gli studenti restituiscono una identità all’area posta in prossimità dell’ingresso della scuola, ricreando una forma di spazialità sociale e complementare a quella interna, in quanto questa viene personalizzata e risemantizzata in area condivisibile, familiare, in cui ritrovarsi anche all’esterno dell’istituto scolastico. Ciò avviene mediante la creazione di tavoli e sedili in pallet, che una volta dipinti (a differenza dei tronchi all’Università), agiscono in qualità di soglie nel ricreare un luogo autogestito e d’incontro che pone in continuità l’interno della scuola con l’esterno della strada. La pratica creativa di realizzazione di oggetti a partire da una materia già esistente e riciclabile richiama il tema del recycling, coerente con le tematiche trattate ed efficace in termini di progettualità urbana e di singoli interventi dal “basso”. “Riciclare presuppone guardare alle cose cercando un loro possibile capovolgimento e lo svelamento di un valore insito in esse, materiale e sociale” (Bocchi, Marini 2015, p. 16). Si tratta infatti di una tecnica architettonica creativa di rimpiego di materiali in un’ottica green al fine di riattivare “cicli di vita” rinnovabili nel tempo 18; pratica sempre più diffusa nel settore dell’edilizia ma non solo, che ha l’obiettivo di rivalorizzare e riprogettare spazi aperti, vuoti e privi di una destinazione sociale facendo ricorso a una continuità temporale. In riferimento al caso di risemantizzazione trattato, la strategia di valorizzazione e di riuso del materiale agisce nel conferire all’area una differenza, riqualificandola come luogo sociale, di sosta e di incontro. Infatti, lo spazio reso pluridirezionale può essere fruito dagli stessi studenti o da eventuali passanti; per questi ultimi funge da possibile tappa improvvisata di un percorso interrotto, o punto di arrivo per la fruizione di uno spazio sempre accessibile, caratteristica ulteriormente motivante per un uso aperto 16 In riferimento alla teoria di Lévi-Strauss, la definizione di bricolage spiega come “la totalità dei mezzi disponibili debba essere implicitamente inventariata o immaginata perché possa definirsi un risultato che d’altronde rappresenterà sempre un compromesso tra la struttura dell’insieme strumentale e quella del progetto” (1958, p. 34). 17 In riferimento a un approccio relativo al linguaggio dei materiali, cfr. Floch (1995). 18 In quest’accezione agiscono le logiche di un design architettonico improvvisato orientate a un riavvicinamento al mondo naturale, in cui prevale l’ottica del riutilizzo di materiali e di aree urbane in termini di riscatto rispetto alle assenze di progettazione pubblica; per un maggiore approfondimento sul tema si veda: Braungart, McDonough (2003). 141 anche al pubblico. Inoltre, l’area resa ibrida da una convivenza di pratiche e usi si colloca nel tratto della non apertura per gli automobilisti in quanto isolata dal traffico e in quello della non chiusura per il pedone, tratto definito da un sistema di confinamento non rigido. Questa zona è infatti, sempre accessibile e utilizzabile in ogni momento della giornata divenendo un microcosmo urbano a misura d’uomo, dialogante e in continuità con il resto della strada19 confinante. Il materiale, i colori utilizzati, e l’inserimento di vasi di piante e fiori sono tutti elementi costitutivi della nuova spazialità, in quanto parlano di essa come di un nuovo spazio comunitario, il cui senso finale è dato unicamente dalla relazione con i soggetti che prendono possesso di esso20. Così, la negazione del confine di ciò che distingue uno spazio anonimo, pubblico, come la strada, da uno sociale, come un giardino, un parco o una piazza diviene sempre più netta; i suoi fruitori divengono promotori di nuove forme di comportamento in un luogo di incontro in cui le pratiche attribuibili unicamente a “passare” vengono distinte dallo “stare”. L’intervento di risemantizzazione ha agito nel conferire una nuova identità allo Streetscape 21di quella che era unicamente una strada, promuovendo nuove forme di addomesticamento sociale che ridisegnano il limite tra l’interno e l’esterno, tra il pubblico e il privato (Hammad 1989). L’area diviene un nuovo spazio-cerniera , “luogo di ricomposizione tra il discorso pubblico e il discorso privato” (Bertetti 2008, p. 4). A tal proposito sono auspicabili interventi di cura e manutenzione agenti nel nuovo spazio sociale, determinanti per mantenerlo vivo, autonomo e protetto, prevedendo la salvaguardia delle materialità in essa presenti, facilmente soggette ad atti di degrado; ciò incoraggia anche a un particolare sentire comune che produce il piacere di fruire uno spazio urbano più intimo, in grado di attivare un processo passionale positivo, legato a valori affettivi, individuali e collettivi (Denis, Pontille 2022). “La verità degli oggetti, e del loro senso, sta nella loro materialità, nella loro tangibilità, nella manifestazione in entità del mondo con le quali abbiamo una qualche relazione fisica, d’uso o di contemplazione che sia” (Ventura Bordenca 2009, p. 3). Fig. 3 – Terzo caso di materialità urbana, arredi urbani nell’area scolastica “Finocchiaro Aprile”. 19 “La strada è uno spazio vissuto, praticato, per cui al suo interno si ritrovano molteplici relazioni sia interoggettive che intersoggettive” (Barone 2019, p. 91 in Pezzini, Bertolotti 2019). 20 Cfr. Giannitrapani (2006). 21 Si fa riferimento al concetto di Streetscape per indicare tutti gli elementi che, come gli arredi urbani, caratterizzano l’identità di una particolare area favorendo un maggior confort ambientale. Per un approfondimento sul tema cfr. Scheerlinck (2015). 142 Alla luce di ciò che è emerso dall’azione delle materialità negli spazi analizzati, individuo alcune opposizioni tematiche che articolano gli effetti di senso provocati da due differenti modi di utilizzare e di costruire l’identità del legno; il legno del tronco nel primo caso, figura del mondo che per sineddoche rappresenta un immediato riferimento al mondo naturale, nel secondo invece il legno del pallet, artefatto trasformato in arredo urbano. Ciò farà emergere come il senso e la simbolicità della materialità del legno si realizzino solo in relazione alla forma che assumono e di conseguenza ai significati di cui divengono espressione nei nuovi spazi; questo è dunque il caso che dimostra come uno stesso materiale, in qualità di attante pragmatico e passionale22, può attualizzare specifiche pertinenze e narcotizzarne altre rispetto al tipo di narrazione in cui viene inserito. Tronco Pallet Natura Cultura Originario Derivato Risemantizzazione Trasformazione Tradizione Innovazione Disforia colore Euforia colore Valorizzazione utopica Valorizzazione pratica 5. I materiali: propulsori di una sostenibilità urbana “Il 2020 è stato l’anno del test planetario. Con la pandemia le città di tutto il mondo hanno cominciato, per necessità e non per virtù, a rimettere mano alle strade, alle piazze, agli spazi pubblici” (Granata 2021, p. 63). Così tornando al punto dal quale l’analisi era partita e alla luce dei risultati riscontrati, E. Granata riflette su un fenomeno in crescita, la cui origine è individuabile nel processo di accelerazione provocato dalla pandemia e rivolto al modo di abitare e percepire gli spazi sociali e pubblici. Il fenomeno, come si cerca di far emergere dai casi analizzati, riguarda la nuova tendenza progettuale, finalizzata alla promozione di interventi di disurbanizzazione rivolti soprattutto a quelle aree considerate vuote, prive di un riconoscimento identitario e come si è visto, di una destinazione d’uso precisa. A partire da una osservazione diretta delle aree, riconosco come le nuove relazioni tra gli spazi e gli specifici oggetti agiscano insieme ad altre iniziative per incentivare la sostenibilità ambientale23 e il public design anche nei luoghi didattici. Infatti, in riferimento a un pensiero ecologico sempre più dominante nelle città contemporanee, l’efficacia simbolica e la potenzialità semiotica di tutti e tre i micro-casi emerge in relazione alle nuove forme di vivibilità e agli stili di vita delle aree esterne, coerenti con una “nature based solution” (Granata 2021). È questa la tendenza progettuale che identifica come prioritaria la costituzione di più spazi sostenibili, la cui abitabilità, percorribilità e fruibilità rendono conto dell’integrazione e della partecipazione di una possibile natura urbana24. 22 Pertinente è il riferimento allo schema delle passioni, Fontanille (1993). 23 Si fa riferimento al vasto tema della sostenibilità ambientale in relazione alle pratiche di progetto che negli ultimi anni hanno diffuso l’importanza della vegetazione all’interno della città, al fine di rendere sostenibile il futuro dello sviluppo urbano. 24 Pertinente è ritornare sull’instabilità del concetto di natura - visto nel primo riferimento (Marrone 2012) - riprendendo le parole di Latour (1999b, p. 52) “la società stessa, quando distingue l’umano dalla natura, appartiene sempre alla natura”. 143 Volendo appunto confrontare tutti e tre i casi, ciò che emerge è il prevalere dell’isotopia euforizzante di una naturalità da ritrovare in specifiche materialità urbane. Si riflette così sull’importanza del significato e dell’uso di determinati materiali, la cui pertinenza simbolica è data dal loro essere portatori di uno specifico valore connotativo che condiziona l’assetto valoriale dei soggetti, evocando una dimensione euforica o disforica dello spazio abitabile. Gli oggetti si riconoscono dunque, come potenziali soggetti semiotici che donando una nuova identità agli spazi, fungono da destinanti non umani nel promuovere forme di ripertinentizzazione del naturale. Ciò si afferma come l’effetto della traduzione materiale, che attinge a un rinnovato sistema di valori di base e di forme di vita. 5. Conclusioni L’analisi dei casi di spazialità ha fatto emergere come il senso e l’efficacia di specifiche materialità vada oltre la loro funzione unicamente pratica. Un fenomeno ben trattato da Barthes, che dichiara che “c’è sempre un senso che va oltre l’uso dell’oggetto” (1957, p. 40); infatti, come abbiamo visto, secondo logiche differenti per ogni spazialità, l’identità dei materiali veicola l’immaterialità di un particolare significato facente riferimento a un universo assiologico che va oltre il loro stesso uso e la loro funzione concreta. Rifletto così su una prospettiva di ricerca rivolta a un fenomeno generale, orientato alla negazione della pura descrizione fisica degli oggetti, pensati non come artificiosi ma più umani, al fine di valorizzarne la dimensione simbolica25 e mitica. Pertinente è dunque il riferimento a Cosimo Caputo, il quale affrontando la semiotica hjelmsleviana e in particolare i concetti di simbolo e segno afferma: “le metafore risultano radicate nella materialità del vivere” (Caputo 2010, p. 167). Approfondendo tale questione, emerge come i casi riportati dimostrino l’acquisizione e la risemantizzazione del loro senso solo all’interno di una determinata spazialità, nella quale divengono espressione di una specifica struttura tematico narrativa. Si fa ricorso “alla loro capacità estetica di evocare la forma di vita corrispondente e i valori a essi sottesi” (Fontanille 1995, p. 57). Ciò che emerge è la portata semiotica di ogni “corpo-attante”26 (Fontanille 2002, p. 72), dimostrata non solo nell’atto di rivalorizzazione di specifiche aree urbane ma anche nel modo di condizionare i soggetti al livello sia cognitivo che passionale. Come dichiara Fontanille, “l’interoggettività è di tipo sincronico: è la prova di un modo di vita, di un effetto di identità” (Fontanille 2002, p. 82). L’analisi si propone inoltre di sviluppare futuri approfondimenti teorici su un fenomeno in continua evoluzione e trasformazione, in cui il senso degli oggetti si disperde in differenti forme significanti che daranno vita a nuove relazioni urbane e sociali. In relazione a ciò, rifletto sul possibile incontro tra due discipline: la semiotica e l’architettura. Si tratta di prospettive e campi d’indagine differenti ma che riconoscono entrambi la forza espressiva e la dimensione simbolica di specifiche materialità urbane, soggetti agenti nel fare emergere nuovi effetti di senso orientati a una percezione più sostenibile, comunitaria e partecipativa dello spazio pubblico. 25 “Il contenuto semantico di tale valore non è quasi mai una caratteristica intrinseca dell’oggetto cercato; è piuttosto un valore per il soggetto, un qualcosa che serve alla realizzazione di quest’ultimo, alla costituzione e al ri- conoscimento della sua identità” (Marrone 2002, p. 16). 26 Fontanille (2002) si riferisce ai processi mediante i quali gli oggetti possono essere percepiti come attanti al pari dei corpi dei soggetti. 144 Bibliografia Barthes, R.,1957, Mythologies, Paris, Seuil ; trad. It., Miti d’oggi, Torino, Einaudi 2016. Bastide, F., 1987, “Le traitement de la matière, opérations élémentaires”, in Actes Sémiotiques-Documents, 89, pp.7-27 ; trad. 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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/3100
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Osservare, immergersi, produrre. Immagini del borgo e forme di valorizzazione nelle aree interne italiane: il caso di Castelluccio di Norcia Enrico Mariani Abstract. The debate on living in Italy’s inner areas during the pandemic underwent an unexpected acceleration, partly due to the unease and congestion felt among the middle-class urban workers, who projected an idyllic and stereotypical vision of inner areas. The term “borgo” itself has started to indicate these aestheticizing visions, where material and territorial realities are romanticized. Through the case study of Castelluccio di Norcia, located in the central Apennines affected by the 2016 and 2017 earthquakes, this article focuses on how hamlets are represented in public discourse. The ethnosemiotic gaze succeeds in articulating different perspectives on the relations between images of the hamlets, forms of valorization, and the underlying axiologies of practices and processes, which significantly impact the transformation of the territory. 1. Introduzione Il presente contributo intende mettere a fuoco, attraverso una prospettiva semiotica, diversi punti di vista sulle forme di valorizzazione che caratterizzano il discorso contemporaneo intorno ai borghi italiani. Il borgo è, ad oggi, qualcosa di immediato e intuitivo, qualcosa che si sa, su cui si è d’accordo non appena lo si vede comparire: arroccato su un’altura, sullo sfondo di valli e colline, le case in pietra con le tegole (i tradizionali “coppi”) sui tetti, il colore uniforme, stradine che si incrociano e sbucano su piazzette a misura d’uomo, giardini ben curati, portici, balconi e sedute diffuse, porte di casa decorate da colorate fioriere, ristorantini e negozi di prodotti tipici. Nel significato originario diffuso in Francia e Germania settentrionale a partire dal X secolo, il borgo si definiva come aggregato o centro fortificato, in opposizione ai sobborghi o alle aree rurali e coltivate che si trovavano al suo esterno, mentre a partire dal XII secolo ad essere indicato come borgo, in Italia è “il villaggio fortificato il gruppo delle abitazioni del popolo”, luogo dove si radicheranno mestieri, corporazioni e poteri locali, contrapposto e distinto tanto al “castrum”, inteso come dimora del signore, quanto alla “villa” del contado (Treccani)1. Secondo l’ipotesi che tenteremo in questo contributo di articolare, il borgo contemporaneo è definito da una serie di discorsi ascrivibili ad una certa articolazione stereotipica della materia, una “reificazione estetizzante” che affonda le sue radici nel processo di riscoperta e valorizzazione dell’Italia dei borghi, “dove sovente il significato figurativo acquisisce autonomia e vita propria rispetto al significato originario dell’oggetto” (De Rossi, Mascino 2022, p. 66). Tale articolazione stereotipica produce una serie di testi, immagini e pratiche accomunate dal condividere, riformulare e scambiarsi certe immagini-tipo dei borghi. In questo senso il borgo potrebbe essere proficuamente analizzato attraverso la formulazione del corpo-immagine (Marsciani 2007°) come addensamento valoriale che si attualizza propriamente nella dimensione del discorso. La dimensione del discorso permette di cogliere tanto la “capacità di produrre immagini, vale 1 Voce “Borgo” nell’enciclopedia online Treccani (consultato il 6 aprile 2023). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). a dire di addensare tratti, di farli risuonare, di montare elementi in configurazioni complesse, di delineare scenari, di convocare altri corpi e di stratificarli”, quanto l’inevitabile e necessaria presa di posizione rispetto al discorso di tale capacità di produrre immagini, che avviene sempre “in funzione di un punto di vista, di un’istanza di valorizzazione” (ivi, p. 140). L’obiettivo di questo contributo è quindi quello di mappare le pratiche di messa in discorso dei borghi, tramite un corpus di testi raccolti nell’ambito di un’etnografia prolungata nelle aree dell’Appennino centrale colpite dai terremoti del 2016. L’ipotesi è che attraverso l’etnosemiotica si riesca a rendere conto in modo privilegiato tanto di come il corpo dei borghi, la loro materialità, venga resa in immagine nel discorso contemporaneo, quanto dei posizionamenti valoriali sottesi a tale discorso. L’analisi dei processi di discorsivizzazione, che coinvolge la messa “in forma” di certi elementi e materie (paesaggi, prodotti tipici, tradizioni, caratteri e modi di fare locali…), è in grado di illuminare gli schemi valoriali sottesi alle pratiche che, nel contemporaneo, determinano processi con impatti molto rilevanti sulla trasformazione dei territori. 2. La riscoperta (pandemica) dei borghi italiani Per comprendere gli aspetti specifici che interessano i borghi dell’Appennino centrale, è necessario inquadrare il contesto delle cosiddette aree interne italiane. La categoria che vede recentemente rivendicare alle aree interne2 spopolate e povere una nuova centralità, rievoca la stessa tensione tra interno ed esterno con cui Manlio Rossi Doria (1958) si riferiva a “polpa e osso” per analizzare e denunciare le diseguaglianze che si andava amplificando tra il paesaggio produttivo delle pianure costiere e quello, aspro, che caratterizzava i territori interni del Meridione. Negli anni Cinquanta i processi di marginalizzazione – pauperizzazione e crisi del welfare territoriale, abbandono delle risorse, trasformazione socioeconomica e antropologica – che in seguito investiranno anche le aree rurali, appenniniche e montane di tutto il Paese erano già ben avviati. Molti autori hanno storicizzato, in forme diverse, le faglie storiche, culturali e politiche di questo processo di “scivolamento a valle” (Sereni 1979) dei paesi. Parlare di spopolamento e impoverimento delle aree interne significa confrontarsi con una serie di scelte politiche e di modelli di sviluppo territoriali: un nodo che intreccia questioni interdipendenti, legate agli effetti socio-spaziali dell’industrializzazione del dopo-guerra e che incide sulla condizione abitativa di “circa un milione di italiani che non sono liberi di continuare a vivere dove sono nati, a causa delle condizioni di marginalità e isolamento che limitano di fatto i loro diritti di cittadinanza” (Pazzagli 2021, p. 42). Il dibattito sui borghi ha conosciuto un’inattesa accelerazione durante la pandemia, in particolare in seguito ad un’intervista rilasciata dall’architetto Stefano Boeri al quotidiano La Repubblica, nel quale, tra le altre cose, si proponeva di “adottare i piccoli borghi” (De Cunto et al. 2021, La Repubblica 2020). Un ruolo rilevante era giocato, in quel periodo, dalla sensazione di disagio e congestionamento della classe media di lavoratori urbani, che proiettavano sulle aree interne una visione idilliaca e stereotipata (Bindi 2021). L’alterità spaziale e temporale nei confronti dell’urbano, comunemente associata a remotezza, isolamento, diseguaglianze e arretramento, viene riconfigurata e valorizzata positivamente nell’ambito di una generale fascinazione per la dimensione del borgo: piccolo, sano, rurale e all’aperto (outdoor). La densità urbana è opposta agli ampi spazi aperti, l’inquinamento all’aria pulita, la qualità delle materie prime al cibo dei supermercati, l’anonimato della vita urbana a relazioni sociali sane. L’iperproduzione e in generale l’insostenibilità sociale e ambientale della vita 2 La categoria di “aree interne” viene istituzionalizzata nel 2013 con una politica nazionale di sviluppo e coesione territoriale che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico, la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI). In base al criterio di remoteness, ovvero di distanza dai servizi essenziali (ospedalieri, scolastici, trasporti pubblici) la SNAI individua 72 aree interne. La distanza media da questi poli definisce una tipologia: poli di attrazione urbani, poli di attrazione intercomunali, aree di cintura, aree intermedie, aree periferiche, aree ultra-periferiche (Barca, Casavola, Lucatelli 2014). 148 urbana sono opposte alle storie di chi decide di trasferirsi nelle aree interne, come esempi della possibilità di fare esperienza di ciò che in città è, per definizione, negato (Olmo 2022). Se la posta in gioco nel discorso può essere identificata come una delle questioni centrali del contemporaneo – come vivere in relazione all’ambiente, alle risorse, alle relazioni e all’accessibilità dei servizi –, l’uso della parola “borgo” inizia, durante la pandemia a farsi spia di quelle visioni dicotomiche, “urbane” ed estetizzanti, in cui le circostanze materiali, in particolare quelle relative all’abitare in rapporto alle disuguaglianze e le vulnerabilità socio-spaziali, sono narcotizzate. 3. L’immagine ideale del borgo italiano Per individuare le radici dell’immagine del borgo contemporanea è necessario interrogare i processi di trasformazione delle aree interne in sfondo per le vacanze, che si vorrebbe allo stesso tempo puro, idilliaco, incontaminato e capillarmente dotato di servizi e infrastrutture turistiche. Le aree oggetto di studio di questo contributo, quelle dell’Appennino centrale colpite dai terremoti del 2016-2017 (Emidio di Treviri 2018), sono coinvolte in un processo di brandizzazione esemplificativo per le aree interne, dove alcuni vettori rendono possibile individuare il conferimento acritico dei caratteri di autenticità, genuinità e spirito contadino al centro Italia rurale (Sabatini 2020). Tale processo coinvolge il territorio nel suo insieme, se consideriamo che, nella zona dei Monti Sibillini, alla perdita di 19.566 residenti avuta nel trentennio 1951-1981 (una diminuzione media della popolazione del 30,5% per decennio) fa da contraltare un aumento medio dell’edificato del 280,2%. Il binario che vede correre parallele da un lato desertificazione sociale, e dall’altro infrastrutturazione, si configura come punto di emergenza contemporanea del processo di abbandono, e parallela brandizzazione di alcune specifiche caratteristiche delle aree rurali e montane (Mariani 2022; Olori, Mariani 2022). L’inselvatichimento presente intorno all’infrastrutturazione dei borghi, legato all’idea di wilderness e alla domanda di natural experience, viene convocato in questi immaginari come un valore positivo, di cui viene esaltata l’autenticità, in contrasto – oppure in un rapporto compensativo – con il modello urbano in crisi (Brevini 2013). Dal progressivo disgregamento di forme abitative basate su relazioni di reciprocità ed equilibrio con le risorse ambientali, derivano in realtà gravi fenomeni di degrado territoriale: il territorio abbandonato non è semplicemente un territorio improduttivo o senza abitanti, ma è un territorio in cui si perde biodiversità (Carrosio, De Renzis 2021). Più che angolo dimenticato da cui ammirare le rovine, l’abbandono allora è risvolto costitutivo di un modello di sviluppo orientato alla concentrazione e intensificazione produttiva e generatore di marginalità. L’abbandono e lo scarto sono estremi territoriali consustanziali al modello industriale, che fa della produzione di scarti (siano essi produttivi, sociali, umani) la base del proprio funzionamento (Varotto 2020, p. 61). Il confezionamento di immagini idilliache dei borghi si configura come ritaglio particolare, teso alla costruzione di luoghi utopici (Addis 2016): né qui, né altrove […] nello scarto fra il luogo e la scena, fra un territorio informato della cultura e la memoria di coloro che lo abitano e lo spettacolo colto da un osservatore fuori-campo, per il quale cose, persone e azioni sono indifferentemente emergenze di una scena edenica da cui sono espunti l’Altro e la Storia, il conflitto e la gerarchia, il bisogno e la mancanza, il lavoro e una qualunque azione trasformatrice (ivi, p. 60). La patrimonializzazione del borgo, la sua riduzione ad oggetto estetico opera attraverso estrazione di ritagli localizzati dal territorio, estrazione dell’oggetto dal contesto che produce una “miniaturizzazione 149 totalizzante” (ivi p. 69): l’immagine del borgo diventa autonoma rispetto alla rete delle attività, dalle infrastrutture, dalla vita quotidiana, dal paesaggio produttivo delle aree interne italiane. Paesaggio che Lanzani (2003) definisce “scomposto”, con urbanizzazioni decontestualizzate, aree e servizi turistici sovradimensionati rispetto al numero dei residenti, frane e interventi emergenziali che tamponano, ma non riparano il disgregamento. Secondo De Rossi e Mascino (2022) l’immaginario figurativo propone i borghi come “opere d’arte totali”, attraverso movimenti “metasegnici e metonimici” in cui le qualità sensibili dello spazio (“natura e tipo di materiali tipici e tradizionali, configurazioni integrali dello spazio”) vengono estratte e riproposte in modo incrementale e cumulativo (ivi, p. 68). A perdere di importanza è il territorio, a favore di un effetto di autenticità incarnato dall’adesione a un canone iconografico e figurativo: “separata dai contesti reali e dal fluire della storia, inscritta in una cornice resa idealtipica, la natura stratificata e incrementale dei paesi si capovolge in carattere borghigiano: la patina, la tortuosità, l’irregolarità, lo sviluppo altimetrico e rugoso diventano tratto estetico” (ivi, p 70). L’interesse per l’analisi delle forme di valorizzazione dei borghi si configura allora come percorso di ricerca che insiste su quelle configurazioni culturali che veicolano e producono determinati concezioni e pratiche della natura (Marrone 2011). Fig. 1 – Civita di Bagnoregio, una delle forme architettoniche che meglio esemplifica l’idea di corpo- immagine dei borghi italiani. 4. Domande di ricerca e metodologia L’analisi delle modalità specifiche di messa in forma della materialità dei borghi può rappresentare una porta d’accesso utile alla comprensione di quelle configurazioni socio-culturali che riguardano il rapporto con le concezioni di natura prevalenti nel contemporaneo. Tale analisi si pone in dialogo con la focalizzazione semiotica dei fenomeni turistici (Pezzini, Virgolin, a cura, 2020), in particolare con i contributi che si sono dimostrati in grado di evidenziare la rilevanza dell’analisi semiotica nell’individuazione delle relazioni tra immaginari, dispositivi di potere e dinamiche di valorizzazione spaziale (Addis 2016, 2020; Sedda, Sorrentino 2020; Virgolin 2022). Se le immagini dei borghi sembrano ricondurre a forme figurative che riducono al bidimensionale la complessità delle relazioni ecologiche, sarà necessario definire i diversi punti di vista sulle esperienze e sulle valorizzazioni del fare turistico (Finocchi 2013, 2020) attraverso uno sguardo etnosemiotico (Marsciani 2007b). Se, infatti, le figurativizzazioni dei borghi possono essere lette con gli strumenti della semiotica del testo, dall’altro lato la semiotica discorsiva si offre come luogo di ripensamento e messa in discussione degli assunti iniziali della ricerca, mettendo in gioco il corpo – l’implicazione dell’osservatore nell’ambiente che osserva e nella pertinentizzazione dei fenomeni – come strumento del conoscere, a partire dalle 150 particolari condizioni che si danno durante la pratica di osservazione etnosemiotica. Nella prima parte dell’analisi si passeranno in rassegna alcune testualità, tentando di comprendere in che modo queste propongono determinati modi di conoscere, di entrare in contatto sensoriale con la materialità dei borghi nelle aree interne italiane. L’analisi delle forme discorsive pone, già in questa fase, problemi di punti di vista e relativa individuazione delle istanze di valorizzazione, a cui si tenterà di rispondere tramite una modellizzazione che mette in relazione immagine del borgo, pratiche e schemi attanziali. Se già in questa fase dell’analisi appare evidente la necessità di includere una pluralità di punti di vista sui fenomeni di discorsivizzazione dei borghi, nel resoconto etnografico riportato di seguito emergerà tutta la problematicità di osservare ed essere osservati in quanto attori agenti che producono movimenti e tracciati pratici, il cui senso dipende solo in parte dal punto di vista di un soggetto razionale e presente a sé stesso. Le modalità di fruizione (prensione) dei borghi verranno dunque messe in costante relazione con l’ipotesi iniziale del corpo-immagine, inteso come posizionamento valoriale che produce un certo tipo di discorsi sui borghi e sulle loro materie distintive. Per riassumere, l’analisi si muove a partire da una prospettiva etnosemiotica, che intende problematizzare: 1) la pluralità di punti di vista e delle possibili interpretazioni implicate nell’osservazione etnografica, compresi i punti di vista dell’osservatore; 2) le forme di valorizzazione sottese a questi punti di vista; 3) le configurazioni sottese alle pratiche e alle forme di valorizzazione. 5. Pasolini e la forma di Orte In una delle scene iniziali di un documentario intitolato Pasolini e la forma della città3, prodotto nel 1973 e andato in onda del 1974 sulla Rai, si vede proprio lo scrittore e regista ripreso mentre è impegnato nel regolare lo zoom della cinepresa per inquadrare il profilo del borgo di Orte. Rivolgendosi a Ninetto Davoli, comincia a spiegare: ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo. Quella casa che si vede là a sinistra, ecco, la vedi? Ecco, questo qui è un problema, di cui io parlo con te […] che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molto volte alle prese con questo problema […] di filmare una città nella sua interezza. E quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare, perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, che non c’entrava. Fig. 2 – Una sequenza del documentario “Pasolini e la forma della città”, in cui il regista si rivolge a Ninetto Davoli. 3 Pasolini e la forma della città, diretto da Paolo Brunatto, Produzione RAI, 1973, disponibile al link www.youtube.com/watch?v=NLgpg1LbiU4&ab_channel=ErmannoPeciarolo 151 In questo frammento è abbastanza facile rilevare l’eco della critica di Pasolini verso i processi di modernizzazione, che investono gli ambienti urbani e i loro abitanti. L’idea di mutazione antropologica può essere vista infatti come storicizzazione degli effetti del consumismo e della massificazione della società industriale, a cui viene contrapposta la società contadina e la sua cultura materiale come polo di saperi culturale e territoriale. Nella critica di Pasolini, la forma estetica di Orte è un oggetto a sé, armonico, chiuso e coerente: una “forma perfetta e assoluta” caratterizzata da “perfezione stilistica” che viene rovinata, deturpata da un edificio appena costruito “qualche cosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava”. Il discorso sembrerebbe a questo punto scivolare sul terreno di una critica superficiale, ma invece proseguendo nel video possiamo avere l’impressione che Pasolini colga perfettamente la dimensione più profonda del problema, quando afferma che, in realtà, ciò che lo interessa è: “il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il problema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico”. Fig. 3 – Il borgo di Orte ripresa da Pasolini con l’edificio alla sua sinistra che, leggermente distaccato dall’insieme, ne rovina la “forma pura”. 6. Tre istanze di valorizzazione per Castelluccio di Norcia Il formante plastico, la forma esteriore e paesaggistica, rimane uno degli aspetti più importanti nel definire l’immagine tipo dei borghi contemporanei4, ma non l’unico. Per tentare di articolare una serie di punti di vista sulle forme contemporanee di valorizzazione dei borghi italiani, prenderemo in considerazione il video pubblicitario di lancio di Tablò #RinascitaCastelluccio5, campagna pubblicitaria del Brand Perugina dedicata a raccogliere fondi per la costruzione di una struttura commerciale emergenziale (fortemente critica e osteggiata, in ragione del suo impatto ambientale), denominata Deltaplano, a Castelluccio di Norcia. Il borgo di Castelluccio, situato su un’altura all’interno di un altopiano carsico a quota 1400 mt., possiede una particolare potenza figurativa (Aime, Papotti 2012): il contrasto tra la Piana e la parete della montagna più alta dell’Appennino centrale, il Monte Vettore; lo spettacolare cromatismo della fioritura di 4 Basti pensare, ad esempio, che per essere incluso nel Circuito dei Borghi più Belli d’Italia, è richiesto al borgo di presentare una serie di dati quantitativi, tra cui la “prevalenza degli edifici storici rispetto a quelli costruiti dopo il 1939 in percentuale” e altri aspetti come “armonia e omogeneità dei materiali delle facciate e dei tetti; armonia e omogeneità dei colori delle facciate e dei tetti”. Il regolamento è disponibile al link www.borghipiubelliditalia.it/wp-content/uploads/2017/02/regolamento-borghi.pdf. 5 Video pubblicitario di Perugina Tablò per Rinascita Castelluccio, disponibile al link www.youtube.com/watch?v=n6uLnq2Ptso&ab_channel=Perugina. 152 giugno, durante la quale la Piana si riempie di colori; la ruvidezza di un altopiano a 1400 metri, impervio e difficile da vivere, eppure faticosamente antropizzato nel corso dei secoli. Fig. 4 – La Piana di Castelluccio e il borgo durante la fioritura. Nel breve video pubblicitario di Tablò #RinascitaCastelluccio si vede una ragazza con un pennello in mano, di spalle davanti a una tela bianca. Il montaggio la segue mentre, con aria ispirata, spezza una tavoletta Tablò Perugina, la morde, e intorno a lei si alzano delle onde di colore che la avvolgono e la trasportano, immediatamente, dentro alla tela del quadro che non ha ancora iniziato a dipingere. Accompagnata dalla voce narrante, che afferma “Un’esperienza completamente nuova, Tablò è cioccolato Perugina, e la sua forma unica, la vita è un’esplosione di gusto”, la ragazza mordendo la tavoletta di cioccolato accede (modalizzazione secondo il potere) alla Piana di Castelluccio con un pennello in mano. Il montaggio la vede muoversi felice in una dimensione trasfigurata, dove tutto le si trasforma attorno (persino la sua corporeità, che assume gli stessi formanti figurativi del dipinto in cui è immersa), mentre lei conserva e accresce non solo ciò che può fare (ha un pennello in mano e dipinge il paesaggio con aria sognante, con gesti disimpegnati) ma anche ciò che può sentire, diventando attore partecipe del paesaggio nel suo farsi. Fig. 5 – La ragazza, di spalle, è dentro il quadro e osserva la “forma pura” del borgo di Castelluccio. Se è abbastanza ovvia la rima tra paesaggio e opera d’arte (in questo caso un quadro dipinto), ci interessa in questa sede cogliere l’idea di un attore implicato, interno rispetto a una spazialità che è sia inglobante, sia incessantemente prodotta da un atto tattile, il dipingere. Lo spazio della Piana di Castelluccio è liscio in quanto a possibilità di movimento, le striature sono puramente sensibili, relative ad alcuni tratti che rapiscono l’osservatore e costituiscono ciò che c’è da vedere. Le possibilità di movimento si definiscono non tanto in base alle proprietà fisiche del paesaggio, quanto in funzione del desiderio percettivo di un 153 soggetto in trasformazione: l’attore può diventare piccolo e farsi travolgere dalla maestosità del paesaggio, subito dopo impugnare un pennello per disegnare il paesaggio, ma al contempo sovradimensionarsi, ovvero divenire letteralmente una sorta di gigante che è in grado di sovrastare la Piana e il borgo di Castelluccio di Norcia, ottenendo un punto di vista inedito, unico. L’attore vede, è immerso, ma allo stesso tempo si guarda vedere, acquisendo consapevolezza della straordinarietà dell’esperienza. Fig. 6 – La ragazza affonda le dita nei colori della Piana, diventando attore partecipe del divenire quadro del paesaggio. Il vedere diventa poter partecipare alla produzione di un paesaggio sensoriale che non è dato, ma nel quale l’attore è una delle forze in gioco, preso in una condizione di multistimolazione sensoriale che conduce ad un effetto di fascinazione estatica. In questo trasporto onirico, il prodotto/merce è il medium che consente di rompere la vetrina (dietro alla quale si ammira) e di camminare dentro, di muoversi all’interno. L’attore gigante che osserva dall’alto il borgo e la Piana, quanto quello di dimensioni normali che vi cammina all’interno, si muovono in una compresenza spazio-temporale: ad un certo punto del video pubblicitario, il pennello è enorme e rischia di travolgere la ragazza minuscola che si aggira nel mezzo della Piana. La compresenza attoriale consente una varietà di modi per accedere alle qualità sensibili del paesaggio: mentre sulle prime la ragazza scorre le sue dita che si immergono nei colori sgargianti di un paesaggio che è già dipinto, rivelandocene la consistenza fluida e morbida, nella fase successiva dello spot il pennello è mosso dall’attore ragazza-gigante. Dal punto di vista della ragazza che cammina all’interno della Piana il pennello è come un treno in corsa, che rischia di travolgerla e traccia delle striature longitudinali, che corrisponderebbero alle delimitazioni tra i campi coltivati di Castelluccio: la diversità dei fiori, tra colture e un brulicare di specie spontanee, che conferisce alla Piana durante la fioritura uno spettacolare effetto multicromatico, è restituita nella pubblicità come giustapposizione di una serie di pennellate di colore sgargiante. Fig. 7 – La ragazza rischia di essere travolta dal pennello gigante che traccia longitudinalmente i colori della Piana. 154 La compresenza di istanze attoriali durante il video pubblicitario permette di alternare una pluralità di punti di vista della piana e del borgo, che si intrecciano e concorrono a produrre l’immagine finale, quella del quadro dipinto, compiuto. Mentre la voce narrante recita: “Dal cuore dell’Italia, Perugina, il cuore del cioccolato italiano” torniamo nel mondo in carne e ossa della ragazza che osserva il risultato dall’esterno, ottenendo visione d’insieme sull’opera completa. Il risultato tangibile dell’eccezionale esperienza percettiva della ragazza – dopo aver incarnato simultaneamente due punti di vista, ovvero 1) quello di chi cammina dentro (e sopra) la fioritura della Piana di Castelluccio, e 2) quello di chi ottiene non tanto una visione scopica, quanto la possibilità di guardare e muoversi come un gigante, da un punto di vista quindi inedito e inoccupabile6 – è il quadro che occupa la scena finale del video, il quale riproduce una delle viste più classiche su Castelluccio durante la fioritura. Fig. 8 – La ragazza, in “formato gigante”, osserva Castelluccio da un punto di vista inedito, perché inoccupabile. A fronte dell’analisi dei punti di vista presenti nello spot Tablò per Rinascita Castelluccio, è possibile delineare il discorso svolto da quelli che possiamo definire come modi di prensione e delle istanze di valorizzazione ad esse soggiacenti: 1. Osservare: gli oggetti di valore pertengono alla dimensione plastica delle architetture del borgo, sui quali si tratterà di ottenere punti di osservazione peculiari, inediti. I movimenti attanziali si legano a programmi narrativi dove le giunzioni sono soggette a dinamiche di avvicinamento, allontanamento, più in generale a forme di aspettualizzazione della forma estetica del borgo rispetto al paesaggio circostante: quella particolare distanza, quel particolare scorcio, quel particolare orario del giorno. Il paesaggio assume senso in funzione dei formanti plastici che emergono al suo interno, accessibile rispetto ad una visione già dotata, in partenza, delle competenze per cogliere la pasolinana “forma estetica pura”. Questa idea era ben rappresentata da altre immagini di accompagnamento della campagna #RinascitaCastelluccio di Perugina, dove la forma del borgo di Castelluccio veniva fusa, grazie ad effetti di dissolvenza, con quella del celebre cioccolatino della Perugina, il Bacio, sottolineandone una identificazione che si muove su più livelli di densità figurativa. 2. Immergersi: se della Piana si sono ormai esaurite le visuali, massicciamente presenti sui social e uguali a sé stesse, ad essere proposto è un livello di esperienza immersiva del borgo, dove ad essere protagonista è l’implicazione sensoriale dell’attore in un ambiente. Da questo punto di vista, interno alla scena, il borgo è inseparabile da, e anzi assume valore proprio in virtù di, una natura che diventa protagonista di schemi narrativi: è lei che destina e che – per mezzo ad esempio delle competenti guide e dei percorsi offerti da altri esperti dell’outdoor – orienta i valori in gioco, suggerisce cosa poter 6 Nemmeno con il drone o con l’elicottero (mezzi del resto subordinati a un accesso competente) sarebbe possibile incarnare la posizione utopico-ludica di un umano alto oltre misura, che può con i propri occhi guardare da vicino una miniatura, chinarsi, toccare, soffermarsi o passare velocemente sopra. 155 e non-poter fare, legittima l’interesse figurativo e discorsivo di percorsi e tracciati. Questa natura è interessante e unica proprio perché, essendone circondati, si accede ad una dimensione altra, eccezionale rispetto al quotidiano. L’istanza di valorizzazione è allora impegnata in movimenti del tipo compensativo e oppositivo, discorsivizzati attraverso immagini dell’incontro immersivo, oppure dell’assunzione di sostanze e alimenti che hanno un effetto salvifico e purificante. L’accesso al borgo è accesso euforizzato di un fruitore che può godere di una dimensione composita, dove naturale significa buono e dove alcuni elementi specifici e ricorrenti come l’aria buona, il cibo, il piccolo, le relazioni, lo stile di vita conferiscono benefici e attualizzano un’alternativa tangibile rispetto all’oppressione della vita urbana. 3. Produrre: se l’esperienza sensoriale da dentro (immergere) può essere letta come tentativo di avvicinamento rispetto all’osservare, ci sembra di poter definire l’emersione di un terzo modo di prensione nelle dinamiche di produzione attiva del borgo e del suo paesaggio. In questi casi i movimenti attanziali vedono compiersi archi trasformativi che dipendono dalle competenze e dalle condizioni specifiche, mai conoscibili del tutto in partenza, in cui si dà l’esperienza. Mentre il pennello gigante rischia di travolgere la ragazza, la voce narrante suggerisce il potenziale di novità dell’esperienza proposta, che è anche al contempo un potenziale di rischio: “Tablò è intenso, avvolgente, un gusto mai provato prima”. L’esperienza, che in ogni caso sarà trasformatrice, non è data a priori, né in base al punto di vista sui formanti plastici (osservare), né in base alle possibilità di accedere ad una natura benefica (immergere), ma si produce a partire da una istanza che accetta il rischio di avere a che fare con l’imprevedibilità, al fine di raggiungere una qualche trasformazione non prevedibile in partenza. Per riassumere, siamo di fronte a 1) una immagine-borgo come formante plastico, a cui si accede tramite valorizzazione dei regimi della visione; 2) un’immagine-borgo come composizione di materiali sensibili già dati, a cui si accede tramite valorizzazione dell’alterità; 3) un’immagine-borgo come possibilità di produzione attiva, valorizzata da istanze che si nutrono della potenzialità di attivare una costante, quanto imprevedibile, trasformazione. Se ad un primo sguardo il video pubblicitario di Tablò per #RinascitaCastelluccio sembra proporre una mera caricatura dell’esperienza estetica di Castelluccio, ci sembra che a partire da un’analisi approfondita di questi pochi secondi di video si possano ricostruire tre delle forme di corpo-immagine (Marsciani 2007°) del borgo, inteso come posizionamento valoriale in grado di produrre diverse forme di addensamento discorsivo: borgo come valorizzazione della forma pura, dell’alterità e della trasformazione rischiosa. Nel prossimo paragrafo tenteremo, attraverso la tecnica dell’osservazione partecipante, di ricostruire un altro punto di vista sulla fruizione della Piana e del borgo di Castelluccio di Norcia. Basata su un’estesa esperienza etnografica nelle zone dell’Appennino centrale, la descrizione che segue deriva da una giornata molto particolare di osservazione: una domenica nel periodo della fioritura. 7. Un giorno a Castelluccio: il pienone È il 5 luglio 2020 e abbiamo appena superato la curva in salita che costeggia Forca Canepine, accesso umbro verso la Piana di Castelluccio. Alcuni amici sentiti per messaggio, che stanno provando a passare dall’altro valico, quello marchigiano di Forca di Presta, dicono che la situazione non è affatto migliore. Sarà la mia bolla forse, ma su giornali e social non si parla d’altro che delle vacanze di prossimità degli italiani post- quarantena: moltissimi rinunciano a mete lontane e affollate, riscoprendo le meraviglie che si trovano a pochi passi da casa. Con il risultato, come sta accadendo oggi, di rendere quelle meraviglie che si trovano a pochi passi da casa super affollate. Castelluccio di Norcia è stato preso d’assalto già dalla prima settimana di metà giugno quando è sbocciata la fioritura. Le dichiarazioni dei Sindaci erano state entusiaste: “C’è tanta gente come non si vedeva da prima del terremoto e questo credo che dipenda da diversi fattori combinati che sono la fioritura, appunto, la voglia di uscire dopo il lockdown e la sicurezza che la montagna offre con i suoi 156 spazi larghi” (Ansa 2020). Oggi però sembra davvero troppo: un serpentone di macchine, praticamente ferme, sull’unica strada che taglia in due la Piana per condurre al borgo. Fig. 9 – La coda di macchine sulla Piana di Castelluccio il 5 luglio 2020 (©Montagna.tv). “Se penso che per evitare il pienone non siamo andati al mare”, mi dice M. contorcendosi sul sedile posteriore, invece l’abbiamo trovato qui il pienone, e adesso un bagno ce lo faremmo volentieri visto che siamo chiusi nell’abitacolo con il sole di mezzogiorno. Se apro i finestrini arriva un venticello fresco, di montagna (siamo a 1400 mt.) assieme allo smog delle macchine che ci circondano e provano a dimenarsi, bloccate in entrambe le direzioni del senso di marcia, alternando frizione e freno. Alcuni sono addirittura scesi dalla macchina, presi dallo sfinimento. Altri suonano il clacson sperando che, come per magia, si liberi loro la strada davanti. Molto semplicemente: siamo troppi, non c’entriamo sulla Piana di Castelluccio tutti assieme. Non c’entriamo sia perché c’è un’unica strada, sia perché i parcheggi non bastano, sia perché i negozi, i bar, le strutture ricettive non sono abbastanza ampie da accoglierci tutti. In questo momento, vorremmo solo invertire il senso di marcia e tornare indietro, ai pienoni che conosciamo, dove sappiamo orientarci, dovunque ma non qui, che cosa ci siamo venuti a fare? Ah, giusto, se però ce ne dobbiamo andare facciamo prima qualche foto. F. scende dalla macchina dicendo, tanto siamo fermi, mi faccio un giro, guarda quelli là, indicando un gruppetto di ragazzi che si è appena seduto sul ciglio della strada, qualcuno sta tirando fuori dei teli e sembra che vogliano bivaccare lì, con le macchine che sgasano affianco. F. si avvia verso il ciglio della strada e poi inizia a camminare dentro la Piana, avvicinandosi sempre di più a quei colori così vividi, sgargianti, che abbiamo visto dall’alto. Allontanandoci un po’ da quel gruppetto, un po’ da quella famiglia (“hanno tutti le mascherine, ma sono pazzi con questo caldo? E poi quassù, all’aria aperta!”) ci addentriamo nella Piana e siamo quasi soli, tranne una coppia che ci corre incontro, e altri che vedendoci ci stanno imitando. Facciamo qualche foto da dentro, abbassandoci per cogliere sia i fiori, in primo piano, che il borgo di Castelluccio che si staglia in alto. La quiete dura poco, allora tentiamo di proseguire, ci muoviamo per saturazione degli spazi inoltrandoci ancora di più, cercando di evitare gli altri gruppi per mantenere le distanze. In fondo quelli di prima con la mascherina non è che avessero tutti i torti, abbiamo sentito anche noi che i contagi stanno riprendono, anche a luglio. Incontriamo un cartello che ammonisce: NON INTRODURSI NON CALPESTARE. TERRENI SEMINATI A LENTICCHIA. Ma intende questi terreni, o quelli lì? Non lo so, comunque lì ci stanno già camminando quelli, quel gruppo, mah, andiamo. 157 Fig. 10 – Durante le domeniche più affollate, i cartelli di divieto non bastano ad evitare che molti si spingano dentro la Piana e calpestino i campi coltivati della fioritura (©Emanuele Valeri). Verso le 15 e 30 arriviamo al Deltaplano, l’area commerciale temporanea inaugurata da un anno e mezzo subito sotto il borgo di Castelluccio di Norcia, ancora distrutto e in parte inaccessibile (Zona Rossa), dopo il terremoto del 2016. Troviamo miracolosamente posto, mentre arriviamo, lasciato da una macchina che se ne sta andando. La struttura del Deltaplano ricava, appunto, dalla forma del Deltaplano una serie di locali con ampie vetrate protese verso la Piana, vista lato Monte Vettore. Sembra una freccia che indica quello che c’è da vedere, ma l’attenzione di tutti però non è rivolta allo spettacolo della Piana in fiore: disposti in coda con le mascherine, mentre tentano invano di evitare assembramenti, i clienti apprendono i tempi di attesa di ristoranti che cominciano a esaurire non solo i piatti disponibili, ma anche le forze. La scelta di valorizzare alcuni limiti (tra ristoranti e negozi) e soglie (di ingresso a ciascuno di essi) è subordinata a capire quali di essi siano i meno affollati. Se la spazialità del Deltaplano garantisce ad ognuno una porzione di vista sulla Piana, allo stesso tempo omologa e schiaccia le possibilità di variare e caratterizzare i modi di figurativizzazione della propria idea di gastronomia all’interno di un contenitore che è allo stesso tempo uguale e in competizione con tutti gli altri. Se quindi in condizioni normali al Deltaplano possono subentrare competenze e schemi valoriali differenti nei percorsi di congiungimento (pratiche lente, attente alle provenienze quali IGP e DOP, motivi etici e solidali, ricerca dell’autentico e dell’altro, …) ad oggi il massimo che si può fare è strappare l’ultimo panino con il ciauscolo rimasto. Dopo aver incassato un altro rifiuto dal titolare di un ristorante: “no ragazzi, mi dispiace, per oggi non riusciamo più a prendere nessun altro, ma avete visto quanta gente? Così è davvero troppo per noi”, decidiamo di proseguire verso il borgo. Fig. 11 – La struttura commerciale temporanea Deltaplano di Castelluccio vista dall’alto (render di progetto) (©Architetto Francesco Cellini). 158 “Sembra di trovarsi sul lungomare di Riccione”, mi dice F. sconsolato. Le poche attività commerciali che hanno riaperto nel piazzale che si trova all’ingresso del borgo, unica parte ad oggi accessibile di Castelluccio, sono ovviamente strapiene, non ci sono parcheggi e le macchine continuano a passare senza potersi fermare. Quando chiediamo alla Municipale dove sia meglio andare, ci dicono che la strada di accesso è stata chiusa, in questo momento è possibile solamente uscire da Castelluccio. Se proseguite verso di là, scendete verso Visso, sembrano suggerire di andarsene il prima possibile. In realtà non abbiamo altra scelta, a meno di non provare a parcheggiare a bordo strada e poi tornare in paese a piedi, come stanno facendo già in molti intasando anche il tratto di strada successivo. Non sembra una grande idea. Tornati a casa, apprenderemo che l’Ente Parco Nazionale dei Monti Sibillini ha annunciato che il prossimo anno, durante i weekend non sarà possibile accedere in auto alla Piana di Castelluccio e sarà previsto un servizio navetta attivo dai valichi di Forca di Presta e Forca Canepine. Due anni dopo, durante lo stesso weekend di fioritura, quello di inizio luglio, su Facebook i commercianti di Castelluccio polemizzavano: sembra di essere in “pieno novembre”, spiegando come “tanta gente non viene perché non ha voglia di stare alle regole di altre persone, se io voglio venire a Castelluccio e starci 30 minuti, oppure stare fino alla sera tardi, non vedo il motivo per cui devo aspettare gli orari di una navetta”7. Fig. 12 – Castelluccio, domenica 2 luglio 2022. Il post su Facebook recita: “se non fosse per qualche motociclista, sembrerebbe una domenica di novembre” (© Gilberto Brandimarte). 8. Conclusioni La ricerca sui territori dell’Appennino centrale si conferma un punto di osservazione privilegiato sulle dinamiche che interessano nel loro insieme le aree interne italiane. Nello specifico, il presente articolo costituisce un tentativo di comprensione delle forme di valorizzazione dei borghi contemporanei, che passa attraverso l’analisi di alcune grammatiche e pratiche discorsive e figurative. L’idea di un corpo- immagine del borgo era definita, all’inizio dell’articolo, da alcune caratteristiche formali. Secondo De Rossi e Mascino (2022), queste concorrono a definire un effetto di miniaturizzazione, in cui sono all’opera tre tendenze intrecciate: 1) spazio miniaturizzato e intellegibile nel suo insieme VS caos urbano; 2) borgo nel suo insieme come internalità dal carattere domestico e rassicurante; 3) sur-caratterizzazione e sur-tipicizzazione di ogni singolo particolare o elemento, e sua ridondanza e reiterazione costante, a confermare la verità del luogo. Riscontrare l’effettivo concorrere di questi elementi nel definire un certo corpo-immagine dei borghi ci ha spinto ad interrogare, in senso etnosemiotico, il rapporto tra 7 www.facebook.com/Castellucciodinorcia1452/posts/7543829072355280 159 discorsivizzazione, forme di valorizzazione e concezioni della natura. Se con l’analisi dello spot di Perugina riuscivamo cioè a cogliere la relazione tra modi di prensione e istanze di valorizzazione, l’osservazione partecipante di una giornata di pienone a Castelluccio di Norcia mette in luce le caratteristiche di un’etnosemiotica che 1) posiziona il suo sguardo rispetto all’individuazione di salienze e pertinenze; 2) tramite l’osservazione partecipante a scene pratiche in atto, può portare alla luce articolazioni del senso e del valore altrimenti difficili da cogliere. La corsa ai borghi delle aree interne italiane vede infatti negli ampi spazi aperti, nella qualità dell’aria, del cibo e delle relazioni i principali oggetti valorizzati da un Destinante che pone come prioritaria la discontinuità con tutto ciò che sia urbano. I sapori autentici, gli odori, il contatto tattile con diversi tipi di superfici lisce ritenute naturali, il contatto visivo con un paesaggio ritenuto bello sono pratiche di evasione e al contempo di congiungimento con un’idea molto vaga di natura: estetica, sana, accessibile. Gli episodi descritti mostrano come i tentativi di giunzione con una sorta di alterità trasformativa dei borghi italiani non siano privi di ostacoli. L’immagine del borgo proposta nello spot di Perugina idealizza il coinvolgimento multisensoriale e le molteplici possibilità di accesso ad una natura che è sempre a disposizione del soggetto umano. In realtà solo alcuni possono disporre di esperienze una wilderness purificante: l’etnografia ci parla di cittadini che, arrivati in massa, si rendono protagonisti del proprio continuo congestionamento. Se siamo tutti in fuga dall’urbano, la rincorsa verso esperienze ideali nei borghi nelle aree interne ci conduce a riprodurre l’urbano, come in una sorta di girone dantesco: non è difficile riconoscere, nell’esperienza etnografica a Castelluccio, l’emergenza disforica di uno dei capisaldi dei modelli di sviluppo appenninici, il pienone. Spostandoci in massa alla ricerca di punti di vista ideali, produciamo inurbamenti e congestione, deturpando l’ambiente e le stesse condizioni di possibilità che dovrebbero permetterci di godere di esperienze trasformative. A fronte dell’immagine del borgo che risulta dallo spot di Perugina, ovvero uno spazio liscio, in cui è l’attore umano a definire accessi, immersioni o produzioni di forme di esperienza, il pienone della Piana e del Deltaplano costringerebbe a fare i conti con i limiti e con la finitezza del territorio e della sua infrastrutturazione turistica. La complessità delle attività produttive, della manutenzione, della cura e della gestione delle risorse riaffiora però solo come incidente nei fine settimana del pienone, nel momento in cui lo spazio topico della performance (a seconda di quale incontro con quale materia: La Piana, il Deltaplano, …) perde lo statuto di garante della qualità dell’esperienza di immersione. Laddove immersione – intesa come incontro con materie del mondo pacifiche e già date – e produzione – intesa come accesso a una natura autentica tramite una trasformazione rischiosa – sono vanificate dall’affollamento, resta a disposizione l’osservazione come valorizzazione della forma plastica e sua riproduzione fotografica. Una magra consolazione, se consideriamo che in effetti la nostra presenza sulla Piana rappresenta un sovraccarico insostenibile non solo dal punto di vista ecologico (il Parco Nazionale dei Sibillini, infatti, decide di chiudere l’accesso alle auto nel fine-settimana), ma anche da quello economico (considerando la scala dei flussi che le infrastrutture turistiche dei borghi riescono a gestire). Gli schemi valoriali soggiacenti ci parlano inoltre della centralità di un soggetto umano rispetto alla produzione di nature: le può sentire, toccare, ne può godere sensorialmente, può trarre qualsiasi tipo di beneficio. Può fare molte cose ma non vi abita, non se ne prende cura, non ne conosce le filiere, i cicli di generazione e rigenerazione, le vulnerabilità, le storicità. La riflessività che sembra affiorare sembra rivolta non tanto all’impatto tangibile delle pratiche turistiche sul territorio, quanto ad un disorientamento che coinvolge la relazione tra punti di vista e istanze di valorizzazione del corpo- immagine del borgo: laddove mancano le condizioni per una sua riproducibilità discorsiva, l’esperienza diventa deludente e incompleta. Il timbro disforico sul pienone a Castelluccio, emerso durante l’osservazione etnosemiotica, si configura allora come forma locale di un fare turistico ormai abituato a, e forse già annoiato di, giocare con le categorie di straordinario/quotidiano, straniero/abitante (Finocchi 2013, 2020). In questo quadro, gli spunti generati da una articolazione dei punti di vista sulle forme di valorizzazione, potrebbero aiutare a trovare un’alternativa rispetto ad una polarizzazione del dibattito, 160 che da un lato sostiene che l’implementazione dell’infrastrutturazione turistica sia l’unico modo per fare economia nei borghi e nelle aree interne, dall’altro vede nel turismo slow e sostenibile una panacea in grado di tamponare i danni, mentre continua a garantire i profitti. Tramite la costruzione di comparazioni e pertinenze mirate, l’analisi etnosemiotica si è già dimostrata in grado di seguire i processi di valorizzazione spaziale nel loro muoversi in parallelo tra i centri storici delle città d’arte (Virgolin 2022) e luoghi remoti e incontaminati (Addis 2016), individuando tendenze comuni riguardo alle discorsivizzazioni, alle pratiche e alle differenze che regolano l’accesso a zone remote e borghi ideali (Boltanski, Esquerre 2019; Semi 2022). Se i criteri che orientano pratiche e politiche di valorizzazione urbanistica sono generate e orientate da tendenze sociali e culturali, l’analisi semiotica delle immagini prevalenti dei borghi contemporanei può contribuire efficacemente all’interno di uno spazio di dibattito importante per il futuro dei territori, nel quale è necessario il dialogo tra riflessioni sul legame tra forme abitative, gestione delle risorse e concezioni della natura. 161 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Addis, M. C., 2016, L’isola che non c’è. Sulla Costa Smeralda, o di un’utopia capitalista, Bologna, Esculapio. Addis, M. C., 2020, “L’Europa è altrove. Economia turistica e nomos post-territoriale”, in I. Pezzini, L. Virgolin, a cura, 2020 pp. 131-150. Aime, M., Papotti, D., 2012, L’altro e l’altrove. 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Figura, immagine, materia. L’immaginazione materiale di Gaston Bachelard Paolo Bertetti Abstract. Gaston Bachelard is one of the recognized sources of Greimas’ concept of figurativity, whose focus on the sensitive qualities of matter is still one of the main ways for the semiotic study of matter. According to Bachelard, there is an essential relationship between poetic image and material reality: matter is both substance and strength of the image. He uses the term “material imagination” to describe this relationship. However, if the images refer to the material element in their constitution, this does not mean they originate, or rather describe reality; they do not reproduce reality but go beyond it. All the more so, reason images are not the result of a cognitive (and categorizing) activity on reality. Following Bachelard the axes of science and poetry are, in the first instance, opposites. And all that philosophy can hope for is to make science and poetry complementary, to unite them as two well-forged opposites. Poetry, that is subjective, is therefore opposed to objective scientific knowledge. Nel delineare gli orizzonti di una semiotica elementale l’opera di Gaston Bachelard pare ancora oggi essere centrale. E così l’idea che sotto ai materiali ci sia una materia più profonda pregna di senso. Come noto, il filosofo francese è una delle fonti riconosciute del concetto di figuratività elaborato da Greimas, che rimane – con la sua attenzione alle qualità sensibili – una delle vie privilegiate per lo studio semiotico della materia. Proprio la materia è al centro dei cinque volumi che Bachelard, a partire dalla fine degli anni 30, dedica all’immaginario elementale, affiancando alle sue riflessioni epistemologiche lo studio sull’immaginazione poetica: La Psychanalyse du Feu (1938a), L’Eau et le Rêves (1942), L’air et le Songes (1943) La terre et les Rêveries de la Volonté (1948a), La terre et les Rêveries du Repos (1948b). E tuttavia, nel riprendere semioticamente le riflessioni bachelardiane, occorre porre una serie di questioni teoriche, metodologiche ed epistemologiche, delle quali bisogna essere consapevoli. Secondo Bachelard tra immagine poetica e realtà materiale esiste un preciso e profondo rapporto: vi è nell’immagine un legame con la materia dal quale l’immaginazione poetica non può prescindere. Il problema è affrontato in particolare in L’Eau e le Rêves, dove Bachelard introduce il concetto di “immaginazione materiale, distinguendola da quella che egli chiama “immaginazione formale”. Se quest’ultima è legata all’apparenza immediata, alla novità, alla varietà delle forme alle forme e di colori, colti dalla vista, in definitiva alla rappresentazione, la seconda va nel profondo, scava il fondo dell’essere. Le forze immaginative “vogliono trovar[e nell’essere] ad un tempo il primitivo e l’eterno. Dominano la stagione e la storia. Nella natura, in noi e fuori di noi, esse producono germi; germi un cui la forma è inserita in una sostanza, in cui la forma è interna” (Bachelard 1942, p. 7). Le immagini della materia sono dirette, “la vista le nomina, ma è la mano a conoscerle” (Ibidem); la materia non è solo oggetto del vedere, l’homo faber agisce su di essa con la propria volontà, le trasforma, la mescola ad altre materie, oppone la propria forza alla sua resistenza. L’immaginazione poetica non può fare a meno di tale legame con la materia: “Perché una rêverie abbia sufficiente continuità per produrre un’opera scritta, perché non sia solo lo svago di un’ora fugace, occorre che essa trovi la sua materia, che un elemento materiale le dia la propria sostanza, la propria regola, la sua poetica specifica” (Bachelard 1942, p. 10). In Bachelard la materia è insieme sia sostanza E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). sia forza dell’immagine. E più in là: “L’immaginario non trova le proprie radici profonde e nutritive nelle immagini; ha innanzitutto bisogno di una presenza più prossima, più avviluppante, più materiale. La realtà immaginaria evoca sé stessa, prima di descriversi. La poesia è sempre un vocativo” (Bachelard 1942, p. 138). Bachelard, citando Martin Buber, fa l’esempio della luna: “la luna, […] nel regno poetico, è materia prima di essere forma, è un fluido che penetra il sognatore” (Ibidem). Per il sognatore la luna non quella che egli vede tutte le notti, e nemmeno l’immagine di un disco luminoso che cammina, ma l’immagine emotiva del fluido lunare che attraversa il corpo. Attenzione, dunque, a pensare la materia bachelardiana come una sorta di mening Hjelmsleviano, o di accostare brutalmente la distinzione materia/forma che delinea il filosofo francese a categorie quali intensione/estensione, o denotazione/connotazione. Sarebbe troppo facile: in realtà il contesto epistemologico e la stessa finalità di Bachelard sono molto diversi. Se, infatti, le immagini rinviano all’elemento materiale nella loro costituzione, non per questo esse hanno origine, o meglio descrivono la realtà; le immagini sono frutto dell’immaginazione poetica, che si serve dell’elemento materiale come materiale da costruzione (e si scusi il gioco di parole) per crearle, ma tali immagini non riproducono la realtà, vanno anzi al di là di essa. A maggior ragione, le immagini non sono il risultato di un’attività conoscitiva (e categorizzante) sul reale. Afferma Bachelard in La formation de l’esprit scientifique: “Gli assi della scienza e della poesia sono, in prima istanza, opposti. Tutto ciò che può sperare la filosofia è di rendere la scienza e la poesia complementari, di unirle come due contrari ben forgiati” (Bachelard 1938b, p. 126). La poesia, soggettiva, si oppone dunque alla conoscenza scientifica oggettiva, il savant al révoire. C’è in Bachelard una netta distinzione tra cognizione e immaginazione, e tra momento percettivo e momento immaginativo. Immagine e concetto sono nettamente distinti: da un lato c’è l’analisi dei concetti, dall’altro lo studio delle immagini poetiche. Razionalismo e réverie, ragione e immaginazione: “Immagini e concetti si formano ai due poli opposti dell’attività psichica: l’immaginazione e la ragione. Tra loro gioca una polarità di esclusione. [...] Tra il concetto e l’immagine niente sintesi” (Bachelard 1960, p. 60). Vi è in questo una prima grossa differenza con la semiotica greimasiana, nella quale le figure rappresentano proprio una concettualizzazione dell’esperienza sensibile, risultato di una percezione semiotizzata, linguisticamente e culturalmente organizzata e dotata di senso. Il rapporto percezione percettivo immaginazione è approfondito da Bachelard in La terre et les rêveries de la volonté: essai sur l'imagination de la matière (1948a). È infatti con la terra che si pone maggiormente il rapporto dell’immagine poetica con il reale. L’aria e l’acqua, già studiate da Bachelard (1942, 1943), erano delle materie indubbiamente reali, ma mobili e senza consistenza, esse chiedevano di essere immaginate in profondità, in una intimità della sostanza e della forza. Ma con la sostanza della terra, la materia porta così tante esperienze positive, la forma è così sorprendente, così evidente, così reale che è difficile, vedere come si possa dare corpo a delle rêveries che toccano l’intimità della materia (Bachelard 1948a, p. 9; trad. mia). Nell’introduzione al volume Bachelard rifiuta la concezione della filosofia realista e della psicologia per la quale è la percezione delle immagini a determinare il processo di immaginazione. Per Bachelard l’immagine percepita e l’immagine creata sono due cose assi diverse: occorre infatti distinguere le “immagini riproduttive” che costellano il linguaggio ordinario e derivano dalla percezione o dalla memoria, dall’immagine immaginata, per sua natura originale e inventiva, che è il frutto dell’attività creativa propria dell’immaginazione creatrice (Bachelard 1948a, p. 3; 1960, p. 10), facoltà cui Bachelard rivendica una totale autonomia – se non preminenza – rispetto alla razionalità che è alla base dei concetti. “L’immaginazione creatrice ha funzioni del tutto diverse dall’immaginazione riproduttrice. Ad essa appartiene questa funzione dell’irreale che è psichicamente altrettanto utile che la funzione del reale” (Bachelard 1948a, p. 10; trad. mia). 164 Si osservi, incidentalmente, come sia qui sottesa concezione estetica basata sulla differenziazione tra una coscienza immaginativa e una conoscenza riproduttrice, che è assai lontana dall’estetica semiotica, la quale esclude qualsiasi distinzione di natura tra linguaggio ordinario e linguaggio poetico (Marrone 1985); basti pensare a come per Jakobson (1959) quella poetica sia soltanto una funzione tra le altre del linguaggio, rinvenibile non soltanto dei testi poetici ma di qualsiasi testo. Come si è detto, per Bachelard l’immagine immaginata non è una riproduzione della realtà; essa è piuttosto “una sublimazione degli archetipi”, la sua origine è nell’emozione, nel sogno e in particolare in quel sogno a occhi aperti che è la rêverie. In Bachelard vi è una decisa presa di posizione contro il radicamento dell’immagine nel sensibile, che costituisce uno dei punti di maggior lontananza rispetto alla teoria greimasiana della figuratività. Per Greimas e la sua scuola, infatti, le figure costituiscono proprio l’emergenza del sensibile nel linguaggio. Come scrive il suo allievo e collaboratore Joseph Courtés: il figurativo è “l’insieme di quei contenuti di una lingua naturale o di un sistema di rappresentazione aventi un corrispondente percepibile sul piano dell’espressione del mondo naturale” (Courtés 1986, p. 13). Le figure sono strettamente legate, nella loro origine, al momento percettivo, sebbene tale momento sia già in partenza culturalizzato, semiotizzato e dotato di senso (Marrone 1995; Bertetti 2013); di fatto, le figure si contraddistinguono per una duplice natura, intrinsecamente imbricate di sensibile e culturale. Per Bachelard invece, l’immagine poetica di cui egli si occupa non ha origine nella percezione (e nemmeno, egli aggiunge, nella memoria). Essa non è legata al reale, ma lo trascende: non vi è alcun rapporto causale (almeno necessario) tra immagine poetica e oggetto della realtà: “L’immaginazione non è, come suggerisce l’etimologia, la facoltà di formare delle immagini della realtà; essa è la facoltà di formare delle immagini che oltrepassano la realtà, che cantano la realtà. Essa è una facoltà superumana” (Bachelard 1943, p. 23; trad. mia). Insomma, l’immagine poetica non è determinata dal sensibile, tanto meno da un sensibile semiotizzato attraverso una griglia di lettura di origine sociale e culturale (Greimas 1984, p. 199). Certo, anche in Greimas la figura non è una riproduzione della realtà: contro il referenzialismo, la sua concezione del Mondo Naturale (espressione che egli riprende da Merleau Ponty, che la usa però in modo diverso; cfr. Bertetti 2013, pp. 25-29) è invece proprio tesa a sottolineare la natura non riproduttiva del linguaggio (Marrone 1995). Tale distanziazione dalla realtà accomuna sia la figura greimasiana sia l’immagine bachelardiana, ed è probabilmente a questo che pensa Greimas quando evoca Bachelard in relazione alla semiotizzazione del mondo naturale, la quale sarà fondata non assumendo come punto di partenza gli oggetti del mondo, ma cercando una “visione più profonda, meno evenemenziale, del mondo” (Greimas 1968, p. 55). Tuttavia, per Greimas tale scarto dal reale si basa su una mediazione di natura linguistica e culturale mentre per Bachelard l’immagine poetica non ha origine nella percezione, nel linguaggio o nella cultura. Per Bachelard, “Un’immagine poetica non è preparata da nulla, soprattutto non dalla cultura, secondo il punto di vista letterario, soprattutto non dalla percezione, secondo il punto di vista psicologico” (Bachelard 1957, p. 14). In Greimas la figura ha natura eminentemente linguistica: l’elaborazione delle figure del mondo naturale, infatti, “si svolge soprattutto grazie alla percezione sensibile delle sue qualità, [...] Che si può riscontare “a un certo livello di profondità, anche e soprattutto all’interno della forma linguistica” (Marrone 1995, p. 122); essa “pertiene altresì all’universo semantico delle lingue. Di conseguenza, essa è pensabile (e analizzabile) anche come una questione eminentemente linguistica” (Ibidem). Bachelard, dal canto suo, non disgiunge propriamente immagine e linguaggio: per lui l’immagine poetica è certamente nel linguaggio, e non potrebbe essere altrimenti, dato che è logos tutto quello che è specificatamente umano (Bachelard 1957, p. 13). E tuttavia tale immagine, che pure è esito del logos, allo stesso tempo lo trascende, vi si pone al di sopra: essa “appare come un nuovo modo di essere del linguaggio” (Bachelard 1960, p. 9). 165 L’immagine poetica si manifesta certamente attraverso la parola, ma non vi corrisponde, bensì ha una sua esistenza ontologica, indipendente (Bertetti 2013). Essa ha una natura profondamente innovatrice: “per mezzo della sua novità un’immagine poetica mette in moto tutta l’attività linguistica: l’immagine poetica ci riporta all’origine dell’essere parlante” (Bachelard 1957, p. 13). La parola può suscitare l’immagine, ma l’immagine bachelardiana, a differenza della figura di Greimas, si pone a un livello trascendente rispetto al testo che la manifesta; c’è un’anteriorità dell’immagine rispetto alla parola: “Le psychisme humain se formule primitivement en images.” (Bachelard 1948a). L’immagine bachelardiana risiede nella psiche e nell’immaginazione del poeta che la crea, nonché del lettore che la ricrea nel retentissement, vale a dire attraverso l’intima risonanza con il poeta o lo scrittore nel momento della lettura, in una concezione che conduce a un soggettivismo inaccettabile per la semiotica. Per concludere: Bachelard ha dato e può ancora dare grandi stimoli alla ricerca semiotica; la sua analisi dei materiali è affascinante, e davvero rileggendo le sue tassonomie, spesso costruite su opposizioni qualitative binarie sembra di essere alle soglie dell’analisi semica, come diceva Greimas (1966), anticipando persino la categoria semi-simbolica. E tuttavia il riutilizzo che ha fatto la semiotica di Bachelard è sempre stato, utilizzando un’espressione di Umberto Eco (1989), un “uso”, e forse non poteva non esserlo. In particolare, per Greimas l’opera di Bachelard rimane in definitiva una suggestione liberamente rielaborata, una fascinazione la cui chiave va forse ricercata soprattutto nella densità dell’immagine bachelardiana (Bertetti 2017). Come le figure del mondo naturale di cui ci parla Greimas, infatti, anche le immagini poetiche sono immagini “dense” (Marsciani 2014): esse vanno al di là dell’evento, dell’estensione dell’oggetto, ma ci dicono su di esso qualcosa di profondo e carico di senso. Vi è però una differenza non irrilevante: per Greimas tale densità è “genetica”, data dall’accumularsi di tratti culturali, data dal suo passato. Per Bachelard, invece, l’immagine poetica – che, come abbiamo visto, è originaria – è densa perché genera altre immagini, e diventa una sorgente di ulteriori significazioni per qualcuno (Marsciani 1995, p. 86). 166 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Bachelard, G., 1938a, La Psychanalyse du Feu, Paris, NRF; trad. it. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo 1973. Bachelard, G., 1938b, La formation de l’esprit scientifique, Paris, Vrin; trad. it. La formazione dello spirito scientifico, Bari, Laterza 1951. Bachelard, G., 1942, L’Eau et le Rêves, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi delle acque: purificazione, morte e rinascita, Como, Red edizioni 1988. Bachelard, G., 1943, L’air et le Songes, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, Como, Red edizioni 1988. Bachelard, G., 1948a, La terre et les Rêveries de la Volonté, Paris, Corti. Bachelard, G., 1948b, La terre et les Rêveries du Repos, Paris, Corti; trad. it. La terra e il riposo: le immagini dell'intimità, Comi, Red edizioni 1994. Bachelard, G., 1957, La poétique de l’espace, Paris, PUF; trad. it. La poetica dello spazio, Bari, Dedalo 1975. Bachelard, G., 1960, La poétique de la rêverie, Paris, PUF; trad. it. La poetica della rêverie, Bari, Dedalo 1972. Bertetti, P., 2013, Lo schermo dell’apparire. La teoria della figuratività nella semiotica generativa, Bologna, Esculapio. Bertetti, P., 2017, “Tra passato e futuro. Alcune considerazioni sull’immagine bachelardiana e la figura semiotica”, in F. Garofalo, G. Ienna, P. Donatiello, a cura, Il senso della tecnica. La ricezione dell’opera di Gaston Bachelard tra epistemologia, sociologia, semiotica, Bologna, Esculapio, pp. 203-216. Courtés, J., 1986, Le conte populaire: poetique et mythologie, Paris, PUF ; trad. it. La fiaba: poetica e mitologia, Torino, Centro Scientifico Editore 1992. Eco, U., 1989, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani. Greimas, A. J., 1966, Sémantique structurale, Paris, Larousse; trad. it. Semantica strutturale, Roma, Meltemi 2000. Greimas, A. J., 1968, “Conditions d’une sémiotique du monde naturelle”, Langages, 10, pp. 3-35; trad. it. “Per una semiotica del mondo naturale” in Greimas, A. J., Del senso, Milano, Bompiani 1974, pp. 49-94. Greimas, A. J., 1984, “Sémiotique figurative et sémiotique plastique”, in Actes sémiotiques – Documents 60, pp. 5-24; trad. it. “Semiotica figurativa e semiotica plastica”, in P. Fabbri, G. Marrone, a cura, Semiotica in nuce, vol. II. Teoria del discorso, Roma, Meltemi 2001, pp. 196-210. Marrone, G., 1995, Il dicibile e l’indicibile, Palermo, L’Epos. Marsciani, F., 1995, “Riflessione sull’immagine. La fiamma della candela in Bachelard”, in G. Marrone, a cura, Sensi e discorso. L’estetica nella semiotica, Bologna, Esculapio. Marsciani, F., 2014, “À propos de quelques questions inactuelles en théorie de la signification”, in Actes Sémiotiques, n. 117, pp. 1-30. 167
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Sulle tracce della polvere. Brevi note sul potere materiale del quasi niente1 Gianluca Burgio Abstract. Dust is considered a minor matter and has therefore always been placed on the lowest rung of the ladder of materiality. However, in a change of perspective, the world of neglected things (Puig de la Bellacasa 2011) takes on ontological relevance; this implies that dust - the main entity of neglected things - is reassembled in the system of spatial and social relations. In the contemporary world, the small, the fragile, the presque-rien (Dagognet) has been forgotten, and with it all the complexity of relationships. And yet, this formless and pulviscular mass, as matter, has an often underestimated power that is worth investigating; in fact, it is capable of enrolling human collectives, spaces and technical objects that participate together in its removal; its very existence generates practices of care and maintenance, as can be seen from the ethnographic investigation that is briefly described within the text. 1. Una materia quasi invisibile Le entità invisibili o che passano quasi inosservate possono destare una certa forma di curiosità; e tra di loro, provoca interesse soprattutto quella materia – proveniente da materiali ritornati a una dimensione quasi originaria – che è considerata scarto, detrito, inutile sottoprodotto delle attività umane. La polvere è una di esse. Ne parliamo sempre come infimo residuo del quotidiano; essa è un disturbo, o un rumore (Serres 2022), nel rilucente mondo del ricercato splendore: antiprogramma (Akrich, Latour 2006, p. 407) perfetto di quel mondo perché si oppone pervicacemente alla ricerca dell’eternità, si oppone all’aspirazione – tutta umana – di proiettarsi in una dimensione infinita e perenne. Il memento biblico2, che ha i tratti di una maledizione ai quali gli umani non possono sfuggire, ricorda appunto la finitudine dell’uomo e delle sue azioni. La polvere è onnipresente testimone di questa realtà e Michael Marder lo spiega molto bene: 1 Un’indagine sulla polvere apre orizzonti di ricerca amplissimi che vanno dalle questioni materiali e spaziali, alle tematiche sociosemiotiche, passando per le implicazioni, politiche, filosofiche, simboliche, religiose e così via. In questo scritto si è scelto di definire alcune delle tematiche possibili puntando l’attenzione sull’aspetto materiale e performativo della polvere e sulla sua capacità di fare e di organizzare. In queste brevi note, si è preferito far solamente intravedere la complessità e la magnitudine del tema che potrà essere ulteriormente sviluppato in altre occasioni. Infine, la locuzione presque rien è presa in prestito da François Dagognet e differisce sostanzialmente dal quasi niente teorizzato da altri autori quali, per esempio, Vladimir Jankélévitch che si riferisce a un evento impalpabile: ne è una dimostrazione “[l’]emozione musicale, questo quasi-niente che il passato personale, la rifrazione morale, l’educazione artistica colorano di imprevedibili sfumature” (Jankélévitch 1987, pp. 33-34). Dagognet in più occasioni, d’altra parte, dimostra la sua volontà di costruire un’ontologia del quasi niente fisico, di quella materia considerata infima, inutile o addirittura abietta (Dagognet 1997, 2009). 2 “Ricordati, uomo, che polvere sei e in polvere ritornerai” (Genesi, 3,19). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). […] la polvere [di casa] è costituita principalmente dalle tracce materiali della nostra esistenza corporea, [e] lo sforzo di eliminarla mira, in modo del tutto inconsapevole, a espellere le vestigia di noi stessi. Panno alla mano, cancelliamo le prove della nostra mortalità e della nostra fusione postuma con l’ambiente. Con l’inclinazione a mettere in ordine la casa, desiderando riportarla a uno stato immacolato, spolverare rende i luoghi in cui soggiorniamo un po’ sterili, un po’ morti, tutto in nome della vita. In un certo senso, questa attività simboleggia la nostra incapacità o non volontà di affrontare in modo costruttivo le nostre vite, di accettare i loro legami con la finitudine, la morte e gli altri, archiviati nella polvere (Marder 2016, trad. mia, pp. 6-7). Ma che tipo di oggetto è la polvere? Un oggetto strano sul quale vale la pena interrogarsi per andare oltre le definizioni che la relegano in un ambito marginale e secondario dal momento che, una volta superate queste categorie, penetriamo in un sistema di connessioni e di relazioni molto più complesso che consente di cambiare prospettiva. La polvere in quanto parente stretta dello sporco – insieme superiore che la contiene – è vista come materia fuori posto, secondo la celeberrima definizione di Mary Douglas (1966); ma di che materia stiamo parlando? Possiamo considerare la polvere come miscela di particelle solide provenienti da diverse fonti. La Environmental Protection Agency (EPA) degli Stati Uniti fornisce alcune indicazioni3 sulla composizione che, beninteso, può variare moltissimo da ambiente ad ambiente: la polvere domestica è in genere composta da pelle umana e follicoli piliferi, polline, peli e forfora di animali domestici, parti di insetti, residui di cottura e riscaldamento e vari inquinanti, provenienti dall’esterno dell’abitazione, ma anche dalle sostanze chimiche presenti negli oggetti di uso quotidiano. Insomma, di per sé, la polvere è materia complessa, difficile da classificare. Cogliendo i suggerimenti di Tim Ingold, forse anziché provare a rappresentarla, costringendola in rigide categorie oggettuali, dovremmo provare a farla parlare (Ingold 2021) e dovremmo dunque cambiare prospettiva, prestando attenzione “ai flussi di materiali e delle correnti di coscienza sensoriale all’interno dei quali immagini e oggetti prendono forma reciprocamente” (Ingold 2019, p. 43). La polvere non è certo considerata una materia nobile; per lo più, come diceva Gogòl (Orlando 2015, pp. 33-36), essa è “deiezione dell’utile” e per questa stessa ragione è altamente improbabile che le venga concessa una seconda possibilità, e che quindi possa accedere a una nuova vita trasformandosi in un oggetto utile alle necessità umane. Difficile trovare, dunque, qualche voce che elogi la polvere o ne proponga un’interpretazione perlomeno positiva: la polvere è associata, soprattutto nelle culture occidentali di matrice giudaico- cristiana, alla morte, alla povertà, al disinteresse e all’oblio e, non per ultimo, al disordine. Lasciar ricoprire le cose di polvere, significa decretarne la fine; coperte da un impalpabile velo grigiastro, le cose si trasformano in ciarpame e robaccia (Orlando 2015, p. 16), perdono consistenza, si tramutano in oggetti fuori luogo e contribuiscono a creare quella perturbante sensazione di repulsione, che viene amplificata dal riconoscere nella cosa impolverata alcuni tratti familiari, ma compromessi proprio dalla polvere. La gradevole consuetudine quotidiana degli oggetti si tramuta, a causa della polvere, in una forza respingente, Unheimlichkeit come la definisce lo stesso Francesco Orlando, ricorrendo all’idea freudiana di perturbante. In un passo del romanzo La porta di Magda Szabó, così viene descritta questa sensazione di morte e dissoluzione generata dalla stessa presenza della polvere: Quando battei la mano sulla fodera si alzò una nuvola, la polvere si ridepositò, ma il tessuto, per effetto del leggero colpetto, si ruppe, si strappò, come se fosse morto di crepacuore per la mia mancanza di delicatezza. […] La consolle crollò, ma la cosa non accadde con brutale velocità. Iniziò a disfarsi lentamente, con grazia, finché si dissolse in un cumulo di segatura dorata, le figurine di 3 www.epa.gov/expobox/exposure-assessment-tools-media-soil-and-dust. 169 porcellana e l’orologio caddero a terra, il tavolo, la cornice dello specchio, il cassetto, le gambe, tutto semplicemente scomparve nel nulla, ogni cosa finì in polvere (Szabó 2005, pp. 251-252). Tuttavia, se mettiamo da parte l’approccio utilitaristico alle cose e le guardiamo con lo sguardo dell’alchimista, vedremo cosa fa la polvere e non solo cosa essa sia. Un po’ meno chimici e un po’ più alchimisti, dice Ingold (2019, pp. 57-59): e dunque cosa fa la polvere? Certamente si mette in relazione con l’ambiente circostante e con altre entità con cui entra in contatto. Queste relazioni possono portare a nuove connessioni, significati o influenze reciproche tra la polvere e gli oggetti che la circondano, creando un ibrido4 (Latour 1991), un entanglement di umano e non-umano, di oggetti e soggetti, un inestricabile “groviglio” che costituisce il tessuto complesso del nostro mondo. La polvere è di per sé un ibrido5 , essendo un’entità né completamente organica né inorganica: essa ha un potere abrasivo che minaccia le cose e ne turba la stabilità chimica alimentando lo sviluppo di organismi potenzialmente pericolosi attraverso la materia organica (pollini, cellule della pelle, capelli, acari morti) che contiene, ed è questo il motivo per il quale deve essere eliminata ogni giorno, soprattutto negli ambienti che conservano, per esempio, oggetti d’arte o di valore storico (Dominguez Rubio 2020, p. 292); ma è un ibrido anche perché coinvolge (e arruola) direttamente gli umani nella sua storia: l’entanglement tra queste due entità che co-esistono e co-abitano, da molteplici punti di vista, genera spazi e organizza comunità di umani e non umani e, dunque, ha un ruolo decisivo nel produrre pratiche materiali e discorsive. 2. Grovigli di polvere La materia non è inerte, nonostante il paradigma dello human exceptionalism ci abbia indotti a crederlo, con tutte le conseguenze del caso. La polvere, come abbiamo già avuto modo di dire è considerata materia infima, e quindi, è stata da sempre collocata nel più basso gradino della scala della materialità. Tuttavia, nel cambio di prospettiva stimolato dal pensiero di vari pensatori (Barad, Bennett, Ingold, Malafouris, Puig de la Bellacasa) che mettono in evidenza il potenziale relazionale della materia, anche le entità fisiche meno visibili (o invisibilizzate) esprimono una loro ontologia per nulla trascurabile. Nella battaglia moderna, in cui ha prevalso il sublime kantiano (Dagognet 2009, p. 19), il piccolo, l’infimo, il presque rien è stato dimenticato e con esso tutta la complessità delle relazioni ontologiche. Eppure, questa massa pulviscolare informe, in quanto materia, ha una sorta di potere spesso sottovalutato e che Jane Bennett definisce la forza delle cose (The Force of Things): “Thing-power gestures toward the strange ability of ordinary, man-made items to exceed their status as object and to manifest traces of independence or aliveness […]” (Bennett 2010, p. XVI). La polvere esiste ed è fatta di materia, anche se molto spesso, l’unica maniera per renderla “visibile” e attiva – performativa, direbbe Karen Barad (2017) – è donarle una vita astratta e metaforica: non è infrequente, infatti, che ci riferiamo non tanto alla realtà fisica della polvere, quanto piuttosto alla sua metafora, ai suoi significati culturali e alla sua, pur interessantissima, dimensione simbolica. Il passo della Szabó citato in precedenza ne è un esempio; ma lo è anche l’astrazione della polvere pensata dai matematici, i quali ne hanno inventato una tutta loro che “vive” nel mondo degli insiemi. Essa è la cosiddetta polvere di Cantor e non è, con tutta evidenza, una sostanza fisica reale come la polvere 4 Si potrebbe qui parafrasare Bruno Latour riprendendo un suo passo: come classificare la polvere? “Dove mettere questo ibrido? È umana? Sì, perché è opera nostra. È naturale? Sì, perché non è di nostra fattura” (cfr. Latour 1991, p. 72). 5 “Dust is a powerful unruly agent of entropy that pervades all and evades all. This entropic power derives from the fact that dust is a hybrid, an in-between entity, neither fully organic or inorganic, that simultaneously abrades things with small sharp minerals and destabilizes them by feeding their biological growth through the organic matter (pollen, skin cells, hair, dead mites) it contains. This is why it has to be eliminated every day” (Dominguez 2020, p. 292). 170 ordinaria che si trova nell’ambiente; si tratta, piuttosto, di un’astrazione che rappresenta un particolare tipo di insieme frattale6. Ritorniamo alla materia, alle cose che – pur impalpabili – hanno un peso e una consistenza fisica. Pur nel suo essere scarto o residuo, la polvere può essere considerata materia che “enferme en elle de nombreuses potentialités, une profonde organisation”, come sosteneva il “materiologo” François Dagognet (2009, p. 15). Ora, al di là del potenziale metafisico della polvere (Bachelard 1933), ciò che conta è comprendere davvero cosa essa possa fare e, dunque, come possa generare performances in quanto in grado di esercitare un potere (Latour 1986). Pare evidente che l’eventuale performatività della materia in questione non si genera a partire dalla sola esistenza della polvere e dalla sua rappresentazione in quanto entità definita e limitata. A tal proposito, Karen Barad riprende l’approccio epistemologico proposto da Niels Bohr che: […] rifiuta l’ossessione rappresentazionista per le ‘parole’ e le ‘cose’ e la loro problematica relazione, a favore di una relazione causale tra le specifiche pratiche esclusorie incarnate in specifiche configurazioni materiali del mondo (ossia pratiche discorsive/(con)figurazioni al posto di ‘parole’) e specifici fenomeni materiali (ossia, relazioni al posto di ‘cose’). Questa relazione tra apparati di produzione corporea e fenomeni prodotti rappresenta una relazione di ‘intra-azione’ agenziale (Barad 2017, p. 44). Karen Barad si propone di superare “[i]l rappresentazionismo7 [che] separa il mondo in due campi ontologici disgiunti, le parole e le cose, senza risolvere il dilemma del loro concatenamento” (Barad 2017, p. 43). In quest’ottica, il concetto di intra-azione è particolarmente utile a definire la dimensione ontologica della polvere e il suo entanglement relazionale. Intra-azione (intra-action) è un neologismo, coniato proprio dalla Barad, attraverso il quale si esprime l’idea che nessuna entità può esistere al di fuori di un processo di relazione: 6 Questo tipo particolarissimo di polvere è costruito a partire da un segmento di retta; questo viene diviso in tre parti uguali e la parte centrale viene rimossa. Tale processo viene ripetuto all’infinito su ogni segmento rimanente, creando così un insieme di punti distribuiti in tutto l’intervallo iniziale. La polvere di Cantor è un resto che deriva da una sottrazione progressiva di “materia” geometrica: ogni segmento è privato reiteratamente della parte centrale all’infinito, tanto da generare questo insieme di punti. Le operazioni di sottrazione di materia (di natura diversa rispetto alla frammentazione che genera la polvere) rendono somiglianti le due polveri anche da un punto di vista metaforico, ma le similitudini si fermano qui. È abbastanza ovvio, infatti, che il pulviscolo geometrico non ha alcuna relazione diretta con la polvere nel senso tradizionale e fisico del termine; inoltre, mentre la polvere di Cantor e altri insiemi frattali mostrano un’auto-similarità – il che significa che presentano una struttura simile a se stessa a diverse scale di ingrandimento – il pulviscolo che trovo sulla mia scrivania mentre sto scrivendo non è per nulla scalabile. Un granello di polvere reale non possiede la stessa scalabilità di un frattale come l’insieme di Cantor. La scalabilità di un frattale si riferisce alla proprietà di presentare la stessa organizzazione alle diverse scale. Ciò significa che si può ingrandire una porzione di un frattale e ottenere una forma simile al frattale completo. D’altra parte, se si osserva al microscopio un granello di polvere reale, si troveranno elementi eterogenei che lo compongono e non assimilabili alla struttura organizzativa del granello: siamo, dunque, nella condizione opposta a quella della scalabilità frattale. Per le ipotesi di Cantor è utile consultare il libro The Fractal Geometry of Nature di Benoit Mandelbrot (1983) il quale cita il saggio fondamentale del matematico tedesco sul tema Grundlagen einer allgemeinen Mannigfaltigkeitslehre (Fondamenti di una teoria generale delle molteplicità) del 1883. 7 Sulla questione della separazione tra parole e cose è intervenuto anche Tim Ingold: L’antropologo britannico sostiene che le parole devono essere usate per incontrare il mondo: “[l]iberiamoci dalla paura di incontrare il mondo con le parole. Altre creature incontrano il mondo in modi diversi ma per noi umani la modalità di relazione – come la nostra supponenza – è stata sempre verbale. Lasciamo però che queste parole siano di augurio e non di scontro; che siano domande, non interrogatori o udienze; risposte, non rappresentazioni […]” (Ingold 2021, p. 221). 171 […] la «realtà» dell’universo in ogni suo aspetto viene ad esistere, si «materializza», durante e attraverso il processo di intra-azione. Barad aggiunge che le entità materializzate non sono indipendenti l’una dall’altra ma sono «entangled», ossia «aggrovigliate» l’una con l’altra: ciò significa che ogni entità è simultaneamente diversa, inseparabile, e al contempo resa possibile e agevolante, limitata e limitante dall’esistenza delle altre entità. Sviluppando un’intuizione elaborata da Bohr […], Barad suggerisce che specifiche configurazioni, o disposizioni, spazio-temporali della materia fisica permettono l’esistenza di determinate idee, teorie o, più in generale, di determinati «significati», e viceversa (Bernardini 2021, p. 164-165). Secondo Barad, dunque, l’intra-azione implica che le entità non abbiano una sostanza o un’esistenza stabile al di fuori delle loro relazioni. Le entità sono definite dalle loro pratiche relazionali e dal loro mutuo coinvolgimento. Ciò significa che la nostra comprensione della realtà dipende dalle pratiche materiali e discorsive attraverso le quali vengono articolate e che coinvolgono sia gli agenti umani che non umani. L’intra-azione rompe la dicotomia tra soggetto e oggetto perché enfatizza il fatto che gli agenti umani e non umani sono coinvolti in un continuo processo di co-emergenza (Barad 2007). Le entità e le loro proprietà emergono attraverso le loro relazioni e non possono essere considerate separatamente da queste relazioni8. La polvere è materia che si accumula come risultato di processi disgregativi causati, per esempio, dall’erosione, generata dalle attività umane, o dal naturale decadimento della materia. Da un punto di vista tradizionale, la polvere potrebbe essere considerata come qualcosa di inerte e insignificante, ma se assumiamo il punto di vista di Karen Barad, la polvere abbandona il suo stato di irrilevanza ontologica e determina un sistema di relazioni intra-attive che, a loro volta ne determinano l’esistenza. Il tessuto relazionale “aggrovigliato” nel quale emerge la polvere, insieme ad altre entità che sono appunto co-emergenti, genera pratiche, origina discorsi e significati, organizza spazi e, non per ultimo, forma comunità. In questa prospettiva, il mondo delle neglected things di cui parla Maria Puig de la Bellacasa (2011) assume rilevanza ontologica; la qual cosa implica che la polvere – entità regina delle cose neglette – viene riassemblata nel sistema di relazioni spaziali e sociali; e non solo: la sua stessa esistenza genera pratiche di cura e manutenzione di cui si parlerà più avanti. 3. Entità co-emergenti Ritorniamo per un momento sul concetto di co-emergenza tra umani e non umani di cui parla Karen Barad: esso si riferisce al fatto che gli esseri umani e il mondo non umano si co-costituiscono attraverso le loro reciproche relazioni. Secondo questa prospettiva, essi non possono essere considerati separatamente, ma sono intrinsecamente intrecciati e si influenzano reciprocamente nel loro emergere e nello svilupparsi. L’idea di co-emergenza sfida le concezioni tradizionali che separano rigidamente gli esseri umani dal resto del mondo e suggerisce una visione più interconnessa e interdipendente. Ciò significa che il modo in cui percepiamo, comprendiamo e agiamo nel mondo è influenzato dalle relazioni e dalle pratiche con gli enti non umani9. 8 Barad utilizza il concetto di intra-azione per sfidare le nozioni tradizionali di oggettività e soggettività, suggerendo invece una comprensione più complessa e relazionale della realtà. L’intra-azione mette in evidenza l'importanza delle pratiche materiali e discorsive nel costituire la realtà e invita a una riflessione critica sulle interconnessioni ontologiche tra gli esseri umani e il mondo che li circonda (Barad 2007, 2017). 9 La co-emergenza implica che le entità umane e non umane si definiscono e si costituiscono a vicenda nel corso delle loro interazioni e delle loro pratiche materiali e discorsive. Le entità non umane, come oggetti, animali, piante o fenomeni naturali, sono parte integrante dell’ontologia del mondo e della nostra comprensione della realtà. Allo stesso modo, gli esseri umani sono coinvolti in relazioni e pratiche che li interconnettono con il mondo non umano. 172 Non si sottraggono a questa logica, a mio avviso, elementi della vita quotidiana che hanno il potere di condizionare l’organizzazione di intere comunità e gli spazi in cui esse si muovono. La polvere è una di essi, e come abbiamo avuto modo di intuire, questa materia così sottile, infima e quasi invisibile, è capace di generare relazioni. Con chi, con cosa e come intra-agisce la polvere? La frase più ricorrente che viene frequentemente ripetuta è che la polvere è dappertutto; l’affermazione è quasi banale e purtuttavia corretta: troviamo polvere negli angoli della casa, negli uffici, sui mobili, in auto, nei luoghi sacri e negli ospedali, nel fondo delle nostre tasche, sui libri, nelle borse e negli zaini. L’elenco sarebbe infinito, ma non solo è l’onnipresenza a colpire, quanto piuttosto la persistenza nel tempo: la battaglia con la polvere, per noi umani, è una battaglia persa: essa si accumula con ostinata persistenza, e per quanto gli umani abbiano messo a punto strategie e tecnologie per eliminarla, l’unica cosa che sono stati in grado di fare è semplicemente spostarla. Gli umani ri-muovono la polvere: letteralmente, imponiamo a queste minuscole particelle di migrare da un’altra parte, più o meno lontana dal luogo che stiamo pulendo; tuttavia, essa stessa torna in qualche modo sui luoghi sui quali si era depositata (e in qualche modo anche generata) in un loop infinito che – in modo intermittente – interrompiamo per un breve lasso di tempo con le cosiddette “pulizie”. La polvere è il nostro destino. L’umanità fa di tutto e ha fatto di tutto illudendosi di eliminarla, ma non è riuscita e mai riuscirà in questa impresa che è sovrumana. Quando vogliamo distruggere qualcosa spesso pensiamo che la soluzione migliore sia quella di bruciarla: ma i resti della combustione sono inevitabilmente delle polveri. Se pure bruciassimo la polvere, l’unico risultato sarebbe una polvere dalle caratteristiche chimiche e fisiche diverse da quelle di partenza, ma sempre polvere. Di nuovo: la polvere è il nostro destino. Ineffabile, come solo essa riesce a essere. La polvere è fatta da noi e dalle cose che ci circondano, siano esse vicine o lontane: Charles M. Schulz fa dire a Charlie Brown – l’unico che difende strenuamente l’amico sporco e polveroso – che la polvere di Pig-pen una sorta di archivio della nostra storia: essa contiene tracce della memoria del passato e come tale va considerato10. Il lavoro sulla polvere serve, a mio avviso, a decrittare e ad aprire la scatola nera che costituisce il sistema e la struttura (l’infrastruttura) che la rende in qualche modo invisibile, o ne esige l’invisibilità in quanto sottoprodotto delle attività umane; in quanto materia inutile e potenzialmente nociva; in quanto simbolo di degrado sociale ed economico. Insomma, la polvere non è materia stimata, eppure muove cose e persone, crea dinamiche e genera mondi; in definitiva, essa non possiede un potere, ma piuttosto lo esercita11 facendo in modo che altri agiscano: in altre parole, volendo usare l’espressione latouriana, la polvere “arruola” diversi attori, li persuade e li iscrive in uno schema politico, sociale e spaziale. In definitiva, la polvere arruola interi collettivi che se ne prendono cura. 4. Intra-azioni materiali e conoscenze incarnate Per questa ragione nel luglio del 2022 – conclusi gli impegni didattici – decisi di realizzare un lavoro etnografico12 sul campo seguendo una persona che lavorava con la polvere. Così realizzai un breve 10 “Don’t think of it as dust. Just think of it as the dirt and dust of far-off lands blowing over here and settling on Pig-Pen! It staggers the imagination! He may be carrying the soil that was trod upon by Solomon or Nebuchadnezzar or Genghis Khan!”. 11 “[…] when an actor simply has power nothing happens and s/he is powerless; when, on the other hand, an actor exerts power it is others who perform the action” (Latour 1986, p. 264). 12 L’esperienza etnografica condotta sul campo è stata suggerita da Tiziana N. Beltrame, che ha condotto i suoi studi in ambienti museali seguendo la tecnica dello shadowing (Beltrame 2017, 2022). Per gli aspetti metodologici di questo tipo di indagine etnografica si è tenuto conto delle ricerche di Marianella Sclavi (2005), da cui deriva anche il tono espositivo di questo paragrafo. 173 periodo di shadowing, mettendomi sulle tracce della polvere e osservando per circa due settimane le operazioni svolte da Rosamaria, durante il suo turno di lavoro presso la mia università. Farò qui un brevissimo riassunto di quell’esperienza che mi permise di toccare con mano la co-emergenza della polvere e di comunità di persone che “esistono” in certi luoghi proprio per via della polvere. Seguire chi possiede l’arte di far durare le cose, come direbbero Denis e Pontille (2022), mi apriva verso un nuovo orizzonte di relazioni simbiotiche. Rosamaria B. è un’operatrice dell’impresa incaricata delle pulizie presso l’Università “Kore” di Enna. Il periodo di shadowing fu negoziato – senza nessun ostacolo – sia con Rosamaria che con il proprietario dell’impresa; piuttosto, entrambi erano sorpresi e incuriositi dal fatto che si potesse pensare di fare ricerche sulla polvere osservando qualcuno che la rimuovesse. Rosamaria, in particolare, considerava che era strano che qualcuno potesse interessarsi a una cosa così poco importante e a una persona che, nella comunità delle persone che ruotano intorno a quei luoghi di lavoro, aveva un ruolo così poco rilevante. Tuttavia, durante i nostri colloqui e durante le giornate di shadowing, Rosamaria rendeva visibile la polvere ai suoi occhi – ma anche ai miei – per poterla catturare, e si rendeva conto che in quella narrazione e in quella azione in qualche modo anche lei usciva dalla sua condizione di invisibilità. La routine di lavoro che seguivo era abbastanza semplice: le operazioni di pulizia cominciavano alle 15:00 nei laboratori della facoltà di Ingegneria e Architettura, dove le attività a partire da quell’ora cominciavano a scemare, per continuare a partire dalle 18.00 negli uffici che si andavano svuotando. Rosamaria con il suo carrello e la sua divisa blu, entravano in azione proprio quando tutti gli altri andavano via, diventando così quasi invisibili agli occhi di coloro che fin ad allora avevano usato quegli spazi. Rosamaria arrivava già in divisa e apriva quelle stanze “segrete” nelle quali sono custoditi gli attrezzi di lavoro. La stessa facoltà cambiava assetto spaziale perché improvvisamente alcuni luoghi – anch’essi invisibili – si schiudevano entrando in comunicazione con tutti gli altri ambienti della facoltà: stanzini nascosti “espellevano” carrelli, secchi, scope, macchine lucidatrici e così via, che invadevano uno spazio fatto solo da elementi utili allo svolgimento del lavoro quotidiano, in cui non c’è posto per quell’attrezzatura. Essa è out- of-place proprio come la materia – la polvere e lo sporco – che è chiamata a eliminare. Una volta tirato fuori il carrello dal ripostiglio, Rosamaria e la sua attrezzatura cominciavano un corpo a corpo con la polvere. Essa è la prima nemica, secondo quanto raccontava Rosamaria: ci sono tracce di unto, cartacce, resti di cibo e così via, ma la polvere è quella che va rimossa per evitare che la sensazione di trasandatezza conquisti i luoghi di lavoro. Queste osservazioni mi facevano tornare alla mente la cosiddetta guerre à la poussière settecentesca a cui si riferisce Michelle Perrot nella sua storia delle camere (2009). Il corpo a corpo in alcuni casi era reale, dal momento che Rosamaria non delegava né ai panni, né ai piumini in dotazione, ma rimuoveva la polvere da alcuni angoli impossibili con le sue stesse mani sulle quali indossava dei guanti. Rosamaria comprendeva che il suo lavoro significa far parte di un collettivo che rimette indietro le lancette del tempo: ogni suo passaggio in un ufficio, in un bagno o in un laboratorio, ristabiliva le condizioni inziali degli oggetti e dello spazio, come se il tempo non fosse trascorso. In questo modo i diversi collettivi degli utenti di quel luogo potevano tornare a lavorare e a usare gli spazi spolverati da Rosamaria come se il tempo non fosse passato. L’ibrido costituito da Rosamaria, il suo carrello e la sua divisa si assumeva il compito di prendersi cura delle cose neglette o considerate di scarsa rilevanza (Puig de la Bellacasa 2011). Seppur la routine fosse ogni giorno la stessa, il lavoro di Rosamaria aveva un certo grado di complessità: il suo modo di procedere, infatti, era regolato da una mappa spaziale “incarnata” che proverò a spiegare. Rosamaria ingaggiava con la polvere una sorta di complicità strategica: “io so come funzioni, so come e dove ti accumuli, conosco i tuoi movimenti e riconosco i segni della presenza di coloro che possono portarti con loro e che quindi possono consentirti di depositarti”. Era questo il ragionamento che faceva Rosamaria: lei sapeva cosa aveva pulito il giorno prima, conosceva in qualche modo il trigger point dell’accumulo di polvere, oltre il quale era necessario il suo intervento e, con occhio abituato a 174 riconoscere le tracce, sapeva se qualcuno aveva frequentato quei luoghi. Queste conoscenze le permettevano di fare operazioni diverse ambiente per ambiente: in quelli frequentati dalle persone o non spolverati il giorno prima, l’intervento era più profondo; meno intensa e più superficiale l’azione, invece, in quei luoghi che non erano stati utilizzati, o che erano stati oggetto delle sue attenzioni il giorno prima. Rosamaria ricostruiva, giorno dopo giorno, una mappatura dei luoghi e delle operazioni svolte e da svolgere. La polvere la costringeva a pensare e a muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra. Le dinamiche di Rosamaria mi stimolavano alcune riflessioni: siamo noi a dar forma alla materia, o è essa stessa che in qualche modo ci plasma, fino a modellare il nostro modo di pensare? Questo interrogativo, che problematizza il sistema di relazioni e le direzioni che le parti in gioco assumono, in realtà non è da sottovalutare; anzi, risulta determinante nel momento in cui assumiamo il fatto che le entità umane non hanno un ruolo centrale ed eccezionale rispetto a tutti gli altri esseri o alle entità non umane. In quest’ottica, anche la materia “inerte” può svolgere un ruolo agente e dunque realmente attivo nel determinare persino l’organizzazione spaziale e sociale di collettivi umani e non umani. La polvere non si sottrae a questa condizione attiva: essa è percorsa, infatti, da linee di flusso, è oggetto di resistenze e ingaggia, in larga misura, una battaglia continua con gli umani13. Le azioni di Rosamaria, i suoi movimenti nello spazio, parte del suo pensiero e delle conoscenze che ha acquisito, sono co-generati dalla polvere. Essa in qualche modo produce una conoscenza e una maniera di leggere il mondo che deriva dal suo essere ciò che è: in questo senso, Lambros Malafouris (2017) propone una prospettiva chiamata “material engagement theory” che mette in evidenza come gli oggetti materiali e l’ambiente fisico siano parte integrante dei processi cognitivi e delle pratiche culturali. Secondo questa prospettiva, l’interazione tra gli esseri umani e il mondo materiale è fondamentale per la formazione del pensiero e per la produzione di significato. Malafouris suggerisce che gli oggetti materiali non siano semplici estensioni passive delle menti umane, ma che abbiano una propria agency e siano coinvolte attivamente nei processi cognitivi. Ad esempio, strumenti, artefatti culturali e altri oggetti materiali possono fungere da “catalizzatori cognitivi” che ampliano le capacità cognitive umane e facilitano il pensiero creativo e l’elaborazione concettuale. Questa prospettiva mette in discussione l’idea tradizionale che il pensiero sia unicamente un prodotto del cervello umano, sostenendo invece che il pensiero si sviluppa in relazione alla materialità dell’ambiente e attraverso l’interazione con gli oggetti fisici. L’ambiente fisico fornisce strumenti, simboli e contesti che plasmano il modo in cui percepiamo, pensiamo e comprendiamo il mondo. In sintesi, secondo Malafouris, la materia non è solo un oggetto inerte, ma ha una capacità attiva di influenzare il pensiero umano. Questa prospettiva amplia la nostra comprensione della relazione tra mente e materia, mettendo in risalto l’importanza della materia nella formazione delle idee, delle pratiche e della conoscenza umana. 5. Politiche della polvere La manutenzione e la cura degli oggetti e degli spazi ha un’evidente dimensione politica alla quale qui farò solo un breve cenno, partendo da alcune riflessioni che scaturiscono dall’architettura. Joseph Amato (1999) ricorda che la polvere è stata spinta ai margini della società. L’urbanistica e l’architettura moderna hanno svolto un ruolo fondamentale, agendo esattamente in questa direzione: da un lato promuovendo le teorie igieniste della città, dall’altro, allontanando dai centri urbani le industrie e cittadini polverosi e sporchi alla Pig-pen. L’architettura cosiddetta moderna ha fomentato la costruzione delle periferie urbane, teoricamente più pulite, più ariose e dunque più sane, stimolando in qualche modo la 13 Si vedano, a tal proposito, le riflessioni di Ingold sul Trattato di nomadologia di Gilles Deleuze e Félix Guattari (Ingold 2021, p. 53). 175 costituzione di collettivi di umani e di edifici che servivano a tenere lontana la polvere. La rimozione della polvere serviva, come diceva Bataille (1929), ad allontanare i “fantasmi che spaventano la pulizia e la logica”: la materialità della polvere è perturbante, unheimilich; essa è l’immagine del ciclo delle cose e della finitezza nostra e loro. Non vi era posto, dunque, per una materia repulsiva che, per di più, minacciava le magnifiche sorti e progressive della modernità. La polvere, per coloro che si occupano di spazio, è rumore 14 , perché disturba con la sua ingerenza la tensione verso l’infinto e l’eterno. Se osservassimo le cose con gli occhi di un fisico, potremmo dire che la polvere è la materializzazione dell’entropia del mondo: con essa tocchiamo con mano la seconda legge della termodinamica. I cosiddetti moderni dell’architettura contemporanea hanno condotto una guerra infinita alla polvere e allo sporco, tanto che Le Corbusier descriveva così il suo ideale di architettura: “L’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi raggruppati sotto la luce. […] l’ombra e la luce rivelano queste forme; […] La loro immagine ci appare netta… E senza ambiguità”. L’aspirazione del nonno dell’architettura contemporanea era sottrarre al tempo le opere architettoniche e consegnarle all’eternità. Gli architetti si sono inventati di tutto per tenere la polvere lontana dalle loro aspirazioni, più che dalle loro architetture. La gestione della polvere è necessaria per mantenere le architetture (Sample 2016) e le opere d’arte nei musei. Essa è, infatti, una pericolosa nemica perché compromette fortemente il desiderio di atemporalità degli oggetti che ricopre: […] the ecological nexus that generates and sustains the modern imagery of immediacy, transparency, authenticity, and timelessness in our encounters with the art object. It can do so by inspiring entirely different figures of imagination, like loss, ruination, carelessness, and nostalgia, and reveal, in so doing, the futility of the human rebellion against things that the modern museum tries to stage. Dust has to be eliminated to prevent any of these images from taking hold and to preserve, and legitimate, the idea of a museum as a place of care, not of abandonment. Just imagine going to a museum in which display cases and artworks are covered by thick layer of dust. But this is not the only reason. Dust also needs to be eliminated because it can undo objects (Dominguez 2020, p. 292). In definitiva, non accettiamo il decadimento e la transitorietà. Proviamo in tutti i modi a ritardarli o a prevenirli, senza grande successo. Le cose si modificano e si trasformano (Pollard 2004), e quel quasi- niente che è la polvere è testimonianza di questi processi ineluttabili. Abbiamo persino inventato gli aspirapolvere, che usano un flusso d’aria invertito (in quanto aspirano) per togliere la polvere. Essi fanno il lavoro inverso dei flussi d’aria naturali che depositano il pulviscolo sulle superfici. Lo studio della polvere, le storie che essa narra, gli spazi che genera, gettano una luce sul mondo in cui viviamo e sul sistema di relazioni che legano insieme gli umani, la polvere stessa e gli oggetti che provano a eliminarla. Seguire le tracce della polvere aiuta a penetrare un sistema di relazioni complesso in cui la polvere può essere annoverata tra le “masse mancanti” (Latour 1992) della costruzione sociale e spaziale dei luoghi in cui viviamo. 14 Sulla polvere come rumore si vedano gli scritti di Beltrame (2017) e di Serres (1980). 176 Bibliografia Amato, J., 1999, Dust. A History of the Small and the Invisible, Berkeley-Los Angeles, University of California Press; trad. it. Polvere. Una storia del piccolo e dell’invisibile, Milano, Garzanti 2001. Akrich, M., Latour, B., 1992, “A Summary o/ a Convenient Vocabulary/or the Semiotics o/ Human and Nonhuman Assemblies”, in W. E. Bijker, J. Law, a cura, Shaping Technology/Building Society, Cambridge (Mass.)- London, The MIT Press, pp. 259-264; trad. it., “Semiotica dei collettivi: un lessico”, in D. Mangano, I. Ventura Bordenca, a cura, Politiche del design, Milano, Mimesis 2021, pp. 317-324. 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Polvere. Questioni semiotiche sulle sostanze Giuditta Bassano Abstract. This article explores the problem of materials with respect to contemporary semiotic research. The contribution defines a general problem of including processual aspects in the analysis of materials and artefacts. It therefore focuses on dust, as a material identified both in a socio-technological sense and focused on by many contemporary art works. In analyzing dust, a proposed model for the problems posed by materials is outlined, as including: a figurative dimension, a figural dimension, a thymic dimension, and an aspectual dimension. Some strengths and weaknesses of this proposal are discussed in the final part of the article. 1. Introduzione Paul Valéry intitola un capitolo di Degas Danse Dessin “Du sol et de l’informe”, del suolo e dell’informe. Qui distingue tra oggetti con una “forma nota” – quelli che ci appaiono attraverso la loro “funzione” e che secondo il poeta “non possiamo più vedere”, come una sedia, un tavolo, una forchetta – e quelli di forma “sconosciuta”, che Valery definisce “informi”, come per esempio un pezzo di carta accartocciato. Questi ultimi, privi di ogni sorta di “neutralizzazione” provvista dall’uso, appunto dalle funzioni, secondo Valery ci costringono a uno sguardo più profondo, e forse più proficuamente ingenuo. Tanto che il poeta suggerisce un esercizio di allenamento del pensiero “attraverso l’informe” (Valery 1938, pp. 75-76). Sulla scorta di queste note, pare possibile seguire e forse riaprire i tracciati della riflessione semiotica sugli artefatti e sulle materie ed elementi1. A costo senza dubbio di una semplificazione2, i lavori condotti fino ad oggi sembrano concentrati in due indirizzi principali. Da una parte ci sono le ricerche sul senso degli oggetti, in dialogo con un’antropologia delle tecniche e successivamente con gli studi di design, la storia delle tecnologie, la filosofia latouriana e il lavoro di Ingold. Dall’altra ci sono quelle dedicate al campo artistico; luogo d’incontro con la fenomenologia della letteratura, l’estetica, la storia dell’arte. La divaricazione tra questi terreni d’indagine sembra caratterizzata anche da una progressiva distanza, più o meno netta, tra approcci. La semiotica degli oggetti mette a fuoco in particolare la dimensione valoriale e la narratività; si concentra sulle interazioni narrative interoggettive, intraoggettive (Mattozzi, Sperotto, Poli 2009) e tra artefatti e utilizzatori. Nel caso degli artefatti, da un reattore nucleare a un muro, passando com’è chiaro per tutti gli “oggetti d’uso quotidiano”, sbattitori, chiavi, spazzolini da denti, il commercio semiotico è determinato dall’idea dell’uso. Tutti i prodotti di qualche tecnica sono 1 Il modo in cui sono intesi qui i sostantivi “materie” e “sostanze” non ha connessioni con la teoria hjelmsleviana, che è astratta e a nostro avviso priva di qualsiasi presa analitica sul mondo sensibile. Per “elementi” ci rifacciamo all’idea del simbolismo classico. 2 È una considerazione che non rende giustizia per esempio agli studi semiotici sul cibo – che non presentano affatto i tratti della divaricazione analitica individuata di seguito (cfr. per es. Marrone 2016; Marrone e Giannitrapani, a cura, 2012). Un’altra serie di analisi elusa dalle considerazioni svolte qui è quella di Marsciani (1995, 2007, 2009, 2012). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). connessi con la fattitività, e l’ANT, all’inizio, ha colto nella semiotica proprio un punto di vista sulla fattitività. Il che pare valere anche per i materiali, sostanze, elementi. Qui i materiali e le sostanze sono concepibili come artefatti allo stato virtuale o attuale. Della carta sappiamo che si collega a un “foglio”, il cemento a un muro, il cotone a indumenti e altri oggetti per tamponare la pelle. Si ha cioè a che fare perlopiù con percorsi che dipendono da due poli, percorsi che legano materiali da una parte e artefatti dall’altra, come virtualità e realizzazioni, come parti di un insieme e forme stabilizzabili3. Basta pensare, per esempio, al concetto di componente tassica nel modello di analisi messo a punto da Floch su Opinel (1995, pp. 198-230)4, oppure alle considerazioni di Bolchi nella sua celebre analisi di un rasoio femminile (Semprini 1999, pp. 39-56)5. Quando invece la disciplina si rivolge all’arte, le dimensioni privilegiate sembrano piuttosto quella enunciativa e discorsiva. Il lavoro di Omar Calabrese è un riferimento essenziale, e vale, tra molti, uno studio dedicato ai concetti di figurale e figurativo rispetto alle rappresentazioni pittoriche dell’acqua (2006); inoltre ci riferiamo a lavori come Deleuze (1981), Marin (1980), Calabrese (1980, 1985), Fabbri (2020), Corrain (2004, 2016), Lancioni (2012), Migliore (2021), e dell’intera scuola senese (cfr. per es. Mengoni 2015; Polacci 2012). Nell’arte, e nell’analisi semiotica che vi si dedica, la nozione di materiale con tutta evidenza si dissolve. I materiali possono essere intesi come ingredienti dei colori pittorici, come temi o figure di un’installazione, ed emergono infinite “sostanze” – che si tratti di metallo, ossa, diossine, cenere, cemento 6 etc. – ed elementi (intesi secondo il simbolismo classico) 7 , convocati ora dall’enunciazione ora dall’enunciato di un’opera, ora da dimensioni intermedie tra le due8. Lo iato tra queste due direzioni di ricerca appare almeno duplice. Mentre la semiotica degli oggetti ha più o meno narcotizzato il dialogo con una dimensione estetico-fenomenologica, la semiotica dell’arte ha per parte sua riflettuto principalmente sulla dimensione estesica del senso. Un altro punto di divergenza riguarda il ruolo delle questioni legate alla temporalità, oggi forse meno tematizzate nell’analisi degli artefatti9, ma centrali nell’analisi semiotica del campo artistico. Infatti, liberando sostanze e materie da una 3 Come noto, Barthes aveva riflettuto sulla plastica, dedicandole una sorta di “scomunica sostanziale”: “Più che una sostanza la plastica è l’idea stessa della sua infinita trasformazione, è, come indica il suo nome volgare, l’ubiquità resa visibile. […] Più che oggetto essa è traccia di un movimento […]. La sua costituzione è negativa: né dura né profonda essa deve contentarsi in una qualità sostanziale neutra a dispetto dei suoi vantaggi utilitari: la resistenza, stato che suppone la semplice sospensione di un abbandono. Nell’ordine poetico delle grandi sostanze è un materiale sgraziato, sperduto tra l’effusione della gomma e la piatta durezza del metallo: essa non arriva a nessun vero prodotto dell’ordine minerale: schiuma, fibre, strati. È una sostanza andata a male: a qualunque stato la si riduca, la plastica conserva un’apparenza fioccosa, qualcosa di torbido, di cremoso e di congelato” (Barthes 1957, p. 170, corsivi nell’originale). Barthes qui sta pensando a una plastica intesa come materiale. E, forse, Alberto Burri ha saputo smentirlo liberando nelle proprie opere una “plastica sostanza” con caratteristiche molto diverse. 4 Nonostante Floch stesso (1984) avesse aperto a uno studio degli effetti di senso “fenomenologici” del cemento impiegato come materiale architettonico. 5 Alcune analisi principali in ambito di semiotica degli oggetti sono in Mangano (2008, 2010); Mattozzi (2006); Deni (2002); Semprini (1999); Hammad (1989); Marrone e Landowski (2002). 6 Cfr. le opere di Eliseo Mattiacci oggetto di uno studio di Fabbri (2020, pp. 291-303); Balkan Baroque di Marina Abramovic del 1999; il progetto Yellow Dust: Making Visible Particulate Matter in the Air di Nerea Calvillo, del 2017; i lavori di Daniel Arsham, tra i quali per esempio Fictional Archeology del 2015; Narrow are the Vessels di Anselm Kiefer del 2012 (tra moltissime opere dell’artista). 7 Rimandiamo a un altro lavoro di Fabbri (2020, pp. 239-254) sull’acqua in Ocean Without a Shore di Bill Viola. 8 Cfr. a questo proposito il lavoro fondamentale di Krauss (1981). 9 Lo si vede con il famoso schema d’analisi derivato dall’analisi di Floch sul coltello Opinel, già citato, il quale ancora oggi, a dispetto di un aggiornamento proposto da Mattozzi (Mattozzi et al., cit., 2009), è lo schema didattico più usato. Questo schema fotografa uno stato, provvede una sorta di istantanea dell’uso e del senso degli artefatti. E in questo sembra simile alle criticità di modelli sviluppati dagli studi di design e progettazione per l’analisi dei materiali (cfr. Rognoli, Levi 2011, pp. 44-45). Prospettive che cercano qualità degli oggetti in senso aristotelico; punti di vista che tendono ad eludere la dimensione temporale e processuale. 180 funzione tecnica d’uso, l’arte apre per esse percorsi figurativi illimitati10, percorsi in cui ha rilievo anche un aspetto nettamente processuale. Basta pensare, per un esempio tra molti, alla serie Ice Watch di Olafur Eliasson (Fig. 1). Si tratta di un gruppo di installazioni collocate in varie capitali europee tra il 2014 e il 2018; attraverso di esse l’artista islandese ha dato corpo a una riflessione sul tema del cambiamento climatico. Una serie di blocchi di ghiaccio artico, di diversi metri di diametro ciascuno, era collocata in cerchio nello spazio pubblico, evocando la configurazione del quadrante di un orologio. I blocchi erano accessibili ai visitatori, che potevano toccarli, salire su essi, scattare foto, ma la “mostra” aveva una scadenza cinicamente determinata. Quella connessa allo scioglimento spontaneo dei blocchi, esposti all’aperto e appoggiati direttamente sulla pavimentazione urbana. Fig. 1 – Ice Watch, Olafur Eliasson e Minik Rosing, 2018. Installazione londinese all’esterno di Bloomberg European. Foto di Charlie Forgham-Bailey (© Olafur Eliasson). Se i percorsi figurativi attraverso cui il discorso dell’arte fa significare le materie e le sostanze sono fluidi, imprevedibili, incalcolabili, l’analisi di testi di questo tipo può richiamare l’attenzione dello sguardo semiotico sul rilievo di una temporalità interna11 inscritta in ogni genere di elementi, sostanze (e artefatti). Di seguito, questo contributo svolge alcune considerazioni su uno specifico oggetto d’analisi, la polvere “ordinaria” (Amato 1999, p. 71), tentando di unificare alcuni rilievi degli approcci rapidamente visti. 2. Polvere La polvere è di difficile definizione12. Non è un elemento nel senso del simbolismo classico – a meno di non considerarla come unione di terra e aria –, né naturalmente è un materiale, nel senso di “ciò di cui è fatto qualcosa”. Con la polvere non si fa niente, non si tratta di “carne degli oggetti”, non è “il corpo di un’opera o di uno strumento” (Fiorani 2000, p. 14). La polvere è una “massa” informe nel 10 Ipotesi abbracciata per esempio da Dagognet (1997, p. 74) e Krauss (cit., pp. 204-206). 11 Semprini (1996, pp. 123) proponeva di pensare agli artefatti come stratificati: “agglomerazioni di strati, intrico di livelli, sovrapposizione di piani che potrebbe rendere meglio l’idea sia della multidimensionalità virtuale sia del duplice regime temporale che si applica a ciascuna di queste dimensioni”. Il riferimento a una doppia temporalità riguarda la proposta di Semprini di pensare a un tempo come corso d’azione, dentro cui gli oggetti si inserirebbero, e a un tempo come temporalità propria degli oggetti, a sua volta scomponibile in più aspetti. 12 Una stessa vacuità ha interessato il senso delle varie entità connesse al concetto di ombra, cfr. Stoichita (1997); cfr. anche Dubuffet (1971). 181 senso di Valery, che, in qualche modo, si avvicina all’idea di sostanza. La definizione lessicale articola questa prossimità: lo Zingarelli ricorda che quando non corrisponde a un materiale, la materia è appunto un parasinonimo di sostanza. Cioè un “elemento primario di qualcosa” – vaghezza notevole – “di cui sono esempi i composti chimici”. Per coincidenza con la divaricazione a cui si è accennato sopra, menzionando una semiotica degli oggetti e gli studi semiotici sull’arte, questa sostanza sui generis è trattata precipuamente in una storia della tecnologia e delle scienze (Amato 1999; Reynolds 1948; Beltrame, Houdart, Jungen 2017) e nella critica d’arte (Grazioli 2004; Hennig 2001; cfr. anche Burgio 2011). Amato ricorda una serie di trasformazioni che hanno interessato la polvere da un punto di vista timico e cognitivo rispetto alle scoperte tecnologiche degli ultimi due secoli: Un tempo regno inaccessibile, la polvere era al contempo mescolanza e summa di tutte le piccole cose. Nel Novecento la polvere, analogamente ai contadini dell’ancien régime, è stata sospinta ai margini della vita. Ha perso il suo ruolo di prima e più comune unità di misura del piccolo. Da normale compagna di vita è divenuta un insieme di particelle altamente differenziate. E questa differenziazione della polvere è andata di pari passo con l’indagine scientifica, la produzione industriale e la regolamentazione della salute pubblica. […] Vulcanologi, meteorologi, geofisici, medici industriali e igienisti, insieme ad altri specialisti si occuparono ciascuno di un differente particolato. […] Nei laboratori gli scienziati manipolano l’invisibile. Trasformano i batteri in agenti igienizzanti e fanno giochi di prestigio con tecnologie in scala molecolare. In questo mondo non c’è più spazio per la polvere, a meno che non presenti le credenziali di uno specifico particolato. La vecchia polvere mista e indifferenziata – le gatte sotto il divano – è ora priva di dignità formale. Con così tante conoscenze sull’invisibile, la polvere ordinaria non ha più diritto al rispetto (Amato 1999, pp. 102-104). Grazioli scrive alcune righe significative sul rapporto tra polvere e arte: La polvere in sé non è quasi niente, si disfa sotto le dita, ma anche sotto l’occhio, sotto lo sguardo che la coglie, eppure è il segno del tempo, del suo trascorrere e insieme del suo restare, deposito assoluto, presenza in quanto deposito; e insieme immagine, pellicola che rifà nel dettaglio l’oggetto su cui si deposita, sottile come l’essenza dell’immagine stessa – “infrasottile” – eppure fedele come un calco (2004, p. 73). Entrambi gli autori colgono elementi dirimenti di una considerazione della polvere ordinaria in senso semiotico. Di più, i saggi di Amato e Grazioli aprono a una galleria di discorsi e prospettive analitiche possibili. Così, traendo da entrambi i lavori alcuni esempi, proveremo a sviluppare un modello che “sintatticizza” la polvere, cioè la inserisce in sintassi di diverso ordine, in una proposta più generale relativa all’analisi delle sostanze, discussa oltre, nel § 2. 2.1. Un “tritume” Quali sono i tratti figurativi di quello che a vario titolo chiamiamo polvere? Come si trasferiscono su altre sostanze? Gli usi linguistici come “polvere di riso”, “polvere di stelle” ricordano che la polvere è un composto granulare, discreto – come opposto a compatto nel senso in cui Françoise Bastide (1987, p. 348) usa questi termini – e spesso aereo. In questo senso le “piogge d’oro” della mitologia greca, il pepe polverizzato, la farina e la cenere sono tutti parenti stretti della polvere. La contrapposizione tra polvere e sabbia permette di specificare altri contrasti, quello tra asciutta (la polvere) e bagnata, leggera13 e pesante, ubiqua e localizzata, eterogenea e omogenea, non minerale e minerale. 13 Per Grazioli la leggerezza della polvere è un elemento tipico della sua caratterizzazione in Oriente: “il tema è importante perché divide chi la vede sospesa e antigravitazionale in forma di pulviscolo volteggiante nei fasci di 182 La polvere si differenzia poi dalla polvere della terra, cioè dal terreno seccato, per il fatto che la prima è una materia del mondo culturale, la seconda appartiene alla natura – non ha infatti senso parlare di una polvere lungo il letto di un fiume o su una montagna. Sia chiaro che questa è un’articolazione degli ultimi due secoli, sia perché prima la polvere per come ne discutiamo qui non esisteva, sia perché la polvere del terreno può rientrare in un qualsiasi impiego culturale, per esempio in senso bellico quando segnala l’arrivo di una fila di carrarmati nemici, o in altre epoche di un’armata a cavallo14. Il che porta presto ai rapporti che rendono la polvere che conosciamo oggi anche una materia inutile e spontanea, in rapporto con le polveri strumentali e artificiali (powder, poudre, in inglese e in francese, differenti da dust e poussière). Cioè le polveri della pittura, della chimica e del trucco – phard, ombretti –, le spezie, i composti farmaceutici e le droghe (Amato, cit., p. 27). Tra queste polveri, al plurale, alcune evidenziano altri tratti della polvere ordinaria. Rispetto alla polvere da sparo, per esempio, l’essere non infiammabile e commestibile in senso vago. Rispetto alle micropolveri (o particolato atmosferico) la minore o totale assenza di nocività, la minor rilevanza rispetto all’elemento di penetrazione nel corpo, la visibilità, la natura non esclusivamente aerea. Rispetto al polline, una polvere “fecondante” (Grazioli, cit., p. 233), la sterilità15 e il tratto semantico durativo piuttosto che puntuale (Fig. 2)16. Fig. 2 – Wolfgang Laib mentre compone Pollen from Hazelnut, 1992. Installazione al Museum of Contemporary Art di Los Angeles, 330x370 cm (© Wolfgang Laib). Amato ricorda che persino gli escrementi, una volta polverizzati, si contrappongono alla polvere ordinaria per una funzione fertilizzante attiva (Amato, cit., p. 27). Per parte sua, Grazioli sottolinea l’aspetto veridittivo della polvere ordinaria rispetto all’amido, grande sovrano del maquillage già cinquecentesco. L’amido in polvere, usato per accordare i capelli al biancore della carnagione e del volto fa “entrare in gioco la maschera”, un “effetto di finzione, di apparenza, di luce, o evanescente e fragile al tatto quando depositata, e chi considera che essa finisce pur sempre per cadere e depositarsi e ricordare allora la pesantezza del tempo e del destino inesorabile” (Grazioli, cit., p. 164). Noi cercheremo di mantenere aperte tutte e due le valorizzazioni, in una proposta discussa nel § 2. 14 “Se la polvere si solleva alta e definita giungono dei carri; se è bassa e diffusa, giungono soldati a piedi. Fili di fumo sparsi indicano boscaioli. Relativamente poca polvere che va e viene indica la preparazione di un accampamento”. Sun Tzu, L’arte della guerra, in esergo in Amato (cit., p. 25). 15 Intendendo una sterilità sessuale transitiva, perché, come accennato poco oltre, la polvere è anche uno spazio vitale per alcuni organismi che la abitano e si nutrono dei suoi componenti, tanto quanto il polline è nutritivo per molti insetti. 16 Il riferimento è alle sculture di Wolfgang Laib (Fig. 2) che compone forme con grani di polline da lui raccolti personalmente in sessioni, come prevedibile, lunghe e ripetute, che sono parte dell’opera. Il polline è qui concepibile per Grazioli in quanto “polvere che crea vita, che diffonde, sparge, espande, moltiplica, dissemina, seme, sperma vegetale, custode della forma, polvere che dà forma, in-forma, ri-forma”, ibidem. 183 ornamento”, fino alla “spiritualizzazione” (cit., p. 52). Così il trucco raggiunge la morte per via di purezza, contrariamente all’impurità della polvere ordinaria: “questo leggero velo di polvere bianca attenua la nudità, sottraendole i caldi e provocanti colori della vita. La forma si avvicina così alla statuaria, si spiritualizza e si purifica” (Hennig 2001, p. 51). Per quanto riguarda il rapporto con le droghe, è stato l’artista Marco Cingolani a mettere in luce un elemento di non marcatezza della polvere ordinaria, rapportata con il traffico illecito degli stupefacenti. La sua serie Refurtive (1989) include armi e quadri rubati, accostati a bustine di cocaina, suggerendo l’idea di un mercato dove queste “polveri” hanno ormai un legame imprescindibile17. Potremmo poi parlare di tritume nel ruolo di Oggetto o di Destinante. La polvere è infatti un ambiente vitale per alcuni animali: oltre alle spore dei funghi e a semi minuscoli, ogni grammo di polvere ospita fino a un migliaio di acari – i più piccoli fra i ragni, che se ne nutrono e le cui deiezioni sono la causa principale di asma e allergie (Amato, cit., p. 129). Inoltre, è una materia disponibile a essere spostata e attratta a causa dei fenomeni elettrostatici, in contrapposizione con i caratteri attanziali soggettivi della polvere biblica, che è un resto identitario – così come lo sono le ceneri delle urne funerarie. Burgio (2011) ha analizzato un progetto dell’architetto e artista ispano-statunitense Otero-Pailos che fa emergere per la polvere ordinaria il ruolo attanziale di Destinante. Insieme ad altri artisti come Erwin Wurm18 e Claudio Parmiggiani (Fig. 3) che lavorano sulla facoltà della polvere di ricalcare i contorni delle cose, tracciare forme, far vedere, Otero-Pailos ha sfruttato la polvere per ‘generare una copia” di una serie di palazzi che ha restaurato. Con un metodo sperimentale, un telo di lattice veniva steso e fatto aderire alle pareti o pavimenti di un edificio; rimuovendolo, vi restava incollata una parte delle sedimentazioni che la polvere e lo smog avevano prodotto nel tempo sulla superficie. Ricomponendo i teli in strutture retroilluminate, l’artista ha potuto così esporre dei grandi “delicati, calchi fossili” (Burgio, cit., p. 103) su cui era impressa la topografia materica dei muri degli edifici. Otero-Pailos ha messo in luce l’aspetto formante di questo tipo di gesto, dichiarando di voler dare dignità all’azione del tempo e alla polvere come operatore di un effetto di permanenza19. Ci ritorneremo in § 2.4. Fig. 3 – (da sinistra) Delocazione, Claudio Parmiggiani, 1970 (© Galleria Civica di Modena); The Ethics of Dust, Jorg Otero-Pailos, 2008-2016, Old Us Mint, San Francisco 2016, collezione del SFMoMa (© Jorg Otero-Pailos). 17 Cfr. M. Cingolani, “Baby è solo polvere…” (1991). 18 Erwin Wurm, artista svizzero celebre per la sua serie Fat House, è l’autore di una serie di Dust Sculptures, opere composte da teche e piedistalli su cui è visibile ‘solo’ l’alone di polvere depositata intorno a un oggetto ora assente. Cfr. www.erwinwurm.at/artworks/dust-sculptures.html. Consultato il 4 giugno 2023. 19 Intervista del 2008 su Radio Papesse, www.radiopapesse.org/it/archivio/interviste/jorge-otero-pailos-the-ethic-of- dust. Consultato il 6 giugno 2023. 184 2.2. Un residuo Sotto un altro aspetto la polvere ordinaria è un residuo, un resto che risulta da altre sostanze, e qui intrattiene due ordini di parentele sintattiche: la prima, più forte, con lo sporco, la seconda con la cenere. Nella sua storia della polvere Joseph Amato ricorda che la “polvere appartiene alla terra e all’aria equamente; lo sporco è terreno, è pesante e prende spazio” (cit., p. 13). Rispetto allo sporco, tanto del corpo quanto dei rifiuti di ogni tipo, la polvere è senza dubbio più neutra, sia perché perlopiù non si distinguono percettivamente le parti che la compongono, sia perché, più invisibile, effimera e amorfa, non ha origine e storia, non si conoscono i resti da cui risulta. La polvere è uno sporco che si lega alla mancanza di tatto, al contrario di quello che si accumula con la manipolazione e l’uso, lo sporco delle cose vissute, cioè lo strato traslucido che vela il metallo di un mazzo di chiavi, la cover del telefono, le lenti degli occhiali, lo sporco come grasso cutaneo delle impronte di un polpastrello su un vetro. Tanto che un artista come Jean Dubuffet (Fig. 4) ha potuto metterne in rilievo il carattere “antiumanistico” (Grazioli, cit., p. 110): “Mi interessano più degli altri gli elementi che abitualmente si sottraggono ai nostri sguardi in virtù della loro stessa diffusione. Le voci della polvere, l’anima della polvere, mi incuriosiscono mille volte più del fiore, dell’albero o del cavallo, giacché li sento più strani. La polvere è qualcosa di tanto diverso da noi” (Dubuffet 1971, p. 149). Dubuffet usa la polvere come materia compositiva, in una precisa ricerca sui materiali negletti e di scarto. La serie delle Materiologie (Texturology) porta a compimento una riflessione che tematizza la polvere come emblema di un’omogeneità “metafisica”, potremmo dire “antiplatonica”: Occorre immaginare che agli occhi di esseri diversi da noi l’universo materiale sia continuo e non presenti punti vuoti; quelli che chiamiamo oggetti rispondono solamente a una condensazione, in un dato punto, delle vibrazioni che, più o meno dense, brulicano ovunque altrove, solo meno dense nei luoghi in cui crediamo di vedere dei vuoti. L’universo è continuo e ovunque è fatto della stessa sostanza (Dubuffet 1971, pp. 37). Fig. 4 – Texturology LXIII, 1958, Jean Dubuffet (© ADAGP, Paris and DACS, London 2023). Per Grazioli, nella poetica di Dubuffet la polvere è l’emblema di un mondo senza l’uomo – titolo peraltro di una serie di suoi lavori –, liberato della sua “asfissiante cultura”, in cui “l’apparente monotonia, 185 l’apparente mancanza di vita, di figure, di segni, si scoprirà invece altrettanto se non più ricca della presunta ricchezza del mondo umano” (Grazioli, cit., p. 114)20. Per quello che riguarda il rapporto con la cenere, altro grande attore di processi e trasformazioni non direttamente inerenti all’umano, pare di poter dire che la polvere e la cenere si spartiscono i due grandi ambiti della “morte naturale” e della “morte violenta”. Se è nell’aria la polvere si apparenta al fumo e ai gas; ma dal fumo e dalla cenere si distingue proprio come resto di operazioni che non coinvolgono il fuoco. Se la polvere è una materia dinamica, incessantemente disponibile a un flebile movimento, una volta terminata la combustione la cenere è un resto inerte e più concentrato. La polvere si stacca e si accumula, si posa e si rialza, arriva su tutto e per tutti, ma con un ritmo flemmatico. La cenere al contrario è l’esito di un processo intenso e molto più rapido di depurazione brutale, al termine del quale potremmo dire che “giace”. La polvere è un residuo tanto orizzontale quanto verticale, mentre la cenere è una conseguenza, un cascame della fiamma, e quindi orientata dall’alto verso il basso. Come residuo, infine, la polvere è un insieme di frammenti che provengono da qualcos’altro, ormai assente, e così anche la cenere. Soltanto che se la figura tipica della cenere è un mucchio, un cumulo, una presenza insomma vivida in termini di quantità e densità, la polvere al contrario è più legata all’assenza, a ciò che non si vede. Artisti come Urs Fisher (Untitled hole 2007), Eduardo Basualdo (La caída 2021), Lee Bae (Promenade 2019), il già citato Daniel Arsham (Fictional Archeology 2015), Phoebe Cummings (Flora 2010) hanno lavorato con la cenere – o il carbone, suo parente stretto, sostanza intermedia tra il legno e la cenere. Sono opere che sottolineano questo aspetto più “violento” e definito della cenere rispetto alla polvere (ricordando anche la parentela tra carbone e grafite, che riattiva il circuito tra materia e materiale da disegno)21. Non sorprende, d’altra parte, che l’aspetto di residuo effimero e ‘neutrale” della polvere ordinaria possa aver avuto ammiratori anche in epoche più lontane. Grazioli vi annovera per esempio lo scrittore decadente J. K. Huysmans, poeta di un inno alla “buccia dell’abbandono”: “La polvere è una gran bella cosa. Oltre ad avere un gusto di vecchissimo biscotto e un odore avvizzito di antichissimo libro, è il velluto fluido delle cose, la pioggia fine e asciutta che rende anemici i colori troppo forti e i toni violenti. È la buccia dell’abbandono, il velo dell’oblio22. Ma non è meno interessante una lettura del ruolo della polvere nelle opere di Jean Baptiste-Siméon Chardin, maestro settecentesco della natura morta, in cui Grazioli (cit., pp. 35-36) intravede una poetica della pace domestica, del piccolo e dell’inutile. Qui la polvere è una “materia del silenzio”, circonda gli oggetti producendo un’atmosfera molto particolare, si fa, per Grazioli, addirittura segno di un “rallentamento della pittura”, come se questo residuo “causasse attrito sulla tela per la stesura del colore, o per lo sguardo che indugia” (ibidem). 20 Sono suggestive e molto chiare le parti in cui Dubuffet si lamenta del ruolo dell’essere nel pensiero occidentale: tra le nozioni il cui fondamento si trova più gravemente compromesso nel nostro gioco vi è quella di essere […] cosa distingue un essere da un fatto? Che un uccello, un albero, un ciuffo d’erba, a rigore anche una nuvola – che pure sono oggetti di breve durata ed aspetto più o meno cangiante – siano degli esseri, nessuno, che io sappia potrà negarlo. […] Ma che dire dell’essere momentaneo e mobile – l’onda che per un attimo forma il mare al largo: è un essere? Il vortice che si produce in un punto del torrente, laddove l’acqua è meno profonda, è un essere? L’ombra del passante è un essere come lo è il passante stesso? (Dubuffet, cit., p. 161). 21 Ringraziamo Gianfranco Marrone per una nota critica, secondo cui la contrapposizione proposta tra polvere e cenere non funzionerebbe per esempio nel caso di una favola come quella di Cenerentola. Si possono tuttavia fare due considerazioni. 1) Quella della protagonista della fiaba è una caratterizzazione figurativa che rimanda di fatto a una vicinanza con il basso e l’insulso – tale per cui per la nostra proposta Cenerentola è un ‘attore della polvere’ piuttosto che un ‘attore della cenere’, e si potrebbe soprassedere sul nome del personaggio. 2) Ci sono senza dubbio discorsi – per esempio l’intero lavoro artistico di Anselm Kiefer – dove la contrapposizione tra polvere e cenere viene meno, perché entrambe le sostanze sono riunite come iponimi della sostanza che compone il suolo, cioè di una terra come iperonimo. 22 Così recita un passaggio di un romanzo di Huysmans, L’abisso (Là-bas, 1891, pp. 44-45), citato da Grazioli (cit., p. 53). 186 2.3. Un infiltrato Alle prime due serie classificatorie che abbiamo tentato di costituire, a cui poi dovremo dare un nome, ne segue una terza di genere ben diverso. Una presa in conto degli aspetti timici, che nel caso della polvere ordinaria, sono, oggi, in senso comune, nettamente negativi. Il saggio di Amato si occupa del modo in cui il “nuovo” mondo della microbiologia pasteuriana ha trasformato la polvere, associandola, molto presto, a qualcosa di contaminante e indesiderato. Agente chiave di questa trasformazione è stata senza dubbio “una teoria microbica che affermava che tutto, financo la polvere sulla capocchia di uno spillo, abbondava di microrganismi”, in modo tale da concepire “tutti i tessuti viventi come un permanente campo di battaglia tra microrganismi, dai parassiti ai batteri ai virus ai fagociti” (Amato, cit., p. 95). Lo stesso autore prosegue riflettendo tuttavia su come nuove minacce legate al piccolo e all’invisibile – la radioattività dopo Chernobyl, le piogge acide, oggi il particolato atmosferico –, la nascita di svariati fronti ecologisti in Occidente, e il progresso medico e scientifico, abbiano abbassato il livello di pericolosità della polvere ordinaria. Circa cento anni dopo la scoperta dei germi, la polvere si è trasformata in un elemento portatore di valori disforici in senso morale, più che medico-igienico. Grazioli discute il “più che perfetto” della morale borghese23 che si è fatta interprete di queste forme simboliche: la polvere è ostacolo al perfetto scorrimento delle cose, all’assoluto incastro degli elementi, al perfetto funzionamento della macchina. Nel frattempo le macchine che eliminano la polvere si sono moltiplicate e perfezionate, anche perché la polvere stessa si è complicata e modificata diventando sempre più invisibile e subdola. La storia della pulizia, del sapone, dello shampoo, del lucido da scarpe, delle macchine per l’igiene, fino al cibo in scatola, è strettamente intrecciata a quella della polvere (Grazioli, cit., p. 228). Né, per parte sua, l’arte ha mancato di riflettervi (Fig. 5). In questi due esempi, tra molti altri possibili, se Bazile lavora ripulendo angoli di percorsi espositivi, fino a farli brillare, Ross gioca a raccogliere in un cestino sui generis un campione “commovente e patetico” di una polvere legata “all’usura” e “all’incrostazione”. Una polvere che “ci mette davanti alla materialità in sé stessa in un senso quasi opposto a ciò che chiamiamo essenza, perché ci rendiamo conto che la pura materia, nelle sue ultime particelle, ci mostra la sua eterogeneità, la sua pullulazione, le stigmate dei drammi che ha attraversato”24 (Grazioli, cit., p. 246). Fig. 5 – (da sinistra) Brillance, 1981, Bernard Bazile, Fotografia a colori (© Bernard Bazile); The smallest type of architechture for the body containing the dust from my bedroom, my studio, my living room, my kitchen, and my bathroom, 1991, Michael Ross, ditale e polvere (© Musée d’art contemporain, Gand). 23 Ringraziamo Stefano Bartezzaghi per il rilievo sulla “polvere sotto il tappeto”, cioè sulla definizione metaforica di qualcosa di compromettente che “si insabbia” (cfr. anche Amato, cit., p. 28). 24 Note mutuate da Francois Dagognet, “Pourquoi une art de la poussière?” in Elkar, Latreille (1998, pp. 12-13). 187 In questo suo statuto disforico relativamente nuovo, non potremmo dire che la polvere sia repellente in senso percettivo. Se si parla di temperatura non è né calda né fredda, è neutra rispetto all’udito e al gusto, e ha un odore, sì, ma più che una vera identità olfattiva si tratta di un’aria di famiglia, un sentore vegetale-animale che spesso è già una forma di tatto: infatti la polvere solletica le narici in una congiunzione vellutata a cui spesso segue uno starnuto. In questa dimensione la polvere è la nemica dell’aria: contro la permanenza della polvere disforica, sporca, si appronta la circolazione dell’aria pulita. Rimandiamo per questo agli studi di Alain Corbin sull’aria viziata e sulla fine del XVIII secolo come momento storico in cui si elaborano norme di aereazione e disinfezione in modo congiunto: “il vascello, la prigione, la caserma, l’ospedale diventano laboratori di nuove gestualità di “sbattimento, spostamento, aereazione” che poi diverranno le norme igieniche della società igienista” (Corbin 1982, pp. 241-242). Come attore che informa, ora, un suo ruolo di Antisoggetto, la polvere è un avversario che si presenta sotto le vesti di un infiltrato. La polvere appare in silenzio, come ricordano alcuni versi di una poesia di Lucetta Frisa: “Sempre ho immaginato la polvere scendere di notte/sopra il naso dei mobili su tutta la pelle della casa/scendere al buio così non si può mandarla indietro./Forse spolverare è un atto duplice come quando si nasce/e si comincia subito a svegliarsi o a dormire/secondo i punti di vista” (1999, pp. 24-25). La polvere si avvantaggia della nostra mancanza di attenzione; la sua “sconfitta” corrisponde spesso al momento stesso in cui la si identifica. La polvere è un attentatore imperituro, come la natura attenta alle case e alla civiltà nella vita di campagna, a cui non a caso corrisponde spesso un sistema di valori che considera sporche le piante che lasciano cadere aghi e semi sul patio di casa, e che muove senza sosta in difesa dello spazio vitale disciplinato dal lavoro degli umani. Ce lo ricorda una celebre riflessione di George Bataille, che tematizza una vittoria finale a venire, della polvere, su tutte le fatue contromisure messe in atto. I novellieri non hanno immaginato che la bella addormentata nel bosco si sarebbe svegliata coperta da una spessa coltre di polvere; non hanno neanche immaginato le sinistre tele di ragno che al primo movimento i suoi capelli rossi avrebbero spezzato. Tuttavia tristi strati di polvere invadono senza fine le abitazioni terrestri e le sporcano uniformemente: come se si trattasse di disporre le soffitte e le vecchie camere per l’entrata delle ossessioni, dei fantasmi, delle larve che l’odore tarlato della vecchia polvere sostanzia e inebria. […] Un giorno o l’altro la polvere, che non cede, comincerà probabilmente ad avere buon gioco sulle serve, invadendo con masse enormi di calcinacci gli edifici abbandonati, i magazzini deserti: in quella lontana epoca, non ci sarà più niente che salvi dai terrori notturni, in mancanza dei quali noi siamo diventati dei così perfetti contabili (Bataille 1970, p. 185). Lavorando sui rifiuti urbani, che sono a loro volta legati a un tratto disforico chiaro e noto a tutti, abbiamo parlato di valori negativi, di qualcosa con cui ci troviamo congiunti e da cui ci si vuole disgiungere (Bassano 2023, pp. 116-122). Per la polvere vale qualcosa di simile, se non fosse che la polvere non viene esplicitamente, solo, da noi, e si ingaggia con essa una lotta che in senso retorico è piuttosto quella di mantenimento dello stato di non-congiunzione. È quindi uno sporco combattibile ed invadente, che si apparenta, nel sistema dello sporco urbano, con le macchie sui vestiti, i peli dei cani, le briciole degli alimenti, il fango che si può portare in casa con le scarpe, la forfora sulle giacche – anche per il fatto banale che di tutti queste cose la polvere è composta – piuttosto che con i rifiuti solidi urbani. 2.4. Una patina, un destino Una quarta serie di considerazioni, quelle da cui di fatto siamo partiti, riguarda l’aspetto temporale e le trasformazioni attive e passive iscritte nelle sostanze. Quali sono le trasformazioni della polvere? Se anziché come punto finale di un processo, un residuo, ne osserviamo le possibilità operative, le azioni 188 che compie e può compiere, ci troviamo allora davanti ad accumuli, inspessimenti, stratificazioni, che nel tempo trasformano la polvere in sporco. In un senso aspettuale potremmo dire cioè che la polvere è logicamente una prefigurazione, un’anticipazione lenta e durativa dello sporco. Inoltre la polvere conosce anche delle trasformazioni interne, morfologiche: può infatti strutturarsi in ammassi lanuginosi e un po’ più pesanti, quelli che chiamiamo “gatti” di polvere. In senso esterno, e nella lunga durata, la polvere conferma l’analisi di Jacques Fontanille (2001, 2004) sul rapporto tra superfici e corpi delle cose: la polvere nasce come patina , cioè si posa e si fa pelle degli oggetti, ma nel tempo e con l’accumulo si trasforma in corpo essa stessa, si con-fonde, in un altro corpo di qualsiasi tipo, in una densità compatta e aggregante, disponibile a essere rivestita esteriormente da altre patine. Attraverso questo passaggio inesorabile è un’istanza che ha a che fare con il destino e parla della stessa circolarità dei processi di strutturazione e disintegrazione del precetto biblico – polvere eri e polvere tornerai. Fig. 6 – Élevage de poussière, Man Ray, 1920 (© Centre Pompidou, Paris). La sua particolarità si vede bene se la paragoniamo ad altre patine, la ruggine e tutti i derivati dei processi di ossidazione, il grasso cutaneo, il cerume, la muffa, il muschio. La ruggine e i processi di ossidazione sono trasformazioni minerali, mentre le patine della pelle, il muschio e la muffa hanno a che fare con corpi vegetali e animali, e negli ultimi due casi, muffa e muschio, sono secrezioni vive, che generano altri esseri viventi. La polvere è curiosamente trasversale ai due casi, perché raccoglie elementi inerti ma è anche un ambiente vitale, come detto, per una classe di viventi. Mentre per tutte le altre patine le sostanze in oggetto emergono dall’interno della materia o si stratificano a partire dalla stessa superficie dove si sono sempre trovate (così le spore della muffa e dei muschi), sono cioè isotrope, la polvere è allotropa, o meglio allotopica, non appartiene a nessun corpo in particolare, né per contiguità spaziale né per sviluppo organico. Ma li tocca tutti, nessuno escluso e nessuno più specificamente. La polvere è una “massa” insieme ubiqua e quasi amorfa, lenta e implacabile. Tutto il saggio di Grazioli declina, di fatto, questo ultimo aspetto. Un illustre “esponente radicale” di una lettura filosofica della polvere come destino 25 è Goethe, che nel Faust arriva a descrivere “uno scrittore fatto di polvere”, condannato, cioè, a un’infelicità data dalla propria natura infima e limitata, e dall’essere “schiacciato da un accumulo di accumuli”, cioè i libri, l’erudizione, sui quali – mise en abyme – a sua volta si accumula la polvere. In secondo luogo è messo in gioco un profondo legame 25 Grazioli articola ancora oltre i collegamenti tra polvere e Romanticismo, discutendo separatamente il successo di un’estetica del pittoresco in cui il decadimento e le cose misere hanno un grande valore (cit., pp. 41-43). 189 tra fotografia e polvere. Come l’attimo, l’istante che la fotografia coglie, passa per sempre e già dopo la sua fissazione in immagine non esiste più, altrettanto gli oggetti, “i luoghi, le opere della natura e dell’uomo, che cambiano, si consumano, sono minacciati di sparire per sempre, trovano nell’immagine fotografica l’ultima risorsa figurativa per essere registrati e tramandati al futuro. Tutto, si potrebbe in fondo dire, è in questo senso polvere per la fotografia” (Grazioli, cit., p. 44). Ancora, e più specificamente, nell’esempio clou della Figura 6, nella foto cioè che Man Ray scattò al Grande vetro di Marcel Duchamp, la polvere è un grande traduttore, simbolo del ready made, in quanto aperta a tutte le forme , e nello stesso tempo capace di conservare l’impronta di ciò che, metaforicamente, è stato, senza perdere niente. Come un “immenso deposito o un’immensa matrice virtuale di ricostruzione” (Barone 1999, p. 296). Tutto, della realtà, anche la polvere, attraverso la fotografia può diventare ready made (Grazioli, cit., p. 70). Infine, vale la pena menzionare un ultimo caso, il lavoro di un artista francese, Robert Filliou, che “chiude” per certi aspetti un cerchio legato al destino. Attraverso il gesto di Robert Filliou, infatti, la polvere dialoga nel modo forse più didascalico con il senso stesso dell’operazione artistica, con il gesto dirompente, innovativo, che poi sarà superato, neutralizzato, dimenticato (Fig. 7). Fig. 7 – Poussière de la poussière, (multiplo di opera in serie), Robert Filliou, 1977 (© Robert Filliou). Filliou infatti gioca con il gesto di Duchamp – spolverando lui e molti altri illustri artisti ospitati dalle collezioni del Louvre e del MOMA – e riponendo poi il panno con la polvere in una scatola di cartone. La dicitura comune a tutta la serie, oltre a una foto dell’artista nell’atto di pulire la tela, è questa iscrizione: “The Eternal Network presents: Robert Filliou, Poussière de la poussière, de l’effet” seguita dal nome dell’autore e dal titolo dell’opera spolverata scritti a mano. In questo gioco, che Grazioli definisce secondo l’idea dell’“antimuseo”, chiaramente la polvere è simbolo della fine, della decomposizione e della morte. La polvere si posa sugli oggetti che non attirano più la curiosità, che restano abbandonati dall’utilizzo, dal disinteressamento. Di polvere si copre il passato che non stimola più, che è chiuso in un contenitore, in un archivio, in un’istituzione che lo conserva senza vivificarlo. La polvere abbonda nelle biblioteche, nelle pinacoteche, nei musei di ogni tipo, sulla cultura pedante, sulla sterile erudizione, sul capolavoro dimenticato (Grazioli, cit., p. 156). 190 3. Trasformazioni sostanziali e temporalità Nelle sue specificità – non ne abbiamo menzionate che alcune – la polvere ordinaria è una sostanza tra altre sostanze. In merito ad esse, in primo luogo, si è tentato di mettere a fuoco il fatto che assistiamo a trasformazioni e a processi che si svolgono nel tempo, che si tratti di ruggine, sangue, diossine, ghiaccio, mercurio, o, appunto, polvere. Non soltanto cioè la polvere riguarda il passato e il futuro, si addensa e stratifica, ma è stato possibile parlare anche di un’“entità” che ci tocca con un suo modo pruriginoso, che avanza, che appare, che viene rimossa, che si sposta, si alza e si posa, è spostata e attratta. Più in generale, è parso plausibile articolare, in senso provvisorio, quattro dimensioni per l’indagine semiotica del senso delle sostanze. Qui per la polvere: 1. uno statuto differenziale in senso figurativo: la polvere come tritume; 2. uno statuto differenziale in senso figurale: la polvere come residuo; 3. uno statuto timico-passionale: la polvere quale “infiltrato”; 4. uno statuto aspettuale: la polvere come una patina e un destino. Il che richiede senza dubbio qualche chiarimento. La prima serie di considerazioni sulla polvere come tritume, che chiamiamo in modo provvisorio “figurativa”, cerca di dialogare con lo schema di Floch (1995) rispetto alla tassia . Come noto, Floch aveva derivato l’idea di prevedere una categoria analitica denominata tassica dal “metodo” del Greimas “lessicografo”. Infatti, in Del senso II, Greimas aveva riflettuto sulla descrizione del termine “automobile” considerando l’oggetto lessema come “insieme di virtualità” organizzate internamente. Per il semiologo lituano queste virtualità non erano altro che “valori” a cui l’oggetto offriva uno “spazio in cui fissarsi e riunirsi” (Greimas 1983, pp. 19-20). In quanto valori, infine, avevano giocoforza uno statuto posizionale e differenziale. In questo senso, la componente tassica della definizione del termine “automobile” definiva un’assiomatica delle differenze e delle relazioni, perché permetteva di tracciare catene, o famiglie di oggetti: “una componente tassica deve rendere conto, attraverso i tratti differenziali, dello statuto di automobile come oggetto fra altri oggetti costruiti dall’uomo” (ibidem ). Lo sviluppo di questa idea da parte di Floch consiste nel collocare l’Opinel tra gli utensili e le armi a mano, e via via definirne i rapporti con sciabole e pugnali, con le lame di altri strumenti da taglio, con tipi diversi di gestualità percussive, con altri coltelli pieghevoli. Floch ha la premura di ammettere che la trattazione non è esaustiva, e che anche solo limitandosi alla famiglia dei coltellini a molla, l’impresa di ritracciare i loro tratti differenziali in senso tassico richiederebbe “un’intera opera”. Da un punto di vista filosofico, si tratta con tutta evidenza di un eufemismo: è la natura categoriale dei concetti stessi, infatti, a prevedere una catena di connessioni enciclopediche infinitamente percorribile, come Umberto Eco ha saputo insegnare. Tuttavia, la “messa in moto” delle relazioni tassiche appare un passo imprescindibile anche nel caso delle sostanze: la serie che abbiamo tratteggiato rispetto al “tritume” si rivolge appunto a percorsi di flessione enciclopedica di una certa “entità” culturalmente determinata, qui la polvere. Se anziché di polvere, avessimo cercato di trattare di legno, per esempio, allora si sarebbe trattato di riarticolare le varianti degli usi della sostanza “legno” attraverso una ricerca su Google, il mercato antiquario, una visita da Bricoman , le fiabe, la fisica dei materiali etc. Va notato che quest’approccio permetterebbe di considerare insieme le navi omeriche e Pinocchio, per il legno, o la chirurgia plastica e i polimeri complessi, se tentassimo, con un altro esempio, la stessa via rispetto alla plastica (cfr. la nota numero 4, supra, p. 1). Come abbiamo cercato di mostrare, vari tipi di polveri, cioè di tritumi, si legano alla polvere in un’articolazione di unità sociali apparentate, portatrici di valori strutturanti secondo i tratti semantici del culturale vs naturale, marcato vs non marcato, omogeneo vs eterogeneo, eccetera. La seconda dimensione, quella chiamata “figurale” è anche quella su cui persistono più dubbi. Rispetto al modello di Floch potremmo indicare una corrispondenza in termini di componente funzionale mitica. 191 L’Opinel, concludeva Floch nella sua analisi, è uno strumento identitario, il coltello del bricoleur, nel senso che il suo proprietario lo usa per “esprimersi e realizzarsi”. Nel progetto che non realizzerà mai come l’aveva pensato, il suo utilizzatore non può che mettere qualcosa di sé stesso. In modo parallelo […] questo semplice “coltello pieghevole” di faggio e di acciaio dimostrerà anche il sapere e la cultura del suo utilizzatore: occorre più savoir fare per servirsi di un utensile semplice che il contrario, come sottolinea Lévi Strauss (Floch, cit., p. 222). Sono righe e pagine celebri, che mostrano il modo in cui uno sguardo semiotico può pensare con grande profondità insieme, in accordo con un’antropologia delle tecniche, innestandovi nel contempo una riflessione fenomenologica. Tuttavia, quando ci si allontana dal caso di Opinel e si analizzano oggetti di altro tipo, l’idea di funzione mitica è talvolta problematica. Da una parte soffre una certa semplicità, che si constata per esempio nel caso di artefatti ipercomplessi. Quando si è davanti all’automobile da cui partiva Greimas 26, come gerarchizzare la sua importanza come status symbol, la capacità di un’auto di valere come un luogo che protegge dalle intemperie negli spostamenti – fino a renderla un quasi-spazio, più che un artefatto – e ancora le “connotazioni mitiche” legate all’automazione, alla velocità, o al contrario all’abitabilità che suggerisce il sostantivo abitacolo? Dall’altra parte l’idea di funzione mitica è improduttiva se si giunge alle questioni che interessano le sostanze, dato che esse, considerate come nodi di relazioni e come insiemi processuali e temporali, non possono avere alcuna funzione in assoluto, né pratica né mitica. Per questo motivo, abbiamo preferito, almeno provvisoriamente, il riferimento a una dimensione “figurale”. L’abbiamo fatto nel solco di alcune considerazioni di Michel Pastoreau sul legno, contenute in Medioevo simbolico . Qui lo storico ricorda che nell’immaginario europeo tra i secoli XI e XIV il legno era la “materia prima”, spesso in testa alle enumerazioni dei materiali lavorati dall’uomo. In latino medievale come nel latino classico il termine materia indicava il legno da costruzione, opposto a lignum, il legno da riscaldamento. Così, per estensione, “materia” è divenuto in seguito il nome di qualsiasi materiale, incluso l’iperonimo della “materia in sé”. Da questa linea di discendenza provengono tanto “materiale” quanto “materialismo”. Ma l’elemento più interessante dello studio di Pastoreau è la tesi secondo cui l’immaginario del Medioevo avrebbe pensato il legno come “quasi vivo”, come simile a un animale. Il legno “muore, soffre malattie e difetti, cambia aspetto a seconda della pezzatura”. Nelle superstizioni medievali che mettevano in scena statue che parlavano, si spostavano, sanguinavano e versavano lacrime, occorrevano sempre statue in legno, mai in pietra. Alcuni autori sottolineano il carattere antropomorfo non soltanto dell’albero ma anche del legno, materiale che come l’uomo possiede vene ed umori, che si anima per l’ascesa della linfa, contiene una gran quantità d’acqua, vive in stretta relazione con il clima, i luoghi, il ritmo del tempo. Il legno prevale sulla pietra, anch’essa associata al sacro, ma inerte, rozza, e immutabile.[…]. Poi si oppone in maniera più violenta al metallo, concepito quest’ultimo sempre con tratti infernali. Il metallo è strappato alle viscere della terra e poi trattato al fuoco (il grande nemico del legno). Prodotto dalle tenebre del mondo sotterraneo, il metallo è il risultato di un’operazione di trasformazione che ha qualcosa a che vedere con la magia (Pastoreau 2004, p. 74, corsivo nostro). Con una scelta lessicale un po’ azzardata, nella citazione Pastoreau definisce la “vita” del legno come un suo carattere “antropomorfo”. Non è chiaramente questo l’elemento semiotico in gioco, ma piuttosto un essere animato del legno, la proprietà di riuscire a esprimere una serie di trasformazioni interne, timicamente definite. Sembra di poter dire anche che una simile animatezza è ancora oggi un tratto identitario del legno: si parla del legno di un pavimento a parquet come “materiale caldo”, si 26 Fermo restando il salto “radicale” costituito dall’analisi di Floch, dal momento che Greimas si occupava dell’automobile lessema, non dell’artefatto veicolo. 192 apprezza il cambiamento nel tempo di un tagliere o di una ciotola in ciliegio, e un armadio di pino cembro, o cirmolo, può emanare ancora un profumo intenso a trecento anni dalla sua fabbricazione. Pare abbastanza plausibile, cioè, sostenere che nel legno vi sia una sorta di carattere iperonimo che lo colloca tra i materiali vivi, e al quale carattere qui ci riferiamo, appunto, con il termine “figurale”. Questo tipo di determinazione sintetica del “modo di essere” è più astratta di una vera e propria figura, ma nondimeno generalizzabile al legno come sostanza. In tal senso, se prendessimo per esempio la plastica analizzata da Barthes e la accostassimo ai modi assai icastici con cui significa nelle Combustioni di Alberto Burri, potremmo rintracciare questa “sintesi figurale” nel suo essere un materiale multiforme. Analogamente, potremmo procedere per sostanze come le diossine – a cui è ascrivibile, crediamo, una generale per quanto astratta velenosità – ed è proprio in questa direzione che abbiamo provato ad articolare lo statuto “figurale” della polvere ordinaria tra le sostanze residuali. Sulla terza dimensione, che abbiamo legato a uno statuto “timico-passionale”, l’inquadramento sembra finalmente meno spinoso. Le sostanze, gli elementi hanno infatti i loro tracciati timici di significazione, più o meno ampi e variabili, più o meno complessi o semplici. L’idea di poter ricostruire una serie di valorizzazioni timiche, rispetto alle sostanze, ci ha permesso per esempio in questa sede di iniziare a esplorare tutto il tema delle valorizzazioni negative, cioè della repulsione timica che accompagna spesso stati o trasformazioni in cui si realizza una devalorizzazione cognitiva. La lotta contro la polvere come sottospecie dello sporco è solo un esempio tra molti tipi di “relazioni disgustose” che intratteniamo quotidianamente e da un punto di vista teoretico avvicinarsi a questi problemi è forse di particolare urgenza. A nostro parere, infatti, nello sviluppo del metalinguaggio l’intera sfera della valorizzazione negativa risulta un luogo teorico adombrato, per ragioni ideologiche e storiche, in favore di una concezione dei valori come positivi. Permane tuttavia un’incertezza sulla distinzione tra statuto “timico-passionale” e statuto “aspettuale”, cioè sulla pertinenza di mantenere separate le ultime due dimensioni di cui si è discusso rispetto alla polvere. Abbiamo trattato in modo autonomo lo statuto di una sostanza che viene percepita come “infiltrato” – appunto definendola secondo una dimensione timico-passionale, e quello di una sostanza “patina”, che intrattiene un rapporto cruciale con il passare del tempo e la terminatività. In effetti, come già detto, siamo partiti proprio dall’ultima dimensione, ovvero dall’urgenza di collocare la polvere ordinaria rispetto al tempo, e definirla in senso trasformativo e processuale. A questo scopo, sembra di poter dire che l’idea dell’aspetto come strato della significazione che dipende da un attante osservatore – nozione ricavata da Greimas dai tempi verbali – resti la più efficace. Tuttavia, nelle pagine precedenti è emerso in modo chiaro come questo statuto di patina della polvere ordinaria non sia il solo che coinvolge trasformazioni. Anche descrivendo lo statuto timico-passionale abbiamo avuto a che fare con trasformazioni narrative a tutti gli effetti: congiunzioni contaminanti, disgiunzioni purificanti. Tanto che per la polvere si potrebbe parlare di due condizioni incoative e terminative, cioè del suo “più o meno gradito” e “più o meno concesso” apparire, e del suo destino inesorabile di progressivo inspessimento e accumulazione. Si potrebbe cioè forse mantenere l’ipotesi di una dimensione aspettuale da sviluppare meglio in futuro, considerando invece l’aspetto timico come trasversale a tutti e tre gli altri statuti discussi – secondo l’idea che in senso fenomenologico un orientamento forico nutra in nuce qualsiasi processo di valorizzazione. Infine, vorremmo comunque sottolineare la rilevanza di poter pensare, con Semprini, il legame stringente non solo tra sostanze e tempo, ma anche tra artefatti e tempo, e tra materiali e tempo. Come visto, in alcuni casi uno “statuto aspettuale” può essere quello deputato a far emergere aspetti dirimenti della significazione di una sostanza, cosa che avviene se si analizza un esplosivo, la neve, o appunto la polvere. Ma una volta discusse simili questioni di temporalità in merito alle sostanze – sostanze “liberate” dalla funzione strumentale – questo approccio analitico può essere esteso a materiali e artefatti. Si tratta di costituire rispetto ad essi un modello – sicuramente migliorabile, senza dubbio provvisorio – di possibili “punti di fuga”. Insomma, dire che il senso delle cose è determinato 193 in modo dirimente da una dimensione aspettuale significa tenere insieme problemi di patina, di ciclo di vita degli artefatti, dinamizzare finalmente una presa analitica che scavalchi l’idea di una “sorta di istantanea” non solo dello stato di una sostanza ma anche dell’uso di un artefatto, superando nel contempo l’idea di funzione come descrizione dei qualia in senso aristotelico. 194 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Amato, J., 1999, Dust, Berkeley, University of California Press; trad. it. Polvere, Milano, Garzanti 2001. Barone, P., 1999, Età della polvere, Venezia, Marsilio. Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi 1974. Bassano, G., 2023, Verso. 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Porte, ripostigli, soffitte e scantinati. L’architettura e la partizione del sensibile Ramon Rispoli Abstract. This article delves into the concept of dirt, its management, and its relationship with architectural spaces. Drawing from anthropologist Mary Douglas’s perspective, dirt is viewed as something inherently “out of place”, intrinsically connected to the idea of order and its disruption. Accordingly, cleaning is considered a domestic ritual of purification, serving the purpose of constantly reestablishing an order that remains under threat. The study also explores how architecture operates as a “technology of partitioning”, delineating the boundaries between what is visible and invisible, exposed and concealed. It investigates the significance of architectural elements, such as doors, in shaping the politics of spaces and their organization. Furthermore, the article examines the association between the notion of dirt and time, shedding light on the role of maintenance practices that often remain inconspicuous, both within the realm of architecture and art. “Spazzare via la polvere dal pavimento di una stanza, spargerla in un’altra stanza, così non sarà notata. Continuare ogni giorno” (Kaprow, cit. in Obrist 1997, p. 87). Queste sono le istruzioni comunicate nel 1995 dal celebre artista nordamericano Allan Kaprow al curatore Hans Ulrich Obrist per mettere in atto la sua performance, nell’ambito del progetto espositivo itinerante Do it curato proprio da Obrist. Kaprow sosteneva che in fondo pulire non significa nient’altro che spostare ciò che si considera sporcizia da uno spazio a un altro, sottraendolo alla vista (Fig. 1); e l’“altra stanza” a cui faceva riferimento è qualsiasi spazio su cui possa chiudersi una porta: uno sgabuzzino, un ripostiglio, o semplicemente il mobile della cucina in cui è collocato il contenitore dell’immondizia. Fig. 1 – Street Cleaner, Banksy. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Come affermava l’antropologa inglese Mary Douglas, infatti, la sporcizia è prima di tutto qualcosa di fuori posto, il che implica sia l’esistenza di un ordine specifico sia la sua contravvenzione. Quindi, ad esempio, le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove normalmente ci sono gli abiti, e così via. In breve, il comportamento che noi seguiamo riguardo alla contaminazione si fonda su una reazione negativa verso ogni oggetto o idea che può confondere o contraddire le classificazioni a cui siamo legati (Douglas 1966, pp. 77-78). Un’idea condivisa anche dall’antropologa italiana Carla Pasquinelli, secondo cui lo spazio domestico è il “luogo della permanenza e dell’ordine che ci sforziamo di mantenere il più possibile uguale a sé stesso per proteggerci da un esterno demoniacamente ostile” (Pasquinelli 2004, p. 11). Visto da questa prospettiva, il pulire è quindi “una sorta di rito domestico di purificazione che riscatta dalla contaminazione, dovuta a una presenza indesiderata o troppo ravvicinata, comunque sentita come invasiva” (ivi, p. 47), e che permette la ricostruzione incessante di quell’ordine domestico – una sorta di kósmos personale – che è oggetto di continue violazioni dall’esterno. Pulire è quindi un’attività topologica, che riporta fuori ciò che è entrato dentro e non merita di starci: “l’ordinare e il classificare hanno una dimensione spaziale: questo va qui, quello va lì. Tutto ciò che non è spazzatura appartiene alla casa; la spazzatura va fuori. Le categorie marginali vengono riposte in luoghi marginali (soffitte, scantinati, fabbricati annessi) per essere usate, vendute o semplicemente date via” (Strasser 1999, p. 6). Lo storico e teorico dei media Bernhard Siegert sottolinea come la distinzione tra dentro e fuori sia sempre stata “legata a modi di operare la distinzione tra zone sacre e profane, e questa potrebbe forse essere la prima di tutte le articolazioni culturali dello spazio” (Siegert 2015, p. 195). In tal senso le porte sono, a suo parere, proprio quegli elementi allo stesso tempo materiali e semiotici capaci di creare un dentro e un fuori. Ma più in generale, le porte – così come altri elementi architettonici, tra cui muri e solai – sono dispositivi capaci di articolare quella che il filosofo Jacques Rancière (2000) ha definito una “partizione del sensibile”: stabilire, cioè, il posto che le cose possono occupare, e la visibilità che ad esse può essere o meno accordata. Ciò che sembra essere solo una questione di estetica è quindi, allo stesso tempo, una questione di politica. Secondo Rancière, infatti, il potere e la politica hanno molto a che vedere con quest’attività di ripartizione, di “ordinamento” di spazi, tempi e modi di visibilità: tracciare – o viceversa, mettere in discussione – la linea di separazione tra chi e cosa merita di essere dentro o un certo spazio e chi e cosa viene lasciato fuori, chi e cosa merita di essere visto e chi e cosa deve invece rimanere invisibile, chi si può ascoltare e chi non ha voce. Ed evidentemente, la polvere e ciò che serve per rimuoverla – così come anche chi ha normalmente il compito di farlo – non occupano certo una posizione di riguardo nelle gerarchie del visibile, per le connotazioni di cui normalmente si caricano. In un contributo pubblicato recentemente su e-flux Architecture, il teorico dell’architettura Mark Wigley (2022) riflette su come un edificio sia metafora del corpo umano, nella misura in cui in entrambi – edificio e corpo – è costantemente all’opera un tentativo di occultamento dei meccanismi interni: un tentativo ossessivo ma mai del tutto efficace, per tutte le forze (o per tutti gli anti-programmi, per dirla con Bruno Latour) che si oppongono ad esso. Nel corpo ci si riferisce soprattutto all’apparato digerente con i suoi processi metabolici e le sue escrezioni, e qui il tentativo di occultamento è condotto attraverso un vasto arsenale di strumenti materiali e/o semiotici: strati di abbigliamento, cosmetici, salviette, assorbenti, lozioni, norme di 198 comportamento sociale. Bisogna nascondere tutto ciò che è in qualche modo connesso alla digestione, e nello specifico, all’apparato digerente: questo canale di “esterno” che ci attraversa il corpo, e che ci intreccia simbioticamente con ciò che ci circonda e che rende possibile la vita. E proprio come il corpo umano, secondo Wigley l’architettura è un complesso sistema digestivo che produce un senso dell’interno distaccato dall’esterno dissimulando tutte le pieghe, le liquidità interiori, i suoni, gli odori e i movimenti anche del più semplice degli edifici. I limiti esterni – apparentemente molto ben definiti – di una struttura, e tutte le sue divisioni interne tra stanze o piani, sono un effetto dell’occultamento della permeabilità e della continua trasgressione di quegli stessi limiti, proprio come il corpo umano culturalmente visibile non è che una maschera delle liquidità che lo rendono possibile. […] gran parte dell’abilità professionale degli architetti consiste nel reprimere l’universo della digestione facendo apparire gli edifici più semplici, fermi, solidi, asciutti, silenziosi e impermeabili di quanto non siano, nascondendo tutte le reti di tubazioni, valvole, sfiati, filtri, serbatoi, pompe e membrane con i loro continui flussi interni (Wigley 2022, trad. mia). “Non c’è niente da nascondere, solo tubi”, affermava la collaboratrice domestica Guadalupe Acedo, parlando di cosa ci fosse al di sotto di una botola del pavimento della “Maison à Bordeaux” di Rem Koolhaas, nel celebre documentario del 2008 Koolhaas Houselife (Fig. 2). Come se i tubi – le “interiora” dell’edificio – non fossero proprio ciò che bisognava nascondere. Fig. 2 – Locandina di Koolhaas Houselife, di Ila Bêka & Louise Lemoine, Francia 2008. Ma nelle riflessioni di Wigley c’è spazio anche per la polvere: Tutti i tessuti e le superfici tra il corpo e l’edificio, e quelli dell’edificio stesso, diventarono nel tempo minacce escrementizie che dovevano incessantemente essere purificate, sostituite o rimosse. La polvere, ad esempio, era vista come materia organica che doveva essere continuamente espulsa, insieme a tutte le modanature, i cornicioni e gli ornamenti che la attraggono. Qualsiasi complessità ornamentale era una minaccia per la salute, perché tratteneva le escrezioni umane e rendeva difficile la pulizia. Le superfici semplici e lisce, invece, non offrono 199 una casa agli escrementi; al contrario, rendono possibile la loro espulsione immediata. L’edificio sano espelle ciò che lo stesso essere umano espelle, come se i limiti del corpo si estendessero fino a coincidere con quelli della casa. O, per dirla al contrario, l’edificio sano non racchiude il corpo ma lo ‘restituisce’ all’esterno (Wigley 2022, trad. mia). Ad avere un ruolo cruciale nella genesi di questa concezione dello spazio interno fu la celebre infermiera inglese Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna, che nel 1859 dedicò alcuni passaggi cruciali del suo libro più famoso, Notes on Nursing, alla questione della salubrità delle case. Salubre per Nightingale era appunto uno spazio fatto di aria pura, drenaggio efficiente, pulizia e luce – quelli che saranno, qualche decennio più tardi, tra i principi cardine dell’architettura moderna – ma soprattutto uno spazio scevro di qualunque tipo di porosità, crepa, fessura, complessità e intricatezza: scevro, cioè, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo e misura trattenere residui prodotti dal corpo umano (Nightingale 1859). I corpi dovevano essere isolati dalle loro stesse escrezioni. Il paradosso quindi è che nella visione di Nightingale – e successivamente nella visione igienista moderna – l’interno più sano per l’essere umano era proprio quello meno influenzato dall’umano stesso. In ciò Pasquinelli ha visto addirittura una sorta di principio metastorico, valido al di là delle differenze geografiche e culturali: al di là dei tanti criteri usati per mettere in ordine la casa […] c’è comunque qualcosa che è comune a tutti a dispetto delle rispettive e spesso abissali differenze, quasi una regola universale, ed è il bisogno di cancellare le tracce del corpo. […] Il primo requisito di una casa ordinata è la sistematica esclusione di tutti quei determinati segnali visivi e olfattivi che costituiscono un ‘indebita estensione dell’organismo umano. […] il corpo quale soggetto di bisogni è quello che non riusciamo a tollerare, quel corpo che imbratta e sporca le nostre case, cui l’ordine cerca quotidianamente di porre riparo cancellandone le tracce (Pasquinelli 2004, pp. 37-38). Sia quale sia la sua origine, questa “ellissi” del corpo umano si è tradotta spesso, nella cultura architettonica tradizionale, in una rimozione di tutto ciò che allude all’ordinarietà – o all’infra-ordinarietà, per dirla con Georges Perec (1989) – del quotidiano. Nelle immagini delle architetture iconiche gli oggetti ordinari devono apparire il meno possibile: è celebre il caso di Peter Eisenman che chiese ai coniugi Frank di rimuovere la culla del loro neonato dalla House VI in occasione della visita di Philip Johnson (Till 2009); analogamente, nella serie televisiva britannica Sign of the Times prodotta nel 1991 dal fotografo Martin Parr un architetto si lamentava dei giocattoli, veri e propri “oggetti vaganti” che i bambini introducevano nello spazio da lui concepito interno mettendone a repentaglio l’ordine. Il domestico, come “lo spazio dove si concentrano abitudini, disordine, macchie […] è un affronto alla normatività degli ordinamenti architettonici. Così, nell’architettura canonica il domestico è deprivato di ogni vita; è incasellato, ordinato, messo dietro un vetro per essere ispezionato, contorto in giochi formali, tecnicizzato”; eppure il controllo è solo un’illusione, perché “le forze contingenti della quotidianità domestica sono troppo potenti per essere soppresse in quel modo” (Wigglesworth e Till 1998a, p. 9, trad. mia). Questa natura recalcitrante dell’ordinario è uno dei temi preferiti del collettivo di ricerca siciliano Living Sphere (2020), nei cui brevi divertissements audiovisivi alcune delle case più iconiche dell’architettura moderna si riempiono di panni stesi, pantofole e tavole imbandite (Fig. 3). 200 Fig. 3 – Fotogramma del video Finally at Home, Living Sphere, 2020 (© Living Sphere) Ma oltre a rimandare alla “pericolosa” insalubrità dell’organico la polvere è letta normalmente anche, e forse soprattutto, come segno di tempo: ciò che l’architettura, “arte dello spazio” per eccellenza, cerca disperatamente di cancellare o di occultare. Si pensi, a tale proposito, a ciò che scriveva nel 1977 il teorico dell’arte Rudolf Arnheim: L’architettura […] ha sempre agito come un simbolo tangibile di ciò che è dato, di ciò su cui si può fare affidamento, ma anche di ciò che deve essere considerato una condizione costante. […] L’edificio beneficia della dignità delle cose che trascendono il cambiamento”, motivo per cui “le pesanti mura di pietra dei templi, delle fortezze e dei palazzi sono sempre servite da adatta metafora del potere temporale e spirituale (Arnheim 1977, p. 166). Analogamente, Jacques Derrida ha sostenuto che è stata soprattutto la consistenza dell’architettura – cioè “la sua durata, la sua durezza, la sua sussistenza monumentale” – a fare di essa “l’ultima fortezza della metafisica” (1986, p. 69). Va da sé che, per essere “fortezze” di questo tipo, le architetture sono costrette a rimanere il più possibile stabili e immutabili: solo così saranno capaci di rappresentare ciò che è stabile e immutabile. In questa prospettiva persino la posizione degli oggetti all’interno dello spazio dovrebbe restare il più possibile fissa: l’antropologo Edward T. Hall (1966) sosteneva che le poltrone disegnate da Mies van der Rohe per i suoi interni fossero volutamente pesanti in modo da renderle difficili da spostare. Eppure, le architetture non sono mai immutabili né perfettamente stabili. Lo stesso maestro dell’architettura moderna Frank Lloyd Wright scrisse, nel 1931, che se è vero che “ogni casa è una sorta di imitazione eccessivamente complicata, goffa, pignola e meccanica del corpo umano”, è altrettanto vero che si tratta sempre di “un corpo in cattive condizioni, che soffre di indisposizione e che ha bisogno di continui ritocchi e cure mediche per mantenersi in vita” (Wright 1931, p. 65). Il già citato documentario Koolhaas Houselife è tutto incentrato su queste “cure mediche” che si dedicano a un edificio, cioè sul modo in cui si gestisce il suo rapporto con il tempo. Da un lato tutto ciò che è relativo alla manutenzione straordinaria: le vetrate si fessurano o si rompono con l’usura; l’acqua inizia a infiltrarsi in qualsiasi crepa o giunto indebolito; più in generale, tutti gli elementi strutturali o di arredo che invecchiano devono essere sostituiti, proprio perché non più compatibili con le necessità di un edificio che non può e non deve invecchiare. Oltre alle riparazioni e alle sostituzioni ci sono poi tutte le forme di manutenzione ordinaria, parimenti necessarie per l’esistenza di un edificio: attività di pulizia di routine come quelle svolte nel documentario 201 dalla collaboratrice domestica, o come quelle su cui si è concentrato l’artista canadese Jeff Wall nella sua fotografia Morning Cleaning del 1999, con un inserviente che pulisce con una spatola la parete vetrata all’interno del celeberrimo Padiglione di Barcellona di Mies van der Rohe. Sempre nel Padiglione di Barcellona, nel 2012, l’architetto-artista madrileno Andrés Jaque e il suo Office for Political Innovation hanno realizzato un’installazione – dal titolo Phantom. Mies as Rendered Society – che risulta interessantissima nell’economia di questa riflessione. L’obiettivo dichiarato di Jaque era infatti quello di rendere visibili oggetti e strumenti necessari all’esistenza del Padiglione, e che avevano proprio a che vedere con queste due dimensioni, ordinaria e straordinaria, della manutenzione: pezzi di ricambio come lastre di travertino e tende di velluto, ma anche spatole, aspirapolveri, detersivi, confezioni di sale per l’elettrolisi delle due vasche d’acqua. Un’operazione di “visibilizzazione” – di unblackboxing, avrebbe detto Latour (1999, p. 304) – che svela ciò che normalmente si fa di tutto per celare, relegandolo dietro la porta di uno sgabuzzino o nel sotterraneo del Padiglione, che non è caso è stato progettato e realizzato, nella ricostruzione dell’edificio del 1986, in modo tale da essere inaccessibile ai visitatori (Jaque 2019). Le pratiche di cura e manutenzione legate a questi strumenti sono indispensabili all’esistenza del Padiglione, come di qualsiasi altro edificio, al punto tale da poter essere considerate tra le sue condizioni materiali di possibilità1. Esattamente come succede alle grandi opere d’arte della tradizione occidentale come la Monna Lisa, la cui apparente atemporalità, come ha dimostrato in maniera molto efficace Fernando Domínguez Rubio (2016), è in realtà l’esito performativo di delicate operazioni di manutenzione che hanno luogo con una determinata frequenza. Eppure si tratta di operazioni e pratiche a cui molto raramente viene riconosciuta una visibilità, seppur minima, nell’ambito della storia, della teoria e della critica dell’arte, così come in quelle dell’architettura. Anzi, si potrebbe arrivare a dire che più un’opera – un quadro o una scultura, come un edificio – è considerata un monumento, e più devono rimanere invisibili. C’è di più. Pratiche del genere vengono a malapena riconosciute come lavoro nel vero senso della parola, come sostengono sin dagli anni Settanta pensatrici femministe come Silvia Federici, la cui riflessione si è incentrata a lungo sul ruolo essenziale, ma quasi del tutto trascurato, del cosiddetto lavoro riproduttivo e di cura nel ciclo produttivo capitalista (Federici 2014; Duffy 2007). Torniamo alla performance di Allan Kaprow di cui si è detto inizialmente. Nel 2013 un’altra artista nordamericana, Suzanne Lacy, in collaborazione con Meg Parnell, ha offerto un’ironica reinvenzione delle istruzioni di Kaprow attraverso le lenti dell’attivismo artistico. La performance, intitolata Cleaning Conditions (An Homage to Allan Kaprow), ha avuto luogo negli spazi dell’Art Gallery di Manchester, a partire dalla sala dei pittori Preraffaelliti. Lacy e Parnell hanno coinvolto squadre di addette e addetti alla pulizia – costituite da immigrate e rappresentanti di organizzazioni sindacali – che durante l’orario di apertura2 pulivano i pavimenti del museo, ma contemporaneamente vi spargevano un’altra tipologia di “spazzatura”: volantini e stampe delle loro organizzazioni attiviste e di rivendicazione politica. Dopo la performance aveva luogo un dibattito aperto tra attivisti, amministratori locali, studenti e pubblico incentrato proprio sulle “politiche della pulizia” e di chi se ne occupa, considerando che il lavoro nell’ambito dei servizi, così come in quello dell’assistenza e della cura, è ancora oggi affidato soprattutto a soggetti marginalizzati. Una marginalizzazione che va peraltro intesa in maniera 1 L’edificio è dotato di un piano di manutenzione che funge da vero e proprio ‘copione’ per tali attività, fornendo un ampio numero di indicazioni che vanno dalla periodicità della pulizia delle vetrate alla pressione dell’acqua indicata per lavare le lastre di travertino. Anche le fodere in pelle delle poltrone “Barcelona” vengono sostituite con una periodicità predefinita, che può anche essere più corta in corrispondenza dei periodi di maggiore affluenza di visitatori (che sono soliti sedersi su di esse per qualche minuto). Queste informazioni sono state fornite da Victor Sánchez, coordinatore del team di gestione e manutenzione del Padiglione, nel corso di un’intervista condotta dall’autore nel marzo 2023. 2 Nei tempi, quindi, in cui la loro presenza era normalmente considerata “fuori posto”, per dirla nuovamente con Rancière. 202 “intersezionale”, per dirla con il termine di Kimberle Crenshaw (1989, 1991): come il risultato, cioè, dell’incrociarsi di asimmetrie di classe, etnia e genere. Ma per finire, torniamo all’architettura e alla questione centrale della visibilità. In uno dei suoi scritti che hanno come oggetto il Padiglione di Barcellona, Andrés Jaque scrive: Amministrare la percezione collettiva, fare in modo che le cose siano invisibili, o renderle visibili, creare gerarchie o metterle in discussione […]: tutte queste attività appartengono all’ambito della politica. Queste pratiche si producono attraverso l’impiego di artefatti, sistemi tecnici e dispositivi che fanno parte, a loro volta, dell’ambito dell’architettura (Jaque 2019, p. 85). Le cose occupano sempre un qualche spazio. Timothy Morton (2017), filosofo del pensiero ecologico contemporaneo, dice che le cose non si buttano mai via: si buttano al massimo sul fondo dell’oceano Pacifico, o sulla cima dell’Everest. Il che, in fin dei conti, un po’ equivale a ciò che diceva Kaprow: pulire non è nient’altro che cambiare posto a ciò che si considera sporco, magari chiudergli una porta davanti per renderlo invisibile. Sempre Jaque, alludendo a una celebre espressione di Latour, afferma “l’architettura è società tecnologicamente rappresentata” (2019, p. 26). E se è vero che oggi si stanno affermando approcci ecologici nel senso più ampio del termine, che riconoscono il ruolo giocato nello spazio architettonico da una molteplicità di “attanti” non solo umani – si pensi all’architettura cosmopolitica (Yaneva e Zaera-Polo 2017) o multispecie (Sommariva 2021) – è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi l’architettura stessa continua a essere concepita e praticata come tecnologia di partizione e ri-partizione di tempi e spazi3. È fondamentale, in tal senso, riconoscere le gerarchie di valore su cui si fondano queste topologie del dentro e del fuori, del visibile e dell’invisibile, dell’esposto e del celato. Topologie che – come si è cercato di mettere in luce – raccontano di questioni che vanno ben al di là della sola architettura. 3 Scrivono Sarah Wigglesworth e Jeremy Till, coppia di architetti britannici il cui studio coincide con la propria casa: “Ciò che sappiamo è che lavorare e vivere nello stesso edificio significa che le nostre due vite (lavoro e casa) non possono distinguersi chiaramente, ma sono inevitabilmente intrecciate”, eppure “la risposta comune di un architetto a ciò potrebbe essere: separare le due cose fisicamente; chiarire le zone; mantenere le due attività distinte; applicare ordine” (1998b, p. 31, trad. mia). Un ordine negato dal loro tavolo che allo stesso tempo è da lavoro, da pranzo, e da qualsiasi altra funzione, su cui si accumulano alternativamente piatti, planimetrie, chiavi di casa, bicchieri e posate, lettere e documenti. 203 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Arnheim, R., 1977, The Dynamics of Architectural Form, Berkeley, University of California Press; trad. it. La dinamica della forma architettonica, Milano-Udine, Mimesis 2019. Crenshaw, K., 1989, “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics”, in University of Chicago Legal Forum, Issue 1, Article 8, pp. 139-167. 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La dimensione nascosta, Milano, Bompiani 1982. Jaque, A., Office for Political Innovation, 2019, Mies y la gata Niebla. Ensayos sobre arquitectura y cosmopolítica, Barcelona, Puente editores; trad. it. Mies e la gatta Niebla. Saggi su architettura e cosmopolitica, a cura di B. Burgio e R. Rispoli, Leonforte, Siké Edizioni 2021. Latour, B., 1999, Pandora’s Hope: Essays on the Reality of Science Studies, Cambridge, Harvard University Press. Living Sphere, 2020, Introducing Living Sphere. An Open Manifesto on Different Ways of Thinking Architecture, Leonforte, Siké Edizioni. Morton, T., 2017. Humankind: Solidarity with Nonhuman People, London-New York, Verso Books. Nightingale, F., 1859, Notes on Nursing, London, Harrison. Obrist, H.U., a cura, 1997, Do it, New York, Independent Curators Incorporated. Pasquinelli, C., 2004, La vertigine dell’ordine: il rapporto tra sé e la casa, Milano, Dalai Editore. Perec, G., 1989, L’infra-ordinaire, Paris, Seuil; trad. it. 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Schiume, polveri, saponi: i materiali dell’igiene nell’immaginario pubblicitario Giorgia Costanzo Abstract. Through the observation of a corpus of cleaning products’ commercials – especially detergents –, the aim of the following paper is to examine if and how the material transformations inscribed in the removal of dirt contribute to the shaping of values such as purity and contamination. This work starts from the point of view of the anthropologist Mary Douglas’s idea of dirt as disorder but also from the assumption that common sense and every day practises allow Semiotics to explicit proliferations of meaning that circulate in our culture. In this sense, the research hypothesises that there are logics of cleanliness in the struggle against dirt staged by advertising, that are linked both to the materiality and consistency of dirt and to the forms of removal of impurities. La schiuma è una cosa pura come il latte purifica di dentro. La schiuma è una cosa sacra che pulisce la persona meschina, abbattuta, oppressa una cosa sacra come la santa messa. Giorgio Gaber, Shampoo Il lavoro che segue si inserisce all’interno di un più ampio percorso di ricerca sui valori della purezza e della contaminazione. Dal momento che, come vedremo, il pulito e lo sporco sono una delle possibili manifestazioni di tale categoria, in questa sede si analizzerà con metodologia sociosemiotica un corpus di spot pubblicitari1 di prodotti per il pulito – in particolar modo detersivi –, con l’obiettivo di vedere se e come le trasformazioni materiche inscritte nella rimozione dello sporco contribuiscano alla costruzione di diverse “idee” di pulizia e di sporcizia, intese come sostanze del contenuto messe in forma dai discorsi sociali che le convocano. In tal modo, ragionando sull’apparente banalità del vivere comune, irriflesso e impensato, per far emergere proliferazioni di senso tutt’altro che scontate ed evidenti (come le mitologie del quotidiano di Barthes 1957), la ricerca ipotizza che esistano, nella lotta allo sporco, forme di eliminazione delle impurità 1 Il corpus è stato costruito alla maniera semiotica: la sua definizione non è stata guidata da un criterio di esaustività né di rappresentatività statistica quanto dall’intenzione di ricostruire sistemi di senso, forme, logiche del pulito, maniere di costruzione dell’oggetto di valore, procedure narrative legate alle trasformazioni materiche etc. È per questa ragione che i casi in analisi sono talvolta trasversali alle varie categorie merceologiche dell’igiene. In tal senso, e trattandosi di un inizio di ricerca, il corpus non è stato definito a priori, ma la sua raccolta ha preso forma a mano a mano che l’analisi andava avanti, inglobando testi a partire dal cui confronto potessero emergere le dimensioni figurative di cui si parlerà in § 2 e nei quali, in particolare, la dimensione materica della visualizzazione e della trasformazione dello sporco risulta particolarmente pertinente. Accanto ai frammenti di clip riportati nel corso dell’analisi il lettore troverà i QR code che rimandano agli spot integrali. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). e logiche del pulito legate a specifiche forme di trasformazione della materia (Bastide 1987). È per questa ragione, per il carattere dinamico e culturale delle trasformazioni che tali logiche subiscono nel tempo, che l’analisi prenderà in considerazione un certo numero di testi pubblicitari in un’ottica sia sincronica (spot 2018-2022) che diacronica (spot 1950-90). 1. Sensi del pulito Cosa vuol dire esattamente “pulire”? A consultare il dizionario (Devoto-Oli 2023), pulire è un iperonimo che include tutta una serie di azioni volte alla rimozione dello sporco e, più in generale, di tutto ciò che è “inutile, ingombrante, fastidioso”. Da un lato, pulire ha dunque a che fare con la rimozione della sporcizia in cui emerge principalmente l’idea di un’azione operata sulla superficie di qualcosa (strofinare, lucidare etc.). Dall’altro, però, l’idea dello sporco da pulire è intesa estensivamente in riferimento a tutto ciò che sta fuori posto, è un non-dover-essere lì che in qualche modo può essere perfezionato (tra i significati di “pulire” infatti troviamo anche “perfezionare, limare, rifinire”). La definizione presuppone cioè l’esistenza di un modello, un ordine delle cose che, una volta infranto, vada in qualche modo ricomposto, ed è in quella anomalia intesa come rottura di uno schema che si dà la contaminazione: “dove c’è lo sporco c’è il sistema” (Douglas 1966, p. 77), è la presenza della macchia che interrompe la continuità del tessuto pulito, è la polvere del caffè sparsa per errore sul pavimento. È l’idea dello sporco come fuori posto di Mary Douglas e il suo fondamentale Purezza e pericolo (1966), in cui l’impurità è da ricercarsi non tanto nelle cose ma nelle relazioni fra le cose che per presupposizione costruiscono certe idee di mondo, con i propri confini e un proprio ordine che viene contaminato non appena questi confini vengono oltrepassati. Per Douglas, infatti, la sporcizia comprende al suo interno ogni elemento che un dato sistema di cose del mondo rifiuta di classificare al proprio interno, ossia una relazione anomala fra cose. In questo modo: Le scarpe non sono sporche in sé, ma è sporco appoggiarle sulla tavola, dove si mangia; il cibo non è sporco in sé, ma è sporco lasciare il vasellame di cucina nella stanza da letto, o i vestiti imbrattati di cibo; così pure è sporco lasciare nel salotto gli oggetti del bagno; i vestiti buttati sulle sedie; mettere in casa ciò che deve stare all’aperto, o di sotto quello che deve stare di sopra; la biancheria dove normalmente ci sono gli abiti, e così via (1966, p. 77). È evidente: il pulito, come lo sporco, posto in questi termini, ha a che fare con la posizione che diamo alle cose nel mondo, è una questione di ordine, di confini, e dunque di spazio. Non è solo un problema di relazioni fra cose, quanto di spazializzazione, di territorializzazione: lo sporco è il fuori posto, pulire è rimuovere lo sporco per rimettere le cose al loro posto. Questo emerge chiaramente dalla famosa citazione di Douglas, nella quale si parla di bagni, salotti, stanze da letto, tavole… lo sporco si definisce a partire da relazioni spaziali sopra/sotto, dentro/fuori; per cui la sporcizia manifesta di certo il sistema, ma occorre tuttavia precisare che si tratta di un sistema topologico. Non è un caso, infatti, che la pulizia sia innanzitutto un programma di rimozione dell’impurità, che presuppone il ritorno a un qualche stato di originaria purezza iniziale delle cose: d’altronde, il “pulito” è sempre privo di qualcosa, così come il “puro” si definisce sempre in termini privativi a partire da quello che non è o che non ha. La purezza, in questo senso, sembra doversi intendere come ciò che non si mischia a nient’altro, ma anche come ciò che non ha segno. Ma come si dà, allora, qualcosa come puro e qualcosa come impuro? Consumi e pratiche quotidiane articolano differentemente questi valori rendendoli concreti. Infatti, se da un lato le idee di purezza e contaminazione sono costitutivi di discorsi come quello religioso o medico-scientifico – nel quale i batteri, i microbi, i virus e in generale le regole che stanno alla base di ciò che è asettico o, al contrario, di ciò che è contaminato sono centrali nel funzionamento stesso di tale 206 discorso2–, dall’altro, tali valori si dispiegano anche nell’universo commerciale, in maniera certamente meno esplicita e dunque in qualche modo ancora più interessante. Parlare di igiene e di pulito fa venire in mente tutta una serie di pratiche della quotidianità – fare la lavatrice, lavare i piatti, spolverare, lucidare i vetri, pulire i pavimenti, ma anche farsi la doccia, lavarsi le mani, e via dicendo – e convoca anche numerosi ed eterogenei oggetti di consumo – detersivi, spugnette, saponi, igienizzanti, scope etc. – che non sembrano dirci molto più della loro stessa prosaicità. Eppure, le pratiche del pulito sono apparse oggi anche sul web e sui social network, dove numerosi utenti rendono il mondo delle pulizie una vera e propria forma di intrattenimento (video tutorial, makeover di case sepolte dalla sporcizia etc.). Pulire è oggi, più ancora che un basilare bisogno di igiene, un vero e proprio dovere sociale che ci parla del modo in cui, nella nostra cultura, vengono messi in forma valori più ampi e socialmente rilevanti come rischio/sicurezza, salute/malattia, natura/cultura e, di specifico interesse in questo lavoro, puro/impuro. Dal momento che queste idee, come abbiamo visto, non sono ontologiche ma sempre storicamente e culturalmente situate, da una prospettiva semiotica ciò significa che la purezza e l’impurità non sono tratti intriseci delle cose, né esistono come puri concetti, non essendo propri di per sé né del piano dell’espressione (E), né del piano del contenuto (C). Il senso del puro e dell’impuro si danno piuttosto a partire dalla relazione fra questi due piani e sono dunque da intendersi come effetti di senso (C) che si concretizzano a partire da una serie di tracce espressive differenziate (E) che, chiamando in gioco specifiche pertinenze, contribuiscono alla formazione di idee di volta in volta diverse di contaminazione a seconda dei tratti che le manifestano e della semiosfera all’interno della quale funzionano. Il pulito e lo sporco, da questo punto di vista, possono essere visti come elementi espressivi che articolano sul piano del contenuto certi significati di puro e impuro e tuttavia, possono essere intesi a loro volta come effetti di senso che si definiscono in maniera diversa a partire dalle specifiche categorie del piano dell’espressione che li producono: biancore/grigiore, lucentezza/opacità, macchia/non macchia etc. e in cui la dimensione materica diventa evidentemente pertinente per ragionare su questi temi. Ecco che, al contrario di ciò che si legge sul dizionario, per potersi manifestare, la purezza si lega necessariamente a tutta una serie di figure che le danno concretezza e in cui testure, consistenze, sostanze di vario genere e la loro reciproca interazione, da una prospettiva semiotica, sono da intendersi perciò come alcune delle possibili forme di figurativizzazione di quei valori. Vediamo come vengono messi in discorso dalla pubblicità 3. 2. Tre dimensioni figurative Anche dagli spot pubblicitari, in effetti, sembra emergere quella regola di classificazione di tipo posizionale di Douglas che costruisce la sporcizia come il grande contenitore di ciò che non sta al suo posto. Nella campagna pubblicitaria del 2018-19 di Ace, lo storico brand di prodotti per l’igiene dà forma e specifiche identità allo sporco in generale (Fig. 1): sono il vino, il cioccolato, le pappe, il trucco, i cani e il ragù della domenica. A ben vedere però non sono mai queste singole cose in sé a fare lo sporco. Per dirla con Douglas, “non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso prende vita nell’ottica dell’osservatore” (p. 32). Ecco che, fino a quando la pasta resta fumante dentro al piatto, ossia dove dovrebbe stare, va tutto bene; ma se il sugo viene rovesciato sulla tavola, il dolce animale 2 Un riferimento importante in tal senso è I microbi (1984), il lavoro attraverso cui Bruno Latour riflette sulla costruzione del discorso scientifico moderno a partire dall’analisi della letteratura prodotta intorno alle opere di Louis Pasteur nella Francia di fine Ottocento. 3 L’analisi che segue fa riferimento agli studi semiotici sul discorso di marca, tra gli altri cfr. Floch (1990, 1995); Marrone (2007); Traini (2008); Boero (2018); Mangano (2019). 207 domestico sale sul letto e la pappa del bimbo sparsa ovunque il sistema entra in crisi, l’equilibrio si rompe e nasce un problema da risolvere. Una situazione simile si può trovare nel recente spot di Dixan che mostra una scena di vita familiare in cui una mamma e i due figli si divertono a cucinare senza curarsi del disordine (Fig. 2). Dunque, tra impasti che schizzano sui vestiti lindi e chiazze di sudore post allenamento, compare il nemico numero uno del pulito, la figura che per eccellenza concretizza il tema dello sporco: la macchia, segno visivo di qualcosa che è andato fuori posto la cui presenza trasforma ciò su cui si è andata a posare. Così, il sugo non è più sugo, ma una macchia, e la maglia sporcata non è più un abito convenientemente opportuno. C’è una storia di regole infrante. Fig. 1 – Ace gentile, 2018. Fig. 2 – Dixan discs, 2022. Tuttavia, la macchia è solo una delle possibili figure dello sporco. Da un lato, il profumo, il biancore, la luminosità, la morbidezza, la freschezza, la materialità del detersivo – polvere, liquido, gel etc. – e dall’altro, il cattivo odore, la consistenza dello sporco – unto, incrostato etc. –, vengono a formare una grande varietà di figure che concretizzano il tema del pulito e dello sporco, articolando in maniera sempre diversa gli attanti delle storie: Oggetti di valore (il bianco più bianco), Soggetti (il detersivo), Anti-soggetti (la macchia, l’unto etc.). Partendo da un livello tematico e figurativo (Greimas 1984), punto di partenza dell’analisi, entrambi gli spot (Ace e Dixan) sembrano avere una struttura comune che costruisce il processo di pulitura proprio sulla base di precise dimensioni figurative che entrano in sintassi fra loro: una dimensione visiva, una dimensione materica e una dimensione olfattiva (Fig. 3). Dimensione visiva Dimensione materica Dimensione olfattiva Ace gentile, 2018. Fig. 3 – Dixan discs, 2022. 208 Ora, nel caso specifico degli spot osservati la compresenza delle tre dimensioni contribuisce a costruire un prodotto per l’igiene “completo” perché fa tutto: smacchia, igienizza e profuma. Tuttavia, non è sempre così e l’emergenza di tali dimensioni o la narcotizzazione di alcune di esse in favore di altre sono legate anche alle strategie di differenziazione che ciascun brand mette in atto per posizionarsi all’interno dell’arena concorrenziale4. Questo vale, ad esempio, quando si passa da una categoria merceologica a un’altra, poniamo da un ammorbidente a uno sgrassatore: alcuni tratti diventeranno più pertinenti di altri (la morbidezza e il profumo per uno, il potere sgrassante e smacchiante per l’altro). Ma vale talvolta anche per lo stesso tipo di detersivo, il cui racconto e valorizzazione può cambiare proprio in relazione al modo in cui la sua azione viene figurativizzata. Da un punto di vista semiotico, la conseguenza è quella di produrre diverse idee di sporco e pulito che si presuppongono a vicenda e che sono legate di volta in volta ai diversi tratti espressivi a cui vengono associate. Guardiamo nello specifico le tre dimensioni: 1. Nella dimensione visiva rientrano tutti i prodotti che, ad esempio, parlano del bianco. Tutt’altro che grado zero del colore, nel tempo il bianco si è fatto portatore di significati differenti. Nella nostra cultura, la relazione tra il bianco e la purezza ha una lunga storia (Pastoureau 2022): dalle vesti religiose di greci e romani, passando per il Medioevo fino al diciottesimo secolo quando è finito per significare l’universo dell’igiene, con la scoperta della candeggina che permise candidi corredi e la porcellana bianca per i sanitari delle toilette. In tal senso, come nota Agnello nella sua disamina semiotica dei colori, “la purezza viene dalla presenza di una sola tinta nelle cose e il bianco serve a unificare, a creare continuità visiva” (2013, p. 32), quella continuità interrotta dallo sporco. Il biancore di camicie e lenzuola ottenuto grazie alle proprietà sbiancanti del detersivo diventa così il segno del pulito, la figura attraverso la quale esso si manifesta. Ogni tempo, tuttavia, dà vita alle proprie pertinenze e in tal modo se negli anni 80 la preoccupazione principale era quella di garantire un bianco senza danno, in cui emerge anche un problema di consistenza, di tatto e di resistenza dei tessuti (Fig. 4), successivamente gli spot mettono in atto una retorica del confronto che basa l’efficacia del prodotto sulla riuscita del bianco più bianco, garanzia di massima pulizia (Figg. 5-6). Il bianco viene così legato a un’altra figura, la luce, o meglio al suo contraltare plastico: la luminosità. Il pulito di Ace, infatti, è “senza ombra di macchia” (Fig. 5) e il suo obiettivo è quello di “riaccendere” il bianco dei nostri capi (Fig. 6). Fig. 4 –Ace candeggina, 1983. Fig. 5 –Ace detersivo, 1992. Fig. 6 –Ace denso più, 2018. Questo ragionamento, oltre a essere valido anche nella comunicazione della pulizia dei capi colorati di cui risvegliare la luminosità, è valido anche per altri tratti, per certi versi sovrapponibili al bianco, come la lucentezza. Questa sovrapposizione non deve stranire: se i latini discriminavano i tipi di bianco a seconda della sua luminosità (distinguendo tra albus – il bianco opaco – e candidus – il bianco brillante) è proprio perché, come tutti i colori, il bianco è una figura dal carattere composto e il suo significato, nel tempo e nello spazio, cambia al variare delle sue componenti interne, intese come categorie cromatiche – tono, saturazione, luminosità etc. (Agnello 2013). Ovviamente, individuare il pulito nel bianco o nella luminosità dei colori definisce, per presupposizione, lo sporco come tutto ciò che non ha 4 L’individuazione di tali strategie di posizionamento non è tuttavia pertinente rispetto a questo lavoro che intende ragionare principalmente sulla ricostruzione della figurativizzazione dello sporco. 209 queste caratteristiche: è sporco ciò che opacizza i colori, ingrigisce la biancheria e macchia le superfici. In questo caso il senso del pulito è dato dunque dalle categorie cromatiche lucentezza/opacità, luminosità/oscurità, e la macchia, intesa come elemento visibile che marca una discontinuità nella continuità di capi e superfici puliti, è la figura dello sporco per eccellenza. Bianco Macchia Luminosità Oscurità E Lucentezza Opacità Continuità Discontinuità C Pulito (Ov) Sporco (Anti-S) 2. La dimensione olfattiva, invece, è dominante in tutti quegli spot che tematizzano la questione dello sporco e del pulito legandola a precise figure come quella dell’odore. “La peggiore macchia del pulito è l’odore di sudore”, recita uno spot Deox, brand di detersivi famoso per la formula brevettata anti- odore. Ma come tradurre i buoni e i cattivi odori attraverso un audiovisivo? E di cosa sa il famoso “profumo di pulito”? La dimensione olfattiva è la più difficile da restituire in uno spot, ma come sappiamo, la pubblicità ridice e traduce l’odore producendo effetti sinestetici che investono la sintassi figurativa dell’olfatto (Fontanille 2004; Marrone 2007) per poterla comunicare attraverso sostanze sensoriali diverse, come quella visiva tipica del prodotto pubblicitario. L’articolazione formale dell’olfatto, secondo Fontanille, rende conto infatti della relazione che si instaura fra il corpo investito dall’odore (corpo-bersaglio) e quello che lo produce (corpo-sorgente), ciascuno dei quali è caratterizzato da una propria sintassi e dal cui intreccio prende vita l’esperienza olfattiva. La vita di un odore, in questo senso, attraversa, dal punto di vista del corpo-bersaglio, tre fasi (emanazione, diffusione, penetrazione) che fanno da contraltare alla sintassi del corpo-sorgente (nascita, degradazione, decomposizione). Questi momenti, nel racconto pubblicitario, possono non essere sempre tutti presenti e, a seconda degli obiettivi strategici, il brand può decidere di privilegiare alcune fasi sulle altre. Nel nostro caso, se profumo e cattivi odori concretizzano il pulito e lo sporco rendendoli percepibili, la pubblicità fa lo stesso con questi elementi, generalmente immateriali, concretizzandoli attraverso specifiche figure. Infatti, la messa in scena dell’emanazione o della penetrazione è data attraverso l’utilizzo di tutta una serie di figure come fiorellini, scie visive, esalazioni verdognole (Fig. 7 – Napisan). Ma a significare gli odori sono anche gli effetti di materia prodotti dalla consistenza del detersivo: Nelsen associa in questo senso la materialità metallica all’igiene legando metallo e assenza di odore (Fig. 7). Napisan additivo igienizzante, 2021. Nelsen, 2012. Fig. 7 3. Infine, vi è una dimensione specificamente materica, spesso risultato di strategie sostanziali nel senso che dà Floch (1990) a questo termine come stile pubblicitario. È a tale dimensione che s’intende dedicare particolare attenzione in questa sede, dal momento che è qui che avviene la messa in forma, attraverso precise modalità, della visualizzazione della profondità del tessuto e della trasformazione materica dello sporco, da un lato, e dell’agente pulente, dall’altro. La dimensione materica emerge ogni volta che, con 210 un débrayage spaziale, gli spot ci portano all’interno dei tessuti. Può infatti cambiare la logica di igiene legata ora a una dimensione più visiva, la macchia, ora a una dimensione più olfattiva, il cattivo odore, e tuttavia ciò che non sembra cambiare è proprio la dimensione materica che si costituisce come invariante della comunicazione pubblicitaria dei prodotti per l’igiene e nella quale, a prescindere dal tipo di sporco a cui si dà la caccia, a essere messo in scena è sempre il passaggio dallo sporco al pulito nei termini della trasformazione materica dell’uno nell’altro. Lenzuola e camicie lasciano allora spazio alle trame dei tessuti tra le quali, incastrato, troviamo lo sporco. Ma cosa avviene una volta entrati all’interno del tessuto? 3. Sporco, unto e bisunto Vediamo lo sporco, le macchie, ma vediamo anche ciò che dall’esterno non era visibile. Nel passaggio dalla superficie alla profondità del tessuto, il cambio di scala rende il punto di vista dell’osservatore fortemente inscritto, attivando uno sguardo aptico attraverso il quale l’ingrandimento del tessuto non solo fa leva sulle caratteristiche sensibili dello sporco ma rende possibile un poter-vedere, ossia una nuova conoscenza. La pubblicità traduce, facendole proprie, le specificità dell’informazione tattile che “segue un processo di somma analitica che cumula singole e deformate percezioni fino ad ottenere l’identificazione, ‘invisibile’, di oggetti-figure che acquistano solo in questo modo esistenza e capacità discorsiva, racconto e investimento di valore” (Ceriani 1995, p. 197). I cambiamenti dal macro al micro, come spiegano Migliore e Colas-Blaise (2022), rappresentano in questo senso “movimenti di approssimazione o di totalizzazione, di analisi e sintesi nella percezione e nella conoscenza” (pp. 46-7). Se la macchia, infatti, svolge il ruolo di informatore, ossia di un attante che fa sapere della presenza dello sporco, alcuni prodotti pulenti, in particolare i prodotti igienizzanti, ci dicono che lo sporco può essere presente anche in assenza di tale informatore. Il débrayage spaziale dall’esterno all’interno del tessuto, dunque, rende possibile una vera e propria visualizzazione dell’invisibile che costruisce l’opposizione fra sporco visibile e sporco invisibile (Fig. 8). Ace gentile, 2018. Napisan, 2020. Fig. 8 Infatti, se i classici prodotti detergenti combattono la macchia che si vede a occhio nudo, totalità integrale e indistinta dello sporco, per i detersivi igienizzanti il nemico è più pericoloso e difficile da eliminare perché invisibile. In questo senso, è solo entrando nel tessuto, osservandolo come sotto la lente di un microscopio, lo sporco assume specifiche identità. Il débrayage, infatti, oltre che spaziale è anche attoriale: piccoli mostriciattoli, cellule e batteri, totalità partitiva dello sporco, come usciti da un libro di chimica (v. germi, Fig. 8), sono chiaramente l’esito di strategie oggettivanti che fanno proprio il discorso parascientifico, oggi certamente complice anche la recente pandemia che ha cambiato il modo di figurativizzare virus e germi adottandone l’immagine scientifica. La differenza fra uno sporco rilevabile (tutto sommato innocuo) e uno sporco impossibile da individuare a occhio nudo (potenzialmente pericoloso per la salute), convoca questioni veridittive legate al regime del segreto (è sporco ma non sembra) se non della menzogna (sembra pulito ma non lo è), che si traducono concretamente nell’idea che per avere un pulito completo il detersivo non basta e bisogna 211 anche igienizzare. Tale differenza è prodotta negli spot attraverso l’articolazione della categoria superficie/profondità che coinvolge sia la dimensione verbale (“Pulito profondo”, “nel cuore di ogni bucato”, “pulisce a fondo”, “igienizza le superfici in profondità”, “pulito profondo che penetra nelle fibre” etc.) sia visiva, attraverso tutta la serie di débrayage e embrayage che ci consentono di fare da spola dalla superficie alla profondità dei tessuti, e viceversa (Fig. 9). All’interno di tale opposizione spaziale, il raggiungimento della profondità diventa una sfida, un vero e proprio programma narrativo (v. Marrone 2001, sull’agire spaziale) che, nel nostro caso, sancisce la realizzazione dell’obiettivo: il pulito profondo delle pubblicità, appunto. Débrayage 1 Débrayage 2 Embrayage 1 Embrayage 2 Fig. 9 – Ace gentile, 2018. Al livello dell’enunciato, i débrayage spaziali e attoriali ci portano sempre più all’interno delle maglie, mentre gli embrayage consentono un ritorno verso la superficie. Va notato, in particolare, ciò che avviene all’interno della lavatrice: l’effetto di profondità prodotto dal primo débrayage (che mostra la macchia), infatti, è ulteriormente amplificato (in un rapporto zoom-macro zoom) dal secondo débrayage (che mostra i germi). Questo ci consente di articolare la categoria superficie/profondità nel modo che segue: 212 Questa profondità dell’azione pulente non è solo interna allo spot analizzato ma, come si diceva, emerge anche dal confronto fra prodotti tradizionali/igienizzanti. D’altronde, come sottolinea anche Pozzato (2009) analizzando due pack di additivo per il bucato, un detersivo che agisce sui colori dei capi ha spesso a che fare con un pulito dai valori estetici, al contrario dell’azione igienizzante-disinfettante che riguarda piuttosto la salute. Se sul dizionario dunque pulire è un iperonimo che racchiude e per certi versi appiattisce le diverse attività di pulizia, la pubblicità costruisce delle differenze sotto forma di una scala tensiva che va da un minimo a un massimo dell’azione pulente. In questo modo, pulire, lavare, igienizzare e disinfettare non sono che effetti delle diverse figurativizzazioni della superficie o della profondità e l’efficacia del prodotto pulente è direttamente legata al modo in cui viene figurativizzata la profondità della sua azione. Anche grazie agli spot. 4. Schiume, polveri e saponi Anche dal lato dell’agente pulente, negli spot si narrano le vicende di questo o quel detersivo, la cui specifica azione è messa in forma proprio dal tipo diverso di consistenza materica di cui è fatto. Oggi, i consumatori possono far affidamento su una grande varietà di sostanze pulenti dalle caratteristiche più diverse. Esistono prodotti in polvere, liquidi, in gel, in capsule, da usare contro i vari tipi di sporcizia: macchie unte, sporco incrostato, polvere e via dicendo (Fig. 10). Fig. 10 – Diverse consistenze dei detersivi in commercio. Ma cosa ci fa dire, poniamo nella scelta di un detersivo, che una consistenza sia migliore delle altre? La preferenza fra la polvere o il liquido contro l’unto da cosa dipende? La scelta è tutt’altro che naturale o scontata: a essere messe in gioco, oltre alle motivazioni chimico-scientifiche, sono infatti dinamiche legate agli immaginari e alla percezione collettiva delle specifiche materialità e ai contrasti di sostanze che, in quanto tali, cambiano nel tempo. Osserviamo la questione da un punto di vista diacronico: Barthes (1957), analizzando le pubblicità dei nuovi detersivi in polvere degli anni 50, notava la contrapposizione fra i “liquidi purificatori” e le “polveri saponificanti”. Mentre la candeggina era “fuoco liquido” che uccide lo sporco e rovina i capi se non utilizzata con parsimonia, il detersivo in polvere metteva in atto un’azione selettiva contro lo sporco, espellendolo senza danneggiare tutto il resto. Tuttavia, le qualità del liquido o della polvere non sono ad essi intriseci. Il liquido, infatti, non è più aggressivo o efficace di per sé: come tutti i materiali, il liquido – ma anche il solido, la polvere etc. –, è un oggetto di senso, “la manifestazione particolarmente suggestiva di una riflessione sul mondo sensibile, di una ‘logica concreta’ in atto” (Floch 1984, p. 176). I materiali sono già culturalizzati e il loro valore si costruisce, proprio come in questo caso, a partire dagli usi che se ne fanno. Con l’introduzione dei detersivi liquidi negli anni 80, ad esempio, la situazione appare ribaltata rispetto agli anni 50: la polvere è percepita ancora come molto più efficace del liquido, e i brand dunque iniziano a produrre massicce campagne pubblicitarie per convincere i consumatori del contrario. Nello spot dell’allora nuovo detersivo liquido Dash del 1989, infatti, una giovane motociclista sfuggendo ai consigli di una signora incontrata in lavanderia (Fig. 11 – “no signora, con il liquido ci lava il bucato leggero, 213 ma sul grasso ci vuol la polvere”, “liquido in pallina, bianco in rovina”), s’impegna a convincerla dell’efficacia del nuovo prodotto liquido, valido quanto quello in polvere. Polvere tradizionale Nuovo liquido Fig. 11 – Dash liquido, 1989. Ci troviamo in un momento di passaggio e per certi versi di fronte a uno scontro fra immaginari diversi legati a un passato e a un presente delle sostanze lavanti che ne costruisce il valore. È evidente che, in un dato momento storico-culturale, la polvere è stata percepita come più adatta a eliminare lo sporco unto – da cui il semisimbolismo diacronico che lo spot Dash vuole ribaltare: E Polvere Liquido C Passato Presente Efficace Inefficace Dunque, contro il grasso sarà più efficace il liquido o la polvere? Dipende. Si tratta di un problema di contrasti di sostanze, ossia della relazione che intessono fra loro, e della percezione collettiva legata all’efficacia della combinazione di alcune materialità. Questo potrebbe spiegare perché, ad esempio, come mostrano abbondantemente i numerosi profili social sull’igiene domestica che spopolano oggi sul web (v. @lacasadimattia, @mammapuntodue, @yesyoucandeggina, su Instagram), l’uso del bicarbonato nelle pulizie sia oggi attraversato da una vera e propria passione collettiva che va di pari passo con la recente tendenza a riproporre i prodotti per l’igiene nelle formulazioni solide o in polvere, specialmente nel caso di prodotti per la pulizia appartenente a linee “naturali”. Ha poca importanza, da questo punto di vista, che il bicarbonato non abbia alcuna proprietà pulente o igienizzante come si affrettano a informarci da ogni dove (sulla divulgazione scientifica in materia di igiene, v. Bressanini 2022): il biancore della polvere, la sua materialità, così come la schiuma prodotta dal suo contatto con l’aceto, elemento con cui il bicarbonato intesse una vera e propria relazione sintagmatica nel mondo delle pulizie oggi, rappresentano l’esempio perfetto non solo del valore semiotico dei materiali, ma anche della loro efficacia. Non a caso, proprio il bicarbonato oggi è nell’elenco dei numerosi “con”, ossia delle sostanze aggiunte leggibili sulle confezioni dei detersivi. Un’altra figura specifica su cui vale la pena soffermarsi è poi la schiuma, elemento materico che spesso significa più di ogni altro il prodotto pulente. A leggere il dizionario, individuiamo almeno due invarianti figurative che trovano manifestazione nei discorsi sociali: la prima è l’idea della spumosità di una sostanza che ingloba aria; la seconda è relativa invece allo stato di attività della schiuma, dato dell’agitazione e dell’effervescenza. Ancora una volta Barthes nel suo studio su saponificanti e detersivi, in Miti d’Oggi (1957), evidenziava come la performatività abrasiva dei nuovi saponi venisse camuffata dalla sua schiumosità aerea: non è un caso, infatti, che Calvino (1963) individui proprio nelle bolle sprigionate dalle polveri saponificanti gettate in un fiume dai figli di Marcovaldo uno dei tratti significanti della società consumistica di quel tempo. 214 Oggi la situazione è ambivalente. Nei casi che abbiamo osservato, la schiuma non sembra essere un tratto pertinente nella significazione del processo di pulizia: in lavatrice, infatti, il detersivo entra in contatto con lo sporco e grazie alla mediazione dell’acqua lo elimina (Fig. 12). Se ci spostiamo su altre tipologie di prodotto, invece, accade che la schiuma non solo è presente ma diventa l’elemento che racchiude la potenza pulente del prodotto: nello spot di Svelto da una piccola e densa goccia di detersivo si prigiona una copiosa schiuma pronta ad affrontare le stoviglie lerce (Fig. 13). La differenza fra questi prodotti è una e determinante: in un caso si tratta di lavaggio a mano, nell’altro no. Informatore dell’azione pulente in atto, la schiuma finisce per significare la performance stessa del prodotto ed è come se parlasse direttamente al suo utilizzatore: il prodotto è in azione e funziona – è opinione diffusa, d’altronde, che se non fa più schiuma non è buono o la spugnetta va ricaricata! –. Una performance che, in qualche modo, contiene in sé anche la sanzione della buona riuscita del lavaggio e ne anticipa i risultati. Fig. 12 – Ace denso più, 2018. Fig. 13 – Svelto, 2022. Tuttavia, la schiuma non ha sempre un valore positivo. Da una parte, infatti, le aziende di detersivi si impegnano affinché la formulazione dei loro prodotti consenta la produzione copiosa di schiuma durante il lavaggio. Ma basta cambiare categoria merceologica e oggi, nel mondo cosmetico e della cura dermatologica, ad esempio, accade esattamente il contrario. Da un punto di vista sincronico, nell’universo dell’igiene odierno infatti la schiuma significa contemporaneamente cose diverse: per un detersivo significherà che il prodotto è in uno stato di attività (Fig. 14), per un bagnoschiuma la morbidezza della spuma profumata sarà caricata del significato “coccola, carezza” (Fig. 15), mentre per i moderni detergenti per il viso o per i capelli, specialmente se si tratta di prodotti “naturali”, la schiuma è segno di un prodotto troppo aggressivo che non va utilizzato, e infatti la schiuma è leggera o, spesso, del tutto assente (Fig. 16). In altre parole, i significati dei materiali non stanno nei materiali stessi ma nella relazione che questi instaurano fra loro in un dato momento all’interno di un certo contesto socioculturale. Fig. 14 – Svelto, 2022. Fig. 15 – Spuma di Sciampagna, 2022. Fig. 16 – Nivea Naturally Clean, 2021. 215 5. Ibridi in lotta Nell’individuare diverse “ideologie” del lavaggio, tra le altre cose, in Miti d’Oggi Barthes osserva anche i verbi utilizzati nella descrizione pubblicitaria del prodotto pulente (uccide vs espelle). Seguendo dunque quello che si definisce come un modus operandi tipico dell’approccio semiotico (Greimas 1966) ragionare sui lessemi utilizzati negli spot per descrivere l’attività del detersivo (così come anche le immagini che mostrano tali azioni) ci aiuta a svelarne il fare, e con esso la struttura narrativa soggiacente all’enunciato. In tal senso, i verbi utilizzati negli spot sono principalmente di tre tipi: 1. Azioni che descrivono il processo pulitura come cancellazione dello sporco, che riguarda la comunicazione pubblicitaria della quasi totalità dei prodotti (“toglie lo sporco”, “rimuove il grasso”, “elimina le impurità”, “fredda lo sporco”, “uccide germi e batteri” etc.); 2. Azioni che, pur indicando la stessa eliminazione, mettono l’accento sulle operazioni di trasformazione da una materialità a un’altra (“liquida lo sporco”, “scrosta”, “sgrassa”, “scioglie”, “dissolve” etc.); 3. Azioni che parlano del processo di costruzione del pulito (“profuma la biancheria”, “fa splendere le superfici” etc.). La pulizia emerge dalle pubblicità come una vera e propria lotta contro lo “sporco cattivo”. In termini semiotici potremmo dunque dire che quello della pulizia è un processo di disgiunzione dallo sporco e che alla storia della biancheria macchiata che viene ripulita raccontata dagli spot soggiace, cioè, un programma narrativo (PN) che da uno stato di iniziale disgiunzione dal pulito porta, attraverso tutta una serie di trasformazioni, al ricongiungimento con esso. Ma chi opera queste trasformazioni? Quale struttura attanziale presuppongono? A ben vedere, gli spot analizzati hanno tutti una struttura simile: c’è un momento iniziale in cui si crea lo sporco da pulire, il momento del lavaggio, e infine l’apprezzamento del risultato ottenuto. Si tratta, in effetti, di tre momenti specifici della trasformazione narrativa che dallo sporco porta al pulito e in particolare del danneggiamento, della competenza-performance e della sanzione. In effetti, in tutti i casi analizzati, la macchia causata dall’aver rovesciato il vino sulla tovaglia o l’impasto sulla camicetta è l’agente che, rompendo l’equilibrio iniziale del pulito, innesca il racconto. Lo sporco da combattere, differentemente figurativizzato (macchie, cattivi odori, grasso, polvere etc.), svolge in questo senso il ruolo attanziale di Anti-soggetto della storia la cui azione attiva il senso sociale del pulito che, imponendo una certa forma di ordine e decenza, agisce da Destinante che manipola il soggetto del fare che dunque vuole e deve lavare via le macchie. Ovviamente ciò avviene anche in concomitanza con altri attori che svolgono il medesimo ruolo attanziale: nonne e mamme, costruite dalla pubblicità come soggetti competenti pronti a dispensare consigli, ancor più in passato (Fig. 4) e tal volta ancora oggi (Fig. 2), ne sono un esempio. Tale manipolazione, inoltre, avviene spesso per provocazione: parlare di sporco “difficile” o “impossibile”, infatti, fa emergere tutta la dimensione della sfida (Greimas 1983) – la presenza dello sporco nella profondità del tessuto minaccia la competenza, ossia il poter e saper fare, del Soggetto operatore – legata oltretutto alla possibilità una dimensione patemica della sporcizia che trova il suo eccedente passionale nell’ostinazione (Greimas, Fontanille 1991) (es. “efficace contro le macchie più ostinate”). Ma il protagonista dell’azione chi è? Chi svolge la performance? Il detersivo, il soggetto umano, o la lavatrice? La risposta non può essere stabilita una volta e per tutte: per quanto possa essere intuitivo pensare che sia sempre l’uomo a lavare, protagonista indiscusso dell’azione, nel racconto dei prodotti per l’igiene la situazione è più flessibile e le possibilità diverse. In questi casi, infatti, non è il soggetto umano a operare le trasformazioni del processo di pulitura: è il detersivo a essere infatti il protagonista indiscusso dell’azione, Soggetto Operatore che riesce a far tornare gli abiti al suo originario splendore – il nostro Oggetto di Valore. Mentre l’uomo è il Soggetto di stato danneggiato dallo sporco e al tempo stesso un Aiutante che insieme a tutta una serie di altri oggetti che contribuiscono a portare a termine il programma. In tal modo, elettrodomestici e persone, così come anche scope, spugnette, 216 spolverini, spazzolini e tutte le sostanze “aggiunte” al detersivo (i con presenti sulle confezioni – con bicarbonato, aceto, igienizzante etc.) costruiscono, alla Latour (1991, 2005), ibridi efficaci, una rete interattanziale, attorializzata poi differentemente, che contribuisce a pari merito alla buona riuscita del programma narrativo. Ciò non vale solamente per gli attori coinvolti nell’azione pulente: pentole, superfici e abiti uniti al calcare, all’unto e al grasso sono da intendersi come altrettante entità ibride, risultato dell’unione di materialità originariamente separate. Ovviamente questa struttura attanziale può essere ulteriormente complessificata. Nel mondo delle pulizie, ad esempio, anche la temperatura dell’acqua o altri elementi come il calcare svolgono un ruolo narrativo: veri e propri Aiutanti, nel caso delle alte temperature che sgrassano meglio, o al contrario Opponenti, come per le basse temperature che non garantiscono una buona pulizia dei capi e l’uccisione dei batteri; così come un’acqua calcarea può rovinare i nostri vestiti. Ciò nonostante, l’acqua è, nel mondo dell’igiene, un attante importante per la buona riuscita del lavaggio e non solo perché, riprendendo Bachelard, “l’acqua è oggetto di una delle maggiori valorizzazioni del pensiero umano: la valorizzazione della purezza […] L’acqua accoglie tutte le immagini della purezza” (1942, p. 21-22), ma anche perché senza di essa pulire sarebbe praticamente impossibile. Greimas (1983), nell’analisi della zuppa al pesto, notava che la pentola destinata ad accogliere la zuppa di legumi poteva essere considerata uno spazio utopico, ossia il luogo in cui avvengono le principali trasformazioni narrative, e che l’acqua presente al suo interno, e nella quale erano versati gli ingredienti, era da intendersi come un attante operatore delle trasformazioni che portano dal crudo al cotto. Nel nostro caso, e a un primo sguardo, la lavatrice sembrerebbe avere lo stesso ruolo attanziale della pentola: in essa avviene la performance, la prova che porta dallo sporco al pulito e in cui l’acqua rappresenta un fondamentale agente di trasformazione. E tuttavia la lavatrice è più di questo perché non solo contiene il lavaggio ma lo aziona: ruotando, agisce a sua volta definendosi in tal modo come un luogo utopico attivo. Continuando con l’analogia culinaria, il suddetto elettrodomestico sembrerebbe così più simile alla ciotola girevole dello sbattitore che collabora con le fruste all’amalgama degli ingredienti (Marrone, Mangano 2002). Infine, la Sanzione è delegata, oltre che all’attore umano (che ad esempio annusa soddisfatto i capi puliti), anche alla materialità stessa: sono infatti la lucentezza delle superfici, il biancore dei capi e il profumo delle lenzuola a sancire positivamente la buona riuscita del programma e dell’azione di pulitura appena terminata. Considerando quindi il programma di pulizia come un programma di base, troviamo, grazie alle indicazioni dei verbi e alle azioni raffigurate, almeno altri due programmi narrativi d’uso che consentono di raggiungere l’obiettivo finale, ossia il pulito. Si tratta dei programmi di cancellazione (PN1) e di costruzione (PN2). Da un lato, infatti, il detersivo interviene per dissolvere lo sporco. Detersivi, spugne e lavatrici intervengono in questo senso per eliminare macchie, cattivi odori e batteri dalle superfici e lo fanno sgrassando, sciogliendo, dissolvendo. Tuttavia, una volta eliminato e smaterializzato lo sporco, ciò non basta per creare il pulito. Infatti, se in linea di principio, come abbiamo visto, il puro è ciò che non è, ossia quello che rimane quando si separa da ciò che lo contamina, è pure vero che, una volta rimosso lo sporco, questo non basta a dar vita di per sé al pulito. L’oggetto lindo, una volta terminato il programma, non sarà più quello che era all’inizio. Risulta infatti trasformato, ottenendo delle qualità diverse perché intensificate rispetto a quelle possedute in origine: sarà più bianco, più profumato, più brillante (Fig. 17). Fig. 17 – Ace denso più, 2018. Figurativizzazione dell’azione costruttiva del detersivo che trasforma il tessuto donandogli nuove caratteristiche. 217 Il valore del pulito può dunque essere costruito e concretizzato in tanti modi, come abbiamo visto all’inizio parlando delle tre dominanti figurative, e dopo aver tolto qualcosa (macchie, germi, impurità etc.), per avere il pulito va aggiunto dell’altro: in tal senso il profumo, la freschezza, la lucentezza, la protezione igienica sono esempi di Ov del PN di costruzione che, insieme al PN di cancellazione dello sporco, dà vita ai diversi modi attraverso i quali il discorso pubblicitario materializza il fare narrativo del pulito. Ecco che gli spot costruiscono tale processo non solo come una lotta fra figure attanziali con obiettivi opposti (sporco vs agenti del pulito), ma più precisamente come una lotta fra materialità che si trasformano reciprocamente. 6. Trasformazioni materiche In tal senso, potremmo riprendere lo studio elaborato da Françoise Bastide (1987) nel suo saggio sul trattamento della materia, che ci consente un aggancio fra il livello discorsivo e quello semio-narrativo. È a partire dai verbi utilizzati in alcune ricette di cucina, tra cui anche la zuppa al pesto di Greimas (1983), e trasformazione di sostanze chimiche, che Bastide individua alcuni stati della materia, pensati nella forma di categorie semantiche, e un numero limitato di operazioni elementari di trasformazione da uno stato all’altro. Trattandosi dell’articolazione semantica di valori profondi, questi stati e queste operazioni possono poi assumere manifestazioni espressive di tipo diverso. Dunque, dopo aver visto la materializzazione dello sporco a livello discorsivo e la sua rimozione come disgiunzione narrativa, ragionare sulle trasformazioni materiche à la Bastide è utile per osservare il processo, la relazione sintagmatica fra questi elementi: come si passa dall’uno e dall’altro? Quali cambiamenti materici descrivono tale trasformazione? Per osservare queste trasformazioni bisogna concentrare lo sguardo sul momento della performance: corrispondendo infatti al momento in cui lo sporco viene eliminato è in questa fase che vengono messi in scena i cambiamenti di materia. Innanzitutto, secondo Bastide, le procedure di lavaggio rappresentano la manifestazione figurativa dell’operazione di scelta (Fig. 18), quell’azione che porta cioè l’oggetto dallo stato composto (es. un maglione macchiato che in quanto tale, come si è detto, è da intendersi come ibrido, intreccio di materialità di diversa origine) allo stato semplice (il maglione pulito, le cui trame sono isolate dal resto), perché, selezionando gli elementi estranei da eliminare, la pulitura lo priva di ciò che lo contamina. Fig. 18 – Ace gentile, 2018. L’operazione di selezione figurativizzata in maniera diversa. Come si può osservare negli spot che abbiamo preso in analisi, il detersivo elimina le macchie, indicando una generica disgiunzione, sono poi le immagini a raccontare nello specifico come ciò avviene attraverso le trasformazioni materiche. Vediamo cosa avviene in lavatrice. L’indumento sporco è presentato come un tessuto tra le cui trame è incastrata la macchia, in maniera tale da apparire dunque particolarmente coesi e non facilmente separabili; tessuto e sporcizia si trovano cioè in uno stato di compattezza. L’azione detergente che “scioglie” o “sgrassa” svolge in questo senso un’operazione di apertura, ossia il passaggio dallo stato compatto allo stato discreto, liquefacendo lo sporco. Nel caso specifico del lavaggio in acqua a essere evidenziata è inoltre l’operazione di espansione 218 che descrive il dissolvimento di un elemento in un liquido. “L’acqua o altri solventi – come gli acidi – rappresentano in questo contesto un caso particolare, in cui l’azione del liquido annulla una forma di coesione e rivela in tal modo un carattere […] laddove il corpo appariva compatto al livello macroscopico della nostra osservazione: ci troviamo in presenza, dunque, di un’operazione di apertura che precede l’espansione” (Bastide 1987, p. 168). È questo, dunque, il caso dei lavaggi in lavatrice in cui lo sporco viene sciolto e si disperde in acqua. Stato iniziale Operazione Stato finale Compatto Apertura Discreto Concentrato Espansione Espanso La rimozione dello sporco invisibile – quali cattivi odori, germi e batteri – rende più complesso figurativizzare le trasformazioni materiche. Come dicevamo proprio in riferimento alla dimensione olfattiva (§2), la pubblicità costruisce effetti sinestetici che danno corpo e struttura a elementi normalmente non visibili a occhio nudo. In questo caso, infatti, la trasformazione provocata dall’operazione di separazione ed espansione viene tradotta visivamente attraverso un cambiamento del colore, o meglio della sua luminosità, per cui: cattivo odore : profumo = ombra : luce In tal modo, gli spot danno vita a effetti di materialità che tuttavia non sempre rientrano nelle categorie individuate da Bastide. Gli odori, in questi spot, non sono figurativizzati compatti come una macchia, ma non sono neanche discreti o amorfi, essendo in qualche modo legati al tessuto. Non-discreto Espansione Discreto Scelta 219 Lo stesso avviene per quanto riguarda i prodotti che combattono batteri e virus: in questo caso, pur essendoci la disgiunzione, e dunque una trasformazione narrativa, a mancare sembra essere la visualizzazione delle trasformazioni materiche che a livello figurativo concretizzano tale trasformazione. A essere messa in scena è infatti un’eliminazione totale, una disgiunzione nuda e cruda dagli agenti patogeni: partendo da uno stato discreto – perché sparsi disordinatamente sui vestiti – al passaggio del detersivo i germi spariscono letteralmente nel nulla come a voler significare che il detersivo non li scioglie o disperde da qualche altra parte dove potrebbero continuare a rappresentare un pericolo – banalmente, la lavatrice –, ma li fa totalmente fuori (Fig. 19). In tal modo, insieme all’eliminazione, il rischio della presenza batterica viene disinnescato. Ace gentile, 2018. Napisan, 2020. Fig. 19 Similarmente a quanto osservava Floch riguardo agli annunci di certi psicofarmaci (1990), negli spot della figura 19 a essere messa in scena è la trasformazione diretta da uno stato disforico, nel nostro caso lo sporco, a uno euforico, il pulito, attraverso specifiche opposizioni plastiche: Sinistra Destra Molteplicità Unità E Discontinuità Continuità Policromatismo Monocromatismo C Disforia Euforia Sporco Pulito In generale, vanno notati due aspetti: il primo, che potrebbe sembrare banale, riguarda il fatto che al cambiare della categoria merceologica alcune trasformazioni materiche diventano più pertinenti di altre (uno sgrassatore punterà in linea generale di più verso la destrutturazione del grasso incrostato, rispetto poniamo a un ammorbidente). Il secondo è che non è detto che la pubblicità decida di mostrare tutti i passaggi che portano da uno stato all’altro: per ragioni legate alle strategie di posizionamento dei propri prodotti a volte l’accento è posto maggiormente sullo stato iniziale dello sporco, altre volte sul momento della performance, e altre volte ancora sul momento finale che corrisponde alla sanzione positiva per la riuscita del buon bucato. Esattamente come abbiamo visto per le tre dimensioni figurative individuate – quella visiva, quella materica e quella olfattiva – si tratta di un aspetto interessante perché riguarda il modo attraverso cui i brand costruiscono differenze interne ponendo l’attenzione su uno specifico momento del processo di pulizia, individuando delle pertinenze che costruiscono il valore del prodotto. E non solo, perché tali dimensioni oltre a concretizzare delle idee di pulito alternative – sul piano paradigmatico – presuppongono e tracciano il percorso della loro costruzione – sul piano sintagmatico. Ciascuna di esse rappresenta, in altre parole, la messa in discorso di momenti specifici della produzione del pulito. In ogni caso, scrive Bastide, “il risultato della pulitura è la riduzione di una eterogeneità ‘naturale’: […] sudicio-sporco-contaminato/puro-pulito-isolato” (1987, p. 174). Pulire significa innanzitutto selezionare, ed effettuare una scelta su cosa eliminare – e dunque ritenere sporco – presuppone uno schema, un 220 ordine delle cose dove, è evidente, il pulito è ciò che rimane isolato, non mischiato ad altro, rispetto allo stato eterogeneo che assumono le cose quando vengono sporcate. L’idea di Bastide è, in altri termini, la stessa idea di contaminazione di Mary Douglas: per entrambe pulire è un modo per fare ordine sotto forma di costruzione della purezza. In questo senso, le specificità di volta in volta diverse di pulizia e sporcizia in qualità di effetti di senso dipendono anche dalle trasformazioni materiche che li sottendono e che vengono sfruttate dal racconto di marca per arricchire e meglio articolare il nostro immaginario igienico rispetto a come è normalmente inteso dal senso comune, ampliando ad esempio i significati del pulito che ci vengono restituiti dal dizionario. D’altronde, l’enfasi materica e sensoriale è oggi particolarmente presente nell’universo di brand e mediatico 5, e gli strumenti analitici adottati in questo studio (v. i riferimenti al lavoro di Bastide, ma anche a quello di Greimas e Floch) risultano dunque particolarmente utili e pertinenti nello studio di simili strategie commerciali e comunicative. Tuttavia quello di sporco e pulito è ancora un problema aperto: sporcare è disordinare, pulire è rimettere al posto. Ma lo sporco, una volta rimosso, dove va a finire? Le attività di pulizia nient’altro sono, in questo senso, che la concretizzazione di un ritaglio effettuato sul mondo, logiche guidate da vere e proprie forme dell’ordine che ci permettono di controllarlo per comprenderlo, punto di partenza per una semiotica dell’igiene ancora tutta da indagare. 5 Si pensi ad esempio al fenomeno dell’ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response), ossia a quelle tecniche di rilassamento legate a stimoli di natura principalmente uditiva e tattile, di cui il web e i social sono oggi densamente popolati sotto forma di video dalla natura più disparata: dalle ricette di cucina in cui, più che i passaggi, a essere enfatizzata è la materialità del cibo grazie ai suoni amplificati (croste croccanti, coltelli che affettano etc.) associati a sguardi aptici e fortemente ravvicinati agli ingredienti, fino ai video degli aspirapolvere in funzione in cui a divenire protagonista è il “rumore bianco” (vedi ad es. Dyson su YouTube, www.youtube.com/watch?v=5SEYNV4WaC8). Di conseguenza, in questi video la ricetta non è più un testo istruttorio, e l’aspirapolvere non serve per pulire: a essere prodotta tramite tali strategie sostanziali è una vera e propria estetica trasversale in cui vige l’esibizione sensoriale, più vicina al fenomeno del food porn (Marrone 2016) che a un tutorial. 221 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Agnello, M., 2013, Semiotica dei colori, Roma, Carocci. Bachelard, G., 1942, L’Eau et le Rêves, Paris, Corti; trad. it. Psicanalisi delle acque: purificazione, morte e rinascita, Milano, Red edizioni 2006. Barthes, R., 1957, “Saponides et détergents”, in Id., Mythologies, Paris, Seuil, pp. 36-38; trad. it. “Saponificanti e detersivi”, in Id., Miti d’oggi, Torino, Einaudi 2016, pp. 28-30. 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Materialità immateriale: il paradosso delle skin Giulia Ceriani Abstract. In the measure which currently willingly favors the discussion on materials – their nature, their recycling – over that on shapes, the question of dematerialization arises with great force. Either of a materiality that is only an effect, when it concerns the representation within the digital universes. What happens to those expressive substances that refer to some form of physicality (i.e. silk or leather), when they are brought back to a pure effect in a digital context? Does this deal with a visual transcoding only, or there is something more? If the same expressive substances are called to dress an actorial identity in a digital world, are they just to be considered as a last development of the mutation of materials that we have been witnessing for years, or they represent a specific case of mediatization? Are we just faced to the overturn of our perceptual habits, expectations and criteria of appreciation, or are we attending, by the ongoing development of Metaverse, to unprecedented manifestations of a world still under construction? This reflection aims to investigate the different aspects inherent to the evolution of materiality, up to its physical dissolution (immaterial materiality), and to understand how much -and if- the semiotic tools we have at our disposal can help us. 1. Materialità e immateriale C’è la materia e ci sono i materiali. La materia non esiste se non in quanto formata, ovvero investita della pertinenza con cui la trasformiamo in sostanza: non stiamo naturalmente dicendo nulla di nuovo, se non che tutto quello che ci è dato conoscere sono quelle sostanze che accolgono i nostri desideri di costruzione, nel senso più ampio del termine. Per questo, la semiotica dei materiali è linguaggio del tutto antecedente e prioritario rispetto all’investimento che ne è stato fatto nell’ambito del design: ben prima degli oggetti materiali, vi sono quelli che il metalinguaggio semiotico definisce “oggetti di valore”, pure posizioni attanziali, disegni del mondo che corrispondono alla nostra volontà – e facoltà – di discorso. Sappiamo, come ci indica Hjelmslev, che “la materia rimane sostanza per una nuova forma e non ha altra esistenza possibile al di là del suo essere sostanza per questa e quella forma” (1943, p. 57). Sostanza dell’espressione, con la virtualità intersemiotica che traccia affinità ed esclusioni, e sostanza del contenuto, che investe le tematiche, i generi, le tecnologie in essere. Proprio a queste ultime, è dato oggi rilevare in primissima istanza il testimone dell’innovazione, dove quest’ultima venga intesa come l’intenzione di invitare ad usi non previsti, o quanto meno fino ad allora non immaginati, i materiali stessi. La questione dei materiali immateriali, oggetto di questa nostra breve riflessione, si inserisce precisamente in questo filone, dove la tecnologia che conduce l’ideazione delle skin con le quali abbigliamo gli avatar nel gaming o nel Metaverso, o anche solo che vediamo in evidenza negli NFT droppable che la moda sta promuovendo, consegna alla visione l’intero percorso di valutazione del materiale stesso. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). È così che, nella definizione “pixelata” dei materiali che incontriamo in ambiente digitale, l’assenza di naturalità che ne fa dei referenti semi-culturalizzati, è conseguenza diretta della programmazione algoritmica degli effetti di materia: effetti, per l’appunto, senza che si possa in alcun modo porre la questione della loro matrice originaria, di una “verità referenziale” che è in questo caso impossibile da porsi. Non riteniamo infatti ci sia possibile corrispondenza tra la meccanicità dei movimenti, delle caratteristiche prossemiche, dell’interazione attoriale della quale è investita una figura (ad esempio ma non solo vestimentaria) delle skin, e la sua potenziale equivalenza nel mondo offline; le separa una dinamica percettiva che è altra anche rispetto a quella, ben più nota, dei personaggi di cartone animato anche tridimensionale, la cui funzione, in termini di coinvolgimento dello spettatore, resta ben meno risolutiva. Ben altro percorso dunque rispetto alla rappresentazione di una denaturalizzazione dei materiali già in essere da almeno venti anni, quando si è dato il là a una robusta creazione di effetti di materia contrari e anche contraddittori rispetto alle caratteristiche previste, persino in una semiotica del mondo naturale, da alcune sostanze base: l’elasticità della ceramica, la non frangibilità del vetro, la morbidezza del cemento, tra quelle che hanno diversamente interpellato i sensi a partire dalla cancellazione del confine naturale/artificiale. 2. La materialità digitale Stiamo di fatto affrontando, con la materialità digitale, l’ultima, dal punto di vista temporale, epifania dei processi di mutazione che attraversano il nostro tempo, e interessano a livelli diversi la definizione delle identità: che si tratti del gender, della relazione con l’ambiente, del rapporto con la nutrizione e di quello con i rifiuti, le inversioni, le transizioni, gli scivolamenti, se appartengono alla generale evoluzione di ogni congiuntura, sono tuttavia particolarmente cruciali in questa specifica stagione, che vede la saturazione di fenomeni addensatisi nel tempo (tra tutti, ad esempio, quello climatico ma anche, sul fronte economico, quello della contrazione che ci coinvolge trasversalmente). La mutazione che qui ci riguarda è tuttavia molto specifica: è quella della veridizione dei materiali stessi, distratti dal loro significato culturale e riorientati in direzione di un livello secondo di realtà che non sapremmo chiamare artificialità. Pensiamo, in particolare, a quello che succede con le “skin” indossate dagli avatar all’interno dei videogames, dove l’identità costruita nella continuità della materia digitale genera sostanze che riorganizzano non solo il dato percettivo in assoluto, ma anzitutto la percezione della propria collocazione identitaria. In un articolo che rifletteva sui primi materiali mutanti, Ceriani (2018) suggeriva di riprendere l’opposizione categoriale proposta da Fontanille (1995) tra visée, dove il soggetto è in tensione verso un oggetto a lui esterno, e saisie, dove è al contrario assorbito nel divenire dell’oggetto stesso. La smaterializzazione, che è il focus paradossale dei materiali digitali, avrebbe allora il proprio fulcro nella mera consistenza come état d’ame, modalizzazione dell’essere attraverso stati luminosi che simulano le materie fisiche. O meglio, che a queste si sostituiscono, stante che non c’è un loro esistere prima della digitalizzazione. Sono discorsi di luce, investiti su corpi simulacro che non hanno consistenza fisica, e che non sono del resto riconducibili – nelle movenze, nelle proporzioni, nella qualificazione d’insieme della propria tenuta – a nessuna sostanza che abbia un analogo nel mondo offline. Eventualmente riconducibili al cinema d’animazione in 3D, ma con in più la sfida di fornire da supporto a quell’identificazione immersiva che veicola, attraverso l’avatar, il soggetto al centro della scena. L’esistenza digitale chiede che si acceda all’effetto di materia per pura via sinestesica, e dunque che sia la visibilità/la luce per l’appunto, a guidare l’articolazione del contenuto (l’intellegibile), ma anche la modalizzazione del sensibile da cui dipenderebbe la percezione; intensità, salti cromatici, diffusione della luminosità, in una spazialità dinamica che non può essere simulazione, poiché non ha nessun riscontro in un mondo costruito che precede la visione. 224 Ci chiediamo dunque fino a che punto la smaterializzazione intervenga all’interno del percorso immersivo, quasi a garantire l’indipendenza dell’effetto di senso proposto, la sua autosufficienza sinergica al mondo possibile che risucchia, e che è pura saisie senza riscontri al di là dell’online. Oppure, se la componente visiva che gestisce l’effetto di senso sinestesico, pur investita apparentemente di una configurazione plastica, non sia invece da ricondursi a parametri figurativi che, nella profondità più o meno concessa dal 3D, invitino in qualche modo a un confronto, scuotendo, a partire dal vedere, quella dimensione fiduciaria che appare l’aspetto più entusiasmante, quello davvero innovativo, del percorso di fruizione del materiale. Del materiale tessile in particolare, nel contesto digitale, se pensiamo allo specifico della funzione vestimentaria: credere che qualcosa sia, esserne protagonisti, sentire e capire, in funzione dell’incontro percettivo con quello che non ha di fatto alcuna consistenza fisica. Un tema del tutto diverso da quello dei materiali mutanti: si trattava, in quel caso, di rinnovare le meccaniche percettive; si tratta, in questo secondo caso, di mettere in opera dinamiche percettive che riconoscono salienze puramente immaginarie, generate dai giochi visivi voluti da un algoritmo. 3. L’esempio delle skin L’esempio è a questo punto necessario. Sapendo che occorre ricorrere, nel pensare alle pertinenze materiche digitali, a una distinzione tra quelle circolanti sulle piattaforme di giochi (come Roblox o Fortnite) e quelle invece che si occupano di NFT (come su Decentraland). Si tratta, di fatto, di due diverse gradualità di attualizzazione del Metaverso: in entrambi i casi, però, si pone appunto la questione delle skin da far indossare all’avatar, ed è rispetto a queste che vorremmo porre la discussione dei materiali immateriali. Con la premessa che a distinguerle è di fatto la diversa funzione che sono chiamate a ricoprire, in relazione ai diversi e progressivi livelli di realtà che queste piattaforme investono. Non è infatti di moda che vogliamo parlare, ma di come la necessità vestimentaria con la quale in questi contesti si riveste, letteralmente, la funzione attanziale dei protagonisti, faccia da tramite alla compenetrazione dell’effetto di realtà attraverso cui si ottiene l’engagement immersivo. Le skin sono dei veicoli mediali fondamentali, ben più del contesto in cui si muovono, proprio perché rivestono, in soggettiva, l’identità dell’attore con il quale ci identifichiamo; non solo, nel contesto attuale di silhouette relativamente elementari e di dinamiche ancora poco naturali, a gestire l’effetto di verisimiglianza non è tanto la shape, la silhouette spesso ancora impacciata e cartoon, quanto il materiale digitale stesso. Il punto è come definire i mondi possibili a cui danno accesso le skin digitali, come stabilire che quello che stiamo percependo è un mondo sufficientemente “reale” per poter desiderare di agirvi, e ancora per decidere se c’è o meno una linea di distinzione tra un mondo “reale” e uno che reale non è… Oppure, per decidere che proprio lo stato di imperfezione e indecidibilità dei materiali è la marca del tempo presente, ove non si ritenga opportuno assumere lo choc di stabilire un limite tra quello che è “dentro” e quello che è “fuori”. Le piattaforme di gioco, così come i marketplace, sono e non a caso, il terreno favorito per la veicolazione di questi materiali mediali, termine con il quale intendiamo quegli effetti di materialità che vengono investiti su attori digitali in particolare attraverso le skin, prestando loro uno specifico effetto di verosimiglianza in funzione della propria corrispondenza figurativa. La verosimiglianza è il loro stato naturale, la pre-condizione della loro esistenza: non c’è gioco senza un’identità simulata, senza un avatar, e non c’è avatar senza il rivestimento di materiali che tematizzano (o brandizzano) la sua silhouette fantomatica. Un primo esempio emblematico di questa forma di significazione è riconoscibile nel cobranding inaugurato nel 2021 da Balenciaga e Fortnite (cf. Fig 1): la moda virtuale, digitalizzando gli outfit del brand di lusso francese, consente – su un doppio fronte- di convogliare una community di fans che presumibilmente “pescano” nella Gen Z, ben più disposta a investirsi, anche in ambito vestimentario, 225 negli ambienti virtuali che in quelli fisici, anche in nome di un più radicale sostegno della sostenibilità. Questa l’operazione. Di cui tuttavia ci interessano qui non tanto il dettaglio e la seduttività delle shapes, ben più primitive di quanto la dimensione fisica ad oggi consenta, quanto le peculiari caratteristiche iconiche che i materiali che le rivestono (cotone per la felpa, materiale a scaglie per le armature, tessuto elasticizzato animalier per le tute etc.) assumono: dove ad essere pertinenti non sono, ad esempio, la freschezza del primo, la luminosità del secondo o la vestibilità del terzo, quanto la capacità di intervenire in una dinamica di rappresentazione gommosa e morbida, tale per cui il corpo umano non potrebbe seguire. Sono cartoni? No, a nostro avviso sono ibridi che inaugurano, grazie ai materiali smaterializzati, una possibilità immersiva peculiare, un poter fare sommato a un poter essere che ne sottolinea un drive argomentativo del tutto nuovo. Fig. 1 Sulle piattaforme – per comprare, interagire, giocare etc. – c’è necessità di una consistenza visiva, ma sappiamo che questa consistenza visiva ha pochissimo o nulla a che vedere con il suo “pretesto” fisico. Di fatto, misuriamo l’effetto di realtà attraverso gradienti di diversa intensità, secondo un progressivo distanziarsi dalla materialità fisica a quella aumentata, fino a quella immersiva. Detto questo, stante l’immaterialità della sostanza delle identità digitali, i termini della significazione si rovesciano: quali paradigmi conducono? In particolare, quando si tratta di skin brandizzate o di NFT, qual è il criterio qualitativo/valutativo che guida? Quale, in relazione a parametri correnti come fitting, stile, opportunità? Proviamo a rispondere aiutandoci con un secondo caso ben noto, quello dell’entrata di Dolce & Gabbana nel Metaverso, con la presenza alla Metaverse Fashion Week svoltasi sulla piattaforma nel 2022 (Fig. 2), che ha fatto seguito alla prima collezione sperimentale del 2021 (Fig. 3). Ed è proprio nel confronto tra le due diverse modalità di rappresentazione dei materiali che è dato leggere il senso dell’intervento di questi ultimi sull’effetto di realtà: dove l’evocazione della versione più recente, che porta i materiali in una dimensione connotativa e del tutto autonoma rispetto alla pertinenza referenziale accuratamente ricercata nella prima versione, appare sufficiente a legittimare la proprosta. Il Metaverso non ha più bisogno di identificarsi con figure del mondo già note, ha stato, percezione e immaginario a se stanti. Scrivono Greimas e Courtès (1986, p. 185): “L’effet de sens ‘réalité’ correspond à la relation conjonctive que le discours installe entre le monde et le sujet par une sorte d’embrayage existentiel”. I materiali digitalizzati si confermano oggetti culturali costruiti, enunciati (nella porzione figurativa dei capi vestimentari che interpretano) che producono significazione nell’insieme della proposta in questo caso siglata da una marca di moda (ma analogamente sarebbe per prodotti e brand di altra natura), e contemporanemente diventano attori della costruzione di una realtà semiotica inaugurale, che conosce valenze di senso e patemizzazione del tutto proprie. 226 L’impressione è che il valore diventi, in questo contesto, puramente modale, e che prescinda necessariamente dalla descrittività: si tratta di fashionscapes (Appadurai 1996; Calefato 2021) dalla potenzialità immaginaria, dove il processo sinestesico riveste la massima importanza, improntato a un accesso sensoriale esclusivamente visivo (visivo e sonoro in qualche caso). Fig. 2 Fig. 3 4. Identità visive in mutazione Veniamo dunque alle identità. Sappiamo bene che la differenza è garanzia di unicità e che non c’è identità senza la differenza che distingue da un attore secondo: l’identificazione è l’azione che trasforma un attante non identificato in un attore che ha il suo carico di figuratività e tematizzazione. Questo è cruciale quando pensiamo ai materiali che ricoprono gli NFT, in arte come nella moda il primo step dell’identità con cui possiamo esperire il Metaverso, ma anche produzioni autonome, acquisibili anche solo in nome del loro valore economico: sappiamo che il loro codice privilegiato è stato concepito per sigillare la loro identità digitale, facendola scivolare dal polo della continuità a quello della non continuità. Le domande che salgono sono allora evidenti: come valutare il valore immateriale quando si investe in una forma figurativa? Come catalogarlo? Come conservarlo? Come mostrarlo? Come interagire con? Ancora più, come stabilire i criteri di apprezzamento del suo valore, fino a quello finanziario? Abbiamo, in particolare, bisogno di capire che cosa succede quando le figure digitali allentano il rapporto con il loro equivalente analogico, come si ristruttura l’esperienza estesica che appare improvvisamente insignificante, o altrimenti significante. Se facciamo riferimento agli esempi di cui sopra, la nostra risposta ultima è che l’unica rappresentazione che conta è quella che conduce a una strategia della visibilità non autosufficiente, ma improntata a una ricerca di efficacia in relazione a una dinamica interna alla testualità digitale, e non più orientata al semplice embrayage di uno spettatore esterno. Nel momento in cui accettiamo l’immaginario veicolato 227 dai materiali digitalizzati che rivestono le skin, che le costruiscono, siamo già al centro della scena, in un’immersività paradossalmente facilitata proprio dalla loro distanza rispetto alla referenzialità. Il corpo/l’oggetto rivestito dalla skin è un pretesto mediale, che gestisce la sua azione in direzione di una relazione interattanziale. E la sua funzione è puramente performativa: promette, intimidisce, seduce, seguendo i ruoli che costruiscono la sua identità nella specifica contestualizzazione a cui riferiscono nel contesto del Metaverso: molti corpi fisici potrebbero corrispondervi, o nessuno. I materiali che rendono consistenti le emergenze digitali sono allora la porta d’entrata con cui il Metaverso stesso rifocalizza la relazione tra espressione e contenuto della customer experience, il pattern liquido che riassume esperienze plurime cancellando le marche dell’enunciazione. 5. Insignificanza e rimaterializzazione Si tratta, forse più che di smaterializzazione, di rimaterializzazione. La figura attorializzata è condizione di immersività, il materiale diventa ambiente inteso a produrre effetti di presenza. L’esperienza estetica è ridefinita “sembra collassare ogni distanza fra soggetto e oggetto del sentire e del conoscere” (Corrain, Vannoni 2021, p. 16). Il materiale è significante in funzione dell’esperienza polisensoriale che genera e di cui il suo spettatore partecipa, attivando una modalità sinestesica inedita, perché partecipe della sua costruzione. Come scrive Paul Dourish “rematerialization – not as a move away from the material to create a domain of the virtual but rather a new material foundation for digital experience” (2017, p. 36). La digitalità materiale si sottrae alle delimitazioni delle unità discrete e individua altre opposizioni, inscritte nella matrice del codice di programmazione. Non si chiude in oggetti, abiti, case o altre figure del mondo, ma lascia trascorrere il proprio flusso di pixel e connessioni. È informe formato. È semiotica di una diversa naturalità del mondo, che ha il suo grado zero dentro la rete. Scriveva Algirdas J. Greimas a proposito del contratto di veridizione: “le concept de vraisemblance est nécessairement soumis à un certain relativisme culturel, qu’il correspond, géographiquement et historiquement, à telle ou telle aire culturelle qu’il est possible de circonscrire” (1983, p. 103). La ridefinizione che ne dà il contesto presente interviene direttamente nella qualificazione dei materiali immateriali del digitale, il cui valore di rappresentazione è direttamente proporzionale alla capacità di restituzione dell’effetto di realtà, secondo un concetto di reale che dosa l’intensità del suo effetto sul mondo e sull’ideologia di riferimento. Quello che ci appassiona, è che questa ridefinizione del mondo “naturale” rimette l’accento su una logica dei sensi ancorata in formanti ritmici che precedono l’ancoraggio figurativo. Se è vero che la realtà è un significato che dipende dalla conformità alle regole culturali condivise, ecco che la plausibilità diventa condizione sufficiente per considerare questi “nuovi materiali” digitali come sostituti a pieno titolo di quelli a noi più consueti. In un altro mondo, però. La smaterializzazione distrae il valore dalla qualità materiale e ci obbliga di necessità a riconsiderare che cosa il valore stesso è: ecco perché le contestualizzazioni digitali del gaming, che si fondano sulla verosimiglianza, sono apparse da subito come l’humus naturale in cui permettere a questo nuovo immaginario di espandersi, rovesciando l’assiologia del contratto con i destinatari, verso un riconoscimento del valore che non può più essere descrittivo ma è subito soggettivo e modale. Ci sono due modi, scriveva Deleuze in Logique de la sensation, “di superare la figurazione (cioè insieme l’illustrativo e il narrativo): in direzione della forma astratta oppure verso la Figura” (1981, p. 85). E la Figura, che Deleuze riconosce in Cézanne e Bacon, è la potenza di un’unità originale dei sensi che funziona come un dispositivo ritmico, “il mio io che si apre al mondo e che apre il mondo” (ibidem, p. 99): insignificanza apparente della riconduzione referenziale, sensazionalità e insensato di un’artificialità naturale che ci chiede di rinunciare all’ovvietà del riconoscimento materiale. 228 Bibliografia Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press. Calefato, P., 2021, La moda e il corpo, Roma, Carocci. Ceriani, G., 2018, “Vedere e credere: dalla mutazione dei materiali all’oggetto in presenza”, in Id., Cavalli al galoppo e pomodori, Milano, FrancoAngeli. Corrain, L., Vannoni, M., 2021, Figure dell’immersività, in Carte Semiotiche, Annali 7. Deleuze, G., 1981, Logique de la sensation, Paris, La Différence; trad. it. Logica della sensazione, Macerata, Quodlibet 1995. Dourish, P., 2017, The Stuff of Bits: An Essay on the Materialities of Information, Cambridge (Mass.), MIT Press. Fontanille, J., 1995, Sémiotique du visible. Des mondes de lumière, Paris, PUF. Greimas, A. J., 1983, Du sens II. Essais sémiotiques, Paris, Seuil. Greimas, A. J., Courtès, J., 1986, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage II, Paris, Hachette. Hjelmslev, L., 1943, Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse; trad. it. Fondamenti di teoria del linguaggio, a cura di G. Lepschy, Torino, Einaudi 1987. 229
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La materia dello spirito: ontologia o semiotica?1 Francesco Galofaro Abstract. In the first part of the paper the notion of matter will be considered as purport or mening (meaning) without metaphysical connotations. It will be also meant as inherence, i.e., the orientation of the subject towards a value. Starting from a semiotic work on the purport, in fact, some characteristics become the form of value in view of a subject. The second part will show how different texts, from Paul to Edith Stein through Plutarch, John Damascene, Thomas Aquinas, Teresa of Avila, Leibniz, Florensky and Wittgenstein, construct the metaphysical opposition between matter and spirit by attributing different values to the two terms. Thus, purport precedes matter in the ontological acceptation. The third part summarizes the first two: there is no pre-semiotic or extra-semiotic matter; the discourse about ontology can think of matter only within a semiotics of value. In this frame, the principle of inherence will be considered as an operator who organizes purport (meaning) into a value and a subject for whom such a value is worth through semiotic work. 1. La “materia” come purport Nella traduzione italiana di Hjelmslev (1943) la tripartizione forma/sostanza/materia segue essenzialmente la versione francese (forme/substance/matière). Ne deriva una inevitabile analogia con il concetto aristotelico di synolon, foriero di molte confusioni filosofiche e di derive ontologiche non sempre produttive, oltre all’esclusione della materia dall’indagine della significazione, dato che essa non è conoscibile se non tramite una forma. Proprio da questa esclusione sono sorte in passato serie difficoltà nel dialogo tra semiotica e discipline che hanno molto a che fare col materiale, dalle arti figurative al design, che gli articoli contenuti nel presente volume intendono superare. Dal punto di vista che qui intendiamo sviluppare, l’esclusione della materia sorge entro la ricezione del pensiero di Hjelmslev in ambito francese e italiano, a causa delle connotazioni metafisiche del termine matière; la traduzione inglese di Francis J. Whitfield, approvata dall’autore, usa il termine purport. Secondo il dizionario Merriam-Webster online, purport significa “meaning conveyed, professed, or implied : import; also : substance, gist”. Dunque, purport non è la materia nel senso, ontologico, di “ciò che costituisce tutti i corpi” (Treccani online). Purport è un “argomento in genere, soggetto di cui si tratta in una conversazione, in una conferenza, in un libro, ecc”. È il “succo del discorso”, il “nocciolo della questione”. Sempre secondo il Merriam-Webster online, il verbo to purport originariamente aveva il valore di “significare”; ha acquisito nell’inglese contemporaneo la sfumatura di intendere, implicare; dunque, se ha un qualche genere di interesse filosofico, la c.d. “materia” ha a che vedere con la problematica dell’intenzionalità più che con la metafisica. Forti di questa prospettiva, si ritorni sul noto passo dei fondamenti: 1Questo progetto ha ricevuto finanziamenti dallo European Research Council (ERC) nell’ambito del programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 dell’Unione europea (convenzione di sovvenzione n. 757314). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Così troviamo che le catene: jeg véd det ikke (danese) I do not know (inglese) je ne sais pas (francese) en tiedà (finlandese) naluvara (eschimese) nonostanti le loro differenze, hanno un fattore in comune, cioè la materia, il senso, il pensiero stesso (Hjelmslev 1943, p. 55). Nella versione inglese troviamo: “despite all their differences, have a factor in common, namely the purport, the thought itself” (Hjelmslev 1943, p. 50 della trad. ingl.) . Il traduttore italiano, Giulio Lepschy, è costretto a specificare che per “materia” si intende senso; d’altronde, nella sua introduzione (Hjelmslev 1943, p. xxiv) si legge che il termine danese usato da Hjelmslev è mening. Il termine ricorda anche foneticamente il meaning inglese, ma vale anche come “opinione” e si colora di sfumature cognitive ed ermeneutiche. Il mening, tradotto col termine ontologicamente connotato di “materia”, è stato identificato grossomodo col supporto o con il canale della teoria dell’informazione (l’aria, la carta e tutto ciò che si presta ad essere formato dalla lingua). In questa prospettiva, restava oscuro e misterioso in che senso il pensiero fosse una specie di “supporto” della forma del contenuto. Ma se traduciamo mening con “senso, argomento”, a costituire un mistero non è più cosa sia la materia del piano del contenuto. È anzi piuttosto chiaro che la materia del contenuto è una sorta di presa molare sul senso, anteriormente all’analisi vera e propria; è il gist, il nodo in discussione, il punto di cui si tratta. Il concetto meno intuitivo diviene piuttosto il purport–expression, ossia il senso dell’espressione. In altri termini, non è che Hjelmlsev estrapoli al piano del contenuto una nozione che ricava dallo scarto residuale dall’analisi del piano dell’espressione; è piuttosto il contrario. Una cosa è certa: Hjelmslev non sembra intendere la carta, la tela, in un senso “ontico”: in che modo, infatti, i pixel dello schermo su cui scrivo potrebbero essere intesi come senso dell’espressione? I problemi non finiscono qui: una volta identificata la materia al senso, come intendere, la seguente, notissima affermazione? La materia è dunque in se stessa inaccessibile alla conoscenza, poiché la premessa di ogni conoscenza è un’analisi di qualche tipo; la materia si può conoscere solo attraverso una qualche formazione, e non ha quindi esistenza scientifica indipendente da tale formazione (Hjelmslev 1943, p. 82-83). È chiaro che Hjelmslev parla di una inconoscibilità ad un livello epistemologico, e non gnoseologico, altrimenti il senso di una qualsiasi frase sarebbe inconoscibile; non solo: a rigore egli stesso dovrebbe astenersi dallo scrivere alcunché sulla materia. E invece si spinge fino a darne una definizione formale: la materia è una “classe di variabili che manifestano più di una catena entro più di una sintagmatica, e/o più di un paradigma entro più di una paradigmatica” (Hjelmslev 1943, p. 148). Poiché la sostanza è la variabile in una manifestazione, la materia è una classe di sostanze. È quindi difficile accogliere la proposta di Eco, che – a suo dire, alla luce della semiotica peirceana – propone di identificare la materia ad un unico continuum (Eco 1984, p. 52). Infatti, intendendo la materia in termini di purport, ciò equivarrebbe a dire che esiste un unico senso, un unico argomento. Dalla definizione non si deduce l’esistenza di un’unica classe di sostanze. Dovremmo piuttosto pensare a un pluralismo delle materie e dei sensi, ovvero delle classi di sostanze costruibili entro uno stesso piano (dell’espressione e del contenuto) o tra i piani. 231 1.1. La materia tra differenza e inerenza A mio parere, la materialità del senso messa in gioco dal purport si comprende meglio se la consideriamo non tanto come differenza, con Saussure (non usciremmo infatti dal paradosso della sua inconoscibilità al di fuori della forma) quanto piuttosto come inerenza: il significato per un soggetto è investito in un oggetto che ha valore per lui. Il principio di inerenza, da parte sua (posizione del soggetto), risponde alla nozione fenomenologica di valore, al tipo di valore che giustifica la correlazione fondamentale soggetto-oggetto all’interno della nozione fenomenologica di intenzionalità. Si tratta di plasmare una relazione orientata, vettorializzata da una dinamica che è quella di dare senso, o, se si vuole, di coglierlo (Marsciani 2014, p. 18). Chiaramente, differenza e inerenza si presuppongono come la nozione di costante presuppone la nozione di variabile, senza che vi sia l’una anteriormente all’altra, senza che ciascuna di esse si dia senza l’altra in senso assoluto – a dircelo è anche la definizione hjelmsleviana della materia come classe di variabili. Nella semiotica di Greimas, il valore non può essere sic et simpliciter identificato con il purport. Al contrario, il concetto saussuriano di valore linguistico, “ha permesso l’elaborazione del concetto della forma del contenuto (L. Hjelmslev) e la sua interpretazione come insieme di articolazioni semiche” (Greimas, Courtés 1979, p. 375). Dunque, il valore è forma in quanto è il risultato di un’analisi. Tuttavia, nella brevissima voce che Greimas dedica alla materia, scrive: L. Hjelmslev usa indifferentemente i termini materia o senso applicandoli insieme ai due ‘manifestanti’ del piano del contenuto. La sua preoccupazione di non-impegno metafisico è qui evidente: i semiologi possono dunque scegliere a loro piacimento una semiotica ‘materialista’ o ‘idealista’ (Ibid., p. 209). Ciò che sembra contare, dunque, non è tanto che il valore appartenga a uno dei due piani (nella fattispecie, quello del contenuto), quanto l’attribuzione di valore da parte di un soggetto che fa presa su questo o quell’aspetto della materia, così formandola: dar valore (o far valere) è un’operazione di “ritaglio”; è una “selezione”; è distinguere ed evidenziare. Un esempio può venire dall’oculistica: la leggerezza di un paio d’occhiali è senza dubbio una proprietà formale, relazionale, risultante da una combinazione dello spessore delle lenti e del materiale della montatura. Detto questo, è anche il risultato dell’orientamento del soggetto che attribuisce un valore all’oggetto (inerenza). Nella scelta di un paio d’occhiali, la leggerezza è una tra le proprietà fondamentali che permette l’incorporazione dell’oggetto (si veda anche Marsciani 2008 per quanto riguarda l’incorporazione delle calzature). Il sapere degli oculisti, codificato nella cultura, include le proprietà formali (pratiche, estetiche …) ricavabili, dunque valorizzabili, attraverso il lavoro su una data materia. Allo stesso tempo, nella produzione di un oggetto nuovo si dà una ricerca del valore virtuale che mira a oltrepassare i limiti dell’attuale. Si tratta di un lavoro semiotico esercitato sulla materia per produrre, modificare, sostituire forme dell’espressione e del contenuto e per correlarle (Eco 1975, 3.1.2.). La leggerezza dell’occhiale, in quanto forma del valore, è frutto di un qualche genere di selezione e di ritaglio: esso si effettua sulla materia-purport – il metallo che si lascia formare in aste sottili, il vetro puro che si lascia ritagliare in geometrie prive di difetti. Un senso globale, il purport, si presta a un lavoro semiotico di valorizzazione, di informazione: si presta insomma a divenire forma del valore. Nella prossima sezione, mi occuperò di un caso studio importante: quello dell’opposizione formale tra materia e spirito. Nonostante le diverse epoche abbiano costruito la relazione tra i due valori in modi molto diversi, la nozione di purport e il principio di inerenza permetteranno di cogliere fenomeni comuni e tendenze di fondo, rivelandosi – almeno spero – piuttosto utili nella pratica d’analisi 232 2. La materia e lo spirito Materia e spirito sono in primo luogo due valori semantici che caratterizzano il discorso religioso occidentale, in larga parte cristiano, nella misura in cui esso la eredita l’opposizione forma/materia dalla filosofia greca e l’assimila all’opposizione tra anima e corpo o tra spirito e carne. Tale opposizione risulta dall’analisi del linguaggio - oggetto del discorso religioso e non va confusa con quella tra forma, sostanza e materia che caratterizza il metalinguaggio semiotico. Per evitare confusioni, d’ora in avanti riserviamo il termine ‘materia’ al linguaggio oggetto e il termine purport o mening al metalinguaggio. Lo scopo che mi propongo, in primo luogo, non è una ricostruzione delle complesse vicende e incarnazioni dello spirito attraverso i millenni, quanto ridurre questa complessità a un numero finito di opposizioni che normalmente ricorrono nei testi. Come vedremo, infatti, tra materia e spirito si sono date per lo meno le seguenti relazioni: 1. Antonimia: spirito e materia sono contrari; 2. Opposizione privativa: la materia è assenza di forma (spirito) e viceversa; 3. Inclusione: lo spirito è contenuto nella materia; 4. Partecipazione: lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva “materia”, la quale lo comprende al proprio interno. In ciascun caso è possibile ricostruire diversi investimenti forici che trasformano tali opposizioni in assiologie. Qui di seguito presenterò i relativi esempi e cercherò, attraverso il principio di inerenza, di render conto del purport di partenza. 2.1. La carne e lo spirito Generalizzando, nel cristianesimo si assiste a una difficile convivenza tra due cosmologie più o meno implicite: la prima considera la materia come un male da cui liberarsi, rasentando a tratti lo gnosticismo; la seconda la vede come parte del creato, e dunque non può associarle un valore del tutto negativo. Innanzitutto occorre sottolineare come l’opposizione spirito-materia non sia familiare all’ebraismo: L’imitatio Dei non divide nell’ebraismo l’essere umano in due sfere distinte, una corporale e una spirituale, bensì va perseguita con tutto il néfesh, con l’integralità della persona. Anche il corpo dunque va santificato, dalla nascita (attraverso la circoncisione) fino alla morte (con le pratiche di cura del corpo del defunto, che non va dissacrato né distrutto, per esempio con la cremazione) (Volli 2022, p. 29). L’antonimia spirito/carne (sarx) organizza l’assiologia della lettera di Paolo ai Romani: Infatti ciò che era impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne, perché la giustizia della legge si adempisse in noi, che non camminiamo secondo la carne ma secondo lo Spirito (Rm 8, 3-4). La sintesi tra pensiero ebraico e greco costituita da tale opposizione è originale (Volli 2022, p. 16). Secondo il commento della TOB (1988, pp. 2590 - 2591, 2571-2, n. g), il passo abbonda di relazioni con altre lettere paoline mentre è singolarmente privo di riferimenti intertestuali ai vangeli. Ad essere precisi, l’antonimia spirito/carne non ha un valore assoluto nemmeno in Paolo: “carne” può valere anche come “umanità”, la quale non può essere giustificata attraverso le opere (Rm 3, 20) oppure come debolezza umana incline al peccato (Rm 7, 25). Nel passo riportato sopra, tuttavia, essa ha un valore di norma etica (vivere secondo la carne/secondo lo spirito). “Carne” è l’economia mosaica (BDJ 233 1998, p. 2668): non si può pensare di costringere Dio a salvarci rispettando formalmente l’insieme di norme dell’antico testamento; dopo la resurrezione di Cristo, le opere si compiono con la forza dello Spirito. La lettera è indirizzata alla comunità romana e, come è noto, si propone di prevenire divisioni tra i convertiti di origine ebraica e pagana. Chi ha provato a ricostruire l’insegnamento orale di Cristo attraverso le tracce che esso lascia negli scritti di Paolo riscontra piuttosto una convergenza tra Rm 8, 26 e la nozione gesuana di Spirito come soccorritore (Walt 2013, pp. 348 – 350). È innegabile l’assonanza con Mt 26, 41: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole”. Tuttavia, nelle parole che Gesù pronuncia sul monte degli ulivi, in un momento di angoscia, non risuona una vera antonimia. Anche la TOB (1988, p. 2307, n. w) riconosce in Gesù un insegnamento più vicino ad alcuni testi ebraici dell’epoca, secondo i quali “Dio ha messo nell’uomo uno spirito orientato verso il bene, ma l’uomo è nello stesso tempo tutto carne in quanto è sottomesso al potere del peccato”: avremmo insomma un’opposizione partecipativa (la parte vs. il tutto che la comprende). Anche negli scritti giovannei – Gv 1, 14: et verbum caro factum est – la carne rappresenta “la natura umana con le sue possibilità e i suoi limiti, e, più ampiamente l’esistenza terrena senza alcuna sfumatura peggiorativa” (TOB 1988, p. 2424, n. p). Insomma, il punto di vista di Paolo, secondo cui carne e spirito sono antonimi, è originale. Del resto, il suo stile di scrittura era incline alla figura retorica dell’antitesi (Walt 2013, p. 317). Non sarebbe corretto, tuttavia, ascrivere genericamente al pensiero greco che risuona in Paolo la svalutazione della materia. Ad esempio, in pieno medio-platonismo, idea e materia sono entrambe valorizzate positivamente: La natura migliore, quella più divina, si compone di tre parti, ossia il principio intelligibile, la materia, e il risultato della loro unione, che i Greci chiamano cosmo. Platone usa definire il principio intelligibile con i termini idea, modello e padre; la materia con i termini madre, nutrice, sede e anche luogo di nascita; e il risultato della loro unione con i termini di prole e creazione (Plutarco 1985, p. 122). Nel passo citato, Plutarco interpreta il Timeo di Platone sottolineando soprattutto la metafora matrimoniale e generativa tra idea e materia. Proprio in quanto antonimi, idea e materia danno vita al cosmo, termine complesso che li comprende entrambi, e non sembrano opposte assiologicamente. Plutarco (Ivi) divinizza la relazione forma materia } cosmo stabilendo un parallelo con gli dèi egizi Osiride (origine), Iside (ricezione) e Horos (compiutezza). L’identificazione della materia con una sede ci mostra come la presunta antonimia tra materia e forma possa essere riarticolata come rapporto di inclusione, contenitore/contenuto, su cui ritornerò nel prossimo paragrafo2. Il male non coincide di per sé con la materia; per Plutarco esso è piuttosto l’effetto di un’anima malvagia, titanica, irrazionale, volubile, insita nella materia. Tale anima è impersonata dal personaggio di Tifone che uccide Osiride (cfr. Reale, 2018, pp. 1847, 1850, 1852-1854). Detto questo, l’opposizione paolina tra materia e spirito, entro cui la prima è valorizzata negativamente e il secondo positivamente, organizza ancora di fatto la nostra cultura sopravvivendo ai fenomeni di secolarizzazione connessi alla nascita del capitalismo (Berzano 2017). Si ritrova, ad esempio, in un 2A una sensibilità contemporanea, tuttavia, non sfugge il fatto che nella cultura greca il principio maschile è generatore, mentre quello femminile è ridotto a mero contenitore (Pazé 2023, pp. 101 – 102). Si potrebbe definire una sorta di utero in comodato d’uso. 234 filosofo laico come Ludwig Wittgenstein, che la attribuisce a Tolstoj (1881) nel proprio diario segreto, scritto in codice durante la Prima guerra mondiale: 12.9.’14 Le notizie diventano sempre peggiori. Stanotte ci sarà uno stato di allerta generale. Lavoro un po’ di più o un poco meno ogni giorno, e mi sento abbastanza ottimista. Mi ripeto sempre le parole di Tolstoj: “L’uomo è impotente nella carne, ma libero grazie allo spirito”. Possa lo spirito essere in me. Nel pomeriggio il sottotenente ha udito dei colpi nelle vicinanze. Ero molto agitato. Probabilmente verremo posti in stato di allarme. Come mi comporterò quando si comincerà a sparare? Non ho paura di essere ucciso, ma di non compiere fino in fondo il mio dovere. Dio mi dia forza! Amen. Amen. Amen (Wittgenstein 2021, p. 50). Nella lettura di Wittgenstein, che adatta Tolstoj alla propria angosciosa esperienza esistenziale, lo Spirito è il destinante che consente la liberazione dell’uomo da uno stato miserabile caratterizzato come un paradosso modale (dover e non poter fare). Lo Spirito e Dio dotano l’uomo di un poter fare. Il valore verso cui si orienta Wittgenstein è il compimento del proprio dovere di filosofo e ricercatore, che può essere interrotto in qualsiasi momento dalla morte. Quale purport è in gioco qui? Le condizioni estreme di pericolo che caratterizzano l’esperienza raccontata nei diari lasciano emergere immagini quali sirene d’allarme, fucilate nel buio, panico tra i soldati sotto attacco. Tale purport viene riorganizzato grazie all’opposizione formale materia/spirito, fino a venire valorizzato nonostante tutto dal credente nella misura in cui egli è in grado di ri-categorizzarlo, attraverso un lavoro semiotico, come “prova”. 2.2. Tomaso d’Aquino tra ontologia e semiotica Come si è detto, il discorso filosofico non può trattare il tema ontologico della materia se prima essa non è considerata come purport. Questo appare chiaro quando un testo filosofico assegna un valore forico alla materia. Solitamente, ciò avviene senza che chi scrive se ne mostri consapevole; tuttavia, Tomaso d’Aquino (De spiritualibus creaturis) presenta il problema in forma esplicita. Tomaso sottolinea lo scarso consenso dei teologi nel considerare la sostanza spirituale come composta da materia e forma. Da un lato, infatti, Dionigi Areopagita pensa gli esseri spirituali come il grado di perfezione più prossimo a Dio, ovvero all’atto puro privo di potenza, puramente intellettivo, senza bisogno di quella materia che è imperfetta, incompletissima inter omnia entia. D’altronde, ogni forma creata è limitata e definita attraverso la materia; dunque non vi sono sostanze create prive di materia: questa almeno era l’opinione corrente nel XIII secolo, sulla scorta di Avicebrol, contro la quale argomenta Tomaso. Al di là del retroterra filosofico di Tomaso e della sua personale soluzione al problema, per la quale si può rimandare a Sofia Vanni Rovighi (1973, pp. 50-52), egli nota come il dibattito filosofico metta in gioco due sensi distinti del termine “materia”, spesso confusi: “ad huius veritatis inquisitionem, ne in ambiguo procedamus, considerandum est quid nomine materiae significetur”. In senso proprio e generalmente accettato, la “materia prima” è identificata come pura potenza, senza delimitazioni, incompleta, ma in grado di venire definita dalla forma. In questo primo senso, la materia prima è definita negativamente, è privazione di forma; d’altro canto vi è un secondo senso, meno comune secondo Tomaso, per il quale ogni potenza è chiamata materia, ogni atto è chiamato forma, e ogni atto presuppone la propria potenza. In questo secondo senso, la “materia” è solo il terminale di una relazione che la precede, ovvero l’esistenza. Dal punto di vista che qui mi interessa sviluppare, la “materia” presenta nei discorsi teologici due distinti purport-mening. Il principio di inerenza aiuta a comprendere come ciascuno di essi sia frutto di una relazione intenzionale tra la materia e un soggetto per la quale ad essa può essere attribuito un valore, 235 positivo o negativo. Il soggetto può attribuire un valore alla perfezione: in tal caso, la materia è imperfetta (priva di perfezione) e lo spirito è privo di tale privazione. In alternativa, il valore è attribuito alla creazione, nel qual caso lo spirito è ricevuto dalla materia per venire all’esistenza: si stabilisce allora tra i due una relazione di inclusione. In questa seconda accezione, la materia non è più l’antitesi dello spirito, perché è in grado di riceverlo e ne è la sede. 2.3. Corpo e spirito nell’ascesi La questione di Tomaso non era puramente speculativa, ma coinvolgeva, da un punto di vista sociosemiotico, diverse forme di vita circoscritte dal discorso cristiano. Come si è detto, infatti, l’opposizione tra forma e materia sono centrali in alcuni sottogeneri specifici del discorso religioso quali l’ascesi o la mistica. Per esempio, le agiografie abbondano di digiuni strenui, di mistiche in grado di nutrirsi per anni di una sola ostia al giorno; in realtà i consigli dei padri del deserto ai loro figli spirituali erano molto chiari sulla necessità di non causare danni irreparabili al corpo, creato da Dio: Uno dei padri raccontò che vi era alle Celle un anziano vestito di stuoia, che lavorava con molto zelo. Un giorno che si era recato presso l’abate Ammonas, questi, vedendolo rivestito di quella stuoia, gli disse: “Ciò non ti serve a niente”. L’anziano gli confidò: “Ho tre pensieri che mi tormentano: il primo mi spinge a ritirarmi in qualche parte del deserto; il secondo a raggiungere paesi stranieri dove nessuno mi conosca; il terzo a rinchiudermi in una cella dove nessuno mi possa vedere e a mangiare solo ogni due giorni”. L’abate Ammonas gli rispose: “Nessuna di queste tre cose è conveniente per te; continua piuttosto a vivere nella tua cella, mangia un poco ogni giorno, custodisci sempre nel tuo cuore la parola del pubblicano che si legge nel Vangelo, e potrai essere salvo (Campo, Draghi 1975, Ammonas, 4). Se ci si chiede quale sia qui il purport in gioco, ci si imbatte nel grande tema dell’accesso allo spirito attraverso il corpo. L’inerenza chiama in causa il valore perseguito dal soggetto, rappresentato dal perfezionamento spirituale. Il racconto contrappone due opposte valorizzazioni foriche: una radicale mortificazione del corpo o una rinuncia moderata, metodica e costante. In termini di semiotica narrativa, nell’ascetismo estremo il valore di base di base (la salvezza) è sostituto da valori d’uso (estraniamento, solitudine, digiuno), sanzionati negativamente dal Destinante incarnato da Ammonas. La moderazione e la metodicità nella rinuncia, suggerite dall’abate Ammonas, ricordano all’anziano che l’atletismo spirituale non deve in nessun caso sostituirsi al fine della vita eremitica, poiché in questo modo la vanagloria (quella del fariseo cui fa riferimento il passo evangelico citato) impedisce la salvezza. 2.4. La materia dell’icona L’antonimia paolina non toglie nulla al mistero dell’incarnazione: se la materia è così vile, come ha potuto Dio farsi uomo? Nell’VIII secolo, Giovanni Damasceno si pone proprio questa domanda nel difendere le icone. Disprezzata dagli iconoclasti, che egli paragona per questo ai manichei, la materia ha purtuttavia un valore. Non si tratta del sacro: nell’immagine si venera il prototipo che essa raffigura, la trasmissione del sacro è una proprietà formale della relazione tra tipo e occorrenza. Il valore della materia consiste piuttosto nella sua capacità di ospitare, di racchiudere questo valore: […] onoro e tratto con venerazione anche tutta l’altra materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina. O forse non è materia il legno della croce, esso infinitamente felice e beato? Non è materia il monte venerabile e santo, il luogo del Golgota? Non è materia la roccia donatrice e apportatrice di vita, tomba santa, fonte della nostra resurrezione? 236 Non è materia l’inchiostro ed il santissimo libro dei vangeli? Non è materia la tavola vivificante che prepara per noi il pane della vita? Non sono materia l’oro e l’argento con cui si approntano croci, patene e calici? E prima di tutte queste cose, non sono materia il corpo ed il sangue del Signore? E quindi, elimina il culto e la venerazione di tutte queste cose! Oppure concedi alla tradizione della Chiesa anche la venerazione delle immagini santificate dal nome di Dio e degli amici di Dio, e per questo motivo adombrate dalla grazia dello Spirito Santo! (Giovanni Damasceno 1983, pp. 46-47). Anche in questo caso, si parte da un purport consistente in roccia, legno, inchiostro, oro, corpo e sangue. Per il principio di inerenza, essi assumono un valore spirituale per un soggetto credente. Si immagini un pellegrino, per il quale i paesaggi rocciosi che attraversa sono solidi e immutabili come la verità che egli insegue, pur avendola già dentro di sé. Nel caso presente, la relazione tra spirito (qui assimilato alla forma) e materia non è più antonimica; è piuttosto una relazione di complementarità, la medesima che si dà tra contenitore e contenuto. Questa relazione si trova ancora nel XX secolo in Florenskij: Nella consistenza del colore, nel modo di applicarlo sulla superficie corrispettiva, nella struttura meccanica e fisica delle superfici stesse, nella natura chimica e fisica della materia che lega i colori, nella composizione e nella consistenza dei solventi e dei colori stessi, nelle lacche o altre sostanze fissanti dell’opera dipinta e in altre sue “cause materiali”, già è espressa direttamente anche quella metafisica, quella profonda percezione del mondo che la volontà creativa dell’artista cerca di esprimere attraverso la data opera come insieme unico (Florenskij 2008, p. 82). Poiché l’insieme di queste cause materiali non è una scelta dell’artista, ma si colloca entro la cultura di cui egli fa parte, Florenskij dichiara che “la causa materiale dell’opera esprime il senso di un’epoca perfino più dello stile in quanto carattere comune delle forme in questo preferite” (ivi). 2.5. Etnosemiotica e materia Mi sono imbattuto in un caso interessante in cui le proprietà del materiale manifestano il senso spirituale del rito osservato. Nella Chiesa ortodossa polacca, in alcune occasioni speciali, i fedeli si riuniscono in cerchio intorno al celebrante. A turno si inchinano mentre il presbitero pone loro sul capo una Bibbia. Ho avuto occasione di assistere al rito a Varsavia, nella Cattedrale di Santa Maria Maddalena, durante una cerimonia dei vespri, in ottobre 2022. Ricorrendo ai codici della propria cultura, un osservatore cattolico può interpretar il rito come una sorta di benedizione. Inoltre, un semiotico potrebbe formulare l’ipotesi che un qualche valore “sacro” si trasmetta grazie al contatto con il libro, per contiguità, come avviene nei segni indicali di Peirce. Tuttavia, tale descrizione non è ancora sufficientemente adeguata. Infatti, il significato simbolico è manifestato da una qualità materiale del volume: la pesantezza. “Al fedele è richiesto di farsi supporto della fede, e il rito è appagante per coloro che sentono questo bisogno”, mi ha detto il mio informatore, un fedele ortodosso. Vi è dunque in gioco il purport rappresentato da una qualità (la pesantezza) che viene rivalorizzata per qualcuno (il fedele), e dunque l’inerenza tra il valore e un soggetto per il quale tale valore vale3. 3 Si intravede qui una direzione di ricerca ulteriore. Infatti, è proprio l’opposizione tra forma e sostanza in Hjelmslev ad essere partecipativa (cfr. Zinna 2001). Come è noto, Deleuze fu un interprete di Hjelmslev. È possibile che la piega rappresenti il lavoro semiotico applicato al purport-mening per produrre la forma? Quanto l’attenzione di Deleuze alla doppia piegatura si deve al suo interesse verso la biplanarità delle semiotiche hjelmsleviane? Purtroppo, un tentativo di rispondere qui alla questione mi porterebbe lontano dal tema del presente lavoro. 237 2.6. La materia della mistica nel XVII secolo Un’alternativa più radicale all’opposizione antonimica tra materia e spirito si trova nella cultura barocca. La spiritualità del barocco in genere è carnale e sensuale: coincide con l’apoteosi dei corpi dei santi nelle cupole delle chiese, il culto degli organi (il sacro cuore di Gesù), la coprofagia di Santa Margherita Maria Alacoque. Scrive Deleuze: Il barocco diversifica le pieghe, seguendo due direzioni, due infiniti, come se l’infinito stesso si dislocasse su due piani: i ripiegamenti della materia e le pieghe nell’anima. In basso, la materia è ammassata in un primo genere di pieghe, ed è poi organizzata in un secondo genere di pieghe, nella misura in cui le sue diverse parti costituiscono altrettanti organi ‘piegati in maniera differente e più o meno sviluppati’. In alto, invece, l’anima canta la gloria di Dio, percorrendo le sue stesse pieghe senza mai giungere a svilupparle interamente, ‘poiché esse vanno all’infinito’ (Deleuze 1988, p. 5). Nell’interpretazione deleuziana, ispirata a Leibniz, lo spirito risulta da un ripiegamento formale di secondo grado della materia, che dapprima si fa corpo (inteso come un insieme di invaginazioni e cavità), e in seguito sviluppa una seconda interiorità psichica. Quello barocco è un materialismo spirituale, nella misura in cui abolisce la relazione antonimica tra materia e spirito accentuandone il carattere di opposizione partecipativa (Hjelmslev 1937). Lo spirito è il termine intensivo che si oppone alla categoria estensiva delle “materie ripiegate”, la quale lo comprende al proprio interno4. Leibniz è un autore di ambito protestante; la semisfera cattolica manterrà una distinzione più netta tra materia e spirito. Nonostante ciò, vi è almeno un ambito in cui l’incarnazione dello spirito tende ad abolire la dicotomia spirito/materia, ed è la mistica. Come nota De Certeau, alla fine del Cinquecento la parola “mistica” cessa di essa un aggettivo (teologia mistica) per divenire il nome di una disciplina sperimentale che fa del corpo un laboratorio mirato alla conoscenza del divino. Si tratta di una reazione ad una crisi di credibilità del discorso teologico tradizionale ereditato dalla scolastica, e di un recupero dell’inclusione della spiritualità nella materia. [...] depuis que la culture européenne ne se définit plus comme chrétienne, c’est-à-dire depuis le XVIe ou le XVIIe siècle, on ne désigne plus comme mystique le mode d’une «sagesse» élevée à la pleine reconnaissance du mystère déjà vécu et annoncé en des croyances communes, mais une connaissance expérimentale qui s’est lentement détachée de la théologie traditionnelle ou des institutions ecclésiales et qui se caractérise par la conscience, acquise ou reçue, d’une passivité comblante où le moi se perd en Dieu (De Certeau 1975). Sempre secondo De Certeau, alla pretesa indicibilità del senso mistico si accompagna la sua manifestazione psicosomatica. Anche in questo caso, come in quello dell’antonimia spirito/materia, non si tratta di una opposizione tralatizia: la concezione della mistica sviluppatasi nel corso del XVII secolo negli scritti di San Giovanni della Croce diviene rapidamente il modello per eccellenza del sapere cattolico sulla mistica, e in questo modo è ereditato dalla cultura del XX secolo (Da Pietrelcina 1984; Wojtyła 2003). Non si tratta di una opposizione del tipo contenitore/contenuto: come abbiamo detto, l’interiorità che risulta dalla piega di secondo grado è spirito. A entrare nello spirito, ovvero in se stessa, è l’anima: Può darsi, figlie mie, che ciò vi sembri una stranezza [...] Esiste, in qualche modo, un’evidente differenza fra l’anima e lo spirito, pur essendo essi una cosa sola Si percepisce una divisione cos sottile, che a volte l’uno sembra operare in un senso e l’altra in un altro, a seconda di come decide il Signore (Teresa d’Avila 1577, p. 217). 4 Rinvio la discussione dei problemi metodologici relativi all’osservazione partecipante a una successiva pubblicazione. 238 Anche Edith Stein avverte il contrasto tra l’impostazione scolastica e la spiritualità moderna rappresentata da Teresa D’Avila, tentando una conciliazione in chiave fenomenologica: Noi abbiamo cercato di risolvere quest’enigma distinguendo da un lato la differenza contenutistica esistente fra spirito e materia (che riempie lo spazio) considerati quali diverse categorie dell’essere [...] e dall’altro la distinzione formale esistente fra corpo, anima, spirito, stando alla quale l’anima è l’elemento recondito, ancora informe, mentre lo spirito ne è la vita palese, liberamente fluente (Stein 1950, p. 130). Come vediamo, per risolvere il problema ontologico Edith Stein deve distinguere diverse accezioni in un medesimo purport (lo “spirito”), confermando il fatto che la nozione semiotica di purport è condizione di possibilità del discorso ontologico. Al di là della soluzione proposta, è l’interiorità risultante dalla doppia piegatura descritta da Deleuze a divenire sede per elezione della ricerca del divino. Il purport consta di cavità, antri, anfratti corporei, che il fedele ri-valorizza, per il principio di inerenza, in quanto coincidenti con lo spirito. 3. Discussione Come abbiamo visto, le rispettive proprietà “ontologiche” della materia e dello spirito si producono entro un genere di discorso che ne costruisce la relazione: antonimica, privativa, di inclusione o di partecipazione. Secondo il principio di inerenza, i poli della relazione vengono diversamente assiologizzati a seconda di una relazione di carattere intenzionale per la quale il soggetto attribuisce un valore ad alcune caratteristiche che seleziona entro un insieme di virtualità presenti in maniera indistinta nel purport. Non tutti i filosofi si avvedono del fatto che la concezione metafisica della materia che vanno sviluppando dipende dal significato che le attribuiscono (purport-mening); lo prova l’esempio di Tomaso, il quale, al contrario, si mostra consapevole della questione. La materia-purport è il campo d’esercizio di un ritaglio dal quale emerge la forma del valore, per effetto del lavoro di quel soggetto per il quale tale valore vale. Tuttavia, ciò comporta un problema. Nella prospettiva strutturalista, adottata da Hjelmslev e alla quale ci siamo rifatti, non può che essere la relazione di inerenza a porre i propri terminali, a operare sul purport perché ne emergano non solo una forma del valore, ma anche una forma-soggetto per il quale tale valore vale. D’altronde, il discorso teologico non si limita ad attribuire valore a Dio ma produce al contempo anche il teologo che ne scrive; allo stesso modo, il filosofo non preesiste all’ontologia, né il semiotico al senso. 3.1. Il monismo e i suoi rischi Dagli anni Settanta in poi all’interno del post-strutturalismo sono stati pubblicati diversi lavori in cui il confine semio-ontologico non è ben chiaro: vi sarebbe una materia pre-semiotica, la quale si auto- organizza articolandosi e diviene semiotica. Vi è una confusione non del tutto chiarita sui principi che emergono dallo studio morfodinamico della forma: una confusione mai del tutto chiarita tra morfogenesi e ontogenesi. In analogia con il discorso religioso, per i tentativi di fondare la semiotica sul monismo ontologico vale qualcosa di simile a ciò che Leone scrive dell’ascesi: [...] dal punto di vista semiotico l’ascesi è fondamentalmente racconto del sogno impossibile di ritornare a uno stadio della generazione del senso ove le differenze che lo producono si annullino 239 nell’unità assoluta, o nell’indistinzione (sogno impossibile perché lì dove le differenze si annullano non vi è prensione possibile del senso) (Leone 2013). Inoltre, optare per un modello che faccia discendere la semiotica da una nozione ontologica di materia è a mio parere un passaggio scarsamente motivato: non si vede perché fondare la semiotica sull’ontologia; non si ravvisano nell’oggetto d’analisi motivazioni sufficienti; soprattutto, non si vedono le conseguenze della scelta di questo fondamento per quanto riguarda gli sviluppi della disciplina. Per un dibattito sull’argomento rimando ad Amoroso et al. (2016). Inoltre, le descrizioni del passaggio da un monismo pre-semiotico all’articolazione semiotica si collocano in un ambito prettamente ontologico soltanto in apparenza; come abbiamo visto, l’attribuzione stessa di un qualche valore al monismo può accadere solo a valle di una semiotica del valore. È ben noto che Heidegger, dopo essersi posto, in Essere e tempo, il problema del senso dell’esserci dell’essere, non è riuscito nell’intento di analizzare il senso dell’essere in generale per un limite linguistico: La terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata. Qui il tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica (Heidegger 1976, p. 94). Heidegger diviene consapevole del fatto che il linguaggio non è “trasparente” nel porre in rapporto l’individuo e il reale, e conclude che “il linguaggio è la casa dell’essere” (ibid., p. 44). Vorrei prenderlo alla lettera: qualsiasi ontologia è il risultato di un lavoro che il discorso filosofico compie sui propri concetti non solo attraverso una lingua tecnica ma soprattutto entro una semiotica del valore. Nulla ci obbliga considerare il discorso filosofico come un ambito sottratto all’analisi semiotica, la quale potrà anzi contribuire a chiarirlo (Marrone 2022). Il giudizio di valore su quel che è “reale” e “non-reale” esita dal senso che il mondo ha per noi. Dunque: dapprima abbiamo un discorso filosofico il cui purport- mening consiste nel ricavare valore dalla “materia” per costruire un fondamento ontologico; in seguito, il discorso filosofico ancora a tale principio primo la significazione stessa. Del resto, i principi di qualunque insieme d’assiomi sono sempre scelti precisamente sulla base dei teoremi che da essi si intende dimostrare. 3.2. Per concludere La nozione di materia- purport che ho difeso fin qui assimila la materia al senso e ne fa qualcosa di totalmente interno alla semiotica. Naturalmente, se proprio un principio primo generativo del cosmo semiotico ci dev’essere, ci si può chiedere per quale motivo esso debba essere una materia differenziabile e non la differenza stessa, ad esempio. La differenza è in grado di produrre, per differenza, anche l’identità, in quanto la seconda è differente dalla prima. Non vale il contrario: non è possibile produrre la differenza a partire dall’identità per identità, perché se qualcosa è identico all’identità esso è proprio l’identità. Non si tratta solo di un sofisma: se consideriamo D e I alla stregua di operatori, e definiamo I come l’operatore che lascia inalterato il suo ingresso, possiamo scrivere 𝐷2 = 𝐼 240 per tradurre il fatto che la differenza produce l’identità attraverso la differenza e 𝐼2 = 𝐼 per rappresentare il fatto che l’identità, applicata a se stessa, restituisce l’identità. Anche il principio di inerenza (In) andrebbe considerato come un operatore che, applicato alla materia (M), fornisce come risultato la giunzione tra un Valore (Ov) e un Soggetto (S) per il quale il valore vale: 𝐼𝑛𝑀 = 𝑆𝑂𝑣 In questo modo, non siamo costretti a postulare un Soggetto originario, il quale è un prodotto dell’applicazione del principio di inerenza al purport. In analogia con la semiotica testuale, per la quale il soggetto non è un elemento, ma il prodotto dell’articolazione della categoria proto-attanziale, i soggetti dell’enunciazione sono il prodotto di una articolazione della materia a partire dal principio di inerenza. Come si è detto sopra, è precisamente tale processo a restituire “materia formata” (sostanza) attraverso un lavoro semiotico (Eco 1975) che fa emergere la forma-valore. 241 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Amoroso, P., De Fazio, G., Giannini, R., Lucatti, E., 2015, Corpo, linguaggio e senso: tra semiotica e filosofia, Bologna, Esculapio. Berzano, L., 2017, Quarta secolarizzazione: autonomia degli stili, Udine, Mimesis. BDJ, 1998, La Bible de Jérusalem, Paris, Les Éditions du Cerf; ed. it. 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Bodies of the Future. Il farsi senso della materia Francesco Piluso, Francesco Pelusi Abstract. In Crimes of the Future (2022), David Cronenberg comes back to the body-horror genre, by shedding light on the body and its deformations as symptoms of an ontological degeneration of the human subject. The human body is constantly involved in a process of hybridization with technologies that strongly alter its physical traits and undermine its aesthetic abilities. This double-logic of extension and amputation of the body by technological means is reproduced by the thematic figure of the surgery that, in a world deprived of any aesthetic and pathemic dimension, becomes a key fetishist form and practice of sense-making in any social domain, from art to sex. To these surgical operations corresponds an attempt of semiurgical rewriting, aimed to give a meaning to the “internal chaos” affecting the human body. We assist to a constant tension between such a human necessity of semiotic and biopolitical control of the body and the inexorable advance of a matter that exceeds its role of static base for signification and, at the same time, is no longer reducible to a pre-signified substance. The analysis of the movie serves as a premise for a broader semiotic reflection and theoretical hypothesis: the reconfiguration of the category /nature vs. (techno)culture/ in a circularity that questions the assiological priority assumed by nature in western metaphysics, by giving credits to a body matter that has acquired the capacity of becoming sense in autonomous way. Il corpo è il grande trasformatore, traduttore, luogo delle trasposizioni, dei trasferimenti; corpo come cerniera, come relais, come convertitore, come luogo dei rovesciamenti e delle metamorfosi. Francesco Marsciani, Minima Semiotica 1. Il ritorno al body horror di Cronenberg: le mutazioni tecno-materiche del corpo Crimes of the Future, ultimo film di David Cronenberg presentato al festival di Cannes del 2022, è stato annunciato come ritorno del regista al genere di cui viene considerato padre fondatore: il body horror1. La filmografia del regista canadese, infatti, è segnata da numerosi esempi cinematografici propriamente ascrivibili al genere come Il demone sotto la pelle (1975); Rabid (1977); Scanners (1981); Videodrome (1983); La Mosca (1986) e Crash (1996). Film in cui le deformità tipiche del body horror costituiscono un meccanismo narrativo centrale, diversamente da altre pellicole del regista – in cui le 1 Si segnala che nella precedente edizione del Festival di Cannes (2021) la palma d’oro è stata assegnata a Titane di Julia Docournau. Film ascrivibile al genere del body horror definito dalla critica come erede di Crash di David Cronenberg del 1996. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). mutazioni corporee assumono un carattere di semplice tematizzazione – che tuttavia si presentano in continuità con una riflessione di più ampia portata sulla relazione tra linguaggio e materia 2. L’interesse per questo film – in relazione all’occasione per cui questo contributo nasce 3 – è legato alla problematizzazione che, in linea con i topoi estetico-narrativi di questo sottogenere dell’horror, propone della nozione di “materia” e di quelle di “corpo” e “soggetto” che, a partire dalla stabilità ontologica di questa, assumono caratteri di chiusura e coerenza 4. Le deformazioni fisiche – mutazioni genetiche, malattie deturpanti e mutilazioni – presenti in questo genere cinematografico attualizzano, infatti, una prospettiva del soggetto “in metamorfosi” (Braidotti 2006) che mette in crisi un’ontologia dell’umano stabilizzata sull’indiscutibilità unificatrice del concetto di “natura” che si attualizza a partire dalla stabilità materica del corpo, arrivando a definirne la mostruosità (Coen 1996) e la relazione problematica che questo intrattiene con definizioni identitarie comprese quelle di genere (Grant 1996). A mettere in questione questa funzione stabilizzatrice anche la rappresentazione in questi film del complesso rapporto che l’uomo intrattiene con la tecnologia. Un rapporto con la macchina che, nella filmografia di Cronenberg, assume diverse declinazioni passando da una relazione di ibridazione in parte inspiegata tra corpo organico e materiale inorganico – come in Videodrome (1983) – o resa in maniera più diretta e violenta – come in Crash (1996) – ad un rapporto più sofisticato e intimo in Crimes of the Future (2022). Nel film preso in analisi in questo contributo viene presentata, infatti, una tecnologia che si insinua nella quotidianità dell’umano accompagnandolo nelle sue attività essenziali, come il mangiare e il dormire e, come vedremo, in quelle più intime come il sesso. Si assiste dunque a una penetrazione della tecnologia nel fisiologico che ne ridefinisce i limiti e ne riorganizza le coerenze manifestando l’inadeguatezza di una prospettiva che oppone in maniera discreta le dicotomie “natura-cultura”, “organico-inorganico” e “soggetto-oggetto”. Al contrario, la complessità di un’epoca postumana (Braidotti 2013) – che mette in crisi il rappresentazionismo identitario dell’umano (Butler 1990) – evidenzia la circolarità che tiene insieme in maniera dialettica (Morin 2001) i binarismi – orientati assiologicamente – tipici della metafisica occidentale (Derrida 1967). Lo statuto identitario dell’umano – anche nella sua dimensione biologica – viene riarticolato in un futuro imprecisato, quello di Crimes of the Future, dove non esistono più dolore fisico e malattie infettive. I protagonisti del film, Saul Tencer (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), sono una coppia di artisti di fama mondiale che si esibisce in pubblico in una performance in cui i nuovi organi di origine tumorale prodotti dal corpo di Tencer – affetto da Accelerated Evolution Syndorme – vengono asportati chirurgicamente. Una pratica che – sterilizzata del portato disforico del dolore fisico – viene livellata alla performance sessuale non riproduttiva. Assistiamo nel film dunque a una riarticolazione dell’umano che opera su due livelli: da un lato le mutazioni corporee di Saul che dislocano l’agentività – e l’intenzionalità – dal “soggetto-persona” verso un “corpo-materia” che, rendendosi autonomo nel proprio divenire, si fa soggetto; dall’altro un’evoluzione dei dispositivi tecnologici che arrivano a mediare anche tutte quelle attività – immediate – che gli esseri umani condividono con gli altri esseri viventi nella loro dimensione fisiologica a prescindere dalla connotazione “culturale-tecnologica” che discrimina l’uomo rispetto agli altri esseri (Morin 2001). Mentre quest’ultime innovazioni tecnologiche sono normalizzate e capitalizzate, nella 2 Si vedano alcuni esempi quali, lo scenario ginecologico in Dead Rings (1988) – Inseparabili nella versione italiana; l’occhio sfregiato di Carl Fogarty, interpretato da Ed Harris, in An History of Violence (2005) e le ustioni di Mia Wasikowska in Maps to the stars (2014). 3 Il presente contributo nasce in relazione al nostro intervento tenuto al 50° Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici “Semiotica Elementale” tenutosi a Palermo dal 1 al 3 dicembre 2022. 4 I tratti di chiusura, coerenza e coesione sono gli elementi che definiscono un testo. Contrariamente, i sistemi complessi che definiscono la nostra contemporaneità sono caratterizzati dai tratti di apertura, contraddizione e non-coesione in linea con il modello enciclopedico configurato da Umberto Eco (Paolucci 2010). 245 società rappresentata in Crimes of the Future , vedremo come la sovrapproduzione di organi nel corpo di Saul rappresenta un’occasione per tematizzare il film in chiave politica. Si avrà modo di evidenziare, infatti, come nella pellicola si assista ad uno “scontro tra ideologie” in cui agenzie governative operano affinché venga limitato il reale portato eversivo delle mutazioni corporee del personaggio interpretato da Mortensen: attraverso un’operazione di controllo razionale, tipica del linguaggio, che conferma una metafisica della sostanza, viene ribadita la “stabilità” e la “coerenza” del soggetto e del corpo umano in nome di una “naturalità” in realtà costruita discorsivamente (Butler 1993). Le categorie caratterizzanti la modernità – le “grandi narrazioni” di cui parlava Lyotard (1979) – vengono così a palesarsi come posizioni di discorso, aprendo di fatto ad una forma di relativismo “semio-culturale” che si pone subito come atteggiamento critico, dal momento che, nel legame tra visione del mondo e il modo in cui le diverse culture segmentano a livello semantico e sintattico l’esperienza, “i processi di mutamento di codice avvengono quando questa interazione non viene accettata come naturale e viene sottoposta a revisione critica” (Eco 1975, p. 138). Tuttavia, è importante evidenziare che in Crimes of the Future il corpo esplicita il proprio carattere mutevole e differenziale proprio in virtù del regime discorsivo e socioeconomico postfordista in cui questo è continuamente prodotto e riprodotto come base significante da cui estrarre plusvalore (Cooper, Waldby 2014). Una prospettiva che riduce il corpo, il bios e la vita a oggetti di interpretazione da sfruttare economicamente (Fumagalli 2007), “allo stato di trasportatori di informazioni vitali, mettendoli al servizio del valore finanziario e capitalizzandoli” (Braidotti 2013, p. 126). La tecnologia presente nel film monitora e manipola digitalmente i dati forniti dai corpi, esplicitando in questo modo la stretta relazione – di dominio – che il linguaggio intrattiene con la materia. Un rapporto che, in linea con la svolta semiotica e i successivi sviluppi poststrutturalisti, implica un portato critico relativizzante – una forma di critica sociale – che tuttavia può arrivare a ridurre la materia a semplice fattore semiolinguistico. Con Hjelmslev (1943) ricordiamo, infatti, che la prospettiva semiotica afferma come la possibilità di accesso alla materia avvenga esclusivamente in quanto questa si offre formata in sostanze. Una schermatura formale operata dal linguaggio che offre una prospettiva costruttivista che riduce la materia a passività relazionata ad una recezione tutta umana che la valorizza. Un limite – antropocentrico – che riduce la materia a semplice significato, reintroducendo di fatto una forma di “rappresentazionismo ontologico” che un’epistemologia semiotica fondata sulla “relazione” dovrebbe evitare. Il rischio è quello di riproporre uno squilibrio – orientato assiologicamente – tra le istanze enuncianti (Coquet 2008) che livellerebbe la materia in una sintesi generalizzante – immanenza – basata sul linguaggio-forma. Uno sbilanciamento dal lato “semio-culturale” che – contrariamente alla monodimensionalità semiotica priva di profondità gerarchica (Paolucci 2007) – propone un riduzionismo ideologico (Eco 1975) che non riesce a rendere conto delle molteplici istanze d’enunciazione – umane e non – coinvolte nelle mutazioni corporee di Saul Tencer e, più in generale, nella costituzione dell’ecologia “socio-tecnologica” di Crimes of the Future. In questo senso, l’ultimo film del regista canadese offre una rappresentazione narrativa di una semiosi materica che esula dalla simbolizzazione operata dal linguaggio, oltre che un pretesto per avanzare una (auto)critica e una prospettiva semiotica sul farsi senso della materia. 2. Estensione ed amputazione In Crimes of the Future , il corpo umano è soggetto a costanti mutazioni ed evoluzioni (Ricci 2011) al fine di adattarsi all’ambiente esterno, a sua volta in costante cambiamento. Le tecnologie con le quali l’essere umano entra in contatto sino ad ibridarsi fungono da estensioni protesiche che ne alternano la facoltà sensibile, la presa estetica sul mondo (McLuhan 1964). È proprio l’estetica di questi 246 dispositivi mediali ad allontanarsi dal tradizionale immaginario cronenberghiano, che tende ad esaltarne la materialità inorganica, soprattutto nel contrasto, spesso incidentale, con la carne viva – come avviene in Crash . In Crimes of the Future , invece, ciò che viene messa in scena è una certa organicità delle apparecchiature tecnologiche, sia per quanto riguarda il materiale di cui sono composte, sia per il modo naturale e armonico attraverso cui queste si legano al corpo del proprio utente: dal materiale sintetico, alla sua sintesi con l’organico. Fig. 1 – Orchibed. Si prenda ad esempio l’Orchibed (Fig. 1), una sorta di letto sospeso il cui sofisticato impianto tecnologico è efficacemente dissimulato dalla naturalità che ne caratterizza i materiali, le forme e le operazioni: il corpo di Saul vi si può adagiare, rigenerare (sia nel senso di riposo che di rigenerazione dei propri organi interni) e addirittura cullare, raccolto nel guscio di quello che appare come uno strano esemplare di coleottero gigante o, ai più visionari, una rara specie di orchidea carnivora. Discorso analogo per quel che riguarda il Breakfaster (Fig. 2), una particolare sedia utilizzata durante i pasti, il cui scheletro – letteralmente – è costituito da elementi che non solo ricordano visivamente delle ossa umane 5 , ma si interpongono tattilmente tra i muscoli e gli organi impegnati nella masticazione e nella digestione, accompagnandone i movimenti. 5 Nel design osseo di questa sedia è forse possibile rintracciare un rimando alla celebre scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick: qui, la nascita della tecnica, e assieme ad essa della civiltà umana, è allegoricamente rappresentata da un osso di una carcassa animale che da resto organico diviene strumento nelle mani della scimmia che si appresta a diventare umana in virtù di questa sua estensione; in linea con la prospettiva di Leroi-Gourhan (1943, 1945), l’ipotesi che si vuole avanzare è che l’ibridazione tra umano e tecnologia una condizione originaria e costitutiva di entrambi i termini della relazione. Allora, come mostrato nel film di Cronenberg, l’evoluzione dell’essere umano e della tecnologia non può che rimandare, retrospettivamente, a un percorso filogenetico comune. 247 Fig. 2 – Breakfaster. A questo movimento di estensione protesica, organica, si contrappone in modo sottile ma estremamente violento, un processo di amputazione (McLuhan 1964): il corpo umano è ormai anestetizzato e i suoi sensi narcotizzati dagli stessi dispositivi tecnologici che ne mediano l’esperienza. Si prendano nuovamente in considerazione l’Orchibed e la poltrona scheletrica: entrambe queste tecnologie intervengono in gesti e momenti quotidiani, quali appunto dormire e mangiare, al fine di anticipare e ammortizzare ogni minimo dolore fisico, anche la più lieve ombra di disagio corporale, che tali azioni possono comportare. Da un’estetica tattile si passa così a una vera e propria ideologia del tatto, inteso come profilassi, anestesia e tutela dal mondo esterno. Piuttosto che fungere da mediazione tra corpo umano e ambiente naturale, le tecnologie diventano progressivamente esse stesse l’ambiente ibrido di cui il soggetto non può che avere un’esperienza impoverita, calcolata per difetto. In questo modo, Cronenberg ci offre una rappresentazione originale delle bioinfotecnologie e delle relative operazioni di manipolazione e informatizzazione del soggetto umano di cui si è parlato nell’introduzione. Ciò diventa particolarmente evidente nel caso del protagonista Saul, dove gli apparecchi che ne regolano le funzioni vitali vengono continuamente ritarati in funzione delle mutazioni costanti, quali continua crescita di tumori e di nuovi organi interni, che ne caratterizzano il corpo. La Accelerated Evolution Syndrome è uno degli effetti perversi dell’ibridazione e anestetizzazione del corpo umano rispetto al mondo esterno che le tecnologie tentano di limitare e, al contempo, favoriscono, come una sorta di patologia autoimmune, di virus che si diffonde dall’interno di un corpo sottoposto a una costante profilassi (Baudrillard 1990). Escrescenze tumorali che, come eccedenze dei sensi e del senso, continuamente deformano e ridefiniscono i confini del soggetto umano in relazione all’ambiente circostante: momento esplosivo della dialettica tra estensione e amputazione che stenta a trovare sintesi. 3. Chirurgia e semiurgia La doppia logica dell’estensione e dell’amputazione trova il proprio sviluppo narrativo nella concatenazione continua tra questi due momenti; una dinamica che nel film è ulteriormente esplicata attraverso il tema e la figura della chirurgia. Difatti, in maniera analoga alla tecnologia, la chirurgia assume un ruolo fondamentale in quanto forma, spesso deformante, di controllo estetico e semiotico del 248 corpo umano. Questo ruolo si esplicita all’interno di diversi campi discorsivi; primo tra tutti, quello dell’arte. Saul e la sua partner Caprice sono artisti impegnati in delle performance di body art in cui la chirurgia è, oltre che strategia, una tattica che opera direttamente sul corpo in funzione di una sua catarsi. In particolare, Caprice, attraverso il SARK – un altro macchinario che esalta la connessione digitale e la circolarità manipolatoria, nella modalità del far fare, tra corpi organici e inorganici – rimuove chirurgicamente le escrescenze tumorali di Saul; le parti asportate vengono poi esposte e ammirate dal pubblico come delle vere e proprie opere d’arte (Fig. 3). Fig. 3 – SARK, operazione chirurgica. Il valore artistico dell’organo deriva dalla stessa performance che si presenta come un rituale di consacrazione, forse addirittura di transustanziazione, dell’elemento “sovrannaturale” in opera d’arte. Analogamente alla Comunione cristiana, la ritualità della performance è un modo per comunicare, nel senso di mettere in scena e in condivisione, il miracolo osceno di questa generazione spontanea di organi; un’operazione che permette di ridare un senso a queste singolarità eccedenti. Dunque, più che a una rivelazione di una verità profonda, a uno spogliamento della mediazione e apertura dello sguardo verso l’oggetto in quanto tale, assistiamo a un processo di ri-velazione (Ricci 2008), ossia di costruzione e istituzione semiotica di un oggetto feticcio che riflette sul proprio codice di valorizzazione e significazione. All’operazione chirurgica si sovrappone così un’operazione di riscrittura semiurgica (Baudrillard 1976). A questo proposito, non è un caso che l’organo, prima di essere rimosso, sia marchiato e tatuato da Caprice (Fig. 4), in modo che – nel successivo momento performativo – ciò che venga rimarcato e ricondiviso e celebrato sia lo stesso meccanismo di messa in forma semiotica di una deformità di partenza. Fig. 4 – Organo tatuato e asportato. 249 L’operazione di riscrittura semiologica è attutata non solo durante le performance artistiche clandestine dei due protagonisti, ma dalle stesse istituzioni e, in particolare, da alcuni organi interni in via di istituzionalizzazione, costretti ad operare anch’essi in un regime di semioscurità in attesa di un riconoscimento ufficiale; tant'è che l’intero film è dominato da un clima di spionaggio, in cui risulta complicato avanzare una lettura ideologica lineare e individuare con chiarezza l’assiologia dei vari personaggi, costantemente coinvolti o segretamente infiltrati in piani complottistici che ambiscono a farsi egemonia, nuova norma. Dopo tutto, è questo l’obiettivo del National Organ Registry, dipartimento governativo segreto della New Vice Unit, progettato per catalogare e conservare i nuovi organi che i corpi umani sembrano generare spontaneamente; un tentativo di normazione burocratica che goffamente si sovrappone, piuttosto che opporsi, al discorso artistico ed estetico portato avanti da Caprice e Saul – come quando quest’ultimo viene candidato al concorso di “bellezza interna”6 istituito dallo stesso ufficio: una strategia per svuotare l’escrescenza interna del suo significato profondo, potenzialmente rivoluzionario, e riportarla a una superficie discorsiva, puramente estetica. Le cospirazioni di questi attori rispondono tutte alla necessità di una normalizzazione sociale e di una manipolazione semiotica del “caos interno” che affligge i corpi mutanti. Chirurgia e semiurgia allora cooperano per separare l’organo dalla sua presunta (sovra)naturalità e reimmetterlo nell’ordine sociale dominante; al contrario di quanto professato e agito da un gruppo di mangia-plastica, la cui prassi biopolitica è volta a naturalizzare gli effetti dell’ibridazione tra organico e inorganico per istituire un nuovo ordine naturale delle cose (§ 5). In ogni caso, che sia a trazione naturalizzante o culturalizzante, di fatto ciò che viene sancita da queste pratiche discorsive è la natura ibrida del corpo, in quanto prodotto di un difficile connubio tra natura e cultura ed elemento critico di un ecosistema complesso e dinamico che elude qualsiasi forma di stabilizzazione ideologica (Latour 1991, 2005). 4. La chirurgia è il nuovo sesso Oltre che nel campo dell’arte, la chirurgia è figura centrale anche nel dominio discorsivo e politico della sessualità. Nel film più volte viene ripetuto che “la chirurgia è il nuovo sesso”; tutta una serie di pratiche erotiche sono infatti legate a operazioni chirurgiche, attraverso cui il corpo umano assume nuova forma e nuovi significati. Il taglio opera chirurgicamente e semioticamente sul corpo, trasformandolo in quello che Baudrillard (1976) definisce un “carnaio di segni”; secondo l’autore, mediante il taglio chirurgico non solo viene scongiurata la castrazione del sesso “reale”, ma caricata di un valore sessuale feticcio ciascuna parte si erige a partire dallo stesso taglio. Analogamente al caso dell’arte, il rito chirurgico-sessuale: Non è un gioco di spogliamento di segni, verso una profondità sessuale, è al contrario un gioco ascendente di costruzione di segni – dove ogni marchio assume un valore erotico grazie al suo lavoro di segno, cioè di capovolgimento che esso opera da ciò che non è mai stato (castrazione) a ciò che esso designa al suo posto e in sua vece: il fallo (ivi, pp. 122-123). Anche in questo caso, dunque, il taglio non si presenta come apertura in profondità verso una natura intima del corpo, ma come lavoro erotizzante e (an)estetizzante. A questo proposito, risulta particolarmente emblematica un’altra scena di performance, in cui un artista si esibisce in una sorta di ballo estatico; la peculiarità e l’efficacia della scena sta nel corpo del danzatore, interamente ricoperto 6 La tematica della “bellezza interiore”, configurazione estetica – non animista – dell’interno della corporalità umana, è ricorrente all’interno della filmografia del regista canadese. Nell’ambientazione ginecologica di Dead Rings (1988), ad esempio, Jeremy Irons fa un continuo riferimento ad un ipotetico concorso di bellezza per le fattezze organiche del corpo umano. In merito ad un approfondimento su questo aspetto si segnala il volume curato da Michele Canosa (1995). 250 da orecchie o, più precisamente, da padiglioni auricolari impiantati chirurgicamente, che sembrano amplificarne la capacità sensoriale ed il trasporto fisico (Fig. 5). Come ci viene però rivelato, in realtà, gli organi in questione non si fanno più mediatori di una determinata facoltà estetica, ossia non hanno più alcuna funzione uditiva, dal momento che sono stati espiantati dalla loro naturale rete di relazioni anatomiche e ricuciti lungo la superficie del corpo con una funzione meramente ornamentale – e solo in questo senso, estetica. In questa scomposizione chirurgica e riconfigurazione superficiale delle parti del corpo viene a perdersi qualsiasi protensione sensoriale (così come ribadito dalla bocca e dagli occhi dell’artista cuciti chirurgicamente); l’aspetto estensivo, ovvero di apertura del corpo al mondo esterno, è talmente estremizzato dalla moltiplicazione e installazione artificiale di orecchie al punto che il corpo ne risulta saturato e suturato. Fig. 5 – Performance, estasi e anestesia. La cerniera che Saul si fa applicare chirurgicamente sul proprio ventre, utilizzata come motivo erotico nel rapporto sessuale consumato con Caprice, ha un’analoga funzione di suturazione del corpo (Fig. 6). Fig. 6 – Cerniera e nuovo sesso. 251 Se da un lato la cerniera aperta permette l’esplorazione e la penetrazione degli organi interni, dall’altro, essa opera una trasposizione di questi stessi organi a un livello superficiale, laddove è possibile una loro riscrittura semiotica e valorizzazione sessuale feticcia. In questo modo, sono gli stessi organi interni che vanno a rimarginare il varco aperto dalla cerniera che, richiudendosi, non fa che ri-velare l’intimità del sesso reale. Il corpo risulta intero e chiuso, fallo esso stesso, proprio in virtù dei tagli che lo configurano come superficie significante: la sua scomposizione, e ricomposizione, in parti che si significano reciprocamente, e metonimicamente rimandano al corpo nella sua totalità, esclude qualsiasi possibilità di rimando metaforico a un significato profondo o a un referente naturale. Per questa ragione, il nuovo sesso non ha né ragione interna né una finalità esterna: non è attività riproduttiva, ma piuttosto operazione e passione del corpo, che seduce e, al contempo, esclude, proprio in virtù dell’autonomia, della coerenza e della perfezione semiologica che lo stesso rituale sessuale gli conferisce. Ed è proprio lungo queste categorie che si gioca la battaglia ideologica del film: da una parte, l’inesorabilità di una materia e di un corpo che continuamente si riproduce, evolve e si fa nuovo senso; dall’altro, il tentativo disperato di un controllo biopolitico e di una manipolazione semiurgica di questa stessa materialità attraverso la sacralizzazione, la catalogazione, l’estetizzazione e l’erotizzazione – in una parola, la feticizzazione – di tutte le sue eccedenze di senso. 5. Dare senso al caos interno La scena di apertura di Crimes of the Future (Fig. 7) introduce uno sviluppo narrativo che, inizialmente slegato dai protagonisti Saul e Caprice, diventerà chiave interpretativa dell’impostazione ideologica del film di Cronenberg. In un’ambientazione post apocalittica – una spiaggia con una nave affondata all’orizzonte – un ragazzino sta giocando con i sassi presenti sul fondale, quando la madre lo invita a non mettere nulla in bocca e a rientrare a casa. Una raccomandazione solita che un genitore dà ad un figlio, ma che diviene sospetta quando vediamo lo stesso bambino una volta in casa prendere a morsi un cestino seduto a terra in bagno, mentre la madre lo guarda di nascosto piangendo. Nella scena successiva la donna soffocherà il figlio con un cuscino nel sonno e successivamente farà una telefonata – al padre del bambino – avvisandolo dell’accaduto e di andare a prendere il corpo: “chieda a Lang se ha interesse di venire a prendere il corpo di quella creatura che chiama figlio […] quella cosa che è Brecken”. Fig. 7 – Scena iniziale. La “mostruosità” di Brecken avrà nel film la funzione di mettere in crisi la morfologia dell’umano che la società di Crimes of the Future garantisce attraverso l’operato delle sue istituzioni. Lo stesso Saul – che scopriremo agente del governo sotto copertura – avrà modo di rivalutare la propria posizione in relazione agli accadimenti del film. Alle prese con i disturbi legati alla crescita di un nuovo organo, si reca insieme a Caprice al “Registro Nazionale degli organi” dove dichiara la sua preoccupazione per il 252 “mutamento” che sta coinvolgendo il corpo umano. Come afferma il dipendente del registro: “Umano è la parola d’ordine. Ciò che preoccupa è l’evoluzione umana che sta andando per il verso sbagliato. Che è fuori controllo. È ribelle” 7 . Sono anni che Saul continua a produrre nuovi organi che puntualmente fa esportare – nella performance artistica con Caprice – in quanto tumori che mettono in pericolo la regolare funzionalità del corpo. L’ufficio che opera al fine della registrazione di questi nuovi organi – che avviene attraverso l’operazione semiurgica del tatuaggio8 – è preoccupato dallo sviluppo di questi in quanto possono anche arrivare ad affermarsi geneticamente, trasmettendosi dai genitori ai figli, i quali non sarebbero più umani almeno nel senso convenzionale del termine. Il controllo semiotico, tecnologico e politico operato sui corpi manifesta la propria inadeguatezza in relazione alla metamorfosi in atto nel corpo di Saul, strettamente connessa alla vicenda del piccolo Brecken. La “creatività organica” di Saul viene amputata – nell’esaltazione della performance artistica – in quanto “un organismo deve essere organizzato, sennò è solo cancro artificiale” (Caprice). Ma questa convinzione comincia a vacillare quando il padre del piccolo Brecken – Lang Dotrice – incontra Saul e gli propone di fare un’autopsia al corpo di suo figlio nella prossima performance. La volontà del padre è quella di avere una dichiarazione “molto pubblica” di quello che l’interno del corpo del bambino rivelerebbe. Contrariamente alla posizione condivisa da Saul e Caprice, per cui la chirurgia artistica delle loro esibizioni sarebbe un modo di trasformare in arte l’anarchia, Lang è a capo di un’organizzazione di sovversivi – definiti “mangia-plastica” – che si fanno portavoce di un “fantastico processo naturale” di sincronizzazione dell’evoluzione umana con la tecnologia. Grazie ad un intervento chirurgico questi soggetti, infatti, sono in grado di digerire la plastica: “dobbiamo iniziare a nutrirci dei nostri stessi rifiuti industriali. È destino” (Lang). L’ultimo film di Cronenberg mette in opposizione, da un lato una prospettiva – attorializzata nelle agenzie governative e nei due performer – che attualizza una normativizzazione del corpo, attraverso un controllo semiotico – tecnologico – finalizzato al mantenimento di una certa morfologia dell’umano in quanto significato stabilizzato da un codice (Eco 1975) che assume carattere di presunta naturalità, dall’altro, un gruppo di sovversivi, che propone un nuovo rapporto di ibridazione del soggetto con l’ambiente tecnologico, aperto al divenire. Un’interpretazione questa che vede il corpo in funzione delle sue potenzialità e non in virtù della sua essenza che definisce una problematica esclusivamente morale (Deleuze 2007): i processi del divenire sono forme di resistenza al sistema, “in quanto mirano al potenziamento e all’accrescimento di ciò che i soggetti possono fare (la loro potentia)” (Braidotti 2006, p. 156). Assistiamo ad uno “scontro tra ideologie” in quanto entrambe le posizioni – anche se apparentemente opposte – condividono una prospettiva limitata in relazione alla dimensione umana da cui sono condizionate: la prima tutela la categoria di umano radicata in uno schematismo semantico del passato; la seconda valuta positivamente la metamorfosi corporea in atto in nome di un umano che si proietta verso il futuro. L’autopsia da svolgere sul corpo di Brecken ha l’obbiettivo di mostrare come la mutazione artificiale – prodotta con un’operazione chirurgica in Lang – sia stata ereditata geneticamente dal figlio producendo una naturalizzazione dell’artificio che legittimerebbe la metamorfosi agli occhi dell’opinione pubblica, confermando in questo modo come l’effetto d’indiscutibilità naturale sia in realtà la risultante di una stabilizzazione discorsiva identificata in questo caso specifico con la fenomenologia riproduttiva. Nella trasmissione genetica dell’artificio – insabbiata durante l’autopsia del corpo di Brecken – l’intenzionalità del soggetto umano viene messa tra parentesi in favore di un corpo che, in un percorso 7 Il responsabile dell’ufficio evidenzia come la scomparsa del dolore, come sistema di allerta dell’essere umano, abbia portato all’affermarsi di una società molto più pericolosa rispetto al passato. 8 Il tatuaggio per la registrazione dell’organo viene criticato da Saul che, in quanto ripetizione della conformazione dell’organo stesso, lo domina. Non limitandosi ad essere parassitario – in quanto scrittura (Derrida 1967) – pare tolga significato all’organo ponendo la significazione su di sé: un controllo semiotico che toglie alla materia la propria capacità di significare. 253 di adattamento con il proprio ambiente tecnologico ed inorganico, manifesta una propria agentività. Saul afferma più volte di non essere consapevole di quello che accade al suo corpo, dando a quest’ultimo anche i meriti creativi che sono alla base delle sue performance. Lasciati crescere questi organi assumono una funzione sistemica relazionandosi tra loro e relazionandosi all’inorganicità della plastica con funzione digestiva, in una relazionalità che rende l’uomo un’istanza periferica. Le due fazioni, che si scontrano in Crimes of the Future sulle sorti dell’umano – condividono il limite ideologico del voler dare senso al caos interno del corpo attraverso una semiotizzazione della materia che non tiene conto dell’agentività di quest’ultima nella costituzione della realtà sociale. In una continua dinamica di esplicitazione interpretativa (Peirce) che – analogamente a quanto avviene con la pratica dell’autopsia – è finalizzata a riempire un corpo che crediamo vuoto di significato attraverso un processo di simbolizzazione. 6. Conclusioni In Crimes of the Future si assiste dunque ad un continuo debordare della materia rispetto al controllo semiotico operato dall’essere umano. Questa mutevolezza corporea viene limitata dagli uffici governativi - in funzione di uno schematismo semantico che definisce politicamente, attraverso una dinamica di esclusione, il campo di legittimità di ciò che può definirsi umano (Butler 1990) – mentre viene accolta da quelli che si stanno spingendo pericolosamente oltre il tracciato, i mangia-plastica, per i quali il mutamento viene letto solo e comunque alla luce di quello che può implicare per il futuro dell’umanità. Al contrario, il film definisce l’inadeguatezza del limitare la rappresentazione al semplice linguaggio umano evidenziando come questa sia distribuita in maniera più ampia. Il sistema rappresentazionale basato sul linguaggio umano è un particolarismo all’interno di un movimento semiosico più ampio che permette di definire un’antropologia che va oltre l’umano attraverso un’attività di provincializzazione del linguaggio (Kohn 2013). I “neo-organi” dell’ultimo film di Cronenberg si fanno soggetto del proprio mutamento fino al raggiungimento di una natura sistemica con funzione di apparato digerente. Nel mondo postumano (Braidotti 2013) le istanze – umane e non – si relazionano in una continua riconfigurazione (agency) material-discorsiva per cui il significato non è né intralinguisticamente conferito né extralinguisticamente riferito, ma è definito a partire da continue pratiche di rielaborazione di confini, proprietà e significati (Barad 2007). È necessario, dunque, non limitare l’enunciazione ad una prospettiva condizionata dalla priorità conferita al soggetto umano, quanto piuttosto riassegnarli una fisionomia impersonale ed evenemenziale che redistribuisce questo sbilanciamento gerarchico in favore della polifonica eterogeneità delle istanze enuncianti (Paolucci 2020; Latour 2002, 2017). Le mutazioni corporee di Crimes of the Future sono infatti fuori dal controllo dell’intenzionalità del soggetto fenomenologico manifestando una propria capacità di farsi senso, contrariamente ad una prospettiva che identifica il lavoro d’interpretazione basato su convenzioni culturali come l’unica possibilità per la materia per non apparire a-semiosica (Eco 1990, p. 181). Un atteggiamento che stabilisce la natura culturale di qualsiasi mondo (ivi , p. 255) definendo la semiotica come forma di critica sociale (Eco 1975) e la decostruzione derridiana come forma di spiazzamento degli ordini concettuali che definiscono la realtà (Culler 1982). I valori della società umana rappresentata nel film sono messi in discussione da queste metamorfosi materiche sottolineando l’adeguatezza che una prospettiva costruttivista può assumere in relazione alla complessità che caratterizza anche la nostra contemporaneità in cui le assiologie tipiche della metafisica occidentale vengono continuamente riarticolate. Tuttavia, nell’ultimo film di Cronenberg, assistiamo ad un continuo debordare della materia che, allo stesso tempo, rileva il limite che una prospettiva di questo genere può assumere reimmettendo una forma di rappresentazionismo a partire dall’ontologia linguistica affermata. Al contrario, bisogna impostare “una riflessione sulla vitalità di una materia che 254 non è ormai più natura, ma neanche solo tecnologia, bensì processo costante di messa in relazione di tutti questi elementi” (Braidotti 2010, p. 93). Il momento di profonda crisi e incertezza che ci viene prospettato in Crimes of the Future ci offre uno spaccato di un ordine naturale e sociale in disperato bisogno di una sua restaurazione o di un nuovo riassemblaggio (Latour 2005). Quello che ci appare come uno scenario distopico, un mito dell’apocalisse, diventa quindi occasione di rinascita, di un nuovo inizio, anche per l’umanità. A questo proposito, la scelta di girare il film in Grecia – culla della civiltà umanista e della metafisica occidentale – pur se mai esplicitata, non è forse casuale. Così come non lo è una determinata estetica sofisticata e al contempo primordiale delle tecnologie, che sembrano aver nuovamente intercettato l’umano nel loro percorso evolutivo, senza per questo snaturarsi. Ora spetta all’umanità prendere coscienza e farsi eco di questo legame originario, per evitare di soccombere narcisisticamente nella propria immagine identitaria, di fronte all’inesorabile avanzata della materia dall’interno e dall’esterno dei nostri corpi. 255 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia Barad, K., 2007, Performatività della natura. Quanto e queer, Pisa, ETS. Baudrillard, J. 1976, L'échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard; trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli 2007. 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Tra carne e spirito. Riflessioni sull’iconografia di Maria Maddalena penitente Anna Varalli Abstract. Mary Magdalene is a mysterious and misrepresented woman, connected to the fundamental events in the life of Christ. Over the centuries, numerous superimpositions with other female characters have made her an elusive figure with nebulous boundaries, a synthesis of multiple meanings: both sinner and prostitute and converted woman and apostle. Through the study of the iconography of “Penitent Magdalene” and the semiotic analysis, the paper aims to investigate, how contrasting themes such as sin and repentance, carnality and holiness have been articulated and how they have been favourably developed in the representation of the female body and in the historical ambiguity of this character. 1. Quale Maria? La Maddalena e le altre figure femminili La storia della Chiesa cattolica è costellata di figure di santi e sante, uomini e donne che, seguendo l’esempio di Gesù, hanno accolto la chiamata di Dio, si sono distinti in vita nell’esercizio delle virtù cristiane e muoiono in grazia di Dio. Nel corso dei secoli, le figure dei santi, che si sono costruite sia attraverso l’intervento diretto della Chiesa sia grazie alla partecipazione attiva di altri soggetti, diventano modelli di comportamento imitabili per milioni di fedeli, qualcosa a cui tendere per poter vivere rettamente nell’amore di Dio (Ponzo 2019a). Tra le numerose vite di santi che ci sono state tramandate, alcune incuriosiscono particolarmente perché raccontano di figure in contrasto con ciò che un fedele si aspetterebbe da un santo o una santa. Figure controverse, che sfidano apertamente il potere e i costumi della loro epoca e che nei secoli sono state riassorbite e riabilitate dalla Chiesa, ma nelle quali rimane una forte tensione che molto spesso emerge nei racconti, nelle leggende e nelle raffigurazioni che li riguardano1. La figura di Maria Maddalena è forse una delle più misteriose e controverse, anche perché collegata a eventi fondamentali della vita di Cristo. Il nome di Maria, molto comune in Israele, si distingue dalle altre grazie al toponimo “Magdala”2, il luogo dove è nata, secondo la tradizione. Le prime notizie di Maria Maddalena si ritrovano nei quattro Vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni): la Maddalena è citata, insieme ad altre, in quel gruppo di donne che segue Gesù, ed è collegata agli episodi finali della vita del Nazareno: la crocifissione, la deposizione del corpo, la scoperta del sepolcro vuoto e l’apparizione di Gesù risorto. Solo nel Vangelo di Luca è citata anche all’inizio dell’attività pubblica di Gesù, quando l’evangelista parla di un gruppo di donne “[...] guarite da spiriti cattivi e da infermità [...]” (Lc 8,2) che seguivano il Nazareno. 1 Un esempio sono le analisi di Ponzo (2019c) nel capitolo “Atypical Models of Sanctity”, in cui tratta la rappresentazione della santità nella narrativa italiana contemporanea. 2 Màgdala di Galilea era un piccolo centro romano-giudaico vicino a Cafarnao, sulle sponde del lago di Tiberiade. La città era identificata da una torre romana: Màgdala deriva infatti dall’ebraico migdol che significa torre. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Crocifissione Sepoltura Sepolcro vuoto Apparizione (Esorcismo) 27,56: 27,61: 28,1: - - Tra queste Lì, sedute di Dopo il sabato, c'erano Maria di fronte alla all'alba del primo Màgdala, Maria tomba, c'erano giorno della Matteo madre di Maria di settimana, Maria Giacomo e di Màgdala e l'altra di Màgdala e Giuseppe, e la Maria. l'altra Maria madre dei figli andarono a di Zebedeo. visitare la tomba. 15,40: 15,47: 16,1: 16,9: - Vi erano anche Maria di Passato il sabato, Risorto al alcune donne, Màgdala e Maria di mattino, il primo che osservavano Maria madre di Màgdala, Maria giorno dopo il da lontano, tra le Ioses stavano a madre di sabato, Gesù Marco quali Maria di osservare dove Giacomo e apparve prima a Màgdala, Maria veniva posto. Salome Maria di madre di comprarono oli Màgdala, dalla Giacomo il aromatici per quale aveva minore e di andare a scacciato sette Ioses, e Salome, ungerlo. demòni. - - - 24,10: 8,2: Erano Maria e alcune donne Maddalena, che erano state Giovanna e guarite da spiriti Maria madre di cattivi e da Giacomo. infermità: Maria, Luca Anche le altre, chiamata che erano con Maddalena, loro, dalla quale raccontavano erano usciti sette queste cose agli demòni3; apostoli. 19,25: - 20,1: 20,16: - Stavano presso Il primo giorno Gesù le disse: la croce di Gesù della settimana, «Maria!». Ella si sua madre, la Maria di voltò e gli disse sorella di sua Màgdala si recò in ebraico: madre, Maria al sepolcro di «Rabbunì!» – madre di Clèopa mattino, quando che significa: Giovanni e Maria di era ancora buio, «Maestro!». Màgdala. e vide che la 20,18: Maria di pietra era stata Màgdala andò tolta dal ad annunciare ai sepolcro. discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto. 3 L’espressione “sette demoni” non indica necessariamente che la Maddalena fosse afflitta da demoni o da un male morale; nel linguaggio veterotestamentario, poteva indicare che la donna fosse stata colpita da un gravissimo male fisico o interiore, dal quale Gesù l’aveva liberata (Brunelli 2022, p. 18). 259 La Maddalena compare anche nei vangeli apocrifi, in particolare nei vangeli di Pietro, di Nicodemo e di Filippo (Rogers 2019; Mignozzi 2019), quest’ultimo più sensibile allo gnosticismo. Se nei primi due è citata sempre in relazione agli episodi della crocifissione e della deposizione – racconti che avranno ampia fortuna nello sviluppo dell’iconografia sia mariana sia della Maddalena stessa – nel testo gnostico di Filippo, Maria Maddalena è presentata come “interlocutrice ideale di Gesù e sua intima compagna spirituale” (Brunelli 2022, pp. 18-19). Ben presto si perde la memoria di quest’ultimo testo, molto controverso, e non avrà influenza sullo sviluppo iconografico della santa; ne ritroviamo echi sul piano letterario e cinematografico solo nel Novecento, quando ormai la Chiesa ha fatto chiarezza su questa figura dibattuta, in opere che fanno chiaro riferimento a una relazione tra la Maddalena e Gesù, dal quale sarebbe nata anche una discendenza4. A partire dal III secolo, i Padri della Chiesa riservano sempre maggiore attenzione alla Maddalena ed è nella letteratura patristica che questa figura inizia presto a con-fondersi con altre figure femminili, anonime o con lo stesso nome, citate nei vangeli (Kunder 2019): Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che cosparge con olio di nardo i piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli (Gv 20,3); una seconda donna che unge il capo di Gesù sempre con olio di nardo, a casa di Simone il lebbroso (Mt 26,7; Mc 14,3); una terza che viene chiamata ‘peccatrice’, cioè prostituta, che a casa di Simone il fariseo “stando dietro, presso i piedi di lui [Gesù], piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo” (Lc 7,38). L’unificazione di tutte queste donne nella figura di Maddalena trova ufficialità nelle omelie XXV e XXXIII di Gregorio Magno (540 circa-604): Ella considerò le colpe passate e non volle porre freno al suo atteggiamento di penitente. Entrò durante il convito, venne non invitata, e versò lacrime di fronte alla mensa imbandita. Rendetevi conto dell’amarezza di questo dolore che non si vergogna di manifestarsi neppure in un banchetto. Questa donna peccatrice di cui parla Luca, che da Giovanni è chiamata Maria, riteniamo sia quella Maria dalla quale Marco afferma furono cacciati sette demoni (Gregorio Magno 1968, pp. 325-6). Inoltre, in alcuni casi, la tradizione patristica affianca a Maria Maddalena la figura di Eva (Kunder 2019, p. 124), dalla quale l’iconografia trarrà l’attributo dei lunghi capelli. Entro il VII secolo, in Occidente, si assiste quindi alla completa identificazione di Maria Maddalena con la figura della peccatrice, in particolare nell’accezione della prostituta. Il percorso di riabilitazione di questa figura da parte della Chiesa è stato lungo e vede come atto più recente l’istituzione della festa liturgica di Maria Maddalena da parte di Papa Francesco nel contesto del Giubileo straordinario della Misericordia (8 dicembre 2015-20 novembre 2016), “per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata”5, la prima messaggera che annuncia agli apostoli la risurrezione del Signore, tanto da essere definita da San Tommaso d’Aquino l’apostolorum apostola6. Nel corso dei secoli, la costante sovrapposizione tra Maria Maddalena e le numerose donne che abitano i Vangeli ha reso questa figura femminile inafferrabile e dai confini nebulosi. È questo lento processo che ha portato la Maddalena a “divenire simbolo”, la sintesi di molteplici significazioni, e quindi a poter riconoscere in essa sia la peccatrice e la prostituta, sia la convertita e l’apostola. Riprendendo le riflessioni di Sedda: “esso [il simbolo] può risultare oscuro solo per l’eccesso di 4 Nella letteratura moderna, il primo libro che tratta questo tema è Le Tresor Maudit de Rennes-le-Château (“Il Tesoro Maledetto di Rennes-le-Château”) di Géraud Marie de Sède de Liéoux e pubblicato nel 1967, al quale si ispirano i successivi testi di Michael Baigent, Richard Leigh, e Henry Lincoln (The Holy Blood and the Holy Grail, 1982), di Umberto Eco (Il pendolo di Foucault, 1988) e di Dan Brown (The Da Vinci Code, 2003). 5Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: la celebrazione di Santa Maria Maddalena elevata al grado di festa nel Calendario Romano Generale, bollettino Sala Stampa della Santa Sede, n. 0422, 10-06-2016. 6 Cfr. San Tommaso d'Aquino, In Ioannem Evangelistam Expositio, c. XX, L. III, 6. 260 memorie, di storie più o meno immaginarie, di proprietà semantiche che porta in sé. Il simbolo può apparire vuoto perché è troppo pieno” (2021, p. 26). 2. Maria Maddalena: l’esempio perfetto della peccatrice penitente Intorno alla figura di Maria Maddalena si sono infine delineate due diverse tradizioni agiografiche che seguono l’evento della resurrezione di Cristo: quella orientale, che vede la Maddalena seguire Giovanni a Efeso, dove morirà; quella occidentale che dà avvio a numerose narrazioni della vita della santa, fino ad arrivare alla definizione della Legenda aurea di Jacopo da Varazze, composta tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIII secolo. Quest’ultima, a sua volta, sovrappone due diverse tradizioni agiografiche occidentali: da una parte la narrazione del dossier Vézelien, la leggenda che vede Maria Maddalena evangelizzatrice della Francia assieme a Lazzaro, primo vescovo di Marsiglia, e che morirà dopo molti anni di eremitaggio; dall’altra, la storia della figura di Maria Egiziaca, una giovane prostituta convertita del IV secolo che passerà il resto della sua vita da eremita (Mignozzi 2019). La Legenda aurea è una delle fonti maggiori a cui gli artisti si sono ispirati e da cui hanno attinto gli elementi figurativi che costruiscono l’iconografia della Maddalena. Per poter delineare al meglio i tratti iconografici, l’abbondante produzione artistica intorno a questa figura ci spinge a selezionare un corpus più ristretto di immagini: a tale scopo, la mostra Maddalena. Il mistero e l’immagine (Forlì, Musei San Domenico, 27 marzo-10 luglio 2022), organizzata intorno alle numerose configurazioni iconografiche della santa, si presenta già come una prima selezione, seppur ancora molto ampia. L’analisi, in particolare, si occuperà di quelle raffigurazioni pittoriche presenti in mostra il cui soggetto rientra nel tipo iconografico della “Maddalena penitente”, tema che si afferma nella pittura devozionale a seguito del Concilio di Trento (1545-1563). Le rappresentazioni prese in esame, infine, risultano attinenti al periodo cronologico XVI-XX secolo. In queste rappresentazioni, lo spazio figurativo può presentare due situazioni differenti; un ambiente esterno, come un paesaggio boschivo o con molta vegetazione, oppure uno spazio interno roccioso non meglio definito, buio e raccolto. È possibile individuare anche una soluzione intermedia, una sorta di luogo-limite tra esterno e interno, con ambienti rocciosi che si aprono su paesaggi a volte caratterizzati anche dalla presenza di attività umane in lontananza, come piccoli centri abitati, torri e ponti. È sempre presente una figura femminile, in un intervallo d’età che spazia da una giovane ragazzina a una donna matura, con lunghi capelli sciolti e colta in situazioni differenti: mentre legge o dorme, oppure semplicemente seduta o sdraiata. L’abbigliamento della donna può variare molto da opera a opera, e può presentarsi vestita di tutto punto, coperta da un tessuto, oppure completamente nuda. La figura si accompagna ad alcuni oggetti – un piccolo recipiente con coperchio, un crocifisso, un teschio e un libro – che possono essere presenti tutti contemporaneamente o almeno uno di essi. È in particolare il recipiente che permette di identificare con certezza la figura femminile in Maria Maddalena: si tratta del vasetto che contiene l’unguento profumato con cui Maria cosparge i piedi di Cristo e fa quindi riferimento alle narrazioni dei vangeli; quando non è presente alcun attributo, la figura femminile viene riconosciuta per la presenza dei lunghi capelli7, che rimandano anch’essi alla narrazione dei vangeli (Gv 20,3; Lc 7,38). Il crocifisso, il libro e il teschio, invece, non rimandano a una narrazione specifica della 7 Questo attributo è condiviso con altre figure femminili, cosa che potrebbe rendere l’identificazione ancora più difficoltosa, e solitamente ha la funzione di coprirne la nudità. Maria Maddalena eredita questo attributo dal parallelismo con Eva, rappresentata nuda nel giardino di Eden prima della cacciata dal Paradiso, e dall’iconografia occidentale di Maria Egiziaca, che figura nella variante con lunghi capelli castani che le coprono tutto il corpo fino alle caviglie, forse anche per una contaminazione con la raffigurazione di Eva (Brasa 2022, p. 58). 261 vita della Maddalena: si riferiscono al tema della meditazione8 – come anche la testa appoggiata a una mano9, posizione in cui viene spesso raffigurata. Gli oggetti riuniti intorno al teschio compongono una piccola natura morta del tipo specifico della Vanitas, genere pittorico che si sviluppa e diffonde a partire dal XVII secolo. Il tema della morte, nella forma del teschio, si intreccia con il tema della transitorietà della bellezza e della ricchezza, per ricordare all’uomo il suo destino; come spiega Scalabroni (1999), nella Vanitas tutto ruota intorno alla meditazione, aspetto rimarcato anche dalla presenza del libro, oggetto peculiare della “vita contemplativa”. Tuttavia, la presenza del crocifisso, simbolo di Resurrezione, inserisce nella severa visione della Vanitas un elemento positivo perché “Il pensiero della morte deve in sostanza essere inteso come un principio di vita, un riferimento costante per misurare le proprie azioni. La via che all’uomo viene indicata è insomma una via di amore e di virtù, di elevazione e di distacco dalle cose terrene” (ivi, p. 19). Il tema della transitorietà della vita nella Vanitas condivide con la figura di Maria Maddalena un’intima ambiguità: è sia un invito a godere dei piaceri della vita finché è possibile, sia un’esortazione cristiana a staccarsi dalle vanità del mondo per poter accedere alla vita eterna (ivi). Maria Maddalena è quindi raffigurata sola, in un luogo isolato e spoglio, e porta con sé gli strumenti della preghiera e della meditazione. Si potrebbe pensare che si tratti di un momento non meglio definito della vita romita di Maddalena descritto nella Legenda aurea ma, in questo caso, ci troveremmo di fronte a una discrepanza temporale. Maddalena si sarebbe pentita della sua condotta e si sarebbe convertita dopo il primo incontro con Cristo nella casa di Simone il fariseo (o il lebbroso) e avrebbe deciso di seguirlo insieme ad altre donne; nella Legenda aurea, l’eremitaggio segue un primo momento di evangelizzazione, quindi a pentimento e conversione già avvenuti. Perché allora gli storici dell’arte definiscono questa particolare iconografia della Maddalena come “penitente”? È più probabile che sia la figurativizzazione del tema della penitenza. Il pentimento di Maria Maddalena è messo in forma attraverso l’utilizzo di luoghi isolati che rimandano all’allontanamento dalle abitudini viziose del suo passato; ella è nel pieno del suo percorso di conversione che inizia con il pentimento e la remissione dei peccati da parte di Cristo, a cui fanno diretto riferimento sia il crocifisso (1Pt 2,24: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo/sul legno della croce,/perché, non vivendo più per il peccato,/vivessimo per la giustizia;/dalle sue piaghe siete stati guariti”) sia il vasetto di unguenti (Lc 7,48: “Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati»”). Se accettiamo questa proposta di lettura, la discrepanza temporale viene meno ma, con essa, viene a mancare anche una narrazione a cui fare direttamente riferimento. Sono le raffigurazioni che attraverso l’insieme di queste determinate scelte rappresentative costituiscono una medesima storia, colta in fasi differenti, in cui Maria Maddalena è la figura per eccellenza della peccatrice penitente. 3. Il percorso di redenzione di una peccatrice Qual è la storia unitaria che ci raccontano queste rappresentazioni? L’aggettivo “penitente” indica un’azione prolungata nel tempo, cioè l’atto di fare penitenza dei propri peccati che conduce il penitente in un percorso di abbandono completo delle abitudini viziose del passato e di riorientamento della propria vita in direzione di Cristo. Possiamo affermare di essere di fronte a una storia di conversione, a 8 Questi attributi accompagnano molto spesso anche la figura di Maria Egiziaca, come anche il contesto roccioso in cui viene ambientata la rappresentazione, a rimando della vita romita della santa. Il riconoscimento della figura di Maria Maddalena, in questi casi, può essere risolto solo dalla presenza del vasetto di unguenti e dall’aspetto della figura femminile: infatti, Maria Egiziaca viene solitamente rappresentata con un corpo anziano, segnato dal digiuno; Maria Maddalena, invece, è una giovane fanciulla dal corpo florido e sensuale. 9 Si tratta di un gesto convenzionale in uso sin dall’antichità e indica dolore, cordoglio e umore malinconico. 262 un processo10 che vede Maria Maddalena allontanarsi da una vita vissuta nel peccato per congiungersi a Cristo e iniziare una nuova vita. Nonostante la figura della Maddalena aderisca alla tradizione con i suoi attributi e gli oggetti che solitamente l’accompagnano, possiamo notare che in questa serie di rappresentazioni l’iconografia subisce delle variazioni. Ciò dipende da quale momento di questo percorso di conversione ha voluto rappresentare l’artista (Calabrese 2012; Marrone 1995). Il primo momento è quello della consapevolezza del suo vissuto, che dà avvio al processo della conversione: Maria Maddalena, che conduce una vita nella dissolutezza, prende coscienza della sua condizione di peccatrice e si prepara anche nell’animo alla conversione11. Le rappresentazioni di questo tipo la raffigurano in un atteggiamento di sconforto, molto spesso in lacrime. Caravaggio (Fig. 1) raffigura la santa avvolta in tessuti preziosi e circondata da gioielli che si lascia cadere su una seggiola, con il capo piegato e le braccia in grembo, in una postura raccolta che rimanda a tutta l’intimità del momento. La lacrima che le scorre sul viso figurativizza il dissidio interiore e la presa di coscienza del suo vissuto fino a quell’istante, rendendo partecipe l’osservatore all’evento che può in questo modo identificarsi con la figura della peccatrice penitente. Il secondo momento è quello della meditazione sul proprio destino: è la fase in cui Maria Maddalena sceglie di intraprendere il percorso della conversione. La figura viene rappresentata mentre appoggia la testa a una mano con fare malinconico e lo sguardo vacuo perso nel vuoto. Secondo la tradizione della Vanitas, l’oggetto a cui viene dato maggiore rilievo è il teschio (Fig. 2): insieme alla Maddalena, l’osservatore è invitato a prendere consapevolezza del proprio destino e a meditare sul proprio futuro. Il terzo momento può essere definito quello della contemplazione: Maria Maddalena, in cerca della salvezza, si dedica alla meditazione delle cose spirituali. È la prima situazione in cui Maddalena inizia a lavorare su di sé, tramite la preghiera, per preparare il suo incontro con Cristo. In queste rappresentazioni il suo sguardo è fortemente attratto dal vangelo o dal crocifisso, gli oggetti che la aiutano nella preghiera; in alcuni casi, tutto il corpo della santa tende verso la Croce, anticipando – o richiamando – l’evento della crocifissione, in una contemplazione che la coinvolge completamente (Fig. 3). Il quarto momento è quello che può essere definito dell’illuminazione. Si tratta di un momento di svolta, una componente ricorrente nelle narrazioni di conversione (Ponzo 2019b): è la fase di passaggio che segna per Maddalena l’allontanamento dalle cose del mondo terreno e apre le porte al mondo spirituale. Gli oggetti della preghiera le hanno consentito di prepararsi a questo momento, l’esperienza illuminante della salvezza e del perdono dei peccati, che le consentirà di completare la sua conversione. In questo tipo di rappresentazioni, lo sguardo di Maria Maddalena è attratto da qualcosa posto all’estremità del quadro – una luce accecante – o al di là dei suoi limiti, come se qualcuno l’avesse chiamata e le stesse parlando (Fig. 4). Maddalena, quindi, non è più sola come lo è stata fino a questo momento – e forse non lo è mai stata – ma solo ora il suo sguardo può incontrare un ‘altro’ e l’osservatore assiste, insieme a lei, a questa rivelazione. Sono la meditazione e la contemplazione che le hanno permesso di aprire gli occhi, di prepararsi alla remissione dei suoi peccati e di accedere alla salvezza, l’ultimo passo prima di poter incontrare Cristo. Infine, alcune rappresentazioni fanno invece riferimento al momento dell’estasi di Maria Maddalena, tema iconografico che rientra a pieno titolo nel percorso di conversione della santa. In questo caso, gli artisti hanno deciso di rappresentare o l’attimo appena precedente del punto culminante della vicenda, cioè il momento del rapimento estatico, oppure quello immediatamente successivo, che potremmo definire della “post-estasi” (Marrone 1995). Il rapimento estatico è il grado più alto della contemplazione, quando l’anima, al culmine della sua esperienza religiosa, si innalza al divino ed entra in immediata comunione con esso. Maria Maddalena viene rappresentata semidistesa, con la testa gettata all’indietro 10 Cfr. Greimas 1974, voce “processo”. 11 Possiamo riconoscere in questo momento la prima fase (Costituzione) del percorso passionale canonico, quando il soggetto patemico “è messo nella condizione di conoscere una passione” (Fontanille 2012, p. 408). 263 e lo sguardo perso rivolto verso l’alto; anche quando il corpo sembra rilassato, alcuni dettagli lasciano trasparire una tensione che l’attraversa completamente, ad esempio le punte dei piedi tese. Come scrive Careri, “Per mostrare all’esterno uno stato spirituale interno, il corpo in rappresentazione può limitarsi a esibire gli aspetti patologici marginali che investono il corpo «reale» o assumere la configurazione erotica del corpo «immaginario»” (2017, p. 89); per questo motivo, è possibile individuare nella postura di Maria Maddalena tratti tra loro contradditori che rimandando da una parte alla distensione e all’abbandono, dall’altra alla tensione e alla contrazione 12 . In alcuni casi, Maria Maddalena è accompagnata da figure angeliche che figurativizzano l’istante della sospensione, il momento in cui il mondo spirituale e il mondo sensibile entrano in contatto attraverso l’esperienza mistica della santa (Fig. 5). Non si tratta propriamente della rappresentazione del momento dell’estasi, ovvero delle possibili visioni della santa: l’osservatore vede nel corpo della Maddalena gli effetti che l’esperienza mistica provoca. Si tratta quindi del momento iniziale dell’esperienza estatica, quando la coscienza del mondo sensibile e di ogni legame corporeo viene meno. Se è vero che il mistico subisce l’estasi e “non ha alcun controllo sul piano di espressione, sui fenomeni che è costretto a considerare sintomi del divino” (Galofaro 2019, p. 116), forse non è completamente passivo davanti a tali fenomeni. Leggiamo le parole di Santa Teresa d’Avila13: Pur provando diletto, la debolezza della nostra natura ci colma agli inizi di timore, rendendo necessaria un’anima determinata e coraggiosa, molto più di quanto richiesto sino ad ora, per affrontare tutto, accada quel che deve accadere, abbandonarsi nelle mani di Dio e lasciarsi condurre, con fiducia. A tal livello tante volte vorrei resistere, porre resistenza, mettendoci tutte le mie forze, alcune conosciute e altre molto nascoste, perché temo di essere ingannata. Talvolta sono riuscita a resistere un po’, con grande fatica: restavo in seguito stanca come quando si lotta contro una persona grande e grossa. Altre volte era impossibile, mi portava via l’anima e mi rialzava il capo se non tutto il corpo fino a sollevarlo da terra (Santa Teresa d’Avila 2018, p. 287). A causa della debolezza della natura umana che la rende insicura e incerta, l’anima non è sempre pronta: per questo motivo, deve lottare contro la debolezza umana per diventare “un’anima determinata e coraggiosa”. L’unico modo è cedere alla forza divina e abbandonarsi completamente nelle mani di Dio. Alla luce di questo, è possibile riconoscere nella “post-estati” il momento terminativo dell’esperienza estatica. Ancora una volta, ci affidiamo alle parole di Santa Teresa d’Avila: Si resta poi con una strana stanchezza che non saprei neppure descrivere. Mi sembra però di poter dire che è in qualche modo diversa dal solito (al contempo ben diversa dalle altre cose riguardanti il solo spirito). Se già si è spiritualmente distaccati dalle cose, qui sembra che il Signore voglia produrre questo medesimo effetto anche nel corpo, e si crea un nuovo strano rapporto con le cose della terra, da rendere penosa la vita (ibidem). Come nella citazione precedente, torna il tema della stanchezza fisica: dopo aver subìto la forza del divino, il corpo si ritrova sfinito. Maria Maddalena ha completato il suo percorso di conversione che 12 In riferimento al tema dell’estasi si segnala anche lo studio di Careri (1991) del gruppo scultoreo della Cappella Albertoni, realizzato da Gian Lorenzo Bernini: la figura femminile presenta parti del corpo contratte e altre distese, ed è quindi segnata dalla compresenza di termini opposti che non corrisponde a una posizione logica statica ma a un processo dinamico, intensivo e intermittente (p. 131). 13 Come scrive Leone (2010), gli scritti autobiografici di Santa Teresa d’Avila sono caratterizzati da una forte carica emotiva: il cambiamento spirituale non è mai rappresentato come definitivo “but rather as a process or, even better, as an oscillation” (p. 494). La conversione di Teresa d’Avila viene presenta le caratteristiche che l'immaginario religioso della prima età moderna proietta sulla conversione religiosa femminile: seguendo lo stereotipo della trasformazione spirituale della Maddalena, “the religious mutation of a female heart was hardly conceivable without this tumultuous unfolding of tension, attention, passions, emotions” (p. 494). 264 viene sanzionato positivamente grazie all’incontro con Cristo. In queste rappresentazioni, la santa viene raffigurata addormentata e il suo corpo è completamente rilassato. Nell’opera di Karl Wilhelm Diefenbach (Fig. 6), la luce che illumina il corpo nudo della santa è dai toni giallo-arancioni, come se provenisse da una lanterna, mentre sullo sfondo le nuvole presentano leggerissime sfumature di rosa e gialli: la notte è passata e sta albeggiando, è l’inizio di una nuova vita, seguendo Cristo. 4. Uno sguardo al corpo nudo L’enorme fortuna che ha avuto la figura di Maria Maddalena non è solamente legata al tema della penitenza e della conversione. La storia del passato peccaminoso della santa ha consentito agli artisti di esercitarsi e destreggiarsi con il nudo femminile senza allontanarsi dei temi sacri che hanno dominato per secoli la produzione artistica14. Per questo motivo, la bellezza seducente e la femminilità di Maria Maddalena si trovano a dialogare in modo dialettico con la sua santità e il legame con Cristo che le attribuisce la tradizione. Nel Cinquecento, la figura di Maria Maddalena penitente trova una sensualità nuova con Tiziano (Fig. 7), che si distacca dalle precedenti raffigurazioni della santa che ne nascondevano completamente il corpo (Donatello, Maddalena penitente, 1453-1455, Fig. 8) e ne esalta la nudità. Inizia così a porsi l’accento sulla condizione di “peccatrice seducente” (Brunelli 2022, p. 22) che si arricchisce, sul finire del XVI secolo e in particolare grazie alla circolazione degli scritti di Santa Teresa d’Avila e alla sua beatificazione (1614), di nuovi modelli figurativi in cui sensualità e spiritualità possono coesistere senza scontrarsi (Guido Cagnacci, Santa Maria Maddalena penitente, 1626-1627, Fig. 9) ma anche di forme più devozionali legate al tema dell’incontro con il divino (Strozzi, Santa Maria Maddalena penitente, 1620 circa, Fig. 3). Infine, con il Neoclassicismo e il Romanticismo, la figura della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa e diventa pura esibizione dell’abilità pittorica dell’artista sul nudo femminile (Hayez, La Maddalena penitente, 1833, Fig. 10). Il corpo della santa, a partire dall’opera di Tiziano, sembra che inizi sempre più a parlare di sensualità. Il nudo, però, è solo una parte di una “configurazione discorsiva che si iscrive in una narrazione” (Calabrese 2012, p. 206) e, in questo caso, ne riveste il ruolo centrale. Prendendo ad esempio l’analisi sul nudo di Calabrese in La macchina della pittura (2012), è interessante approfondire anche nel nostro caso in che modo il corpo della santa si relaziona con l’osservatore. Inoltre, se non in alcune rappresentazioni, Maria Maddalena non è mai completamente nuda: gli artisti giocano con le vesti e, in particolare, con capelli per (s)coprirne il corpo. Come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 2), Maddalena è raffigurata sola e in un luogo isolato: non sono quindi presenti altri attori che potrebbero vederla nuda ma è solo l’attante osservatore, posto nella posizione implicita del punto di vista, che intrattiene una qualche relazione con essa. Non potendo però affrontare l’analisi di ogni rappresentazione nel dettaglio, ci limiteremo a individuare delle situazioni-tipo. 1. Il corpo della santa è completamente nascosto alla vista dell’osservatore: i capelli lo rivestono nella sua totalità, lasciando visibili solo gli arti e il volto, impedendo anche la sola percezione delle forme; in questo caso, viene messa in evidenza l’opacità materica dei capelli che, data la loro quantità e lunghezza, svolgono la funzione di una veste, di una pelliccia. Lo sguardo della Maddalena è orientato all’osservatore e lo interpella direttamente, lo pone in una posizione di dover guardare. Ne sono un esempio le rappresentazioni più antiche, come la tavola agiografica di Maddalena penitente e otto storie della sua vita (Maestro della Maddalena, 1280-1285; cfr. anche Fig. 8), precedenti all’opera di Tiziano. 2. Le vesti scivolano sul corpo, lasciando in parte scoperte le spalle e i seni; alcune ciocche di capelli ne 14Sul tema della bellezza seducente della figura della Maddalena è possibile visionare anche il lavoro di Dondero (2007), in particolare l’analisi delle fotografie di Pierre et Gilles che “utilizzano la sensualità della donna fotografata per instillare nell’osservatore il dubbio sulla leggendaria conversione della santa” (p. 92). 265 limitano la visione completa. L’osservatore può percepirne le forme o avere una visione quasi perfetta del seno. In questo caso, i capelli offrono svariati gradi di visibilità, non sono più un filtro completamente opaco ma lasciano trasparire la carne; svolgono la funzione di “focalizzatore del desiderio” spostando l’attenzione su ciò che (non)coprono, impossibile però da afferrare e quindi fortemente desiderabile (Volli 2016). Rispetto allo sguardo della santa, possiamo individuare delle varianti di questa situazione: a) Lo sguardo è orientato allo spettatore ma è assente, come indifferente alla sua presenza; b) Lo sguardo è interno al quadro e rivolto a un oggetto (il teschio, il libro, il crocifisso). La santa non cerca di coprirsi ma, al contempo, non è interessata allo sguardo dell’osservatore. 3. Maddalena copre volontariamente il suo corpo dal possibile sguardo di un’intrusione improvvisa, portando le mani al petto. La semitrasparenza che offrivano i capelli è, in questo caso, negata dal gesto volontario della santa che li raccoglie tra le mani, davanti al seno (Fig. 4), mentre vengono sfruttate le proprietà coprenti del tessuto (Fig. 7). Lo sguardo è rivolto verso l’alto in direzione di qualcosa posto ai limiti del quadro o fuori di esso, che ha attirato improvvisamente la sua attenzione. Rispetto alle situazioni precedenti, si definisce una situazione di riservatezza e subentra il pudore: la santa non vuole essere guardata da questo nuovo attante, percepito come estraneo e intruso. 4. Il corpo della santa è completamente offerto alla vista dell’osservatore (Fig. 9, 5), i capelli e i tessuti non ne impediscono in alcun modo la visione. La santa può rivolgere uno sguardo completamente assente fuori dai limiti del quadro, oppure tiene gli occhi chiusi: in entrambi i casi, è indifferente alla presenza dell’osservatore e non accenna alcun gesto di copertura. 5. Conclusioni In questa serie di opere, classificate sotto la medesima configurazione iconografica definita “Maddalena penitente”, si può individuare un percorso narrativo15. Alla prima fase di presa di consapevolezza del proprio vissuto, in cui avviene la rottura dell’equilibrio, segue la meditazione, cioè il momento della manipolazione in cui la santa decide di intraprendere il percorso di conversione; la contemplazione e l’illuminazione corrispondono alla fase della competenza, in cui Maddalena si prepara all’incontro con Cristo. Infine, la fase dell’estasi, di cui vediamo solo il momento incoativo del rapimento estatico e quello terminativo della post-estasi, corrisponde da una parte alla fase della performanza, cioè della lotta interiore dell’anima contro la debolezza umana; dall’altra alla sanzione, in cui alla santa viene riconosciuta l’avvenuta conversione tramite la possibilità di incontrare Cristo. Abbiamo anche notato che gli artisti, nel corso dei secoli, danno al corpo nudo e alla sua sensualità sempre maggiore rilievo. Possiamo però osservare che la nudità della santa assume accezioni diverse nelle varie fasi del suo percorso di conversione e non rimanda necessariamente solo alla sensualità, come invece sembra emerge dall’opera di Tiziano in poi. Osserviamo che la Maddalena passa da una postura raccolta (testa china, spalle chiuse e busto ricurvo sugli oggetti della preghiera) che caratterizza i momenti della meditazione e della contemplazione, a una postura più aperta nel momento dell’illuminazione (spalle e testa dritte, sguardo verso l’alto), fino ad una completa apertura nel momento del rapimento estatico (corpo sdraiato e testa gettata all’indietro). A questa progressiva apertura, corrisponde da una parte, una tensione crescente che, come abbiamo visto in precedenza (cfr. § 3), culmina nel momento del rapimento estatico per poi distendersi immediatamente; dall’altra, possiamo notare un mostrarsi graduale del corpo che, in un gioco di opacità e trasparenze che articola le vesti, le mani e i capelli, arriva ad offrirsi completamente nudo all’osservatore (Fabbri 2004; Galimberti-Zanetti 2004; Volli 2016; Chiais 2022). Sul piano del contenuto, questa inversione della postura di Maria Maddalena corrisponde al graduale allontanamento dal suo passato peccaminoso; invece, il progressivo svestirsi del corpo rimanda all’abbandono delle 15 Cfr. Greimas 1974, voce “narrativo (percorso –)”. 266 abitudini viziose e della mondanità – di cui l’abito e i capelli ne sono figura – e al graduale mutamento dello spirito che conduce Maria Maddalena alla conversione e all’incontro con Cristo. Utilizzando le parole di Paolo Fabbri: “Lo svelamento è rivelazione: può andare ben oltre la pelle – che è vestigio della veste – e cercare, nella sua effrazione e tortura (ferire, amputare, scorticare), l'accesso ad una verità incorruttibile di cui la carne è il velo” (2004, p. 7). La tensione tra carnalità e spiritualità che caratterizza la figura ambigua di Maria Maddalena è stata certamente la fortuna della diffusione e dell’interesse nei confronti di questa santa. Se nella storia dell’arte l’iconografia della Maddalena penitente perde ogni connotazione religiosa per dare spazio al virtuosismo pittorico, dall’altra l’analisi dimostra che non ha mai perso del tutto il suo carattere devozionale. In questo modo, la carnalità sensuale che ne traspare non si pone in opposizione alla spiritualità: il corpo nudo, giovane e voluttuoso di Maria Maddalena è figura degli habitus del suo passato che, tuttavia, tramite il percorso di conversione della santa, viene risemantizzato e anch’esso diviene figura del pentimento, della conversione e della comunione con Dio. 267 Appendice Fig. 1 – Maddalena penitente, Caravaggio, 1596-1597, olio su tela, 122,5x98,5 cm, Roma, Galleria Doria Pamphilj. Fig. 2 – Santa Maria Maddalena penitente , Giovanni Maria Viani, 1690 circa, olio su tela, 96x78 cm, collezione privata. 268 Fig. 3 – Santa Maria Maddalena penitente , Bernardo Strozzi, 1620 circa, olio su tela, 97x73 cm Genova, Musei di Strada Nuova, Palazzo Bianco. Fig. 4 – Santa Maria Maddalena penitente , Palma il Giovane, 1615 circa, olio su tela, 132x112 cm Bergamo, Accademia di Carrara. 269 Fig. 5 – Esatasi di Santa Maria Maddalena, Alessandro Rosi, 1670 circa, olio su tela, 110x135 cm, Firenze, Galleria degli Uffizi, Galleria palatina. Fig. 6 – La Maddalena penitente, Karl Wilhelm Diefenbach, olio su tela, 213x122 cm, Vienna, Fine Art Gallery Leon Wilnitsky. 270 Fig. 7 – Santa Maria Maddalena penitente , Tiziano Vecellio, 1566-1567, olio su tela, 122x94 cm, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte. Fig. 8 – Santa Maria Maddalena penitente , Donatello, 1450-55 circa, legno, 185x5x45 cm Firenze, Museo dell'Opera del Duomo. 271 Fig. 9 – Santa Maria Maddalena penitente , Guido Cagnacci, 1626-1627, olio su tavola, 86x72 cm, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica. Fig. 10 – La Maddalena penitente, Francesco Hayez, 1833, olio su tavola, 118x141,5 cm, Galleria d’Arte Moderna, Milano. 272 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Acidini, C., Brunelli G., Mazzocca F., Refice P., a cura, 2022, Maddalena. Il mistero e l’immagine, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale. Brasa, F., 2022, “Maria Egiziaca. Nudi seguire Cristo nudo”, in C. Acidini, et al., a cura, 2022, pp. 56-61. Brunelli, G., 2022, “Maddalena. Il mistero e l’immagine. Introduzione alla mostra”, in C. Acidini, et al., a cura, 2022, pp. 17-25. Calabrese, O., 1985, La macchina della pittura, Bologna, La casa Usher; nuova ed. 2012. Careri, G., 1991, “Soave tormento: il montaggio passionale in Gian Lorenzo Bernini”, in I. Pezzini, a cura, Semiotica delle passioni. 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Colmi elementali. Sulla smaniera contemporanea di Nicola Samorì Mirco Vannoni Abstract. Direct engagement with the theoretical problems of painting characterizes contemporary art. As Louis Marin (1986) points out, the idea of “artistic practice” and its emphasis on thinking about the difference between the material support and the painted surface of the work is central to contemporary art. This type of investigation deserves to be linked to reflections on the “factual power” of the materials used in contemporary art (Magli 2003) and on the enunciative role of the artist’s gestural expressiveness in the production of the artwork (Damisch 1981; Corrain 2016). This paper will focus on the work of Nicola Samorì and the material dimension of his artistic practice. It will reflect on the status of the visual material as a generative element of representation and on the relationship between the manipulative power of the materials and tools used by the artist. Taking into account Barthes’ doctrine (1982) of a not yet written history of the tools and materials of art, I will question Samorì’s work, starting from the way these works of art are realised, with the attempt to show the various sensitive relationships that can arise between surfaces, materials and the gestures of the artist. « Apercevez-vous quelque chose ?» demanda Poussin à Porbus. « Non. Et vous ? », « Rien » […]. « Le vieux lansquenet se joue de nous », dit Poussin en revenant devant le prétendu tableau. Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu La peinture pense. Comment ? C’est une question infernale. Georges Didi-Huberman, La peinture incenee 1. In apertura Come ricorda Louis Marin in un’intervista a Flash Art del 1986, molta della produzione artistica contemporanea si caratterizza per l’emergere progressivo di una riflessione teorica sulla pittura espressa attraverso il linguaggio stesso della pittura: ciò che mi sembra più caratteristico della pittura “contemporanea” (in contrapposizione alla pittura “moderna”) è che la sua nozione di pratica pittorica o, più in generale, di pratica artistica, si basa sul presupposto che la sperimentazione diretta dei problemi teorici della pittura possa in effetti diventare “il soggetto della pittura” [...]. In passato, il pittore (o il “critico”) elaborava un discorso teorico sulle procedure pittoriche. Nel “presente”, il pittore realizza un’opera, o un quadro, che dà corpo pittorico alla sua teoria della pittura (Marin 1986, p. 53; tr. nostra). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Stando a queste parole dello studioso francese, conosciuto soprattutto per le sue ricerche sulla rappresentazione pittorica dell’età classica 1 , il prisma interpretativo dell’arte contemporanea può dunque rivelarsi un ottimo luogo di analisi e di messa alla prova delle teorie della pittura espresse attraverso la pittura stessa. Ne è un caso il problema dalla dimensione alchemico-elementale della materia pittorica nel lavoro di Nicola Samorì, la cui produzione artistica si caratterizzata per una continua e costante messa in discussione della presupposta planarità del supporto della rappresentazione pittorica. Nel mio lavoro ho sempre molestato il piano, la superficie. Tutto il mio lavoro parla di questo: di un’incapacità di accogliere il sonno bidimensionale della pittura. Guardando di profilo, cosa succede a un dipinto? Il problema della rottura di integrità di una superficie, della ferita che torna e ritorna, è reale? È immaginata? Ha comunque a che fare con una sorta di inaccettabilità del piano (Samorì 20232). Nel suo lavoro Samorì erode, corrode, brucia e strappa la “pelle” della pittura. Si prenda, tra le altre, la serie di opere che compone Cammino cannibale esposta nel 2020 alla Fondazione Made in Cloister di Napoli. Sono sei progressivi strappi murali in cui la figura di Marsia, giovane sileno punito da Apollo, da un grado massimo di densità figurativa arriva alla completa astrazione, alla pura materialità della porzione muro incorniciata come ultimo elemento dell’ensemble. Fig. 1 – Nicola Samorì, Cammino Cannibale (2018-2019), chiostro di Santa Cecilia – Fondazione Made in Cloister, Napoli, 2021 (© Nicola Samorì). Il racconto della scarificazione, topos che nella storia dell’arte ha suscitato l’interesse di maestri come Tiziano, viene tradotto da Samorì in una vera e propria decorticazione dell’immagine3. Infatti, una volta realizzato l’affresco del sileno, Samorì procede a strappare l’opera muraria dal suo supporto. Esito di questa procedura di estrazione, come si può vedere (Fig. 1), sono sei livelli di intonaco che l’artista rende autonomi ed espone in serie come differenti strati dell’“epidermide” della pittura. In quest’opera il tema dell’enunciato, la flagellazione di Marsia, si trova appunto duplicato nel gesto enunciativo dell’artista ovvero nello sfregio del supporto. A discapito di una rappresentazione mimetica del racconto della punizione divina, la mise en place dei diversi strappi che compongono Cammino cannibale si configura come ri-presentazione del gesto che li ha resi possibili. Un cortocircuito tra narrazione mitologica e 1 Si faccia riferimento, a titolo di esempio, ai lavori su Caravaggio e Poussin (Marin 1978), Philippe de Champaigne (Marin 1995) o sulla pittura italiana del Quattrocento (Marin 1989). È bene notare, tuttavia, che a partire dalle sue ricerche sulla teoria del linguaggio e del segno nella Logica di Port-Royal, Marin si è lungamente occupato di temi come quello dell’efficacia dell’immagine (sia verbale che visiva), di teoria del potere, del discorso religioso così come dei testi letterari che esulano da un campo di ricerca esclusivamente votato all’età moderna come dimostrano i suoi studi su Disneyland a partire dall’Utopia di Thomas More, o quelli su Pollock, Stella, Klee e Crivelli (Marin 1971, 1982, 1992). 2 www.artribune.com/television/2023/01/video-nicola-samori-i-martedi-critici/, consultato 14 gennaio 2023. 3 Sul tema della scarificazione nelle arti visive, si veda Polacci (2018). Sul tema delle ferite, invece, Mengoni (2012). 275 pratica artistica in cui Samorì sviluppa una meta-riflessione sulle modalità di costruzione dell’opera effettuata attraverso la materialità intrinseca della pittura muraria e della sofisticata tecnica dello strappo. Quella di Samorì è infatti una gestualità che gioca costantemente in una dialettica tra figuratività e de- figurazione e in cui assume piena centralità lo statuto della materialità pittorica come elemento intrinseco della significazione, di cui si tenterà di rendere conto. 2. La s-smaniera Samorì Nicola Samorì è un artista contemporaneo che guarda con meticolosa attenzione ai maestri e alle opere del passato da cui la sua poetica prende avvio. Uno sguardo rivolto prevalentemente al Seicento italiano e spagnolo e a figure come Guido Reni, Annibale Carracci, il Guercino o José de Ribera. Forme sedimentate nella memoria collettiva della cultura occidentale che Samorì riproduce con estrema precisione attivando veri e propri giochi di intertestualità che si discostano dal mero citazionismo. A un primo momento di ri-produzione delle opere dei grandi maestri, seguono interventi successivi eseguiti direttamente sul supporto della rappresentazione che producono un costante scontro tra sostanza formata e informe. Si tratta, come già ricordato, di smembramenti, graffi, dissezioni del supporto pittorico che sono al tempo stesso sia traccia del fare artistico sia elementi significanti a livello discorsivo. I primi da interrogare a partire dalla forza manipolatoria dei materiali e degli strumenti utilizzati in relazione con il supporto della rappresentazione; i secondi, invece, in quanto in grado di abilitare a una riflessione sullo statuto della materia pittorica come elemento generativo della significazione. Questo tipo di processualità, riportando l’attenzione sul diagramma di forze che sono al lavoro nelle opere di Samorì – per dirla à la Deleuze (1983) –, impone una specifica riflessione sulla dimensione della materia, dei materiali, delle texture e delle tecniche di realizzazione, così come sulla gestualità del fare artistico, che operano all’interno della singolarità delle sue opere. È qui in discussione quanto mettono in luce anche da Stefania Caliandro e Angela Mengoni (2022, p. 2; tr. nostra) a partire da una ripresa del lavoro di Hubert Damisch: “gli elementi (fili, forme, colori), manipolati dall’artista in vista della creazione, hanno valore in definitiva solo attraverso le relazioni morfologiche e spazio-temporali che questi oggetti possono generare”. Un potenziale della significazione che esula dalla dimensione mimetica della rappresentazione prospettica e invita, piuttosto, a una riflessione sullo spessore della pittura. Nei termini di una logica del sensibile dell’immagine, sottolinea Damisch (1984, p. 290; tr. nostra), “non mi sembra che ci sia alcuna difficoltà [...] che un piano possa avere un certo spessore”. Uno spessore che manifesta nel lavoro di Samorì un rapporto indissolubile, ricostruibile àpres-coup, tra impasto materico della pittura e pelle dei soggetti rappresentati (cfr. Didi-Huberman 1985). Un legame che non riguarda ovviamente soltanto le opere dell’artista forlivese, ma che è comune a molte sperimentazioni artistiche contemporanee. Come sostiene anche Willem de Kooning (1950), infatti, “la carne è la ragione per la quale la pittura a olio è stata inventata”. Tuttavia, vi è una differenza sostanziale tra la modalità d’uso dell’impasto a olio da parte di Samorì e quello proprio, ad esempio, dei pittori fiamminghi del XV secolo (tra i primi, in epoca moderna, a utilizzare questa tecnica)4. A differenza di quest’ultimi, attenti alle qualità materiche della pittura a olio per gli straordinari effetti di mimetici che essa permetteva di realizzare, Samorì si mostra piuttosto interessato alla condotta del materiale, a quella che potremmo chiamare una “logica di significazione fondata sui comportamenti di tale sostanza” (Migliore 2012, p. 213). 4Nelle Vite Vasari attribuisce l’invenzione della pittura a olio a Jan van Eyck. Sebbene sappiamo che la genealogia di questa tecnica pittorica sia molto più antica – ne davano notizia già Marco Vitruvio Pollione, Plinio il Vecchio e Galeno, così come alla fine del Trecento Cennino Cennini ne parlava nel Libro dell’Arte – è comunque dalla metà del XV secolo che l’olio conobbe una straordinaria diffusione. 276 Tutto il mio lavoro di pittore e scultore ha a che vedere con la pelle […] con l’organo che separa l’interno dall’esterno. Un dipinto è sempre, del resto, una pelle che riveste uno scheletro: la tela, il telaio, il muro, il foglio. Una volta costruito il corpo della pittura per me è quasi automatico pensare che se ne possa scorticare la pelle per mettere in evidenza le prime pennellate, quelle che si sono appoggiate direttamente sulla superficie levigata del rame, oppure del legno. Il rovescio della pittura, come la parte nascosta della pelle, rivela allora qualcosa di fresco e di brutale (Samorì 2021). La maniera di lavoro di Samorì è quella dello sfregio. È una s-maniera capace di cogliere gli inviti che la materialità della pittura a olio può offrire alla sua pratica artistica che si presentano come aspetti interessanti da indagare con più precisione. 3. Prodromie letterarie In apertura a un’indagine sul rapporto tra materialità e fare artistico, il racconto di Honoré de Balzac, Le chef d’œuvre inconnu (1837) può consentirci di entrare con un po’ più di chiarezza nel merito di alcune questioni che sono centrali nel lavoro di Nicola Samorì: da un lato ciò a cui si fa riferimento è il rapporto che esiste tra rappresentazione mimetica e astrazione; dall’altro a essere chiamato in causa è invece la relazione tra le modalità di produzione testuale e l’opera-testo5. In breve, quella di Balzac, è la storia inventata di tre pittori. Di essi, due sono effettivamente esistiti (Nicolas Poussin e Frans Pourbus il Vecchio), il terzo invece è un personaggio di fantasia (Frenhofer). Sviluppando temi cari alla letteratura artistica come quello della verosimiglianza e del capolavoro artistico, le vicende orbitano intorno a una misteriosa opera, La Belle Noiseuse, una tela a cui Frenhofer sta lavorando da oltre dieci anni nel tentativo di renderla perfetta. Un lavoro estenuante e meticoloso che il maestro non riusciva a portare a compimento e a cui però trovò soluzione il giovane Poussin: far posare la donna che amava – la bellissima Gilette – così d’avere in cambio, anche solo per una volta, la possibilità di vedere il quadro qualora fosse stato realizzato. Sebbene le iniziali ritrosie, Frenhofer acconsente e così in poco tempo riuscì a terminare il suo capolavoro. Una volta svelata l’opera, però, essa non destò nei due pittori l’effetto sperato: “Io qui vedo soltanto un confuso ammasso di colori, delimitati da un’infinità di linee strane che formano una muraglia di pittura” fu l’esclamazione del giovane Poussin. Solo in seguito, a uno sguardo più attento, i due pittori si resero conto della bellezza del capolavoro del maestro: “Avvicinandosi scorsero in un angolo della tela la punta di un piede nudo che fuoriusciva da quel caos di colori, di toni, di sfumature indecise, di tutto, una specie di nebbia informe: ma era un piede delizioso, un piede vivo! Rimasero pietrificati per l’ammirazione dinanzi a quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione” (Balzac 1837, p. 123). Come si può notare da questa rapida ripresa del racconto, a sorreggere l’intera macchina narrativa de Le chef d’œuvre inconnu risiede una complessa e articolata riflessione sulle forme artistiche che Balzac dipinge ben prima dell’avvento dell’astrattismo. Nelle parole del romanziere emerge infatti il complesso tema della distruzione della dimensione figurativa della rappresentazione e che, seguendo la proposta di Omar Calabrese, mette a fuoco la questione squisitamente semiotica della dimensione astratta del figurativo: Il vero problema è che la perfetta verosimiglianza ricercata da Frenhofer comporta in realtà una tale sottigliezza dell’artificio tecnico che solo questo alla fine appare alla superficie, dato che non c’è più spazio per la rappresentazione come contenuto, ma solo per la rappresentazione come forma pura dell’artificio. La assoluta verità coincide anzi con l’assoluto dell’artificio. Linee senza più forme da contenere; colori 5Oltre a quelli a cui si fa riferimento, sono stati molti i lavori all’interno del panorama semiotico e di teoria dell’arte che si sono occupati del racconto di Balzac. Si vedano a tal proposito: Damisch (1984); Marin (1984a); Didi- Huberman (1985); Lancioni (1993). 277 senza più oggetti da manifestare. Le geometrie e lo spessore del supporto sono talmente trattati che la profondità dello spazio mimetico non riesce più ad apparire (Calabrese 1987a, p. 18). In aperto contrasto con le strategie della rappresentazione che hanno come obiettivo quello di restituire una resa della profondità, effetto mimetico della terza dimensione, quella che appare nel racconto di Balzac è la descrizione di una sfida aperta alla verosimiglianza. Una profezia, si potrebbe quasi dire, che troverà il suo effettivo compimento soltanto con le sperimentazioni di artisti moderni come i dripping di Jackson Pollock, le bruciature di Alberto Burri, i tagli di Lucio Fontana o, appunto, i giochi alchemico-elementali dello stesso Samorì 6. A fianco a questo tipo di considerazioni, la ripresa della lezione americana sulla visibilità di Italo Calvino può rivelarsi utile per mettere a fuoco un interessante rapporto di analogia tra la produzione del capolavoro di Frenhofer (fare enunciativo a livello dell’enunciato) e quella testuale di Balzac (livello dell’enunciazione enunciata) 7. Calvino ci ricorda infatti come la forma ultima de Le chef d’œuvre inconnu sia stata l’esito di una serie di riscritture iniziate nel 1831, anno in cui comparve per la prima volta sulla rivista L’artiste, e giunte a compimento solo nel 1837. Questo è a tutti gli effetti un “gioco di testualità”, come direbbe anche Louis Marin (1971, p. 9), le cui tracce si possono già ritrovare nell’utilizzo di differenti sottotitoli che accompagnarono l’opera e per cui – ad esempio – all’iniziale epiteto “racconto fantastico” (1831) fu infine preferito il più caustico “studio filosofico” (1837) 8 . La serie di variazioni che si possono riscontrare tra le varie edizioni del racconto, “strati di parole che s’accumulano sulle pagine come gli strati di colore sulla tela” (Calvino 1993, p. 86), permettono infatti di riconoscere un interessante relazione meta-testuale tra la produzione del racconto da parte di Balzac e le imprese di Frenhofer. Un gioco dialogico tra produzione e prodotto testuale che è fondativo della pratica artistica di Samorì come si è potuto scorgere anche in apertura con Cammino cannibale in cui la gestualità dell’artista in relazione con la materialità pittorica dell’affresco ri-presenta il processo di scorticamento a cui fu sottoposto Marsia. 4. Lo spessore della pittura: luogo del senso Per capire la portata semiotica e teorica del gesto di Samorì sembra quindi opportuno sviluppare una riflessione che si muove nel solco della proposta barthesiana di una storia ancora non scritta di strumenti e materiali dell’arte. Quando la pittura è entrata nella sua crisi storica – dice Barthes (1982, p. 147) –, così come si è assistito a una moltiplicazione degli strumenti a discapito del solo pennello, lo stesso è avvenuto anche per i materiali: “c’è stato un viaggio infinito di oggetti traccianti e dei supporti dietro la pittura. Al di là della sua superba individualità storica (l’arte sublime della rappresentazione colorata) c’è altro: i movimenti del graffio, della glottide, delle viscere, una proiezione del corpo, e non solo una padronanza dell’occhio”. 6 Sui “problemi di enunciazione astratta” è recentemente tornata Mengoni (2020). Un testo fondamentale, vista la postura mariniana che permette di tornare con acume sul problema delle marche enunciative all’opera nella produzione artistica contemporanea. 7 Come sostiene anche Emile Benveniste a proposito dell’enunciazione scritta: “questa si muove su due piani: lo scrittore si enuncia scrivendo e, all’interno del suo scrivere, fa sì che degli individui si enuncino” (Benveniste 1970, p. 127). 8 Il cambiamento di nomenclatura è a tutti gli effetti un apparato testuale che si fa ri-presentazione di variazioni operate dall’autore a livello di una semantica del discorso. Nella processualità delle riscritture de Le chef d’œuvre inconnu è allora possibile vedere una vera e propria rappresentazione (cfr. Marin 1975; 1989) dell’evoluzione stilistica della produzione balzachiana dato che questo racconto, come ci ricorda Calvino (1993, p. 84), è “situato in un punto nodale della storia della letteratura, in un’esperienza ‘di confine’, ora visionario ora realista, ora l’uno e l’altro insieme”. 278 Una questione che chiama parimenti in causa l’inscindibile rapporto tra materiali e gestualità del fare artistico. Perché, potrebbe essere legittimo chiedersi, guardare in maniera così insistente a questo tipo di rapporto? Una delle possibili chiavi di lettura a questa domanda, nel momento in cui si vuole riflettere sui meccanismi di produzione della significazione nell’arte 9 , è stata avanzata sempre da Hubert Damisch: Se vale la pena soffermarsi sulla questione dell’artista è in primo luogo in quanto essa può e deve portare a sviluppare, nel quadro di una teoria generale dell’enunciazione, una problematica coerente del soggetto non come ‘origine’ ma come operatore del messaggio: come agente tra gli altri, in un dato contesto, della funzione artistica stessa (Damisch 1981, p. 964; tr. nostra). Visto che, come ricorda anche Paolo Fabbri (1986, p. 16), la semiotica è una disciplina che “rinfresca la sua forza con l’uso”, vorrei concentrarmi adesso su alcune opere di Nicola Samorì che permetteranno di sviluppare alcune di queste premesse. I casi su cui mi soffermerò sono tra loro accumunati da una vicinanza tematica che è quella della rappresentazione dei martiri10. Questo è uno dei grandi filoni della sperimentazione artistica di Samorì in cui figurazione, de-figurazione, materia formata e informe sono indissolubilmente connessi fra loro. Si vedrà che a differenza di quella tradizione barocca che presuppone una rappresentazione trionfante del santo nel momento del martirio, le opere di Samorì sono decadenti, funeree e antimonumentali. In aperto contrasto con una retorica della meraviglia che doveva investire lo spettatore, quelle dell’artista forlivese sono piuttosto immagini abominevoli, orrorifiche. Sono opere che non hanno niente a che vedere con la stoicità cristiana. Sono immagini molli, in declino costante. 4.1. Chi ha peccato, scagli la prima pietra Pietra Penitente è un olio su tavola (100 x 100 cm) in cui vediamo ripresa la figura di San Girolamo realizzata da José de Ribera tra il 1638 e il 1640 (Fig. 2), oggi conservata al Museum of Art di Cleveland. A partire dalla riscrittura di quest’opera, il lavoro di Samorì si configura come caso paradigmatico in cui l’agire pittorico dell’artista si costituisce come meta-discorso sulla pittura. Nel rapporto di tensioni tra gestualità dell’artista e materia, infatti, il piano trasparente della rappresentazione viene messo in discussione a partire dalla relazione che si può rintracciare tra pittura e materialità dell’opera come insieme significante. Le operazioni che ne permettono la realizzazione sono l’esito di una successione di momenti ben precisi e distinti, ognuno dei quali intrattiene con la materialità della tecnica a olio un rapporto diverso. A essere in gioco nel lavoro di Samorì è l’arte dell’alchimia, per come la intende anche John Elkins (1999), ovvero come specifica competenza di chi la esercita 11. 9 La questione ovviamente è ampia, e riguarda l’annoso problema della supposta distinzione tra testo e pratica. Si veda, a tal proposito, la risoluzione del dissidio proposta da Marrone (2010, pp. 3-80) e Lancioni e Marsciani (2007). Posizioni in cui chi scrive si riconosce. 10 Su questo si veda Leone (2016), Ponzio (2018). 11 Sostiene a tal proposito Elkins (1999, p. 27): “L’alchimia è l’arte che sa come ottenere una sostanza che nessuna formula può descrivere”. 279 Fig. 2 – José de Ribeira, San Girolamo (1638-1640). Fig. 3 – Nicola Samorì, Pietra penitente (2016) (© Nicola Samorì). Nel caso di Pietra penitente (Fig. 3), si assiste a un incontro-scontro tra la maestria del saper-fare dell’artista e le proprietà materiche dalla pittura a olio, vero e proprio attore non-umano. La materialità pittorica, nella viscosità dell’olio, detiene in sé tutta una serie di proprietà intrinseche che invitano, suggeriscono, quelle che sono le azioni stesse per manipolarla12. Sono i lunghi tempi richiesti all’impasto oleoso per essiccare che permettono pertanto la realizzazione dell’opera in una serie di concatenamenti sintagmatici di avvenimenti sensomotori in cui emerge l’importanza della dimensione alchemico- elementale della pittura. Tutto prende avvio dalla sovrapposizione su una tavola di un grande strato materico di pittura (oltre 5 cm). Un momento di occultamento per stratificazione del supporto della rappresentazione che rievoca la fase di preparazione della tela che è l’imprimitura. Atteso il tempo necessario affinché il solo strato più superficiale sia asciutto (pochi mm), l’artista realizza su di esso una copia dell’opera di Ribera con una lievità del gesto simile a quella di un tatuatore sulla pelle umana13 . Un’operazione che è resa possibile dal cambiamento delle condizioni di esistenza elementali che mutano nel passaggio della materia da uno stato discreto a uno compatto. Seguendo la proposta di Françoise Bastide (1987), è questa operazione di chiusura della materia che dona alla pittura a olio più superficiale la resistenza necessaria a rendere possibile il suo uso da parte dell’artista come supporto per la rappresentazione. Tuttavia, questo processo di “compattizzazione” è solo parziale e celato dalla strutturazione più superficiale: al di sotto di essa la corposità della pittura a olio è infatti ancora molle e amorfa. Un gioco di consistenze, una co-esistenza di gradi di compattezza differenti, che permette la realizzazione del secondo atto del fare artistico di Samorì. Presa una pietra, con un gesto che rievoca la violenza del martire, fende la superficie essiccata e grazie alla mollezza sottostante de-figura l’immagine di San Girolamo. Quella dell’artista forlivese, come si può vedere, è a tutti gli effetti una pièce in due atti in cui la pratica artistica introduce due atteggiamenti tra loro in aperto contrasto in rapporto all’idea di opera-quadro. Il primo riguarda l’effetto mimetico della profondità che Samorì realizza attraverso la ricostruzione di una 12 Sulla manipolazione delle materie si veda in ambito prettamente artistico Magli (2003); in ambito culinario Pozzato (2020); Marrone (2022). 13 Si noti come di tutto l’insieme degli oggetti propri dell’iconografia del santo, l’unico a essere preservato è la pietra. Sono scomparsi dal livello figurativo dell’immagine di Samorì il testo sacro e la croce. Un processo di spoliazione che laicizza la pittura e la prepara per un discorso di altro tipo. 280 profondità al di là del quadro proprio del momento di ri-produzione dell’immagine del santo14 , il secondo invece pertiene allo statuto della pittura a olio come soggetto della rappresentazione che emerge nel momento in cui Samorì smembra lo spesso strato di impasto pittorico ancora molle. Come evidenzia anche Barthes a proposito delle opere di Cy Twombly, “il potere demiurgico del pittore consiste nel fatto che egli fa esistere il materiale come materia; anche se dalla tela scaturisce del senso, [la pittura a olio] rimane cosa, sostanza ostinata, il cui ‘esserci’ non può essere impedito da nulla (da nessun senso a posteriori)” (Barthes 1982, p. 178). C’è però una sostanziale differenza tra il Twombly barthesiano e il nostro pittore forlivese. Il primo aggiunge strati di matita e colore; Samorì invece, in un procedimento che rievoca più i grattage surrealisti, interviene per asportazione della superficie pittorica che così assume corpo, volume e senso. Materialità e significazione sono infatti nel lavoro di Samorì due elementi inscindibili. Guardando al valore che un tale avviluppamento materico assume all’interno del sistema testuale in cui è iscritto, si può rintracciare il rapporto specifico che la materia informe intrattiene con il senso complessivo dell’opera. È grazie alla relazione con gli altri elementi del quadro che la materia scarificata da Samorì può attualizzarsi in un’analogia tra pittura asportata e pelle decorticata. Un gioco significante come nel caso della rappresentazione di Girolamo, santo penitente che si percuote il petto con la pietra, il cui volto e corpo sono stati flagellati dalla mano dell’artista15. 4.2. Fendere la pelle, mostrare la violenza Questo gioco dialettico tra potenzialità della materia e produttività del senso è all’opera anche nel dittico Indovina – Abbagliata che Samorì realizza nel 2017. La prima di queste immagini, Indovina (Fig. 4), è realizzata in maniera analoga a quanto si è messo in luce con Pietra penitente. Differisce da essa solo per il tipo di gestualità con cui viene realizzato lo sfregio. Invece di ricorrere a una pietra, Samorì smembra il volto di Santa Lucia conficcando all’interno dell’impasto materico ancora duttile le sue dita. Nuovamente, si assiste a un dialogo significante tra gestualità del fare artistico e storia della passione del santo. Come si sa, la tradizione popolare ha da sempre invocato Lucia (da lux, luce), martire accecata, come la santa protettrice degli occhi e della vista. Di questa prima opera Samorì realizza in seguito un calco e con il marmo crea un’opera che è il negativo della prima, Allucinata (Fig. 5). Ne risulta in questo caso una superficie perfettamente liscia da cui in aggetto sporgono solo due protuberanze amorfe che sono il corrispettivo dell’incavo prodotto nella pittura a olio. Un processo traduttivo tra due sostanze espressive differenti in cui l’artista gioca con quelle che sono le condizioni di malleabilità dei materiali 16 : da un lato la duttilità dell’olio, dall’altro la durezza del marmo. 14 Calabrese (1987b), a proposito dello spazio prospettico come la “finestra sul mondo” proprio della teoria albertiana parla di “una spazialità illusoria della scena figurativa”. Samorì opera per ricostruire una profondità al di là del quadro. Sull’approccio alla figuratività si vede anche Bertrand (2000, pp. 97-103). 15 Come si può vedere nel caso di Pietra penitente, le operazioni di riscrittura di Samorì implicano una chirurgica procedura di neutralizzazione del valore sacro delle immagini. Non ci si addentrerà in questa sede su una puntuale analisi del tipo di valori che questa procedura mette in gioco. Si rimanda però a Vannoni (2022) in cui la questione è stata affrontata con maggiore puntualità. Sulla questione della neutralità e dei processi di ri- e de-semantizzazione si veda invece Giannitrapani (2022). 16 Sul gioco di traduzione nell’arte contemporanea si rimanda al lavoro di Lucia Corrain (2016), in cui l’autrice si concentra sull’opera di Pascal Convert Pietà Kosovo (2002), una scultura in cera realizzata a partire da un processo di traduzione della fotografia Veillée funèbre au Kosovo di Georges Merillon (1990). 281 Fig. 4 – Nicola Samorì, Indovina (2017) Fig. 3 – Nicola Samorì, Abbagliata (2017) (© Nicola Samorì). (© Nicola Samorì). Nel momento in cui queste due immagini sono chiamate a guardarsi reciprocamente, come nel caso della loro esposizione al MART di Rovereto nel 2020, è possibile riconoscere un peculiare effetto chiasmatico che si fa mostrazione17 attraverso i suoi prodotti, di una meta-riflessione sulla pratica artistica di Samorì. Un lavorio di tecniche e di materiali che si intrecciano costantemente tra loro e che lascia emergere un cortocircuito tra le condizioni di esistenza di quanto è tradizionalmente considerato pittura e quello che invece è scultura. La pittura, discostandosi da un processo di accumulo di lievi strati di materia, si avvicina all’azione propria del fare scultoreo come quello michelangiolesco, ovvero un’arte del levare, un processo sottrattivo grazie al quale la figura imprigionata nella materia è finalmente liberata. All’opposto, per quanto riguarda la scultura, vediamo una quasi completa cancellazione dello spessore volumetrico, che richiama piuttosto la bidimensionalità della pittura. 5. In forma di conclusione Gli avviluppamenti della materia al lavoro nelle opere di Samorì sono dell’ordine del figurale, mettono in gioco una virtualità di senso possibile e attivano con la loro potenza l’efficacia stessa delle immagini18. Sono delle discontinuità, delle rotture, che nel sabotare il corpo dell’immagine sono al tempo stesso “traccia violenta di un limite, marchiatura a fuoco, se così si può dire, di un margine che rompe una forma manifesta o una figura esibita” (Marin 1992, p. 222). Attraverso la forza elementale 17 È Paolo Fabbri (2020) che suggerisce di leggere l’enunciazione come gesto dell’indicare, del mostrare: “Dovremmo allora promuovere e difendere l’idea di un campo deittico in grado di allargare la pronominalità linguistica, chiusa in termini visivi, a una problematica più complessa […]. Avevo proposto “deissi”, ma non è stato accolto favorevolmente. Mostrare?” (pp. 132-4). 18 Sull’efficacia, si veda Marin (2019). 282 della materia pittorica creano dei colmi, delle interruzioni, nella sintassi visiva della rappresentazione. Con l’idea di “colmo”, si fa riferimento a quello che è il duplice statuto del termine: da un lato come “accidente” della rappresentazione; dall’altro come cumulus , eccedenza, sporgenza, sovrappiù di materia. Come ricorda Marin (1984b p. 65) in un saggio dedicato all’opera Ad Marginem di Paul Klee, “chiamo colmo della rappresentazione tutto ciò che si giocherà sui limiti del suo dispositivo, della sua costruzione in un luogo o in un momento che non è ancora il suo esterno, il suo ‘altro’, ma che non è più del tutto il suo interno, il suo stesso”. Analogamente, l’aggetto materico nel lavoro di Samorì si configura per la sua carica utopica, al tempo stesso di negazione del piano mimetico della rappresentazione e di autoaffermazione come elemento significante. Se, come abbiamo visto, la gestualità del fare artistico di Samorì si muove secondo l’analogia del martirio dei santi articolando specifici effetti di senso, allo stesso tempo la dimensione amorfa della materia ci parla anche di altro. Ci guida verso qualcosa di diverso rispetto alla dimensione transitiva della rappresentazione. Ci parla della riflessività della rappresentazione, della sua opacità, per utilizzare un termine caro a Louis Marin. Un “effetto di soggetto” reso possibile dalle condizioni materiali di realizzazione del quadro, da un a priori materiale della rappresentazione che è sempre, inevitabilmente chiamato in gioco: Opacità [opacités, al plurale]: la presenza di una materia, di una carne, di un corpo della pittura nel puro movimento della significanza dell’immagine del visibile che è il quadro di pittura, lo scheletro del suo telaio, la pelle della sua tela, ruvida o liscia, con le sue dimensioni e il suo formato, i pigmenti colorati, gli impasti, gli stucchi e le vernici; le tracce lasciate dalla pennellata del gesto del pittore; gli accenti, le spaziature, le composizioni, le dissimulazioni e gli oscuramenti, le esplosioni, i vortici, i flussi e i riflussi, le unzioni, le mellosità, le soavità, le liquidità, le viscosità, i grumi, le gocciolature e le colature, i graffi, le incisioni, gli schizzi: opacità [di nuovo al plurale] (Marin 1997, p. 67; tr. nostra). Attraverso questo percorso tra le opere di Samorì, si è tentato di sviluppare una riflessione sulle capacità e le potenzialità della materia all’interno della pratica artistica contemporanea. Riflessioni che ci si augura possano risultare utili anche a chi – di lato alle riflessioni interne al dominio dell’arte – si potrebbe interessare al “potere fattivo” dei materiali, come ricorda anche Patrizia Magli (2003), ai modi e alle modalità di manipolazione propri della materia che nel momento in cui viene in-formata diventa sostanza significante. 283 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. Balzac, H., 1837, Le Chef-d’œuvre inconnu, trad. it. Il capolavoro sconosciuto, Milano, Rizzoli 2002. Barthes, R., 1982, L’obvie et l’obtus. Essais critiques III, Paris, Seuil; trad. it. 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Livelli di materialità del gusto e dell’intelligenza artificiale Karina Astrid Abdala Moreira Abstract. This article presents the main issues to be taken into account when analyzing the taste experience and its relationship with artificial intelligence. For this purpose, I base on a qualitative methodology. Firstly, I understand that to analyze this phenomenon there are different levels of taste and for each “level” there is a “translation” in terms of Lotman (1993). To distinguish the levels, I base on Hjelmslev’s linguistic analysis, understanding what happens at the level of expression and the level of content when we pass from the form to the substance and the matter of the taste experience. As far as artificial intelligence is concerned, I focus on the philosophical issues in this area. To conclude I present how the media discourse of this new mode of taste experience is presented by using the classic storytelling that appears in the gastronomy field. 1. Introduzione Per analizzare i diversi livelli di materialità del gusto, ci concentreremo innanzitutto sulla definizione di gusto. Ci sono molti teorici del gusto e del disgusto come Boutaud (2005), Bianciardi (2011), Marrone (2014, 2016, 2022), Mazzocut-mis (2015), Stano (2017, 2015). Tra le ricerche che stabiliscono i principali problemi teorici legati al gusto, vale la pena citare il lavoro di Bianciardi (2011, p. 29). L’autore sostiene che il senso del gusto è sinestetico, quindi nell’analizzarlo è necessario tenere conto di tutti gli altri sensi nel loro insieme. È per questo motivo che, quando si analizza l’esperienza gustativa, si considerano anche le dimensioni visive, uditive, olfattive e tattili, che si producono contemporaneamente nel soggetto degustatore. In quanto alla pluralità sensoriale, secondo Bianciardi (2011) il gusto implica una degustazione di diversi sapori e che l’individuo possa identificare ognuno di questi sapori; “la matrice di partenza di ogni forma di «gusto» risiede nella degustazione dei sapori alimentari: nel suo significato originario, il gusto si presenta innanzitutto come la capacità di discernere i sapori specifici degli alimenti, la qual cosa implica la preferenza per alcuni di essi” (Bianciardi 2011, p. 31). Inoltre, ogni esperienza sensibile si configura con il riconoscimento della differenza, pertanto, è grazie all’esperienza che il soggetto è in grado di classificare i gusti. Chiaramente, questa classificazione è fortemente segnata dall’aspetto sociale e culturale. La prospettiva sull’esperienza di Peirce (CP 1.335) 1 è utile in questo senso, poiché è attraverso questa teoria che possiamo capire come funziona l’esperienza: la userò per spiegare il riconoscimento del gusto. Il soggetto passa dalla Firstness (CP 1.302), – dove solo nella sua percezione compaiono le sensazioni di quel gusto, il che implica una gamma di possibilità, dove il soggetto non può conoscere nulla prima dell’assaggio, tutto è immerso nelle possibilità – alla Secondness che è fortemente legata alle caratteristiche dell’oggetto assaggiato (temperatura e consistenza, ad esempio) e Thirdness, in cui diviene possibile definire gusti e sapori. Secondo Peirce, la Firstness implica che “la libertà può manifestarsi solo in modo illimitato e incontrollato varietà e molteplicità; e così il primo diventa predominante nelle idee di varietà e 1Le citazioni dell’opera di C. S. Peirce sono fatte nel modo consueto: CP [x.xxx] si riferisce al volume e al paragrafo dell’edizione The Collected Papers of Charles S. Peirce. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). molteplicità smisurate. È l’idea guida della ‘varietà di sensi’” (CP1.302). Il numero di possibilità all’interno della Firstness dipende chiaramente dalla società dell’individuo, perché questa determina quali ingredienti è possibile assaggiare. Poi la persona giunge al riconoscimento dell’elemento che assaggia, e a questo punto del processo siamo di fronte alla Thirdness (CP 1.26), ovvero all’Interpretante, che permette una semiosi del riconoscimento del gusto. Questi stadi dell’esperienza coinvolgono diversi livelli di percezione che appaiono istantaneamente e congiuntamente. Pertanto, in questo articolo il mio obiettivo è mostrare i diversi passaggi e traduzioni in grado di attivare diversi sensi che esistono quando questi fenomeni vengono analizzati. Mentre approfondiamo gli studi di entrambi i campi (intelligenza artificiale e gusto), comprendiamo che in essi compaiono diversi livelli e il comune denominatore è la percezione e l’esperienza. In sintesi, è importante analizzare il gusto come sinestetico, poiché tutti i sensi sono attivati nella degustazione. 2. Concettualizzazione e problemi principali dell’Intelligenza Artificiale Il problema principale che si pone quando si analizza l’intelligenza artificiale è il nome che usiamo per definirla, che orienta l’interpretazione delle sue funzioni. Secondo Ienca (2019) e Cristianini (2023), esistono diversi tipi di intelligenza e non devono essere paragonati all’intelligenza degli esseri umani. “È fuorviante attribuire qualità umane a tutti gli agenti intelligenti, e quando riflettiamo sulle intelligenze che incontriamo nei nostri browser è più utile compararle alle erbe o alle lumache del giardino che a noi stessi” (Cristianini 2023, p. 9). Anche Ienca (2019) sottolinea che la questione dell’intelligenza può essere riscontrata in diversi animali e non implica che funzioni allo stesso modo degli esseri umani. Ma sottolinea come l’intelligenza umana sia ugualmente stata nella storia un modello per sviluppare forme di intelligenza artificiale. Fumo (2017) ha spiegato che la rete neurale artificiale funziona come un modello computazionale basato sul modo in cui le reti neurali biologiche del cervello umano elaborano le informazioni. L’unità di base della computazione in una rete neurale è il neurone, chiamato nodo o unità. Riceve input da altri nodi e calcola un output. “Ogni ingresso ha un peso associato, che viene assegnato in base alla sua importanza relativa rispetto agli altri ingressi. Il nodo applica una funzione alla somma ponderata dei suoi input” (Fumo 2017, p. 1). A sua volta, questo sistema neurale ha delle regole, una delle più importanti delle quali è l’apprendimento, ovvero un algoritmo che modifica i parametri della rete neurale in modo che un dato input alla rete produca un output favorito. Pertanto, ci troviamo costantemente di fronte a un’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale. Non solo perché essa simula il funzionamento del cervello umano, ma perché a differenza del resto degli animali o degli esseri intelligenti che possiamo trovare, l’intelligenza artificiale è stata possibile grazie alla mano dell’essere umano (Cristianini 2023). D’altra parte, Fry (2018) dopo aver analizzato diversi casi in cui le decisioni sono prese principalmente dagli algoritmi che sono alla base dell’intelligenza artificiale, ha mostrato il problema dell’autonomia. Fry spiega che l’algoritmo si limita a seguire le istruzioni “logiche che mostrano, dall’inizio alla fine, come eseguire un compito. Con questa definizione ampia, una ricetta per una torta è un algoritmo” (Fry 2018, p. 11). Gli algoritmi possono ricevere istruzioni, ma anche fornirne, sulla base dei modelli “che apprende dai dati, una foresta casuale è descritta come un algoritmo di apprendimento automatico, che rientra nel più ampio ombrello dell’intelligenza artificiale” (Fry 2018, p. 48). L’algoritmo di machine learning pone il problema dell’autorità che l’essere umano dà all’algoritmo: tuttavia, conclude Fry, “forse riconoscendo che gli algoritmi non sono perfetti, non più degli esseri umani, potrebbe avere solo l’effetto di sminuire qualsiasi assunzione sulla loro autorità” (Fry 2018, p. 153). Come soluzione al problema dell’autorità, si propone che non solo venga fornito un output come 287 soluzione a un determinato problema, ma che l’algoritmo fornisca una serie di opzioni, in modo che l’essere umano possa scegliere tra loro, e togliere la piena autorità alla macchina. Poiché, secondo l’autrice (Fry 2018, p. 154), è proprio qui che sorgono i problemi, quando ci si fida totalmente del risultato che appare, senza interrogare, senza considerare che i dati che sono stati dati alla macchina sono prodotti dell’ambiguità umana. Tutte queste spiegazioni sul funzionamento dell’intelligenza artificiale sono fondamentali per capire come questa possa creare suggerimenti per articolare la materialità e creare nuovi gusti, possibili grazie all’esistenza di un database. Ovvero, l’archivio di una enciclopedia di forme semiotiche che l’intelligenza artificiale è in grado di riconoscere e produrre (Eco 2007, p. 14). Nel caso dell’intelligenza artificiale nel gusto, l’opzione della macchina è quella che suggerisce un mix di ingredienti per produrre una nuova materialità di un nuovo gusto. Ma in che senso la scelta di ingredienti può essere definita come intelligente? Definiremo l’intelligenza in termini di comportamento di un agente, ovvero di qualsiasi sistema in grado di agire nel suo ambiente, usando informazioni sensoriali per prendere decisioni. Ci interesseremo in particolare agli agenti autonomi, ovvero agenti che prendono decisioni internamente senza essere controllati, e agli ambienti che possono essere almeno in parte influenzati dalle azioni dell’agente (Cristianini 2023, p. 13). In questa affermazione appare un elemento fondamentale, ovvero la percezione sensoriale. Gli studi di Parisi (2019), attraverso un’analisi del rapporto dell’essere umano con la tecnologia, permettono di delineare il processo di autopoiesi (Maturana, Varela 1980) che esiste con gli esseri umani. Si instaura quindi un rapporto con la tecnologia che dipende dal nostro corpo. Secondo Parisi (2019) il nostro corpo limita le nostre azioni, è la base delle nostre sensazioni e soprattutto della nostra percezione. È qui che si collega a quanto accennato da Cristianini (2023), dove la percezione è la base della decisione. Ma fino a che punto l’intelligenza artificiale può percepire sensorialmente gli elementi che appaiono nel suo ambiente? Uno dei primi casi di studio sulla tecnologia è la simulazione del naso elettronico, che permette la digitalizzazione dei componenti chimici di ogni ingrediente (Alphus 2009). Questa fase è stata quella che ha permesso la costruzione di un database, che successivamente, con l’intelligenza artificiale, ha potuto suggerire una miscela di ingredienti e materializzare nuovi gusti. Parisi (2019, p. 72) sostiene che, poiché le nostre sensazioni dipendono dal nostro corpo, la tecnologia e l’intelligenza artificiale devono sviluppare elementi simili, al fine di incrementare nuovi gusti. Questo è uno dei problemi centrali che troviamo quando si parla di percezione sensoriale, e della prima “traduzione”, nei termini di Lotman (1993), tra il corpo dell’essere umano e la simulazione del corpo della macchina. Pensando alla questione dell’esperienza gustativa applicata nel campo dell’intelligenza artificiale, è proprio Cristianini (2023, pp. 73-74) che fa un confronto tra alcune ricette di cucina per capire il funzionamento di un algoritmo. Egli sottolinea che ogni cambiamento nella ricetta di cucina può alterare il risultato. Ma non prende in considerazione i problemi del gusto e della percezione, limitandosi a descriverli come “ordini dettati”. L’aspetto interessante di questo discorso è che nella ricetta, come nell’algoritmo, la nozione di esperienza si basa sulle conoscenze maturate in seguito a errori commessi. Un cuoco esperto probabilmente ha provato molte variazioni prima di trovare i valori ideali, ma probabilmente continua lo stesso a sperimentare ogni volta che lavora in una nuova cucina o usa un tipo diverso di farina. In linguaggio matematico queste quantità modificabili della ricetta si chiamano parametri [...] Questo è uno dei modi più tipici in cui le macchine imparano, ovvero cambiano il proprio comportamento sulla base dell’esperienza, e può essere applicata ai parametri numerici che controllano le previsioni (e quindi i comportamenti) di agenti che raccomandano (Cristianini 2023, p. 74). 288 Pensare alla cucina come a un meccanismo di prova ed errore può essere la base per collegare i due ambiti, ma è chiaro che se si parte da questa base si tralasciano i livelli di esperienza gustativa, che sono fondamentali per la creazione della materialità dei nuovi sapori. Un altro problema che dobbiamo affrontare quando analizziamo questi temi è quello della traduzione di un mondo percettivo sensoriale, continuo, come quello del gusto, in un mondo “più matematico” come quello dell’intelligenza artificiale, discontinuo. Questo passaggio non significa che si debba cadere nella banalità di distinguere i due mondi come opposti naturali e/o artificiali. Perché sappiamo che la costruzione di un gusto ideale è un elemento chiaramente sociale, culturale, tutt’altro che naturale. Uno dei problemi che Cristianini (2023) sottolinea è la fiducia che viene data a questi dispositivi: negli studi che troviamo sull’intelligenza artificiale, compaiono autonomia e fiducia. Elementi che possono essere migliorati prendendo in considerazione il modo in cui viene creato il database e come viene pensata la traduzione degli elementi, non trascurando le questioni culturali. Soprattutto, non pensando da una prospettiva antropocentrica. Quando mi riferisco alla questione della traduzione, è necessario prendere in considerazione anche la nozione di immaginario sociale, perché, come già accennato nell’articolo, esso governa sia il gusto che l’intelligenza artificiale. Nel concetto di immaginario sociale, basato su Castoriadis (1975), troviamo gli aspetti simbolici e la rappresentazione di un ideale. A questa funzione dell’immaginario sociale sono associate le istituzioni che lo promuovono (Castoriadis 1975). Nel caso dell’intelligenza artificiale e del gusto possiamo trovare dispositivi diversi, da quelle del settore ICT a gastro-alimentare. Entrambi generano un immaginario sociale in ogni area. Per quanto riguarda il dispositivo dell’intelligenza artificiale, sempre inquadrato in ambito gastronomico, siamo all’interno dell’immaginario sociale che cerca la perfezione. Ad esempio, quando si dice che l’intelligenza artificiale può selezionare gli ingredienti in base al miglioramento dell’ambiente. Per quanto riguarda la gastronomia, esistono i discorsi che fanno gli chef sul gusto nell’area confermano la pervasività di questa ideologia culturale. Diversi chef menzionano l’importanza dello storytelling che ha luogo prima che l’individuo assaggi il cibo. Gli chef sanno che questa storia predispone gli aspetti sensoriali al momento dell’assaggio2. Uso il termine storytelling e non narrazione, perché il modo di spiegare come è stato fatto un piatto richiede tecniche artistiche profonde che gli chef conoscono per creare una certa atmosfera quando si assaggiano i loro piatti. Lo storytelling è accompagnato anche dalla decorazione e da tutti gli elementi che si trovano nel ristorante, che aiutano la credibilità dello stesso. Tutti questi elementi favoriscono un immaginario sociale che guida la costruzione del piatto e alla qualificazione sensoriale dell’esperienza gustativa. La realizzazione di piatti mediante l’uso dell’intelligenza artificiale è oggi uno storytelling centrale nella cultura gastronomica. Questo storytelling richiede anche l’istituzione dei media, dove si comunica questa nuova forma di creazione gastronomica enfatizzando certi aspetti. In questi casi si pone il problema del passaggio dall’immaginario alla materialità del gusto – nei termini di Peirce, dal simbolico (CP 1.558) all’oggetto dinamico. Ma l’immaginario sociale creerà sempre un Interpretante (CP 2.228) che sarà irraggiungibile, stabilendo una tendenza che si avvicini all’immaginario sociale. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale e il gusto, Davidsson (2021) sottolinea che l’intelligenza artificiale inizi con le reti algoritmiche, ma quando parla di ricette, sostiene che gli esseri umani si basano sull’esperienza dei sapori per realizzarle: L’odore e l’aspetto dei diversi ingredienti. Tutte queste informazioni non sono disponibili per l’algoritmo, che può solo vedere come i diversi ingredienti vengono utilizzati insieme. Per inciso, questo è un problema comune nell’apprendimento automatico, in cui il modello eredita i pregiudizi 2 Proprio su questi temi sto concentrando il mio lavoro di tesi dottorale in svolgimento presso l’Università degli Studi di Torino e l’Université de Lille. 289 dai dati. In questo modo si escludono alcune combinazioni di ingredienti che sono rare a causa delle caratteristiche geografiche (Davidsson 2021, p. 1). In questa citazione emerge l’elemento culturale centrale, dove a seconda del Paese, l’individuo trova il suggerimento di ogni ingrediente da mescolare. Ci si chiede fino a che punto si possa creare qualcosa di nuovo. Diversi chef affermano che l’intelligenza artificiale è un modo per sbloccare la creatività e creare insieme oggetti e ricette. Davidsson (2021) cita alcuni elementi che un buon pasto dovrebbe avere, come l’equilibrio, la variazione, la novità e la familiarità. Secondo l’autore, l’equilibrio degli elementi di gusto, la variazione e la novità, sono facili da comprendere dall’intelligenza artificiale, mentre tutto ciò che riguarda la familiarità è legato alla memoria gustativa del soggetto. Per quanto riguarda le spezie, sostiene che il loro abbinamento è dovuto solo ad un aspetto culturale. Le spezie sono legate all’odore e potrebbero avere “una stretta connessione tra la parte del cervello che elabora gli odori e l’ipotesi che elabora i ricordi. Ciò significherebbe che le spezie potrebbero essere utilizzate per evocare determinati ricordi” (Davidsson 2021, p. 2). Ancora una volta ci troviamo tra la traduzione tra l’essere umano e la macchina, perché ci sono componenti difficili da replicare dall’intelligenza artificiale, come la memoria del gusto, a cui fa riferimento Boutaud (2005) e l’altro elemento importante da replicare è la percezione. Per ricapitolare, per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, c’è antropomorfismo, ed il database è frutto di una costante traduzione tra il corpo umano e la macchina. La traduzione appare nelle percezioni sensoriali tra gusto e matematica. Ma la percezione neanche è naturale perché entra in gioco la concezione dell’immaginario sociale, dove troviamo sia il gusto come ideale che come lo storytelling. 3. Livelli del gusto e dell’intelligenza artificiale Per comprendere i diversi livelli della materialità del gusto, e come ciascun livello venga tradotto nella sua ri-creazione con l’intelligenza artificiale, possiamo ricorrere alla linguistica di Hjelmslev (1943, p. 52). Con questa teoria possiamo distinguere in linea di principio due livelli fondamentali, quello del contenuto e quello dell’espressione. Il piano del contenuto ha un significato arbitrario se viene pensato in relazione al piano dell’espressione. Sul piano del contenuto si trovano forma, materia e sostanza, così come sul piano dell’espressione. Se applichiamo questo modello all’esperienza gustativa dell’intelligenza artificiale, possiamo riconoscere diverse tipologie di segni: gli output (ricette su schermo, algoritmi, 3D food etc.), che sono anche piani dell’espressione della stimolazione sensoriale che è l’esperienza gustativa, così come il database, cioè il paradigma di possibili combinazioni fra ingredienti. Ad ognuno di questi segni corrisponderà un piano dell’espressione e del contenuto, entrambi suddivisi in forma, sostanza e materia. Possiamo affermare che, sul piano dell’espressione, la forma è costituita dall’insieme degli output (ricette, 3D food etc.), a partire da un paradigma, che è il database, di possibili combinazioni; la sostanza sarà da individuare nell’insieme di tecnologie, ingredienti e piatti che definiscono l’intelligenza artificiale attuale e che si realizzano nei diversi segni e nelle diverse culture. Il database concerne invece il modo in cui le combinazioni fra gli ingredienti sono predisposte dall’intelligenza artificiale, cioè contengano (embedded) stereotipi culturali; la materia, infine, concerne sia il segno realizzato, sia la materialità plurilinguistica della macchina, così come il livello biologico di stimolazione sensoriale, gustativa, tattile e olfattiva, o il livello visivo del piatto, e uditivo che accompagna l’esperienza gustativa, e la materialità del contesto in generale (il luogo in cui si svolge la degustazione). Corrispondono anche al livello di espressione i segni che compongono lo storytelling, che viene realizzato nel momento che precede ogni degustazione nello restaurante. Lo storytelling può essere 290 presentato sotto forma di immagini o di parole, insieme a tutti gli elementi che fanno parte del contesto in cui si svolge la degustazione. A livello del contenuto, saranno da situare tutte le operazioni interpretative e deduttive attuali (da tutti gli attori umani e non umani) – come fra amaro/dolce/aspro/salato/umami – che intervengono nell’esperienza gustativa, fino al riconoscimento culturale di gusto e testura, l’orchestrazione sensoriale e sinestesica, la memoria, il giudizio di gusto (Bourdieu 1979). Un’altra funzione segnica è la memoria gustativa, che ha il compito di collegare gli elementi che portano al riconoscimento del piatto. Nella degustazione, l’espressione sarà individuata da un segno tattile perché attraverso la consistenza (ad esempio la croccantezza del piatto, la morbidezza, la temperatura etc.), il soggetto può riconoscere il piatto, in base alla sua esperienza gustativa. Infine, tutta questa analisi di Hjelmslev (1943) mi permette di comprendere i diversi passaggi e traduzioni che avvengono internamente ed esternamente, nei dispositivi analizzati. 4. Casi d’esperienza gustativa mediati dall’intelligenza artificiale Uno dei primi esempi che in cui possiamo trovare il collegamento tra intelligenza artificiale e gusto, si trova nella birra. Secondo Dunshea, Fuentes, Gonzalez e Torrico, (2019) l’uso di algoritmi di apprendimento automatico in alimenti e bevande “è diventato più popolare negli ultimi anni, poiché aiutano ad aumentare l’accuratezza, ridurre tempi e costi nei metodi analitici e sensoriali per valutare la qualità e accettabilità delle bevande” (Dunshea et al. 2019, p. 2). Nel caso della birra è stato verificato che esistono modelli di intelligenza artificiale in grado di prevedere il gusto al palato, come l’amarezza, “utilizzando i parametri fisici relativi al colore e alla schiuma, cosa possibile perché i consumatori possono giudicare la qualità e l’accettabilità di birra basata esclusivamente su attributi visivi” (Dunshea et al. 2019, p. 8). Ciò implica che esiste una relazione tra schiuma e parametri legati al colore e all’amaro, poiché il luppolo contribuisce allo sviluppo di aromi e sapori nella birra. Anche questo ci porta a pensare all’importanza di ogni senso quando si parla di gusto, poiché attraverso il visivo la macchina può prevedere il sapore più o meno amaro di ciò che è custodito da detta bevanda. Secondo gli autori esiste un modello di intelligenza artificiale che si basa sulla raccolta di dati attraverso l’utilizzo di un Robobeer e indaga i video grazie ad algoritmi di visione artificiale. Gli autori sottolineano che tutta questa tecnologia “offrirà all’industria della birra un processo completamente automatizzato per prevedere il gusto del consumatore e l’accettabilità delle diverse birre” (Dunshea et al. 2019, p. 8). Un altro esempio importante è la realizzazione di una ricetta creata dall’intelligenza artificiale ed è un biscotto 50%, torta 50%, pensato per le feste di Natale. Nel loro blog Markowitz e Robinson (2020), spiegano come sono arrivati a questo risultato, entrambi sono ingegneri e questo esempio mostra l’importanza di contestualizzare il luogo in cui viene realizzata la ricetta e il periodo dell’anno. Gli autori sono americani e spiegano che nel loro paese è comune mangiare torte e biscotti a Natale: questi elementi sono importanti quando l’intelligenza artificiale crea la loro nuova ricetta. Secondo Markowitz e Robinson (2020) prendendo i valori per le nuove ricette da una rete neurale, “ti mostreremo come creare un modello di apprendimento automatico spiegabile che analizzi le ricette di cottura e persino usarlo per creare le nostre nuove ricette, senza dati competenza scientifica richiesta” (Markowitz, Robinson 2020, p. 1). Il risultato ottenuto è un impasto ibrido tra biscotti e pane, in cui sono stati inseriti solo 16 ingredienti selezionati dall’intelligenza artificiale, ma includendo ingredienti che influenzano la consistenza dell’impasto. Da quanto approfondito in questo blog si capisce che il risultato della nuova ricetta dipende esclusivamente dai dati forniti al motore di ricerca, utilizzando ad esempio la parola biscotto o torta, ottenendo così un grafico che determina gli ingredienti comuni per entrambi ricette sia come farina, uova etc. La cosa importante di questo esperimento è capire cosa accadrà all’esperienza gustativa. Questo esempio ci fa anche riflettere su cosa può succedere con le ricette considerate tradizionali in un certo paese, cosa accadrà con l’unione tra piatti tradizionali e l’intelligenza artificiale. 291 Fig. 1– Biscotto torta esterna. Fig. 2 – Biscotto torta interno. Fig. 3 – Torta biscotto esterna. Fig. 4 – Torta biscotto interno. 5. Analisi del discorso: presentazione di Flavor Graph Flavor graph, una delle principali applicazioni ideate da Sony nell’ambito di un progetto dell’Università della Corea, esegue, come suggerisce il nome, la “mappatura dei sapori”. In questa applicazione viene visualizzata la composizione chimica di ogni ingrediente, che si trova all’interno del database, e poi vengono visualizzati i nomi degli ingredienti che corrispondono a ciascuna composizione chimica. Infine, l’algoritmo “rischia” di suggerire all’individuo che utilizza l’applicazione le possibili combinazioni di determinati ingredienti. Vengono visualizzate le combinazioni già realizzate, quelle che non è consigliabile realizzare e quelle che sono consigliabili ma non sono mai state realizzate. Nei casi in cui gli elementi suggeriti dall’intelligenza artificiale non vengono mai creati, si distingue la creazione da parte degli algoritmi, anche se gli chef che ho intervistato nella mia ricerca di dottorato affermano che le creazioni passano sempre attraverso l’essere umano, e ciò che l’intelligenza artificiale può fare è sbloccare la mente del creatore per ispirare nuove ricette. Comprendo che il suggerimento sia dato dall’intelligenza artificiale e che il risultato dipenda sempre dalle capacità dell’essere umano che prepara il piatto, ma la creazione del nuovo gusto è opera della macchina. In questi casi, si stabilisce sempre che si tratta di una realizzazione congiunta, perché senza la macchina non saremmo sicuri se quella combinazione esisterebbe o meno. La figura 5 mostra la costruzione della mappa dei sapori disegnata dall’applicazione Flavor Graph. 292 Fig. 5 – Design della mappa dei sapori a cura di Flavor Graph. Un’intervista di Gifford e Marcus (2022) allo chef Hajime Yoneda, disponibile sul sito web dell’applicazione Sony, lo chef spiega di aver collaborato alla creazione del database dell’applicazione, fornendo tutte le sue ricette. L’intervista è divisa sul sito in tre parti, dove nella prima troviamo un intero discorso che punta al sentimentale, dove la cucina diventa fonte di emozioni e pensa all’unione tra uomo e macchina, avvicinandola alle emozioni. Sebbene nell’immaginario sociale (Castoriadis 1975) l’intelligenza artificiale sia associata a qualcosa di “freddo” (ad esempio è sempre disegnata con il colore blu), in questo caso, si cerca di dare emozioni a qualcosa che per sua natura non le ha, e siamo ancora una volta di fronte a un’antropomorfizzazione. Questa analisi discorsiva tiene sempre conto del fatto che siamo di fronte a un’azienda che intende vendere e posizionare il proprio discorso, ma questa analisi va oltre le leggi del marketing. Uno degli elementi utilizzati per alludere alle emozioni è l’immagine che possiamo vedere nella figura 6, dove viene fatto un gioco di parole tra AI (intelligenza artificiale in inglese) e la parola amore, che in giapponese è AI. Fig. 6 – Rappresentazione delle emozioni tra uomo e l’intelligenza artificiale. Si può notare, in particolare nella seconda parte dell’intervista, un cambiamento radicale del discorso, che mira a modificare gli oggetti, in questo caso gli ingredienti, fino alla perfezione. Lo chef menziona la necessità di tagliare con precisione ogni ingrediente perché, anche il più piccolo dettaglio, ne cambierebbe il sapore. Allo stesso tempo, cita la necessità di inserire nel suo ristorante dei robot che controllino la temperatura, il suono e le altre variabili ambientali, come i livelli di dopamina dei commensali, per rendere la loro esperienza gustativa il più appropriata possibile. Alla luce di queste affermazioni, ritengo impossibile replicare i suoi piatti al di là dell’utilizzo dell’applicazione Flavor Graph. Questa serie di interviste si conclude con l’immaginario sociale della democratizzazione, che implica che tutti possano cucinare come uno chef grazie all’applicazione, cosa che, come abbiamo già visto nella seconda parte dell’intervista, è praticamente impossibile. Perché stare a tavola, come segnala 293 Boutaud (2005), implica una serie di parametri non replicabili tra l’ambiente del ristorante e quello privato. Tutta questa analisi discorsiva richiede la semiotica peirceana, poiché si passa dalle emozioni della prima parte, ovvero Firstness (CP 1.302), alla Secondness (CP 1.325), attraverso la manipolazione diretta degli oggetti, e la costante ricerca di aspetti indessicali (CP 2.281) (l’aumento di dopamina da commensali, reazioni non controllate dal soggetto). Per poi, infine, passare attraverso la Thirdness (CP 1.26), quando si parla dell’ideale di democratizzazione che implica chiaramente l’aspetto simbolico sociale. Insomma, vorrei evidenziare il ruolo del discorso mediatico, che mette in luce il nuovo storytelling che l’intelligenza artificiale e la gastronomia implicano. Nell’analisi dell’intervista, emerge la necessità di affrontare entrambi gli elementi in modo sensibile, per poi mostrare una precisione grazie all’aspetto più matematico della macchina. Una ricerca di aspetti indessicali, ovvero l’autenticità del piacere del piatto per il commensale, con la finalità di raggiungere un’accettazione sociale. 294 Bibliografia Alphus, D., 2009, Applications and Advances in Electronic-Nose Technologies, in Sensors, n. 9, pp. 5099-5148. Bianciardi, L., 2011, Il sapore di un film: cinema, sensi e gusto, Siena, Protagon Editori. Bourdieu, P., 1979, La distinction sociale, Paris, Minuit; trad. it., La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino 2001. Boutaud, J., 2005, Le sens gourmand, Paris, Le Rocher; trad. it., Il senso goloso. 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Materia digitale: l’impatto dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale degli utenti Daria Arkhipova Abstract. This research delves into the physical implications of digital communication, with a specific focus on social media platforms that utilise Artificial Intelligence recommendation systems (AiRS). AiRS continually provide stimuli to users, encouraging their interactions with digital representations of everyday material objects. These AI- mediated representations have the potential to influence users’ behaviours and physical states, bridging the gap between the digital and the material, natural environments. The primary objective of this study is to establish a methodological framework for investigating how digital platforms can shape users’ interactions with AI-mediated digital representations and their material world objects. Furthermore, this research views digital platforms as environments capable of providing affordances to users and fostering scaffolding processes through interactions within the environment. The impact of AI-mediated social media on its users is examined by establishing connections between methodologies from cognitive science and semiotics, aiming to gain a comprehensive understanding of how these platforms influence users’ experiences and behaviours in both the digital and physical realms. 1. Introduzione Il contesto digitale è spesso considerato in contrasto con la dimensione fisica e materiale. Nella concezione comune, il digitale viene percepito come privo di una manifestazione tangibile e concreta. Dal punto di vista della semiotica, il digitale può essere compreso come un sistema semiotico che opera attraverso rappresentazioni degli oggetti del mondo fisico e materiale. Negli ultimi anni, le interazioni digitali hanno subito un notevole aumento a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia da COVID-19. Durante questo periodo, molte persone si sono trovate costrette a rimanere confinate nelle proprie abitazioni e ad interagire principalmente attraverso soluzioni di videoconferenza, social media e altre piattaforme digitali. Questa situazione di separazione fisica ha avuto delle conseguenze significative sul benessere degli individui, manifestandosi in sintomi di esaurimento, stress e burnout, che hanno influenzato anche il loro stato fisico e corporeo (Liu, Ma 2020; Shao et al. 2021; Sharma et al. 2020). Il presente studio propone un approccio metodologico per analizzare l’impatto dei social media basati sull’intelligenza artificiale (IA) sugli utenti, concentrandosi principalmente sulle dimensioni psicologica e fisica. L’obiettivo principale della ricerca è comprendere se i social media basati sull’IA abbiano un impatto concreto e tangibile sulla dimensione fisica e materiale degli utenti e come questa “materialità” possa essere identificata e analizzata attraverso i loro effetti psicofisici. Particolare attenzione è rivolta alle reazioni da stress degli utenti, ovvero alle risposte che il nostro corpo sviluppa per affrontare situazioni stressanti. Nell’affrontare una minaccia, specifiche regioni del cervello, come l’amigdala, vengono attivate per stimolare la produzione di cortisolo, glucocorticoidi e adrenalina, al fine di potenziare, ad esempio, la forza fisica o la velocità (Rabin 2002, p. 43). Questa reazione fisiologica si è sviluppata nell’ambito dell’evoluzione umana per far fronte a potenziali pericoli presenti nell’ambiente circostante. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). Per analizzare la dimensione materiale del digitale, questo articolo adotta i metodi delle scienze cognitive e della semiotica. In particolare, si avvale di strumenti teorici provenienti dalla biosemiotica e dalla semiotica cognitiva per spiegare come la materialità dei social media basati sull’IA si manifesti attraverso le reazioni corporee degli utenti, focalizzandosi in particolar modo sulle reazioni da stress. La ricerca si concentra sulle interazioni degli utenti con i social media basati sull’IA che si fondano su rappresentazioni digitali, come ad esempio TikTok. Questi social media condividono molte caratteristiche nella loro logica di funzionamento, con particolare enfasi su contenuti quali immagini e video. Verranno anche esaminate le affordances offerte da queste piattaforme agli utenti e come tali affordances possano promuovere processi di scaffolding. L’articolo è diviso in sette sezioni. Il paragrafo due presenta la terminologia utile. Il terzo paragrafo discute il ruolo dei sistemi di raccomandazione basati sull’IA all’interno delle piattaforme di social media. Tali sistemi influenzano in modo significativo i processi di comunicazione tra gli utenti e hanno un ruolo cruciale nel funzionamento delle piattaforme stesse. Il quarto paragrafo analizza le affordance offerte dalle piattaforme di social media agli utenti, riferendosi alle caratteristiche e alle possibilità che esse offrono per interagire e partecipare all’interno dell’ambiente virtuale. Il quinto paragrafo spiega come i social media basati sull’IA favoriscano processi di scaffolding e pratiche interpretative che inducono reazioni fisiche all’interno dell’ambiente materiale dell’utente. Il sesto paragrafo presenta un caso studio riguardante l’uso del filtro #horseface su TikTok, evidenziando come l’impiego di filtri di realtà aumentata possa influenzare le reazioni fisiche degli utenti nella loro dimensione materiale. Infine, il paragrafo sette conclude riassumendo i risultati, evidenziando le limitazioni e fornendo suggerimenti per ricerche future. Precedentemente a ciò, il paragrafo seguente introduce la terminologia e i concetti chiave per definire e caratterizzare i social media e i sistemi di raccomandazione basati sull’IA. 2. Terminologia Il termine “social media” rappresenta un concetto generale utilizzato per indicare piattaforme digitali che permettono agli utenti di cercare, creare e condividere rappresentazioni digitali, quali immagini, video, audio e testi in linguaggio naturale, al fine di comunicare una specifica identità (Aichner et al. 2021). Questa identità, costantemente negoziata, è percepita e valorizzata come il risultato di una complessa interazione tra l’intenzione dell’utente, la materialità del supporto digitale e le dinamiche delle altre comunità di utenti (Leone 2021). I social media basati sull’IA sono piattaforme che impiegano algoritmi di raccomandazione dell’IA per fornire agli utenti esperienze personalizzate, suggerendo contenuti, prodotti, servizi o altre informazioni rilevanti in base ai loro interessi, preferenze, comportamenti e storico di utilizzo. Le raccomandazioni dell’IA sono diventate fondamentali per il funzionamento di tali piattaforme digitali, poiché consentono di organizzare e presentare in modo coerente e pertinente le informazioni a disposizione degli utenti. I Recommender Systems (RSs) sono strumenti software che suggeriscono elementi utili agli utenti (Kantor et al. 2011). I sistemi di raccomandazione basati sull’IA, come Recommendations AI, il termine proposto da Google, o AiRS, il termine proposto da Naver, utilizzano il Machine Learning per mostrare agli utenti informazioni rilevanti più rilevanti in base a vari criteri, come la cronologia precedente delle interazioni, la loro provenienza geografica etc. L’obiettivo è semplificare la ricerca e personalizzare l’esperienza online. Questi sistemi sono spesso studiati nel contesto dell’e-commerce e del consumo (per esempio, Necula, Păvăloaia 2023) e la ricerca si concentra principalmente su come migliorare le raccomandazioni al fine di soddisfare meglio le esigenze degli utenti (McNee et al. 2006). 297 3. Il ruolo delle AI Recommendation nei social media? I social media rappresentano un’interfaccia unica in cui l’ambiente digitale e quello naturale si fondono, consentendo agli utenti di amplificare le loro esperienze attraverso rappresentazioni digitali che costituiscono una parte integrante della comunicazione quotidiana. Il loro ruolo è oggetto di un ampio dibattito anche nel campo della semiotica. Alcuni studi si sono focalizzati sugli aspetti visivi dei social media (Jovanovich, von Leeuwen 2018), mentre altri hanno analizzato altri elementi come le audio (Ferguson, Greer 2018). Le analisi semiotiche hanno esplorato l’impatto dei social media sulle relazioni sociali e nella cultura, analizzando specifiche pratiche digitali come il dating digitale (Leone 2019b; Vuzharov 2019), le proteste digitali (Bonilla, Rosa 2015), il metaverso (Giuliana 2022), i selfie (Surace 2020; Leone 2019a) e la viralità (Marino 2022). Il ruolo delle AiRS per gli utenti dei social media costituisce un’area di ricerca che richiede un’analisi completa dal punto di vista semiotico. Attraverso l’approccio della semiotica narrativa di Greimas (1970, 1983; Greimas, Courtés 1979), le AiRS possono essere concepite come degli Aiutanti che assistono il Soggetto nella sua ricerca dell’Oggetto di Valore. Tuttavia, è importante notare che le AiRS hanno il potere di generare nuovo valore verso un oggetto che il Soggetto potrebbe non aver originariamente riconosciuto come di valore intrinseco per sé. Questo processo avviene all’interno di un ambiente digitale, caratterizzato da spazi e relazioni attraverso cui le AiRS possono ottenere maggiore valore e, conseguentemente, un maggiore impatto nello stimolare l’azione pragmatica del Soggetto, come ad esempio l’effettuazione di un acquisto. Le AiRS stesse giocano un ruolo fondamentale nella strutturazione degli spazi all’interno dei social media, contribuendo a determinare luoghi specifici in cui vengono collocate con maggiore frequenza, dove gli utenti sono maggiormente esposti a tali raccomandazioni. I social media costituiscono così un ambiente in cui un volume crescente di informazioni viene categorizzato e ordinato dall’IA mediante un approccio logico e statistico. Ad esempio, TikTok1 utilizza raccomandazioni dell’IA basate sulle visualizzazioni e i clic, ordinate per posizione geografica (piuttosto che basarsi su connessioni di amicizia come avviene su Instagram o Facebook). In questa prospettiva, TikTok impone agli utenti video di durata media compresa tra 7 e 60 secondi, con elementi testuali sintatticamente riutilizzabili come suoni, immagini, filtri e hashtag, che risultano utili per fini algoritmici di categorizzazione e assegnazione di valore, prima di inserirli in un loop con altri contenuti. Le AiRS di TikTok sono riconosciute come estremamente efficaci sulla base dei dati di interazione (Yao 2021; Zhang, Liu 2021). In questo contesto, l’algoritmo può definire i valori semantici dei testi e degli elementi testuali presenti nei video, senza necessariamente riconoscere il valore semantico intrinseco del testo stesso. Le raccomandazioni dell’IA si basano sul feedback dell’interazione degli utenti e sulla dimensione pragmatica delle azioni intraprese dagli stessi utenti. Ciò significa che un video o un suo elemento testuale su TikTok può acquisire un alto valore per le AiRS e, di conseguenza, essere imposto a migliaia e milioni di utenti semplicemente perché statisticamente stimola l’interazione e risulta quindi di alto valore algoritmico. Si evince quindi che nelle piattaforme social come TikTok, in cui le AiRS svolgono un ruolo cruciale nel processo di categorizzazione e assegnazione del valore alle rappresentazioni digitali, le azioni e le modalità del Soggetto-utente assumono una rilevanza meno significativa rispetto alla strutturazione dell’ambiente stesso, che è costituito da valori e relazioni complesse tra elementi digitali. Questo ambiente digitale ha il potere di influenzare il corrispondente ambiente materiale dell’utente: specifiche raccomandazioni, strategicamente collocate in determinati spazi digitali, possono indurre l’utente a compiere azioni pragmatiche, come effettuare un acquisto o seguire un nuovo profilo. Per raggiungere tale obiettivo, i valori posizionali e relazionali dei social media basati sull’IA si avvalgono 1Per un’approfondita analisi semiotica sul funzionamento e sull’impatto social di TikTok si veda il recente volume collettivo curato da Marino e Surace (2023). 298 di specifiche affordance digitali (Boccia et al. 2017), le quali saranno descritte dettagliatamente nel paragrafo successivo. 4. Affordance nei social media Il concetto di “affordance” è ampiamente studiato nel contesto degli oggetti presenti in un ambiente, poiché essi offrono specifiche possibilità d’uso ai loro utenti in relazione alle loro esigenze e abilità (Gibson 1977). Nell’ambito degli oggetti culturali, queste caratteristiche sono spesso previste dai designer stessi. Secondo Gibson (1977, 2014), l’affordance non è una proprietà statica dell’ambiente né completamente creata dagli utenti, ma emerge attraverso il processo di interazione e comunicazione tra di essi. Gli studi più recenti esplorano le affordance da due prospettive principali: l’interazione tra utente e ambiente (Nye, Silverman 2012; Nagy, Neff 2015) e le relazioni tra progettista, artefatto e utente (Van Osch, Mendelson 2011; Shaw 2017). La prospettiva della biosemiotica di Campbell et al. (2019) offre un’analisi approfondita delle affordance nel processo di apprendimento, collegandole alla nozione di umwelt, dove le proprietà dell’ambiente sono identificate dagli organismi stessi invece di essere predeterminate dall’ambiente. Il concetto di umwelt, sviluppato da Jakob von Uexküll (1982) e Thomas A. Sebeok (1989), si riferisce al mondo sensoriale specifico di un organismo. Come dimostrato da Ingold (2009), ogni organismo vivente crea affordance 1) all’interno di un determinato ambiente e 2) basate sulle capacità percettive dell’organismo stesso, identificate come umwelt. La biosemiotica si concentra principalmente sulla dimensione fisica della comunicazione tra un organismo e l’ambiente. Il caso dei social media mediati dall’IA è più complesso: per accedervi, l’utente deve avere un dispositivo portatile, come uno smartphone o un computer, l’accesso a Internet, le capacità di interazione mediante dita e così via. Le affordance dei social media possono essere individuate nel modo in cui organizzano il loro ambiente, costituito da valori posizionali e relazionali, popolato da testi, immagini, video e audio. Un’ipotesi riguardante le affordance nei social media suggerisce che le interazioni degli utenti nell’ambiente digitale di tali piattaforme, compresa la condivisione di rappresentazioni digitali come immagini, video, testi e audio, possono essere influenzate sia dalle intenzioni e dagli input dei progettisti nelle caratteristiche del sistema (AiRS), sia dalle affordance fornite dal sistema stesso. Queste interazioni si adattano, di conseguenza, alle esigenze e alle capacità degli utenti. In questo contesto, le AiRS possono svolgere un ruolo di rilievo nella strutturazione delle interazioni sociali all’interno dell’ambiente digitale, manipolando gli umwelten dei loro utenti. Seguendo il concetto di umwelt, gli organi percettivi giocano un ruolo cruciale: i social media, come TikTok, si basano principalmente sulla capacità di percezione visiva degli utenti. L’occhio è l’organo primario che permette agli utenti di interagire con le rappresentazioni digitali. Considerando che i social media sono percepiti in modo simile all’ambiente naturale, gli utenti possono avere l’esperienza della percezione olistica delle rappresentazioni digitali come parte di un messaggio generale creato dalle AiRS (Whitney, Leib 2018). Il processo di categorizzazione, successivo al processo di percezione (Klinkenberg 2015), è fortemente imposto dalla piattaforma digitale e dalle AiRS, in modo simile alla percezione umana olistica nell’ambiente naturale (Mitchell et al. 1995) che si basa sul contesto (Russell, Giner-Sorolla 2013). Poiché i social media come ambiente digitale sono in costante cambiamento e sono manipolati dall’IA, gli utenti devono adattarsi costantemente basandosi sulle informazioni relative a entrambi gli ambienti percepiti olisticamente come una fusione tra l’ambiente fisico e le sue rappresentazioni digitali. Paolucci (2021) spiega bene questo processo: il nostro cervello cerca di indovinare informazioni non disponibili sull’ambiente che alla fine corrispondono ai dati sensoriali in evoluzione, influenzando il modo in cui percepiamo il mondo e creando infine. Applicato nel caso della percezione sui social media, crea un 299 bricolage tra il mondo fisico e gli stimoli digitali mediati dall’IA. In questo contesto, la percezione di sé e degli altri sui social media può essere associata a una forma di “controlled hallucination”. [...] by ‘controlled hallucination’, I mean the product of the imagination controlled by the world. The way in which we match the hallucination’ of imagination with the ‘control’ of the world is through diagrams and narratives. The main idea is that ‘hallucination’ is the model of perception and not a deviant form of it. With ‘hallucination’, [...] I mean the morphological activity of the production of forms by the imagination, which remains crucial both when it is not controlled by the world – as in the case of hallucination, imagination or dream – and when it is controlled by the world, as in the case of online perception (Paolucci 2021, p. 127). Applicando i concetti esposti da Paolucci, emergono considerazioni rilevanti riguardo al ruolo del controllo nella descrizione dell’“hallucination” basata sulla percezione, governata dall’ambiente digitale rappresentato dai social media. Nonostante l’ambiente di tali piattaforme siano considerate di natura lontano dal naturale, sembrano essere percepite in modo olistico, seguendo la prospettiva di Paolucci (2021) sulla connettività tra organismo e ambiente, tra mente e materia, convincendo gli utenti della materialità delle rappresentazioni digitali con cui interagiscono. In altre parole, gli utenti dei social media basati sull’IA tendono a percepire queste piattaforme come un’estensione dell’ambiente naturale, integrando le rappresentazioni digitali in una visione olistica del mondo. Tale percezione coinvolge processi cognitivi intensi, poiché gli utenti devono continuamente adattarsi all’ambiente digitale e alle sue affordance, pur mantenendo una connessione continua con il mondo fisico. Questa continua negoziazione tra il reale e il digitale può comportare un carico cognitivo significativo e, a lungo termine, può essere causa di stress e burnout digitale. Gli studi indicati da Liu e Ma (2020), Shao et al. (2021) e Sharma et al. (2020) forniscono prove della rilevanza di tali effetti negativi. In conclusione, la percezione degli utenti dei social media basati sull’IA è profondamente influenzata dal rapporto tra organismo e ambiente digitale, che si traduce in un’esperienza olistica e materialità attribuita alle rappresentazioni digitali. Come social media possono influenzare gli utenti promuovendo sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee attraverso il processo di scaffolding indagato nel prossimo paragrafo. 5. I processi di scaffolding nei social media Valsiner (2005, p. 205) definisce lo “scaffolding” come “a form of guidance – and guidance is everywhere in human social and (internalized) personal lives. It is a generic process that always operates in unique forms’’. Possiamo quindi ipotizzare che i social media possano influenzare gli utenti promuovendo sia l’apprendimento cognitivo che diverse reazioni corporee. La semiotica offre strumenti per comprendere come le rappresentazioni digitali all’interno di tali piattaforme influenzino la percezione di sé, degli altri e dell’ambiente circostante. Paolucci (2021) spiega anche come il linguaggio naturale possa fungere da struttura portante per la cognizione umana, modellando i nostri punti di vista, ampliando e rafforzando le nostre capacità cognitive e la nostra comprensione del mondo. Allo stesso modo, tutti gli altri elementi digitali all’interno dei social media svolgono una funzione simile. La categorizzazione degli utenti fa parte di un processo interpretativo strutturato a diversi livelli. Valsiner et al. (2021, p. 4) propongono un modello che identifica cinque livelli di interpretazione. Il livello 0 riguarda le sensazioni corporee basate sugli organi percettivi (ad esempio, in caso di rappresentazioni digitali, il colore, contrasto, forme etc.), mentre il livello 1 la riflessione emergente (ad esempio, gli utenti si rendono conto di interagire con qualcosa che sarà categorizzato e interpretato ai livelli successivi). Al livello 2 vi è la riflessione in categorie verbalizzabili, che nel caso dei social media comprende le categorie offerte attraverso l’IA (ad esempio, testi ripetitivi utilizzati dagli algoritmi). Il livello 3 implica 300 la riflessione in generalizzazioni verbalizzabili, come riconoscere un influencer in base al numero di follower o video virale a base di click raggiunti. Infine, il livello 4 riguarda la riflessione in generalizzazioni non verbalizzabili, che rappresenta la percezione olistica e potrebbe influenzare il livello 0. Nell’ambito del processo interpretativo degli utenti sui social media, si ipotizza che le affordance siano presenti a tutti livelli. Un esempio della classificazione di Valsiner et al. (2021) riguarda una ricerca di Kramer et al. (2014) che dimostra come le raccomandazioni dell’IA influenzino la percezione degli utenti attraverso contenuti audiovisivi come testi, immagini e video. Durante l’esperimento, alcuni utenti hanno ricevuto una selezione di notizie positive, altri di notizie negative, alcuni in ordine cronologico e altri in modo casuale per le varie settimane. Gli utenti con notizie negative tendevano a pubblicare messaggi negativi, evidenziando l’effetto dell’IA nella categorizzazione dei contenuti e nel processo di apprendimento degli utenti basato sulle raccomandazioni. Da un lato, ciò conferma che la percezione di sé e degli altri negli ambienti digitali e in quelli naturali è simile, confermando una tendenza generale già dimostrata da Baumeister et al (2001). Dall’altro, sottolinea il ruolo dell’IA nel processo di categorizzazione adottato dagli utenti e come le raccomandazioni dell’IA influenzino il loro processo di scaffolding, basandosi sulle opportunità fornite dai social media. In sintesi, l’esperienza vissuta attraverso l’ambiente digitale può essere percepita e interpretata in modo simile all’esperienza vissuta fisicamente nell’ambiente naturale. Gli oggetti rappresentati dagli ambienti digitali e mediati dall’IA possono essere interpretati come oggetti fisici, suscitando reazioni corporee negli utenti. Il prossimo paragrafo esplora queste idee attraverso l’analisi di un caso studio su TikTok. 6. Materialità del TikTok: un caso studio Per dimostrare l’impatto dei social media nella dimensione materiale degli utenti, concentriamo la nostra attenzione su un particolare caso di studio riguardante le pratiche originate dalla pratica #horsefacefilterchallenge su TikTok. Su TikTok, #horseface è un popolare hashtag, elemento usato per cercare e far trovare i propri contenuti (Karamalak et al. 2021). Inoltre, è anche un filtro basato sulla realtà aumentata che, all’interno di un breve video di TikTok, trasforma il volto umano in quello di un cavallo. Questo paragrafo analizza le affordance offerte da questo filtro e il ruolo delle raccomandazioni dell’IA nell’esporlo a un vasto pubblico, influenzando la loro esperienza di apprendimento attraverso il processo di scaffolding. Il filtro “Horsehead” è stato inizialmente lanciato su Snapchat e successivamente adottato da TikTok con il nome di “horseface”, ottenendo notevole popolarità grazie alle raccomandazioni dell’IA. Gli utenti possono utilizzarlo per sperimentare il mascheramento digitale e condividere i video delle trasformazioni. Su TikTok, questo filtro ha dato vita alla sfida denominata #horsefacefilterchallenge, in cui gli adulti provano il filtro mentre i loro bambini osservano la trasformazione sullo schermo dello smartphone. Secondo i dati forniti da Google, sono stati pubblicati circa 31 milioni di video utilizzando questo filtro. L’analisi dei dati si è concentrata sulle espressioni fisiche di 500 video, analizzati tra gennaio 2022 e luglio 2023 e dimostra che la maggior parte dei bambini, dopo aver osservato la trasformazione della testa degli adulti in quella di un cavallo, appare spaventata e inizia a piangere, osservando sia lo schermo che la presenza fisica dell’adulto. Nella minoranza dei video in cui i bambini reagiscono in modo diverso dal pianto, si osserva una sorpresa degli adulti nei confronti della reazione dei loro bambini, poiché l’aspettativa, creata anche dagli altri video simili suggeriti, era che essi interpretassero queste rappresentazioni digitali con spavento o pianto. Le affordance che gli utenti trovano nell’utilizzo del filtro “horseface” su TikTok sono basate sul loro umwelt, dai loro bisogni e dalle loro capacità. Queste affordance sono strettamente legate alla funzione delle raccomandazioni dell’IA. La maggior parte degli utenti partecipa a questa esperienza, che 301 coinvolge la realizzazione di un video con un bambino, per tre motivi principali: 1) l’esposizione al filtro è stata suggerita dalle raccomandazioni dell’IA; 2) cercano di sperimentare alterazioni del loro stato cognitivo e fisico ispirandosi alle reazioni osservate nei video di altri utenti; 3) sperano che le raccomandazioni dell’IA possano individuare il loro video, consigliarlo ad altri utenti e ricevere reazioni e feedback dal resto della comunità online. Tuttavia, i risultati indicano che la maggior parte degli utenti espone i bambini a un’esperienza potenzialmente stressante, in cui possono verificarsi “controlled hallucination” nell’ambiente digitale (Paolucci 2021) e ciò può influenzare il modo in cui i bambini imparano a comprendere il mondo. Inoltre, TikTok impone i strumenti di interpretazione, come evidenziato applicando la classificazione di Valsiner et al. (2021), specialmente in contesti di esperienze complesse offrendo le categorie attraverso le raccomandazioni dell’IA nei testi ripetitivi e negli elementi testuali utilizzati dagli algoritmi per manipolare gli elementi all’interno dello spazio della piattaforma. 7. Conclusioni e prospettive future Questo articolo ha analizzato l’influenza dei social media basati sull’IA sulla dimensione materiale e fisica degli utenti. Ha dimostrato che tali piattaforme possono avere effetti significativi sul corpo degli utenti, nonostante nel senso comune siano percepite come separate dalla dimensione fisica e materiale. Da un lato, gli utenti sono esposti a rappresentazioni digitali mediate dall’IA, dove quest’ultima decide quale valore attribuire a determinati testi, inducendo l’utente ad adottare determinati stati fisici attraverso le varie affordance riconosciute all’interno dei social media. D’altra parte, gli strumenti di scaffolding dei social media mediati dall’IA possono guidare gli utenti a interagire con strumenti interpretativi che promuovono determinate reazioni e si manifestano in cambiamenti fisici all’interno del loro corpo. Questa ricerca, basata su un quadro metodologico della biosemiotica e della semiotica cognitiva, mira a spiegare come gli stimoli mediati dall’IA possano offrire affordance e promuovere processi di scaffolding agli utenti dei social media. Il caso di studio presentato ha evidenziato come gli utenti possono essere esposti a esperienze potenzialmente stressanti con la possibilità di influenzare i loro stati fisici. Questo impatto è attribuito all’interazione tra lo spazio digitale dei social media, le rappresentazioni digitali e le raccomandazioni dell’intelligenza artificiale che sovrastimolano gli utenti, favorendo un maggiore coinvolgimento. Ricerche future dovranno aprire la discussione non solo verso gli effetti dei social media basati sull’IA a livello individuale, ma anche a livello sociale e della cultura, nonché testare altri metodi di raccolta dati per ottenere una comprensione più completa della complessa interazione tra utenti, ambienti digitali e tecnologie IA. 302 Bibliografia Aichner, T., Grünfelder, M., Maurer, O., Jegeni, D., 2021, “Twenty-five years of social media: a review of social media applications and definitions from 1994 to 2019”, in Cyberpsychology, behavior, and social networking, vol. 24, n.4, pp. 215-222. Baumeister, R. F., Bratslavsky, E., Finkenauer, C., Vohs, K. D., 2001, “Bad is stronger than good”, in Review of general psychology, vol. 5, n. 4, pp. 323-370. Boccia, A. G., Gemini, L., Pasquali, F., et. al., 2017, Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online, Firenze-Milano, Connessioni 2018. 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In materia di materiali Elisa Sanzeri 1. Materie e materiali A leggere il dizionario, luogo in cui si sedimenta la memoria semantica della lingua rendendo conto di occorrenze e usi di un certo lessema, materie e materiali sono quanto di più concreto e tangibile ci sia. Vediamo la definizione di materia fornita dal Devoto-Oli (2023). materia (ma-te-ria) (arc. matera) s.f. 1. Tutto ciò che ha una propria consistenza fisica ed è percepibile con i sensi; sostanza, materiale: materia organica, inorganica; materia malleabile, elastica, infiammabile; di che materia è fatto?; una statuetta di materia preziosa | CHIM., INDUSTR. materia plastica → PLASTICO; materie prime, quelle che servono di base alle lavorazioni industriali; FIG., SCHERZ.: materia prima, l’intelligenza o il denaro. 2. FILOS. Nella filosofia greca, in particolare in quella di Aristotele, la sostanza indistinta che ha dato origine alla realtà e che si contrappone alla forma || TEOL. Nella concezione cristiana, la realtà soggetta ai sensi (contrapposta allo spirito) || SCIENT. Nel pensiero scientifico moderno, insieme di atomi e molecole soggetto alle leggi dell’universo, oggetto di studi fisici e chimici: materia solida, liquida, gassosa 3. ANAT. Sostanza organica, tessuto cellulare: materia cerebrale | materia bianca, sostanza bianca → SOSTANZA) | materia grigia → GRIGIO 4. Argomento di cui si parla in un testo o in un discorso; soggetto, tema: c’è materia per un libro: catalogo per materie; una materia scabrosa, delicata | in materia, riguardo all’argomento in questione: non sono un esperto in materia | in materia di, relativamente a, riguardo a: fornire consulenza in materia di investimenti 5. Disciplina di studio o di insegnamento: materie letterarie, scientifiche; materie d'esame; andare bene in tutte le materie 6. Occasione, motivo, pretesto: dare, offrire materia a chiacchiere, a sospetti […] • Dal lat. materia, der. di mater ‘madre’ • sec. XIII •. Nell’accezione più generica, la materia è la sostanza fisica che forma ogni corpo, dotata di estensione spaziale e qualità sensibili che la rendono percepibile ai sensi e ne consentono la riconoscibilità, una sostanza uniforme che investe gli oggetti e le cose che ci stanno intorno. Che dire invece dei materiali? Di seguito la voce corrispondente estrapolata dallo stesso dizionario. materiale (ma-te-rià-le) agg., s. A. agg. Della materia, che riguarda la materia o è costituito di materia: la realtà materiale; cose, oggetti materiali 2. Relativo agli aspetti fisici e concreti della vita umana (contrapposto a morale, spirituale, intellettuale): aiuto materiale; benessere materiale; lavoro materiale | errore materiale, che incide soltanto sull’esecuzione o sulla realizzazione pratica di qualcosa || Effettivo, reale: mi trovo nell’impossibilità materiale di aiutarti; non ho il tempo materiale per fare sport | autore materiale di un delitto, chi lo ha effettivamente compiuto (distinto dal mandante) | DIR. costituzione materiale, l’insieme dei principi che, pur non essendo formalmente contemplati nella costituzione, regolano le strutture fondamentali dello stato 3. Grossolano, rozzo, volgare: un uomo materiale; avere modi materiali B. s.m. 1. Prodotto o manufatto dotato di proprietà o caratteristiche particolari, individuato o definito spec. in rapporto all’origine e all’impiego: materiali naturali, artificiali; materiali da costruzione; materiale esplosivo 2. Insieme di oggetti o strumenti necessari per lo E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). svolgimento di una determinata attività: materiale ferroviario, rotabile; materiale scolastico; materiale chirurgico | FIG., materiale umano, gli individui che sono oggetto di ricerca o trattamento o in quanto mezzo per il conseguimento di un fine 3. Insieme di appunti e documenti raccolti per una successiva elaborazione o compilazione: ho già tutto il materiale per la tesi […] • Dal lat. tardo materialis, der, di materia ‘materia’ • inizio sec. XIV •. Come è evidente, tra i due lessemi c’è una stretta vicinanza semantica, tanto da renderli in buona parte interscambiabili. Tuttavia, è possibile rintracciare alcune differenze, in particolare nel modo in cui si articolano certe categorie a livello semantico e aspettuale. Laddove infatti materia sta a indicare per lo più un qualcosa di omogeneo al suo interno, conchiuso, naturale, puro o quanto meno semplice – si pensi alle materie prime (cfr. Campailla in questo volume), alla materia cerebrale, a quelle zuccherine – il materiale è invece spesso non-omogeneo, composto da elementi diversi. Si tratta in genere di una pluralità di sostanze, ma anche di oggetti, raggruppati in virtù di alcuni caratteri comuni, come l’origine o la destinazione d’uso, e che sono già stati sottoposti a un qualche tipo di elaborazione. In questo senso, sono materiali, ad esempio, quelli metallici, i sintetici o gli isolanti, come anche quelli scolastici, ospedalieri o edilizi sino a quelli preparatori pensati come un complesso di informazioni raccolto in vista di un futuro lavoro. Così, se la materia è investita del tratto semantico della continuità, il materiale di contro è non-discontinuo; se la materia si presenta come una totalità integrale, il materiale invece si configura come un’unità integrale. Un altro tratto semantico differenziale che è possibile rilevare dal confronto delle due definizioni interessa la dicotomia natura vs cultura: in un’ottica un po’ naïve, la materia sarebbe naturale, qualcosa che ricostruiamo come autentico, genuino e spontaneo, all’opposto dei materiali, frutto invece della cultura, sostanze lavorate dall’uomo e dunque artificiali e artificiose. Al di là di queste differenze, materie e materiali appaiono entrambi come qualcosa di fisico e terreno, reale e palpabile, in ogni caso evidente. Una realtà fenomenica data e oggettiva, a tratti ovvia e banale, dotata di valori e sensi che dovrebbero esserle intrinseci e determinati da qualità e proprietà che essa possiede di per sé e che ne condizionerebbero l’uso e l’impiego in certi contesti e oggetti. Non a caso, materiale, in quanto aggettivo, si contrappone a termini come morale, spirituale, intellettuale, astratto o ideale e prevede come parasinonimi attributi come concreto, corporeo, effettivo, sensibile. Ciononostante, la definizione di materia fa accenno alla lunga storia che il concetto ha avuto nell’evoluzione del pensiero filosofico, portando alla luce come di fianco a questa accezione ne scorra un’altra che vuole la materia come grezza e amorfa, una sostanza primordiale indifferenziata, in sé inaccessibile, solo ed esclusivamente pensabile. E d’altro canto, gli usi che se ne fanno del termine rendono conto in parte anche di quest’altra faccia della materia che si trova così a essere insieme qualcosa di informe e differenziato, intellettivo ed empirico, cognitivo e sensoriale, incorporeo e fisico. Come si legge dal dizionario, essa infatti è anche l’oggetto o il soggetto di un discorso, il tema di un romanzo, di una conversazione, di una conferenza; una questione, in altre parole, che può essere identificata, determinata e magari riconosciuta come scottante, controversa, delicata o difficile. Oppure ancora un insieme di nozioni ordinate che finiscono per formare discipline di studio o d’insegnamento. È interessante notare a questo proposito che la voce ripropone il dualismo tra matters of fact e matters of concern di latourinana memoria (cfr. Latour 2005, 2008). Si passa infatti da una definizione della materia come fatto della scienza, dato oggettivo e incontrovertibile a quello di materia come oggetto di dibattito e discussione. In un certo senso è lo stesso passaggio che è stato svolto in questo volume e che il semiologo si trova a eseguire nel momento in cui indirizza il suo sguardo a materie e materiali: essi da fatti indiscutibili tramutano in questioni da interrogare. All’interno del paradigma semiotico, come è noto e come più volte è stato ribadito in questo volume, la materia assume un particolarissimo ruolo. La disciplina, fondandosi sulla quadripartizione hjelmsleviana, considera la materia come antecedente ai meccanismi di senso – massa amorfa ma già dotata di una qualche organizzazione, substrato virtuale per significazioni future – e al contempo posteriore a essi, essendo ricavabile solo a partire dalle sostanze formate e dunque dal ritaglio che la 306 forma ha impresso sulla materia. Materie e materiali, trasposti entro la teoria della significazione, richiedono dunque di essere distinti più di quanto non faccia il senso comune, non fosse altro perché ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana, nel mondo-della-vita campeggiato da effetti di senso, sono sempre e solo le sostanze, materie per definizione già messe in forma. Lo spiega bene Floch, punto di riferimento per molti dei saggi che compongono il volume: “Il materiale non è la materia, poiché l’uomo utilizzandolo l’ha caricato di senso; e non è nemmeno una forma, poiché dipende dall’uso […]. Come si sarà compreso, il materiale va concepito secondo noi come sostanza, come materia formata, assunta dalla forma significante” (1984, p. 176). Che sia ferro, vetro o legno, caffè, grani o pelli, sangue, organi o carni, plastiche, cemento o carta, per le scienze semiotiche è sempre di materiali che si tratta, e non di materie, di sostanze che hanno già una propria foggia, che sono già figure del mondo, che plasmano già oggetti e cose senza le quali non potremmo percepirle (cfr. Ventura Bordenca 2009). E ciò vale tanto per i materiali compositi e artificiali quanto per le materie sedicenti pure e naturali. Prendiamo ad esempio il cotone, quello che compone i bastoncini di ovatta, i dischetti struccanti, le lenzuola o le camicie, ma anche le tende del bagno, gli strofinacci della cucina e una miriade di altri oggetti della nostra vita quotidiana. Ora, la materia che costituisce tutti questi artefatti la si otteniene di fatto per astrazione, mettendo a confronto bastoncini, dischetti, lenzuola, camicie, tende e strofinacci, e ricavando così il batuffolo della pianta di cotone, che è già tuttavia per il semiologo materia formata. Anche il marmo, di cui parla Festi, l’acqua, intorno alla quale ruota il saggio di Fadda, o la polvere, oggetto di riflessione nei contributi di Bassano e Burgio, solo ingenuamente e nel senso comune possono esser ritenute materie. Marmo, acqua e polvere, tanto quanto il cotone, non esistono di per sé: esistono come idee, concettualizzazioni astratte che ricaviamo a posteriori, a partire da una serie di occorrenze che, mettendole in forma, danno loro sostanza (Marrone 2023). Così, persino ciò che può apparire a un primo sguardo materia pura è già materiale, è già un oggetto culturale che, in quanto tale, si trova investito di sensi e di valori. Questi sensi e valori che investono i materiali non sono intrinseci ai materiali stessi ma derivano da usi collettivi e abitudini individuali che ovviamente non sono dati una volta e per tutte: mutano nel tempo e nello spazio, cambiando da cultura a cultura e modificandosi nel corso della storia. Se per gli amerindi incontrati dai primi colonizzatori il rame era stimato più dell’oro, utilizzato nei riti religiosi e per la fabbricazione di gioielli, nello stesso periodo e dall’altra parte del globo, le cose non stavano affatto così. Nell’Inghilterra di Enrico VIII l’impiego massiccio del rame nelle monete d’argento fu motivo di malcontento per il popolo e valse al sovrano l’appellativo “Old Coppernose”, letteralmente “vecchio naso di rame”: infatti le parti in rilievo delle monete, come il naso del profilo del re, lasciavano comparire il rosso non appena si consumavano un po’ (Aldersey-Williams 2010). Per fare un esempio a noi più vicino basti pensare all’inversione di reputazione che ha subìto la plastica nell’arco di meno di un secolo: osannata dapprima per la sua praticità, resistenza ed economicità, vero e proprio mito della società borghese (cfr. Barthes 1957), oggi, sulla scorta dell’ideologia ecologista, è messa al bando. Alla plastica, difficile se non impossibile da smaltire, si preferiscono così altri materiali, come il vetro, il legno o la ceramica, che si trovano a significare la natura. Un valore euforico, quello della natura, che non sta, lo ripetiamo, nei materiali in sé, ma che siamo noi in una certa misura ad attribuire loro. Ciò non significa tuttavia che da una parte ci sono i materiali e le cose da essi composti e dall’altra i significati, come se venissero loro aggiunti ex post: il senso che i materiali acquisiscono non arriva, per così dire, dopo, ma insieme ai materiali stessi, secondo quel rapporto di presupposizione reciproca che collega il piano dell’espressione con quello del contenuto. Ad ogni modo, il materiale, come visto nel caso della plastica, si carica di significati anche in virtù delle relazioni che intrattiene con altri materiali, ma è evidente che il senso che acquisisce è strettamente legato anche alla forma oggettuale che assume o ha assunto (cfr. Ventura Bordenca 2009). Una cosa sarà, poniamo, l’oro di una collana, un’altra sarà lo stesso oro che troviamo nei chip dei computer o nel celebre risotto di Gualtiero Marchesi. Allo stesso modo, una cosa sarà il valore della ceramica dei servizi igienici, del tutto diverso sarà il senso che ha per noi la stessa ceramica del vaso per i fiori o del servizio da thè. Lo stesso, è chiaro, è valido all’inverso, considerando non più i materiali che compongono 307 oggetti di diverso tipo bensì i medesimi oggetti costituiti da materiali differenti. Ciò significa che oggetti e materiali si costruiscono reciprocamente, di modo che, ad esempio, il senso di un metallo come l’acciaio dipende dalle sue occorrenze oggettuali; in maniera analoga, il valore assunto da un oggetto come il sofà potrà variare al variare delle sostanze di cui si compone. L’acciaio, dopo esser stato protagonista della Rivoluzione industriale, impiegato in artefatti più disparati – dalle travi strutturali dei ponti alle linee ferroviarie, dalle caldaie delle navi ai grattacieli – negli anni Trenta del Novecento assume un nuovo aspetto e viene utilizzato per la realizzazione di oggetti come poltrone, sedie e divani, per i quali non sembrava di per sé adeguato perché considerato troppo duro e freddo per adattarsi ai cosiddetti mobili sostenitori, in linea di principio morbidi, comodi e caldi. Reso in forma tubolare e piegato ad arte, l’acciaio intesse una stretta relazione con le pelli e il gommapiuma, la corda e il legno, dando luogo a celebri pezzi di design come la Chaise Longue di Le Corbusier. Ecco così che il materiale si carica di caratteri come la linearità, la leggerezza e l’eleganza che non sembravano appartenergli, mentre la poltrona a sdraio viene investita di un senso di razionalità e funzionalità del tutto inedito per l’oggetto in questione che ben si esplica nell’espressione “macchina per riposare” che usava lo stesso Le Corbusier per descrivere il frutto del suo ingegno. La storia del tubolare metallico permette, inoltre, di sottolineare come occuparsi di materiali significhi spesso addentrarsi nel mondo delle sperimentazioni e della creatività. Il mito racconta che l’idea di adoperare l’acciaio per realizzare eleganti sedute nasca da un’intuizione tanto semplice quanto geniale di Marcel Breuer: se il tubolare è in grado di sostenere un corpo soggetto a sollecitazioni su strada, come fa quello che compone i telai delle biciclette, sarà capace di fare altrettanto entro le mura domestiche o nell’ufficio di un avvocato (cfr. Dardi, Pasca 2019). Da qui, una serie di tentativi e aggiustamenti, come quelli dell’architetto olandese Mart Stam che sfrutta dei tubi del gas per realizzare uno dei primi prototipi di sedia a sbalzo. Così, dalle navi e dai ponti che mettevano in contatto le persone si arriva sino ai mobili razionalisti, passando per le biciclette e i condotti del gas, facendo di fatto bricolage con l’acciaio, imparando a lavorarlo per dargli lucentezza, a sfruttare le sue potenzialità per nuovi usi e portando alla luce caratteri che non pensavamo possedesse, facendoli passare da uno stato virtuale a uno realizzato. In tal senso, anche quel fascio di qualità sensibili che attribuiamo ai materiali, e che essi sembrano avere a prescindere da noi, sono in una certa misura frutto del nostro modo di conferire senso al mondo, esito di una serie di processi semiotici – pragmatici, cognitivi, passionali, somatici – attraverso cui stabiliamo ad esempio che il marmo è freddo e compatto mentre il sughero è caldo e poroso, la lana è soffice e la seta è liscia, il metallo è rigido e il legno è flessibile, il vetro è fragile e duro e la plastica è resistente e morbida, e così via (Marrone 2023). Proprietà sensibili, dunque, che, ancora una volta, non hanno nulla di oggettivo e naturale ma dipendono dalla cultura e dalla società in cui siamo immersi, dagli usi e dalle abitudini della gente, dai gusti e dai disgusti, dai rapporti tra materiali e con oggetti e soggetti. In definitiva, è solo entro una rete di relazioni significanti che le materie, pure virtualità di significazione, assumono una forma e si fanno materiali, organizzandosi sulla base di differenze e opposizioni e, collegandosi a certi contenuti, diventando luogo di investimento di valori. 2. Materiali in circolo Affermare che le materie sono sempre sostanze, e dunque formalizzazioni materiali, comporta per la semiotica oltrepassare il senso comune e l’evidenza fenomenologica per considerare i materiali come veri e propri testi, dotati di una propria articolazione formale interna. Ricordando che per la semiotica il testo è una costruzione teorica, un modello per l’analisi dei fenomeni di senso, diventa possibile abbordare i materiali interrogandoli con gli strumenti elaborati dalla teoria e rintracciando così non solo organizzazioni plastiche, fatte di contrasti sensibili e trasformazioni materiche, ma anche, ad esempio – in una logica generativa e sulla base di precise pertinenze – meccanismi discorsivi, organizzazioni narrative e passionali e articolazioni assiologiche. In altre parole, sostenere che i materiali possano esser 308 concepiti come oggetti testuali significa dichiararli oggetti di conoscenza e descrizione scientifica: su di essi allora sarà possibile proiettare i tratti di chiusura, coerenza e coesione, molteplicità di livelli, etc. Come le analisi di questo volume hanno dimostrato, indagare semioticamente la dimensione materica della significazione può voler dire, a livello operativo, volgere il proprio sguardo analitico a costrutti culturali di diverso tipo – oggetti, alimenti e bevande, pubblicità e media digitali, romanzi e libri, ricettari e manuali, opere d’arte e film, pratiche e architetture, spazi e mappe, etc. – entro i quali la materia stessa si dà come effetto di senso, esito di una serie di meccanismi e processi di produzione del senso. I lavori qui presentati, nella loro eterogeneità, affrontando la questione della materia da angolazioni differenti, mettono in luce come entità anche molto diverse tra loro contribuiscano a portare avanti un discorso comune. Un discorso proferito non solo da quell’insieme di materiali che consideriamo testi, ma anche da tutto un complesso di prodotti culturali di altra natura che, per così dire, parlano i materiali e che in tal modo, a vario titolo, prendono parte alla costruzione di ciò che intendiamo e chiamiamo materia. Il volume così interseca da una parte ciò che possiamo definire il discorso dei materiali – ossia il discorso che i materiali stessi producono con gli oggetti del mondo attraverso cui si fanno manifestazione – e che ha dato il titolo alla raccolta di saggi; dall’altra ciò che è possibile identificare come il discorso sui materiali – ovverosia quello che ha i materiali come proprio argomento, più o meno esplicito, più o meno consapevole, e che può assumere forme assai diverse. Due discorsi che si presuppongono reciprocamente e i cui confini, come si può facilmente immaginare, non sono mai così netti, finendo spesso per diventare la medesima cosa. Ma ciò che forse ancora di più emerge dall’insieme di questi saggi è la natura dinamica e processuale, pervasiva e traduttiva che un tema discorsivo come quello della materia e dei materiali può acquisire. Dal punto di vista discorsivo, materie e materiali, lungi dall’essere entità statiche e stabili, sono unità semantiche in continuo mutamento e trasformazione, flussi di senso che variano, si muovono, si convertono e si traducono e, traducendosi, cambiano faccia e assumono sembianze di volta in volta diverse a partire dalle varie configurazioni testuali che danno loro corpo e dai vari discorsi entro i quali si collocano e che ne ridisegnano i profili. D’altra parte, come sappiamo, il discorso stesso è un processo che entra in relazione con altri discorsi con cui si incrocia e si ibrida (cfr. Marrone 2001, 2010). Così, non stupisce affatto che in questo numero, nel tentativo di intercettare semioticamente la materia, non solo siano state prese di mira forme testuali fondate su sostanze espressive diverse, ma che inoltre questo eteroclito insieme di testi, pur parlando di materiali ed essendo dai materiali parlato, attraversi discorsi sociali d’altro tipo. Il discorso dei e sui materiali, in altre parole, si avviluppa e si intreccia col discorso storico, economico, politico, ecologico, turistico, enogastronomico, pubblicitario, artistico, religioso, mediale, etc. che al contempo alimenta e da cui è alimentato. Guardando in controluce i contributi che compongono il volume, quel che si vede è allora una catena interdiscorsiva che mette in collegamento oggetti, pratiche e immaginari che circolano nella semiosfera, complesso e frammentario serbatoio di senso in cui materie e materiali trovano posto e migrano da un discorso a un altro. 3. Relazioni materiche Il discorso dei e sui materiali risulta dunque quasi un campo trasversale, ma non per questo laterale, che riunisce oggetti culturali differenti e richiama attorno a sé formazioni discorsive difformi. Le esplorazioni svolte in questo volume mettono in evidenza, d’altro canto, come vi sia una dimensione elementale, materica della significazione che investe l’esperienza umana e sociale a tutto tondo. Ciò ha comportato la messa in campo di modelli teorici e di analisi eterogenei, l’impiego di prospettive diverse e l’impegno di differenti branche della semiotica – dalla sociosemiotica alla semiotica interpretativa passando per la semiotica della cultura e l’etnosemiotica – ma anche di discipline altre, più o meno vicine – come l’architettura o la filosofia del linguaggio. 309 Le riflessioni condotte, sebbene svolte sulla base di domande di ricerca di volta in volta specifiche, hanno avuto come obiettivo principale quello di indagare la dimensione culturale e sociale dei materiali nel tentativo di mettere in luce il ruolo da essi giocato nei meccanismi di significazione e organizzazione del senso. Riflessioni che non guardano né alla sola teoria né alla sola analisi ma che mettono in moto quel circolo virtuoso che consente alla semiotica di osservare il mondo e tornare su sé stessa. Da qui la possibilità di individuare, a dispetto dell’eterogeneità dei contributi, alcuni orientamenti comuni che ribadiscono certi postulati semiotici e che possono venire a configurarsi come alcune possibili direzioni di una ricerca ancora tutt’altro che conchiusa. Abbiamo già sottolineato come il senso dei materiali si dia sempre per differenza, di modo che, seguendo il dettame epistemologico strutturalista, le relazioni siano primarie mentre gli elementi – è il caso di dirlo – siano secondari. È l’instaurazione di una differenza tra le cose a renderle percepibili e dunque significanti, e ciò diventa ancora più vero se pensiamo proprio ai materiali come sostanze dell’espressione. Se la significazione si manifesta a partire dalle sostanze del mondo in cui l’uomo è immerso, richiamando il suo apparato sensoriale (Greimas 1968), il compito del semiologo, dinnanzi ai materiali con i loro caratteri sensibili, è quello di passare dalla semplice percezione di una differenza mediante i sensi alla precisa identificazione di una serie di relazioni significanti. Fermo restando che la percezione sensoriale, l’esperienza estesica non sono attività originarie che, per così dire, stanno prima di ogni possibile significazione ma rientrano nelle condizioni immanenti del senso (Greimas 1987). Il sensibile, come ha evidenziato anche Floch lavorando sulla fotografia e il visivo (1986, 1995), non è separato dall’intelligibile e la predilezione per l’uno o per l’altro non ha alcuna ragion d’essere: il sensibile è già intelligibile e, al contempo, l’intelligibile è già sensibile, essendo l’una e l’altra due facce della stessa medaglia. Con la materialità quindi si apre anche il vasto campo della sensibilità e di una semiotica del sensibile (cfr. Bertrand), entro le quali diventa pertinente interrogarsi sulla relazione tra materialità differenti. C’è, in altre parole, una sensibilità costitutiva dei materiali che emerge nel momento in cui essi entrano in rapporto tra loro. Non si tratta solo di un problema di accostamento o abbinamento ma di vero e proprio di contatto, fatto di aderenze e giunture, frizioni e rotture, che interessa i materiali nelle loro interazioni intra- ed extra-oggettuali. Negli oggetti, d’altra parte, è raro trovare un singolo materiale. Molto più spesso essi sono composti da un complesso di materiali che, come nel caso delle sedute razionaliste, costruiscono come dei sintagmi (quello della Chaise longe di Le Corbusier potrebbe essere sintetizzata nella formula “acciaio + écru + pelle + poliuretano”). Diventa dunque essenziale vedere come le parti si adattano o meno tra loro e nell’insieme dell’oggetto, in che modo la sensibilità dell’uno o dell’altro materiale produce determinati effetti, ancor di più nel momento in cui, come nei binari ferroviari analizzati da Bertrand, la materia è in movimento. Lo stesso vale per le relazioni extra-oggettuali che si svolgono attraverso catene interoggettive e intersoggettive. Ad esempio, nel caso dei cocktail analizzato da Giannitrapani la materialità degli oggetti e i loro caratteri sensibili svolgono un ruolo di primordine nella preparazione del miscuglio, chiamando in causa inoltre un soggetto operatore – il bartender – a cui è richiesta una competenza non solo tecnica ma anche e in primo luogo estesica, sensibile. Al contempo, il contatto tra materialità diverse può dar luogo a trasformazioni che ridefiniscono le identità dei materiali stessi. Nel caso del legno, ricorda Giannitrapani, c’è tutto un problema di memoria olfattiva rilevante soprattutto in ambito culinario, dove i materiali di cui si compongono strumenti e oggetti, entrando in relazione con gli ingredienti, possono subire delle alterazioni e, così facendo, produrne a loro volta delle altre, con il rischio di mandare all’aria la ricetta. Scegliere l’oggetto giusto e il materiale giusto, preferendo ad esempio nel caso del pestello per gli aromi l’acciaio al legno, ma anche, più in generale, convocare le sensibilità dei corpi e degli oggetti, e quindi dei materiali di cui sono fatti, diventa decisivo per la riuscita del cocktail. Le qualità sensibili dei materiali hanno dunque un’influenza tanto nei rapporti tra materie entro il medesimo oggetto, quanto nei rapporti con e tra oggetti e soggetti, artefatti e corpi. Emblematico ed estremo è il caso delle protesi in cui materiali inorganici si trovano a integrarsi se non addirittura a fondersi col materiale organico del corpo umano (cfr. Piluso, Pelusi). Dagli apparecchi odontoiatrici, 310 alle protesi ortopediche o cardiovascolari sino a quelle articolari, passando per gli impianti cocleari, oggetti e tecnologie con le loro materialità, realizzandosi come protensioni sensoriali, arrivano a modificare la stessa percezione. Ma non sempre le integrazioni di materiali altri hanno buon esito e molto più spesso di quanto pensiamo il corpo li rifiuta, richiedendo a professionalità diverse, dagli artigiani ai medici, di trovare la giusta combinazione. Da questi pochi esempi si vede insomma come l’intermatericità rappresenti una condizione costitutiva dei materiali stessi che pone una serie di quesiti a cui la scienza della significazione può provare a dar risposta. Esiste o meno un confine materiale tra materiali differenti? tale confine è determinato dalla forma oggettuale che essi assumono, dalle loro funzioni o dalle situazioni in cui si trovano ad operare? come vengono a configurarsi queste relazioni, ora contrattuali, ora conflittuali, che i materiali intrattengono tra loro? quali sensibilità sono messe in gioco? quali i principi che li rendono possibili? esistono dei legami prescritti e altri vietati, delle gerarchie, una grammatica dei sintagmi materiali? In altre parole, secondo quali logiche i materiali si accoppiano tra loro per formare configurazioni materiche più vaste? Ancora: in che modo i materiali, interagendo tra loro, provocano trasformazioni? e tali trasformazioni a quali criteri sono sottoposti? Le discipline semiotiche hanno tutti gli strumenti per affrontare queste questioni. Lo studio delle qualità o proprietà dei materiali, delle loro reazioni e interazioni, così come delle trasformazioni a cui danno adito può essere pienamente sviluppato nell’ambito di una semiotica narrativa, passionale e discorsiva, come molti dei contribuiti qui presentati hanno mostrato. Materiali o combinazioni tra questi a livello semio-narrativo possono essere infatti concepiti come attanti, entità astratte e formali che si differenziano dalle figure del mondo che li prendono in carico. In conformità con uno dei presupposti della semiotica narrativa per la quale la distinzione tra umano e non-umano, animato e inanimato, non ha alcuna ragion d’essere, dei materiali siamo in grado di individuare il carattere agentivo e performativo considerandoli come soggettività al pari dei soggetti umani, attanti che fanno e fanno fare entro una precisa cornice narrativa. Basti pensare a un materiale conduttore come il rame a cui abbiamo delegato l’ardua impresa di connetterci e illuminare le nostre città. Oppure ancora a un materiale come la lana, che avvolge i nostri corpi da tempo immemore per proteggendoci dai rigidi inverni ma a cui abbiamo affidato anche il compito di isolare termo-acusticamente le nostre case, ponendo sottili materassi di lana sotto il parquet o tra le pareti. Soggetti attivi, i materiali non solo agiscono ma permettono o impediscono, incoraggiano o dissuadono dal compiere certe azioni, mettendo in moto tutta una serie di manovre di manipolazione che hanno spesso ricadute passionali. Come non pensare al vetro che con la sua trasparenza è in grado di istallare un soggetto modalizzato secondo il poter-vedere e di costruire al contempo un oggetto di visione dotato di un poter-esser-visto, realizzando tra i due una congiunzione visiva ma impedendo a conti fatti una congiunzione somatico-tattile (Hammad 2003)? Ma questo materiale fa di più: nello scarto tra poter- vedere e non-poter-toccare, il vetro dà luogo alla configurazione della promessa, prospettando al soggetto la futura congiunzione somatico-tattile con l’oggetto di visione. Ed è facile immaginare, a partire da qui, il dispiegarsi di tutta una serie di sviluppi narrativi e passionali che il vetro può generare nel momento in cui, ad esempio, la promessa viene infranta o esso diviene dispositivo scopico che consente di acquisire un poter-sapere entro un percorso passionale come quello della gelosia. I materiali dunque possono assurgere a differenti ruoli attanziali, vestendo ora i panni del Soggetto, ora quelli del Destinante, ma anche quelli di Antisoggetto, Aiutante o Opponente, ed essere coinvolti a vario titolo tanto in programmi d’azione quanto in processi passionali. Si è visto bene, ad esempio, nel lavoro di Costanzo in cui i materiali impiegati nella lotta allo sporco, quel processo di trasformazione della materia che da uno stato disforico di sporcizia conduce a uno stato euforico di pulizia, assumono volta per volta all’interno di precise situazioni narrative una particolare funzione. In questo caso, il contatto tra materialità differenti – da una parte la macchia, l’unto e l’incrostato, e dall’altra le polveri e i saponi detergenti – dà luogo a vere e proprie trasformazioni materiche (Bastide 1987), processi che possono esser figurativizzati in vario modo e manifestarsi a livello espressivo in maniere differenti ma che fanno capo a operazioni elementari di trasformazione di stati che una grammatica narrativa è in 311 grado di rendere intelligibili. All’interno di una teoria della narratività è allora possibile individuare ruoli e strutture attanziali, modalizzazioni, programmi d’azione, stati e trasformazioni che consentono di andare al di là dell’empiria degli oggetti e dei materiali per ritrovarne la forma. A livello discorsivo invece sembra possibile in primo luogo ragionare sulle marche dell’enunciazione che i materiali portano inscritte, tracce che da una parte fanno capo all’istanza di creazione, ovvero l’enunciatore, e dall’altra a quella di ricezione, ossia il suo enunciatario. Come ogni enunciato presuppone un soggetto enunciatore che l’ha prodotto e un soggetto enunciatario a cui è rivolto, allo stesso modo, ogni materiale presuppone al suo interno un produttore e un utilizzatore impliciti. Laddove le marche dell’enunciazione funzionano come “istruzione per l’uso” dei materiali, si apre, è chiaro, la questione degli usi effettivi dei materiali che possono rivelare uno scarto tra ciò che era stato pianificato a monte e l’utilizzo concreto che di quel dato materiale viene fatto a valle. Il loro uso produttivo, come la risematizzazione degli stessi e le operazioni di bricolage, può esser identificato come un atto di ri- enunciazione dei materiali che da singolo e individuale, puro fatto di parole, può sedimentarsi fino a istituzionalizzarsi secondo il meccanismo della prassi enunciativa. Ancora, a tale livello, dove si interseca la teoria dell’enunciazione e l’allestimento figurativo dei testi, diventa interessante lavorare sugli effetti di matericità e, di conseguenza, di realtà che vengono prodotti e ricercati nel momento in cui la materia viene tradotta da un linguaggio a un altro (cfr. ad esempio Ceriani; Abdala Moreira; Costanzo). Come restituire consistenze e texture? come tradurre la morbidezza, l’elasticità o la ruvidità di un materiale, poniamo, in formato digitale? come fare in modo che l’enunciatario possa creder-vero, quali strategie mettere in campo? Ragionare intorno a materie e materiali ci costringe a guardare qualcosa a cui di solito non prestiamo attenzione, forse perché ritenuta troppo ovvia e banale. Le riflessioni condotte in questo volume mostrano come indagare la dimensione materica della significazione sia imprescindibile per una semiotica che si voglia scienza dei meccanismi e dei processi di articolazione del senso umano e sociale. Non è possibile indagare semioticamente spazialità, gastronomia, letteratura, religione, arte, architettura, politica, mondo digitale, pratiche e design senza volgere lo sguardo alle costruzioni materiche. Esse hanno, al di sotto della patana di evidenza che le ricopre, un valore rilevante nelle nostre vite: assumono significati sociali e culturali, influenzano la formazione delle identità collettive e individuali, sottendono visioni del mondo. Le riflessioni intorno ai materiali possono dunque considerarsi come l’estensione e il coronamento di una semiotica che si interessa al design e agli oggetti quotidiani, ma anche al cibo e all’architettura, alle arti e al digitale, alla storia e alla politica, alle mitologie e alle pratiche. Una semiotica che si mette alla prova e, osservando il mondo, riflette su sé stessa. 312 Bibliografia Aldersey-Williams, H., 2011, Periodic Tales. The Curious Lives of the Elements, NY, Viking Press ; trad. it. Favole periodiche. La vita avventurosa degli elementi chimici, Milano, Rizzoli 2011. Barthes, R., 1957, Mythologies, Paris, Seuil; trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi 1974. 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Ricette social. Forme del fare-culinario fra Instagram e Tik Tok Maddalena Sanfilippo Abstract. In this paper, we discuss about the phenomenon of intersemiotic translation of recipe genre within digital media, with specific reference to audiovisual content produced by food influencers in social media. After examining studies on the semiotics of taste in relation to recipe and the relationship between the Internet and cuisine, we focus on the analysis of a group of social video-recipes. The objective is to understand, through a socio- semiotic comparative analysis, the dialogue between the language of digital media and the culinary system, aiming to identify the mechanisms of signification that characterize this part of contemporary gastronomic discourse. 1. Introduzione “È solo parte del menù. Fa parte dello spettacolo. Questo è ciò per cui state pagando. Questa è un’esperienza esclusiva. Vi prego, tornate ai vostri posti” Lo chef stellato Julian Slowik, interpretato da Ralph Fiennes, nel recente film The Menu (Mylod, 2022), liquida così il suicidio, da lui stesso indotto, di un aspirante chef della sua brigata, troppo poco talentuoso per vivere la vita di uno chef di alto livello. E fra grida, scompiglio, stupore e assurdo compiacimento per il privilegio di poter far parte di questo spettacolo gastronomico, i “poveri” ospiti del ristorante esclusivo nell’isola dispersa di Hawthorn tornano ai loro posti. Le parole dello chef colpiscono e allo stesso tempo rassicurano, probabilmente perché dicono quello che i commensali vogliono sentirsi dire, facendo leva sugli aspetti che sembrano caratterizzare maggiormente il panorama mediatico culinario: intrattenimento, performance, esperienza, spettacolo. Nelle pagine che seguono ci soffermeremo sul fenomeno della traduzione intersemiotica del genere testuale della ricetta all’interno dei mezzi di comunicazione digitale, con specifico riferimento ai contenuti audiovisivi prodotti dai food influencer nei social media, in cui gli aspetti legati all’entertainment e alla spettacolarizzazione dell’universo gastronomico sembrano essere oggi maggiormente pervasivi. Grazie a un’analisi sociosemiotica comparativa approfondiremo il dialogo fra il linguaggio dei media digitali e il sistema culinario, cercando di rintracciare quei meccanismi di significazione che caratterizzano questa composita porzione del più ampio discorso gastronomico contemporaneo, partendo dagli aspetti superficiali (inquadrature, tempi, montaggio, comportamenti degli attori coinvolti nei racconti culinari) e scendendo verso le strutture significative più profonde (organizzazione narrativa, valori culinari). E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38, 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). 2. La natura semiotica della ricetta Di ricette e ricettari, di cucina e media, della relazione fra linguaggio e cibo, del valore culturale e semiotico del sistema culinario, si è ampiamente occupata la semiotica del gusto negli ultimi anni. Grazie a numerosi studi1 è stata dimostrata la natura intrinsecamente semiotica del cibo, il suo essere linguaggio per raccontarsi, parlare con gli altri, produrre significazione. A ben vedere, però, non c’è un linguaggio del cibo, ma un più ampio discorso gastronomico costituito da “entità linguistiche come da forme d’azione e di passione, di testi che parlano di altri testi, di metatesti che discutono di piatti, rituali, cerimoniali, pose più o meno caricaturali, saperi taciti e sapori dichiarati, assetti disciplinari, letture e scritture, assunti etici, poetiche ed estetiche, sistemi di senso, pacchetti di valori” (Marrone 2022, p. 9). Il sistema alimentare può essere pensato come una semiosfera, un insieme di testi e linguaggi, di processi e azioni, di rimandi continui che partecipano alla formazione e alla trasformazione delle entità che compongono il discorso gastronomico, il quale si configura a partire da processi traduttivi. Ragionare dunque sul genere testuale della ricetta, sulla sua evoluzione, significa ricostruire tutti quei meccanismi di funzionamento discorsivo, ricercare le condizioni di possibilità, i processi di significazione nonché tornare a riflettere sulle lazioni fra pratiche culinarie e linguaggio, fra cibo e mondo. La ricetta in quanto testo culinario, dal punto di vista semiotico, è un’unità di senso variabile e dotata di una struttura organizzativa interna che va a determinare il senso di un’esperienza gastronomica (Mangano 2022, p. 293). Come sappiamo, le ricette di cucina sono soggette a reinterpretazioni continue, agiscono alla stessa stregua di spartiti musicali, come massime da poter seguire per l’esecuzione del piatto. È in questo senso che la cucina può essere definita, riprendendo Goodman (1968), come un’arte allografica. Un testo che per sua natura si evolve, attraversando generi testuali, linguaggi, stili discorsivi, epoche, tendenze, mode (Marrone 2016). Dal ricettario tradizionale al giornale, alla radio, al cinema, alla televisione, ai siti internet, ai blog, ai video-tutorial, ai social media. Da Il Talismano della felicità di Ada Boni, a Cotto e mangiato di Benedetta Parodi, a Masterchef, al Pranzo di Babette, a Giallo zafferano, a Benedetta Rossi fino ai più recenti food influencer, attori sociali che abitano gli universi della rete di Instagram e Tik Tok. La ricetta è un genere che cambia, senza forse cambiare davvero. In questo processo di rinascita continua mutano i sistemi di valori, cambiano le strutture manifeste, ma allo stesso tempo si riscontra la resistenza di alcuni tratti invarianti dell’articolazione interna del testo in questione. Appare dunque centrale nel discorso sui ricettari, il fenomeno della traduzione, comunicare la cucina significa tradurre da un linguaggio, quello orale per esempio, a un altro linguaggio, quello scritto, ma anche quello audiovisivo etc. Trascrizioni del saper-fare delle mani tramandate oralmente, le ricette di cucina si scontrano da sempre con l’impossibilità di tradurre perfettamente la gestualità sapiente delle operazioni culinarie. Vi è un inevitabile divario fra il linguaggio delle istruzioni e il corpo, fra le procedure e le azioni fisiche, fra la scrittura e il fare delle mani (Sennett 2008). La forma testuale della ricetta, nell’attualizzare un saper-fare, pone per definizione il problema dello scarto di conoscenze pregresse fra l’enunciatore e l’enunciatario. È un testo istruttorio che diventa luogo di negoziazione fra due tipi di conoscenza, quella di chi scrive, teoricamente competente, e quella di chi legge una pagina o guarda un video, che si presuppone poco preparato. Ogni forma testuale della ricetta ipotizza quindi un contratto tacito fra i due soggetti del discorso, che negoziano il detto e il non detto, l’esplicito e l’implicito, dando vita a differenti patti comunicativi (Marrone 2014, p. 29). Arriviamo così ad affrontare un altro aspetto costitutivo della ricetta, ovvero il suo essere, in quanto testo prescrittivo, intrinsecamente narrativo. Come per i racconti, la prassi culinaria è una messinscena di azioni di soggetti umani e non umani, che trasformano ingredienti, che modificano oggetti all’interno di cornici temporali e di inscatolamenti di programmi narrativi (Greimas 1983). Emerge così la natura performativa del testo di cucina, trascrizione di un fare pregresso, esibizione 1 v. Barthes (1961); Greimas (1983); Bastide (1987); Fontanille (2006); Marrone, Giannitrapani (a cura, 2012); Marrone (a cura, 2014); (Marrone 2013, 2014, 2016, 2019, 2022); Giannitrapani (a cura, 2021); Giannitrapani, Puca (a cura, 2020). 315 di un fare gastronomico di un soggetto operatore. La ricetta è per definizione un testo sfuggente, aperto, frammentato, imperfetto, sempre correggibile, mai definitivo (Capatti 2020). È un testo che mette in scena un fare, fin dalle sue prime apparizioni trascritte in prosa o in versi, in radio o in televisione, al cinema o in rete. Il cuciniere è innanzitutto un attore del fare gastronomico e la ricetta è un copione da interpretare ed eseguire all’interno di una cornice che, sia nei media tradizionali che nei nuovi mezzi digitali richiama irrimediabilmente quella dello spettacolo, del divertimento, e più in generale del macrogenere dell’entrateinment, il quale ha come scopo primario far divertire il pubblico assumendo forme diverse: talk show, game show, reality, e oggi reel e tik tok (Giannitrapani 2014). 3. La rete e le forme brevi della ricetta Di cibo su Internet se n’è parlato sin dagli albori, ma è con l’avvento del web 2.0 che si è assistito all’esplosione dei blog culinari2, alla crescita di materiale audiovisivo fatto di video-ricette e reportage fotografici, e alla degenerazione mediatica delle pratiche di food porn. Ciò ha comportato un ampliamento dell’immaginario culturale legato al cibo. I social media, di fatto, “ci hanno resi tutti registi, conduttori, operatori, attori, desiderosi di comunicare attraverso un linguaggio un tempo riservato a specialisti [...]” (Mangano 2013, p. 213). I blog, invece, hanno reso eroi intermediali (Marrone 2003) autori di culto e non, generando schiere di lettori, pronti a seguire il proprio beniamino ovunque: in rete, in libreria, e in giro per i festival di cucina (Mangiapane 2014). Il risultato di questo fenomeno, che Marrone (2014) ha definito gastromania, è stato un delirio culinario, un megatrend che ha raggiunto il suo apice con l’Expo del 2015. Uno scenario ghiotto di aspiranti chef, tutorial, video, post, foto, recensioni, e soprattutto backstage, alla scoperta dei segreti delle ricette più famose. In questo panorama variopinto, e grazie alla diffusione e all’intreccio di nuovi mezzi di comunicazione digitale, il video sembra essersi affermato come il linguaggio della contemporaneità, ideale per raccontare l’esperienza alimentare e tradurre il genere testuale della ricetta. Negli ultimi anni, la comunicazione enogastronomica su Internet e nei social media non è scomparsa, si è, al contrario, evoluta insieme alle piattaforme digitali, interiorizzandone le trasformazioni, sempre più repentine e confermando il sodalizio intrinseco fra cibo, media e rete. Lo abbiamo osservato nel corso del 2020, nei mesi della pandemia del Covid-19, in cui la gastromania è tornata alla ribalta, a far parlare di sé, a scandire i tempi delle giornate, a saturare i feed dei social network. La quarantena, dunque, non ha trovato impreparata la produzione dell’intrattenimento digitale, come neanche l’industria alimentare. Adepti, vecchi e nuovi, della loggia culinaria della rete hanno dato avvio a una nuova ondata, fatta di panificazioni lunghe, preparazioni di gnocchi, tagliatelle, pizze soffici o croccanti, esperimenti, farine, lieviti. Tutto ciò ha risvegliato il web, battezzando Tik Tok come il social del momento, “il posto dove oggi accadono le cose” (Marino 2023, p. 77). Parlare, quindi, di cibo oggi significa interrogare social network come Instagram e Tik Tok, capaci di catalizzare l’attenzione di ampie fasce di popolazione, rispondendo a logiche complesse e non ovvie. I social media sono spazi virtuali abitati dalla contemporaneità, in cui si costruiscono regimi identitari, in cui si interagisce e si definiscono legami sociali e politici. Nuovi sistemi linguistici, culturali, oggetti da analizzare per mettere in risalto le peculiarità delle forme politiche e sociali presenti in rete. Luoghi che riflettono la società, influenzandola al contempo. Instagram e Tik Tok, come anche Facebook, YouTube e così via, non sono delle bolle chiuse e circoscritte. I loro linguaggi interni, i loro contenuti mediali circolano nella semiosfera, fuoriescono dai confini, viaggiano nella rete e negli altri medium, dalla televisione, alla radio e ai giornali, influenzandosi, inevitabilmente a vicenda. Essendo immersi, inoltre, in un ecosistema transmediale, si integrano reciprocamente, dando vita a incastri di senso, narrazioni disperse in modo sistematico, esperienze 2 Per un approfondimento sui blog culinari cfr. Mangiapane (2014, 2018). 316 digitali unificate nella loro frammentarietà. L’utente social rimbalza dal video breve su Tik Tok a quello completo su YouTube, dal post di presentazione su Instagram al sito web per l’acquisto di una master class. Così, ininterrottamente. Salti continui, fatti di click e scroll, che conducono incessantemente avanti, allo step successivo. In questo flusso inarrestabile, di foto, sorrisi, suoni, aperitivi, è il video il contenuto mediale maggiormente pervasivo, quello che più di selfie e tramonti catalizza l’attenzione degli utenti online. L’audiovisivo, lo abbiamo detto, è il linguaggio dell’oggi. Lo si è visto con la diffusione dei tutorial, con la scalata degli youtuber, con le IG stories, le dirette Facebook, le clip di Tik Tok e i reel di Instagram. Le piattaforme si sono evolute e ne sono arrivate di nuove, che hanno dato ancora maggiore spazio alla componente audiovisiva, risemantizzandola al proprio interno. Le video-ricette su Instagram e Tik Tok sono distanti dai primissimi video-tutorial di YouTube. La prima differenza sostanziale rispetto al passato è legata alla durata dei video-clip, oggi sempre più brevi, condensati in pochissimi minuti se non secondi. In secondo luogo, a mutare è il ritmo che emerge dal montaggio, molto spesso accelerato. Sebbene siano clip di durata molto breve, si prestano perfettamente a raccontare l’alimentazione, così come oggi viene percepita a livello culturale e sociale, dentro e fuori lo schermo dello smartphone. Per tale ragione si è deciso di soffermare lo sguardo sui contenuti audiovisivi, cercando di superare una loro visione semplicistica e ingenua, dal momento che risultano essere forme brevi di comunicazione che rispondono a logiche tutt’altro che scontate, che mostrano la complessità strutturale dei testi in questione (Peverini 2012). In un testo audiovisivo i movimenti di macchina, l’uso della colonna sonora, la diversa articolazione dei punti di vista, e infine il montaggio, assumono un ruolo decisivo nella costruzione del senso complessivo dell’opera e costituiscono un oggetto di studio (Peverini 2012). I contenuti audiovisivi che si osserveranno sono testi rapidi, di pochi secondi o minuti. Sono forme brevi (Pezzini, a cura, 2002) che, al pari degli spot o dei trailer, vengono confezionate con cura dal punto di vista comunicativo. Sono testi brevi e densi, capaci di intrecciare, grazie alla loro struttura ritmica e alle scelte stilistiche, diversi livelli di significazione. Come scrive infatti Pezzini (2002), in questi casi, la questione dell’estensione del testo sul piano dell’espressione va intrecciata con l’intensità, la forza, l’energia e la passione messa in scena dal testo stesso, poiché “uno stesso breve tempo, una stessa estensione si può riempire secondo strategie e intensità differenti” (p. 18). In quanto prodotti audiovisivi di breve durata, appare particolarmente centrale l’organizzazione del tempo delle azioni messe in scena sia in relazione all’aspettualizzazione, ma soprattutto, come vedremo, in riferimento all’agogia, ovvero alle variazioni di movimento delle operazioni da svolgere: lentamente o rapidamente, frenando o accelerando. Questo ci porta a riflettere anche sulla questione del ritmo, il cui andamento non è altro che il risultato percettivo, l’effetto di senso, scaturito da una organizzazione complessa sul piano dell’espressione che, a livello discorsivo, intreccia tempi, spazi e attori, ma anche temi e figure. Riprendendo quanto scrive Ceriani (2003, pp. 102-103) possiamo infatti definire il ritmo come un sistema, “una struttura composta di correlazioni differenziali: in quanto tale, esso rappresenta un codice, e quindi una regola, un meccanismo di trasformazione responsabile, che si può riconoscere sia a livello dell’espressione sia a livello del contenuto […]”. 4. I social e l’expertise culinaria “Impara a cucinare, prova nuove ricette, impara dai tuoi errori, non avere paura, ma soprattutto divertiti”. Le parole di Julia Child – cuoca, scrittrice e personaggio televisivo statunitense – sembrano sintetizzare perfettamente la strada che l’arte culinaria percorre ormai da qualche anno all’interno dell’arena digitale dei social media. Nel reticolo della rete social quasi nessun food creator vanta più la sua expertise gastronomica, pochissimi a oggi si definiscono esperti. Tutti, invece, sono appassionati, amatori, cultori di cibo e social, di cucina e tecnologie. Ma soprattutto, tantissimi cucinano perché hanno il desidero di assaporare e mangiare (finalmente!) un piatto che li soddisfi, a livello estetico, nutrizionale, etico e, a detta 317 loro, gustativo. Sembra che su Instagram e Tik Tok si cucini quindi per assaporare, provare, condividere storie, intrattenere, creare engagement, divertirsi, costruire community, quasi mai per istruire. Dove sono finiti allora gli esperti culinari della rete (blogger e youtuber) a cui l’esplosione mediatica ci aveva abituati? Forse sono diventati gli “snob” del web, come li ha definiti Benedetta Rossi, una delle food creator più seguite d’Italia, in un suo recente sfogo contro i suddetti esperti gastronomici3, dai quali, esplicitamente, lei prende le distanze in difesa dei propri follower, gente comune e semplice, che non può permettersi cibi sofisticati perché costretta a farsi i conti in tasca al supermercato. Ma c’è di più. L’influencer afferma con vigore la sua totale mancanza di competenze nel settore culinario, che l’ha resa famosa. Dichiara la sua incapacità di cucinare, il suo non-saper fare, il non voler impartire insegnamenti, la sua totale assenza di expertise, a differenza degli chef, ai quali si oppone. Tutto torna al suo posto, ricostruendo un nuovo equilibrio, con un ordine chiaro e preciso, quando Benedetta asserisce che il suo unico volere è quello di “condividere” ciò che nella vita di tutti i giorni le “viene bene”, sperando che possa essere utile a qualcuno. È così che la star culinaria della rete vince la sua battaglia contro i colleghi “snob”, giocando la sua partita su un terreno che, ovviamente, conosce molto bene, ovvero quello dei social media, e si appella a ciò che questi ultimi sono sempre stati: spazi di socializzazione, che nulla di per sé hanno a che spartire con la formazione culinaria di alto livello o con l’esibizione di maestrie da chef stellati. Luoghi in cui risulta fondamentale la condivisione, il contatto, l’interazione, tutto ciò che rimanda a una comunicazione fàtica, orientata al canale, alle tecnologie e ai media adoperati per creare o mantenere contatto fra gli interlocutori (Marrone 2017). Una comunicazione in cui parlare “non serve dunque a trasmettere informazioni o a esprimere pensieri, e nemmeno a manifestare emozioni; svolge tuttavia un fortissimo ruolo antropologico, quello, diciamo così, fondamentale di istituire la socialità, di foraggiare il legame sociale” (ibidem, p. 3). Ritornando alla figura dell’esperto, sembra si stia assistendo a un’inversione di marcia nell’ampio dibattito sulla competenza dei soggetti. Come scrive Marrone (2020) “Mai come oggi l’esperto, il competente, il navigato conoscitore di uomini e cose è sotto i riflettori della cronaca, protagonista indiscusso, ma anche antagonista acclamato, del discorso dei media, e dunque, per proprietà transitiva, della vita di tutti noi, tanto sociale quanto individuale” (p. 7). Osservando social media e blog, si riscontra la presenza di una relazione spesso conflittuale fra chi cucina e una parte del pubblico che giudica negativamente le ricette proposte. Molti food creator si ritrovano spesso a motivare le scelte degli ingredienti, a giustificare la loro scarsa abilità tecnica e a marcare il loro essere appassionati di cucina e non cuochi professionisti. Altri, invece, si impegnano a criticare aspramente il fare culinario altrui, disprezzando ricette, alimenti e gusto. Questi ultimi, valorizzando fortemente la loro expertise culinaria, si configurano come esperti del settore, opponendosi a tutti coloro che si approcciano alla cucina per diletto. Sembra quindi emergere, da un lato, la figura del food creator dilettante, che ama condividere la sua passione con la propria community, e dall’altra quella dell’esperto/critico gastronomico. 5. Le forme della ricetta social Il discorso gastronomico nei social media è caratterizzato da un fluire costante di immagini in movimento, di colori, suoni, parole, sussurri, storie, sbattitori che montano instancabilmente, piatti che splendono, arnesi antichi e moderni, carni pregiate del Nebraska, che dopo tanta strada vengono gettate ferocemente, prima, su taglieri lucenti, che diventano podi da esibizione, e poi su padelle ardenti, per conferirgli il giusto onore. Un organismo interconnesso, transmediale, in cui le pratiche di utilizzo si differenziamo da un social all’altro, anche per i fruitori che interagiscono, e dove risultano essere fondamentali le scelte stilistiche e identitarie dei produttori. 3 www.instagram.com/reel/Cr6Tf-cgFUE/, consultato il 06/05/2023. 318 Dopo aver guardato, in modo trasversale, numerosi profili social di content creator del settore food presenti nelle differenti piattaforme digitali (Pinterest, Facebook, Twich, Twitter, YouTube, Instagram e Tik Tok), ci si è resi conto che i cambiamenti odierni relativi al testo gastronomico della ricetta, risultano di forte rilevanza soprattutto su Instagram e Tik Tok. Il corpus d’analisi selezionato è composto da casi di particolare successo, che si richiamano a vicenda, dai quali emerge una rete di analogie e differenze di tipo strutturale. Uno dei modi in cui si può analizzare l’articolazione del testo ricetta è l’osservazione della sua struttura narrativa attraverso il modello dello schema narrativo canonico. Osservando i racconti delle video-ricette prese in considerazione, si è notato come non tutte le fasi del percorso canonico risultano sempre presenti e come spesso alcune fasi siano maggiormente dominanti rispetto ad altre. In alcune ricette, per esempio, predomina il momento della manipolazione, in altre quello della competenza, in moltissime prevale la performance, e in altre ancora la sanzione. Occorre precisare che i tratti distintivi delle quattro funzioni convivono nelle diverse tipologie di ricette, ma seguono gerarchie di rilevanza variabili, che lasciano emergere come pertinente ora una precisa fase narrativa ora un’altra, che sembra padroneggiare rispetto alle altre. Il concetto di dominante, a cui qui stiamo facendo riferimento, è stato approfondito da Jakobson (1963) in relazione alla prevalenza di alcune delle funzioni comunicative (emotiva, poetica, conativa, metalinguistica, referenziale, fàtica) all’interno dei processi comunicativi. La dominante è “un élément linguistique spécifique domine l’oeuvre dans sa totalité; il s’agit de façon impérative, irrécusable, exerçant directement son influence sur les autres éléments” (Jakobson 1971, p. 77). Quel tratto centrale di un testo che presiedendo e modificando gli elementi interni, assicura la coesione del testo stesso (Marrone 2017). Detto questo, riprendiamo quando elaborato da Calabrese e Volli (1979), poi riadattato da Marrone (1998) in riferimento all’articolazione narrativa delle notizie dei telegiornali, e proviamo a individuare quattro tipologie di ricetta social: 1. virtuale, in cui domina l’aspetto manipolativo del racconto messo in scena dal food creator; 2. potenziale, in cui a prevalere è la competenza culinaria da trasmettere allo spettatore; 3. performativa, in cui predomina la performance del cuoco; 4. cerimoniale, in cui emerge fortemente il giudizio del fare culinario altrui. Vediamo nel dettaglio come si manifesta questa organizzazione narrativa. 5.1. Ricetta virtuale Come trasporre sullo schermo di uno smartphone i ricordi della nonna, le tradizioni di famiglia e le esperienze personali? Valeria Raciti4, vincitrice dell’ottava edizione di Masterchef Italia, sceglie di farlo all’interno di una cornice narrativa, in cui l’esecuzione della ricetta diventa parte di un racconto che attrae lo spettatore, dotandolo di un voler-sentire e voler-vedere. L’enunciatore mette in scena un fare semplice, tendenzialmente casalingo, in cui le pietanze realizzate evocano la tradizione. Le storie raccontate da Valeria donano alla ricetta un valore aggiunto, un’anima, una vita, proiettando lo spettatore fuori dalla sua dimensione quotidiana. La ricetta trascritta trova spazio al di fuori dei contenuti audiovisivi, nelle poche righe della caption di Instagram o della descrizione di Tik Tok. Tutte le video-ricette sono libere da voci descrittive fuori campo che enunciano le fasi della preparazione, ma anche da sottotitoli e infografiche. Scorrono, invece, lentamente le inquadrature in primissimo piano del cibo, il cui sfondo è caratterizzato da piccole porzioni di ambiente casalingo (Figg. 1.1. - 1.2.). Si confeziona così un testo mediatico culinario in cui il tempo dal punto di vista agogico procedere lento e il cui effetto di senso complessivo richiama eleganza, 4 www.instagram.com/valeria.raciti/, www.tiktok.com/@valeriaraciti.masterchef, consultati il 10/05/2023 319 pacatezza, finezza, magia. L’obiettivo di Valeria non è insegnare a cucinare tramite le sue brevi video- ricette, bensì condurre il pubblico che la segue all’interno del suo mondo, della sua storia. Fig. 1.1. – Lo sfondo della cucina Fig. 1.2. – Inquadratura ravvicinata di casa. del piatto realizzato. 5.2. Ricetta potenziale I tutorial che abbiamo imparato a conoscere anni fa su YouTube non sono scomparsi. Esiste ancora qualcuno che si ostina a volere insegnare al mondo come cucinare la “carbonara perfetta”. Nei social, infatti, emergono varie forme di video-ricette dal carattere formativo, che mirano a trasferire una competenza, un saper fare culinario. Un tratto comune a tutti casi che vedremo di seguito è la presenza di sottotitoli che accompagnano lo scorrere delle fasi di preparazione dall’inizio alla fine dei brevi filmati, marcandone la finalità didattica. Non tutti i video, però, seguono la medesima impostazione discorsiva. Riportiamo di seguito tre casi esemplificativi in cui la ricetta conserva il suo valore istruttorio, manifestandolo secondo articolazioni attoriali, spaziali e tematiche differenti. Il “grado-zero” delle ricette social, che evoca gli ormai classici tutorial, si può rintracciare nei contenuti audiovisivi di Benedetta Rossi, la food influencer di Fatto in casa da Benedetta, nome dello storico blog e degli account social connessi5. I reel di Benedetta infatti mettono in scena una ricetta referenziale, una competenza acquisita che vuole essere trasmessa allo spettatore, il quale potrebbe voler replicare la ricetta. Il patto comunicativo che si delinea è quello che regola normalmente il testo istruttorio. Dal retro del bancone da cucina, la cuoca-insegnante descrive, passo dopo passo, la preparazione che sta eseguendo (Fig. 2.1. – 2.2.) Per coadiuvare la descrizione orale, i passaggi fondamentali della preparazione vengono riportanti in sovraimpressione creando un ancoraggio (Barthes 1982) tra parte visiva e parte verbale, mentre l’intera ricetta viene trascritta, quindi ridetta, nella caption dei post di Instagram. Le inquadrature e il tipo di montaggio costruiscono una struttura ritmica in cui il tempo delle operazioni svolte, dal punto di vista agogico, viene percepito come disteso e rilassato. L’obiettivo è farsi comprendere. 5 www.instagram.com/fattoincasadabenedetta/reels/, www.tiktok.com/@fattoincasadabenedetta?lang=it-IT, consultati il 10/05/2023. 320 I piatti realizzati sono semplici, la cucina è casalinga, pratica. In questo scenario narrativo, la ricetta finisce per costituirsi come un vero oggetto di valore che lega i due soggetti coinvolti: cuoca e spettatore. Fig. 2.1. – Benedetta mostra il piatto Fig. 2.2. – In sovrimpressione appare il finito come copertina del video. testo che rafforza la descrizione orale. Ma la ricetta, anche nella sua veste pedagogica, all’interno del variegato mondo social, scavalca i propri confini predefiniti, linguistici e spaziali. Finisce, per esempio, per abbandonare lo spazio utopico della cucina, e approdare fuori, nel balcone di casa. È l’idea che ha avuto lo chef romano Ruben Bondi nel corso del lungo lockdown del 2020. Grazie ai video del suo canale, Cucina con Ruben6, è diventato uno dei primi food creator di successo in Italia su Tik Tok, seguito oggi da 1.4 milioni follower. Dal suo balcone, con fornelli d’accomodo e utensili casalinghi, ha iniziato a dispensare ricette succulenti a un pubblico costretto a stare a casa, demotivato, ma certamente affamato (Fig. 3.1.). Ruben è il protagonista, nonché il soggetto operatore, di un racconto corale, in cui sembra essere coinvolto in modo attivo il destinante, ovvero l’utente da casa, a cui lo chef si rivolge costantemente e per il quale si mette all’opera. Al termine di ogni ricetta ricorda al suo pubblico di segnalargli la prossima ricetta che vogliono vedere realizzata (“Fatemi sapere quale ricetta volete vedere nella prossima ricetta!”). Il pubblico si configura, da un lato come destinante manipolatore, poiché indica al cuoco la prossima ricetta da realizzare, mentre dall’altro lato come destinante giudicatore, poiché, rispondendo a tale richiesta, dimostra apprezzamento per quanto ha appena visto. Partecipano, inoltre, al siparietto culinario molti altri attori, con ruoli narrativi precisi. Si alternano dirimpettai, fratelli, amici, sorelle, zie e, di recente, anche personaggi più conosciuti. Questi attori nella parte iniziale dei video vengono chiamati in causa da Ruben (“Ehi, Luca! Che te vò magnà oggi?!”), a cui rispondono con la richiesta di uno specifico piatto, imponendo così al soggetto un dover-fare e fungendo, quindi, da destinanti iscritti nel testo. Nel corso della preparazione, fra i vari intermezzi in cui il giovane chef regala consigli tecnici e batture ai suoi follower (“Con questo piatto la fai innamorare!”), accade spesso che il fratello o l’amico di turno partecipi alla realizzazione della ricetta, diventando un aiutante. Al termine della preparazione sia Ruben che l’assistente addentano voracemente la pietanza e ovviamente la giudicano, trasformandosi entrambi in dei destinanti sanzionatori a livello narrativo (Figg. 3.2.-3.3.). Lo spettatore viene dunque iscritto all’interno dell’enunciato stesso. L’utente da casa, infatti, si identifica con la figura dell’amico di Ruben. Cucina 6 www.tiktok.com/@cucinaconruben, consultato il 10/05/2023. 321 con Ruben si configura come un racconto famigliare e d’amicizia, in cui ogni singolo attore coinvolto manifesta il proprio entusiasmo, la gioia di stare insieme e il gusto di mangiare un buon piatto in compagnia dell’amico-chef. A marcare questo effetto complessivo è anche il nome del canale, Cucina con Ruben, che sembra riferirsi sia alla relazione fra il cuoco e lo spettatore da casa, sia alla messa in scena culinaria, in cui Ruben cucina con gli altri attori. Le riprese alternano, con ritmo accelerato, inquadrature frontali dei personaggi e riprese dall’alto su fuochi da campeggio, padelle, taglieri e piatti da portata. Il risultato è un prodotto audiovisivo dinamico e giovanile. Accresce, inoltre, l’effetto di realtà casalinga e quotidiana il dialetto romanesco di Ruben e compagni, ricco di esclamazioni (“Dajè!”, “Bona!”), che manifesta in modo esplicito il patto comunicativo amichevole, informale, alla pari. Un effetto di senso che richiama la cucina più autentica, quella domestica, d’arrangio, all’interno di una cornice visiva a tratti grezza e rudimentale, ma al contempo genuina. Fig. 3.2. – L’amica di Ruben si Fig. 3.3. – Ruben e l’amica unisce alla preparazione. assaggiano il piatto appena preparato insieme. Un’estetica del goffo che risponde, opponendosi, all’estetica del bello e della perfezione, a cui l’alta cucina e social come Instagram ci hanno abituati negli anni d’oro della gastromania. E ancora, si assiste all’avvento di un nuovo modo di raccontare il fare culinario, più teso verso l’esaltazione della convivialità, della chiacchera, del piacere d’assaporare un succulento manicaretto appena tolto dal fuoco. Cosa accade, invece, quando i saperi della ricetta vengono trasmessi al pubblico da un format video che è un mix di differenti linguaggi che evocano insieme gli show televisivi, i classici tutorial e gli odierni social media? Arriva sui nostri touch screen la produzione audiovisiva dello Chef Max Mariola7 (Fig. 4.1.), una star di Tik Tok con 4.4 milioni di follower. Fra un’indicazione di cottura e un commento sul gusto di un piatto, lo chef si rivolge direttamente alla camera e con sguardo complice, intimo e malizioso sussurra all’orecchio dello spettatore consigli spassionati da navigato seduttore (“Cena romantica a casa tua o a casa mia?”, “Hai passato una notte fantastica e lei sta ancora dentro al letto mò ti faccio vedè che colazione gliè devi fa!”). Max è l’amico esperto di cucina e d’amore, è il confidente, di lui ci si può fidare. Per lui il cibo è passione, seduzione, sapore intenso della vita, armonia, buona compagnia e allegria. Ma soprattutto è suono, “the sound of love”, come recita una delle sue massime più gettonate, 7 www.tiktok.com/@chefmaxmariola, consultato il 10/05/2023. 322 con la quale accompagna ogni sfrigolio di cipolla o effetto crunch del pane tostato. La bontà del piatto si sente, e in modo sinestetico richiama il senso del gusto e dell’olfatto. La dimensione sensoriale e corporea sembra essere cruciale in queste video-ricette; lo chef esalta attraverso i suoi movimenti, le sue espressioni facciali e la sua voce dal tono appetitoso, le caratteristiche delle pietanze, alternando giudizi che rimandando ora al gustoso, ora al saporito8. Infine, Max è un affezionato del saltapasta, del bancone da cucina (Fig. 4.2.), che altro non è che il suo personale palcoscenico, allestito in uno spazio esterno che sembra essere un terrazzo, e da cui anima la sua performance culinaria con l’ausilio di diversi aiutanti non umani: dagli ingredienti, presentati in modo dettagliato nella parte introduttiva dei video, ai coltelli, ai taglieri, alle pentole e padelle (Mangano 2013). Fig. 4.1. – Lo chef assaggia il Fig. 4.2. – La terrazza-cucina piatto appena realizzato. dello chef. 5.3. Ricetta performativa Entriamo adesso dentro tutta quella ampia fetta di materiale audiovisivo social, in cui il testo della ricetta perde quasi del tutto il suo carattere istruttorio, diventando un pretesto per esaltare ora la personalità di uno chef, ora la dimensione ludica, ora quella estetica e sensoriale, ora passionale. I soggetti operatori delle video-ricette che andremo a vedere mettono tutti in scena un fare culinario che tende alla spettacolarizzazione. Essi sembrano infatti presuppore come enunciatario un soggetto mosso dal desiderio di voler-guardare e assistere a una esibizione gastronomica, che richiama maggiormente il genere dell’intrattenimento e assume forme e sfumature sempre più fantasiose e teatrali. Vediamo qualche esempio. Maestria culinaria e personalità sfrontata, sicura e spavalda caratterizzano lo spettacolo del giovane cuciniere del canale Tik Tok e Instagram Notorious_foodie9. Un ragazzo londinese a cui piace cucinare (“I like to cook”, enunciano le sue biografie social), di cui viene celato il nome, e di cui si conosce poco il volto. Solo in tratti precisi e salienti della performance mostra allo spettatore viso e corpo. Di contro, 8 Il gustoso e il saporito sono due linguaggi specifici del gusto. Il gustoso è quel sistema di senso che si istaura grazie al riconoscimento sensoriale delle figure del mondo già note; il saporito è il luogo della sensorialità, in cui emergono le qualità sensibili delle sostanze gastronomiche (Marrone 2022). 9 www.tiktok.com/@notorious_foodie, consultato il 10/05/2023. 323 l’osservatore conosce perfettamente l’abilità tecnica delle sue mani (Fig. 5.1.). Le sue video-ricette evocano le esecuzioni musicali. Le sue sono le mani di un pianista intento a mettere alla luce la sua opera, con un ritmo incalzato, accelerato, che toglie il fiato, stordisce e affascina, cattura. Le riprese avvengono nella cucina di casa, le inquadrature mostrano spazi angusti, ristretti, dove attrezzi e taglieri professionali sembrano non trovare respiro. Il montaggio serrato delle azioni svolte innesca un movimento agogico incalzante. Le fasi delle preparazioni sono tante, e così anche gli stacchi della camera. Siamo all’interno di una cucina casalinga, ma le pietanze realizzate sono elaborate, degne di un ristorante di medio-alto livello. Come detto, all’osservatore in preda al delirio visivo ed emotivo, viene negato, per la maggior parte della durata del video l’accesso al volto del soggetto in azione, sono le mani a rappresentarlo per sineddoche. Sono loro le protagoniste della scena, è il loro saper-fare che viene messo in mostra, non per istruire, ma semplicemente per il gusto di esibirsi, dimostrando il proprio valore, il proprio sapere cognitivo al mondo, o forse all’alta-cucina, un possibile anti-soggetto di questa storia. Il corpo e il volto del cuoco appaiono solo nella parte finale dei video, al momento dell’assaggio (Fig. 5.2.), in cui lui, vestendo i panni del destinante giudicatore, valuta la propria creazione. Con fare solenne, mangia l’opera succulenta che le sue mani hanno creato e gusta con piacere. Ma non finisce qui. A dispetto di chi guarda dall’altra parte dello schermo e non può provare questo piacere estesico, decide di lanciare un canovaccio bianco sull’obiettivo della camera. Una firma irriverente che impedisce definitivamente l’accesso visivo dell’osservatore (Figg. 5.3.-5.4.). Fig. 5.2. – Il cuoco mangia Fig. 5.4. – Infine, lancia il il suo piatto. canovaccio alla camera. Enfatizza l’effetto drammatico e spettacolare della messinscena culinaria lo sfondo sonoro: brani classici strumentali, in cui Vivaldi e il suo tempo impetuoso fanno da padrone. Nel corso dei brevi video, nessuna voce o sovrimpressione fornisce spiegazioni sulla preparazione. A parlare sono le inquadrature, il sound musicale e il suono del cibo, il rumore degli attrezzi, il tonfo dei tocchi di carne lanciati sul tagliere, lo sfrigolio dell’aglio in padella, la potenza della mannaia, il crunch della baguette abbrustolita. Ancora una volta, come nelle video-ricette di Chef Max Mariola, il cibo scuote l’udito dell’ascoltatore, e in modo sinestetico ci comunica il suo gusto. Vedremo a breve come questo aspetto sensoriale, plastico del linguaggio del cibo, risulti cruciale in particolari forme testuali della ricetta. Se le video-ricette di Notorious_foodie stordiscono e provocano tensione, sul piano passionale, quelle di Men with the pot10 rilassano, cullano dolcemente lo spettatore, ricongiungendolo con il proprio “io” 10 www.tiktok.com/@menwiththepot, consultato il 10/05/2023. 324 sensibile e la dimensione naturale. Perché limitarsi a cucinare piatti complessi all’interno dei propri templi casalinghi se si può dare vita a pietanze eccellenti e prelibate all’aperto, in montagna, circondati dal verde, fra una scalata e una lunga sessione di trekking? È quello a cui hanno pensato Slawek Kalkraut e Krzysztof Szymanski, due amici polacchi, residenti in Irlanda, creator del profilo Tik Tok Men with the pot, seguito da più di 12 milioni di persone. Nei loro video provano a mettere in relazione la passione che nutrono per la cucina, insieme a quella per la vita rurale, ponendo in evidenza una configurazione valoriale profonda, che oppone natura a cultura. Lo scorrere lento del tempo, la tranquillità dello spazio, il suono della foresta vengono, tuttavia, interrotti, a intervalli puntuali, da una civiltà primitiva ma affascinante, messa in risalto dal tonfo di una mannaia in azione. Le qualità tecniche di questo speciale coltello vengono ampiamente enfatizzate, finendo per configurala come un possibile oggetto di valore da raggiungere per un potenziale consumatore-spettatore che ne rimane ammaliato. La mannaia con eccellente maestria, infatti, tronca, taglia, sminuzza ferocemente e velocemente tutto ciò che incontra: cipolla, carni, patate, prezzemolo, pane tostato, pizza, legnetti. Si nota, inoltre che dalla cucina di casa, fuori campo, sopraggiungono altri attori non umani, come padelle, coperchi, casseruole, taglieri, ma anche sale, farina, spezie, pomodori, salsicce, lattuga (Figg. 6.1.-6.4.). Dalla civiltà, insomma, non si può del tutto fare a meno, soprattutto se si vuole cucinare un piatto elaborato, fortemente culturalizzato. Non basta, infatti, trasformare due pezzetti di legno in posate, gettare il pesce nel fiume per pulirlo, accendere il fuoco o sollevare una graticola con le pietre. La messa in scena di un’estetica naturale, rudimentale, d’accomodo, che contribuisce a innescare, a livello del contenuto, l’effetto natura-wild, si scontra quindi con tutta una serie di attori che richiamano inevitabilmente luoghi altri da cui provengono, quello della città, dei supermercati, della cucina di casa. Fig. 6.1. – La mannaia Fig. 6.2. – Sempre la Fig. 6.3. – Padella e Fig. 6.4. – Una ciotola in sminuzza il prezzemolo. mannaia, affetta la carne. cucchiaio di legno. legno con diverse spezie. Si osserva quindi come l’effetto di natura selvaggia che si coglie a prima vista, in realtà pone in risalto una natura negata, una non-natura, che finisce inevitabilmente per tendere, in molti momenti del racconto culinario, verso il polo della cultura che si vuole silenziare. I video di Men with the pot – dicevamo – hanno una particolare effetto: rilassano. Grazie alle note ancestrali della natura, al fruscio delle foglie, ma anche ai suoni del cibo, che stride o arde sulla piastra, o ai rumori dell’azione culinaria, che taglia, spreme, monda, e infine, al mormorio dell’atto gustativo. Quando i creator masticano, lo spettatore lo sente, e partecipa all’esperienza in modo sinestetico. Questa sinfonia sensoriale, che fonde i sussurri della natura a quelli dell’azione gastronomica, in questo specifico testo mediale, come in tantissimi altri della medesima tipologia, risulta particolarmente enfatizzata tanto 325 da farlo rientrare nella categoria ASMR (Autonomous Sensory Meridian Response) 11 . Video che stimolano a livello visivo e soprattutto uditivo lo spettatore, suscitando una gradevole sensazione di relax che parte dalla testa e scende fino alle spalle, finendo per rilassare del tutto il corpo. Quello che molti descrivono online come “orgasmo cerebrale”, che prevede la sollecitazione di tutti i sensi mediante meccanismi sinestetici. Dal punto di vista semiotico si può affermare che si assiste alla messa in scena delle qualità sensibili degli ingredienti stimolando vista e soprattutto udito. Si enfatizza la percezione, per esempio, della croccantezza della pancetta soffritta o la sofficità di una pagnotta, ma anche il calore dell’olio bollente, il crunch del pane tostato. Ne deriva una performance culinaria che si fonda sul regime estesico tipico del linguaggio saporito, sistema basato su ragionamenti percettivi e polisensoriali, “dove si opera tramite processi percettivi non più legati a schemi cognitivi dati ma a una presa in carico diretta delle qualità sensibili proprie alle sostanze gastronomiche – in rapporto fra loro per contrasti sintagmatici o per rinvii paradigmatici, e in relazione a contenuti specifici grazie a sistemi semisimbolici ad hoc” (Marrone 2022, p. 105). Se Men with the pot riesce a rilassare lo spettatore proiettandolo in un ambiente naturale, il profilo Instagram di Turkuaz Kitchen12 , gestito dalla fotografa e food creator Betul Tunc, ha il potere di incantare e distendere il corpo dell’osservatore grazie alla visione di un fare culinario che pone in risalto l’aspetto estetico del cibo, la sua bellezza esteriore, all’interno di una cornice vintage-country dai toni cromatici caldi e dalle linee morbide e avvolgenti. L’inquadratura dall’alto mostra infatti un piccolo set allestito in ogni dettaglio. Si distingue il legno antico del tavolo che funge da base, si notano i fogli di giornale d’epoca che sostituiscono panni da cucina e carta da forno, ma anche i frullini a manovella, i setacci di ferro, i piatti e le ciotole. L’isotopia del vintage (Panosetti, Pozzato 2013) agreste viene inoltre enfatizzata dall’abbigliamento rustico della cuoca, della quale si conosce solo la parte centrale del corpo, di cui spiccano le mani, riprese nell’atto di esprimere il loro sapere (Figg. 7.1-7.2). Fig. 7.1. – La cuoca utilizza foto e Fig. 7.2. – La cuoca utilizza uno giornali vintage come sfondo per la strumento antico per spremere i limoni. preparazione. 11 www.wikipedia.org/wiki/Autonomous_sensory_meridian_response, consultato il 10/05/2023. 12 www.instagram.com/turkuazkitchen/reels/, consultato il 10/05/2023. 326 Ad accompagnare questa messinscena teatrale, non vi è alcuna voce umana e non vi sono sottotitoli che istruiscono sulla ricetta. Conducono lo spettatore a livello sonoro brani strumentali, classici e non, dall’andamento alterno, lento o rapido, insieme a una serie di suoni tecnici, emanati da ingredienti e utensili, che sembrando voler far sentire all’ascoltatore estasiato la loro di voce, il loro linguaggio culinario, fatto di contrasti sensoriali. In questi ultimi due casi, emerge uno scenario dominato dall’estesia, in cui prevale la componente plastica del linguaggio, e dove sembra di assistere a vere messinscene teatrali. Lo spazio riservato alla ricetta scritta, sia su Instagram che su Tik Tok, è la caption dei post. Uno spazio “altro”, didascalico, percepito dall’utente come marginale e secondario in relazione ai prodotti audiovisivi. I piatti realizzati sono spesso elaborati, le preparazioni sono complesse, richiedono diversi passaggi, sovente celati e dati per impliciti. Tutto questo contribuisce a far emergere la figura di un cuoco competente, ripreso nell’atto di un’esibizione culinaria, e nell’esaltazione dei suoi valori identitari, del suo stile di vita, ora green e wild, ora vintage e country. Contenuti digitali che si possono definire come espressioni di forme di vita, rotture delle strutture narrative e discorsive predefinite, dove a essere valorizzata è solamente l’estetica del comportamento, della pratica messa in risalto, del gesto esibito (Marrone 2007). L’enunciatario presupposto, in questi casi, è un soggetto alla ricerca di una sensazione euforica, piacevole, ipnotica, in cui proiettarsi per qualche minuto, abbandonando il proprio corpo e i propri sensi a un’esperienza polisensoriale e sinestetica, costruita dal testo come un oggetto di valore a cui ambire. Come si può dedurre, la trasformazione del testo gastronomico della ricetta in un “fare esibizionista” appare come una tendenza molto diffusa nei social network, ma i patti comunicativi che si riscontrano fra enunciatori ed enunciatari sono sempre differenti. In alcuni casi prevale un rapporto dialettico critico e arrogante (come per Notorious_foodie), in altri amichevole (come per Cucina con Ruben e per Chef Max Mariola), in altri ancora ironico e divertente, in cui la valorizzazione ludica della performance culinaria appare esplicita e fortemente marcata. Quest’ultima dimensione la ritroviamo, per esempio, nei contenuti audiovisivi dei profili Tik Tok e Instagram di Man can cook13 e di 2men1kitchen14. Nel primo, assistiamo agli spettacoli esilaranti di Daniel Rankin, un food creator e coach sportivo dal fisico palestrato, accompagnato dal suo fedele amico a quattro zampe, un carlino paziente, immobile, dallo sguardo sovente spaesato, il cui unico compito è osservare l’agire danzante del suo padrone/cuoco sex- symbol, accrescendo, sul piano del contenuto, l’effetto di senso stravagante della messinscena culinaria. A ballare non è solo Daniel, ma ruotano e saltano con lui anche fruste, scope, frullini, sbattitori in un susseguirsi di inquadrature ammiccanti di muscoli, volti e cibo (Figg. 8.1-8.3). Esaltazione visiva del gusto, come fattore estetico, umano e culinario. Uno spettacolo eccentrico, che mira a far emergere le qualità ipersensibili del cibo come del cuoco, mediante riprese ravvicinate, spezzate, di pietanze e corpi strabordanti, in un processo di richiamo continuo e identificazione reciproca. Man can cook innesca un’estrema spettacolarizzazione, che si manifesta con la quasi totale scomparsa dell’attenzione verso le fasi di preparazione dei piatti. Queste si confondono, fra balli e travestimenti vari, annullando del tutto l’intento istruttorio. Se si vuole comprendere i passaggi della ricetta bisogna uscire fuori dalla cornice del video, leggere la descrizione del post o cercare all’interno del sito web. Nel secondo caso preso in esame, 2men1kitchen, i due protagonisti della performance gastronomica, con fare ironico e divertito, mettono in scena opere di camouflage sempre più ambiziose, svelandone al contempo il retroscena e tutto il lungo processo che le ha portate alla ribalta. Si è di fronte a un attante duale (Greimas 1976), la coppia di amici, entrambi agenti di un unico programma d’azione, esibire la loro capacità di produrre magie culinarie, svelandone i meccanismi celati e, di conseguenza, la loro competenza tecnica. I piatti che vengono realizzati giocano sui regimi di veridizione, sui giochi di finzione, quindi sull’opposizione semantica fra essere e apparire. Per esempio, ciò che, a livello dell’espressione, appare come un arrosticino di carne, a livello gustativo risulta essere una torta al cioccolato (Figg. 13 www.tiktok.com/@mancancooknz, consultato il 10/05/2023. 14 www.tiktok.com/@2men1kitchen, consultato il 10/05/2023. 327 9.1.-9.2.). Si innescano, così, dei cortocircuiti percettivi, che attirano lo spettatore e lo spingono a voler scoprire l’inganno. Il soggetto enunciatore, dal canto suo, vuole sorprendere, vuol far-vedere, all’enunciatario, che si presuppore essere incredulo, tutti quei meccanismi segreti che consentono la realizzazione del camuffamento. Fig. 8.1. – Daniel presenta la sua Fig. 8.2. – Daniel mentre cucina canta Fig. 8.3. – Daniel affronta la ricetta ricetta in modo seducente davanti e utilizza la frusta come microfono. con un travestimento da saldatore. a un camino. Fig. 9.2. – Si mostra il Fig. 9.1. – Questi arrosticini si procedimento, l’utilizzo di rilevano essere una torta Sacher. utensili da cucina e di dosi precise. 328 5.4. Ricetta cerimoniale Il destinante giudicatore nella stragrande maggioranza delle video-ricette prese in esame appare iscritto nel testo stesso. Solitamente chi cucina, al termine della preparazione, assaggia il proprio piatto, sanzionando positivamente, attraverso sguardi compiaciuti, esclamazioni colorite e pollici all’insù, l’ottima riuscita della ricetta. Negli ultimi anni, tuttavia, spopolano su Tik Tok i cosiddetti duetti, video in cui il soggetto operatore, che realizza il piatto, e il soggetto giudicatore, che lo valuta, si scindono, e in cui a prevalere è la figura del giudice. Lo spettatore assiste alla visione contemporanea di due esibizioni. Lo schermo appare diviso in due parti: da un lato, vi è la ripresa, solitamente frontale, dell’autore del duetto, intento a guardare, commentare e giudicare il video riportato a fianco. Sembra che l’autore del duetto, assuma su di sé anche il ruolo di attante informatore, poiché commentando il video, fornisce indicazioni e indirizza lo sguardo dell’osservatore. Questi video, soprattutto nel settore food, hanno spesso una natura polemica, conflittuale, critica, a volte parodica. Tendono a screditare il fare culinario altrui, giudicandolo negativamente. È ciò che accade in profili come ilmori15, in cui viene messo in mostra lo scontro fra un expertise, quella del chimico gastronomico, e un’altra, quella dei food creator più popolari. Il “tiktoker” Guido Mori si diletta nella demolizione della competenza degli altri, sottolineando gli errori commessi e spiegando le ragioni tecniche e chimiche delle sue osservazioni (Fig. 10.1.). Dal punto di vista dell’enunciazione, si può presuppore come enunciatario del testo, un soggetto diffidente nei confronti dei fenomeni del web, alla ricerca di una attendibilità scientifica, “vera”, forse anche un po’ complottista. Fra i commenti dei follower che supportano il chimico Mori, si leggono frasi come “Maestro ci faccia la ricetta vera”, “Mi viene da piangere, la gente che ha soldi spesso non rispetta la cucina e non pensa a cosa c’è dietro un prodotto”, “L'avevo sospettato che fosse un impostore... Tu me lo confermi”, “a parte il discorso economico, credo che sia una mancanza di rispetto verso l’essere vivente che è stato ucciso per fare questa m°°°data immonda”. Oltre ai sostenitori, fra i commenti, si trovano anche coloro che criticano l’azione demistificatrice del Mori, accrescendo l’effetto polemico che caratterizza il tipo di contenuto (“Sai che puoi criticare senza essere spocchioso e maleducato?”, “Caro Mori sembri la parodia di te stesso… fai ridere già solo per questo…”, “Qualcuno ha mai visto un video dove cucina di questo personaggio oppure sa solo criticare”, “Sei sgradevole”). Indagando a fondo sugli audiovisivi di questa tipologia, ci si è resi conto che, in effetti, esistono differenti casi in cui lo scopo del duetto non è denigratorio, ma opposto: di esaltazione, magnificazione e di piacevole visione. È ciò che si ritrova in molti video di Tik Tok del celebre Gordon Ramsay16 (Fig. 11.1.), in cui lo chef-commentatore vive la visione della video-ricetta con trepido interesse, culminando con esclamazioni di ammirazione ed entusiasmo (“Gorgeous!”, “Very beautiful!”) Non fornisce informazioni e dettagli aggiuntivi, si limita a mostrare allo spettatore la sua esperienza di osservazione, iscrivendo nel testo un tipo di reazione ideale, quella che lo spettatore potrebbe avere da casa guardando la medesima ricetta. Il destinante giudicatore, in questi casi, si configura infatti come un attante osservatore, imita il fare dello spettatore, un enunciatario ideale giovane che utilizza i social per divertirsi e cedere all’intrattenimento spassionato. Emerge, quindi, come questo genere testuale ponga al centro gli aspetti legati alla sanzione gastronomica, che appare articolata mediante un discorso di tipo passionale, euforico o disforico, in continua oscillazione fra la patemizzazione e l’emozione, che lo spettatore avverte. Il chimico Mori, per esempio, appare quasi sempre arrabbiato e irritato, in uno stato passionale disforico, al contrario lo chef Ramsay risulta assoggettato a una passione euforica, preso da gioia, entusiasmo e gola. 15www.tiktok.com/@ilmori?lang=it-IT(profilo), www.tiktok.com/@ilmori/video/7198933155187821829?lang=it-IT (duetto). 16 www.tiktok.com/@gordonramsayofficial?lang=it-IT (profilo), consultato il 10/05/2023. www.tiktok.com/@gordonramsayofficial/video/7231662442361670939?lang=it-IT (duetto), consultato il 10/05/2023. 329 Fig. 10.1. – Duetto di Guido Mori. Fig. 11.1. – Duetto Gordon Ramsay. 6. Conclusioni Proviamo adesso a tirare le fila di questo percorso, focalizzando l’attenzione sugli aspetti che maggiormente caratterizzano il genere testuale della ricetta nei social media. Come in ogni fenomeno di traduzione intersemiotica, anche in questo caso, vi sono degli elementi invarianti e sopravvissuti al processo di trasposizione, come ad esempio la relazione fra enunciatore dotato di un saper fare ed enunciatario poco competente, ma vi sono anche dei tratti varianti, inediti, che ricorrono nei diversi video sottoposti ad analisi, i quali risultano portatori di cambiamenti significativi. Una prima considerazione riguarda il ruolo tematico del cuoco, la cui personalità, nelle video-ricette osservate, risulta essere elemento indispensabile per l’affermazione della popolarità del content creator e, di conseguenza, della validità delle ricette proposte. Sembra che sui social il ruolo tematico del cuoco si dia in concomitanza ad altri ruoli tematici: ci sarà così il cuoco-amico, il cuoco-confidente, il cuoco- sex symbol, il cuoco-palestrato, il cuoco-amante della natura, il cuoco-ex concorrente di Masterchef, il cuoco-chimico, il cuoco-giudice, il cuoco-fotografo, il cuoco-prestigiatore. Tale combinazione influenza fortemente lo stile culinario delle video-ricette nonché i patti comunicativi. Il cuoco-sex symbol (Man can cook), in modo ironico e divertente, mette in scena uno spettacolo gastronomico, saltando, ballando e ammiccando alla camera; il cuoco-amico (Cucina con Ruben), cucina con piacere insieme ai suoi convitati; il cuoco-wild (Men with the pot) si avventura in lunghe preparazioni in mezzo alla natura, ai suoi suoni, con utensili d’accomodo e non; e ancora, il cuoco-prestigiatore (2men1kitchen), si diverte a svelare i suoi trucchi, e quindi le sue abilità di camouflage, al pubblico. Affiora, così, contrariamente a quanto accade in molti ricettari tradizionali, una forte componente autoriale. Lo stile delle ricette di Bendetta Rossi è ben riconoscibile, come anche quello dello Chef Max Mariola, di Notorious_foodie, di Turkuaz Kitchen. Questa ampollosità mediatica della personalità dei food creator, ci porta a riflettere sull’obiettivo che costituisce lo sfondo della maggior parte delle video-ricette social, ovvero quello di attrarre lo spettatore, istallando un rapporto di fiducia duraturo che porti il follower fidelizzato a seguire il proprio beniamino ovunque, dentro e fuori la rete. Un tipo di comunicazione che, recuperando quanto formulato da Landowski (1989) in merito al discorso pubblicitario, segue la logica del contratto più che quella dell’acquisto, poiché, ponendo in primo piano i desideri e non i bisogni degli spettatori, la sfera soggettiva dei food creator e la relazione intersoggettiva con i propri follower, lascia sullo sfondo la trasmissione del valore istruttorio della ricetta. 330 Una seconda considerazione è legata all’estesia, alla forte sollecitazione sensoriale che permea la stragrande maggioranza delle ricette social, nonché alla relazione fra corpo, sensi e cibo messa in scena. Foto, inquadrature e suoni mettono sotto i riflettori le qualità sensibili degli ingredienti e della pratica gastronomica, dando maggiore enfasi alla dimensione plastica del linguaggio. Si susseguono immagini contrastanti, materiche, che istallano nell’osservatore un tipo di sguardo aptico, “cioè tattile, sinesteticamente capace di far emergere, grazie all’ipertrofia della visione, la materia supposta ‘pura’ del cibo” (Marrone 2016, p. 233), tipico del food porn. Rispetto al passato, oggi sembra avere un ruolo determinante la componente sonora, focalizzata molto spesso sulla riproduzione del suono del cibo (pane abbrustolito, cipolla croccante), delle tecniche di cottura (arrostire, bollire, friggere), delle azioni messe in atto (tagliare, tritate), ma anche degli ambienti che accolto la performance culinaria (cucina, montagna, balcone). Nell’universo social, non si mangia più solo con gli occhi. L’udito diventa un senso privilegiato, forse ancor più della vista, per sollecitare, in modo sinestetico, il senso del gusto e comunicare il fare culinario. Riassumiamo nella tabella di seguito (Tab. 1) le differenze fra tutte le video-ricette analizzate. 331 Tabella 1 Tabella comparativa delle video-ricette social Valore Ruolo del Spazio Agogia Spettatore istruttorio Valori culinari cuoco ricetta Angoli Vuole Ricetta della Cuoca- Non Tradizione e Valeria Raciti Rilassato ascoltare e virtuale cucina di narratrice presente famiglia guardare casa Condivisione Fatto in casa da Cucina di Cuoca- Vuole Fortement Lento di saperi Benedetta casa insegnante sapere e presente culinari Ricetta Amicizia, potenziale Cucina con Balcone di Vuole convivialità, Rapido Cuoco-amico Presente Ruben casa sapere arte di arrangiarsi Chef Max Fluido e Cuoco- Vuole Amore e Terrazzo Presente Mariola rilassato confidente sapere passione Spazi ristretti Veloce, Cuoco-artista Vuole Notorious_foodie della fortement Assente Arte culinaria misterioso guardare cucina e scandito di casa Cuoco-wild Vuole Men with the Lento e Montagna (amante della guardare e Assente Relax e natura pot rilassato natura) ascoltare Cuoca- Bellezza Ricetta Turkuaz Sezione di Lento e fotografa Vuole Assente estetica performativa Kitchen un tavolo rilassato (appassionata guardare vintage) Cucina di Cuoco-sex Vuole Divertimento e Man can cook Rapido Assente casa symbol guardare gioco Sezione di Rapido e Cuoco- Vuole 2men1kitchen un Assente Sorpresa, gioco fluido prestigiatore guardare bancone Spazi Cuoco- Professionalità Vuole ilmori interni o Fluido giudice Assente e sapere guardare esterni negativo scientifico Ricetta cerimoniale Spazi Cuoco- Vuole Gordon Ramsay interni o Rapido giudice Assente Gioco guardare esterni positivo 332 Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici è quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono alla traduzione italiana, qualora sia presente nella bibliografia. 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Revolutionary Road: analisi collettiva di un testo letterario Lucio Spaziante Abstract. The paper deals with a semiotic analysis of the literary text, focusing on Richard Yates’ novel Revolutionary Road (1961): a dramatic mid-twentieth-century portrait of social appearances and their negative impact on personal identities. The analysis was carried out by a group of students as part of a seminar at the University of Bologna, in the master’s degree program in Semiotics, and constitutes the outcome of an experiment that led to a research product through a didactic process. In the first phase, the novel was analyzed in each individual chapter; then, through didactic coordination, a few macro-themes (spatiality, temporality, corporeity, gender) emerged which the subgroups proceeded to a specific in-depth study. Among the results, it appeared how spatiality is a relevant feature not in itself, but in relation to the sense effects it produces: such as the opposition between public and private, and the relationship between social appearances and intimate dimensions. The temporal dimension was also considered relevant: a back-and-forth between past and future related to the characters’ nostalgia for a future they never realized. Finally, the analysis showed the relevance, within the novel, of the correlation between corporeality, gender and passions, not only functional to describe the characters, but to define their status as social bodies, which in the fictional story possessed a higher value than natural bodies. 1. Introduzione. Un esperimento metodologico L’articolo è il risultato di un esperimento che intendeva incrociare la didattica con la ricerca, e assieme ragionare sulla metodologia di analisi semiotica del testo, in special modo quello letterario. Si tratta di un’analisi del romanzo Revolutionary Road di Richard Yates (1961), libro che ha vissuto di una rinnovata notorietà grazie all’omonimo adattamento cinematografico 1 , diretto e prodotto da Sam Mendes (USA 2008), con protagonisti Kate Winslet e Leonardo Di Caprio. L’analisi è stata portata avanti da un gruppo2 di studentesse e studenti del corso di laurea magistrale in Semiotica dell’Università di Bologna, da me coordinato, all’interno di un seminario extra-curriculare legato all’insegnamento di Metodologia di analisi II. L’idea era quella di provare ad analizzare un corpus di taglia ampia, quale è un romanzo, grazie alle forze collettive di un gruppo composto da una decina di persone. Di fronte ad un corpus simile, si pongono anzitutto problemi di articolazione e selezione del testo, nonché l’ardua decisione di quali criteri analitici adoperare. Se si fosse trattato di un convegno, si sarebbe data ampia scelta agli studiosi di approcciare l’analisi secondo le rispettive peculiarità, con il 1 Il piano di lavoro prevede anche una seconda fase successiva da dedicare all’analisi del film Revolutionary Road, sempre con una chiave laboratoriale, con una comparazione tra i due testi e un approfondimento sul tema della traduzione intersemiotica tra letteratura e audiovisivi. 2 Il gruppo di ricerca coordinato da Lucio Spaziante è composto da: Stefano Acquisti, Delia Cabrelli, Nicolas Chiappucci, Federico de Filippis, Elena Evangelista, Lucia Lorusso, Adele Piovani, Lorenzo Ravizza Maritano, Alessandro Rugiati, Rachele Vanucci. In nota ai titoli dei singoli paragrafi sono indicati specifici riferimenti ad autrici e autori, ma la stesura è stata operata mediante un confronto continuo tra i diversi paragrafi, operato collettivamente. E|C Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, anno XVII, n. 38 2023 • Mimesis Edizioni, Milano-Udine ISSN (on line): 1970-7452, ISSN (print): 1973-2716, ISBN: 9788857598321 © 2023 – MIM EDIZIONI SRL This is an open access article distributed under the terms of the Creative Commons Attribution License (CC-BY-4.0). risultato di una pluralità di voci, e con un focus molto mirato. Trattandosi di un progetto didattico, la scelta è invece ricaduta su una sorta di screening totale del testo. Il romanzo possiede una propria suddivisione interna in tre parti, per una complessiva articolazione in ventidue capitoli. Ognuno dei dieci componenti del gruppo, dunque, ha ricevuto un numero equo di capitoli da analizzare, senza una articolazione precostituita: ciò ha significato “mettersi davanti al testo”, e procedere a fare emergere ciò che le salienze indicavano. Sin dall’inizio questo lavoro “grezzo” è stato accompagnato da incontri e scambi di idee, nonché dall’uso di una piattaforma online di condivisione, dove poter leggere i rispettivi lavori in corso. Gli incontri nelle aule universitarie sono iniziati nel dicembre 2022, a margine delle lezioni del corso. Sono poi proseguiti durante l’intero anno successivo, compreso il periodo delle vacanze estive, grazie all’ausilio di piattaforme online. Un passaggio importante è stato quello di armonizzare secondo un modello condiviso le analisi dei capitoli che venivano portate avanti, con i loro approcci individuali, da singole studentesse e studenti. A questa fase di confronto, ho contribuito cercando di fare emergere le tematiche prevalenti nel romanzo e nelle analisi (spazio, tempo, corporeità e genere) attorno alle quali si sono poi costituiti quattro sottogruppi, ognuno dei quali ha realizzato la stesura collettiva di un paragrafo. Il mio compito successivo è stato quello di: unificare le parti, compiere una revisione con richiesta di ulteriori interventi di modifica, e realizzare un controllo editoriale complessivo, senza però modificare nella sostanza i contenuti originali. La stesura finale di questo articolo si è conclusa nel settembre del 2023. 1.1. Breve sinossi Per apprezzare l’analisi sarebbe naturalmente utile conoscere il romanzo, ma per facilitare la lettura dell’articolo è comunque possibile fornire alcune minime informazioni sulla trama. Frank e April Wheeler sono una giovane coppia – un impiegato e una casalinga con due bambini – che negli anni Cinquanta prende casa in un quartiere residenziale nel Connecticut, sotto la guida dell’agente immobiliare, Mrs. Givings. Il loro apparente quieto benessere borghese nasconde la frustrazione di due giovani di belle speranze che anelavano, o almeno lo credevano, ad una vita avventurosa da artisti in Europa. La nascita dei bambini li costringerà a rinunciare ai loro progetti, rinfacciandosi la reciproca infelicità. I tentativi di affrancarsi dalla normale routine quotidiana risulteranno vani e aggraveranno ulteriormente la loro situazione iniziale. Attraverso i protagonisti, e alcune figure di contorno altrettanto efficaci nei loro ruoli, come la famiglia Givings o i vicini di casa Campbell, il romanzo presenta un efficace e drammatico affresco di metà Novecento sulle apparenze sociali e la loro ricaduta negativa sulle identità personali. 2. Spazialità e interiorità: i luoghi della finzione e della sincerità3 In questo paragrafo ci concentreremo innanzitutto sulla spazialità, concetto cardine dell’intera opera, a causa della rilevanza dei diversi luoghi nella narrazione, in base alla quale si possono avanzare varie riflessioni sulle opposizioni isotopiche a essi associate. In primo luogo, si possono notare due opposizioni principali: 1. pubblico/privato: si riferisce ai luoghi fisici, e agli ambienti in cui si muovono i personaggi; 3 A cura di Elena Evangelista e Lucia Lorusso. 336 2. esteriore/interiore: non riguarda luoghi concreti, ma quelli legati alla corporeità. Cioè, da un lato il modo con il quale i personaggi si mostrano all’ esterno e le azioni che compiono (dimensione del fare); dall’altro quello che i personaggi pensano e provano (dimensione dell’ essere e del sentire). Ma queste opposizioni spaziali non restano mai isolate: i luoghi, fisici o corporei, si associano sistematicamente ad un’altra coppia di isotopie, cioè quella di finzione/sincerità. Nel corso del romanzo vedremo quanto tali opposizioni siano intrecciate tra loro e varino per la coppia protagonista, April e Frank Wheeler, in base a quanta affinità c’è tra di loro, creando un vero e proprio semisimbolismo figurativo tra pubblico/privato ed esteriore/interiore e la coppia finzione/sincerità4. Si può notare da subito, inoltre, un’ulteriore isotopia che, alla fine, si rivelerà centrale, quella della malattia: uno stato interno e corporeo che influenza e sconvolge le opposizioni spaziali fino ad annullarle. 2.1. Una continua messa in scena Il romanzo si apre con uno spettacolo teatrale, mostrando con ciò la centralità della dimensione finzionale e assieme fornendo da subito una possibile chiave interpretativa: una traccia cooperativa (cfr. Eco 1979) che nello sviluppo della lettura diventa una caratteristica comune ai vari personaggi. Lo spettacolo è destinato al fallimento per la malattia di uno degli attori che dovevano andare in scena: una malattia, cioè uno stato interno, che conduce però a un cambiamento negativo nel mondo esterno. Qui April e Frank Wheeler vengono introdotti nella narrazione: la delusione per lo spettacolo porterà ad un loro litigio che andrà ad occupare l’intera prima parte del romanzo, rendendoli uno l’Anti- Soggetto dell’altro, fino a quando non emergerà quel comune Oggetto di Valore – il trasferimento a Parigi – che definirà un Programma Narrativo (PN) condiviso. È possibile individuare un ulteriore criterio di suddivisione degli spazi, relativamente alla prima parte: 1. privato, quando un personaggio è da solo o in luoghi di passaggio; 2. pubblico, quando un personaggio è con altri. Tale divisione è motivata dal fatto che i due personaggi, a causa della lite, si trovano molto spesso da soli con i loro pensieri e cambiano radicalmente atteggiamento quando sono in compagnia di altri. La cosa appare evidente, ad esempio, nella sequenza in cui Frank percorre il corridoio per andare nel camerino di April, sino a quando ne esce per disdire l’appuntamento con i Campbell: egli passa da uno stato angoscioso (quando è nel privato), ad una simulazione (quando è in pubblico con April), fino ad una totale messa in scena, quando è con gli amici (RR5, pp. 52-56). Questa associazione tra spazi e finzione/sincerità non è esclusiva di April e Frank, ma è presente anche negli altri personaggi, sebbene in modo diverso. Mentre tra i due protagonisti l’intreccio tra le opposizioni evolve e varia in base al loro rapporto, nelle diverse parti del romanzo (come vedremo nei prossimi paragrafi), questo non accade a tutti gli altri personaggi, per i quali l’associazione rimane la medesima. Lo dimostrano, ad esempio, il vicino di casa Shep Campbell nel capitolo 2 della seconda parte o l’agente immobiliare, la signora Givings, nel capitolo 3 della seconda parte. Tutto ciò che è esterno e pubblico è generalmente associato con l’isotopia della simulazione. È come se gli attori ricoprissero un ruolo tematico da loro scelto o a loro associato, ma sempre caratterizzato da una dimensione finzionale: “il buon collega”, “il marito” o “l’intellettuale”. Lo si può notare, ad esempio, quando i Campbell vanno a cena dai Wheeler, e Frank Wheeler inizia un monologo su un tema di portata universale che occupa un’intera pagina: “È di decadenza che parlo […]” (RR, p. 115). 4 Il semisimbolismo figurativo nel testo letterario, cui questa analisi fa riferimento, si può trovare in Lancioni (2009), in particolare in relazione all’esempio di Pinocchio. 5 Le citazioni dal romanzo Revolutionary Road (Yates 1961) verranno d’ora in poi sempre indicate con RR. 337 L’interno, dall’altra parte, è il luogo della sincerità. Nel corso delle pagine, infatti, esplorando principalmente il personaggio di Frank, notiamo che nel privato, nonostante lui cerchi di autoconvincersi delle sue azioni, in realtà si tradisca e lasci andare tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni, facendo emergere uno stato passionale caratterizzato dall’ansia. Tutto questo permette di rilevare, fin da subito, un semisimbolismo che si articola sull’asse valoriale e su quello modale (Lancioni 2009, p. 70). La correlazione reggerà l’intero romanzo fino all’emergere della malattia come isotopia centrale: Pubblico ed esteriore Privato e interiore Valoriale Finzione Sincerità Modale Sembrar-essere Essere 2.2. Il sogno bohémienne La seconda parte del romanzo si apre con un equilibrio ristabilito: Frank e April non sono più in contrasto, ma condividono lo stesso PN principale – cioè la comunicazione della loro partenza – composto a sua volta dai tanti PN d’uso. Qui l’opposizione precedente si modifica: il privato diventa il luogo della coppia e della sincerità. I due riescono a parlarsi e a comprendersi senza la necessità di recitare. Luoghi come la casa, passano da disforici a euforici e, apparentemente, ciò che prima avveniva in solitudine, adesso contempla sempre anche il partner. Il pubblico è legato a tutti i luoghi in cui Frank e April, assieme o da soli, interagiscono con altri nel comunicare la loro partenza. Per esempio, il comportamento dei Campbell a casa loro è cosparso di finto perbenismo e falsa felicità per la loro scelta di partire, mentre Frank e April recitano il ruolo di improvvisati “avventurieri” (finzione): “Abbiamo deciso di trasferirci in Europa. A Parigi. Una volta per tutte! […] Oh, una o due settimane fa… […] non ricordo esattamente. So solo che ad un certo punto abbiamo deciso di andarcene, ecco tutto” (RR, p. 215). L’opposizione interiore/esteriore, quindi, si annulla nel privato, cioè quando Frank e April non fingono l’uno di fronte all’altro, dicendo finalmente ciò che pensano e provano. Resta invece valida nel pubblico, come nella prima parte del romanzo. Un altro tema ad emergere in questi capitoli è quello della malattia, incarnata principalmente da John Givings, figlio della signora Givings (l’agente immobiliare), e da tempo in cura per patologie psichiatriche. Egli si comporta in modo brutalmente schietto, creando così un’associazione valoriale tra malattia e sincerità. Ad esempio, esprime un punto di vista rivelatorio su ciò che ha portato Frank a fare un lavoro che non lo soddisfa: “[…] se uno vuole mettere su una casa molto carina, molto deliziosa, deve accettare un lavoro che non gli piace. Semplice” (RR, p. 261). Tra il suo personaggio e i Wheeler si creerà una sorta di connessione proprio nel momento in cui questi ultimi diventano sinceri tra di loro. Ciò diventerà evidente al termine della passeggiata nel bosco, ovvero l’unico luogo pubblico in cui prevale la sincerità. April dice a Frank riferendosi a John: “È la prima persona che dà sul serio l’impressione di capire quello che diciamo” (RR, p. 267). In questo apparente climax di felicità ed euforia, dove i protagonisti si sentono finalmente connessi ai loro progetti bohémienne, April rimane incinta. Questo sarà l’elemento che innescherà la crisi e la seguente rottura della stabilità di coppia. Dal punto di vista di April, anche la gravidanza indesiderata può essere intesa come una malattia. E ciò porterà al ripetersi della situazione descritta all’inizio della prima parte: un cambiamento interno, porta alla rottura dell’equilibrio esterno. 338 2.3. La malattia che annulla le opposizioni La terza parte del romanzo è caratterizzata, dunque, dal caos più totale e dal capovolgimento delle dinamiche di coppia: si ritorna al punto di partenza, ma con un netto peggioramento. La gravidanza inattesa porta uno sconvolgimento, con Frank e April che, collocati su due PN opposti, ritornano ad essere l’uno l’Anti-Soggetto dell’altro: lui vuole tenere il bambino e sospendere il viaggio; lei vuole abortire e non ha alcuna intenzione di rinunciare a Parigi. La novità emerge nel personaggio di April, che qui cade in depressione (malattia), iniziando a non curarsi più del luogo e delle persone, e abbattendo anche il velo di finzione. Ella è finalmente sé stessa, mostrando ciò che pensa: sia in casa – per esempio dicendo a Frank: “[…] io non ti amo […] e non ti ho davvero mai amato” (RR, p. 370); sia nella Capannina, il locale in cui si trovano con i Campbell, togliendosi la maschera della “brava moglie”. “April appariva remota ed enigmatica, distaccata da chi le stava attorno come non era mai stata neppure nei suoi momenti peggiori, ma con la differenza che ora Frank rifiutava di preoccuparsene” (RR, p. 335). Quando April comunica a Frank la fine del suo amore, avviene un punto di rottura significativo: da lì in poi tutti luoghi sono contraddistinti dalla sincerità. Quando i due litigano tra di loro o con i Givings, sono sempre sinceri. Il romanzo [spoiler] si conclude con l’aborto pianificato da April, che la condurrà dapprima al ricovero in ospedale e poi alla morte. L’ospedale sarà caratterizzato allo stesso tempo dalla malattia e dalla massima sincerità: qui finalmente tutti i personaggi si lasciano andare e agiscono senza pensare a indossare alcuna maschera. Frank dirà: “Gesù, Shep non sono riuscito a capire neppure metà delle cose che mi ha raccontato” (RR, p. 417), mostrandosi vulnerabile per la prima volta. Ciò dimostra quello che fin dall’inizio il romanzo ha suggerito al lettore, che cioè la malattia è l’unica isotopia che annulla il semisimbolismo creatosi all’inizio e, quindi, la rilevanza dei diversi luoghi e della finzione, permettendo alla sincerità di primeggiare. 3. Il valore del tempo6 In relazione al discorso sulla temporalità, la scelta è stata innanzitutto quella di concentrarsi sulle diverse valorizzazioni (cfr. Pezzini 1998) che i Wheeler assegnano ad alcuni periodi della loro vita, e su come tali differenze assiologiche costituiscano il nucleo polemico (in senso semiotico)7 della vicenda. Partendo dalla suddivisione in passato, presente e futuro, riscontrabile anche nei meccanismi di prolessi e analessi (cfr. Genette 1972; Eco 1994) che abbondano nel romanzo, abbiamo operato ulteriori suddivisioni che ci permettono di rendere conto dei rapporti tra i vari personaggi. Il risultato ha assunto la forma di una struttura a cinque termini verso i quali April e Frank mostrano passioni, desideri, e valorizzazioni differenti: passato remoto / passato prossimo / presente / futuro / futuro anteriore. 3.1. L’organizzazione a cinque termini del tempo Il punto di partenza della nostra analisi è il presente, in quanto la sua centralità si riscontra soprattutto nella funzione di rendere intellegibili i rapporti che la gran parte dei personaggi intrattiene con gli altri tempi: non solo i coniugi Wheeler ma anche i coniugi Campbell, così come John Givings e sua madre. 6 A cura di Delia Cabrelli, Federico de Filippis e Alessandro Rugiati. 7 Cfr. Greimas, Courtés (1979, voce “contratto”, p. 53, e voce “polemico”, p. 245). 339 Passato remoto Passato Prossimo Presente Futuro Futuro anteriore Euforico per Frank Tempo dei rimpianti Disforico per entrambi Tempo dei progetti Euforico per April “Che razza di vita era mai quella? Quale in nome di Dio, era il succo o il significato o lo scopo di una vita del genere?” (RR, p. 104). Questo è uno dei tanti pensieri che i personaggi – in questo caso Frank – rivolgono al presente8 (ossia l’anno 1955, ovvero il T0 della narrazione) nella prima parte del romanzo. La valorizzazione della situazione odierna è percepita come disforica dai Wheeler, specie in due momenti consecutivi della narrazione. Nel primo (RR, cap. 4), Frank, conversando in salotto con i Campbell, rivolge parole di scherno verso certe abitudini borghesi, non rendendosi conto di come siano proprio quelle che caratterizzano la sua quotidianità. In un secondo momento (RR, cap. 7), più precisamente durante la notte del compleanno di Frank, April sottolinea come la loro vita coniugale non sia altro che una “oscena illusione” (RR, p. 170) che soffoca le loro vere essenze. Emblematico, in questo senso, è il personaggio di John Givings, ostracizzato e biasimato da tutti per il suo disagio psichiatrico, e che, come abbiamo già visto, è caratterizzato come l’unico personaggio (fatta eccezione per April) capace di vivere il presente per quello che effettivamente è: egli infatti, costretto a vivere la sua vita giorno per giorno, a causa della malattia che gli impedisce di avere ogni tipo di progettualità, possiede una visione estremamente cinica e disillusa della realtà. Ne è un esempio la discussione che intrattiene con Frank e April, nel quinto capitolo della terza parte, nella quale egli rivela a tutti la cruda realtà ipocrita della loro relazione e il reale motivo per cui non sono mai partiti: «Grand’uomo si è presa, April» [...] «Bravo capofamiglia, solido cittadino. Mi dispiace per lei. O forse siete degni l’uno dell’altra. Anzi, stando all’aria che lei ha adesso, comincio a dispiacermi anche per lui. Voglio dire, a ben pensarci deve avergli dato ben poche soddisfazioni, se fare dei figli è l’unica maniera che ha per dimostrare che possiede un paio di coglioni» (RR, p. 381). Il presente è una gabbia che, da un punto di vista passionale, genera repulsione e frustrazione e che fa sì che nei due personaggi si manifestino due atteggiamenti opposti. Frank viene caratterizzato come qualcuno per il quale “non c’era mai stato posto per il peso e l’urto della realtà” (RR, p. 51). Egli, infatti, mostra la tendenza a rifugiarsi in mondi possibili 9, da lui stesso creati per evitare di confrontarsi con il presente. Questo atteggiamento tiene ancorato Frank a una concezione di sé ormai anacronistica, appartenente al suo passato remoto10: egli si considera ancora quel ragazzo che appariva intelligente agli occhi di tutti coloro che lo incontravano. Come possiamo notare in molti flashback, Frank connota positivamente quel periodo. Queste analessi, oltre a servire allo scopo di riempire i vuoti lasciati nel passato, sono interessanti perché ibride a livello enunciativo, come se le soggettività del narratore e del personaggio si sovrapponessero nello stesso luogo. Infatti, se è il narratore che introduce il flashback (non siamo in presenza di un 8 Consideriamo come appartenenti al presente, le sequenze temporali che, a partire dal T0 della narrazione, proseguono in maniera lineare. Pertanto le prolessi e le analessi non rientrano in questa parte dell’analisi. 9 Il concetto di mondo possibile, mutuato dalla logica modale, viene teorizzato in chiave semiotica da Eco (1979), per renderlo uno strumento di analisi testuale. Con questo termine faremo riferimento a un qualsiasi corso degli eventi (sia esso un flashback o un agire predittivo-progettuale verso il futuro) sostenuto dagli atteggiamenti proposizionali (credere, volere, ricordare, pensare etc.) di uno dei personaggi. Per motivi di spazio abbiamo scelto di non eseguire un’analisi dettagliata come negli esempi proposti da Eco, quindi di tralasciare le proprietà S- necessarie et similia. Quello che ci interessa è mettere in rilievo la presenza di mondi alternativi rispetto al mondo di partenza del romanzo, che si manifestano nell’interiorità dei personaggi. 10 Da un punto di vista della fabula, consideriamo il passato remoto quel periodo della vita dei personaggi che termina con il trasferimento nella casa di Revolutionary Road. Questo include tutte le sequenze che riguardano l’infanzia e le sequenze che raccontano della loro vita giovanile nel Greenwich Village, a Bethune Street. 340 débrayage enunciazionale), e ciò porta ad assumere la veridicità dei fatti narrati, da un punto di vista passionale e percettivo, invece, sembra che l’ultima parola sia lasciata ai personaggi stessi, in una sorta di débrayage passionale: “L’odore della scuola nel buio – matite e mele e colla per rilegature – fece salire agli occhi di Frank una dolce, dolorosa nostalgia” (RR, p. 57, corsivo nostro). C’è quindi una revisione emotiva da parte del personaggio rispetto al tempo presente11. A un passato remoto memorabile – almeno per Frank – fa da contraltare un passato prossimo che si configura come l’origine dei mali del presente. Se a livello cronologico i due tempi in questione sono piuttosto vicini, da un punto di vista assiologico il passato prossimo è molto più vicino al presente, come evidenziato da April stessa: “È stato così che noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione” (RR, p. 170). Infatti, la prima gravidanza, avvenuta sette anni prima del T0, ha segnato una cesura tra una gioventù spensierata e quella fase della vita in cui le necessità prendono il posto dei sogni. A causa di una tragica infanzia e di una solitaria adolescenza (“Ti pareva ancora che stessi perdendo il meglio della vita?” “In un certo senso, sì. [...] Ero una specie di brutto anatroccolo tra i cigni”, RR, p. 346), April è portata a non avere un atteggiamento euforico nei confronti del passato e dimostra più volte, al contrario di Frank, di avere contezza del presente. Sono varie le interazioni tra i due dove April sembra assumere il ruolo della realtà, opponendosi ai mondi ideali di Frank: “L’unico vero errore, l’unica cosa falsa e disonesta, era stata semmai quella di aver scambiato Frank per qualcosa di molto più importante. Oh, per un mese o due, tanto per divertirsi un po’, poteva anche andar benissimo un giochetto del genere con un ragazzo; ma tutti quegli anni!” (RR, pp. 400-401). Queste caratteristiche portano April ad avere un atteggiamento opposto a quello del marito: data la consapevolezza della loro situazione, ella progetta allora il trasferimento in Europa. Un mondo futuro che permetta loro di uscire dal loro presente disforico e che, trattandosi di un sogno di gioventù, abbiamo definito come futuro anteriore (“Era un nuovo, complicato piano per trasferirsi in Europa”, RR, p. 165). L’atteggiamento dei due personaggi è opposto, inoltre, anche per quanto riguarda l’aspettualizzazione. In entrambi c’è la volontà di rendere iterativo qualcosa, ma c’è una profonda differenza riguardo alla natura di questo oggetto: Frank si protende verso l’iterazione di qualcosa di terminativo (il passato remoto), mentre April lo fa verso qualcosa che non è mai andato oltre lo stato incoativo (la loro intenzione di andare in Europa, rimasta solo un progetto). A questo punto entra in gioco la questione del futuro, cioè il tempo delle proiezioni. Dal primo capitolo della terza parte in poi, infatti, April e Frank sviluppano due programmi narrativi (PN) oppositivi proprio a partire dalle due rispettive aspettualizzazioni (passato remoto per Frank e futuro anteriore per April). I due attori ricoprono gli stessi ruoli attanziali: sono entrambi due Soggetti che si rinfacciano a vicenda di essere l’uno il Destinante negativo dell’altro, rendendosi due Anti-Soggetti speculari. Il raggiungimento dell’Oggetto di valore per uno, corrisponde all’allontanamento dall’Oggetto di valore per l’altro. I due PN sono quindi mutualmente esclusivi, e per questo la vicenda assume la forma di uno scontro. Come sottolinea Guido Ferraro: nei casi più interessanti lo scontro fra i Soggetti è scontro fra concezioni del mondo, e dunque fra criteri alternativi per l’investimento di valori: in tal caso, Soggetto e Anti-Soggetto non potranno, per definizione, competere per qualcosa che sia allo stesso modo Oggetto di valore per entrambi (2012, p. 45). E questo è il nostro caso. Il futuro per April è andare in Europa (futuro anteriore), mentre il futuro per Frank è restare in America (passato remoto) ed entrambi gli Oggetti di valore sono dipendenti dal verificarsi o meno della gravidanza. Frank è quindi l’ostacolo al PN di April e viceversa e, nonostante 11 Da questo tipo di analessi si differenziano, ad esempio, quelle messe in scena nell’ultimo capitolo, in cui il débrayage è completo, e sia la narrazione degli eventi sia la ricezione passionale sono lasciate ai personaggi. 341 questo, entrambi hanno bisogno dell’altro per il raggiungimento dell’Oggetto di valore. Per questo motivo il controllo del tempo è valorizzato euforicamente (vi sono continui riferimenti all’osservazione di calendari e orologi, soprattutto nel momento di decidere in merito alla gravidanza) in una illusione di controllo sugli eventi futuri, poiché chi perde il controllo perde l’Oggetto di valore. Entrambi i Soggetti portano a compimento il loro PN attraverso l’unica tragica soluzione alla quale sono destinati, ovvero separarsi: Frank proseguirà con la sua vita lavorativa e April interromperà la gravidanza, pur con tragiche conseguenze, perché “se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli” (RR, p. 409). 4. Il controllo dei corpi12 La logica del sentire tensivo, nel romanzo, ha a che vedere con gli sviluppi figurativi di tematiche relative alla corporeità e alla sensorialità. La descrizione della sfera emotiva non è esplicita, ma piuttosto passa per la corporeità, ed il lettore percepisce i sentimenti attraverso gli effetti somatici delle passioni. È il corpo ad esprimere il groviglio di emozioni, mentre i giudizi, indirettamente, passano per la conformazione plastica quotidiana dei corpi. Il linguaggio corporeo, nella sua apparente naturalità, “connota” e si sostituisce al puro parlato dei personaggi, divenendo atto di significazione (Greimas 1976, p. 231). A seguito della lite con April, che apre drammaticamente la vicenda, ci vengono mostrate l’impotenza e la frustrazione di Frank la mattina seguente, a partire dalla descrizione delle sue mani: gonfie e pallide, con unghie smangiate (RR, p. 78). La configurazione corporea rende conto di un indiretto /non-poter- fare/ da parte del Soggetto, una disposizione d’animo in un atteggiamento di distacco dal quotidiano; un sentore di insoddisfazione che si mostra come aspetto terminativo di un precedente PN vanificato, ossia il litigio con la moglie. Persino l’interazione tra soggetti passa per indirette delucidazioni offerte dal corpo: la signora Givings coglie la disposizione emotiva di Frank a partire dalla sua “contrazione dei muscoli” (RR, p. 230), che ella avverte a livello somatico come “un colpo al petto”. Le contrazioni muscolari, generalmente impercettibili, divengono qui erogatori delle strutture timiche profonde. I Wheeler spesso tradiscono l’apparenza sociale attraverso il corpo: di conseguenza la distinzione tra somatico e mentale, nel quotidiano, viene meno. La salvaguardia delle apparenze viene tradita dai movimenti e dalle reazioni dei corpi, che esprimono e realizzano le vere emozioni dei soggetti. Ed è mentre i corpi mostrano i particolari stati emotivi dei personaggi che il loro pensiero viene costantemente rilevato ed esposto. 4.1. La percezione della malattia Nel corso della narrazione, i personaggi nascondono le loro vere intenzioni attraverso abitudini e quotidianità, sostenuti dalle loro reti sociali. Chi rifiuta il consenso si trova in un complesso rapporto disgiunto dal reale e viene immediatamente bollato come “malato”. Non solo chi lo è davvero, ma anche chi – nella narrazione – esce dalla conformità, come si nota sin dai primi capitoli, quando Frank durante un litigio asserisce: “Sai che cosa sei quando fai così? Sei malata, sei. E dico sul serio” (RR, p. 64). In ogni visita dai Wheeler, i figli di April e Frank vengono portati dai Campbell, onde evitare l’“infezione” da parte di un personaggio malato come John Givings. Costui agisce in modo contorto e destabilizzante rispetto a quei canoni di normalità vigenti che il narratore presenta nei capitoli precedenti (ad esempio, con la visita della signora Givings). Durante il primo incontro con i Wheeler, John beve un drink in modo sconveniente, appoggia il cappello su uno scaffale, indossa abiti ospedalieri, ed al 12 A cura di Nicolas Chiappucci, Stefano Acquisti e Adele Piovani. 342 contempo sanziona negativamente l’operato della madre, a causa del suo essere completamente modalizzata verso il /sembrar-essere/ agli occhi degli altri (cfr. infra, par. 2.1.). Inoltre, le discussioni avviate da John oltrepassano ampiamente le consuetudini conversazionali: egli è il solo personaggio capace di utilizzare il linguaggio ironico, riferendosi a quelle strutture sociali predeterminate, e attualizzandone la dimensione tragica. Eccone un esempio: “è proprio un bel granaio antico, mamma”. “E quella dei Wheeler è una bella notizia, e tu sei tanto carina. Non è vero, papà, che è tanto carina?” (RR, p. 376). Inoltre, John si pone come destinante sanzionatore del mancato conseguimento del PN di April e Frank, rispetto al loro voler andare oltreoceano. Egli critica la rinuncia di entrambi alla realizzazione personale, dovuta al loro incorporare ruoli tematici stereotipici: riconosce Frank come “capofamiglia” e “solido cittadino” (RR, p. 325), oppure April come semplice donna di casa. È attraverso le esternazioni di John che i coniugi Wheeler raggiungono la piena consapevolezza del loro stato, sia personale che matrimoniale. Egli è fuori dalla società: una non-conformità attestata del resto dal suo modo di esprimersi. John è in grado di vedere oltre quell’illusione di normalità che permea la società civile e ne mette in luce tutte le contraddizioni: rifiutando le regole previste, egli riesce a far luce sulle maschere degli altri personaggi. D’altra parte, il suo PN, teso verso una sorta di performanza sanzionatoria nei confronti della coppia, come tutti i “baccelli reazionari” della società (come anche April) non si conclude con una sanzione positiva. La madre ne definisce l’operato in modo negativo e deleterio, invitando il medico a non concedergli alcun contatto con persone esterne. Mentre John viene segregato in una maniera ancor più oppressiva, venendo escluso dalla conformità felice e funzionale, la vita della signora Givings, dei Campbell e dell’intera Revolutionary Road riprende, relegando ad un puro pettegolezzo (unica fonte di verità per la società qui descritta) i tristi accadimenti della vicenda. 4.2. Controllo: la rete e l’alcol Lungo l’intero romanzo, emerge anche un percorso tematico del controllo, caricato di investimenti tematici parziali e di atti di figurativizzazione dei contenuti. Attori, tempi e spazi risultano continuamente sottoposti ad una rete di decisioni, prese dalla società nel suo essere collettivo, che influenzano i ritmi e le direzioni della narrazione. Lo si osserva, ad esempio, attraverso il tema dell’alienazione sociale: la casa dei Wheeler o l’ufficio di Frank, sono descritti nella loro conformazione eidetica sempre secondo una regolare e spigolosa perfezione geometrica, veicolando un distacco, sia spaziale che temporale, rispetto a ciò che si trova al di fuori. Frank entra come un automa nell’azienda Knox: una struttura nella quale i piani “sembravano tutti uguali” ed in cui “aveva scoperto solo lievi differenze sensoriali tra questo (il suo) e gli altri piani dell’ufficio” (RR, p. 132). La descrizione dell’ufficio in questo senso è esemplare, con i tratti semantici di staticità ed angustia rilevati attraverso una efficace metafora collegata al tema dell’acqua: L’effetto generale, agli occhi di chi, uscito dall’ascensore, contemplasse il panorama dello stanzone, era quello di un ampio lago chiuso tra mura, in cui si muovessero vicino e lontano dei nuotatori, alcuni intenti ad avanzare, altri immobili nell’acqua, altri ancora sorpresi nell’atto di emergere o affondare, e molti immersi, i volti dissolti in tremolanti macchie rosa, mentre annegavano alle rispettive scrivanie (ibid.) Se il controllo funziona per abitudine, ecco come nel lavoro di Frank l’aspettualizzazione temporale sottolinei una certa iteratività quotidiana: si ripete nelle mansioni e nei tempi con le medesime caratteristiche del giorno precedente. Alle cinque del pomeriggio, Frank porta avanti la consuetudine di lasciare il lavoro in vista dell’appuntamento quotidiano con l’amante (RR, p. 128). La ricerca della promozione, l’immobilità del lavoro ed i tradimenti giornalieri sono forme di controllo che seguono Frank per l’intera giornata. Maureen Grube, la segretaria con cui Frank avrà una relazione, è parte di quell’ingranaggio di rinnovata iteratività giornaliera. Non è un caso, del resto, che il romanzo si apra 343 con la vicenda della Compagnia dell’Alloro (cfr. infra, par. 2.1.), una filodrammatica di attori dilettanti che, con il suo conseguente fallimento, rinvia immediatamente April ad un piano de-realizzato di sé stessa e della sua possibile fuga dalla quotidianità13. Eppure, l’omologazione del comportamento nella società, in cui vivono individui intrisi di sentimenti come l’appartenenza e la realizzazione, si scontra con un certo /voler-essere/; ciò si nota bene attraverso i sintomi passionali, generati durante le situazioni delicate che i personaggi si trovano ad affrontare. Infine, l’alcol: durante la narrazione, i personaggi non fanno che bere, nelle situazioni più disparate. L’uso e l’abuso della sostanza e la sua capillarità descrivono l’ambiente in cui i personaggi si collocano. I soggetti sono dominati dalla paura e dall’ansia di essere equiparati agli altri, e l’alcol funziona come una medicina, una via di fuga dal senso di inadeguatezza. Ciò accade poiché, rispetto a tematiche che restano nascoste, l’alcol è sotto gli occhi di tutti e liberamente usufruibile: i soggetti sono consci che, senza alcol, non sarebbero in grado di gestire le situazioni. Sono così consapevoli di questa necessità che spesso fingono addirittura di essere più ubriachi di quello che sono. Anche dal punto di vista narrativo, questo è un ottimo escamotage: i personaggi si comportano in un modo non previsto dalle rigide imposizioni sociali, perché sono, oppure fingono di essere, ubriachi. Nella diegesi del romanzo l’alcol viene somministrato anche in modo manipolativo, per fare in modo che i personaggi si sciolgano e dimentichino a poco a poco le briglie dei ruoli sociali pre-imposti: “in ufficio, Frank, che non era poi così ubriaco come voleva far credere, aveva sospinto Maureen Grube contro uno schedario e l’aveva baciata a lungo, violentemente, sulla bocca” (RR, p. 102). La manipolazione tramite l’alcol viene espressa chiaramente all’interno del romanzo, e diventa quasi l’adiuvante narrativo per compiere il proprio PN. 5. Corpi e valori14 Come è già emerso nei paragrafi precedenti, il corpo dei personaggi funge da dispositivo mediatore del rapporto dei soggetti con l’ambiente facendosi filtro della percezione e assieme terreno di emersione e strumento di regolazione delle passioni. Oltre a queste funzioni attanziali però, i corpi, in quanto figure appartenenti alla macrosemiotica del mondo naturale, partecipano all’interno del testo anche alla articolazione e messa in forma del livello discorsivo del romanzo. Il corpo è in grado di determinare l’articolazione dei linguaggi in sostanze significanti, fungendo da base per la formazione di categorie semantiche, per poi in seguito installarsi sul piano del contenuto come elemento figurativo che concretizza i temi astratti del testo. In questo paragrafo ci si concentrerà quindi sui processi di figurativizzazione dei corpi dei personaggi, cercando di mostrare come la produzione di diverse immagini della corporeità faccia da supporto per il dispiegamento dell’universo valoriale che investe i corpi stessi (cfr. Marrone 2005). Lo spazio del corpo, diventa così il territorio di articolazione di diverse opposizioni semantiche (sociale/naturale, vita/morte, salute/malattia), che come vedremo sono strettamente connesse l’una all’altra e organizzate secondo una logica di incassamento isotopico (Marsciani, Zinna 1991). 5.1. Corpo sociale e corpo naturale La principale opposizione rilevabile, sulla quale si sviluppano le altre, organizza i corpi in due ordini: quello del corpo sociale e quello del corpo naturale. 13 È il primo contratto offerto dall’enunciatore al lettore ed ai personaggi del testo. Un contratto di veridicità che non assumerà su di sé alcun piano che non sia quello reale. 14 A cura di Lorenzo Fabrizio Ravizza Maritano e Rachele Vanucci. 344 Il corpo sociale, composto da atteggiamenti, azioni e comportamenti, è il terreno di mediazione intersoggettiva dei personaggi, ed è laddove viene valorizzata la modalità performativa basata sul “fare”, soprattutto nella sua specificazione manipolatoria del /far-fare/. Il corpo sociale, che è teso all’ottenimento di riconoscimento da parte dell’altro, si manifesta tramite azioni e comportamenti che evidenziano la competenza del soggetto, valorizzata positivamente in prospettiva dell’ottenimento di una sanzione positiva da parte di un Destinante extra-individuale. Il corpo sociale installa, inoltre, una isotopia della teatralità, in cui il corpo viene impiegato strategicamente e coscienziosamente come strumento di esibizione performativa nei PN dei personaggi: “A volte c’era una punta di ironia in questi abbracci scambiati solo con gli occhi: so che sto dando spettacolo, sembravano dire, ma anche tu lo fai, e ti amo” (RR, p. 188). Il corpo naturale è invece il corpo fisico, centro di costituzione dell’identità degli attori tramite i processi percettivi e passionali. Come notato nel paragrafo precedente, i sintomi passionali dei personaggi contraddicono ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, facendosi rivelatori di una sorta di dimensione passionale autentica. In ciò si può ritrovare una relazione tra l’opposizione sociale/naturale e l’opposizione essere/sembrare, alla base del quadrato di veridizione (Greimas, Courtés 1979). Rifuggendo il controllo e scontrandosi con le norme imposte dall’orizzonte sociale, inoltre, il corpo naturale convoca anche le opposizioni semantiche individuale/intersoggettivo e privato/pubblico. Per spiegare meglio come queste opposizioni vengano attualizzate nel testo, prendiamo come esempio due tra le prime descrizioni che introducono i personaggi principali, cominciando con Frank: Nonostante la mancanza di vistose particolarità fisiche, Franklin aveva un volto straordinariamente mobile, capace di suggerire una sequela di personalità del tutto diverse a ogni minimo mutamento d’espressione. Se sorrideva, era un uomo perfettamente consapevole che il fiasco di una rappresentazione filodrammatica non era cosa di cui si dovesse preoccupare troppo, un uomo gentile, dotato di umorismo, il quale avrebbe trovato proprio le parole che ci volevano per confortare dietro le quinte la moglie; ma negli intervalli tra un sorriso e l’altro, mentre a colpi di spalle si incuneava nella folla, e nei suoi occhi si scorgeva una lieve, cronica febbre di perplessità, si sarebbe detto che anche lui avesse bisogno di conforto (RR, pp. 50-51). Da subito il volto è descritto come uno strumento del /poter-fare/ di Frank: egli è consapevole di essere pienamente in grado di sfruttarlo per mettere in scena un certo stato d’animo, per autodeterminarsi in quanto soggetto sociale e attribuirsi un ruolo tematico strategicamente scelto. Di contro, la realtà delle sue emozioni traspare nei momenti in cui abbassa la guardia, e nel resto della scena tutte le figure del corpo fisico propongono uno stato disforico del soggetto: “piedi indolenziti”, “odore acidulo”, “nocche arrossate”. In Frank viene così incorporata la tensione causata dalla mediazione tra una corporeità mediata dalla ragione e una non mediata e incontrollata. La dimensione somatica diviene per Frank luogo di conflitto in cui esperienze presoggettive ed istanze intersoggettive competono nella caratterizzazione della sua soggettività. È importante precisare che queste due categorie non sono indipendenti l’una dall’altra: come ricorda Marrone, il corpo in quanto dispositivo semiotico “si concretizza ora nei processi sensoriali e fisiologici di una dimensione somatica prettamente soggettiva, ora negli investimenti sociali che riceve dalle istituzioni sociali e politiche, ora nei processi di passaggio dagli uni agli altri e viceversa” (Marrone 2005, p. 80). All’interno del testo però, come abbiamo appena visto, questi due ordini della corporeità costruiscono due diverse immagini di corpi inserite in una assiologia che valorizza la dimensione intersoggettiva a discapito di quello individuale. La presa in carico di questa opposizione sul piano narrativo (da una organizzazione polemica della narrazione) e sul piano discorsivo (dalle diverse manifestazioni della corporeità nei personaggi di April e Frank) produce all’interno del testo una dialettica tra due punti di vista ideologici. 345 5.2. Padronanza del corpo e mascolinità Sul piano narrativo questa assiologia si incarna in una organizzazione ideologica (Greimas, Courtés 1979) per la quale i PN dei Soggetti presentano Destinanti intersoggettivi, incarnati di volta in volta nei vicini, nei conoscenti della coppia e – nella parte finale – nel capo dell’azienda. Nel caso di Frank, che partecipa pienamente a questa ideologia, ciò si trasforma sul livello discorsivo in percorsi figurativi che tematizzano anche una “padronanza” del corpo fisico, intesa come sussunzione della materia fisica sotto il controllo della ragione e della volontà del soggetto. Un esempio molto denso lo si trova nel terzo capitolo, figurativizzato nella descrizione delle mani del padre di Frank, investite di un nostalgico valore euforico per “[…] la loro sicurezza e sensibilità” e per “l’aria di padronanza che donavano a tutto ciò di cui Earl Wheeler si serviva” (RR, p. 79). Questo ricordo introduce anche un’altra isotopia rilevante nel testo, cioè quella della mascolinità, qui costruita come immagine euforica della realizzazione del Soggetto in seguito ad una sanzione positiva. Oltre all’immagine di fisicità, la mascolinità gioca un ruolo fondamentale nell’universo di valori di Frank: a costituire la desiderabilità dello spazio utopico dell’Europa, su cui fa leva la proposta di April, è la possibilità di riconoscersi in uno dei “grandi uomini” (RR, p. 63). Nella terza parte del romanzo sono, inoltre, prettamente maschili gli spazi aziendali in cui Frank si ritrova riconosciuto come soggetto dotato di valore. In uno dei primi litigi, invece, è proprio la sua mascolinità che viene messa in dubbio da April: “Guardati e dimmi se con tutta la buona volontà del mondo […] puoi definirti un uomo” (RR, pp. 69-70). 5.3. Corpi malati e corpi sessuali L’ideologia del controllo del corpo sociale ha effetti significativi anche sulle valorizzazioni del corpo naturale, che viene connotato come “malato” nel momento in cui vi è una discrasia tra le tensioni dei due protagonisti, ovvero quando la passionalità disforica del corpo naturale tradisce la pretesa di controllo di quello sociale. La malattia, che colpisce tanto il fisico quanto la mente – caso in cui compare come sottoclasse la “follia” – è incarnata nella prima parte del romanzo e soprattutto dal personaggio di April. Fin dalle prime descrizioni della protagonista, la malattia viene collegata al fallimento sociale: se nel primo capitolo la bellezza di April sul palco teatrale bastava “perché la parola «carina» volasse in un sussurro da un capo all’altro della platea” (RR, p. 44), in seguito al disastro dello spettacolo il suo corpo diventa prefigurazione di morte sotto lo sguardo di Frank, a cui appare “una creatura sgraziata e sofferente la cui esistenza egli tentava di negare ogni giorno della sua vita” (RR, p. 52). Il fatto che il romanzo sia in gran parte costruito nella prospettiva di Frank, porta all’attribuzione della malattia soprattutto nei litigi di coppia, durante i quali April viene accusata dal marito di essere “malata” (RR, p. 69) (cfr. infra, par. 4.1.) e “pazza” (RR, p. 384). Nei casi, invece, in cui vi è un equilibrio tra corpo sociale e corpo naturale, quest’ultimo viene allora valorizzato in quanto “sessuale”, diventando oggetto di investimento erotico e di una passionalità euforica. Il corpo sessuale si ritrova nelle sequenze di maggiore passione amorosa tra i protagonisti, quando costoro condividono PN e Oggetto di valore. Inoltre, il corpo sessuale – sia in quanto territorio di incontro fisico tra due soggetti, sia oggetto dello sguardo erotico – è sempre uno spazio di intersoggettività tra due attanti: in questo modo non vi è tanto una neutralizzazione dell’assiologia sociale/naturale, quanto una configurazione nella quale è il corpo naturale a farsi oggetto. Esempio di ciò sono le scene del primo incontro di April e Frank e del loro innamoramento, dove il corpo della donna appare come uno strumento sotto il controllo dell’uomo: “coscia tesa e calda sotto il tocco della sua mano”, “schiena che si muoveva perfettamente sotto la sua mano” (RR, p. 65). In altri casi, invece, il corpo sessuale diventa un oggetto di scambio simbolico, nel momento in cui la sua presenza segna la sanzione positiva del corpo sociale: nella sequenza del primo incontro tra i due protagonisti, April, prima 346 ancora di venire avvicinata da Frank, viene definita una “donna di prima qualità” che poteva dargli “un senso di puro trionfo” (RR, p. 63). 5.4. Fuga dal sociale Se, come abbiamo visto in precedenza (cfr. infra, par. 4.1.), il controllo sociale del corpo malato di John Givings comporta il suo isolamento dalla società e la reclusione nella clinica psichiatrica, l’uscita di April dallo spazio sociale avviene invece tramite un ribaltamento dell’ordine assiologico. Dopo l’ennesimo litigio, April, dopo essersi resa conto della insincerità dei propri sentimenti per Frank, decide di praticare su di sé l’aborto. Nel relativo percorso narrativo, assieme ad una rivoluzione dell’ordine di veridizione (quello che era vero, in realtà è falso), vi è una trasformazione nella valenza dei valori in gioco; ovvero, nel “valore attribuito ad un valore” (Bertrand 2000, p. 208), socialmente condiviso e alla base delle strutture assiologiche. April, che riscopre un ordine di verità situato nel suo corpo naturale, ribalta la predominanza del sociale e riesce così ad uscire dalle maglie ideologiche in cui invece soccombe Frank. Era calma e tranquilla, ora, sapendo quel che aveva sempre saputo, quello che né i suoi genitori né zia Claire né Frank né chiunque altro avevano mai dovuto insegnarle: che se si vuol fare qualcosa di assolutamente onesto, qualcosa di vero, alla fine si scopre sempre che è una cosa che va fatta da soli (RR, p. 409). Parallelamente, questa inversione di valenza investe anche il corpo di Frank, che dopo la morte della moglie sembra aver perso la brillantezza e agilità sociale che lo avevano caratterizzato nei capitoli precedenti l’incidente. Nell’ultimo capitolo del romanzo, Frank non solo è “diventato terribilmente noioso” (RR, p. 432), dimostrando così di aver perso la sua competenza sociale, ma perfino il suo corpo naturale perde ogni spinta vitale, finendo nello stato adiaforico del “non-morto”, incapace di sentire ed esprimere emozioni, come emerge dai giudizi di Shep Campbell: “Così gli era apparso Frank […] un cadavere che camminava, parlava sorrideva. […] Era impossibile immaginarselo sul serio nell’atto di ridere o piangere o sudare o mangiare o entusiasmarsi” (RR, p. 431). 6. Conclusioni La metodologia di analisi collettiva ha consentito una lettura completa di Revolutionary Road, attraverso un confronto di differenti punti di vista individuali che hanno permesso anche di far affiorare le ricorrenze che emergevano dalle diverse parti. La spazialità, ad esempio, è emersa come caratteristica rilevante non in sé, ma in relazione agli effetti di senso che ad essa si legavano. Il diverso comportamento dei personaggi nel romanzo, a seconda dei luoghi, ha consentito di evidenziare la pregnanza delle opposizioni tra pubblico e privato, ovvero l’individuazione di un sistema di apparenze sociali che condizionava anche la dimensione intima. Da questo stesso sistema, scaturiscono in modo conseguente i tratti della simulazione e della finzione che caratterizzano i singoli personaggi, e dunque l’intera rete sociale nella quale essi sono immersi. Se la simulazione risulta essere la condizione “normale”, ciò che ne fuoriesce diventa caratterizzato dall’ “anormalità”, ovvero dalla patologia. Sarà infatti la malattia a divenire, e sempre di più, un elemento di rivelazione della verità. Ma il romanzo si caratterizza anche per una sapiente articolazione della dimensione temporale, e per un’efficace costruzione di un andirivieni temporale tra passato e futuro. Frank e April vivono con nostalgia le loro passate proiezioni verso un futuro non realizzato. Dunque se c’è un tempo da loro vissuto in modo particolarmente disforico, quello è proprio il presente, per il suo aspetto scevro da 347 illusioni e per essere irraggiungibile dai loro mondi immaginari. Saranno le loro rispettive proiezioni, a loro modo egoistiche, a rompere ogni possibile alleanza e a determinare una loro crisi irreparabile. Una ulteriore caratteristica rilevante nel romanzo è la correlazione tra corporeità e sentire passionale. Gli attori manifestano elementi euforici o disforici attraverso una manifestazione corporea, la quale non si limita a “descrivere” gli stati dei singoli personaggi, ma è funzionale a fare emergere il loro status di corpi sociali. Ad esempio attraverso forme di controllo o, viceversa, di disinibizione attraverso l’uso di bevande alcoliche. Se i corpi sociali in Revolutionary Road sono corpi teatrali, la passionalità dei personaggi contraddice invece ciò che il loro corpo sociale cerca di affermare, rivelando una sorta di passionalità autentica, e instaurando una gerarchia assiologica che valorizza il corpo sociale a discapito di quello naturale. Tutto il romanzo, infine, è sostanzialmente la lettura del mondo condotta attraverso la prospettiva “controllata” del protagonista maschile, cioè Frank Wheeler. Ad essa si oppone April, la quale fa emergere la verità attraverso il proprio corpo naturale, affrancandosi dal predominio del sociale e dalle costrizioni nelle quali è imbrigliato Frank. In conclusione, l’esperimento metodologico può ritenersi riuscito, il che non evita che questa analisi possa essere considerata oggetto di osservazioni critiche, o non debba essere ulteriormente approfondita e integrata. 348 Bibliografia Bertrand, D., 2000, Précis de sémiotique littéraire, Paris, Nathan; trad. it. Basi di semiotica letteraria, Roma, Meltemi 2002. Eco, U., 1979, Lector in fabula, Milano, Bompiani; nuova ed., La nave di Teseo, Milano 2020. Eco, U., 1994, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani; nuova ed., La nave di Teseo, Milano 2018. Ferraro, G., 2012, “Attanti: una teoria in evoluzione” in A. M. Lorusso, C. Paolucci, P. Violi, a cura, Narratività. Problemi, analisi, prospettive, Bologna, Bononia University Press, pp. 43-60. Genette, G., 1972, Figures III, Paris, Seuil; trad. it. Figure III, Torino, Einaudi 1981. Greimas, A. J., 1976, Maupassant. La sémiotique du texte: exercises pratiques, Paris, Seuil; trad. it. Maupassant. La semiotica del testo in esercizio, Milano, Bompiani 2019. Greimas, A. J., Courtés, J., 1979, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris, Hachette; trad. it. Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Mondadori 2007. Lancioni, T., 2009, Immagini narrate. Semiotica figurativa e testo letterario, Milano, Mondadori. Marrone, G., 2005, La Cura Ludovico. Sofferenze e beatitudini di un corpo sociale, Torino, Einaudi. Marsciani, F., Zinna, A., 1991, Elementi di semiotica generativa, Bologna, Esculapio. Pezzini, I., 1998, Le passioni del lettore, Milano, Bompiani. Yates, R., 1961, Revolutionary Road, Boston, Little, Brown and Company; trad. it. Revolutionary Road, Roma, Minimum Fax 2017. 349
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Rivista dell’Associazione Direttore responsabile Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone mimesisjournals.com Anno XVII, n. 37 - 2023 ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 La società degli ibridi n.37 EC a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini contributi di: Flavio Valerio Alessi Mirko Lampis Isabella Pezzini Patrizia Calefato Dario Mangano Francesco Piluso Dario Cecchi Gianfranco Marrone Carlo Andrea Tassinari Giovanna Cosenza Alvise Mattozzi Bianca Terracciano Riccardo Finocchi Tastuma Padoan Ilaria Ventura Bordenca Jacques Fontanille Gianfranco Pellegrino Nicola Zengiaro Peter Fröhlicher Francesco Pelusi Julie Lairesse Paolo Peverini EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici mimesisjournals.com Direttore responsabile Gianfranco Marrone (Università di Palermo) Vicedirezione Alice Giannitrapani (Università di Palermo) Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo) Comitato Scientifico Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité) Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia) Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2) Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis) Lucia Corrain (Università di Bologna) Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia) Jacques Fontanille (Université de Limoges) Manar Hammad (Université Paris III) Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos) Tarcisio Lancioni (Università di Siena) Massimo Leone (Università di Torino) Anna Maria Lorusso (Università di Bologna) Dario Mangano (Università di Palermo) Francesco Mangiapane (Università di Palermo) Tiziana Migliore (Università di Urbino) Claudio Paolucci (Università di Bologna) Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki) Paolo Peverini (LUISS, Roma) Isabella Pezzini (Università La Sapienza, Roma) Piero Polidoro (LUMSA, Roma) Maria Pia Pozzato (Università di Bologna) Franciscu Sedda (Università di Cagliari) Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid) Stefano Traini (Università di Teramo) Patrizia Violi (Università di Bologna) Comitato editoriale Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli Metodi e criteri di valutazione La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (double blind peer-review). Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005 Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 ISBN: 9791222303246 In copertina “Homo, ore & collo Gruis”, illustrazione tratta dal libro Monstrorum historia di Ulisse Aldovrandi (1642). © 2023 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 EIC - n. 37 La società degli ibridi a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini INDICE Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto...............................................................................................................pp. 1-8 Paolo Peverini Gli articoli di questo numero................................................................................................................................................................................ p. 9 Isabella Pezzini 1. Teorie e rilanci L’actant hybride de l’écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt... .................................................................................................... pp. 10-23 Jacques Fontanille, Julie Lairesse Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming......................pp. 24-47 Alvise Mattozzi Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa..................................................................................................................................................pp. 48-61 Gianfranco Marrone Lo sportivo (ibrido).......................................................................................................................................................................................pp. 62-74 Dario Mangano Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi........................................................................................................pp. 75-93 Ilaria Ventura Bordenca 2. Critiche e dibattiti Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network Theory......................................................................pp. 94-116 Tastuma Padoan Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere....................................................................... pp. 117-129 Carlo Andrea Tassinari Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life...................................................................................................................................pp. 130-145 Nicola Zengiaro L’ibrido tecno-estetico..............................................................................................................................................................................pp. 146-156 Dario Cecchi Hybridism as a Dualistic View; or: A “Latourian” Paradox............................................................................................................................pp. 157-172 Gianfranco Pellegrino 3. Analisi ed esplorazioni Lasciati guidare dall’automobile............................................................................................................................................................... pp. 173-185 Riccardo Finocchi Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA.........................................................................................pp. 186-201 Francesco Piluso, Francesco Pelusi EIC - n. 37 La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico.................................................................................. pp. 202-219 Flavio Valerio Alessi Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture....................................................................................................pp. 220-226 Patrizia Calefato Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso............................................................................... pp. 227-242 Bianca Terracciano Miscellanea Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica....................................................................................................................... pp. 243-257 Giovanna Cosenza La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo...................................................................................................................pp. 258-273 Mirko Lampis Materiali Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio........................................................................................ pp. 274-284 Peter Fröhlicher
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[ { "Alternative": "From Semiotics to Latour and back. Trajectories of an Open Dialogue", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Hybrid is not a term belonging to the metalanguage of semiotics, so why pay attention to this notion from the perspective of the study of signification? There are at least two reasons, and they are interconnected. The first concerns the growing diffusion of this term in the sphere of both academic research and public debate. Faced with the proliferation of this term (it is worth remembering that it is anything but recent), semiotics is called into question as a discipline founded on the development of rigorous procedures for decomposing and analysing the phenomena of signification in the service of a critique of culture, following the hypothesis that the circulation of the word hybrid is the outcome of logics of production and circulation of meaning that are anything but obvious. The widespread diffusion of this term, therefore, can only urge semiotic research to measure itself against a widespread and persistent anthropocentric prejudice, based on the presumed primacy of human action, which irreconcilably distinguishes and separates subjects and objects, nature and culture, questioning the persistence of a dichotomy whose fallacy has long been at the heart of the most advanced and authoritative research in the field of cultural anthropology (Descola 2005; Viveiros de Castro 2009). This preliminary consideration paves the way for the second reason that encourages the field of semiotic studies to interrogate the meanings, the tightness and, in some cases, the rhetoric inherent in the multiple uses of this term. This is an opportunity to explore the positive repercussions of a close comparison with the research path of one of the scholars whose work is most frequently associated with the concept of hybrid: Bruno Latour, a celebrated theorist of the paradoxes and aporias of modernity who recently passed away.The introduction to this monographic issue of E|C aims to outline the reasons for the growing interest in the field of semiotic studies in Bruno Latour's work on the paradoxes of modernity, highlighting both the reasons for interest and those of mutual skepticism that have marked the dialogue between distinct but fruitful research perspectives. The paper traces some promising directions in contemporary semiotic research that highlight how the distance between Latour's work and the theory of signification does not consist in an unbridgeable gap on the epistemological level, but rather in a misalignment of trajectories of analysis that mainly affects the methodological level.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2748", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Paolo Peverini", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2024-01-25", "nbn": null, "pageNumber": "1-8", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Paolo Peverini", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "1", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "8", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2748/2168", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "This issue’s papers", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "  ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2749", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Isabella Pezzini", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Gli articoli di questo numero", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "9", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Isabella Pezzini", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "9", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "9", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Gli articoli di questo numero", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2749/2169", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The founding documents of the notions of environmental protection and sustainable development made it possible to broaden the theme of the environment to include socio eco nomic and cultural dimensions. The semiotic approach mainly questions the instances that participate in the two predicative configurations (to develop and to protect and in the construction of ecological actants, which are necessarily heterogeneous. This heterogeneity influences the roles that hybrid collective actants may play in the integrated configuration (develop+protect): between syncretic conceptions (everyone is a victim, a predator, and a protector at the same time) and discriminating concepti ons that oppose and distribute these roles between antagonistic collectives, the semiotic choices have major political implications. We focus on three international texts: Report of the United Nations Conference on the Environment (Stockholm 1972), Report of the Brundtland Commission on Environment and Development ( and Pope Francis encyclical Laudato Si' (2015)", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2751", "Issue": "37", "Language": "fr", "NBN": null, "PersonalName": "Julie Lairesse", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "10-23", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Julie Lairesse", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "10", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "23", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2751/2170", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The present paper intends to show that “hybrid” is not a Latourian notion and, consequently, intends to explore what such claim entails for social research interested in the role artifact in our collectives. In the first part, it shows the marginal use of the notion of hybrid in Latour's work and questions the relevance Italian Greimasian semiotics of objects and design has given to it, by also proposing a hypothesis regarding the ground on which such attribution of relevance has emerged. In the second part, the paper explores alternatives to the notion of hybrid, able to account for the mediations carried out by individual aggregate actors a formulation replacing hybrid as well for those carried out by instances constituting individual aggregate actors. The second part of the paper, as well as the paper, ends by resorting to early Actor Network Theory's methodological proposal related to de scription which, founded on the semiotic method, is considered apt to properly address the issues raised by the notion of hybrid and by the debate around it.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2752", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Alvise Mattozzi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "24-47", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Alvise Mattozzi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "24", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "47", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2752/2171", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "We Have Always Been Hybrids (and Donald Duck Knows It)", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The notion of hybrid in Latour's works depends on whether we see it as a problem of terminology, metalanguage, methodology or conceptualisation. By distinguishing these different points of view, this essay will attempt to disambiguate the notion of the hybrid by showing, behind its apparent simplicity, its profound semantic complexity and also some critical points. Through recourse to the analysis of a Donald Duck Disney cartoon, it will be shown how semiotic theory, in particular narrative and passion semiotics, can further articulate, and at various levels, what is meant by hybrid finally hopefully demonstrating that hybridisation is a procedure inherent to all human and social stories.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2753", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Gianfranco Marrone", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "48-61", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Gianfranco Marrone", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "48", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "61", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2753/2172", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The (Hybrid) Sportsman", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "When, on December 14, 2020, Apple introduced a small application called Apple Fitness+ something more happened than simply adding one piece of software to the many that the computer giant has created: a discursive configuration was completed that redefined a subjectivity. That of the contemporary sportsman. A perfect example of a hybrid that, by holding together humans, physical objects and the software that controls them, not only acquires unprecedented capabilities, but establishes a new subjectivity. What we will do in this essay is toreconstruct through semiotics precisely that subjectivity, questioning the society that more or less voluntarily produced it and will have to deal with it in the future.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2754", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Dario Mangano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Lo sportivo (ibrido)", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "62-74", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Dario Mangano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "62", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "74", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Lo sportivo (ibrido)", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2754/2173", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Virtual Hybrids. From the Semiotics of Objects to the Semiotics of Collectives", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "In this essay dedicated to a specific hybrid, the user VR headset, I will discuss how Semiotics, especially the Sociosemiotics of the last twenty years, has used the notion of hybrid and what are the specificities of its approach, especially the methodolog ical ones. Then specifically with regard to VR, I will deal with the formation of the user visual hybrid, taking into consideration what Latour says about the descriptive work of the ANT, which records the formation of hybrids where ruptures, crises, uncer tainties are created in the functioning of devices (and the use of a technical object for the first time falls among these). In order to do so I will refer to a brief ethnographic observation that involved a small group of first time users of visors and in particular I will highlight the somatic and pathemic aspect involved in the formation of the user visor hybrid, also referring to the First Steps tutorial (for Quest 2 visors). Finally, I will conclude with an evaluation of the design of certain visors an d the way they contribute to constructing the immersive experience, especially in the creation of the semantic relation between virtual world/real world", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2755", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Ilaria Ventura Bordenca", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "75-93", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Ilaria Ventura Bordenca", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "75", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "93", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2755/2174", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Hybrid Perceptions. Rethinking Phenomenology and Semiotics Through Actor-Network-Theory", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "It is generally acknowledged that Latour, through his work in STS and his use of concepts borrowed from Paris School semiotics, has given a fundamental contribution to rethinking the status of objects in social sciences. However, while using semiotic mod els, Latour decided to leave out of the picture the phenomenological approach developed in Greimas s later semiotic contributions, and in the work of many of his successors. Among the reasons for this choice, he mentioned the incapacity of phenomenology to escape a divide between Subjects and Objects, based on a narrow focus on human intentionality. In my paper I wish to return to this issue concerning ANT and phenomenology, and propose to invert the phenomenological paradigm, by rethinking it through a sem io narrative syntax, i.e. the narrative logic underlying the organisation of actants. Instead of inscribing semiotics within aphenomenology of perception, I will show how the opposite path might be more fruitful, especially when the human or nonhuman natu re attributed to subjects and objects is a priori undecidable, and only emerges from discourse and actantial interactions, manifesting themselves into hybrid human nonhuman assemblages I shall discuss the implications of this reversal, by analysing the re lationships between ascetics and mountain territory, as well as between humans, deities, and artefacts, in my ethnography of ascetic pilgrim groups in Katsuragi, central Japan.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2756", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Tatsuma Padoan", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network-Theory", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "94-116", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Tatsuma Padoan", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "94", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "116", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network-Theory", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2756/2175", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The semiotic interpretation of Bruno Latour s work often focuses on the syntactic models he borrowed from semiotics. In this paper, I shift the attention towards the underlying semantic models of Latour s work. This shift does not claim any philological intentions; its objective is primarily theoretical. My aim is to establish a connection between Lotman's perspective on rhetoricity, which is a fu ndamental mechanism of meaning making in the semiosphere, Latour's anthropological and experimental exploration in his Inquiry into Modes of Existence ,and the tensive semiotic concept of \"enunciative practice\". In our view, bridging the gap between these research projects enables semiotics of culture to align itself with contemporary anthropology as a leading human science, providing a more heuristic articulation of Latour's Inquiry.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2757", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Carlo Andrea Tassinari", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "117-129", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Carlo Andrea Tassinari", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "117", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "129", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2757/2176", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2758
[ { "Alternative": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This article investigates the influences of Latour’s theories on the field of biosemiotics studies. Biosemioticians share common premises based on the paradigm offered by Thomas Sebeok, namely that “life and semiosis are coextensive”. In current theories, the founding principle of biosemiotics is that semiosis exists in all living things and only in living things. The goal of this article is to show how Latourian theories can challenge this paradigm. The first part of the article introduced biosemiotics in its historical context. In the second part, it will be shown that Latourian theories have been rarely used by biosemioticians because: 1. the notion of life, when combined with Latour’s reflection on hybrids, becomes a vague and undecidable concept; 2. the notion of agency offered by Latour proposes an extension to the inanimate as well. In this sense, the boundary between animate and inanimate becomes difficult to identify and is often transgressed. By incorporating Latour’s notions of hybrid and agency into biosemiotics, it is possible to offer a new perspective in this field. Finally, it will be shown that ecosemiotics can be a valuable tool that can interact with Latour’s semiotic discourse.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2758", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Nicola Zengiaro", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "130-145", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Nicola Zengiaro", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "130", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "145", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2758/2177", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2759
[ { "Alternative": "The Techno-aesthetic Hybrid", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aims at reconstructing the concept of hybrid in a philosophical (critical) perspective. After reconstructing this concept in Bruno Latour's theory, the paper compares his theory with the reflections developed by the Italian thinker Emilio Garroni concerning the issue of the relationship between technics and creativity. These reflections are then coupled with Gilbert Simondon s theory of the technical objects, in order to develop insight into the nature of hybrids. According to this point of view, hybrids are not the result of posthumanism, but rather represent the very essence of human nature, as far as the latter is: a) fundamentally bound to technics; b) rooted into intersubjectivity; c) intrinsically evolutionary. Digital technologies, and abov e all the implementations of algorithms, are critically considered in the aforementioned vein, in order to unveil the new possible humanity they are designing.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2759", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Dario Cecchi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "L’ibrido tecno-estetico", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "146-156", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Dario Cecchi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "146", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "156", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "L’ibrido tecno-estetico", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2759/2178", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2760
[ { "Alternative": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Hybridism is the view that there are no purely natural or cultural, social or artificial objects, and the distinction between nature and culture/society/artifice is ungrounded and epistemologically impossible. Hybridism is usually taken as an anti dualist view. The paper challenges this claim. It provides a taxonomy of hybridism(s). The main claim of the paper is that hybrids, in the best understanding of them, are still dual(ist). However, the  esidual, or surviving, dualism embedded in hybridism has stronger grounds than the traditional Cartesian dualisms. As a consequence, the paper is also a defense of a moderate dualist view of nature and society, nature and culture, and nature and artifice. These claims are defended also by giving an interpretation of (some of) Latour s views about hybrids, mainly resting on a view of Latourian hybrids i.e., of the specific things, events, or phenomena that Latour saw as hybrids in (some of) his works.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2760", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Gianfranco Pellegrino", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "157-172", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Gianfranco Pellegrino", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "157", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "172", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2760/2179", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2762
[ { "Alternative": "Let the Car Drive You", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "One of the most widespread technical and technological hybrid objects is undoubtedly the automobile, it is certainly a myth of today (like the Citroën Pallas Déesse mentioned by Barthes), it has entered social practices and contributed to defining complex semiotic systems of relations between objects. The automobile is a technical object that progressively replaces and/or simplifies human functions. With the introduction of artificial intelligence a crucial step begins, the car from being a refined prosthesis of human operations and functions moves to autonomy from driver control, becoming more and more visibly a hybrid object (in the sense defined by Latour as something mixed and metamorphic, transforming modes of existence), where human control is reduced to a minimum (and tends to be unnecessary in the future) These new full self-driving cars are truly mobile artificial intelligences capable of activating a complex system of mutual delegation between human and non-human agents, through a ‘subjectification’ of the car that configures new hybrids. This article highlights a system of sense relations from which emerges a tendency towards the neutralisation of human agentivity in the relationship between human beings and technical objects.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2762", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Riccardo Finocchi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Lasciati guidare dall’automobile", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "173-185", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Riccardo Finocchi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "173", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "185", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Lasciati guidare dall’automobile", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2762/2180", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2763
[ { "Alternative": "Parental Control. The Rearticulation of Family Through PMA Techniques", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of the essay is to investigate the Medically Assisted Procreation (MAP), pointing out its role in reassembling the social, through the hybradization of heterogeneous human and non-human actors and the reconfiguration of their relationships. The MAP displays and operates in the articulations of the reproduction process, deconstructing its naturality and immediacy and allowing its knowledge and manipulation. The plurality of temporalities, spaces and actors involved in the MAP opens to new social figures and multiple parental models that often lack social and juridical acknowledgement. In Italy, the Law interprets the role of the MAP according to the heteronormative model of “natural” reproduction, limiting the possibilities offered by this techno-practice. In reference to the work of Latour, the essay highlights the necessity to emancipate the technique and the Law from their engagement to a metaphysical natural or social referent, fostering their capacity to express the multiplicity of reality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2763", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Francesco Pelusi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "186-201", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Francesco Pelusi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "186", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "201", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2763/2181", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The Semiotic Construction of Sars-CoV-2: The Case of The Electron Cryomicroscope", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of this paper is to analyse the role of the technological devices for Sars CoV 2 molecular structure discovery in cryoelectron microscopy practices. Starting from Bruno Latour's theory of enunciation and insights on techno scientific practices, w e argue that Latour s idea of fabrication of facts can be semiotically framed as a distributed act of enunciation. Specifically, the technological apparatus can be viewed as a mediating instance able to create a commensurability between the virus matter, physically transformed, yet preserved, through the various phases of the protocol, and the experimenters cognition and perception, extended by the device, acting as a diagrammatic and delegate instance. Indeed, on the one hand the cryoelectronic system m anipulates the materic features of the sample as to render it viewable, while, on the other, it produces the interpretants needed by the experimenters to carry out the interpretive process.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2764", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Flavio Valerio Alessi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "202-219", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Flavio Valerio Alessi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "202", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "219", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2764/2182", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Fashionable Hybrids: Iris van Herpen and the Metamorphoses of Coded Couture", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This article starts from the idea that the fashionable clothed body is a fetishis t hybrid (Latour 1992, 1994, 2005; Entwistle 2016; Volontè 2017). This conception connects both Latour s idea of hybrids as a way of reassemblying culture with nature and Walter Benjamin s (1999) conception of fashion as the sex appeal of the inorganic. According to Benjamin, the relationship between organic and inorganic is produced, in a philosophically disconcerting way, as an inversion of meaning between the living body and the corpse, in otherwords, as fetishism. On the contrary, Latour s hybri ds are social subjects with agency in themselves. In the light of this theoretical framework, the chapter analyses the work of the Dutch designer Iris van Herpen, especially in her collections of 2021 and 2022 which are based on the active role of objects: clothes, fabrics, technologies, atmospheric agents such as the wind etc. In this way, the designer produces different forms of hybridization among the human body, the animal and plant worlds, and the digital ecosystem. The article will highlight the forms of the reciprocal agency between human bodies and the bodies of objects, between emotions and new technological materials, between sustainable ICTs and aesthetics in van Herpen s work showing how the current idea of coded couture is released from its m ere algorithmic functionality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2765", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Patrizia Calefato", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "220-226", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Patrizia Calefato", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "220", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "226", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2765/2183", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Hybrid, Unique and Collectible Models: Toward a Semiotics of Consumption in the Metaverse", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Metaverse evokes a second spatiality, that of purchase, first virtual, then actualized as the only way to adhere to the object and thus the value system, in a consumption scenario in which consumer goods are increasingly rare and limited editions. Achieving the purchase is no longer a playful aesthetic experience but a glorifying trial in which status recognition is at stake. Following instructions also means adhering to the imposed corporeality to maintain a reputation, which means representing oneself i ntersubjectively. For example, not beingable to obtain an expensive NFT excludes one from a cultural niche, a form of life, or a way of telling a story. If the nature of the experience is not substantial, it cannot even be called imaginary because it is e xperienced as a pleasure that finds its expression in the process of search and choice. The mere visual contact with the good, placed in a digital public context, actualizes the desire for consumption. Thus, aesthetic satisfaction and self esteem could rep lace the deprivation of material substance in the metaverse. So, it is necessary to explore the metaverse from the Latourian perspective and observe it starting from the hybridization.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2766", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Bianca Terracciano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "227-242", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Bianca Terracciano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "227", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "242", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2766/2184", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Stereotypes and Prejudices. From Social Sciences to Semiotics", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This paper draws from the social sciences the notion of stereotype, as it relates specifically to people and social groups, by surveying how, from the 1950s to the present, social psychology has elaborated and discussed it in a systematic and empirically grounded way. It then distinguishes stereotypes and prejudices, showing how stereotyping and categorization follow similar processes, and how it is necessary to acknowledge, not only in scholarship but in social practice, the unavoidability of stereotypes, in order to overcome them and prevent them from leading to discriminatory attitudes. Finally, some concepts from Umberto Eco’s interpretive semiotics and Algirdas J. Greimas’ generative semiotics are proposed, which the author believes are most helpful in setting up a semiotic analysis of stereotypes that can empirically and operationally dialogue with both social psychology and social semiotics.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2767", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giovanna Cosenza", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Miscellaneous", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "243-257", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giovanna Cosenza", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "243", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "257", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2767/2185", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The Semiotic Theory of Pier Paolo Pasolini. An Introduction", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of this paper is to describe, in a concise, orderly and coherent manner, Pier Paolo Pasolini's semiotic theory. The aim is therefore to research, synthesise and systematise Pasolini's reflections and arguments on semiotics as theory, especially in the texts written between 1965 and 1971 and later collected in Heretical Empiricism. For ease of exposition, these reflections and arguments will be divided into five relevant sections: the grammar of film language, sign image and double articulation, trans-structural sign transformations, cinema as the written language of reality and the semiotics of the reality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2768", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Mirko Lampis", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Miscellaneous", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "258-273", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Mirko Lampis", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "258", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "273", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2768/2186", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Narration and Aesthetic Experience. Incredulità di san Tommaso by Caravaggio", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "  ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2769", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Peter Fröhlicher", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Materiali", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "274-284", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Peter Fröhlicher", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "274", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "284", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2769/2187", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Index", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "   ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2747", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Editorial Staff", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Indice", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Editorial Staff", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Indice", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2747/2167", "volume": null } ]
Rivista dell’Associazione Direttore responsabile Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone mimesisjournals.com Anno XVII, n. 37 - 2023 ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 La società degli ibridi n.37 EC a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini contributi di: Flavio Valerio Alessi Mirko Lampis Isabella Pezzini Patrizia Calefato Dario Mangano Francesco Piluso Dario Cecchi Gianfranco Marrone Carlo Andrea Tassinari Giovanna Cosenza Alvise Mattozzi Bianca Terracciano Riccardo Finocchi Tastuma Padoan Ilaria Ventura Bordenca Jacques Fontanille Gianfranco Pellegrino Nicola Zengiaro Peter Fröhlicher Francesco Pelusi Julie Lairesse Paolo Peverini EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici mimesisjournals.com Direttore responsabile Gianfranco Marrone (Università di Palermo) Vicedirezione Alice Giannitrapani (Università di Palermo) Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo) Comitato Scientifico Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité) Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia) Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2) Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis) Lucia Corrain (Università di Bologna) Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia) Jacques Fontanille (Université de Limoges) Manar Hammad (Université Paris III) Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos) Tarcisio Lancioni (Università di Siena) Massimo Leone (Università di Torino) Anna Maria Lorusso (Università di Bologna) Dario Mangano (Università di Palermo) Francesco Mangiapane (Università di Palermo) Tiziana Migliore (Università di Urbino) Claudio Paolucci (Università di Bologna) Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki) Paolo Peverini (LUISS, Roma) Isabella Pezzini (Università La Sapienza, Roma) Piero Polidoro (LUMSA, Roma) Maria Pia Pozzato (Università di Bologna) Franciscu Sedda (Università di Cagliari) Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid) Stefano Traini (Università di Teramo) Patrizia Violi (Università di Bologna) Comitato editoriale Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli Metodi e criteri di valutazione La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (double blind peer-review). Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005 Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 ISBN: 9791222303246 In copertina “Homo, ore & collo Gruis”, illustrazione tratta dal libro Monstrorum historia di Ulisse Aldovrandi (1642). © 2023 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 EIC - n. 37 La società degli ibridi a cura di Isabella Pezzini e Paolo Peverini INDICE Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto...............................................................................................................pp. 1-8 Paolo Peverini Gli articoli di questo numero................................................................................................................................................................................ p. 9 Isabella Pezzini 1. Teorie e rilanci L’actant hybride de l’écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt... .................................................................................................... pp. 10-23 Jacques Fontanille, Julie Lairesse Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming......................pp. 24-47 Alvise Mattozzi Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa..................................................................................................................................................pp. 48-61 Gianfranco Marrone Lo sportivo (ibrido).......................................................................................................................................................................................pp. 62-74 Dario Mangano Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi........................................................................................................pp. 75-93 Ilaria Ventura Bordenca 2. Critiche e dibattiti Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network Theory......................................................................pp. 94-116 Tastuma Padoan Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere....................................................................... pp. 117-129 Carlo Andrea Tassinari Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life...................................................................................................................................pp. 130-145 Nicola Zengiaro L’ibrido tecno-estetico..............................................................................................................................................................................pp. 146-156 Dario Cecchi Hybridism as a Dualistic View; or: A “Latourian” Paradox............................................................................................................................pp. 157-172 Gianfranco Pellegrino 3. Analisi ed esplorazioni Lasciati guidare dall’automobile............................................................................................................................................................... pp. 173-185 Riccardo Finocchi Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA.........................................................................................pp. 186-201 Francesco Piluso, Francesco Pelusi EIC - n. 37 La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico.................................................................................. pp. 202-219 Flavio Valerio Alessi Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture....................................................................................................pp. 220-226 Patrizia Calefato Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso............................................................................... pp. 227-242 Bianca Terracciano Miscellanea Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica....................................................................................................................... pp. 243-257 Giovanna Cosenza La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo...................................................................................................................pp. 258-273 Mirko Lampis Materiali Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio........................................................................................ pp. 274-284 Peter Fröhlicher
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2748
[ { "Alternative": "From Semiotics to Latour and back. Trajectories of an Open Dialogue", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Hybrid is not a term belonging to the metalanguage of semiotics, so why pay attention to this notion from the perspective of the study of signification? There are at least two reasons, and they are interconnected. The first concerns the growing diffusion of this term in the sphere of both academic research and public debate. Faced with the proliferation of this term (it is worth remembering that it is anything but recent), semiotics is called into question as a discipline founded on the development of rigorous procedures for decomposing and analysing the phenomena of signification in the service of a critique of culture, following the hypothesis that the circulation of the word hybrid is the outcome of logics of production and circulation of meaning that are anything but obvious. The widespread diffusion of this term, therefore, can only urge semiotic research to measure itself against a widespread and persistent anthropocentric prejudice, based on the presumed primacy of human action, which irreconcilably distinguishes and separates subjects and objects, nature and culture, questioning the persistence of a dichotomy whose fallacy has long been at the heart of the most advanced and authoritative research in the field of cultural anthropology (Descola 2005; Viveiros de Castro 2009). This preliminary consideration paves the way for the second reason that encourages the field of semiotic studies to interrogate the meanings, the tightness and, in some cases, the rhetoric inherent in the multiple uses of this term. This is an opportunity to explore the positive repercussions of a close comparison with the research path of one of the scholars whose work is most frequently associated with the concept of hybrid: Bruno Latour, a celebrated theorist of the paradoxes and aporias of modernity who recently passed away.The introduction to this monographic issue of E|C aims to outline the reasons for the growing interest in the field of semiotic studies in Bruno Latour's work on the paradoxes of modernity, highlighting both the reasons for interest and those of mutual skepticism that have marked the dialogue between distinct but fruitful research perspectives. The paper traces some promising directions in contemporary semiotic research that highlight how the distance between Latour's work and the theory of signification does not consist in an unbridgeable gap on the epistemological level, but rather in a misalignment of trajectories of analysis that mainly affects the methodological level.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2748", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Paolo Peverini", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2024-01-25", "nbn": null, "pageNumber": "1-8", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Paolo Peverini", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "1", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "8", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Dalla semiotica a Latour, e ritorno. Traiettorie di un confronto aperto", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2748/2168", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "This issue’s papers", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "  ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2749", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Isabella Pezzini", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Gli articoli di questo numero", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "9", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Isabella Pezzini", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "9", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "9", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Gli articoli di questo numero", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2749/2169", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The founding documents of the notions of environmental protection and sustainable development made it possible to broaden the theme of the environment to include socio eco nomic and cultural dimensions. The semiotic approach mainly questions the instances that participate in the two predicative configurations (to develop and to protect and in the construction of ecological actants, which are necessarily heterogeneous. This heterogeneity influences the roles that hybrid collective actants may play in the integrated configuration (develop+protect): between syncretic conceptions (everyone is a victim, a predator, and a protector at the same time) and discriminating concepti ons that oppose and distribute these roles between antagonistic collectives, the semiotic choices have major political implications. We focus on three international texts: Report of the United Nations Conference on the Environment (Stockholm 1972), Report of the Brundtland Commission on Environment and Development ( and Pope Francis encyclical Laudato Si' (2015)", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2751", "Issue": "37", "Language": "fr", "NBN": null, "PersonalName": "Julie Lairesse", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "10-23", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Julie Lairesse", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "10", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "23", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "L'actant hybride de l'écologie intégrale et du développement soutenable. Pourquoi les pauvres (et les femmes ?) doivent être protégés en même temps que les rivières, les montagnes, les oiseaux, et la forêt…", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2751/2170", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The present paper intends to show that “hybrid” is not a Latourian notion and, consequently, intends to explore what such claim entails for social research interested in the role artifact in our collectives. In the first part, it shows the marginal use of the notion of hybrid in Latour's work and questions the relevance Italian Greimasian semiotics of objects and design has given to it, by also proposing a hypothesis regarding the ground on which such attribution of relevance has emerged. In the second part, the paper explores alternatives to the notion of hybrid, able to account for the mediations carried out by individual aggregate actors a formulation replacing hybrid as well for those carried out by instances constituting individual aggregate actors. The second part of the paper, as well as the paper, ends by resorting to early Actor Network Theory's methodological proposal related to de scription which, founded on the semiotic method, is considered apt to properly address the issues raised by the notion of hybrid and by the debate around it.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2752", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Alvise Mattozzi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "24-47", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Alvise Mattozzi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "24", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "47", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Beyond “Hybrid”. The Partially Misleading Relevance of a Notion, Alleged to Be One of Latour’s, and Its Possible Overcoming", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2752/2171", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "We Have Always Been Hybrids (and Donald Duck Knows It)", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The notion of hybrid in Latour's works depends on whether we see it as a problem of terminology, metalanguage, methodology or conceptualisation. By distinguishing these different points of view, this essay will attempt to disambiguate the notion of the hybrid by showing, behind its apparent simplicity, its profound semantic complexity and also some critical points. Through recourse to the analysis of a Donald Duck Disney cartoon, it will be shown how semiotic theory, in particular narrative and passion semiotics, can further articulate, and at various levels, what is meant by hybrid finally hopefully demonstrating that hybridisation is a procedure inherent to all human and social stories.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2753", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Gianfranco Marrone", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "48-61", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Gianfranco Marrone", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "48", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "61", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Siamo sempre stati ibridi: e Paperino lo sa", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2753/2172", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The (Hybrid) Sportsman", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "When, on December 14, 2020, Apple introduced a small application called Apple Fitness+ something more happened than simply adding one piece of software to the many that the computer giant has created: a discursive configuration was completed that redefined a subjectivity. That of the contemporary sportsman. A perfect example of a hybrid that, by holding together humans, physical objects and the software that controls them, not only acquires unprecedented capabilities, but establishes a new subjectivity. What we will do in this essay is toreconstruct through semiotics precisely that subjectivity, questioning the society that more or less voluntarily produced it and will have to deal with it in the future.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2754", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Dario Mangano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Lo sportivo (ibrido)", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "62-74", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Dario Mangano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "62", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "74", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Lo sportivo (ibrido)", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2754/2173", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Virtual Hybrids. From the Semiotics of Objects to the Semiotics of Collectives", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "In this essay dedicated to a specific hybrid, the user VR headset, I will discuss how Semiotics, especially the Sociosemiotics of the last twenty years, has used the notion of hybrid and what are the specificities of its approach, especially the methodolog ical ones. Then specifically with regard to VR, I will deal with the formation of the user visual hybrid, taking into consideration what Latour says about the descriptive work of the ANT, which records the formation of hybrids where ruptures, crises, uncer tainties are created in the functioning of devices (and the use of a technical object for the first time falls among these). In order to do so I will refer to a brief ethnographic observation that involved a small group of first time users of visors and in particular I will highlight the somatic and pathemic aspect involved in the formation of the user visor hybrid, also referring to the First Steps tutorial (for Quest 2 visors). Finally, I will conclude with an evaluation of the design of certain visors an d the way they contribute to constructing the immersive experience, especially in the creation of the semantic relation between virtual world/real world", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2755", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Ilaria Ventura Bordenca", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "75-93", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Ilaria Ventura Bordenca", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "75", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "93", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Ibridi virtuali. Dalla semiotica degli oggetti alla semiotica dei collettivi", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2755/2174", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Hybrid Perceptions. Rethinking Phenomenology and Semiotics Through Actor-Network-Theory", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "It is generally acknowledged that Latour, through his work in STS and his use of concepts borrowed from Paris School semiotics, has given a fundamental contribution to rethinking the status of objects in social sciences. However, while using semiotic mod els, Latour decided to leave out of the picture the phenomenological approach developed in Greimas s later semiotic contributions, and in the work of many of his successors. Among the reasons for this choice, he mentioned the incapacity of phenomenology to escape a divide between Subjects and Objects, based on a narrow focus on human intentionality. In my paper I wish to return to this issue concerning ANT and phenomenology, and propose to invert the phenomenological paradigm, by rethinking it through a sem io narrative syntax, i.e. the narrative logic underlying the organisation of actants. Instead of inscribing semiotics within aphenomenology of perception, I will show how the opposite path might be more fruitful, especially when the human or nonhuman natu re attributed to subjects and objects is a priori undecidable, and only emerges from discourse and actantial interactions, manifesting themselves into hybrid human nonhuman assemblages I shall discuss the implications of this reversal, by analysing the re lationships between ascetics and mountain territory, as well as between humans, deities, and artefacts, in my ethnography of ascetic pilgrim groups in Katsuragi, central Japan.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2756", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Tatsuma Padoan", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network-Theory", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "94-116", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Tatsuma Padoan", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "94", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "116", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Percezioni ibride. Ripensare fenomenologia e semiotica attraverso la Actor-Network-Theory", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2756/2175", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The semiotic interpretation of Bruno Latour s work often focuses on the syntactic models he borrowed from semiotics. In this paper, I shift the attention towards the underlying semantic models of Latour s work. This shift does not claim any philological intentions; its objective is primarily theoretical. My aim is to establish a connection between Lotman's perspective on rhetoricity, which is a fu ndamental mechanism of meaning making in the semiosphere, Latour's anthropological and experimental exploration in his Inquiry into Modes of Existence ,and the tensive semiotic concept of \"enunciative practice\". In our view, bridging the gap between these research projects enables semiotics of culture to align itself with contemporary anthropology as a leading human science, providing a more heuristic articulation of Latour's Inquiry.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2757", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Carlo Andrea Tassinari", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "117-129", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Carlo Andrea Tassinari", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "117", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "129", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": " Tropes at Play in Latour’s Work. A Tensive Semiotic Portrait of Modernity as a Semiosphere", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2757/2176", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This article investigates the influences of Latour’s theories on the field of biosemiotics studies. Biosemioticians share common premises based on the paradigm offered by Thomas Sebeok, namely that “life and semiosis are coextensive”. In current theories, the founding principle of biosemiotics is that semiosis exists in all living things and only in living things. The goal of this article is to show how Latourian theories can challenge this paradigm. The first part of the article introduced biosemiotics in its historical context. In the second part, it will be shown that Latourian theories have been rarely used by biosemioticians because: 1. the notion of life, when combined with Latour’s reflection on hybrids, becomes a vague and undecidable concept; 2. the notion of agency offered by Latour proposes an extension to the inanimate as well. In this sense, the boundary between animate and inanimate becomes difficult to identify and is often transgressed. By incorporating Latour’s notions of hybrid and agency into biosemiotics, it is possible to offer a new perspective in this field. Finally, it will be shown that ecosemiotics can be a valuable tool that can interact with Latour’s semiotic discourse.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2758", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Nicola Zengiaro", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "130-145", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Nicola Zengiaro", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "130", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "145", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Latour and Biosemiotics. The Hybrid Notion of Life", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2758/2177", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2759
[ { "Alternative": "The Techno-aesthetic Hybrid", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aims at reconstructing the concept of hybrid in a philosophical (critical) perspective. After reconstructing this concept in Bruno Latour's theory, the paper compares his theory with the reflections developed by the Italian thinker Emilio Garroni concerning the issue of the relationship between technics and creativity. These reflections are then coupled with Gilbert Simondon s theory of the technical objects, in order to develop insight into the nature of hybrids. According to this point of view, hybrids are not the result of posthumanism, but rather represent the very essence of human nature, as far as the latter is: a) fundamentally bound to technics; b) rooted into intersubjectivity; c) intrinsically evolutionary. Digital technologies, and abov e all the implementations of algorithms, are critically considered in the aforementioned vein, in order to unveil the new possible humanity they are designing.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2759", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Dario Cecchi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "L’ibrido tecno-estetico", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "146-156", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Dario Cecchi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "146", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "156", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "L’ibrido tecno-estetico", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2759/2178", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Hybridism is the view that there are no purely natural or cultural, social or artificial objects, and the distinction between nature and culture/society/artifice is ungrounded and epistemologically impossible. Hybridism is usually taken as an anti dualist view. The paper challenges this claim. It provides a taxonomy of hybridism(s). The main claim of the paper is that hybrids, in the best understanding of them, are still dual(ist). However, the  esidual, or surviving, dualism embedded in hybridism has stronger grounds than the traditional Cartesian dualisms. As a consequence, the paper is also a defense of a moderate dualist view of nature and society, nature and culture, and nature and artifice. These claims are defended also by giving an interpretation of (some of) Latour s views about hybrids, mainly resting on a view of Latourian hybrids i.e., of the specific things, events, or phenomena that Latour saw as hybrids in (some of) his works.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2760", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Gianfranco Pellegrino", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "157-172", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Gianfranco Pellegrino", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "157", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "172", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Hybridism as a Dualistic View, or: A “Latourian” Paradox", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2760/2179", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2762
[ { "Alternative": "Let the Car Drive You", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "One of the most widespread technical and technological hybrid objects is undoubtedly the automobile, it is certainly a myth of today (like the Citroën Pallas Déesse mentioned by Barthes), it has entered social practices and contributed to defining complex semiotic systems of relations between objects. The automobile is a technical object that progressively replaces and/or simplifies human functions. With the introduction of artificial intelligence a crucial step begins, the car from being a refined prosthesis of human operations and functions moves to autonomy from driver control, becoming more and more visibly a hybrid object (in the sense defined by Latour as something mixed and metamorphic, transforming modes of existence), where human control is reduced to a minimum (and tends to be unnecessary in the future) These new full self-driving cars are truly mobile artificial intelligences capable of activating a complex system of mutual delegation between human and non-human agents, through a ‘subjectification’ of the car that configures new hybrids. This article highlights a system of sense relations from which emerges a tendency towards the neutralisation of human agentivity in the relationship between human beings and technical objects.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2762", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Riccardo Finocchi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Lasciati guidare dall’automobile", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "173-185", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Riccardo Finocchi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "173", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "185", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Lasciati guidare dall’automobile", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2762/2180", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2763
[ { "Alternative": "Parental Control. The Rearticulation of Family Through PMA Techniques", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of the essay is to investigate the Medically Assisted Procreation (MAP), pointing out its role in reassembling the social, through the hybradization of heterogeneous human and non-human actors and the reconfiguration of their relationships. The MAP displays and operates in the articulations of the reproduction process, deconstructing its naturality and immediacy and allowing its knowledge and manipulation. The plurality of temporalities, spaces and actors involved in the MAP opens to new social figures and multiple parental models that often lack social and juridical acknowledgement. In Italy, the Law interprets the role of the MAP according to the heteronormative model of “natural” reproduction, limiting the possibilities offered by this techno-practice. In reference to the work of Latour, the essay highlights the necessity to emancipate the technique and the Law from their engagement to a metaphysical natural or social referent, fostering their capacity to express the multiplicity of reality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2763", "Issue": "37", "Language": "en", "NBN": null, "PersonalName": "Francesco Pelusi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "186-201", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Francesco Pelusi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "186", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "201", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Parental control. La riarticolazione della famiglia attraverso le tecniche di PMA", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2763/2181", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2764
[ { "Alternative": "The Semiotic Construction of Sars-CoV-2: The Case of The Electron Cryomicroscope", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of this paper is to analyse the role of the technological devices for Sars CoV 2 molecular structure discovery in cryoelectron microscopy practices. Starting from Bruno Latour's theory of enunciation and insights on techno scientific practices, w e argue that Latour s idea of fabrication of facts can be semiotically framed as a distributed act of enunciation. Specifically, the technological apparatus can be viewed as a mediating instance able to create a commensurability between the virus matter, physically transformed, yet preserved, through the various phases of the protocol, and the experimenters cognition and perception, extended by the device, acting as a diagrammatic and delegate instance. Indeed, on the one hand the cryoelectronic system m anipulates the materic features of the sample as to render it viewable, while, on the other, it produces the interpretants needed by the experimenters to carry out the interpretive process.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2764", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Flavio Valerio Alessi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "202-219", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Flavio Valerio Alessi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "202", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "219", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "La fabbricazione semiotica del Sars-CoV-2: il caso del criomicroscopio elettronico", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2764/2182", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2765
[ { "Alternative": "Fashionable Hybrids: Iris van Herpen and the Metamorphoses of Coded Couture", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This article starts from the idea that the fashionable clothed body is a fetishis t hybrid (Latour 1992, 1994, 2005; Entwistle 2016; Volontè 2017). This conception connects both Latour s idea of hybrids as a way of reassemblying culture with nature and Walter Benjamin s (1999) conception of fashion as the sex appeal of the inorganic. According to Benjamin, the relationship between organic and inorganic is produced, in a philosophically disconcerting way, as an inversion of meaning between the living body and the corpse, in otherwords, as fetishism. On the contrary, Latour s hybri ds are social subjects with agency in themselves. In the light of this theoretical framework, the chapter analyses the work of the Dutch designer Iris van Herpen, especially in her collections of 2021 and 2022 which are based on the active role of objects: clothes, fabrics, technologies, atmospheric agents such as the wind etc. In this way, the designer produces different forms of hybridization among the human body, the animal and plant worlds, and the digital ecosystem. The article will highlight the forms of the reciprocal agency between human bodies and the bodies of objects, between emotions and new technological materials, between sustainable ICTs and aesthetics in van Herpen s work showing how the current idea of coded couture is released from its m ere algorithmic functionality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2765", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Patrizia Calefato", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "220-226", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Patrizia Calefato", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "220", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "226", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Ibridi alla moda: Iris van Herpen e le metamorfosi della coded couture", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2765/2183", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Hybrid, Unique and Collectible Models: Toward a Semiotics of Consumption in the Metaverse", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Metaverse evokes a second spatiality, that of purchase, first virtual, then actualized as the only way to adhere to the object and thus the value system, in a consumption scenario in which consumer goods are increasingly rare and limited editions. Achieving the purchase is no longer a playful aesthetic experience but a glorifying trial in which status recognition is at stake. Following instructions also means adhering to the imposed corporeality to maintain a reputation, which means representing oneself i ntersubjectively. For example, not beingable to obtain an expensive NFT excludes one from a cultural niche, a form of life, or a way of telling a story. If the nature of the experience is not substantial, it cannot even be called imaginary because it is e xperienced as a pleasure that finds its expression in the process of search and choice. The mere visual contact with the good, placed in a digital public context, actualizes the desire for consumption. Thus, aesthetic satisfaction and self esteem could rep lace the deprivation of material substance in the metaverse. So, it is necessary to explore the metaverse from the Latourian perspective and observe it starting from the hybridization.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2766", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Bianca Terracciano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "227-242", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Bianca Terracciano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "227", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "242", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Modelli ibridi, unici e collezionabili: verso una semiotica dei consumi nel metaverso", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2766/2184", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Stereotypes and Prejudices. From Social Sciences to Semiotics", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This paper draws from the social sciences the notion of stereotype, as it relates specifically to people and social groups, by surveying how, from the 1950s to the present, social psychology has elaborated and discussed it in a systematic and empirically grounded way. It then distinguishes stereotypes and prejudices, showing how stereotyping and categorization follow similar processes, and how it is necessary to acknowledge, not only in scholarship but in social practice, the unavoidability of stereotypes, in order to overcome them and prevent them from leading to discriminatory attitudes. Finally, some concepts from Umberto Eco’s interpretive semiotics and Algirdas J. Greimas’ generative semiotics are proposed, which the author believes are most helpful in setting up a semiotic analysis of stereotypes that can empirically and operationally dialogue with both social psychology and social semiotics.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2767", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giovanna Cosenza", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Miscellaneous", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "243-257", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giovanna Cosenza", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "243", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "257", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Stereotipi e pregiudizi. Dalle scienze sociali alla semiotica", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2767/2185", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The Semiotic Theory of Pier Paolo Pasolini. An Introduction", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The aim of this paper is to describe, in a concise, orderly and coherent manner, Pier Paolo Pasolini's semiotic theory. The aim is therefore to research, synthesise and systematise Pasolini's reflections and arguments on semiotics as theory, especially in the texts written between 1965 and 1971 and later collected in Heretical Empiricism. For ease of exposition, these reflections and arguments will be divided into five relevant sections: the grammar of film language, sign image and double articulation, trans-structural sign transformations, cinema as the written language of reality and the semiotics of the reality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2768", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Mirko Lampis", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Miscellaneous", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "258-273", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Mirko Lampis", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "258", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "273", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "La teoria semiotica di Pier Paolo Pasolini. Studio introduttivo", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2768/2186", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Narration and Aesthetic Experience. Incredulità di san Tommaso by Caravaggio", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "  ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2769", "Issue": "37", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Peter Fröhlicher", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Materiali", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2023-07-27", "date": null, "dateSubmitted": "2023-07-27", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-07-27", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-07-27", "nbn": null, "pageNumber": "274-284", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Peter Fröhlicher", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2023/07/27", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "274", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "37", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "284", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Narrazione ed esperienza estetica. L’incredulità di san Tommaso di Caravaggio", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2769/2187", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Index", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": " \r\n ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2521", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Editorial Office", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Indice", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-01-04", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Editorial Office", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/01/04", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Indice", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2521/2000", "volume": null } ]
Rivista dell’Associazione Direttore responsabile Italiana di Studi Semiotici Gianfranco Marrone mimesisjournals.com Anno XVI, n. 36 - 2022 ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 Lo sguardo turistico: luoghi, discorsi e pratiche n.36 EC a cura di Dario Mangano e Luigi Virgolin contributi di: Giuditta Bassano Massimo Giovanardi Carlo Andrea Tassinari Mohamed Bernoussi Giorgio Grignaffini Bianca Terracciano Denis Bertrand Dario Mangano Ilaria Ventura Bordenca Marianna Boero Francesco Mangiapane Luigi Virgolin Daniela D’Avanzo Tiziana Migliore Salvatore Zingale Giacomo Festi Giampaolo Proni Alice Giannitrapani Simona Stano EIC - Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici mimesisjournals.com Direttore responsabile Gianfranco Marrone (Università di Palermo) Vicedirezione Alice Giannitrapani (Università di Palermo) Ilaria Ventura Bordenca (Università di Palermo) Comitato Scientifico Juan Alonso Aldama (Université Paris Cité) Kristian Bankov (New Bulgarian University, Sofia) Pierluigi Basso Fossali (Université Lumière Lyon 2) Denis Bertrand (Université Paris VIII, Saint-Denis) Lucia Corrain (Università di Bologna) Nicola Dusi (Università di Modena e Reggio Emilia) Jacques Fontanille (Université de Limoges) Manar Hammad (Université Paris III) Rayco Gonzalez (Universidad de Burgos) Tarcisio Lancioni (Università di Siena) Massimo Leone (Università di Torino) Anna Maria Lorusso (Università di Bologna) Dario Mangano (Università di Palermo) Francesco Mangiapane (Università di Palermo) Tiziana Migliore (Università di Urbino) Claudio Paolucci (Università di Bologna) Gregory Paschalidis (Aristotle University of Thessaloniki) Paolo Peverini (LUISS, Roma) Isabella Pezzini (Università La Sapienza, Roma) Piero Polidoro (LUMSA, Roma) Maria Pia Pozzato (Università di Bologna) Franciscu Sedda (Università di Cagliari) Marcello Serra (Universidad Carlos III de Madrid) Stefano Traini (Università di Teramo) Patrizia Violi (Università di Bologna) Comitato editoriale Carlo Campailla, Giorgia Costanzo, Maria Giulia Franco, Mirco Vannoni, Anna Varalli Metodi e criteri di valutazione La rivista adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima (double blind peer-review). Testata registrata presso il Tribunale di Palermo, n. 2 del 17.1.2005 Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ISSN (on-line): 1970-7452 ISSN (print): 1973-2716 ISBN: 9788857598390 Fotografia in copertina di Gianfranco Marrone. © 2022 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 EIC - n. 36 Lo sguardo turistico: luoghi, discorsi e pratiche a cura di Dario Mangano e Luigi Virgolin INDICE Introduzione....................................................................................................................................................................................................pp. 1-6 Introduction Luigi Virgolin The love boat. La crociera come eterotopia.....................................................................................................................................................pp. 7-18 The Love Boat. The Cruise as a Heterotopia Alice Giannitrapani Spiagge. Cinque discorsi tra sostanze e forme della soglia terra-mare......................................................................................................... pp. 19-35 Beaches. Five Discourses about the Land-and-sea Threshold between Substances and Forms Giuditta Bassano Semiotica per aeroporti. I pittogrammi di viaggio tra identità visive e aperture all’alterità............................................................................ pp. 36-51 Semiotics for Airports. Travel Pictograms between Visual Identities and the Opening to the Alterities Salvatore Zingale, Daniela D’Avanzo Modelli socio-semiotici in alcune campagne turistiche regionali................................................................................................................ pp. 52-63 Socio-semiotic Models in some Regional Touristic Campaigns Giorgio Grignaffini Autosemantizzazione delle identità locali sulla costa romagnola e loro impatto sulla comunicazione turistica ............................................ pp. 64-71 Self-semantisation of Local Identities on the Romagna Riviera and its Impact on Tourist Communication Massimo Giovanardi, Giampaolo Proni Valori e immaginari turistici ai tempi del Covid-19: la comunicazione pubblicitaria.......................................................................................pp. 72-83 Values and Imagieries of Tourism Advertising at the Time of Covid-19 Pandemic Marianna Boero Quando il monumento si antropomorfizza: la Corea del Sud narrata dai BTS............................................................................................... pp. 84-96 When the Monument Becomes Anthropomorphized: South Korea Narrated by the BTS Bianca Terracciano Raccontare lo street food in viaggio: critica del giudizio turistico................................................................................................................ pp. 97-110 Street Food and Travel Storytelling: a Critique of Tourist Judgment Ilaria Ventura Bordenca Discorso turistico-enologico sull’aura in Un’ottima annata di Ridley Scott....................................................................................................pp. 111-130 Tourism-oenological Discourse on the Aura in A Good Year by Ridley Scott Francesco Mangiapane Turismo/migrazione. Termini di una categoria enantiomorfa.......................................................................................................................pp. 131-141 Tourism/Migration. Terms of an Enantiomorphic Category Tiziana Migliore Wildlife Watching Tourism. Una zampata semiotica sul caso trentino dell’orso............................................................................................ pp. 142-152 Wildlife Watching Tourism. A Semiotic Gushing over the Trentino Case of the Bear Giacomo Festi Tra lo sguardo e la presa: testi, discorsi e pratiche dell’(anti)turismo contemporaneo................................................................................pp. 153-161 Between the Sight and the Grasp: Texts, Discourses and Practices of Contemporary (Anti)Tourism Simona Stano EIC - n. 36 Un’altra Sicilia. La costruzione turistica del regno antimafia...................................................................................................................... pp. 162-176 Another Sicily. The Touristic Construction of the Antimafia Kingdom Carlo Andrea Tassinari Conclusioni...............................................................................................................................................................................................pp. 177-179 Conclusion Dario Mangano Miscellanea Prolégomènes à une culture du Tberguigue, ou le voir marocain entre sémiosphère et encyclopédie.......................................................pp. 180-194 Prolegomena to a Culture of Tberguigue, or the Moroccan See Between Semiosphere and Encyclopedia Mohamed Bernoussi Materiali La scrittura dell’esperienza estrema......................................................................................................................................................... pp. 195-204 Writing the Extreme Experience Denis Bertrand
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[ { "Alternative": "Introduction", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": " \r\n ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2522", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Luigi Virgolin", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Introduzione", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "1-6", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Luigi Virgolin", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "1", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "6", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Introduzione", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2522/2001", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "The Love Boat. The Cruise as a Heterotopia", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "On a cruise, spatial coordinates are suspended (orientation with respect to the land and to the labyrinthine plan of the ship is lost), as well as the temporal dimension (time is marked by the palimpsest of daily activities rather than by clocks), and the actor’s characteristics (with the alteration of some of the identity traits of the subjects inv olved). The passenger experiences on the voyage an “o ther self, one that in some ways cannot be revealed within everyday life. And the boat becomes the place in which a series of paradoxes are realised: the realm of the freedom, but also a form of holiday slavery in which everything is capillarily foreseen beforehand; a space in which apparent luxury is made evident, but also latent poverty; an emblem of great relaxation, but also of hyper activity. The contribution dwells on the analysis of cruise tourism following as a line of interpretation that of the ship as a heterotopia.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2523", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Alice Giannitrapani", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "The love boat. La crociera come eterotopia", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "7-18", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Alice Giannitrapani", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "7", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "18", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "The love boat. La crociera come eterotopia", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2523/2002", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Beaches. Five Discourses about the Land-and-sea Threshold between Substances and Forms", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "In this contribution we will investigate a number of issues relating to the beach and its specific role as a threshold. We will begin by framing the tourist phenomena related to the beach in a semiotic sense. In a second moment we will ropose to broaden our gaze beyond tourist phenomena, beyond images of the beach, for that the land-sea threshold can be considered a specific operator in terms of general and heterogeneous processes of differentiation and individuation. We will therefore explore five different types of discourses that bring into play its political, aesthetic, legal and moral valences. Each of these discourses will be distinguished by the role that the land-sea threshold plays therein in precise problems of defining territories, zones, limits. Finally, we will try to focus on the concept of threshold and its link to the beach in terms of the relationship between substances and forms according to L. Hjelmslev.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2524", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giuditta Bassano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Spiagge. Cinque discorsi tra sostanze e forme della soglia terra-mare", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "19-35", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giuditta Bassano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "19", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "35", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Spiagge. Cinque discorsi tra sostanze e forme della soglia terra-mare", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2524/2003", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Semiotics for Airports. Travel Pictograms between Visual Identities and the Opening to the Alterities", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The semiotic perspective on the tourism cannot forget to take into consideration the places of travel and the places of transit. Among these, the airports have a particular relevance, being one of the main access points for the touristic flows. They are often seen as small self-standing citadels, with their own identity given by being a place of intra- and intercultural exchange. Both small and big hubs see the intertwining of different cultures and the necessity to communicate efficiently for each of them. One of the inevitable communication tools in an airport is wayfinding, the orientation system that guides passengers both in functional places and in places to rest, helping travelers during all their journey, from the entrance in the airport to their final destination. To succeed in a way of communicating that has to be linguistical and cultural transversal, wayfinding systems are made of an intertwining of elements, related to each other to facilitate the comprehension beyond the national languages. One of the main elements that goes in this direction is the pictogram. The aim of this paper is to investigate the communicative efficiency of the pictogram systems in airports located in different places, with different cultures and languages, in order to observe (i) to which extent the tendency towards a universalization of the pictographic language is affirming itself, (ii) on the other side, how far the preservation and display of aspects of identity persists, (iii) if and how there may be possible developments for a more efficient translinguistical communication, between the affirmation of the cultural identities and the opening to the alterities that the tourism brings together. To this extent three case studies have been considered: the wayfinding systems and related pictographic systems of Schipol Airport, Koln-Bonn Airport and Hamad Airport.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2525", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Daniela D’Avanzo", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Semiotica per aeroporti. I pittogrammi di viaggio tra identità visive e aperture all’alterità", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "36-51", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Daniela D’Avanzo", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "36", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "51", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Semiotica per aeroporti. I pittogrammi di viaggio tra identità visive e aperture all’alterità", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2525/2004", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Socio-semiotic Models in some Regional Touristic Campaigns", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The essay focuses on the advertising campaign produced in view of the 2021 tourist season by some Italian regions. Through the analysis of the textual strategies used, in particular from an aspectual point of view, it appears that the aim of the campaigns is an “experiential” tourist offer, i.e. intended to propose a veritable existential transformation to the tourist. The spots and posters analysed therefore always offer images of places emptied of human presence and capable of projecting the tourist into a different dimension, to mark the distance from everyday life and the restrictions caused by the pandemic. But on deeper analysis, the textual strategies used appear stereotyped and portray a figure of the tourist only superficially immersed in a different reality.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2526", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giorgio Grignaffini", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Modelli socio-semiotici in alcune campagne turistiche regionali", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "52-63", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giorgio Grignaffini", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "52", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "63", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Modelli socio-semiotici in alcune campagne turistiche regionali", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2526/2005", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Self-semantisation of Local Identities on the Romagna Riviera and its Impact on Tourist Communication", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "The paper provides a self reflective account on the problems encountered by the Authors during their research on destination rebranding on the Romagna Riviera. The methodologic approach combines methods typical of socio cultural marketing with sociosemioti cs. The local context comprises a number of small seaside destinations that appear to be quite homogeneous in terms of their built environment and the main products offered. And yet, local stakeholders seem to show a strong self asserted identity and they struggle in casting a more objective perspective on the semantic values they are supposed to convey to the outside world. This situation causes a number of problems that are presented and critically analysed. Possible solutions include a greater involvemen t of local stakeholders in the research design process and definition of the research goals, with a view to strengthen the cooperative relationship between the client and the academic consultant.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2528", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giampaolo Proni", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Autosemantizzazione delle identità locali sulla costa romagnola e loro impatto sulla comunicazione turistica", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "64-71", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giampaolo Proni", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "64", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "71", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Autosemantizzazione delle identità locali sulla costa romagnola e loro impatto sulla comunicazione turistica", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2528/2007", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Values and Imagieries of Tourism Advertising at the Time of Covid-19 Pandemic", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "During the COVID-19 pandemic, the way of doing and experiencing tourism in Italy has undergone a significant change. The planning of cross-border holidays was quickly replaced, by the idea of a proximity tourism, oriented by the “practical” value of safety and aimed at the (re) discovery of small villages, localities and itineraries within national borders. Advertising has played a key role in communicating such a change, conveying the emerging themes, values and sensibilities. The semiotic analysis of tourism advertising during the pandemic allows us to observe and to grasp the social change and, specifically in this study, the change in the meaning of tourism, presenting itself as a language capable of creating new values around the themes of travel, holiday and territorial identity. Precisely with the aim of analyzing the way the tourist imaginaries and meanings within the advertising narratives have changed in the different phases of the pandemic, this paper focuses on a corpus of national and regional commercials, relating to the period 2020-2021. The aim is to highlight, through a semiotic analysis, the themes, the narrative strategies, the predominant values, the stereotyping dynamics of tourism discourse, as well as the effects of meaning that derive from the dialogue between the advertising and the tourism discourse in the semiosphere.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2529", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Marianna Boero", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Valori e immaginari turistici ai tempi del Covid-19: la comunicazione pubblicitaria", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "72-83", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Marianna Boero", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "72", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "83", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Valori e immaginari turistici ai tempi del Covid-19: la comunicazione pubblicitaria", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2529/2008", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2530
[ { "Alternative": "When the Monument Becomes Anthropomorphized: South Korea Narrated by the BTS", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "BTS produces meaning through the many kinds of “correlated to their activity as artists: not only songs and MVs, but also events, objects, pop up shops, SNS posts, and more. These texts are enunciated, constructed, and narrated, representing different actions and feelings connected to the identity of BTS. In the production of meaning resides the difference between signification and communication. Meaning is produced not only through intentional communication, like song l yrics or SNS statements, but also through ‘messages' that circulate independently, such as signs, symbols, images, and places that become significant within MVs or TV series. It is not a matter of describing a state of affairs correlated to a topic or a th eme but of depicting the emotions to be experienced. The stories related to BTS activities can emotionally involve people, create new experiences and flows, and actively engage fandom in their support. The route BTS took in their career has had a steady compass, their individual and cultural identity, which has ensured the correct interpretation of the map of the soul whose stages have been many and have touched on areas as diverse as music, comics, art, fashion, and literature. In this way, the se ven guys have been able to translate themselves and Korean habits to people of all nations and ages. From this hypothesis, I will demonstrate how the BTS have become a disseminated monument to “ by becoming attractors of interest in their heritage culture.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2530", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Bianca Terracciano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Quando il monumento si antropomorfizza: la Corea del Sud narrata dai BTS", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "84-96", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Bianca Terracciano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "84", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "96", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Quando il monumento si antropomorfizza: la Corea del Sud narrata dai BTS", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2530/2009", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Street Food and Travel Storytelling: a Critique of Tourist Judgment", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This paper is about tourist reviews of a specific gastronomic universe: street food. Specifically, I will deal with reviews from the Tripadvisor platform dedicated to street food places in the city of Palermo. The idea of focusing on reviews comes from the hypothesis that, since this type of textuality is an utterance at the end of a path, and is therefore the Sanction in narrative terms, we can reconstruct from reviews, by presupposition, the value systems that the enunciator tourist projects on the gastro nomic experience. That is, if there is a judgment it is because there is a preceding Contract, more or less explicit, very often implicit, that is grounded in a set of values that constitute the tourist’s expectation with respect to the food experience rel ationship of the place.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2531", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Ilaria Ventura Bordenca", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Raccontare lo street food in viaggio: critica del giudizio turistico", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "97-110", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Ilaria Ventura Bordenca", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "97", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "110", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Raccontare lo street food in viaggio: critica del giudizio turistico", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2531/2010", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2532
[ { "Alternative": "Tourism-oenological Discourse on the Aura in A Good Year by Ridley Scott", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This essay follows fits into an ongoing project dedicated to highlighting the rhetorical and ideological representations of food and wine in cinema It carries out a semiotic analysis of the film A good year (by Ridley Scott, with the aim of identifying the role that wine plays in it and in the touristic imaginary about it. The essay pursues this goal by facing the issue of authenticity in tour ism as posed by Culler and by reconstructing the implicit aesthetic and touristic theory on which the film may be positioned. Then, it proceeds by getting into a reconstruction of the ideologic role played by the settings and the spaces represented in it. A spatial dialectic among city and country gets outlined which will allow to identify two competing forms of life one metropolitan, the other related to the living in the country. By highlighting the differences among them, the article seeks to define th e terms of the proposal which eno tourism makes to the urban citizen tempted of visiting wine lands. Moreover, the analysis will highlight how the film takes position in a wider discourse on how to assess the trip, raising the issue of how to behave in fac e of the transformation of identity that one may experience during his “How to think the trip? As a “ from ordinary life that once concluded may be dismissed or as a transformation which aims at being taken seriously and assumed definit ely and indefinitely? The incertitude which the protagonist will fall into about whether to move in the French countryside or getting back in his context of life gets solved by means of an explicit discourse on the aura and on the role which perception and aesthetics should play in everyday life, that is the actual core of the proposal carried by the film and by the touristic ideology of wine that may be recognized in it.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2532", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Francesco Mangiapane", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Discorso turistico-enologico sull’aura in Un’ottima annata di Ridley Scott", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "111-130", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Francesco Mangiapane", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "111", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "130", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Discorso turistico-enologico sull’aura in Un’ottima annata di Ridley Scott", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2532/2011", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Tourism/Migration. Terms of an Enantiomorphic Category", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "This article examines a relationship, which in the last decades has become increasingly recurrent, the one between tourism and migration. Under the complex macrocategory of mobility, two narrative programmes stand out about the couple tourism/migration: leaving home temporarily for pleasure, to enjoy a holiday, and leaving home permanently for duty, to work, to improve one’s social status or in order to escape from war, persecutions or cataclysms. While some political parties and press organs instrumentalise these differences, by enhancing the circulating stereotypes to give a positive vision of the tourist and a negative one of the migrant, the mobile condition of today, no longer as a sporadic fact but almost as a norm for individuals and groups, facilitates the associations and marks an intermediate form of life that we all persons share: wandering. Thus, tourism and migration, in many discourses and representations, appear to be the enantiomorphic image of each other, in the Lotmanian sense of dialogical mechanisms that are specularly equal, but unequal if they overlap: an ironic mirror of the paradoxes of the globalized world. A Banksy’s left-hand campervan and artistic tour in August 2021, satirizing on the government suggestion to domestic vacations, exposes tourism and migration as the flip side of each other’s coin. We will analyse the artistic video that Banksy posted after his way around on his Instagram page, A Great British Spraycation to see how this particular declination of the “street art” sheds light into the issue.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2533", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Tiziana Migliore", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Turismo/migrazione. Termini di una categoria enantiomorfa", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "131-141", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Tiziana Migliore", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "131", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "141", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Turismo/migrazione. Termini di una categoria enantiomorfa", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2533/2012", "volume": null } ]
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[ { "Alternative": "Wildlife Watching Tourism. A Semiotic Gushing over the Trentino Case of the Bear", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Tourism interested in observing wild animals like big predators in their own environment has recently appeared in Trentino, following the planned reintroduction of bears, part of the Life Ursus project, whose essential steps are taken up here. The practic e of bear watching is analysed semiotically, in comparison with the better known bird watching and in relation to photographic capture, a sort of predatory act projected onto the image. The generalized conflictual quality among the various actors implied, human and animal, at the heart of the project, makes it difficult to determine the tourist offer, within the theoretical framework of a touristization process. The Trentino case is finally compared with other territories, Churcill ( and the Rodopi m ountains in Bulgaria, where human animal relations have a long history and divergent directions. A semiotics of tourism is rethought within the framework of a semiotics of culture and the interaction between a multiplicity of levels of analysis.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2534", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Giacomo Festi", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Wildlife Watching Tourism. Una zampata semiotica sul caso trentino dell’orso.", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "142-152", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Giacomo Festi", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "142", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "152", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Wildlife Watching Tourism. Una zampata semiotica sul caso trentino dell’orso.", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2534/2013", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2535
[ { "Alternative": "Between the Sight and the Grasp: Texts, Discourses and Practices of Contemporary (Anti)Tourism", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Dealing with tourism today involves considering a varied set of texts, discourses and practices, opening the way to multiple declinations, segmentations and valorisations. On the one hand, so-called “antitourism” (intended as a strong opposition to tourism and tourists) recalls and expands a conception of tourists as “fake travellers”. On the other hand, contemporary tourism practices seem to challenge such an idea, paving the way for new axiologies and forms of “(anti)tourism” (intended as a new approach to tourism, based on its “slow”, “ethical”, “sustainable” and “experiential” character — to recall some common denominations). This paper analyses such an ambivalence, paying particular attention to crucial semiotic issues: the reflection on authenticity; the relationship between tourism and everyday life; and the transition from a “representational” (Savoja 2005) imaginary of tourism, based on a more or less stereotyped conception of the “sight” (i.e. a superficial, hasty gaze, subject to distractions and temptations, see Volli 2003), to the definition of an active, “performative” (Gemini 2008) role played by the tourist, which finds a fundamental figure in the “grasp”.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2535", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Simona Stano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Tra lo sguardo e la presa: testi, discorsi e pratiche dell’(anti)turismo contemporaneo", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "153-161", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Simona Stano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "153", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "161", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Tra lo sguardo e la presa: testi, discorsi e pratiche dell’(anti)turismo contemporaneo", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2535/2014", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2536
[ { "Alternative": "Another Sicily. The Touristic Construction of the Antimafia Kingdom", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": "Tourism encompasses a variety of semiotic performances overwriting cities’ identity. This paper focuses on the rebranding of Palermo as “the capital of antimafia” through an ethnosemiotic analysis of four tours sponsored by the antimafia association Addiopizzo and its touristic spin-off AddiopizzoTravel. The aim of the work is to underscore how the link between antimafia memory and the genius loci of Sicily is built by AddiopizzoTravel, thus revisiting the critical opposition “tourist” vs “traveler” from an “antimafia” perspective. In order to do so, the paper mobilizes the concepts of rhetoric of space and of enunciative praxis, showing how antimafia guided tours reinterpret the cultural and semantic sedimentation embodied by the cityscape. In particular, the analysis illustrates how AddiopizzoTravel carves out an image of “authentic Sicily” from the cultural backdrop of patrimonialization processes Palermo underwent from the 90, and from different, conflicting layers of antimafia memory that its narrative tries to reconcile. With all the difficulties this reconciliation entails.", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2536", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Carlo Andrea Tassinari", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Un’altra Sicilia. La costruzione turistica del regno antimafia", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "162-176", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Carlo Andrea Tassinari", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "162", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "176", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Un’altra Sicilia. La costruzione turistica del regno antimafia", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2536/2015", "volume": null } ]
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https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/view/2538
[ { "Alternative": "Conclusion", "Coverage": null, "DOI": null, "Description": " \r\n ", "Format": "application/pdf", "ISSN": "1970-7452", "Identifier": "2538", "Issue": "36", "Language": "it", "NBN": null, "PersonalName": "Dario Mangano", "Rights": "", "Source": "E|C", "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": "Conclusioni", "Type": "Text.Serial.Journal", "URI": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec", "Volume": null, "abbrev": null, "abstract": null, "articleType": "Articoli", "author": null, "authors": null, "available": null, "created": "2022-04-03", "date": null, "dateSubmitted": "2023-04-17", "doi": null, "firstpage": null, "institution": null, "issn": null, "issue": null, "issued": "2023-04-17", "keywords": null, "language": null, "lastpage": null, "modified": "2023-04-18", "nbn": null, "pageNumber": "177-179", "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": null, "url": null, "volume": null }, { "Alternative": null, "Coverage": null, "DOI": null, "Description": null, "Format": null, "ISSN": null, "Identifier": null, "Issue": null, "Language": null, "NBN": null, "PersonalName": null, "Rights": null, "Source": null, "Sponsor": null, "Subject": null, "Title": null, "Type": null, "URI": null, "Volume": null, "abbrev": "1", "abstract": null, "articleType": null, "author": "Dario Mangano", "authors": null, "available": null, "created": null, "date": "2022/04/03", "dateSubmitted": null, "doi": null, "firstpage": "177", "institution": null, "issn": "1970-7452", "issue": "36", "issued": null, "keywords": null, "language": null, "lastpage": "179", "modified": null, "nbn": null, "pageNumber": null, "readable": null, "reference": null, "spatial": null, "temporal": null, "title": "Conclusioni", "url": "https://www.mimesisjournals.com/ojs/index.php/ec/article/download/2538/2016", "volume": null } ]
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