Senza Aristotele niente Sherlock Holmes. È questa, verosimilmente, l’idea alla base di questo giallo investigativo. Il metodo del tipo di detective alla Sherlock Holmes – di enumerare indizi, trarne ipotesi, dedurne nuovi particolari, sino alla spiegazione del delitto e la scoperta conseguente del colpevole – non sarebbe stato possibile se non applicando il metodo dimostrativo della logica aristotelica al crimine. Stefanos, un simpatico giovanotto dell’Atene del IV secolo, dunque, guidato dallo Stagirita che non si muove di casa come Nero Wolfe, indaga sull’assassinio di un ricco oligarca, di cui è accusato ingiustamente il cugino, esule per un precedente errore. Al primo omicidio, ne segue un secondo, e tra colpi di scena, travestimenti, testimonianze reperite avventurosamente, Aristotele alla fine scioglie l’enigma e consente al giovane di smascherare il vero assassino. Ma Aristotele detective è qualcosa di più dello stratagemma curioso per un giallo giudiziario e dimostrativo di taglio classico e denso intreccio. È una specie di esperimento. La scrittrice, Margaret Doody, studiosa di letteratura comparata in una università americana, e convinta di una certa ipotesi sulla nascita del genere romanzesco, vi ha voluto provare l’adattabilità del mondo della Grecia antica (ricostruito con fedeltà filologica e storica) alle emozioni, alle psicologie, alle peripezie del romanzo moderno. Margaret Anne Doody, canadese, è professore di letteratura comparata. I romanzi con Aristotele detective, sono diventati caso letterario anche per l’esattezza dell’ambientazione storica e dei riferimenti culturali. La memoria 442 DELLA STESSA AUTRICE in questa collana Gli alchimisti Aristotele e il giavellotto fatale Aristotele e la giustizia poetica Aristotele e il mistero della vita Aristotele e l’anello di bronzo Aristotele e i veleni di Atene Aristotele e i Misteri di Eleusi Aristotele e i delitti d’Egitto Aristotele e la favola dei due corvi bianchi nella collana «Nuovo Prisma» La vera storia del romanzo Margaret Doody Aristotele detective Postfazione di Beppe Benvenuto Con una nota di Emanuele Ronchetti Sellerio editore Palermo 1978 © Margaret Doody 1999 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo e-mail: info@sellerio.it www.sellerio.it Titolo originale: Aristotle detective Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. EAN 978-88-389-2728-7 I Io, Stefanos Ascoltami, o musa Clio, e aiutami nella stesura di questa storia. I fatti che riferisco sono veri. Io, Stefanos, figlio di Nichiarco, cittadino d’Atene, intendo esporre qui le strane e terribili avventure che mi capitarono nel primo anno della 112ª Olimpiade. Si vedrà così come un uomo della mia casa fu calunniato, come fu riconosciuto innocente, e come un malvagio fu consegnato alla giustizia, per opera degli Dei onnipotenti. Inoltre, potrò così celebrare la sapienza del mio consigliere, Aristotele, che io proclamo, a dispetto di tutti i detrattori, uno degli uomini migliori ed uno dei più grandi filosofi del nostro tempo. Fu nel mese di Boedromione, al calare della terza luna dopo il solstizio d’estate, che si compì il terribile misfatto che doveva avere così lunghe e complicate conseguenze. Il giorno prima aveva avuto già abbastanza grattacapi. Ma è meglio tacere una simile inezia, ché gli dei potrebbero udirla e riderne. Ero molto preoccupato per la mia situazione. Mio padre Nichiarco era morto in primavera, ed io, giovane di ventidue anni, ero rimasto a capo della famiglia, con una madre e un fratello minore a cui provvedere, oltre alla schiera dei domestici e degli schiavi. Mia madre non aveva fratelli, e il fratello di mio padre era morto; così l’andamento di casa dipendeva interamente da me. Con il cuore ancora dolente per la perdita d’un genitore molto amato, dovevo seguire i discorsi dei fattori sulle pecore, il burro e le olive. Invece di studiare al Liceo e seguire la conversazione dei filosofi, mi toccava verificare i conti in mezzo al chiacchierio delle donne nel cortile. La mia casa manteneva ogni sorta di bisognosi: gracili vecchiette avvolte in scialli ricevevano in dono pappine d’avena, mentre i loro aitanti schiavi se ne andavano carichi di focacce e olive. Mia madre è una donna di buon cuore e molto ospitale. Ma è più saggio non incoraggiare un eccessivo spreco di olive, vino, focacce e pappine d’avena in gente che non ricambia la generosità, come scoprì Telemaco a Itaca. Tuttavia io non desideravo mostrarmi duro verso i parenti in cerca d’aiuto. Ero sempre disposto a ricevere la vedova del fratello di mio padre, la povera zia Eudossia. La chiamavano tutti così, «la povera Eudossia», non per la sua povertà, ma perché era sempre sofferente e aveva una grave preoccupazione. Era ammalata in verità, benché non si lamentasse come fanno le donne, sempre pronte a lagnarsi di qualche organo che non funziona come dovrebbe; e tuttavia non si riusciva a convincerla a venire a stare con noi; insisteva a tornare nella sua casetta alla periferia d’Atene. Mi era venuto in mente che forse temeva che potessi prenderle la sua proprietà per mio uso, se avesse abbandonato la residenza. Un timore ingiustificato, visto che le leggi degli dei e degli uomini proibiscono una simile perfidia, e io sapevo bene quanto lei che la proprietà apparteneva al suo unico figlio, Filemone. E questo mi porta a ciò che mia madre definiva «il gran cruccio della povera Eudossia». Mia madre pronunciava di rado il nome del figlio d’Eudossia, essendo convinta che avesse attirato il disonore sulla famiglia. Io non riuscivo a pensarla così: in gioventù avevo conosciuto bene Filemone, quasi come un fratello, e l’affetto non poteva svanire, nemmeno dopo i guai che aveva provocato. All’età di diciannove anni era stato coinvolto in una rissa da taverna; non era la prima volta, poiché preferiva sempre il confronto fisico a quello intellettuale. Uno dei suoi pugni aveva ucciso un uomo, e mio cugino, senza attendere di prender congedo da noi, era balzato sulla prima nave in partenza dal Pireo, scomparendo nel vasto mondo. La faccenda finì davanti al tribunale, ma i magistrati furono clementi: Filemone fu condannato all’esilio e diffidato dal ricomparire in Atene sotto pena di morte, ma la sua eredità non fu confiscata. Si poteva sempre sperare in un’amnistia che un giorno o l’altro lo riportasse a casa e gli rendesse i diritti civili. Non sapevamo dove fosse, ma ci erano giunte voci confuse che era andato verso sud con la nave e che, dopo aver errato nelle isole meridionali, era divenuto soldato. Questo non sembrava improbabile: in verità in quel momento i militari erano ricercati, poiché Alessandro di Macedonia stava avanzando nell’Asia Minore. Si prospettavano delle accanite battaglie, e sapevo che a Filemone sarebbero piaciute. Era una specie d’Achille, non di Ettore: gli piaceva la guerra per la guerra. Io speravo che non finisse ammazzato. Pensai a lui molto sovente nell’estate dopo la morte di mio padre: me lo immaginavo in giro per il mondo, mentre a me toccava star fermo a casa. Avrei voluto averlo vicino per potergli parlare, e invece non c’era. Era meglio non dire queste cose alla presenza delle donne, perché la zia Eudossia si metteva a singhiozzare e a gemere: «Oh, il mio povero ragazzo! Non lo rivedrò mai più! Ahimè, ahimè!». Allora mia madre scoppiava in lacrime anche lei, e la domestica e la schiava giù a piangere per tener loro compagnia. Queste cose non erano le sole a pesarmi sul cuore. Mio padre era stato largo nelle spese, e adesso avevamo meno denaro di quanto immaginassi. Era stato concordato che io sposassi Carmia, la figlia di un concittadino eminente, Callimaco, ma dopo la morte di mio padre l’eminente concittadino sembrava meno propenso a dar corso al progetto. Desiderava che la nostra famiglia destinasse a me ed a Carmia grossi regali al momento delle nozze, e nel corso dell’estate mi resi conto che avrei dovuto vendere una vigna per far fronte agli impegni. Era la più piccola e modesta delle vigne, non potevamo permetterci di intaccare maggiormente la proprietà. Verso il principio del Boedromione la vendita parve decisa, ma dopo averci pensato un po’ il compratore preferì non farne nulla, con mio grave disappunto. Desideravo vivamente sposarmi, nonostante avessi già tante donne per casa. Mia madre non sa condurre bene le faccende domestiche, si perde in chiacchiere e piange con facilità. Mio fratello era troppo giovane per poterci parlare. Inoltre, mi ero abituato all’idea di avere in moglie la figlia di Callimaco. Avevo sentito dire, e non solo da suo padre (il venditore che non vanta la sua merce è un imbecille), che Carmia era una ragazza di buon senso e industriosa, e attraverso i soliti pettegolezzi delle donne avevo sentito anche che era di bell’aspetto e con l’aria di poter mettere al mondo dei bei bambini. Non sta bene che i giovani siano troppo curiosi in faccende del genere, ma a nessuno piacerebbe sposare una gobba bisbetica, e che Venere ci liberi da una donna sterile. Una moglie, dei figliuoli: è questo che ci vuole perché un uomo si senta a posto, come in una propria cittadella. Il mio desiderio di sposarmi era ben altro che la smania che si può soddisfare con una notte di bagordi insieme a una femmina compiacente in una casa chiusa. Nel rileggere le note che ho buttate giù, m’accorgo di essermi allontanato dall’argomento principale, il che non si addice a un bravo studente di retorica, né ad una mente esercitata nella pratica legale. Come disse il giudice al contadino, lascia perdere le chiazze sulla madre della mucca e veniamo alla mucca in questione. Forse, inconsciamente, allontano il momento che deve venire, perché sarò costretto a rivivere la mia prima esperienza di un atto malvagio, spaventoso ed empio. Per lo meno adesso voi potete capire come mai nella notte precedente quel memorabile terzo giorno della seconda settimana del mese io non riuscissi a dormire. Me ne stavo disteso, domandandomi se e come mi sarei sposato, e crucciandomi per quella maledetta vigna. Finalmente mi alzai, e senza perder tempo a svegliare uno schiavo, accesi una lampada e cercai di leggere. Ma la testa e il cuore erano troppo pesanti, e così pensai di fare quattro passi. Mancava poco all’aurora: presto la città si sarebbe ridestata. II Omicidio ad Atene Mi avviai per le vie silenziose, lasciando che il ritmo dei miei passi agisse come calmante sui miei pensieri. Sentivo il vento freddo che soffia prima dell’aurora, ed ero lieto del mantello di lana che mi ero gettato sulle braccia nude e la tunica corta. Gli uccelli cominciavano a cantare, e mi parve di sentire il grido dei gabbiani. Pensai a Filemone rifugiato su una nave, e mentre passavo davanti a un tempietto di Poseidone, dissi una preghiera per mio cugino e promisi un sacrificio. Non c’era modo di sapere dove fosse: magari sul mare. Molte volte avevo rivolto preghiere per lui a Zeus, protettore di tutti i forestieri e i viandanti. La brezza spirava più fresca, con un umido profumo di giardini: non più l’odore dell’estate e non ancora quello del pieno autunno. Poi l’oriente divenne grigio, e la forma del colle Licabetto divenne chiaramente visibile. Veniva l’aurora, una lieve tinta di zafferano si spandeva nel cielo. Riuscivo a vedere la strada davanti a me, ed anche il tempietto votivo al fondatore degli Eupàtridi, eretto nel demo in cui abitano tanti cittadini nobili e ricchi. Le mura di cinta nude delle grandi dimore non erano più buie, ma di un grigio pallido. Pensavo al sorger del sole e cercavo di ricordare i versi di Omero in proposito, quando un gran tumulto di voci e grida provenienti dalla casa alle mie spalle mi fecero trasalire. Prima che potessi giungere sul posto, le grida si erano alzate di tono. Due uomini lasciarono la casa di fronte e si affrettarono verso il luogo da dove proveniva il baccano. Il portone del cortile era spalancato quando vi arrivai, e i due uomini lo stavano attraversando, diretti alla porta di casa. Nella corte, uno schiavo balzava ora su un piede, ora sull’altro, urlando: «Hanno ucciso il padrone! Hanno ucciso il padrone!». Lo superai, e lui non si fermò per chiedere il mio nome, ma continuò stupidamente a fare ciò che al momento evidentemente considerava il suo compito più importante, ostinandosi ad urlare. Io seguii gli altri due uomini, un maestoso cittadino e il suo schiavo personale, verso la porta interna; sentivo che altri stavano entrando dietro di me. Non so perché sentissi di dover entrare: una irresponsabile curiosità mi spingeva avanti. Come riferisce Platone, Socrate raccontò la storia di un tale che sapeva di un mucchio di cadaveri decapitati dietro un muro, uomini giustiziati di recente. Quest’uomo si sforzava di camminare rasentando il muro, senza cedere alla tentazione di correre dall’altra parte e scrutare l’orribile spettacolo, ma non poté resistere e guardò, imprecando ai propri occhi: «Ecco! Saziatevi di questa vista deliziosa!». Senza dubbio esiste una sorta di voluttà, non degli occhi, ma della parte più ignobile della mente nel contemplare cose terribili, e così dev’essere stato nel mio caso, benché, a differenza dall’uomo descritto da Socrate, non sapessi esattamente dove andassi, né cosa stessi per vedere. Ma lo seppi ben presto. Seguii gli altri due che, superata la porta interna della casa e poi un’altra porta, entrarono in una stanza. La mia prima impressione fu di un locale abbastanza spazioso e scarsamente illuminato, con dentro cinque persone oltre me: tre cittadini ateniesi e due schiavi. Ovvero, c’erano sei altre persone nella stanza, cinque vive e una morta. Là, in mezzo al pavimento, giaceva il padrone di casa, in una posa disadatta per ricevere ospiti: l’eminente cittadino Boutades, del clan degli Etioboutadi. Boutades, ex-corègo, trierarca, ricco patrizio, era disteso supino sul pavimento con il corpo contorto da un lato all’altezza della vita, cosicché tutte e due le ginocchia erano rivolte lateralmente. Il trierarca Boutades era completamente vestito d’una tunica di lino bianco, o meglio, una tunica che era stata bianca, ma che adesso era inzuppata di sangue vermiglio e tutta striata, come da un’atroce tintura. I suoi occhi vitrei erano rivolti al soffitto. Aveva una freccia conficcata nella gola. Non so per quanto tempo rimasi a guardare come incantato. Sentivo una leggera nausea, ma non desideravo andarmene. Sarei rimasto inchiodato al mio posto, se altri, che affluivano dalla porta, non mi avessero sospinto verso la parete. Mi spostai con cautela lungo la parete in direzione della finestra. Mi rendevo conto che c’era una tavola dietro di me, con sopra un’anfora, e automaticamente badai a non urtarla. I nuovi venuti si affollavano lungo la parete presso la porta. Lo spazio era limitato, e ciascuno si teneva alla larga dal centro della stanza. Quando diedi la prima occhiata a Boutades mi parve che ci fosse intorno un gran silenzio; ma mi ero sicuramente sbagliato, perché appena cominciai a muovermi mi resi conto d’un continuo e acuto urlare di donne, proveniente dalla parte interna della casa; e le grida dello schiavo nel cortile non erano cessate. Mi accorsi anche che una delle persone entrate per prime nella stanza, un uomo bruno, largo di spalle, ritto in piedi presso il cadavere, stava dicendo con foga: – Chi ha compiuto questo delitto? Chi ha ucciso il fratello di mio padre? Che la vendetta degli dei lo colga! Era ovviamente Polignoto, il nipote di Boutades, maggiore di me di quattro anni, già piuttosto noto in Atene. In gioventù era stato un buon ginnasta e un ragazzo brillante negli studi. Era ricco di suo, avendo ereditato il patrimonio paterno, e negli ultimi tempi si diceva che aspirasse, con fondate speranze, alla carriera politica. Si era messo in vista ultimamente offrendosi di fungere da corègo per le prossime celebrazioni di Diòniso. Se la messinscena ha successo, il promotore di una di queste elaborate festività rimane famoso per tutta la vita, e dimostra anche di essere uno degli uomini più facoltosi d’Atene, dato che il costo delle Grandi Dionisiache si misura non in dracme ma in talenti. Da ragazzo avevo ammirato molto Polignoto, per la sua bravura d’atleta e la sua eloquenza nelle discussioni. Avrei dovuto riconoscerlo subito, ma la stanza era semibuia, e per un attimo Persefone mi aveva offuscato la vista. E il forte Polignoto, scapigliato, in una tunica frettolosamente infilata e nemmeno fermata su una spalla, tanto da parer l’indumento d’uno schiavo, Polignoto, smorto nella luce dell’aurora e tremante di dolore e di collera, non somigliava molto al giovane abbronzato che rammentavo. – O Zeus – gridò Polignoto, con voce mezza strozzata, tanto che le parole gli s’incepparono in gola – guarda questo delitto e fa’ vendetta su quelli che tramano offese contro di me, la mia famiglia e la mia tribù! Maledizione all’assassino! – Sapete chi ha compiuto questo misfatto? – domandò Euticleide, un uomo grande e grosso, che abitava nella casa di fronte. Mi rammentai che aveva una lontana parentela tribale con Boutades. Le guance flaccide di Euticleide apparivano d’un pallore malaticcio nella debole luce, ma la voce era ferma. – Come posso saperlo? – esclamò Polignoto. – Un delinquente, uno che trama nelle tenebre! – Calmati, Polignoto – disse il vecchio Telemone. – Faremo vendetta –. Telemone, in piedi a fianco di Polignoto, era evidentemente uno dei primi venuti. La sua presenza era in carattere con lui, poiché era uno che amava le novità. Lo chiamavano tutti «il vecchio Telemone» benché fosse appena, su per giù, dell’età di Boutades, ma era un ometto fragile, dai capelli arruffati, con una generale aria di senilità. Zoppicava anche, e i bambini lo chiamavano «vecchio Gambacorta». Polignoto non fece attenzione alle sue parole, e seguitò a mormorare incoerenti maledizioni, strappandosi i capelli con una mano. – Sì, Polignoto, sta’ calmo – ripeté Euticleide. – Non è il momento per fare scenate da donne. Ci sarà tempo per le lacrime. Adesso devi dirci ciò che è accaduto, o per lo meno quel che ne sai, in modo che possiamo sottoporre il caso al Basileus e far informare l’arconte. – Io lo so – disse Telemone con impazienza. – Sono arrivato qui per primo, subito dopo che il povero Boutades è spirato. Ho sentito tutto dalle labbra di Polignoto, e ho visto… – Preferirei sentir tutto da Polignoto stesso – ribatté Euticleide. – Ragazzo! – aggiunse rivolto allo schiavo – va’ in cucina e chiedi che preparino del pane e del vino per il tuo padrone. Appena lascerà questo luogo d’orrore verrà a prender del cibo. Io credo che Euticleide fosse stato sul punto di ordinare del vino per noi tutti, un gesto del tutto naturale in circostanze normali, e anzi un pensiero sollecito per un uomo sconvolto come Polignoto, ma uno sguardo verso il pavimento l’aveva fermato e indotto a mutare il suo discorso. Sarebbe stato irriverente mangiare o bere in presenza di una morte così violenta. Euticleide stese un braccio e batté gentilmente sulla spalla di Polignoto. Le sue parole riguardo al vino e ora questo gesto furono i primi atti umani normali in quella stanza di morte, ma Polignoto ritrasse la spalla, come un cavallo spaventato che si ritragga da un nuovo padrone. Euticleide, respinto, lasciò cadere il braccio. Lo schiavo uscì rapidamente e, quando aprì la porta, entrò nella stanza un fascio di luce del sole, che sorgeva a oriente, insieme alle alte grida delle donne. Poi la porta si richiuse, lasciandoci in un relativo silenzio e nel chiarore più fioco che si diffondeva a occidente. – Signori – disse Polignoto in un tono più tranquillo – dovete sapere quel che è accaduto, per quanto mi è possibile riferirlo con la mente confusa e la lingua tremante che mi ritrovo. Vi dirò tutto quello che so, che non è molto. Questa mattina presto, proprio allo spuntare dell’alba, sono stato destato da un rumore. Non me ne sono preoccupato, perché spesso mio zio lavora, ahimè, devo dire lavorava, fino a tarda notte o alla mattina presto in questa stanza. Mi sono tirato su e stavo prendendo la tunica, quando mi è giunto un rumore più forte del primo: un crollo fragoroso. Allora sono balzato dal letto e son corso per tutto il portico e giù per le scale, vestendomi in fretta mentre scendevo. Sono entrato in questa stanza e, nella semioscurità, al chiarore della lampada che sta ancora gocciolando su quella tavola, ho visto quello che vedete. Boutades stava disteso esattamente in questa posizione. – Per quanto angosciato dalla sua morte e dal modo innaturale in cui era avvenuta, ho visto subito che cosa doveva essere accaduto. Il mio povero zio stava lavorando a quella tavola, di fronte alla finestra, e nel buio qualcuno deve essere strisciato verso la finestra e deve averlo colpito. Mio zio evidentemente era stato allarmato da qualcosa prima del colpo fatale: forse aveva udito un rumore, o visto una faccia. È chiaro che dev’essersi alzato, e che il suono che mi svegliò era indubbiamente un’esclamazione, unita al rumore dello sgabello spinto indietro. A quel punto, l’assassino deve averlo colpito all’istante, trapassandogli la gola, e Boutades è caduto dov’è disteso ora. Il tonfo che ho sentito era la sua caduta. Guardammo di nuovo Boutades che giaceva sul pavimento, coi piedi vicini alla grande tavola, tra il suo corpo e la finestra. Cadavere, tavola e finestra erano su una linea retta, e la tavola non doveva aver rappresentato un ostacolo per un assalitore deciso ad uccidere un uomo mentre sedeva lì. Lo sgabello spinto indietro era ancora dritto. Sulla tavola, una lampada ridotta agli sgoccioli dell’olio dava gli ultimi bagliori, e tutto l’armamentario di tavolette e di stili non era stato toccato. – Che cos’hai fatto allora? – domandò Euticleide. – Prima di tutto, naturalmente, sono corso presso mio zio per vedere se era ancora in vita, ma era certamente spirato prima che io varcassi la porta. – Che peccato che non abbia avuto tempo di indicare il suo assassino, – disse uno dei cittadini accanto a me. – Non avrebbe potuto dir molto, con una ferita di quel genere – ribatté seccamente Euticleide. – E poi, Polignoto? – Mentre guardavo il corpo di mio zio, stentando a credere ai miei occhi, mi è parso di sentir qualcosa muoversi fuori dalla finestra. Sono corso lì e sono riuscito a distinguere una forma oscura fuori, nel piccolo cortile. È stato allora che mi son messo a gridare per dare l’allarme in casa, e stavo ancora gridando quando Telemone è entrato con il portiere sinopeo. Ho gridato che mio zio era stato ucciso e che l’assassino era lì fuori. Siamo usciti tutti dalla stanza correndo attraverso il cortile verso il giardinetto interno. Proprio mentre passavamo il cancello, abbiamo visto l’assassino saltare al di là del muro. Ho mandato lo schiavo a rincorrerlo, e Telemone e io siamo ritornati da mio zio, in questa stanza, voglio dire. La casa era in grande subbuglio, ma ho chiuso fuori le donne e sono rimasto qui a piangere, a imprecare e a domandarmi che cosa fare. E a questo punto, tu, Euticleide, e gli altri siete entrati a vedere la scena. – Proprio così – disse Telemone. Era stato zitto per un tempo sorprendente, ma ora la sua voce eccitata si faceva riudire. – Stavo venendo a visitare Boutades, e lo schiavo mi aveva fatto entrare e mi stava accompagnando nel cortile. Quando siamo giunti alla porta di casa, ho sentito il grido di Polignoto e sono entrato in fretta, vedendo quello che tutti vediamo ora; e Polignoto stava alla finestra e gridava: «Fermatelo! Fermatelo! All’assassino! Boutades è stato ucciso!». Anch’io sono corso alla finestra, stando attento a evitare il corpo di Boutades. Ho guardato fuori con Polignoto e ho visto una figura scura che si muoveva fra gli alberi. – Avreste dovuto correre fuori a fermarlo, invece di perder tempo a guardare – osservò Euticleide. – Ed è proprio questo che ho fatto – ribatté Telemone. – Siamo usciti tutti subito, io, Polignoto e lo schiavo. Ero anzi il primo alla porta, ma Polignoto mi ha sorpassato al cancello. Lui corre più svelto di me adesso; la mia gamba, sapete… Polignoto è ancora giovane e si tiene allenato, benché io nella mia giovinezza… – Sì, sì, lo sappiamo – disse seccamente Euticleide. Nessun uomo giovane avrebbe giudicato cortese interrompere Telemone, che dopo tutto era un patrizio; ma Euticleide era suo coetaneo. Io credo che gli altri la pensassero come me, che il vecchio sciancato avrebbe dovuto tirarsi da parte. Doveva avere impedito il passo a Polignoto nel suo puerile tentativo di arrivare primo nel giardino. E cosa avrebbe potuto fare contro un assassino robusto e pronto a tutto, se mai l’avesse raggiunto, lui, Telemone, con la sua gracile corporatura? Fra tutti i presenti, sembrava il meno colpito dall’orrore della situazione e assolutamente normale. – Ma – aggiunse Telemone senza attendere altri incoraggiamenti – io l’assassino l’ho visto, mentre saltava dal muro. Ci stava camminando sopra, come fanno a volte i gatti o i cani, e poi è saltato giù e l’abbiamo sentito correre. – Com’era? – domandai. – Be’… era difficile distinguerlo con quella poca luce, signori, e i miei occhi non sono più quelli d’una volta. Una forma scura, un po’ curva; un individuo non molto alto, direi, ma neanche piccolo. Non grasso di certo, ma con ciò non voglio dire esile. Ben messo. Agile. Probabilmente coi capelli scuri. – Cosa indossava? – Un lungo mantello, credo. – Una tenuta poco adatta per arrampicarsi sui muri – dissi. – Be’, potrebbe essere stato un mantello corto – ammise Telemone. – Forse con una sciarpa di lana per mascherarsi la faccia. Non era nudo – esitò Telemone, e si interruppe bruscamente. – Basta – disse Euticleide. – Abbiamo sentito tutto quel che è possibile sapere, e dobbiamo tornare al presente –. Evitando di guardarci in faccia, tornammo a fissare gli occhi sul pavimento. Stranamente, mentre ascoltavamo Polignoto e Telemone eravamo stati non distratti, ma in qualche modo sollevati. Il rivedere gli eventi attraverso la mente ci aveva allontanati soltanto per un momento dal ricordo del cadavere, a cui ora ritornavamo. La luce era ormai molto chiara, e si scorgeva ogni dettaglio: il sangue che si stava rapidamente disseccando sul pavimento, gli abiti e i capelli intrisi, il riflesso vitreo dell’occhio, simile ad acqua congelata. La freccia sporgeva dritta dalla gola di Boutades e gettava un’ombra, come di una piuma, sulla porta in fondo alla stanza. L’ombra del corpo deforme, con la sua piuma solitaria, dava l’impressione che Boutades stesse cercando di trasformarsi in un mostruoso uccello. Come avrete intuito, era la freccia che rendeva tutta la scena così terribile. Boutades era stato colpito da una freccia scoccata da un arco: questo era innegabile, e tuttavia incredibile. Se fosse stato ucciso da un pugnale ci sarebbe stato altrettanto sangue, Boutades sarebbe stato ugualmente morto, ma la cosa sarebbe apparsa più normale, più comprensibile. Qualsiasi cittadino ateniese può avere una spada o un pugnale, ma non un arco! L’arco non è un’arma comune per gli Ateniesi. Nelle mani d’Artemide e di Apollo appare, come ogni altra cosa che li riguardi, divino, misterioso e forse anche simbolico. Nelle mani dei barbari è rozzo, grottesco, sporco e disgustoso. Le guardie scite portano l’arco, nella loro qualità di schiavi dello stato con un lavoro gravoso da fare. Ma a parte questo, l’arco non appartiene al mondo della vita comune. Un uomo colpito da una freccia ad Atene è uno spettacolo raro quanto lo sarebbe la vista del Minotauro. Se ci fossero presentati tutti i delitti degli ultimi cent’anni, senza dubbio troveremmo una quantità d’assassinii con le più svariate armi, ma difficilmente un omicidio compiuto con arco e frecce. Così non c’era da meravigliarsi se Polignoto appariva smorto e tremava, se Euticleide aveva la faccia color cenere, se io stesso sentivo il sudore scorrermi dietro le ginocchia. Anche l’uomo più coraggioso può essere sconvolto dalla vista d’una morte violenta: a maggior ragione da una morte strana come questa. Mentre seguitavo a guardare, lo stupore della scena diveniva più impressionante che non il suo carattere cruento. Notai per la prima volta che la parete di fronte a me, dietro Polignoto ed Euticleide, e al di là di un tavolino ornamentale, era affrescata. Il soggetto era innocentemente sensuale: un Apollo dall’aria languida che inseguiva Dafne in un boschetto. Mi venne fatto di chiedermi se lo stesso dio, al primo brillare dei suoi raggi quella mattina, non avesse abbattuto Boutades con un divino strale, rimasto infisso in lui sotto la forma d’una freccia terrestre, per confondere gli uomini e gettare una misteriosa infamia sopra la città. Allora rabbrividii, perché se quella casa era sotto la maledizione d’un dio potente, sarebbe stato follia opporsi al suo giudizio, e temerità simpatizzare troppo. Mi aggrappai mentalmente al racconto di Polignoto e di Telemone sull’uomo nel giardino, un assassino in forma umana. Un dio non aveva bisogno di arrampicarsi sul muro come un ladro. Euticleide si mostrò più forte di me, che mi perdevo in fantasticherie. – Vieni, Polignoto – disse. – Dobbiamo compiere alcuni doveri per il nostro parente, prima che sia lavato e preparato. Sull’uccisore si farà vendetta, e lo spirito offeso di Boutades potrà riposare in pace. Prima lasciatemi fare quel che va fatto. Euticleide si inginocchiò presso il cadavere, e con un gesto coraggioso strappò decisamente la freccia dalla carne in cui s’era conficcata, penetrando fin quasi in fondo al collo. La testa di Boutades, con i capelli incrostati di sangue e simili a orribili spaghi coperti di pece, ciondolò annuendo, in una parodia di saggezza. Vidi che Euticleide aveva il viso contratto mentre infliggeva una nuova offesa a quella carne insensibile per toglierne l’osceno strumento di morte. Polignoto, vedendo l’orribile arnese tra le mani del suo amico, si mise a tremare. – Ahimè! Ahimè! La casa è maledetta! – Suvvia, Polignoto – disse Euticleide. – Chiudiamogli gli occhi. Polignoto s’inginocchiò rigidamente presso il cadavere e gli chiuse l’occhio destro, mentre Euticleide chiudeva il sinistro. Sentivo Euticleide respirare pesantemente: la mano e il braccio di Polignoto si muovevano come pezzi di legno. Poi furono chiamati degli schiavi che portarono via il cadavere di Boutades. Uno dei due schiavi era quello che avevo visto nel cortile; adesso si era calmato, e se ne stava muto come un uomo al culmine di una sbornia. Essi sollevarono il cadavere, e i loro piedi nudi tracciarono strane impronte e disegni nel sangue che copriva il pavimento, come se camminassero sulla vernice. Colsi un vivido scorcio dei piedi di Boutades: mentre lo sollevavano erano quasi allo stesso livello dei miei occhi. Portava delle pianelle da casa, come fanno a volte i vecchi per proteggersi i piedi dal freddo dei pavimenti, e queste pianelle erano di un morbidissimo cuoio color sabbia; ma ora i piedi erano coperti di sangue, e il cuoio era diventato di un color ruggine brillante, essendo inzuppato fino alla suola. Pensai oziosamente: «Peccato che siano andate sciupate delle così belle pianelle», quasi rammaricandomi che Boutades non avesse incontrato la morte in una tenuta più economica. Gli schiavi si avviarono lentamente alla porta, portando il loro triste fardello. Li guardai passare presso la grande anfora da vino che stava vicino alla porta. Una di quelle enormi anfore ornamentali, con il collo lungo e la pancia grande, adorna di una stravagante scena di Baccanale, e pensai: «Povero Boutades, niente più vino». Sembrava una cosa patetica morire lasciando tanta ricchezza. Polignoto aveva l’aria stranita. Euticleide rimaneva pieno di dignità. – Signori – disse – voi tutti avete visto e sentito abbastanza per fare da testimoni, se sarete chiamati a farlo. Mi assicurerò che l’arconte sia informato, e così pure i capi della tribù, della fratrìa e del demo. Ad ogni modo, prima di tutto devo aspettare il ritorno dello schiavo che è stato mandato all’inseguimento. Sono certo, signori, di potermi rivolgere a voi per avere appoggio. Potete lasciare questa casa di dolore. Gettammo un ultimo sguardo alla stanza, ancora imbrattata dal sangue dell’orribile delitto di quella mattina. Adesso la luce del sole illuminava ogni cosa: i brillanti colori dell’affresco dietro il tavolino intagliato, la scrivania con le tavolette e gli stili, la tavola con il vaso dietro di me, la pomposa anfora accanto al portale scolpito. La stanza illuminata dal sole sembrava dire: «Gioite delle bellezze del presente», mentre la macchia scura sul pavimento replicava: «La vita è breve». Uscimmo in silenzio nel cortile, ma appena fuori diventammo più loquaci. Ci occorreva dell’acqua per le abluzioni rituali, per purificarci del contatto con la morte. La maggior parte di noi era ancora a digiuno. Eppure sembrava non avessimo voglia di separarci. – Posso mostrarvi il giardino interno – disse Telemone – e il punto esatto dove l’assassino saltò giù dal muro. Ci fu un mormorìo d’interesse e quasi tutti seguimmo Telemone. Il giardino non era un granché: un giardino di città, con alcuni alberi da frutto e delle piante in vaso. Una parte era stata isolata con un muretto, perché le donne di casa e le schiave ci facessero il bucato. – Ecco – disse Telemone. – Io ero laggiù, e poi sono corso qui, e Polignoto era proprio accanto a me; e quello è il punto del muro dove abbiamo visto l’assassino. Solo per un momento, quanto ci vuole perché l’orologio ad acqua lasci cadere una goccia. E qui – aggiunse, volgendosi dal muro verso la casa – è il luogo dove l’assassino deve essersi appostato, appena un po’ discosto dalla finestra –. Andammo da quella parte ed esaminammo il terreno davanti alla finestra. Rimasi stupito che nessuno di noi sapesse a quale distanza avesse dovuto mettersi l’assassino per mandare a segno la freccia. Mi guardai intorno nella polvere in cerca di impronte dell’assassino: solo se fosse stato un dio o un demonio non avrebbe lasciato orme. Ma la polvere secca e i ciuffi di erba ruvida erano ormai calpestati dal nostro gruppo, e così non ebbi modo di accertarmi che l’assassino fosse un essere umano. Tuttavia, una cosa la vidi mentre scrutavo a terra. Era un piccolo oggetto, bruno ma lucido. Lo raccolsi. Era un pezzo di corno con una scheggia di legno infissa nell’estremità più grande. – Un corno di montone – disse Telemone senza molto interesse. – Come avrà fatto un montone a perdere un corno qui? – Non lo toccate! – disse uno del gruppo, timorosamente. – Potrebbe essere l’amuleto pagano di uno schiavo forestiero e portarci sfortuna. Si sentirono dei passi pesanti nel cortile; poi un giovane schiavo entrò nel giardinetto, un ragazzo snello, dai capelli rossi, sui quattordici anni. Si guardò attorno, sperando evidentemente di trovare il suo nuovo padrone. Ansava come un mantice. – Ho corso – disse con il fiato corto a Telemone. – Ho corso quanto ho potuto, per un lungo tratto, ma non sono riuscito a prenderlo –. Gli tremava la voce, e il sudore gli scorreva sulla faccia smorta, lasciando solchi polverosi. Anche i capelli, tinti alla maniera dei barbari, erano madidi di sudore. – Oh, cielo – gemette Telemone – un’altra speranza perduta. – Disgraziato imbecille! – imprecò uno dei presenti. – Ho tentato – balbettò lo schiavo, seguitando a rivolgersi a Telemone. – Vi prego di dire… al mio nuovo padrone… che ho fatto del mio meglio. – Via di qui, cane pidocchioso, e va’ a dirglielo tu stesso – replicò uno dei cittadini. – Non è qui il tuo padrone. Torna in casa e renditi utile. – Vieni qua – mi intromisi mentre lo schiavo stava lentamente avviandosi. – Da’ questo al tuo padrone e digli che l’abbiamo trovato sotto la finestra. Prese l’oggetto senza guardarlo e se ne andò a passi lenti, con le spalle curve. – Mi sembra spaventato – dissi all’uomo che aveva esaminato il frammento di corno. – Non mi stupisce – replicò lui. – Quel cane potrà dirsi fortunato se se la cava con una buona frustata. Lasciar scappare l’assassino del suo padrone! Bella riconoscenza! – Proprio così – approvò un altro. – Sono tutti fannulloni. Dubito che abbia seguitato a correre appena fuori di vista. – È vero: tutta apparenza. Dagli un dito e ti prendono il braccio –. Le consuete osservazioni sull’argomento si levavano da ogni parte. – Anche peggio – disse uno. – Può avere fatto parte del complotto sin dall’inizio, e così l’inseguimento non è stato che una finzione prestabilita. Si udirono enfatici consensi. – Può avere colpito lui stesso il suo padrone. È uno sporco Sinopèo. Avete sentito il suo accento. Barbaro! – Ma non può essere stato lui a commettere l’omicidio – obiettai. – Era di guardia alla porta principale quando arrivò Telemone, proprio al momento del delitto. – Lo dici tu – replicò l’uomo che per primo aveva formulato il sospetto lanciandomi un’occhiata offesa. – Ma se è uno che corre così veloce… – Ben detto – rispose un altro. – Vedrò che ne sia informata la fratrìa: lo schiavo dovrà essere sentito alla prima udienza. Questo dignitario lasciò il giardino e gli altri lo seguirono, la maggioranza già conquistata dall’idea della colpevolezza dello schiavo. Io mi trattenni, lasciandoli partire senza di me, perché intuivo di essermi reso impopolare. Stavo ritrovando i miei sensi, ivi incluso il senso sociale. Tornai a guardare per terra, dove avevo trovato il frammento di corno, domandandomi se ve ne fosse un altro. Non c’era, ma vidi un debole luccichìo: mi chinai e raccolsi una minuscola e stretta scheggia di ceramica. Un pezzettino di un vaso rotto, non molto interessante. Non vi erano sopra dei frammenti di decorazione. Scalfito su un lato, tuttavia, c’era un piccolo segno, che raggiungeva gli orli irregolari e spezzati della scheggia, una minuscola croce, forse il contrassegno d’un vasaio. Lasciai il giardino e mi incamminai fuori dal cortile dietro gli altri, seguitando a giocherellare distrattamente con il pezzetto di ceramica, come a volte si fa con dei chicchi o dei sassolini. Era una mattina calda di sole. Ma io mi sentivo stanco come se avessi già vissuto e faticato per un giorno intero. III Canti funebri e accuse Arrivato a casa mi purificai con l’acqua. Non dissi niente alla famiglia di quanto avevo visto, e uscii come al solito. Era l’ora in cui il mercato è pieno. Dopo l’oscuro e violento inizio del giorno, era rassicurante trovare la solita ressa di venditori e compratori sotto i portici, vedere gl’immancabili articoli – cuoio, pesce, fichi – abbondanti come sempre, e sentire il vasaio al tornio e il fabbro fuligginoso al suo rimbombante lavoro. I suoni erano piacevoli al mio orecchio, e così i richiami: «Pentole, pentole da cucina, un’occasione!» e «Miele, puro miele dell’Imetto!». Il tutto misto al brusìo di cento conversazioni e di varie animate dispute. «Due oboli per un paio di pantofole pidocchiose? Mi prendi per un imbecille, figlio di un fetido maiale?» grida uno schiavo di campagna, mentre vicino a lui un ricco cittadino replica animatamente al suo compagno, «Cinquecento dracme per una baracca e quel pezzo di terreno invaso dalle erbacce? Sii ragionevole!». All’interno di un mercato, gli affari e il piacere di vivere pare non perdano mai la loro importanza. È inutile cercarvi saggi consigli, ma vi si può trovare gente operosa, gran varietà di merci e qualche attimo di svago dai nostri crucci. Anche in quel luogo brulicante di vita, tuttavia, Boutades faceva sentire la sua mortale presenza. Quando lasciai i portici e mi avviai sul selciato dell’agorà, trovai i cittadini nelle loro linde tuniche bianche intenti come al solito a passeggiare e chiacchierare, ma invece della consueta varietà d’argomenti, ogni gruppo a cui m’avvicinai non sembrava parlare d’altro che di Boutades. Sebbene fossi stato presente nella stanza dove era stato scoperto il delitto, provavo una specie di riluttanza a parlarne. Telemone era molto in vista: seguitava a ripetere la sua versione dei fatti fino a farsi venire la gola secca, e allora lo spingevano verso le bancarelle sotto i portici e gli rinfrescavano la lingua col vino. C’era un senso di tensione nell’aria, come quando le corde d’una lira sono troppo tese, e più d’uno sbirciava verso l’Acropoli, dove Atena troneggia sopra la città. Si vedevano sbuffi di vapore scuro, il fumo dei sacrifici, ma questa vista non bastava a liberarci dal timore. I nostri cuori erano pieni di paura: paura d’un ignoto assassino che poteva aggirarsi per le nostre vie, pronto a colpire ancora, e un’altra paura, più grave anche se meno definita. Un omicidio contamina tutto: l’assassino, la sua famiglia, la tribù, la fratrìa, e da ultimo anche la città, finché il delitto non viene vendicato. Pur celebrando i consueti sacrifici, preghiere e libagioni, noi saremmo potuti restare impuri e le nostre orazioni non essere altro che oggetto di ludibrio. Atena stessa, la luminosa dea della saggezza e delle arti, avrebbe potuto abbandonare per quest’offesa l’intera città finché non ci fossimo purificati. No, le conversazioni del mattino non erano allegre come al solito. Mi imbattei in un gruppo che sembrava stesse parlando di teatro, e mi fermai ad ascoltare, ma la conversazione tornò presto all’inevitabile argomento. – Mi domando – disse uno – se Polignoto sarà corègo, adesso… Con il suo povero zio appena morto? – Ci sono ancora sette mesi prima delle Dionisiache – ribatté un altro. – C’è abbastanza tempo… sempre che l’assassino venga preso e giustiziato prima di allora –. Era ovvio che sarebbe sembrato indecoroso da parte di Polignoto mettere in scena una rappresentazione mentre c’era in famiglia un delitto impunito. – Di sicuro nessun altro sarà ansioso di reclamare quest’onore… con tutto il denaro che bisogna sborsare. Ci sarà una bella parata di musi lunghi e tasche vuote, non credete? – E poi – disse un giovane imberbe dai capelli biondi – Polignoto ha già scelto il poeta: Keramia. Il dramma è quasi ultimato, e sperava di formare il coro quanto prima. I fabbricanti di maschere e di costumi teatrali si aspettano un gran da fare. Tutti pensano che Polignoto metterà in scena qualcosa di grosso, con canti, danze e macchinari. – Qual è il soggetto della rappresentazione? – domandò uno degli anziani. – Ho sentito – disse un altro – che tratterà dell’istruzione. – Uff! – commentò il suo interlocutore. – Una rappresentazione a fondo morale. Spero ci sia qualche scena comica. A me piacciono le commedie all’antica, con delle belle battute crude, vasi da notte, venditori di salsicce e cori di pentole e padelle. Ad ogni modo non ero curioso di conoscere il tema della rappresentazione: volevo sapere di cosa parla. – Io lo so – disse il biondino. – Conosco uno che conosce Keramia. Parla di Ercole e di Chirone. – Uh! È di malaugurio. Ricordatevi la morte di Chirone. La conversazione si congelò e il gruppo si sciolse. Io lasciai l’agorà e tornai ai portici, ai gruppi che sghignazzavano intorno ai venditori di vino. Anche qui mi accorsi che la musa della poesia suggeriva come argomento Boutades. Mentre avanzavo lentamente tra la folla all’ombra dei portici, mi imbattei in un cantante girovago, uno di quei poveri mendicanti cenciosi che fanno qualche soldo celebrando le notizie del giorno in umili versi zoppicanti, sull’aria che intonano le contadine portando i cavoli al mercato. Quest’uomo esercitava il suo mestiere con voce roca ma robusta, cantando: Venite, o ateniesi, e fate cerchio attorno a me. Orribili notizie vi porto, ma assai vere, perciò non dubitate di me. Quest’oggi il glorioso ateniese Boutades fu ritrovato, Ucciso da una freccia e in terra crollato. Assassinato egli fu, ma non per via di spada o di coltello. E il perfido assassino fuggì oltre il muro del giardino con un saltello. Che gli dei lo maledicano e gli tolgano la vita E spediscano l’infame nello Stige a peggior vita! Boutades patì un’orribile morte, nella sua stanza, proprio là, E senza arrecare torto alcuno fu spedito all’aldilà. È morto assai stimato, cinquant’anni dopo essere nato, Proprio all’alba, crudelmente assassinato. Boutades fu trierarca, di un nobile demo ateniese, Con tutti noi fece il suo dovere, come fu sempre palese. Riposare in pace il suo spirito non può, perché Vendetta rivendica la sua preda, Che l’assassino sia preso e torturato, e orribile morte infine veda. Erano misere rime messe insieme alla rinfusa, ma benché spesso mi fossi divertito ad ascoltare questi venditori di rime zoppicanti, questa volta non ci trovai nessun diletto. Venni via dall’agorà prima di mezzogiorno. Alla data stabilita mi recai, come tutti, a rendere omaggio alla salma di Boutades. Il cortile che avevo frettolosamente attraversato la mattina del delitto era adesso teatro d’una scena solenne; una dignitosa folla di cittadini vi era radunata per rendere omaggio all’estinto. Dalla casa si udivano levarsi i lamenti delle donne, insieme al suono dei flauti funebri. C’era una numerosa banda musicale, in eleganti tenute. Polignoto, vestito a lutto, appariva triste e con gli occhi gonfi, ma serbava un atteggiamento di mesta compostezza. Era circondato da uomini della famiglia e membri della fratrìa. Fra loro c’era Euticleide. Polignoto non fece attenzione a me, benché fossi stato fra i primi sulla scena del delitto e l’avessi visto chiudere gli occhi a suo zio. Boutades non fece caso a nessuno di noi. Era disteso su un bel giaciglio intagliato, con i piedi rivolti verso il cancello. Aveva un aspetto molto migliore di quando l’avevo visto l’ultima volta. Le donne avevano eseguito bene il loro lugubre compito di lavare il cadavere, e Boutades, benché pallido, appariva composto e sereno come se fosse morto nel suo letto. Il suo sudario bianco era immacolato (quanto diverso dalla tunica con cui ci aveva ricevuto l’ultima volta!) e le donne avevano diligentemente avvolto le pieghe di lana intorno alla gola, cosicché non si vedeva alcuna ferita. Questa fasciatura insolitamente estesa gli aveva spinto in alto il mento, dandogli una posa arrogante. Disteso lì, con l’obolo di Caronte fra le labbra, sembrava quasi compiaciuto. Le donne gli avevano adornato la fronte con le tradizionali foglie di vite, che aggiungevano un tocco festaiolo stranamente in contrasto con il resto della sua tenuta. Povero Boutades! Mi rammentai la grande anfora che non gli avrebbe più offerto da bere. Mentre mi chinavo su di lui per l’ultimo addio, mi giungeva l’odore d’origano e di miele caldo della focaccia dolce che teneva in mano e già si scioglieva al sole. C’era anche il sottile ma inequivocabile sentore della morte. Alcune mosche ronzavano intorno alle sue dita bianche e appiccicose di miele, che non si sarebbero mai più levate a scacciarle. Le prefiche intonarono un bel canto funebre. Cantavano di gusto, probabilmente rincuorate da un abbondante rinfresco in cucina e da vistose mance. Nessuno avrebbe potuto dire che Polignoto avesse organizzato per suo zio un funerale da quattro soldi. Ogni cosa era fatta come si deve. Lo schiavo mezzo idiota che avevo visto, ora apparentemente rientrato in sé, stava di servizio all’entrata con aria di grande dignità, porgendo l’acqua per le abluzioni. Tutta la cerimonia fu così normale e così ben condotta che mi sentii in qualche modo sollevato dopo aver dato l’estremo addio, come se la vita potesse ora tornare al suo ritmo ordinario. Una sensazione proprio da sciocchi. Non so se sia stato peggiore il giorno del delitto o quello del funerale. Benché non me ne rendessi conto al momento, il giorno dell’omaggio alla salma di Boutades costituì per me solo una breve pausa fra due catastrofi. Quella sepoltura me la rammenterò finché vivo. Come tutti gli altri, mi alzai di mattina presto per assistervi. La giornata, o meglio la notte, era fredda. Benché le stelle brillassero ancora nel cielo, c’era un presagio di pioggia nell’aria, come se le nuvole stessero addensandosi sul mare. Il corpo di Boutades nella sua bara era trasportato da un carro. Probabilmente gli amici non se l’erano sentita di portare sulle spalle il cadavere d’un assassinato, il cui spirito irato sarebbe stato sospeso sulle loro teste. Ad ogni modo, i membri della famiglia e della fratrìa vennero tutti, con Polignoto in testa che impugnava una lancia. Tutti noi sapevamo che l’avrebbe portata, ma nel vederla un ulteriore fremito di eccitazione, quasi di ilarità, si diffuse tra la folla. Polignoto aveva un’aria molto cupa, come se fosse in partenza per la guerra. Il corteo si mosse per le vie d’Atene. Nella bara, Boutades era chiaramente visibile nella luce delle torce portate dagli schiavi; poi veniva il gruppo scuro delle donne della famiglia, velate di nero, che seguivano la bara per fermare l’anima di Boutades, qualora andasse alla deriva lungi dal corpo. Il cupo silenzio delle strade notturne era lacerato dal chiarore delle torce e dalle voci lamentose. Il corteo funebre, con tutti noi al seguito, si diresse attraverso Atene verso il Kerameikos, e si fermò in una sezione del cimitero già occupata dai sepolcri dei nobili e dei ricchi. Il riverbero delle torce balenava su alti monumenti, imponenti steli funebri e marmi scolpiti, mentre il corpo di Boutades veniva deposto nella fossa scavata di fresco. Fra gemiti e lamentazioni, la parentela e gli amici gettarono i soliti oggetti nella tomba: vasi e figurine di terracotta, e persino un anello d’oro brillò nel fugace bagliore delle torce, quando esse caddero come un pesante scroscio di pioggia. Il becchino diede mano alla pala, e si udì il tonfo sordo della terra che cadeva. Non c’era luna, e le stelle erano impallidite. Le tenebre ingaggiavano battaglia con l’alba che avanzava, e sembravano infittirsi invece di disperdersi. Quando la fossa fu riempita, cominciò a cadere una pioggerella sottile. Polignoto avanzò a lato della tomba. Gli schiavi alzarono le torce in modo che la sua figura fosse l’unica chiaramente illuminata. Con la lancia in pugno, profilandosi enorme e tremolante nel riverbero diffuso dalle fiaccole sfrigolanti sullo sfondo dell’oscurità, Polignoto aveva l’aria d’un dio o d’un eroe da palcoscenico. Un brivido di tensione e di freddo, a motivo della pioggia, attraversò la folla. Questo era il momento che avrebbe reso quel funerale diverso dalle sepolture ordinarie. Polignoto avrebbe fatto ora una dichiarazione solenne contro gli ignoti autori del delitto, con una sfida e una minaccia all’anonimo assassino, ammonendo lui o loro a tenersi alla larga da tutte le cose sacre e legali. Questa diffida, diretta all’incognito omicida, che fosse o no fra di noi, era una formula sacra pronunciata in unione con l’ombra dell’assassinato. Era l’inizio d’una vendetta davanti agli dei e agli uomini, e l’uccisore senza volto, dovunque fosse, si sarebbe sentito toccare da un dito invisibile. Ci aspettavamo che la sfida di Polignoto fosse diretta contro l’anonimo e inafferrabile «autore del delitto». Ma Polignoto ci sorprese tutti. Egli alzò la sua lancia e cominciò a parlare. La sua voce chiara, profonda e ben modulata risuonò decisa. – Sulla tomba di mio zio Boutades, figlio di Boutades degli Etioboutadi, e in presenza dell’ombra di Boutades, perfidamente assassinato, io, Polignoto, proclamo davanti a voi che tu, Filemone, figlio di Likias di Atene, sei l’assassino, e ti impongo di star lontano da tutte le cose sacre e legali, dall’acqua consacrata, dal vino e dalle libagioni, dall’agorà, dai tribunali, dai templi e da tutti i luoghi sacri! Per poco non caddi sullo schiavo che reggeva la mia torcia. Stentavo a credere d’aver udito bene. Mio cugino Filemone! «Ma è impossibile» mormorai tra me. Quando riuscii a riprendere il controllo e mi tornò la piena coscienza, e con essa la collera, per poco non mi misi a gridare «Tu menti!» e per poco non corsi da Polignoto: volevo strappargli la lancia dalle mani e imporgli di ritirare quelle parole false. Ma ebbi abbastanza buon senso da rendermi conto che sarebbe stato un gesto delirante: l’avrebbero giudicato una profanazione, o addirittura un’empietà. Il corteo funebre cominciò ad allontanarsi, e la folla a disperdersi, mentre io ancora restavo lì, fra gli uomini che cercavano di coprirsi il capo coi mantelli contro la pioggia insistente. Udivo intorno a me esclamazioni eccitate. Nessuno venne a mostrarmi compassione oppure, cosa che mi sarebbe stata più gradita, a condividere la mia collera. Quelli intorno a me che sapevano chi ero, il parente più prossimo d’un uomo accusato del più odioso crimine che Atene potesse rammentare, si allontanarono in fretta da me. Eppure non potevo fare a meno di pensare che si trattasse di un errore, di una confusione da incubo. Ma questa sensazione fu dissipata da un fatto significativo. Polignoto con Euticleide e altri della parentela passò poco lontano da me, e mentre s’incamminavano, Euticleide, con uno sguardo eloquente nella mia direzione, disse a un cittadino che l’interrogava: – Andiamo a presentare una formale accusa al Basileus, e prima che sia finita la giornata potrete udire nell’agorà la proclamazione contro Filemone. IV In casa di Aristotele Mi avviai a casa vacillando, fradicio di pioggia e pieno di brividi. Alle donne non dissi niente dell’accaduto. Durante il resto della mattinata ebbi modo di ripensare agli eventi di quell’inquietante funerale, e mi rincuorai un po’ con la speranza che il Basileus avrebbe respinto quest’assurda accusa. Ma questa speranza svanì ben presto. Il Basileus comparve nell’agorà con Polignoto e i suoi parenti, e la denuncia contro Filemone fu fatta prima di mezzogiorno. Tutti lo sapevano adesso, e l’accusa legale significava che Filemone sarebbe stato posto sicuramente sotto processo. Era inutile cercare di nascondere la faccenda alle donne. Le notizie si diffondono presto attraverso le porte di servizio, e le donne appresero la denuncia pubblica quasi contemporaneamente a me. Ora bisognava affrontare la zia Eudossia. Venne da me tremante, in lacrime, gettandosi ai miei piedi come una supplice. – Oh, Stefanos, devi salvarlo! Adesso sei tu il capo della famiglia, tu puoi fare qualcosa per ristabilire la giustizia. L’aiutai a rialzarsi e a sedersi su uno sgabello, cercando di non farle male al fianco malato che le doleva. Ma lei avrebbe anche potuto non farci caso, per via del grande dolore che invadeva il suo corpo e la sua mente. – Sì, sì – dissi in tono rassicurante accarezzandole una mano. – È un tremendo errore che sarà presto chiarito. È una cosa assurda! Filemone è in esilio da due anni. Non è ragionevole sospettare un uomo che non si trova nemmeno qui! Questo lo capiranno tutti. Noi sappiamo che non sarebbe ragionevole sospettarlo in nessun caso. Lui non lo farebbe mai, e noi sappiamo che non l’ha fatto, e possiamo dimostrare che gli sarebbe stato impossibile farlo, anche se dobbiamo aspettare la prima udienza; il Basileus allora annullerà l’accusa. Non si arriverà neanche al processo. Parlavo a me stesso non meno che a lei, e le mie parole sembravano rinfrancarci entrambi. Eudossia si asciugò il viso e si ricompose per parlare. Si aggrappava avidamente alle mie parole. – «Non è ragionevole sospettare un uomo che non è qui». Devi dirglielo, Stefanos. Devi mostrare al Basileus che sciocchezza è questa, di sospettare un povero esiliato, così lontano. Oh povero il mio ragazzo, quando ti rivedrò? – Riprese di nuovo a piangere. – Come hanno potuto macchiare il suo dolce nome di un così odioso delitto? – Abbassò la voce e si chinò su di me. – So tutto del delitto, sai, e anche tua madre è al corrente, benché tu abbia cercato di nascondercelo. Gli schiavi non parlavano d’altro fin da quella mattina. Non ne abbiamo parlato davanti a te perché abbiamo visto che eri sconvolto. Sapevamo che eri stato in quella casa, e avremmo voluto domandarti notizie, ma ci è parso che non volessi parlarne davanti al sacro focolare di Zeus. Ma ora devo chiedertelo: tu c’eri, non è così? – Sì – risposi, meravigliandomi dell’abilità delle donne nel nascondermi ogni cosa. – E allora si è parlato di Filemone? Per questo eri così abbattuto? Fin da allora dicevano, o insinuavano, che fosse stato lui? – No, zia Eudossia, niente di simile, te lo giuro sugli dei. Io non ero più preoccupato degli altri, però avevo visto Boutades, e non era uno spettacolo piacevole. Esitai, ma lei mi guardava come in attesa che seguitassi. E così le parlai di quella mattina e di ciò che era stato detto. Ascoltò attentamente, senza piangere. In verità la sua replica mi sorprese. Sbuffò forte col naso, come una contadina, e poi se lo soffiò. – È tutto qui? Se è così, non hanno niente: è come se avessero estratto il suo nome da un’urna, a caso. Sono sicura che i familiari di Boutades provano vergogna di una morte così orrenda in casa loro, e pensano che se riescono a dar la colpa del delitto al primo che capita, allora la vendetta sarà fatta e la città tirerà il fiato e potrà dimenticare. Hanno scelto il nome del mio povero Filemone a causa della vecchia accusa di omicidio colposo; ma quello fu in una rissa, Stefanos, e qui non c’è stato niente di simile, niente –. Gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime. – Siamo tutti affidati a te, Stefanos, povero ragazzo, così giovane. Fa’ che intendano la ragione. Noi ci faremo giustizia anche se quella grande famiglia è contro di noi. Pensano di poter fare quello che vogliono col nostro nome perché sono rimasti pochi uomini nella nostra casa, e il mio povero Filemone è stato cacciato via. Ma tu sei un uomo, Stefanos, e sei buono: gli dei ti ascolteranno e puniranno gli Etioboutadi per la loro falsa testimonianza. Si alzò, si asciugò gli occhi e s’avviò massiccia e dolorante verso la porta. Prima di lasciarmi si volse e mi disse in tono quasi trionfante: – Sono stupidi, Stefanos, non è vero? Come può un uomo che non è nemmeno qui commettere un delitto? Forse ero riuscito a confortarla. Quanto a me, non mi sentivo troppo sicuro, benché seguitassi a ripetermi quello che ci eravamo detti: «Come può un uomo che non è qui commettere un delitto?». Eudossia aveva ragione a dire che c’erano pochi uomini in famiglia. Mio padre e mio zio erano morti, non avevo fratelli adulti né cugini, eccetto il povero Filemone. C’era naturalmente la mia fratrìa, ma nessuno degli uomini importanti che vi appartenevano era mio stretto parente. Tutto dipendeva da me solo, e io non sapevo cosa fare. Dopo una notte insonne, mi alzai e cercai di osservare le abitudini di una giornata normale. Andai alle terme, e gli amici mi salutarono freddamente. Andai alla palestra, e vi trovai tutti troppo occupati per unirsi a me in qualsiasi gara. Andai all’agorà e i cittadini, al mio avvicinarsi, apparvero improvvisamente assorti in conversazione. Al mercato udii delle esclamazioni da parte della folla dei plebei e vidi persino un paio di gesti che non erano destinati ai miei occhi. Erano gli scongiuri in uso tra la gente di campagna e gli schiavi per stornare il malocchio al passaggio di una persona di fama sinistra. Tornai a casa e cercai di leggere, ma nessun libro riusciva a fermare la mia attenzione. La mia testa era tutta un dolore, simile al bruciore provocato da un profondo taglio nella carne viva. Alla sera non ce la facevo più a resistere. Sarei andato a parlare all’uomo che ammiravo maggiormente nella mia città: l’uomo che, a dispetto del suo prestigio, non mi avrebbe allontanato con fredda cortesia. Avevo bisogno di schiarirmi la mente, avevo bisogno di una conversazione intelligente e di consigli. Sarei andato a parlare ad Aristotele. Aristotele abitava in quell’epoca in una casetta vicina al Liceo. La casa non era sua. Aristotele era straniero in Atene, un metèco, e nonostante il decreto ufficiale che tre anni prima gli aveva conferito la cittadinanza onoraria, alcuni non lo vedevano di buon occhio a motivo delle sue relazioni con i Macedoni. Egli non poteva possedere alcuna proprietà. Di conseguenza, Platone non avrebbe potuto lasciare a lui la vecchia Accademia. Inoltre, prima della morte del suo maestro, Aristotele aveva dovuto lasciare Atene di gran corsa, perché il conflitto con i Macedoni significava un’ostilità ancora maggiore nei confronti dell’uomo di Stagira, la cui famiglia era protetta da Filippo il Macedone. Aristotele era rimasto lontano per tredici anni. Era quindi impossibile che Platone avesse lasciato a lui l’Accademia. Sottolineo questo per contraddire delle voci maligne che circolano di questi tempi, e secondo le quali Platone e Aristotele erano nemici, una volgare calunnia nei confronti di due grandi uomini. Ho un ricordo assai vago di Platone: l’uomo canuto mi fu additato in tenerissima età. Io avevo frequentato l’Accademia negli ultimi giorni del tedioso governo di Speusippo. Quando Aristotele era tornato ad Atene e aveva aperto la sua scuola, mi ero iscritto, e per un breve periodo avevo goduto un immenso piacere intellettuale. Entrare in quella scuola dopo aver frequentato l’Accademia di Platone era come vedere il cielo passare dal plumbeo al sereno. Avevo conservato gli appunti presi durante le lezioni, e anche dopo il mio forzato ritiro dal Liceo alla morte di mio padre tornavo a rileggerli di tanto in tanto, quando volevo mantener viva la mia mente. Sì, senza dubbio ammiravo molto Aristotele. Ma lui si sarebbe interessato a me? Non ero stato uno studente di particolare talento. Probabilmente non si sarebbe nemmeno rammentato chi ero. Mentre mi avvicinavo alla casa, mi sentito spaventato della mia temerità. Il domestico mi ricevette cortesemente e andò subito ad annunciarmi; poi tornò a dire che il suo padrone era a tavola, ma che mi avrebbe ricevuto subito dopo pranzo, e intanto mi condusse nella sala sul davanti ad aspettare. Le voci provenienti dalla stanza accanto rivelavano che Aristotele stava pranzando con sua moglie. Alcuni consideravano strano che Aristotele, allontanatosi per tanto tempo dall’Accademia e sottrattosi alle conversazioni per dedicarsi alle sue letture solitarie, traendo piacere apparentemente solo dal mondo dei libri e delle dissertazioni filosofiche, fosse tornato in Atene ammogliato, dopo lunghi anni d’assenza e di misteriose missioni diplomatiche in terra straniera. E non solo, ma con una donna assolutamente diversa dal tipo di moglie che ci s’immagina accanto ad un filosofo. Si era sposato all’estero con Pitia, una donna straniera figlia di Hermias d’Atarneo. Della gente malevola raccontava che Pitia fosse stata concubina di Hermias, e non sua figlia, ma io non presterò mai fede a tali voci. I soliti pettegolezzi delle donne riferivano che era carina, di pelle piuttosto bruna, pettinata alla moda forestiera, e che era una brava massaia e di carattere riservato. Aveva dato a suo marito una sola figlia. Mentre aspettavo nella piccola stanza confortevole, con la sua straordinaria quantità di libri (Aristotele aveva libri di sua proprietà, e non due o tre soltanto, ma una grande quantità, e li teneva in casa) cominciai a sentirmi nuovamente depresso. Lo schiavo era stato piuttosto rispettoso. Doveva avermi preso per uno dei giovani del Liceo venuto a riprendere qualche intricata discussione lasciata interrotta a scuola; un promettente allievo di Aristotele, che senza difficoltà sarebbe stato ricevuto a casa. Mi tornò in mente che Aristotele era stato subito riconosciuto da Platone come il suo migliore allievo. Si diceva che Platone chiamasse Aristotele «la Mente», e che rifiutasse di cominciare una lezione prima del suo arrivo, dicendo «la Mente non è ancora tra noi». Noi studenti lo consideravamo comico, e talvolta ci riferivamo ad Aristotele (ovviamente a sua insaputa) come a «la Mente». Certamente nessuno avrebbe usato tale epiteto per riferirsi a me, se non per mettermi apertamente in ridicolo. Ed ecco, invece di essere un giovane gentiluomo colto venuto a conversare su elevati argomenti, ero un visitatore non invitato, neanche più uno studente, ma un giovanotto in uno stato tutt’altro che filosofico e anzi disastroso, che sperava di riversare i suoi sordidi problemi personali sulle spalle del maestro. La porta si aprì e Aristotele entrò. Il suo sorriso nel salutarmi non aveva nulla dell’altezzoso rimprovero che mi ero indotto a temere. Mi sedetti dietro suo invito mentre lui accomodava la sua persona ossuta, dopo essersi accuratamente sistemato un cuscino dietro la schiena. – Spero, signore – dissi esitante – che per grazia degli dei siate in buona salute. – Ottima – rispose allegramente. – A parte la sciatica. Un malanno comune qui nell’Attica. Ma tu, Stefanos – aveva appuntato su di me gli occhi azzurri un po’ infossati e mi scrutava attentamente in faccia – hai l’aria di uno che non ha dormito. Sembri pieno di malanni attici. Credo di sapere perché sei venuto da me. – Ah! – risposi tristemente – non so bene neanch’io il perché, so solo che devo parlare con qualcuno che abbia la mente lucida e possa mettere ordine nei miei pensieri. Ma non si tratta di una questione filosofica. Forse neanche voi vorreste parlare con me… – So molto bene ciò che è accaduto – ribatté Aristotele con calma. – Non sono poi così confinato nei boschetti dell’Accademia e nelle aule di lezione da non sentire quel che avviene ad Atene. So che Boutades è stato assassinato e che tuo cugino è sotto accusa. Ovviamente tu ti assumerai il compito di difenderlo. Non è dunque naturale che tu sia venuto da me, tuo vecchio maestro di retorica e di altre branche della filosofia? Una mossa molto sensata. Ed io – concluse ridendo – non sono a un tale vertice di rispettabilità ad Atene da provare imbarazzo nel parlare con te, se è questo che volevi dire. Scosse il capo; la larga zona calva luccicava nel riverbero della lampada, che accendeva riflessi anche nella frangia rossastra dei capelli superstiti. Aveva un po’ l’aspetto di uno spirito del fuoco, e certo non appariva particolarmente rispettabile. Pensai tra me: «Questo è probabilmente il mio migliore amico in tutta Atene». – Capisco – seguitò Aristotele in tono più profondo – il dolore che questa situazione ti causa. Ma hai torto a pensare che il tuo non sia un problema da filosofi. Il timore, il dolore, la collera sono emozioni naturali per le bestie, per gli uomini e persino, a quanto ci dicono, per gli dei. Ma l’animale umano si sforza di superarle mediante il ragionamento, che è il migliore e più efficace rimedio contro il male che sia stato dato ai mortali. Adopera dunque la tua mente. Ma prima ci vuole un po’ di vino, per confortarti il cuore. Berremo mentre discorriamo. – Ora – disse, dopo che fu portato il vino e si fecero le libagioni – parlami, e racconta con ordine tutto quello che sai. Esponi la questione come se si trattasse di un problema di geometria. Gli raccontai quanto era accaduto, come l’avevo riferito a Eudossia, ma con maggiore chiarezza. Gli dissi della mia presenza in casa di Boutades e della vista del cadavere; gli riferii il più fedelmente possibile quello che avevano detto Telemone e Polignoto, la nostra uscita nel cortile e il rinvenimento del pezzetto di corno. Ascoltò attentamente, e insistette perché gli descrivessi questo oggetto. – Ah! – disse poi. – So che cos’è. È l’estremità di un arco cretese. Sono piuttosto rozzi come arnesi, ma abbastanza funzionali, a quanto pare. Filemone è stato a Creta? – Sì – risposi tristemente. – Quando lasciò Atene per la prima volta, era a bordo di una nave da trasporto carica di grano e diretta a Creta. Lo sanno tutti. – Davvero? – disse Aristotele. – Allora questo è un punto che ovviamente sarà usato dall’accusa. Non prendere quell’aria depressa, Stefanos, dobbiamo considerare tutti i fatti, ed è un rètore da poco quello che va a discutere un caso davanti alla legge senza prevedere cosa diranno gli oppositori. Dobbiamo conoscere i fatti fin dove è possibile. È una cattiva politica restare esposti alle sorprese. La realtà è quello che è. Ti assicuro, Stefanos, che non ti tradirò, né ho intenzione di parlare con altri di quello che mi dici, ma devo chiedertelo: è ritornato Filemone? Si trovava qui in Atene? Perdonami, ma solo la verità può aiutarci in questo momento. – No – risposi sdegnato. – Io so che non è venuto ad Atene neanche una volta negli ultimi due anni. Se fosse stato qui, me l’avrebbe fatto sapere. O almeno, se non a me, certamente a zia Eudossia. Sarebbe andato a trovarla: è sua madre ed è ammalata. E io so che non lo ha fatto. Riferii poi ad Aristotele la conversazione con mia zia. – Zia Eudossia pensa – conclusi – che la famiglia di Boutades desideri solo vendicarsi il più presto possibile, e abbia tirato fuori a caso il nome di Filemone solo perché mio cugino è di famiglia modesta, non è ricco, e ha quella vecchia accusa di omicidio colposo appiccicata addosso. – È una donna saggia – rispose Aristotele. – Ho un grande rispetto per tua zia Eudossia. – E soprattutto – continuai – zia Eudossia ed io conosciamo bene Filemone. Noi sappiamo che non farebbe una cosa così odiosa, nemmeno per impadronirsi del governo, e forse neppure per salvarsi dalla morte. Aristotele scosse il capo. – Questo non serve granché, in un tribunale, salvo forse nell’Ade, ma lì si presume che la verità non necessiti di alcuna dimostrazione e che la retorica sia inutile. Non ti ho posto questa domanda per scoraggiarti, ma perché in questo momento stiamo cercando di pensare come rètori e uomini di legge. Per quel che riguarda tuo cugino, tu hai la modesta consolazione di sapere che Filemone è in esilio e tuttora assente da Atene; perciò, qualunque sia l’esito del processo, non possono infliggergli la pena capitale. La sua vita è al sicuro finché sta lontano da Atene. Come pensi d’avvertirlo? – Non ho modo di farlo. Vorrei tanto averne la possibilità. Se solo sapessi dov’è! Forse gli capiterà di sentire di questa calunnia dovunque si trovi, benché mi rincresca pensare che una notizia così amara gli giunga mentre è così solo e lontano. Aristotele sorseggiava il vino, fissando il fuoco. – Bene – disse energicamente – noi vogliamo partire dall’ipotesi che Filemone non sia colpevole. Questa è la base della tua difesa. La discussione procederà lungo le linee suggerite dalla tua buona zia: Filemone non si trovava qui e perciò non ha potuto commettere il fatto. Ma c’è un corollario della tua prima ipotesi che conduce a un argomento più interessante. Dopo tutto, la prova addotta da Eudossia è solo un sostegno della tua ipotesi, non una dimostrazione. Finché tiene, ha valore assoluto; ma anche se questo punto d’appoggio dovesse essere rovesciato, la tua ipotesi potrebbe ancora essere vera. Se la prendiamo per vera, il corollario potrebbe essere dimostrato. Se Filemone non ha commesso il delitto, è stato qualcuno che non è Filemone a commetterlo. Qualcuno ha effettivamente ucciso Boutades. Considerato obiettivamente, questo è il punto più interessante. Trova chi ha ucciso Boutades e prova che questa persona lo ha fatto, e il tuo teorema è dimostrato. Dipende da te, prima del processo, individuare chi ha ucciso Boutades, come pure trovare dei testimoni che dimostrino l’assenza di Filemone. – Da me? – balbettai mentre il vino m’andava per traverso. – Ma è una fatica da Ercole. Trovare un assassino vagante, che si muove come il vento della notte? Chiunque l’abbia fatto può essersene andato dovunque nel mondo, e il suo delitto è noto soltanto a lui e agli dei. Che probabilità di trovarlo posso avere in questi pochi giorni? – Non ho detto che si possa fare con certezza – replicò Aristotele. – Ma potrebbe essere fatto. E un po’ di tempo ce l’hai, Stefanos. Perciò… guarda –. Alzò quattro dita. – Alla prima prodicasìa – disse, toccandosi il mignolo – incontrerai il Basileus e gli accusatori per la prima udienza, che avverrà fra poche settimane, cioè tra poco, alla fine di questo mese. Ma poi – e si toccò l’anulare – c’è un mese fra questa e la seconda prodicasìa. Un altro mese – ed era arrivato al medio – prima della terza prodicasìa. E poi ancora un mese prima del processo –. Agitò l’indice nella mia direzione. – Ci sono quasi quattro mesi, Stefanos. Il sole adesso è ancora ardente, e le giornate sono calde. Ma quando si terrà il processo saremo a metà dell’inverno. Si possono fare molte cose nello spazio di quattro mesi, e anche di tre. – Cosa dovrei cercare di sapere? Cosa dovrei fare? – domandai. Mi sentivo un idiota, come uno studente che sta sempre a chiedere «Cosa devo leggere? Su cosa devo riflettere? Come comincio? Come vado avanti?». Aristotele si limitò a farmi un sorriso incoraggiante e a versarmi dell’altro vino. – Anzitutto bisogna smettere di allontanarsi dal punto principale. Dobbiamo tornare al fatto più importante, cioè al delitto. La tua descrizione di quella mattina è molto interessante, Stefanos, e ben detta, anche. È un vantaggio per la difesa che noi sappiamo non ciò che è realmente accaduto, ma sempre di più che se tu non ti fossi trovato sul posto. C’è anche uno svantaggio nel fatto di esserci stato, e devo fartelo rilevare. Se Polignoto e la sua tribù lo vogliono, possono asserire che tu eri d’accordo con Filemone e squalificarti come suo difensore. Non credo che lo faranno. Qualcuno deve pure assumersi la difesa, e sarebbe di maggior credito per loro, dal loro punto di vista, sconfiggere un parente dell’accusato, un autentico difensore. In ogni caso, presumo che gli eventi di quella mattina dal momento del tuo arrivo non saranno messi in discussione. Il nome di Filemone in quei momenti non è stato menzionato: penso che tu possa trovare dei testimoni su questo punto. Aristotele rifletté un momento; poi scosse il capo con aria contrariata. I suoi capelli rossi e la barba striata d’argento splendevano come punteggiati di scintille. – Santo cielo – disse. – Avrei voluto trovarmici anch’io in quella stanza. – Dubitate delle mie parole? – domandai, piuttosto offeso. – No, no. Ma ciascuno nota cose diverse, e molte parole confondono la vista. Quando ti riferiscono un avvenimento, ricordati sempre che tu non eri lì a vedere. Alcuni di quelli entrati nella stanza con te in questo momento staranno andandosene in giro a dire delle sciocchezze come: «Io ero presente quando Boutades fu assassinato», il che è un’espressione imprecisa e gratuita. Nessuno era presente in quel momento, salvo l’assassino. Nessuno di voi, eccetto Polignoto, era presente alla prima scoperta del cadavere. Anche degli uomini riflessivi possono dire che erano «praticamente lì», ma non sanno altro se non quello che ricordano d’aver sentito da qualcuno. Tu che cos’hai visto realmente? Descrivi la stanza e gli oggetti che vi si trovavano. Obbedii. – In che posizione giaceva Boutades quando l’hai visto? Com’era entrata la freccia? Spiegai anche questo, additando il punto nella mia gola, non senza un lieve brivido. – Ah! La grossa vena della gola, la giugulare – disse Aristotele allegramente. – Un bel colpo, davvero. E molto sangue, mi hai detto? Povero Boutades, con i suoi conti non terminati, sparsi lì sulla tavola, e coperti di sangue… – No – protestai. – Non c’era sangue sulla tavola, di questo sono sicuro. Ma ce n’era molto sul pavimento, una gran quantità. Aveva persino inzuppato le pianelle di Boutades. E i capelli avevano cambiato colore tanto erano intrisi. – Che buona memoria. Sei un osservatore, io mi ero immaginato che ci fosse del sangue sulla tavola. Devo prenderne nota. E ne prese nota effettivamente, scarabocchiando qualcosa con il suo stilo su una tavoletta incerata. Notò anche il mio sguardo interrogativo. – Non metterò per iscritto nulla che possa mettere chiunque sull’avviso – mi disse, in tono rassicurante. – Ma annoto sempre tutto. Dev’essere un fatto nervoso, ma è sempre meglio che rosicchiarsi le unghie, e conferisce un’aria saggia. È un vero piacere esser considerati saggi, e garantisce un certo potere sugli altri senza troppo sforzo. Ma continua la tua esposizione dei fatti. Dov’erano più macchiate le pianelle di Boutades? – Dappertutto, ma specialmente i tacchi. – «Non giunse coi piedi asciutti sulle rive dello Stige», – recitò Aristotele citando un’elegia. – Hai davvero l’occhio fino. E dimmi, il cadavere sanguinava ancora quando l’hai visto? O il sangue era rappreso, color ruggine? – Sanguinava ancora quando entrai – dissi rammentando la scena. – Vidi una goccia che gli scendeva giù per la gola. Ma quando lasciammo la stanza il sangue si era fermato e cominciava a disseccarsi, e anche la pozza sul pavimento. Questo genere di discorsi mi dava fastidio allo stomaco, ma Aristotele sembrava trovarci un interesse vivido e impersonale, come se stessimo discorrendo delle proporzioni d’un triangolo invece che del cadavere d’un uomo. Mi rammentai che suo padre era un medico, e che il filosofo stesso, discendente d’Esculapio, era pratico di medicina. Immagino che i medici abbiano sempre questo atteggiamento distaccato riguardo al corpo e alle sue funzioni, un atteggiamento che la maggioranza degli altri non condivide. – Vorrei aver visto il cadavere – osservò Aristotele pensosamente. – Sì, la morte di Boutades è molto interessante. Perché è morto? L’uomo colpisce il suo simile per quattro motivi fondamentali: per caso, per impulso, per abitudine, o per intenzione. Non può esser stato un caso, a meno che l’assassino intendesse uccidere qualcun altro e abbia commesso un errore. Possibile ma improbabile. Abitudine certamente no. L’abitudine di ammazzare gente all’alba con arco e frecce sarebbe troppo vistosa come eccentricità. Impulso sì, l’assassino può essere stato spinto a commettere il delitto dal suo vero ideatore. Il che mi porta al quarto motivo, perché chiunque abbia ideato questo delitto, sia stata sua o no la mano che ha colpito, voleva che Boutades morisse. – Può essersi trattato d’un pazzo – obiettai. – Sì, un desiderio irrazionale della morte d’un uomo è anch’esso possibile. I moventi irrazionali sono più difficili da enucleare, sebbene spesso finiscano col sembrare razionali una volta che siano sviscerati. L’uomo irrazionale, che recita una parte davanti alla propria mente, vede nella sua vittima un nemico dello Stato, o l’assassino di suo padre, o qualcuno che congiura contro lui stesso. Di solito lo squilibrato si tradisce con discorsi incoerenti. Per quel che ne sappiamo, l’accusa può sostenere che Filemone ha ucciso Boutades in un accesso di follia. – Allora, tutto quel che potremmo fare – replicai – sarebbe presentare delle prove che dimostrino che mio cugino è sano di mente. Ma non ce n’è bisogno, dal momento che abbiamo solo da dimostrare che Filemone non era qui. – La prova della zia Eudossia. Sì –. Aristotele aggrottò la fronte. – Dimostrare una negazione, sempre una negazione! Filemone non era qui, Filemone non è pazzo, Filemone non aveva un motivo razionale… È sempre difficile dimostrare le negazioni. Torniamo a Boutades e al perché è morto. È più probabile che il desiderio della sua morte sia stato razionale. Approssimativamente ci possono essere tre tipi di desiderio razionale in un caso simile. Desiderio di vendetta, di difesa o di guadagno, e cioè collera, paura o avidità. Tre passioni potenti. Boutades è interessante ora che è cadavere, ma era altrettanto interessante da vivo? Dev’esserlo stato, perché con molta probabilità qualcuno lo ha odiato abbastanza da ucciderlo. Credo si possa ben dire che il preferire le ricchezze di un uomo alla sua vita possa definirsi odio. Boutades era un personaggio in vista. Tu ed io abbiamo cominciato a discorrere stasera come se il protagonista della nostra conversazione fosse Filemone; ma se tu hai detto il vero, non è affatto lui il personaggio centrale. È molto meglio considerare Boutades come nostro personaggio centrale. Come tale, merita attenzione. Ricordi a scuola quelle esercitazioni di retorica in cui ti si chiedeva di pronunciare un’orazione sulle qualità, le azioni e il carattere di un personaggio letterario? Per come la vedo io, in questo momento tu saresti perfettamente in grado di pronunciare un’orazione piena di osservazioni acute sul saggio Ulisse, o sul lascivo e brutale Egisto. Tuttavia, in questo momento Boutades conta molto di più di costoro, quindi cosa sapresti dirmi del suo carattere, delle sue azioni e delle sue qualità? Mi ritrovai a rispondere: Boutades fu trierarca, di un nobile demo ateniese, Con tutti noi fece il suo dovere, come fu sempre palese. – Che vai dicendo? Come un idiota ripetei ad Aristotele tutta l’assurda ballata che avevo sentito nell’agorà. Senza che lo volessi, mi era rimasta impressa nella mente. Aristotele ne parve assai divertito. – Molto graziosa. Concisa e inesatta come lo sono di solito la poesia e la storia. Ma è vero che un assassino è stato visto fuggire al di là del muro? «È morto assai stimato», ma davvero lo stimavano tutti? Ha fatto davvero il suo dovere con tutti noi? Cosa ha fatto? E cosa non ha fatto? Potremmo procedere ipotizzando che qualche aspetto della sua vita ne abbia causato la morte. – Non so come ottenere informazioni su di lui – obiettai. – Non sarebbe certo possibile per me interrogare i familiari. – È vero. Ma la casa di una persona somiglia più ad un setaccio che ad un vaso tappato. La vita di chi vi abita viene filtrata, e ogni tanto qualche grano sfugge da una parte o dall’altra. Un grosso personaggio come Boutades non vive senza lasciare tracce. La cosa migliore è che tu tenga occhi e orecchie aperti. Vedi cosa riesci a scoprire di lui – dell’uomo vero però, non del personaggio della ballata. – Ma io voglio cominciare da un punto preciso – protestai. – Prendi un aspetto della sua vita e comincia ad investigare su quello. – Come il fatto di essere un trierarca? – Ottimo. – Questo potrebbe essere possibile – dissi pensando ad alta voce. – E certamente, se quel che si sente dire è vero, c’è stato un certo disordine nella trierarchia, finché… – Bravo Stefanos. Stavi riflettendo per conto tuo. Prima che il tuo solito tatto intervenisse, stavi per aggiungere, «finché il vostro grande nemico Demostene, non ha sistemato tutto grazie a delle disposizioni mirabilmente eque sul commercio marittimo». Io non mi sognerei mai di negare le capacità di Demostene e certamente elogio l’equità delle sue riforme. Ma questo è accaduto durante la guerra. Adesso Demostene, non ha più il suo potere; la città è calma, i cittadini hanno ottime possibilità di prosperare. I vecchi disordini hanno avuto occasione di tornare a serpeggiare. È difficile scoraggiare i sostenitori dell’oligarchia: hanno delle abitudini molto radicate. Potrebbe esserci qualcosa che valga la pena di scoprire nelle relazioni di Boutades con la trierarchia. Indagare ti consentirebbe una visuale più ampia. – Cercherò di appurare quello che posso – mormorai. Sentivo, se non altro, di essere agli inizi di un compito ben preciso. «Boutades – trierarchia». Era come avere un tema per la prima dissertazione a scuola. – Ma soprattutto, Stefanos, discrezione. Un’eccessiva curiosità irrita la gente, come le mosche. La famiglia di Boutades non vorrà sentirne il ronzio. Va’ tranquillo e bada ai tuoi soliti affari. Alla prima prodicasìa mostrati modesto e riservato, come si addice ad un giovane. Questo ti attirerà il favore del Basileus e non darà motivo di risentimento agli oppositori. Un contegno decoroso è già di per sé un atteggiamento efficace quando si esercita la retorica. Cosa pensi di sostenere alla prima udienza? – La difesa della zia Eudossia. Che Filemone non era ad Atene. – Sì. Non c’è male per cominciare. La seconda parte del tuo compito, ma la prima per importanza se credi, sarà di cercare testimoni che possano provare che Filemone era altrove –. Sospirò. – Provare delle negazioni: un aspetto tedioso della logica. L’odore della selvaggina sul sentiero delle affermazioni è molto più forte ed elettrizzante, anche se il sentiero può rivelarsi più lungo. Ma si andrà per le lunghe in ogni caso, temo. Non essere depresso se non trovi testimoni in favore di Filemone per la prima prodicasìa. Dopo tutto non è che una formalità. Una condotta modesta e la dichiarazione che Filemone non c’era. Questo dovrebbe bastare per il momento. Contemporaneamente, comincia la tua indagine segreta della vita di Boutades. Fammi sapere quello che trovi, anche cose da poco che non sembrano collegate al delitto. – Posso tornare, dunque? – Quando vuoi – rispose Aristotele allegramente. – Sono impaziente d’aumentare le mie note. Diedi un’occhiata alla tavoletta incerata. C’erano sopra poche parole, così disposte: Creta tavola sangue sulle pianelle Collera Paura Avidità. – Non molto – dissi, deluso. – Ho tenuto intere conferenze con note altrettanto scarne. Il filo d’Arianna. Dopo tutto, un rètore è un vero figlio del fondatore d’Atene. Si muove in un labirinto, indicandoci la strada finché non giungiamo faccia a faccia con la verità. Ci alzammo e gettammo i rimasugli del vino nel fuoco. I pochi attimi di preghiera furono molto rasserenanti. – Vorrei – riprese Aristotele interrompendo i miei pensieri – essere uscito come te quel mattino. Vorrei aver visto quella stanza. Ma forse è meglio così. Potrei essere accusato anch’io di complicità nel delitto! Che buona occasione per liberarsi dell’amico della Macedonia! Mi affrettai a contraddire quest’idea assurda che sulle sue labbra suonava come uno sfoggio di sciocca vanità. – Macché – dissi. – Anzi, la famiglia di Boutades sostiene decisamente la Macedonia. Ad ogni occasione parlano bene di Alessandro. – Hai ragione, Stefanos. Tu la sai più lunga di me in fatto di vita pubblica. E forse ne sai di più di quanto tu stesso pensi. Questa serata mi ha dato un’ottima impressione di te. Sei leale e lucido di mente. Non lasciare che una qualità sia d’impedimento all’altra. Addio, vai a dormire. Le sue lodi e il suo interesse mi rincuorarono. Quella notte dormii, e il mattino dopo mi sentii meglio di quanto non accadesse da diversi giorni, sebbene, ripensando alla nostra conversazione, mi resi conto di non aver combinato granché. Aristotele non mi avrebbe aiutato direttamente, non si era offerto di assistermi nelle mie indagini. Ma almeno avevo la mente più lucida, e qualche idea su cosa avrei dovuto fare nel prossimo futuro. Aristotele mi aveva dato la rassicurante impressione che la mia capacità di giudizio non fosse poi così disprezzabile. Tuttavia, mi sentivo infastidito dalla sua insistenza sull’odore della selvaggina, la stanza e il desiderio di essere entrato lì anche lui. Cosa avrebbe potuto vedere che io non avevo visto? Certamente nulla. V Notizie e voci Nei giorni successivi, mi abituai alle occhiate gelide e alle facce offese, e mi aggirai per Atene con aria tranquilla e controllata. Il mio sforzo di mantenere la calma non fu senza effetto nel dissipare l’ostilità altrui nei miei confronti; la freddezza divenne un po’ meno gelida e le facce offese meno palesi. Ma dentro di me continuavo ad essere in ansia. La calma cominciò a pesare sul mio viso come la maschera di un attore. In realtà non avevo ancora fatto nulla per la causa di Filemone, ma il fatto di continuare ad essere accettato in pubblico mi avrebbe facilitato il compito come suo difensore. E intanto il tempo passava. Poi, una settimana dopo il mio incontro con Aristotele, qualcosa accadde. Non molto, ma qualcosa. Raccolsi un primo granello d’informazione. Stavo bighellonando al mercato, dopo essermi sforzato di fare la mia quotidiana apparizione nell’agorà, e mi fermai alla bancarella d’un venditore d’articoli di cuoio. Mentre aspiravo quell’odore piacevole, pensando oziosamente di comperarmi dei sandali nuovi, udii delle voci di donne che chiacchieravano. Il retro della bancarella era isolato da una pelle appesa ad una corda, e al di là di questo divisorio alcune donne stavano pettegolando, forse delle schiave o delle contadine. Pensai che stessero aspettando che il garzone del venditore venisse a tagliare dei sandali per loro. Le donne parlavano con l’accento della città, non della campagna e pensai che dovessero essere delle schiave appartenenti a buone famiglie, se potevano permettersi quelle calzature. Questo è il tipo di deduzione logica che si fa tutti i giorni senza far troppi sillogismi, e la conclusione non era di nessunissimo interesse. Stavo per allontanarmi, quando udii un nome che mi trattenne. Una donna, abbassando la voce, chiedeva all’altra: – Come vanno le cose per voi adesso in casa di Boutades? – Oh, Zeus! – rispose l’altra con enfasi. – Si potrebbe ben dire che viviamo tra il porcile e il salotto. Il giovane padrone tiene tutto in ordine, e non è neppure avaro, ma a chi piace vivere in una casa dove è corso del sangue? Mi auguro di non aver mai più da ripulire una stanza come quella. E poi siamo tutti spaventati al pensiero del processo. Qualcuno dice che tutti gli schiavi saranno chiamati a testimoniare; altri dicono che chiameranno soltanto quel povero ragazzo, e questo per uno schiavo significa la tortura. È la legge. Ringrazio Atena di essermi trovata in campagna al momento del delitto, così non dovrò essere interrogata. Ma quel povero ragazzo smagrisce di giorno in giorno. – È una cosa ingiusta, la legge – osservò l’amica con indignata simpatia. Ci fu una breve pausa; poi una terza voce femminile, più secca e più anziana, domandò: – E la moglie di Boutades come sopporta la perdita? Con coraggio? – Potete ben dirlo! – La schiava della famiglia di Boutades parve ben contenta di diffondersi sull’argomento. – Oh, senz’altro dimostra una gran forza d’animo. Pensate, il terzo giorno dopo il funerale mi ha chiesto di nascosto di portarle un porcellino da latte arrostito; il padrone non glielo lasciava mangiare. Si è abboffata del maialino cotto nel miele, riempiendosi la faccia di unto, un bell’esempio di signora in lutto. Ma io sono stata zitta, e in realtà non gliene faccio un rimprovero. Il padrone ci teneva a corto sul mangiare. Perché dovrebbe rimpiangerlo? La trattava come nessuna donna sopporterebbe, la chiamava cagna sterile e la picchiava. Stava peggio degli schiavi, poveretta. Mai un paio di sandali nuovi o un abito nuovo: Boutades era avaro in un modo incredibile negli ultimi tempi. La moglie non gli aveva dato un erede, ed è questo che l’ha squalificata ai suoi occhi. – Eh, sì – disse la seconda donna. – Molti uomini la pensano così, e specialmente uno con tante ricchezze da lasciare come Boutades, e senza nemmeno una figlia a cui passare il gruzzolo. Ma il tuo padrone e sua moglie non erano più dei giovincelli, e dovevano essersi abituati alla situazione ormai. – Non parlereste così se aveste sentito quello che ho sentito io. Non erano più giovani, questo è vero, lui con quella pancia e i suoi disturbi intestinali, e lei sempre con le coliche (le è costato caro anche quel pasto con il porcellino). Ma litigavano come se avessero appena cominciato. Questi ultimi mesi sono stati i peggiori. Lei sapeva rimbeccarlo bene, bisogna riconoscerlo. Ci fu una grande scenata fra loro quest’estate. Io l’ho sentita saltargli addosso in piena regola. «Ah, tu» – e qui la schiava alzò la voce in falsetto, imitando quella della signora – «tu che fai la figura del cretino alla tua età! Vuoi disonorare te stesso con tutta la famiglia? Proprio l’epoca giusta per pensare a un bambino, e neanche tuo. Invece di mettere a rischio tutto il tuo patrimonio, faresti meglio a spendere qualche soldo con una brava sgualdrina, che sarebbe felice di prenderti del denaro per quello che non puoi fare!». Be’, io mi misi a ridere a sentire il padrone punzecchiato così, ma lui le gridò di rimando: «Farò quello che mi pare!», e aggiunse delle parolacce che non voglio ripetere. Poi le diede un paio di botte che dovettero farle male davvero, e allora io smisi di ridere. Una donna paga caro se lascia andare il freno alla lingua. Lui, in casa, era sempre burbero. Dice bene il nostro proverbio: «Non s’imparano le buone maniere dai padroni». – Poveretta – commentò l’amica. – Tirerà il fiato, adesso. Ci sono tanti aspetti piacevoli nella vedovanza. – Io penso che sia vergognoso – interloquì la terza. – Una moglie dovrebbe comportarsi come si deve. Dai vostri racconti quella donna mi sembra una scostumata. – No – replicò la schiava di Boutades prudentemente. – Non direi proprio, e io sono la sua serva. La mia padrona è facile da accontentare, quasi sempre, e sa essere molto generosa. Ma adesso è come una che si trova in un turbine di vento, spinta di qua e di là, un momento piange, un momento ride. Un attimo prima sprofondata nel dolore, e subito dopo allegra come un passero. E quando ride è stranamente rigida, come se fosse fatta di lino nuovo. Sapete che ha riso quando le hanno detto che Boutades era morto, e come era morto? Ha riso. Gli schiavi hanno dovuto cominciare a piangere e a lamentarsi per coprire la sua risata. Io penso che non sia del tutto sana di mente. Ha persino litigato con Polignoto, e dire che lui ha un così buon carattere. Era abbattuto per la morte dello zio, ma ha fatto del suo meglio per parlarle sempre con garbo. E che bel funerale ha organizzato, date le circostanze. Una cosa che dovrebbe consolare il cuore di una donna. – Per cosa hanno litigato? – Non l’ho capito bene. Qualcosa a proposito di Polignoto che non aveva diritto di disporre a suo modo del mobilio, ecco com’è cominciato. Sciocchezze, naturalmente, e proprio il giorno dopo il funerale, e lui l’aveva rifornita di abiti nuovi e tutto. Ma lei si è messa a sgridarlo, e l’ho sentita dire: «Perché non dai qualcosa al bambino, secondo il desiderio di tuo zio? Zeus è il padre degli orfani. Nessuno in questa casa può permettersi di andare contro il volere degli dei. Io so del bambino, ricordatelo». E ha seguitato così, sempre nominando Giove e un bambino. L’amica fece una risatina furba. – Magari si tratta d’una storia d’amore di Polignoto. – Può essere. Ci sarà in giro qualche bastardo di Polignoto, e lei ne avrà sentito parlare. Se Boutades avesse avuto un figlio, l’avrebbe adottato subito, questo è sicuro, ma aveva perduto da un pezzo la capacità di averne. Ad ogni modo, Polignoto era seccato, e le ha detto di smetterla. Ma vedete com’è stupida quella donna, a litigare con suo nipote che le dà il pane che mangia? – Begli affari davvero – disse la schiava più anziana. – La vita non è più come un tempo ad Atene, nemmeno nelle vecchie famiglie. Sono contenta di vivere quasi sempre in campagna ormai. Il cibo è meno caro. Avete visto a che prezzi sono andati i cavoli sul mercato? E la conversazione si spostò su generi alimentari e prezzi. Tutte le donne non hanno che cinque argomenti di conversazione: il cibo, i vestiti, il sesso, i figliuoli e gli scandali. Comunque ero grato a quei pettegolezzi. Mentre m’allontanavo lentamente, sperando di non avere indugiato in modo troppo vistoso accanto alla bancarella del cuoio, ripensai a quanto avevo udito. Aristotele aveva ragione: la casa di una persona è come un setaccio. Avevo colto un nuovo aspetto di Boutades, il cittadino esemplare, che a quanto pareva era incline a sordidi litigi e ad un comportamento brutale, e la cui impotenza era nota in casa e costituiva una vergogna domestica. Ripensai alle parole di sua moglie: «Vuoi disonorarti? Proprio il momento giusto per pensare a un bambino». Aveva forse cercato di generare figli con la moglie di un vicino? Questo certamente sarebbe stato un motivo di vendetta. L’atteggiamento della moglie di Boutades era non solo repulsivo, ma anche strano, sebbene io, celibe, dovessi ammettere che sapevo ben poco di quanto ci si possa aspettare dalla vita matrimoniale. Questa donna aveva riso alla morte del marito e imbandiva segretamente festini di carne arrostita. Sarebbe stata capace di tirare d’arco, una donna? Improvvisamente mi parve di vederla, la donna velata di nero che m’era apparsa al funerale, in atto di piegare l’arco con la freccia incoccata, e di scoccarla dritta nella gola di Boutades. La vendetta può essere dolce, e a volte le donne sono capaci di azioni terribili. Basti pensare a Medea. Avevo qualcosa su cui riflettere. La conversazione che avevo udito per caso ebbe un certo effetto sulla mia vita privata. Diventai più prudente nella mia condotta di fronte agli schiavi. Nessuno avrebbe dovuto dire di me, «Non s’imparano le buone maniere dai padroni». Ma a parte questo, il colloquio che avevo ascoltato non mi fu d’immediata utilità. Ad ogni modo me ne sentii rincuorato. Boutades non sembrava più così inattaccabilmente rispettabile e potente, e questo, stranamente, rendeva più facile il riflettere con freddezza sul suo assassinio e sul furore dei parenti. Mi riusciva più facile anche mantenere la calma, e ascoltavo gli altri con maggiore interesse. Due giorni dopo, nell’agorà, quando udii gridare «Notizie!» mi accostai al gruppo che s’era formato intorno al messaggero senza quasi temere occhiate ostili. In realtà, nessuno fece molto caso a me. Erano tutti troppo interessati alle notizie della guerra. Il cittadino che aveva dato l’annuncio con tanta enfasi era Cleoforo, un tipo gioviale, con occhi chiari piuttosto infossati e il doppio mento. Era noto come una persona ricca e ospitale, con vasti interessi nel commercio. Era arrivato a precipizio nell’agorà e il suo volto era raggiante di piacere, perché aveva l’opportunità di comunicare qualcosa. – Di cosa credete che si tratti? – (Cleoforo è il tipo d’uomo che chiede «Indovina cosa c’è per cena?» prima di servirti da mangiare e «Di cosa credete che si tratti?» prima di darvi un’informazione). – Notizie, notizie da Tiro! Una mia nave è appena arrivata da Rodi, e il capitano ha con sé un tale di Rodi che ha preso parte alla battaglia. L’assedio è finito il mese scorso. Alessandro ha vinto ancora! – Ma davvero! – disse l’austero cittadino Teosoforo in tono alquanto sarcastico. – A quanto sembra, Alessandro è destinato a vincere. Il destino fortunato del condottiero non è certo da considerarsi una novità. Chi viene ricordato negli annali se non colui su cui il sole fa splendere un’eterna estate? Altri uditori furono, però, più inclini a sentire le novità e ad esserne colpiti. – Cos’è accaduto? Com’è andata la battaglia? – È un genio quel giovane Macedone – proseguì Cleoforo, che si era infervorato ed era evidentemente intenzionato a rendere giustizia al suo argomento adoperando la sua personale retorica. – Un genio con le navi e con gli uomini, sia a terra che in mare. Ormeggia le navi lungo le mura della città. I Tiriani allora mandano giù dei tuffatori a tagliare gli ormeggi. Lui le fa ancorare di nuovo, e le corde vengono di nuovo tagliate. Cosa fa lui allora? Per gli dei, signori, usa delle catene invece di gomene, e i tuffatori non riescono a tagliarle. Le navi restano dove sono, proprio sotto le mura della città, e le macchine da guerra vengono messe in azione direttamente dalla tolda delle navi. Bum! Bang! – Cleoforo gesticola coi pugni, convinto che l’occasione richieda la sua abilità di mimo per imitare l’azione degli arieti e delle catapulte. – Le navi sono ferme di fianco alla breccia nelle mura. Le passerelle vengono lanciate in mezzo, posate sulle pietre crollate, alcune di queste ridotte in minuscoli frammenti, tutto ciò che resta di quella parte delle mura. Le truppe vi si accalcano sopra a centinaia. Admeto guida l’attacco, gridando «Dietro a me, uomini!». Poi è abbattuto da un colpo di lancia. Whumph! – (E qui Cleoforo si colpì il petto). – La seconda ondata di attaccanti è guidata da Alessandro in persona. I Tiriani abbandonano le mura e si rifugiano nel tempio, ma cadono come il grano sotto la falce. Ah! Swish! Uh! Argh! – Cleoforo brandì e conficcò lance e spade immaginarie, imitando ora gli attaccanti, ora i gemiti dei moribondi. Sembrava l’immagine stessa della guerra. – Nessuno sa quanti ne sono morti – continuò asciugandosi la fronte. – Alcuni dicono cinquemila, altri diecimila. Dell’armata di Alessandro, solo quattrocento sono caduti in azione. Alessandro ha celebrato un sacrificio a Eracle nel tempio di Tiro. – Così adesso è re di Tiro – disse Teosoforo. – Se gli avessero permesso di sacrificare in quel tempio sin dall’inizio, si sarebbero risparmiati un assedio di sette mesi e avrebbero accresciuto le loro possibilità di morire liberi e nel proprio letto. – È dunque meglio cedere? O combattere e morire per la libertà? – chiese il giovane Micone, uno dei miei vecchi compagni di scuola. – Il loro dio era contro di loro – disse Archimeno, un nobile, noto sostenitore della Macedonia. Il brizzolato Archimeno aveva un aspetto molto distinto, la fronte ampia e il naso elegante, il tipo d’uomo che durante una missione diplomatica presso un’ambasciata straniera farebbe una buona impressione. La fronte era segnata da piccole rughe, a parte due profondi solchi verticali sopra il naso, formatisi probabilmente per la sua abitudine di aggrottare leggermente le sopracciglia prima di parlare. – Bisogna anche ricordare che Alessandro ha dato alle città dell’Eolia e della Ionia un’autentica democrazia, restaurando le loro leggi. Non è giusto combattere contro la tirannia persiana, che altrimenti potrebbe minacciarci tutti di rovina, come nei tempi antichi? Atene ha inviato ad Alessandro una corona d’oro, in riconoscimento non solo delle sue vittorie, ma anche delle sue virtù. – Che gli dei ci guardino dal prestar fede alle corone d’oro degli Ateniesi – disse Teosoforo. – Non ho la memoria così corta da non ricordare che a Demostene fu concesso quest’onore da un popolo colmo di gratitudine, che ora vuol metterlo sotto processo. Un cerchietto d’oro è una ben misera protezione. Un uomo saggio farebbe molto meglio a pregare di ricevere un cappello per ripararsi dalla pioggia. – Bene – concluse Cleoforo, che evidentemente sentiva di essere stato troppo a lungo fuori dalla conversazione. – Tiro è soggiogata, e migliaia di uomini marciano ora verso l’Egitto. Tenete d’occhio Alessandro! Molto presto lo vedremo salire su quelle vecchie piramidi. Le città della costa si stanno già arrendendo, benché corra voce che Gaza voglia resistere e combattere. Sicuramente presto Alessandro avrà bisogno di altre navi. Forse la nostra flotta potrà essere chiamata all’azione. – Mio padre dice di sì – affermò Micone. – Lui sostiene che Alessandro non può lasciare in ozio in eterno la flotta che rimandò indietro l’altr’anno. Adesso che Atene ha dimostrato la sua lealtà non avrebbe senso lasciare la flotta in porto. Mio padre pensa che sarà chiamata alle armi in primavera. – Sono anch’io di questo parere – disse Cleoforo, – e i marinai delle navi da combattimento pensano che l’anno prossimo saranno impegnati in battaglia. Ma qui c’è qualcuno più pratico di noi in questioni navali. Che ne pensi, Archimeno? – È impossibile saperlo con certezza – replicò Archimeno col suo tono preciso. – Alessandro non rivela i suoi piani. Ma, naturalmente, si fanno molte supposizioni. Visto che siamo tra di noi, posso permettermi di affermare che si è discusso di alcune possibilità. Si dice che ci potrà essere chiesto di allestire delle navi del nuovo tipo, con il banco da rematori a cinque posti, come ne hanno già fatte a Siracusa. Può darsi che per il momento Alessandro lasci da parte la flotta perché desidera riorganizzarla su nuovi modelli. Cleoforo annuì saggiamente. – Senza dubbio, il Pireo sarebbe un ottimo posto per costruire una nuova flotta. Mi piacerebbe vedere una delle nuove navi. Viviamo in un’epoca eccitante, piena di novità. – Non dobbiamo saltare alle conclusioni – disse Archimeno. – Da una parte potrebbe essere così, ma potrebbe anche non esserlo. – Se è così – disse Teosoforo – questa sarebbe una bella occasione per la trierarchia per mostrare ciò che è in grado di fare. La nostra organizzazione patriottica potrebbe fornire subito il legname nuovo e tutto quello che occorre per la navigazione. Quale onore per Atene che sia non solo un dovere, ma un privilegio per i ricchi e per i nobili allestire una nave da guerra. «Come la balia per un bambino, così il trierarca per una nave», dice bene il proverbio. È davvero un’epoca eccitante, come dice il mio amico Cleoforo. Ma potrebbe esserci un’attesa molto noiosa prima che Alessandro richieda una flotta ad Atene. Lui sa essere fastidiosamente cauto quando si tratta di noi Ateniesi. – Perché? – chiese Micone. – Ah, come vola il tempo! Ormai rammentiamo a malapena che pochissimi anni fa in questa città vi furono dei disordini a causa di Alessandro. E di recente vi è stata quella piccola questione del re Agide di Sparta che cercava di procurarsi navi e denaro per combattere contro i Macedoni. Essendo un uomo di buon senso, Alessandro potrebbe temere che una flotta ateniese possa essere una trovata di Agide. – Sparta! – disse il giovane Micone. – Il vecchio nemico adesso sta dalla parte dei Persiani, quindi facciamo bene a sostenere la Macedonia. Il nostro vecchio nemico ora è alleato contro di noi! Dobbiamo forse aspettarci offese più grandi? Agide non è nostro amico. È sbarcato a Creta con Agesilao, conquistando le città e facendo giurare loro fedeltà ai persiani. Ma noi non siamo pirati cretesi, né combatteremo a bordo di navi cretesi. – Avete visto una delle nuove navi? – domandai ad Archimeno, in verità tanto per dire qualcosa. Sentir nominare Creta mi aveva fatto sentire a disagio, ed ero stupidamente ansioso di distogliere la conversazione da tale argomento. Alcuni del gruppo mi guardarono, come se avessero appena notato la mia presenza e non la gradissero. Ma Archimeno rispose cortesemente, dicendo che aveva sentito nominare la quinquereme solo a un tale che aveva visto questa grande nave. Pensai che anche Archimeno non fosse entusiasta della piega politica che aveva preso la conversazione. Il gruppo cominciava a disperdersi, ma io rimasi con Archimeno. Le osservazioni di Cleoforo m’avevano rammentato che quest’uomo era un trierarca. Questa mi parve l’occasione buona per incominciare le mie indagini sui rapporti di Boutades con la trierarchia. Archimeno rispose civilmente alle mie deferenti domande sull’importanza di Tiro e gli effetti sul commercio. Con apparente entusiasmo dissi che mi sarebbe piaciuto partecipare alla battaglia. Mentivo come un ladro nel dire questo, perché non facevo che pensare a Filemone tutto il tempo. Forse, per quel che ne sapevo io, poteva essersi battuto nell’assedio. (Era stato ferito, ucciso? Seguitavo a vedere corpi mutilati che precipitavano giù dalle mura). Seguitando a mentire, dissi che speravo di andare volontario se la flotta veniva precettata, perché capii che al mio uomo non dispiacevano questo tipo di discorsi appassionati. Poi passai ad ammirare l’operosità dei trierarchi, lodando l’illuminata nobiltà che aveva reso grande Atene, e infine, dopo aver nuotato verso la mia meta in questo pantano di insulsaggini come un cane che se ne vada trotterellando all’inseguimento di un bastoncino, dissi che la perdita di Boutades come trierarca doveva essere stata dolorosa. – Sì, certo – mi rispose Archimeno. – Molto sconcertante. E Boutades era un uomo stimabile, veramente stimabile. Questo non sembrava molto incoraggiante dal mio punto di vista. Ci riprovai. – Avevo sentito – dissi vagamente – di certe difficoltà nella trierarchia, qualcosa che implicava Boutades, come se non avesse fornito quanto doveva, o roba del genere. Archimeno mi diede un’occhiata severa. – Non dovete dar retta a voci meschine. Il compianto Boutades, sia pace al suo spirito, era un uomo ligio ai suoi doveri. Nessun trierarca avrebbe lasciato maggior vuoto. Pagava sempre quanto doveva, dava quanto poteva e si dedicava al bene della città. Questo discorsetto era decisamente in contrasto con il linguaggio della schiava: come se parlassero di due uomini diversi. Archimeno parlava come se stesse incidendo una lapide alla memoria dell’estinto. Mentre parlava le sue sopracciglia si aggrottavano ripetutamente, facendo apparire più profondi i due solchi verticali sopra il suo naso. La mia impertinenza sembrava aver suscitato la sua disapprovazione. Mi sentii colpevole e in pericolo. Non potevo parlare con naturalezza di Boutades. Chiunque avrebbe potuto guardarmi con biasimo, sentendomi parlare a discredito della presunta vittima di mio cugino. Aggiunsi frettolosamente che lo zelo civico di Boutades era ben noto, che i poveri avrebbero rimpianto le sue liberali elargizioni di cibo, e terminai con garbo (così almeno speravo) con un complimento alla munificenza dello stesso Archimeno. Tuttavia lo lasciai con la fronte ancora spasmodicamente aggrottata, mentre sotto la pelle del suo viso si potevano scorgere continui fremiti d’inquietudine. Mi sentivo di nuovo scoraggiato. Non avevo combinato nulla, salvo forse mettermi in vista come un nemico di Boutades, e questo non era certo un vantaggio. Tutto quanto avevo appreso era già scontato. Boutades era un cittadino coscienzioso, ed era stato un pilastro della trierarchia. Aristotele sembrava avere torto. Non poteva esserci niente d’interessante da appurare nella vita e nelle opere di Boutades. Quanto all’idea di trovare qualcosa di poco chiaro nelle sue relazioni con la trierarchia, era nata dai miei propri desideri. E avevo buoni motivi di sentirmi il cuore pesante. La prima prodicasìa stava quasi per arrivare, e io non avevo nulla da esibire, a parte la difesa della zia Eudossia. VI Dal Pritaneo al Pireo E venne il giorno della prima prodicasìa. Vestito della mia tunica migliore, mi diressi al Pritaneo per le viuzze strette della parte nord dell’Acropoli, passando tra frotte di cittadini poveri e di schiavi affaccendati. Mi sembrava che le occhiate mi trapassassero le spalle. Fu con un senso di estrema solitudine che giunsi al Pritaneo, quella fredda aula ufficiale. Di solito i parenti maschi vengono in massa, a sostenere il loro portavoce ufficiale e ad aggiungere le proprie dichiarazioni. (Mio fratello minore non poteva essermi d’aiuto. Non si conduce un bambino di sette anni a simili funzioni). Polignoto era lì con un buon numero di amici e parenti, vestiti con gli abiti migliori e tutti con aria prosperosa. Io ero solo. Il Basileus si mostrò formalmente cortese con noi tutti. Dopo le libagioni preliminari, collocò i rappresentanti dell’accusa alla sua destra, e me alla sua sinistra, e il dibattito ebbe inizio. Il Basileus elencò le circostanze del caso, per chiarire quali fatti potevano ritenersi accettati da entrambe le parti. Furono ricapitolati i punti principali dell’assassinio di Boutades. Polignoto e i suoi parenti resero le loro dichiarazioni, e io concordai, stando bene attento che non si lasciassero sfuggire qualcosa d’inatteso o di falso, ma per un certo tempo tutto andò liscio. Questo esame dei fatti agì su di me come una medicina: il mio cuore prese un battito più regolare, le mani sudaticce si asciugarono. Ma ben presto le cose presero un diverso avvio. Dopo che ci trovammo d’accordo che Boutades era stato ucciso in un certo giorno e in una certa maniera, da un assassino che era fuggito scavalcando il muro, il Basileus domandò: – Chi accusate di questo delitto? E perché? Polignoto rispose: – Io accuso Filemone, figlio di Likias di Atene, un fuorilegge di questa città già condannato per omicidio. – E tu, parente di Filemone, sei d’accordo o neghi? – Nego – risposi decisamente. – Perché accusate Filemone, e in che modo sapete che la colpa è sua? Fu Euticleide a rispondere. – È un omicida già noto, un forsennato. Si sa che si è imbarcato per Creta due anni fa. Questo insolito delitto è stato perpetrato con una freccia, evidentemente scoccata da un arco cretese. Un uomo simile, ridotto in povertà e insensibile al sangue, aveva bisogno di denaro. Boutades teneva in casa molto denaro e dei gioielli. Può darsi che Filemone avesse intenzione di saccheggiare la casa dopo il delitto e sia stato interrotto. O può darsi che odiasse il nostro egregio concittadino. Ma – ed Euticleide mi lanciò una torta occhiata di trionfo – è stato visto mentre si dava alla fuga. – E chi l’ha visto? – Telemone, cittadino d’Atene. Telemone si fece avanti con aria compiaciuta, vestito elegantemente e tirato a lucido per l’occasione. – Io, Telemone, udii le grida di Polignoto, proprio mentre stavo entrando in casa. Mi volsi alla finestra e vidi una figura scura tra gli alberi. Corremmo fuori, perché nonostante io sia zoppo, signore, al bisogno so essere svelto, e vidi il malvivente che balzava al di là del muro. Aveva un panno avvolto sulla testa e intorno al viso, ma proprio mentre stava per saltare, questo cappuccio gli scivolò via e vidi che era Filemone. Fu appena lo spazio di un attimo, ma lo vidi, e su questo non c’è dubbio. – E invece ne dubito – replicai. – Non era forse ancora buio, specie in quella parte del giardino? Come poteva Telemone vederci così bene? – Non era chiaro senz’altro, certo non la luce di mezzogiorno, ah, ah! – ribatté Telemone con insolente allegria. – Ma era l’aurora, signori; e dunque, guardando bene, c’era abbastanza luce da riuscire a vedere una brutta faccia dentro una pozza d’acqua, come dice il proverbio. – Obiezione – dissi. – Telemone è un rispettabile anziano. La sua vista non è delle migliori –. Mi venne improvvisamente un’idea. – Di grazia, Basileus, fate venire un qualsiasi noto cittadino della nostra classe, e servitevi di lui per verificare l’asserzione di Telemone. Il Pritaneo non è molto luminoso all’interno. Fate chiudere le finestre e poi fate introdurre questa persona nell’angolo di questa sala presso la porta, nell’ombra. E allora vedrete se Telemone può riconoscerla, qui, a così poca distanza. Telemone aveva l’aria assai offesa. – Non si fanno di queste cose a una prodicasìa, ragazzo mio. – No – confermò il Basileus – esperimenti del genere convengono meglio al processo. Ma voi tutti della famiglia di Boutades siete ora informati che si è costituita una difesa. – Non importa – replicò Euticleide – perché produrremo altre prove. È stato Filemone. Mi rivolsi direttamente a Polignoto. – Tu, che sei accorso con Telemone, l’hai visto anche tu? Polignoto sospirò, e mi guardò con gentilezza. – Ahimè, cosa posso dire? Non mi sento di giurarlo. In verità, mentre correvamo fuori, mi sentivo il cuore pesante e la testa confusa. Ho visto il malvivente arrampicarsi sul muro e saltar giù. Devo aver visto quel che ha visto Telemone, ma la faccia e la figura non significavano nulla per me allora. Ma quando Telemone mi ha detto che era Filemone, mi sono ricordato e ho compreso che doveva aver ragione. Ma non giurerò di averlo riconosciuto perché non l’ho ravvisato subito, sul momento. – Questo è giusto, anzi è magnanimo – sentenziò il Basileus. Non potei far altro che inchinarmi a Polignoto e tornare a rivolgermi a Telemone. Mi sentivo molto perplesso a questo punto. – Ma c’ero anche io al rinvenimento del cadavere. Arrivai quasi contemporaneamente a Euticleide. E udii Telemone e Polignoto descrivere ciò che avevano visto. Nessuno fece il nome dell’assassino; non si parlò neppure della possibilità d’identificarlo. Anzi, mi ricordo bene che Telemone disse che non era riuscito a vederlo. Una forma oscura, né alta, né piccola, non grassa, né molto sottile, e vestita. Ero lì e lo sentii. Non è vero? – conclusi, rivolto a Euticleide. Lui annuì. – È vero. – E allora perché Telemone non disse d’averlo riconosciuto? – Be’ – disse Telemone, strascicando il piede. Mi guardava aggrottando la fronte, con un cipiglio un po’ malevolo. Capii che era ancora irritato perché avevo messo in dubbio l’acume della sua vista. – Il perché lo avete detto voi stesso, signore. – Esatto – affermò Euticleide. – Tu eri lì. Ci fu un breve silenzio. – Non è strano – proseguì Euticleide – che l’unico parente dell’assassino dovesse trovarsi sulla scena del delitto? E quasi subito dopo? Mi trovavo paurosamente vicino al pericolo di cui mi aveva avvertito Aristotele. Mi sentii inaridire la bocca. Quando mi rivolsi al Basileus, mi tremavano lievemente le ginocchia. – Signore, davanti agli altissimi dei, a voi ed a questi gentiluomini io protesto la mia ignoranza di questo odioso delitto, e dichiaro di non avere alcun rapporto con tutto ciò, se non per quanto riguarda la difesa di mio cugino. Sono giovane, ignorante di leggi e privo di talento nel parlare. Mi affido alla vostra saggezza e autorità, poiché non capisco quanto si dice qui. Forse qualcuno mi sta accusando? – Stefanos – rispose il Basileus – nessuno ti contesta i tuoi diritti come ateniese, e, come tu stesso riconosci, ci sono delle teste più sagge della tua per guidarti in materia legale –. Poi si volse alla parte opposta. – Signori, è molto irregolare accusare il portavoce della difesa di complicità dopo che la procedura è iniziata, a meno che ci siano inattaccabili ragioni per farlo. Qualcuno dunque accusa il difensore? – No – rispose Polignoto, con dignità. – Accettiamo la sua parola che non è un complice del delitto, e non abbiamo mai detto il contrario. In verità, in quel fatale mattino mezza Atene si precipitò nella nostra sventurata casa; non troviamo quindi nulla di strano nella sua presenza. Diciamo solo che, visto che un parente dell’assassino si trovava in mezzo a noi, Telemone pensò prudentemente che in quel momento fosse meglio non dire nulla di quanto aveva visto in sua presenza –. Polignoto si volse verso di me, parlando in tono naturale e senza cerimonia. – Non capisci, Stefanos, che sarebbe stato spiacevole anche per te? – Poi tornò a rivolgersi al Basileus. – Può darsi che abbiamo sbagliato nel non rivelare allora quest’orribile segreto, ma ricordatevi che eravamo sconvolti. Ci siamo riservati di pronunciare l’accusa, una questione così seria, non in quel momento di confusione, ma nell’occasione più adatta. – Comprendiamo – rispose il Basileus. – Hai sentito, Stefanos? – Ho sentito, e rispondo che la parola di uomini onesti dev’essere accettata. Forse hanno visto qualcuno che effettivamente somigliava a Filemone: la mezza luce può indurre a strani errori. Ma non può essere stato Filemone. Non era qui. Dovete sapere che è al bando della città sotto pena di morte. Sono due anni che non è più ad Atene. Nessuno di noi l’ha più rivisto, nemmeno sua madre che è inferma. Non aveva motivo di odiare Boutades, e non si sarebbe mai indotto al furto. In ogni caso, questo non sembra un furto, poiché non è stato preso niente. Ma non può essere stato Filemone. Non era qui. Questo è l’unico motivo per cui siamo contenti del suo esilio. – Intendi dimostrare e provare che questo Filemone era assente e non poteva quindi essere il colpevole? – Porterò prove di questo fatto. – Avete sentito la difesa, signori della famiglia di Boutades. L’accusato era assente. – Abbiamo sentito, e rispondiamo che porteremo le prove che Filemone era presente al momento del misfatto. Le porteremo al momento del processo, se non prima. – Le parti hanno qualcosa da aggiungere su questo punto? No? Le parti si presenteranno allora davanti a me il mese prossimo per la seconda prodicasìa, quando si udranno nuovamente le deposizioni e si presenteranno ulteriori prove. La prodicasìa è chiusa. Nessuno scolaretto fu mai più sollevato di me nel sentire il segnale della fine delle lezioni. Mi avviai giù per la collina con animo molto depresso. Ogni passo mi avvicinava al momento in cui avrei dovuto riferire il dibattito alla zia Eudossia. Tre giorni dopo questa prima prodicasìa, la città ebbe una nuova e melanconica notizia di cui parlare. La moglie di Boutades si era uccisa. La sua schiava più fidata l’aveva trovata morta al mattino (così si diceva), composta sul suo letto, completamente vestita, con accanto una tazza contenente dei rimasugli di veleno: cicuta, secondo i più. L’evento dimostrava quanto il dolore continuasse a tormentare la casa degli Etioboutadi. Sebbene non fosse altrettanto doloroso, il fatto che sua moglie non avesse potuto sopravvivergli era un riconoscimento delle qualità di Boutades, e molti approvavano il gesto, dicendo che dimostrava come nelle migliori famiglie le donne avessero ancora della sensibilità. Polignoto dichiarò che, dalla morte del marito in poi, sua zia era stata sempre in lacrime e come fuori di sé. Le fece un dignitoso funerale, nei limiti prescritti per le donne. Il suicidio era stato di stampo tipicamente femminile, la codardia del veleno invece dell’ardimento del pugnale, ma è nella natura delle donne ricercare il piacere ed evitare la sofferenza. Tale evento alimentò voci meno maligne; era abbastanza sconcertante da suscitare interesse, ma non possedeva quell’alone di ripugnanza che aveva avvelenato il tono di ogni conversazione che avesse come oggetto la morte che lo aveva preceduto. Meditai cupamente sul suicidio. Mi sembrava che persino la morte di questa donna, che non conoscevo e non avrei mai conosciuto, avesse spezzato un altro filo che avrebbe potuto condurmi al vero Boutades. – Mi sento sorpreso da questo suicidio, e non lo sarei se non avessi udito le schiave dietro la bancarella degli articoli di cuoio – spiegai ad Aristotele. Ero ritornato a trovarlo, per riferirgli l’esito deprimente dell’udienza davanti al Basileus, e finii con l’esporgli tutti i miei sconnessi pensieri sulle settimane precedenti. – La donna vestita di nero, che gettò un anello nella fossa di suo marito… sì, era un’immagine di dolore che giustifica un suicidio. Ma come la mettiamo con la moglie che litigava con Boutades e gli rinfacciava la sua impotenza? La donna che rideva e ordinava un porcellino da latte in una casa immersa nel pianto? Perché la vedova, col viso, per così dire, ancora impiastrato del grasso del suo banchetto, avrebbe dovuto brindare alla morte di Boutades e poi andare a cercarlo agli Inferi? – Come, davvero? – replicò Aristotele. – Ma la natura umana non è semplice da capire, è difficile giudicare i rapporti di due coniugi dall’esterno. La donna può aver trovato la vita intollerabilmente monotona senza più il suo compagno di litigi. Le abitudini sono più forti di quanto non si pensi. E può anche darsi che amasse veramente suo marito; qualche lite domestica non significa niente. Tu sei giovane, Stefanos, e non hai pratica di uomini e di donne, mentre io sono vecchio e sposato, e quindi pieno di sagge nozioni sull’argomento. Ridacchiò nel dire così, perché infatti, anche se vecchio, s’era sposato di recente. – Ma il porcellino – protestai. – Come banchettare in allegria? – Questo non basta a dimostrare che fosse allegra. Isterica, magari. Una sorta di reazione infantile alla cessazione dell’autorità. Potrebbe essersi detta un’infinità di volte: «Mangerei un porcellino da latte se mio marito non me lo proibisse dicendo che mi fa male alla digestione». E così, quando il marito non può più proibirglielo, si sente obbligata a provare questo piacere. Ma tu, evidentemente, ti sei fatto le tue idee sull’argomento. Diedi un’occhiata alla porta chiusa e abbassai la voce, benché la moglie di Aristotele e i servi fossero in un’altra parte della casa. – Sì – risposi – ho pensato una cosa terribile; mi era venuta in mente già prima, e questo fatto sembra… collimare, come il lato mancante d’un triangolo. Per quali altre ragioni la gente si uccide? Per un dolore nato dalla colpa, o per mortale paura. Io avevo pensato che lei, la moglie, potesse essere l’assassina, ed ora vedo che è possibile. Se ne è rallegrata sulle prime, ma poi è sopraggiunto il rimorso, e si è uccisa senza confessare la propria colpa. Forse temeva di tradirsi seguitando a vivere. – È possibile – commentò Aristotele, non così turbato come mi sarei aspettato. – Ogni azione umana è possibile. Ma in verità, Stefanos, una moglie ha tante buone occasioni per uccidere il proprio marito: un piatto di funghi velenosi, dell’aconito nella minestra, un panno per soffocarlo mentre è a letto. Perché dovrebbe ricorrere a un grande spargimento di sangue, a un clamoroso assassinio? In ogni caso la maggior parte delle donne odiano le ferite e la vista del sangue. – Clitennestra no. – No. Ma Clitennestra aveva Egisto a far la parte del macellaio per lei. Qui non mi sembra che sia entrato in scena un Egisto. E quale donna potrebbe essere una così esperta tiratrice d’arco? Si potrebbero invitare tutte le donne d’Atene a scagliar frecce ai loro mariti, e non credo che ci sarebbero vittime. – Eppure avrebbe potuto farlo – insistetti cupamente. – Non era una gran distanza. Forse c’entrava una vendetta di sangue, un giuramento che lui doveva morire nel sangue. E poi ha scelto di morire anche lei perché era troppo terribile. – «Forse lui doveva morire nel sangue» – ripeté Aristotele. – È una buona idea, Stefanos. Ma suvvia, noi non vogliamo che la moglie di Boutades sia colpevole. In quel caso, le nostre probabilità di scagionare Filemone si ridurrebbero a nessuna. Ci sono troppi «forse» in quello che dici. Io continuo a pensare che questo tipo di delitto è opera d’un uomo. Se non altro, nella prodicasìa c’è stato questo di buono: la questione della tua complicità è stata sollevata e poi messa da parte. – Ma è tutto peggio di prima – obiettai. – Euticleide mi sembra decisamente ostile. E adesso sostengono di aver visto Filemone. È mostruoso. Telemone non può averlo riconosciuto a quell’ora e a quella distanza. – Questo lo credo senz’altro anch’io, e al processo si potrà fare qualcosa per infirmare questa testimonianza. La tua proposta di un controllo della vista era buona. È un peccato che tu l’abbia lanciata troppo presto. Restano ancora due tracce da seguire: a) l’assenza di Filemone al momento del fatto; b) la ricerca di informazioni su Boutades. Se c’è stata una vendetta di sangue, è a Boutades che dobbiamo rivolgerci per scoprire perché. – Non so da che parte incominciare per chiarire queste cose – sospirai. Aristotele mi versò del vino e disse: – Mi è venuto in mente un posto dove si potrebbe venire a sapere la verità. Il Pireo. Ci sono dei marinai di ritorno a casa che conoscono altri viaggiatori. Qualcuno potrebbe aver visto Filemone o averne udito notizie. Ci sono le navi e gli uomini che ci lavorano, e in mezzo a loro si possono avere informazioni su Boutades e la trierarchia. Ho idea che questa gente di mare potrebbe aiutarci, per lo meno nel mettere in piedi una difesa per Filemone. – Sì – dissi, dubbiosamente. – Posso andarci e fare qualche domanda… – Se vai in giro a fare domande, Stefanos, non otterrai nulla. Un uomo di buona famiglia e istruito che dichiara la propria identità e pone domande. No. Prenderebbero il tuo denaro, ti tratterebbero cortesemente e ti risponderebbero quello che può piacere a un orecchio ufficiale. Alcuni di loro ti riconoscerebbero subito come il difensore in questo processo. Con la mente piena di sospetti, di timori e d’immagini di tortura, starebbero molto attenti a non dare nessuna informazione utile. Devi discorrere con la gente in occasioni normali, per lo meno sulle prime. Non essere te stesso, cerca di essere qualcun altro. Vàcci travestito, come Ulisse da guardiano di porci. – Travestito? Come un attore? Aristotele, queste cose accadono in storie famose, ma nella vita reale… – Accadono anche nella vita reale. Come credi che faccia Alessandro a introdurre le sue spie in territorio nemico? Questo mi fa venire in mente… Un giorno o l’altro devo raccontarti dei miei viaggi in Asia. Non ti sto domandando di operare una prodigiosa trasformazione. Va’ al Pireo in tenuta da campagnolo, con un po’ di terra sotto le unghie. Cerca di apparire ordinario, parla alla buona, e soprattutto non parlare troppo. Sei uno della campagna intorno ad Atene, venuto giù al Pireo per vedere un lontano parente. Entra in una taverna, bevi tranquillamente, prendi l’aria d’un bifolco affaticato che si riposa i piedi. Temo che non potrai farlo più di due o tre volte, se non vuoi attirare l’attenzione. Se poi – aggiunse Aristotele, che cominciava a prender gusto all’argomento – tu volessi mantenere il travestimento, potresti andarci regolarmente come venditore di verdura… – Aristotele, io non ho intenzione di vendere verdure al Pireo. – Come vuoi. In ogni caso, non sapresti farlo molto bene. Il guaio con te, Stefanos, è che sei troppo rispettabile. Io, invece – proseguì con compiacenza, guardandosi attorno nel suo elegante studio – sono un uomo colto, di buona famiglia, anche ricco in un certo senso, ma non sono un ateniese, e quindi non del tutto rispettabile. Potrei fare benissimo la parte d’un venditore di verdura, se dovessi. Ricordati che il tuo sacro onore, come ateniese, come parente, come uomo, ti impone di difendere Filemone. Niente che non sia di per sé malvagio può nuocere al tuo vero onore. Ulisse diventò forse un uomo senza onore per i suoi travestimenti? Va’ al Pireo. Non parlarne a nessuno. È meglio che il tuo accusatore non ne sappia nulla. Perciò, non parlarne ai tuoi parenti, né in casa tua. Ma pròvaci una o due volte. Ci alzammo, ed io mi apprestai a congedarmi. – Le cose che vedrai e sentirai, tienle in reparti separati della mente: come un medico che raccoglie in vari cestini le erbe medicamentose. Non aver fretta di mescolarle. E sorridi qualche volta. In fondo è un gioco. Io aspetterò con impazienza di udire quello che avrai da dirmi. Borbottai qualcosa sul fatto che mi dispiaceva abusare del suo tempo. Non era solo per cortesia; in realtà mi sentivo offeso. Ero andato a trovare il maestro solo per farmi mandar via con istruzioni di diventare un bifolco o un venditore di verdura. – Oh, io ho sempre tempo di dare retta alle persone – replicò Aristotele mellifluamente. Un giovanotto di campagna con una ruvida tunica tessuta in casa e calzoni scalcagnati arrancava verso il Pireo subito prima dell’aurora. Ero io. C’era voluta quasi una settimana perché mi decidessi a fare come mi aveva suggerito Aristotele. Poi avevo dovuto procurarmi il travestimento, e per farlo segretamente, senza confidarmi con nessuno, nemmeno con gli schiavi, ci avevo messo diversi giorni. E ora eccomi lì come un cretino, un bifolco qualsiasi in una commedia rustica. I vecchi calzari, inadatti ai miei piedi, mi facevano male, e perciò dovevo camminare piano. Avevo lasciato la mia casa molto presto per non essere notato ma non volevo arrivare al Pireo finché la gente non si fosse destata e non avessi potuto passare per le strade affollate inosservato. Dopo avere lasciato Atene e aver raggiunto dei terreni incolti, andai sul lato della strada e mi misi a scavare, strappando erbacce e macchiandomi le mani con le radici. Mi spezzai un’unghia o due e annaspai nel terriccio, strofinandomelo poi sulla faccia. Era piovuto di fresco, la terra era umida e mi dava una sensazione disgustosa sotto le unghie. Al primo chiarore mi sporsi su una pozzanghera per controllare i risultati. Nella luce dell’aurora riflessa in quel sudicio specchio apparivo abbastanza sporco. Mi diedi sul viso qualche artistico ritocco, per accertarmi d’essere ben chiazzato di terriccio, e ripresi la via pensando che niente mi sarebbe stato più gradito di un bagno. Giunto al Pireo odoroso di pesce, mi misi a vagabondare sui moli. Era il principio della stagione invernale, il tempo in cui le navi cercano riparo dalle grandi bufere e sostano nei porti per essere riparate e messe in disarmo, in attesa di far vela di nuovo con la primavera. Sulla riva c’erano dovunque battelli tirati in secco, barche da pesca e vascelli mercantili, molti rigirati con la chiglia in su oppure adagiati su un fianco. I capannoni per ospitare le navi più grandi e di maggior valore stavano all’estremità più lontana, e alcune delle imbarcazioni minori dondolavano su e giù di fianco al molo. C’erano molti marinai in giro, e dovunque si udiva rumore di seghe e di martelli. Io gironzolavo con la bocca aperta e gli occhi sgranati, da vero bifolco. In verità provavo una certa curiosità, non essendo mai stato prima d’allora al Grande Porto. Infine giunsi ad uno spazio vuoto e mi sedetti al sole, appoggiando la schiena a un muro come a teatro, da bravo campagnolo in vacanza. Il sole non era troppo forte. Col passare del tempo la giornata si faceva nuvolosa, e sul mare era sospesa una lieve foschia. I colori dell’alba avevano lasciato la superficie dell’acqua, ed essa appariva come una piatta distesa grigia. In mezzo alla foschia riuscii a distinguere un paio di pescherecci presso la riva. Alla mia sinistra, in lontananza, riuscivo a vedere la vetta rocciosa del Sunion, col grande tempio su in cima simile a un’enorme chiazza bianca. Dal posto che mi ero scelto potevo osservare i lavori di riparazione di un vascello mercantile e ascoltare gli uomini che vi lavoravano. L’odore del mare era misto all’odore del legno e della pece che gorgogliava sul fuoco in alcuni piccoli recipienti. I calafati erano due uomini e un ragazzo; mi salutarono con un cenno al mio arrivo, ma poi non fecero più caso a me. La loro conversazione, sulle prime, non fu molto interessante: istruzioni da parte del più anziano, scherzi, insulti, allusioni ad altri marinai su altre navi. Poi l’uomo più giovane disse: – Pensate che questa bella barchetta sarà al seguito di Alessandro la primavera prossima? – Perché no? – rispose l’altro. – Va veloce. Sua Maestà del Nord avrà bisogno di navi veloci per le sue guerre, e quelle di Atene sono di gran lunga le migliori. Eh, sì – aggiunse, dando una manata contro il fianco della nave – sentirai presto il rumore della battaglia, bella mia. E tu, imbecille – ordinò al ragazzo – portami dell’altra pece, fannullone, e muoviti, o ti ci faccio bollire dentro e ti vendo come salsiccia! – È passato tanto tempo da quando sono stato in battaglia – disse il secondo – che ho dimenticato com’è. Quest’anno, sono stato sui convogli del grano. Avanti e indietro da Creta. E quel commercio è destinato ad aumentare, perché i magazzini d’Atene sono quasi vuoti. Nella marina mercantile si sta al sicuro, e non si corre pericolo di beccarsi un buco nella testa da parte di quegli schifosi stranieri. – Puah! – L’anziano sputò sulla riva. – È un lavoro da sguatteri. A me non dispiacerebbe venire alle mani coi Persiani. Molti Ateniesi abili alle armi si mettono al servizio d’Alessandro. Non è così, bifolco? – aggiunse rivolgendosi a me e gettando una scheggia di legno per attirare la mia attenzione. – Ti piacerebbe lasciare i tuoi solchi polverosi, eh, amico? E magari saltare su una barca e vedere un po’ di mondo? Lo guardai fisso, aprendo la bocca senza rispondere, come uno che rifletta lentamente su una nuova idea. – Un ragazzo in gamba come te, mio bel vaso di terracotta, con delle buone braccia muscolose per remare e dei buoni garretti per correre in battaglia… O per fuggirne lontano. Hai mai pensato al servizio militare? Vedresti il mondo, magari la riva di Troia, dove Alessandro correva sulla spiaggia come un tempo Achille. – Hai sentito parlare di Troia, amico mio? – fece l’altro, con aria condiscendente. – Ci fu una quantità di battaglie da quelle parti una volta, per una sgualdrina e per un cavallo. – E poi – seguitò il compagno – avanti verso le città della costa, verso l’Egitto, coperti dagli scudi e in marcia come tante tartarughe fino alla Persia, a saccheggiare le città d’oro. – Ah – disse il suo compagno, intonando una canzoncina oscena: Dario frignerà e i riccioli si strapperà, Quando i Greci l’oro di Persia saccheggeranno E le fanciulle trafiggeranno… – Proprio così – approvai con sbalordita animazione. – È una vita da uomini, ecco quello che è. Ma a me basta Atene. E – aggiunsi dopo una pausa, – non sono mica molti gli Ateniesi che vanno con Alessandro. Non è una guerra che ci riguardi, dopo tutto. È roba per i Macedoni credo. – Lo dici tu – replicò il più anziano. Lui e il suo compagno, fischiettando, stavano sostituendo una vecchia asse con una nuova. Il ragazzo rimescolava la pentola della pece. – Ce n’è parecchi che ci vanno. Certi combattono i Persiani per la gloria e con la speranza del bottino; certi altri per cambiare un po’… e sempre per il bottino. Metti che un ragazzo in gamba abbia avuto dei guai al suo paese, magari per aver rubato qualcosetta, o fatto a pugni, 0 portato via delle pecore… Taglia la corda, va all’estero e finisce con l’arruolarsi. – Mica tanti di Atene – ripetei ostinatamente. – Io non ne conosco nessuno. – Magari non ce ne saranno ancora fra i tuoi baldi vicini, ma degli altri ce n’è. L’estate scorsa l’Asia era piena. Appena approdato a Efeso ne ho incontrati cinque o sei. Mi ricordo un tizio con un occhio solo che si chiamava Democle. Veniva da una fattoria appena fuori d’Atene, ci aveva lasciato la moglie e quattro figlioli –. Batté il martello, enfaticamente. – E un ragazzo tutto ossa venuto da una conceria che aveva rubato il malloppo del suo padrone e aveva furia d’entrare nell’esercito. E un tale di alta statura di nome Filemone. Parlava bene, molto disinvolto. Era venuto dalla città. Mi offrì da bere in una delle taverne del porto. Aveva preso parte alla grande battaglia e pensava di seguire di nuovo l’esercito. Voleva sentire le novità di Atene. Sembrava troppo bello per essere vero. Il cuore mi diede un balzo, ma mantenni un viso impassibile. – E lui, che pasticcio aveva combinato? – domandai. – Una rissa in una taverna, così mi disse. Aveva mandato un uomo all’altro mondo, accidentalmente si potrebbe dire, a sangue caldo. Una disgrazia che potrebbe capitare a chiunque, ma lui dovette scappare. Proprio il genere di giovanotto adatto per fare il soldato: robusto, muscoloso. Non una corporatura da marinaio, ma ad ogni buon conto si era pagato il passaggio da Creta facendo il rematore. – A me piace vivere tranquillo – dissi. – Non sono un ladro, né uno che si lascia tirare nelle risse. Bel genere di gente se li incontri in una strada buia, il tuo amico conciapelli che ti ruberebbe la borsa e quell’altro mangiafuoco, quel Filemone, che ti darebbe una botta in testa. – Be’ – disse il secondo uomo, sarcasticamente – se vuoi startene a sedere sotto un albero ad aspettare che le olive ti caschino in bocca, la vita da soldato non fa per te. – Questo Filemone era un tipo come si deve – insistette l’altro. – Ora, rimanga tra noi, io credo che sia proprio lui quel tale di cui si parla tanto laggiù –. Accennò in direzione di Atene. – Non capisco, però, come possa essere rientrato, perché l’ho visto neanche due mesi fa, diretto a Oriente. Bevendo insieme mi disse di avere ad Atene la vecchia madre, che non avrebbe più rivista, ma non avrebbe certo arrischiato la sua pelle di fuorilegge per quella vecchia. E poi perché dovrebbe andare ad ammazzare uomini maturi qui in patria quando ci sono delle guerre a cui partecipare? Sicuro, se ne andò a Oriente dove si combatteva, e non da queste parti. E allora? È un mistero, ma dopo tutto non è affar mio. – Giusto – approvò l’altro. – Alla larga dalla legge e dagli affari dei ricchi dentro le mura. Non è roba per noi. Il mio cuore esultava. Non dissi nulla di Filemone, ma rimasi sul posto, incollato come se mi fossi seduto sulla pece. Mi tenni accanto ai due marinai, ascoltando i loro racconti, ammirando il battello. Diventato più loquace, spiegai d’essere venuto a vedere un amico che non era a casa, e che lavorava nel piccolo podere di mio padre a nord di Atene. Infine li persuasi a lasciarsi offrire da bere nella più vicina taverna del Pireo. Il vino era orribile e anche annacquato, e mi andò quasi per traverso combinato con il fetore di sudore e del pesce posto ad essiccare in una stanza vicina. Ma appresi i loro nomi senza domandarli, e scoprii anche dove ciascuno dei due aveva navigato durante l’estate, e con quale capitano, in modo da poterli identificare con certezza più tardi. Era il più anziano, naturalmente, che non volevo perdere di vista, quello che aveva incontrato Filemone. Pelieo il marinaio, figlio d’un marinaio. Aveva servito su una nave che portava carichi d’armi e di provviste alle città appena conquistate sulla costa durante l’estate. Dopo essermi allontanato da loro, mi trovai in imbarazzo su come passare il resto della giornata. Non volevo ritornare ad Atene prima del crepuscolo. Me ne andai a zonzo per il Pireo, discutendo occasionalmente sul prezzo del pesce e cercando di non farmi notare; poi sonnecchiai su un tratto solitario della riva sassosa. Pensai anche di andare in una delle case di piacere di cui il Pireo è ben fornito, ma mi figuravo che fosse difficile trovare una ragazza che non puzzasse di pesce fritto. Infine lasciai il Pireo nella precoce sera d’autunno, fischiettando e arrancando verso casa sui miei piedi indolenziti, con due pesci penzoloni dal bastone, come un bifolco che è stato al mercato. Il giorno dopo, ripensando alla mia gita, non mi sentivo molto euforico. Senza dubbio avevo appreso qualcosa. Avevo persino un potenziale testimone, e si poteva sperare che quel marinaio non lasciasse i nostri lidi per tutto l’inverno. Ma nel migliore dei casi, questo testimone, per giunta riluttante, poteva solo affermare che Filemone era stato sulla costa asiatica non molto tempo prima del delitto. Gli accusatori avrebbero ribattuto che Filemone avrebbe avuto tempo a sufficienza per ritornare ad Atene, se così avesse voluto. Quanto a me, ero convinto che Filemone se ne era andato a Oriente, come aveva detto al marinaio. No, il marinaio costituiva una buona occasione di mettere in dubbio l’accusa, poiché la sua testimonianza avrebbe rafforzato l’asserzione che Filemone era assente da Atene nel momento fatale, ma non era sufficiente a sostenere la mia difesa. Quanto ad aspettarmi di trovare per caso altre informazioni su dove si trovasse Filemone, sarebbe stato sperare troppo. Tuttavia non mi sentivo sfiduciato neppure sotto questo aspetto, poiché per la prima volta gli dei sembravano favorirmi. VII Taverne e vasi rotti Nei giorni che seguirono queste nuove speranze si misero a vacillare come un’immagine nell’acqua. Mi resi conto che gli accusatori erano tuttora in grado di dare una sinistra interpretazione ad ogni cosa. Se tutto ciò che si sapeva era che Filemone si trovava in Asia, potevano dire non solo che avrebbe potuto tornare a casa in tempo per il delitto, ma anche che si trovava in Asia come volontario nelle forze persiane, per sostenere le inquiete città della costa nella loro rivolta contro Alessandro. Non avevamo prove che fosse un soldato, e ancor meno che combattesse con Alessandro, e alludere a questo avrebbe potuto indurre gli altri a sostenere il contrario. A questo punto, era meglio che non menzionassi la faccenda. Esibire le mie vacillanti certezze alla seconda prodicasìa sarebbe stato come andare a cercar guai. Nonostante la mia prima avversione nei confronti dei suggerimenti di Aristotele, ora desideravo riprendere la mascherata. Mi occorreva sapere di più, e mi sentivo trascinato verso il Pireo. Una settimana dopo, ero di nuovo presso la Lunga Murata. Questa volta evitai di proposito il luogo dov’ero stato nella prima visita; mi sembrava imprudente rivedere troppo presto il mio marinaio. Vagabondai per le viuzze sudice, in una zona diversa del porto. Provai ad entrare in un’altra taverna, ma non appresi nulla, salvo alcune vivaci imprecazioni che non avevo mai sentite. Eppure ci tornai ancora pochi giorni dopo. Ero come uno che si lamenta del gusto aspro del vino nuovo e non può fare a meno di berlo. Questa volta girellai presso il Cantaro, sbirciando le grandi navi della flotta. Notai che alcune erano in condizioni pietose. Una di queste, una grande trireme da guerra, giaceva sul fianco come una mucca ammalata. Il legname della chiglia cominciava a guastarsi e a marcire, e la poppa era tutta ammaccata. Pensai che un giorno o l’altro sarebbe arrivato qualcuno con nuove assi e barattoli di pece a rimetterla in ordine. A mezzogiorno sedevo in una taverna buia, bevendo un modesto vinello e cercando di mangiare dei gamberetti cotti in olio rancido. Era una taverna di marinai e mi sentivo fuori posto, ma cercai d’apparire assente e indifferente. Il modo migliore per ottenere quest’effetto è essere assenti e indifferenti dentro. Liberai la mente da ogni pensiero e guardai distrattamente i trucioli, la paglia e gli sputi sparsi sul pavimento di terracotta, cercando di ricostruire con essi strani disegni, come in un mosaico. Immerso in una sorta di sogno mi accorsi che vicino a me un gruppo di marinai era impegnato in una specie di celebrazione. Li udii, non perché parlassero ad alta voce, ché anzi parlavano piano, assorti in una seria conversazione, ma perché uno di loro, a metà della frase, aveva pronunciato un nome che aveva il potere di calamitare la mia attenzione. – … Boutades. Che la sua anima sia dannata. Le assi erano di legno scadente, pino non stagionato. Dopo due viaggi sono bell’e marce, contorte come anguille. Non c’è pece che tenga insieme un simile fascio di legna da ardere. Il capitano sa cosa intendo dire. È come cercare di incollare le mascelle a un cane con resina d’abete. – E cosa avete fatto allora? – L’abbiamo rattoppata in qualche modo e via. Che Nettuno sia lodato! Sono sbarcato al Sunion e gli ho fatto un’offerta votiva, speciale. Ma se fossimo andati a fondo tutti quanti, non sarebbe stata colpa del mare. Mai vista una nave che imbarcasse tant’acqua. – È davvero una brutta faccenda – disse un uomo abbronzato di mezza età e dai modi autoritari che ritenni fosse il capitano. – Non è bene parlare contro uno dei nobili, perciò tenete a freno la lingua, ragazzi, e non cominciate a fare nomi. I morti vanno rispettati, d’accordo, ma mettere in mare una nave che spalanca le ganasce come un vecchio davanti al fuoco appena ha toccato un’onda o due! Non è una cosa che si possa accettare. E vi posso anche dire, visto che siamo fra amici – e qui si piegò verso gli altri, abbassando la voce ad un enfatico bisbiglio – sono stato da lui in persona. Su in città. Sono andato a dirgli quello che ne pensavo. Gli altri parvero divertiti e ammirati. – Scommetto che ti ha invitato a pranzo. – O l’hai invitato tu a un viaggio gratis sulla bella nave «Il Colabrodo»? – Oh, lui è stato tutto moine. Grasso come una foca e calvo. «Temo che ci sia un equivoco» mi ha detto, parlando difficile come tutti quei ricconi che si puliscono le gengive col burro. «È al cittadino Archimeno che dovreste rivolgervi per questa faccenduola. L’Afrodite, al momento, è sotto la sua responsabilità. Sono sicuro che vi rimetterà a posto la nave». – Sei andato da Archimeno, allora? – Per un bel pezzo ho temuto di non riuscire a farmi ricevere. Sono rimasto seduto nel suo cortile per una mezza giornata e anche più, con gli schiavi che venivano fuori a portarmi da mangiare, a cercare d’ubriacarmi o mandarmi via, o tutte e due le cose. «Che peccato! Il trierarca è appena uscito!». «Lo aspetterò» dico io «finché non torna». «Ma il padrone è molto occupato adesso!». «Non ho fretta» rispondo io «visto che in mare adesso non ci posso andare, resterò qui nel vostro cortile a raccogliere un po’ delle vostre pulci, grazie». Infine quand’è rinfrescato, sono riuscito a vederlo. Lui era in vantaggio su di me, seduto lì nella sua bella stanza (ma non bella quanto quella di Boutades), mentre io ero in piedi e tutto coperto di polvere. – «Bene, brav’uomo, sono molto occupato, di che si tratta?». «Si tratta di questo» rispondo, e avanti con la mia lista di cose che mancano e di cose che non funzionano, cominciando dal poco per finire col molto. «Mancano venti braccia di corda sull’Afrodite» dico, «e quella che c’è è logora come il mio mantello». Lui sorride a bocca storta. «Mi rincresce, mi rincresce, ma non è poi una faccenda grave. Si tratta, temo, caro capitano, d’un altro caso di furto da parte d’uno schiavo. Il de-te-rio-ra-men-to della loro condotta è deplorevole; ma non preoccupiamoci di simili inezie». «Non è mica tanto un’inezia» dico io; «e poi c’è il resto». E avanti col resto. Quando sono arrivato ai ceppi mancanti e ai remi pieni di crepe, Archimeno ha cominciato a spalancare gli occhi. E si è fatto smorto quando ho parlato della vela vecchia che doveva essere nuova. E quando sono arrivato alle assi deteriorate della chiglia e tutto il resto, è diventato giallo come un limone. Ed ecco che si alza in piedi, tremando e strillando come una donna: «Che gli dei mi aiutino perché sto impazzendo! Mi vogliono rovinare! Sono stato imbrogliato da quel furfante e non so come rifarmi, che Atena mi salvi!». Si strappava i capelli, quei pochi che aveva, con la faccia aggrinzita, come un bambino che piange. La scena somigliava quasi a una tragedia e lui a un attore, ma senza la maschera. Ma prima di scoppiare in lacrime s’è ricordato di buttarmi fuori. «Andatevene! Via! Che mi venite a raccontare di legname, di pece e di tela da vele?» e io: «Devo dedurre che sono licenziato dal servizio sull’Afrodite e che devo cercare impiego altrove?». «Sì! Andate via! Andate via!», grida. Così me ne sono andato, e questa è la fine della povera Afrodite. – Ma cos’era successo? – chiese il più giovane. – Credevo che fosse Boutades il trierarca a cui spettavano le spese dell’Afrodite. – Be’, non sapremo mai esattamente come stanno le cose; ma sembra che il trierarca Archimeno si sia assunto in parte o totalmente l’allestimento dell’Afrodite al posto del trierarca Boutades in cambio d’un debito. Un accordo privato, tra amici, molto civile. Ma quello che Archimeno non sapeva era che la nave dell’amico era in uno stato schifoso. Può succedere anche, diciamo, che un uomo che vuol realizzare un profitto d’una certa consistenza in un affare del genere faccia allestire la nave in tutta fretta, mettendoci del materiale scadente invece di quello nuovo. – Sarebbe davvero un bel profitto. Gli armatori lo fanno, a volte, se non li teniamo d’occhio – disse uno degli uomini, ridendo – ma per un trierarca la cosa è più facile. Uno scherzo. – Non mi pare uno scherzo – replicò il giovane, arrabbiato. – Ci sono delle vite in gioco: è un delitto… – Ma è ugualmente uno scherzo – insistette l’amico, ridacchiando ancora. – Un trierarca che vende a se stesso della corda scadente. – Ma non si può fare qualcosa? Una querela ad Antipatro? – Non fare il cretino. E non andare a riferire in giro quello che ho detto. Ricordati, è meglio non far nomi. Parla del cittadino Uno, del cittadino Due, se proprio devi, ma è meglio star zitti, salvo quando si è tra noi. C’è un po’ di disordine in città, e chi vuole andare in giro a denigrare il nome d’un uomo che ha fatto una morte orribile? Quanto al resto, non sappiamo da che parte tirerà il vento. Il re Agide e gli altri stanno ai remi, e ognuno rema in una direzione diversa, per così dire. Lascia stare la politica e trovati un lavoro per l’inverno. – In primavera – disse il giovane con convinzione – la flotta uscirà sicuramente. – Sembra probabile – ammise il capitano. – Io lo spero. Ma non prenotare una cuccetta su una nave di Archimeno – aggiunse, ammiccando. Poi uno degli uomini gridò: – Su, Paulos, dobbiamo bere ancora alla salute del tuo bambino – e le coppe furono riempite. Il resto non fu che una tediosa conversazione tra amici chiassosi. All’inizio della settimana seguente tornai da Aristotele per raccontargli le mie visite al Pireo vestito da poveraccio. Ero pieno di pensieri, soprattutto a proposito di Archimeno. Di recente questi aveva lodato Boutades in mia presenza come «molto stimabile… un vero patriota… molto generoso»; eppure, l’uomo che parlava del suo amico in toni da epitaffio, precedentemente in quella stessa estate si era lamentato di esserne stato rovinato. Forse non ero stato il solo ad adottare un travestimento. Aristotele era di umore allegro quella sera, mentre mi mostrava una grande coppa a due manici che aveva ricevuta in dono da uno dei suoi studenti. Sembrava poco propenso a interrogarmi su quel che avevo fatto. Mi sentii un po’ deluso. L’ultima volta che ci eravamo visti era tutto preso dall’idea di mandarmi a vendere verdura al Pireo, e adesso, a quanto pareva, non voleva parlare che di ceramica. – Viene fin da Poseidonia, è questo che è curioso – disse. – Non capita spesso di vedere merci venute dalle colonie. La decorazione è un po’ ingenua, ma è vivace –. Mi mostrò da vicino la larga coppa. Aveva uno strano disegno ricorrente di palme piatte, simili a dita d’una mano. Da un lato c’era un’elegante immagine di Diòniso; dall’altro, una scena in stile comico di un baccanale. All’estremità del gruppo c’era la tozza figura d’un vecchio, con occhi accesi e tratti assurdamente pesanti, in atto di danzare una giga con una ciotola sulla testa. – Una scena comica, no? – disse Aristotele. – Un po’ volgare, ma divertente. Il vecchio balla: tutto va bene. Penso che davanti a questa figura Eubolo abbia pensato a me, non credi? C’è una certa somiglianza nel naso e nella fronte, e un po’ anche nella corporatura. Almeno non è un dono d’amore. Ai vecchi tempi avevo degli allievi dagli occhi bovini che mi regalavano coppe con le figure di Zeus e Ganimede. Ecco – aggiunse. – Credo che la metterò qui –. La pose su una tavola; al riflesso del fuoco l’immagine del vecchio parve ammiccare e danzare. – Qui, vicino a questa fiaschetta piatta che sembra un’anatra. Anche questa viene d’Oltremare: da Volterra. Alla gente di laggiù piace molto produrre oggetti che somigliano ad anatre e galline, chissà perché. Piuttosto bruttina, no? La coppa è fatta molto meglio. Sai che l’argilla è diversa dalla nostra? Un colore più chiaro, sul bruno, come le ceramiche etrusche. Hai mai visto roba etrusca? Sapevi che le figure sono dipinte con della vernice rossa e non sono mai di vera argilla rossa? – No – dissi seccamente. Poi, ricordandomi le buone maniere, osservai: – Avete dei pezzi molto belli. – È vero. Quel vaso, ecco, è una bellezza –. Accennò al vaso, dove si vedeva un giovane che conduceva un cavallo bianco in mezzo a una folla di uomini e di dei. – Un po’ troppo ornato, ma squisito. È molto vecchio, apparteneva a mio padre: roba attica. E ho un cratere da vino di pura argilla rossa, piuttosto antiquato, ma è l’unico buon recipiente da vino che abbia in casa. Quell’altro lì – accennò a un piccolo cratere – con quella scena di caccia è piuttosto scadente. Sembra attico, ma è corinzio. Sapevi che l’argilla di Corinto è gialla, non rossa come la nostra? Quindi i vasai di Corinto non possono ricavare le figure rosse come nei nostri vasi. Dopo che gli si è data una buona mano di vernice sembrano uguali ai nostri, ma non lo sono. – No – ripetei. – Non lo sapevo. Non mi sono mai occupato molto di ceramica, a dire il vero. E non abbiamo niente di speciale a casa. – Oh, ma dovresti osservare le cose, Stefanos. I vasi sono molto interessanti, che tu li possieda o no. Alcune scene sono istruttive, altre sono divertenti. E tutto quanto, compresa la lavorazione stessa, è di qualche interesse… Dà qualche spunto di riflessione. Ad esempio, cos’è che rende l’argilla attica tanto superiore per quanto riguarda la lavorazione? Beviamo il nostro vino dall’anfora migliore: il gusto ci guadagnerà. – Boutades aveva una bellissima anfora – dissi, riandando ai miei ricordi. – L’ho vista in casa sua. – Be’, Boutades avrà avuto senz’altro delle cose preziose, no? Quello che c’è di meglio. E avrà ereditato alcuni pezzi importanti, vasi commemorativi in onore di un corègo, doni di familiari, e omaggi dai clienti. A noi macedoni ne sono rimasti pochi di questi cimeli di famiglia. Ma ormai Alessandro potrebbe riempirci una casa con tutti i bei vasi che gli hanno donato i suoi ammiratori ateniesi negli ultimi anni, e anche Antipatro. – Tutti con scene di battaglia di Achille ed Ercole, – suggerii io, un po’ scaldato dal vino. – A dire il vero moltissimi. Senza dubbio Polignoto si conquisterà molte simpatie facendo da promotore al dramma su Ercole in veste di corègo. Mi è giunta voce che le prove procedono molto bene. Il poeta ha inserito dei nuovi versi in onore delle vittorie più recenti di Alessandro. Pensai ai commenti che avevo udito una volta su Ercole e il destino di Chirone, ma non ne feci parola. – Incidentalmente – aggiunse Aristotele con maggior gravità – penso di doverti dire che alcuni hanno suggerito ad Antipatra che l’omicidio potrebbe essere un complotto dei Persiani per diffondere l’allarme in Atene, e per liberarsi di qualcuno dei più influenti cittadini fra quelli che sostengono la Macedonia. – Oh – dissi cupamente. – Non ci mancava che questa. Così Filemone diventa un traditore e un agente dei Persiani. Aristotele mi aveva sbalordito, perché recentemente anche a me s’era affacciato il timore che la parte avversaria cercasse di sostenere che Filemone si era battuto per i Persiani. Mi dissi che dovevo essere guardingo con Aristotele. Con l’animo sempre più triste mi chiesi se fosse saggio fidarsi di lui come amico, quest’uomo amico di Antipatro, quest’ometto pignolo, che riceveva costosi doni dagli studenti e dagli ammiratori e che poteva prendersela comoda, fra i suoi vini, i suoi libri e i suoi vasi… Era lontano da me mille miglia: mi domandai perché mi trovassi lì. – Smettila di fare il broncio, Stefanos, io non sono Alessandro e non ho l’abitudine di correre da Antipatro a riferire le conversazioni che sento –. Sembrava aver letto i miei pensieri, e mi guardava acutamente e con un po’ di malumore, come un maestro può squadrare un alunno irrequieto. – Mi dispiace – dissi guardandomi i piedi con imbarazzo, come il contadino che avevo finto di essere. Vi fu una pausa. – Mi sento davvero un idiota – dissi pieno di sciocca irritazione scuotendo la mia coppa di vino. – Dev’essere stato recitare la parte dello zoticone a rendermi così villano. Questo dimostra che Platone aveva ragione riguardo all’arte del recitare. Se in un dramma, o ancora di più nella vita vera, si recita la parte di una persona stupida o malvagia, questa corrompe l’anima e si diventa uguale a lei, a lui, insomma, sapete cosa intendo. – Ah, così sei stato a caccia di notizie – replicò Aristotele, vivacemente interessato. – Raccontami come hai recitato la parte del bifolco. La tua anima però non mi sembra affatto corrotta. Sono sicuro che non hai fatto niente di sbagliato. – Forse non mi ha corrotto l’anima, – risposi, – ma senza dubbio mi ha sporcato i vestiti e la pelle. Sono stato al Pireo tre volte e ogni volta sono rientrato puzzando come una bottega di pesce. Ne ho persino comperato, del pesce, e l’ho portato a casa. Adesso il solo pensiero dei gamberetti, specialmente se fritti in olio rancido, basta a farmi sentir male. – Ottimo! – rise Aristotele. – Se non puoi vendere verdure, compra del pesce. Un buon travestimento: il vero campagnolo che torna dal mercato coi frutti del mare appesi a un bastone. – Non mi è venuto in mente niente di meglio per andarmene senza destare sospetti, – protestai. – Come disse Arione parlando del delfino, – finì Aristotele. Fu molto divertito da questa sua battuta. – Ma dove sei andato esattamente? Hai scoperto qualcosa? Raccontami tutto. Obbedii, sebbene pochi minuti prima avessi deciso di non raccontargli mai più niente di importante. Aristotele riusciva a cavarmi le informazioni con dolcezza, come una donna che allunghi la lana fino a ricavarne un filo. Nonostante la sua aria ingenua, a volte ero sicuro di sapere in che modo in passato avesse fatto da ambasciatore e da spia in Asia. Gli narrai le mie tre visite, e gli ripetei tutta la conversazione il più fedelmente possibile. – Ecco – conclusi. – Sono tre le cose che ho appreso. Magari non tanto rilevanti, ma nemmeno del tutto inutili. Il punto principale è che adesso ho qualche notizia di Filemone. – Hm. Sì. E così ora sei stato tre volte al Pireo. Meglio non tornarci, Stefanos. Tanto va la secchia al pozzo… con quel che segue. Ma dopo tutto, la verità sta dentro il pozzo, vedi? – Ora – aggiunsi – so qualcosa di più a proposito di Boutades, ma non vedo come possa servire. E come posso essere certo che il capitano della nave diceva il vero? No, l’informazione non mi è utile, e non vedo come potrebbe esserlo, ma mi lascia perplesso. Avete notato, Aristotele, che qualsiasi cosa io abbia udita per caso a proposito di Boutades è stata sfavorevole? Eppure aveva una così buona reputazione. Mi domando se non fosse un uomo tanto odioso, che tanta gente desiderava vederlo morto. – Senz’altro – disse Aristotele. – Questo l’avevamo già stabilito prima, benché allora tu fossi entusiasticamente pronto a vedere sua moglie come l’assassina. E qual è la terza cosa che hai appreso? – La terza? Archimeno, naturalmente. Quello è un uomo che deve realmente aver odiato Boutades, benché ne parlasse così bene dopo la morte. Cosa succedeva su quelle navi? – Io penso che il tuo schietto amico, il capitano, debba aver avuto ragione nelle sue deduzioni. Gli aristocratici sono come anitre che galleggiano in uno stagno: serene e imperturbabili di sopra, ma intente ad annaspare furiosamente di sotto, e a provocare invisibili correnti sotto la superficie –. Aristotele fece una pausa e poi aggiunse: – Una cosa che mi colpisce è che c’è coinvolta una gran quantità di denaro. E abbiamo udito alcune cose strane a proposito di denaro. La moglie di Boutades che non aveva scarpe nuove. L’uomo era spilorcio nelle spese di casa. Non era dunque così ricco come tutti supponevamo? Si trovava improvvisamente a corto di denaro? O lo era già da tempo, così da dovere tirare sul soldo e magari imbrogliare per mantenere la sua posizione? – Ma – obiettai – Polignoto, il suo erede, non è povero. Ha sostenuto le spese di due ricchi funerali, e ora paga per la messinscena dello spettacolo teatrale. E non ha venduto nessuna delle terre di Boutades, né delle sue. – È vero. Naturalmente, Polignoto ha ereditato molto da suo padre. Ma, come tu dici, tutto ciò è strano. Forse Boutades era spinto da un risentimento personale contro Archimeno? E perché? Oppure aveva un tal bisogno di quattrini da indursi a fare un tiro vergognoso a una vecchia conoscenza? – È un’azione criminale, oltre tutto – insistetti. – Pensate ai poveri marinai. – Dubito che l’immaginazione di Boutades abbia potuto figurarsi uomini in carne e ossa alle prese col mare su una nave che fa acqua, e nemmeno la sorte di questa cattiva nave in una battaglia navale. Il suo senso morale, comunque, presumibilmente gli avrà fatto capire che imbrogliare fino a quel punto un altro trierarca non era una bella cosa. – E anche a questo proposito – dissi sporgendomi in avanti come il capitano nella taverna – pensate come deve essersi sentito Archimeno! Anzi, come si è sentito! «Sono stato imbrogliato da quest’uomo e non so come rifarmi». Se dobbiamo credere al racconto del capitano, era fuori di sé per il dolore e la rabbia, fino al punto di dimenticare che un forestiero di umile estrazione era nella stanza con lui. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, non ha fatto parola agli uomini della sua classe del torto subito, forse perché lo avrebbe fatto apparire stupido. La sua famiglia, per quanto nobile, in questo momento non ha molti alleati. Ricorderete certo che suo padre e suo zio furono sospettati di essere ostili ai Macedoni. Quindi, non ha potuto rifarsi su Boutades. Ed è anche un uomo retto e rigoroso. Se prendesse il sopravvento, il suo risentimento sarebbe enorme, soprattutto perché represso. Non pensate, Aristotele, che Archimeno potrebbe… Nella mia eccitazione, mentre mi chinavo in avanti, urtai col ginocchio contro la base della mia coppa; essa mi sfuggì dalle dita e s’infranse sul pavimento, spargendo attorno chiazze di vino e frammenti d’argilla. Arrossii violentemente. – Oh, Aristotele! Mi rincresce tanto! – balbettai cercando di raccogliere gl’inutili cocci. – Lasciate che ve ne compri un’altra… – Niente, niente – disse Aristotele, sorridendo. – Era una coppa senza valore, benché non sia molto cortese dire che servo i miei ospiti con coppe scadenti. Mi rincresce che non si trattasse di una coppa migliore, perché avrebbe prodotto un rumore più gradevole. Non preoccuparti d’una simile inezia. Pitia ed io ne rompiamo anche noi. Quando cominciamo a sentirci annoiati ce le tiriamo addosso per tenerci alto lo spirito. – Il pavimento… – mormorai mortificato. – Non pensarci, ti dico. Ad ogni modo, domani la schiava di casa dovrà pulirlo. Le macchie di vino mi rammentarono quelle altre macchie sul pavimento di Boutades. Anche là ogni cosa era stata ripulita da efficienti schiavi. – Guarda – disse Aristotele, prendendomi di mano uno dei frammenti e avvicinandolo alla luce del focolare. – Ti ricordi ciò che ti ho detto sulle argille? Bene, ecco qua: totalmente rossa. Un pezzo grossolano, eseguito senza grande perizia e di decorazione comune; ma mostra la sua origine attica. Dai tipi più modesti ai più eleganti, la materia essenziale è la stessa. Dovrebbe esserci una morale in questo. Se fosse stata una coppa etrusca sarebbe stata marrone chiaro e più ruvida –. E gettò il frammento nel fuoco. Gli piacevano i dettagli di questo genere. Strana cosa per un filosofo che, come pensano i più, preferisce meditare su grandi argomenti come la Bellezza o la Giustizia. Per quanto mi riguardava, un pezzo di terracotta ne valeva un altro. Pure, mi rendevo conto che chiacchierava per consolarmi della mia goffaggine e coprire il mio imbarazzo. Mentre guardavo i cocci che tenevo in mano, mi tornò in mente un particolare. – Ho trovato un frammento di ceramica – dissi. – Una cosa strana. L’avevo dimenticata. Fu quel giorno, nella casa di Boutades. O meglio di fuori, vicino alla finestra, per terra. Una piccola scheggia, venuta via da qualche oggetto di casa. Allora pensai che uno schiavo avesse rotto un vaso recentemente e ne avesse portato fuori i pezzi lasciandone cadere uno. Tutto qui. – Recentemente? Pensi che si fosse rotto recentemente? E perché? – Be’… non lo so. Un’impressione. Penso perché il bordo era ancora piuttosto tagliente, e perché non era schiacciato dentro la terra o insudiciato. – L’hai mostrato a qualcuno? – No. Gli altri se ne stavano andando. Non era che una scheggia. L’ho raccolto e ci ho giocherellato tanto per far qualcosa. – E poi l’hai ributtato via? – Credo… No, non l’ho buttato. Devo averlo portato via con me. Che sciocchezza. Mi ricordo d’essere rimasto ad almanaccare su cosa potesse essere il marchio o la lettera. – Quale marchio? Quale lettera? – Un segno, come una piccola croce. Così –. Lo tracciai sul pavimento. – Il marchio d’un vasaio, probabilmente. – Era vicino al bordo della rottura? – Sì, terminava nel bordo, in cima e di lato. Il frammento ha tutti gli orli spezzati. – Potrebbe essere parte di un’iscrizione, se si tratta di una buona ceramica. Il rottame era spesso o sottile? – Sottile, più sottile di questi – dissi arrossendo di nuovo. – Sai, se potessi ritrovare questo frammento mi piacerebbe darci un’occhiata. Mi piacciono gli enigmi. Sarebbe interessante ricostruire un’iscrizione basandosi su due soli tratti. Potrebbe essere quasi altrettanto interessante che guardare un intero vaso di Poseidonia. – Di certo sarà stato gettato via da un pezzo – dissi dubbiosamente. – Ma guarderò. E mi accomiatai, lieto di allontanarmi dalla scena del mio imbarazzo. Inoltre, non mi dispiaceva allontanarmi dalle macchie di vino sul pavimento. Nel chiarore del fuoco, erano troppo simili a qualcos’altro. Provavo anche un senso di paura. La rottura della coppa e lo spandersi del vino erano capitati in un momento assai inopportuno, e proprio a me, che di solito non rompevo mai nulla. Tutto quanto appariva come un presagio. Era come se nel momento in cui avevo accennato il nome di Archimeno, gli dei o un’altra forza oscura degli Inferi avessero approvato. E Aristotele non aveva mai risposto alla mia domanda incompiuta, come se un potere misterioso gli avesse serrato le labbra. Invece di esserne incoraggiato, mi sentivo terrorizzato. Se anche gli dei mi avessero detto chi fosse l’assassino, io continuavo a non sapere cosa fare. Questa non era una prova che potessi produrre al processo. Se avessi dovuto dimostrare la mia conclusione, continuavo a non sapere come trovare le prove. VIII Sangue e insulti Non avendo di meglio da fare, cominciai fin dal giorno dopo la ricerca del pezzo di ceramica rinvenuto fuori dalla casa di Boutades. All’inizio cercai distrattamente, essendo convinto che il frammento doveva essere stato buttato via già da un pezzo. Ma, man mano che procedevo nella mia ricerca, essa si faceva più interessante. Chiunque cerchi qualcosa spera vivamente di trovarla. Frugai tra i miei abiti nella cassapanca, scrutai sotto i mobili e dentro i vasi, negli angoli vuoti e spazzati per bene, coi metodi futili di chi cerca un oggetto perduto. Infine, entrai alla chetichella nelle stanze delle donne. In camera di mia madre passai in rivista le vesti nella sua cassapanca, e poi mi misi ad esaminare le scatole e le ciotole sulla tavola. Aprii il cofanetto nuovo di legno intarsiato che mio padre le aveva donato poco prima di morire, e guardai i gioielli e gli ornamenti che conteneva. Naturalmente, non vi era traccia di ceramiche rotte. Ma poi notai il vecchio cofanetto che stava dietro, un oggetto rotondo piuttosto malconcio, e l’aprii. C’era un mucchietto di oggetti di vario genere, di quelli che le donne hanno l’abitudine di conservare: una fibbia rotta, il dente da latte d’un bambino, un ricciolo di capelli, e proprio in mezzo a queste cianfrusaglie, ecco il frammento perduto! L’avevo appena raccolto e infilato nella manica quando mia madre apparve sulla soglia. – Santo cielo, Stefanos, cosa fai qui? Perché stai guardando nel mio portagioielli? Pensai ad una scusa, e sorrisi timidamente, come un bimbo colto con la mano sui dolci. – A dire il vero, mamma, mi stavo chiedendo che regalo ti potesse servire per la tua festa. Arrossì e prese un’aria compiaciuta, ma replicò: – Stefanos, figlio mio, non spendere denaro per me. Non ho bisogno di nulla! – Mi mise una mano sulla fronte e mi guardò con ansia: – Stai proprio bene, ragazzo mio? Lo zio della moglie di tuo zio, da parte materna, si ritrovò con la mente sconvolta dalle preoccupazioni. Non ricordo bene se fu quando perse tutto il suo denaro o se fu perché i reumatismi non gli davano tregua, ma all’inizio era molto calmo, poi cominciò a comportarsi in modo veramente strano: buttava all’aria le cose in tutta la casa e cantava a squarciagola, a volte quasi tutto il giorno e a voce altissima, e nessuno riusciva a farlo smettere. – Sto benissimo – la rassicurai. – La mia mente funziona perfettamente, e di sicuro non mi metterò a cantare. – Allora, mio caro – riprese apparentemente tranquillizzata – non gironzolare nei quartieri delle donne. Se le domestiche se ne accorgessero, farebbe una brutta impressione. Spero che alla tua età tu non stia diventando un pignolo, come certi uomini che s’impicciano di tutte le faccende di casa. Si diventa come Boutades se non si sta attenti. – Boutades? – Oh, sì – rispose mia madre sedendosi comodamente sul letto. – Non mi piace ascoltare i pettegolezzi degli schiavi, naturalmente, ma sai, Stefanos, che negli ultimi tempi Boutades era diventato proprio strano sotto questo aspetto? S’era messo a contare le cose. – Contare? Che genere di cose? – Be’, andava a spiare dentro le scatole e le casse di sua moglie, contando i gioielli e gli ornamenti. E faceva liste di tutti gli arredi. Un giorno insistette che tirassero fuori tutti i vasi e i piatti di casa, e anche di questi fece un elenco. Naturalmente, molti uomini vogliono vedere dove va a finire il loro denaro e quanta roba possiedono, ma questo era strano, no? Poi andò fuori e comperò altri oggetti, come due piccole anfore e dieci coppe della migliore qualità, e aggiunse anche queste alla lista. Le donne erano proprio stufe del suo ficcare il naso dappertutto, vecchio scemo che non era altro. – Magari voleva semplicemente qualcosa da fare – dissi. – È così anche per te, Stefanos? Vuoi qualcosa da fare? Vai ai bagni o nell’agorà, ma non diventarmi un «massaio», non sta bene. – Credo che non ce ne sia pericolo – replicai. Mia madre mi lisciò i capelli con la mano. – Su, Stefanos, mi sembri così stanco. Oh, povera me, non avrei dovuto ricordarti quell’uomo odioso –. Era chiaro che, poiché Boutades aveva avuto il cattivo gusto di coinvolgerci nel suo assassinio, mia madre lo considerava un nemico personale della famiglia. Le diedi un bacio. – In ogni caso – aggiunse lei – non credo che sarai mai spilorcio come Boutades. La primavera scorsa, quando regalò a sua moglie alcuni bei gioielli, le disse di non pensare di portarseli nella tomba come offerta votiva; erano troppo preziosi per questo. Figuriamoci! Io preferirei ricevere una ghirlanda di fiori dal mio caro figliolo che non i più ricchi ornamenti con così poco garbo. La guardai preoccupato, e mi resi conto che nelle ultime settimane l’avevo trascurata. Questo era un brutto momento per lei che aveva perso il marito di recente, e probabilmente lei e la zia Eudossia erano tenute alla larga dalle altre donne adesso che su di noi pesava un tale disonore. Lei si accorse del mio sguardo, benché non ne conoscesse la causa, e mi diede una pacca sulla mano. – Non preoccuparti, Stefanos, e va’ a divertirti. Ti preparerò una tisana di lattuga da prendere stasera prima di andare a letto. E penso che farò anche quei pasticcini al miele che piacciono tanto a Eudossia. Si affrettò ad uscire, avendo cura però che io la precedessi e lasciassi in buon ordine le stanze delle donne. Io mi portai in camera il piccolo frammento e lo misi in un posto sicuro. Era una cosa di nessun valore, tuttavia l’avevo cercata e trovata. Suppongo di dover attribuire la buona o cattiva sorte di quel ritrovamento al fatto che mia madre è una di quelle persone che non sono capaci di buttar via nulla. Doveva aver trovato il frammento per terra e poi averlo messo distrattamente nel suo cofanetto di cianfrusaglie. Non mi sono mai preoccupato, né prima, né dopo, di andare a fondo nella questione; indagare avrebbe creato solo confusione, e sono certo che mia madre non si sarebbe mai ricordata di come aveva trovato il frammento. Mi diressi all’agorà in uno stato d’animo abbastanza allegro. A mezzogiorno vagabondai verso le bancarelle in cerca di qualcosa da mangiare. La giornata era fredda e mi sentivo affamato; mi fermai vicino ad un bancone dove si vendeva della carne cotta. Mentre mi domandavo che cosa comprare, si avvicinarono due uomini. Erano Teosoforo, con il suo mento lungo e la solita aria da criticone, e il rispettabile Archimeno, più magro e forse più calvo del solito, con le due rughe austere sulla fronte simili a dei solchi su una pietra. Pensai che forse non mi avevano riconosciuto vedendomi solo di spalle. Dalla prima prodicasìa in poi ero stato tenuto ancora più alla larga di prima. Li salutai con spensierata affabilità. Archimeno si limitò a un cenno, ma Teosoforo disse: – Ah, Stefanos, il giovane avvocato. Che peccato che tuo padre sia mancato così presto, che peccato – ripeté, scuotendo la testa. – Siamo tutti così dolenti per la tua povera famiglia senza più un capo. Mi meraviglio che tua madre non abbia miglior cura di te e ti lasci uscire in una giornata così fredda e ventosa. – Sì – approvò severamente Archimeno – i medici parlano molto di raffreddori e di febbri in questo periodo dell’anno, e anche del malefico influsso delle stelle. Così come non so cosa avesse spinto mia madre a conservare qualcosa che era stato buttato via, non so cosa spinse me in quel momento a dire cose che sarebbe stato meglio non dire. Ovviamente avevo rimuginato molto su Archimeno, e adesso che l’avevo a portata di mano, non volevo lasciarlo andare. I loro insulti, ossia le implicazioni che non ero un uomo, né padrone in casa mia, erano del genere che provoca all’azione. Presi un’aria gioviale, e gettando una moneta al padrone del banco, afferrai una salsiccia e mi misi a mangiare con apparente appetito. – È una giornata fredda come dite, signori – affermai cordialmente. – Alcuni filosofi pensano però che i venti portino via gli umori malefici. Tutte le cose hanno un lato buono e uno cattivo. Un vento simile è buono per il mare e cattivo per i marinai, come dicono –. Guardai fisso Archimeno e seguitai: – Sì, penso che se fossi un marinaio resterei a terra, e ci resterei in qualsiasi altra stagione, a meno di esser sicuro del mio battello. Ma naturalmente, delle buone vele e un fasciame robusto possono sopportare le peggiori bufere. Non è così, trierarca? Mi parve di vedere Archimeno spalancare gli occhi. Mi lanciò un’occhiata torva da sopra il naso. – Non è consigliabile mettersi in mare – spiegai – se gli schiavi si sono permessi di rubare le corde e sostituire legname cattivo a quello buono. Suppongo che la zattera di Ulisse fosse costruita con assi solide, ma può anche darsi di no. In effetti affondò, ricordate? E lui dovette nuotare per raggiungerla. Ma non si può certo accusare Calipso di avergli fornito materiale scadente –. Non so come mai mi fosse tornata in mente l’Odissea; forse gli insulti rivoltimi prima mi avevano ricordato il trattamento riservato a Telemaco dai pretendenti di sua madre. Ad ogni modo, potrei giurare che Archimeno fosse impallidito alle mie osservazioni insolenti, mentre Teosoforo, a cui quanto stavo dicendo sembrava un vano chiacchierìo, disse seccamente: – Che sciocchezze vai raccontando, Stefanos? È chiaro che i marinai non escono in mare tra le bufere dell’autunno. – Ma io stavo pensando ad Ulisse – dissi cercando di apparire sincero – si sarà trovato certamente in mezzo alle bufere autunnali, ed è per questo che naufragava, o almeno rischiava di naufragare così spesso. In questi tempi sto rileggendo il poema –. Mi rivolsi al venditore di carne. – Vorrei un altro po’ di quella salsiccia, brav’uomo. Se non vi dispiace, preferirei tagliarla da me. Il venditore mi passò il coltello; e allora, spinto da chi sa quale demone dentro di me, feci una cosa molto strana. Mentre tagliavo la salsiccia tenendola maldestramente, mi ferii deliberatamente con il coltello. Fu solo un piccolo taglio, ma ne uscì una gran quantità di sangue, come a volte avviene con tali piccole ferite. Il sangue schizzò sul banco, e il pezzo di salsiccia, chiazzato di sangue anch’esso, cadde giù e rotolò sulle pietre. – Oh, cielo, guardate un po’ cosa ho fatto – dissi in tono preoccupato succhiandomi il pollice. – «E il buon cibo si sparse in terra» – aggiunsi, citando quel passo dell’Odissea in cui l’eroe incomincia ad abbattere i Proci nella sala del banchetto. Ormai non c’era dubbio: Archimeno stava diventando molto pallido. – Non c’è bisogno di buttare per terra del buon cibo – ribatté il venditore. – E guardate come avete ridotto il mio banco. Tenete il vostro sangue per voi. – «Il pavimento si era fatto scivoloso per via del sangue» – citai, e poi aggiunsi: Cominciate, tu e le donne, a portar via i cadaveri. Poi lavate i deschi e le eleganti sedie con spugne porose. – Avete una spugna porosa, spero? – dissi al venditore. – Anche se non avete deschi e sedie eleganti. Ripulite il vostro banco dal sangue. Ecco, questo vi aiuterà! – Gli gettai una dracma con aria principesca, e quello si calmò subito. Mi voltai giusto in tempo per vedere Archimeno vacillare. Aveva la faccia verdastra, come per il mal di mare. Si afferrò a un lato del banco per mantenersi in equilibrio. – Odio la vista del sangue – borbottò con voce rauca. – Niente, niente! Non mi sono mica fatto male – dissi allegramente. – È solo un graffio. Se ci fosse qui una bella ragazza, le farei un inchino e direi: «Un piccolo sacrificio ad Afrodite!» – e sottolineai con intenzione l’ultima parola, agitando la mano sanguinante in aria. A quel punto Archimeno svenne davvero, o quasi, scivolando a terra. Mi mossi verso di lui, ma Teosoforo, sostenendo il suo amico, mi gridò arrabbiato: – Vattene via! Torna a casa e fatti passare la sbornia. Il tuo precettore non ti ha insegnato un po’ di creanza? – Come volete – risposi allegramente. – Vi suggerisco di mettergli la testa fra le ginocchia –. Questo era in effetti ciò che Teosoforo si apprestava a fare. – Arrivederci – aggiunsi. – Chi avrebbe mai pensato che un uomo sarebbe svenuto come una ragazza… una ragazza molto giovane, voglio dire, perché nemmeno una donna lo farebbe per un simile nonnulla –. Dissi tutto ciò a voce alta, nella speranza che Archimeno potesse udirmi. Se solo non avessi detto quelle parole sciocche e non avessi agito da stupido pavoneggiandomi come un ragazzino! Se mi fossi comportato in modo dignitoso e rispettoso avrei potuto risparmiare a me stesso molti fastidi e pericoli. Al contrario, mentre lasciavo il mercato non provavo altro che piacere, poiché avevo segnato un punto per Filemone. Continuavo a non avere alcuna dimostrazione logica, ma mi convinsi che la mia idea riguardo al presagio fosse stata confermata. L’affare delle navi malandate evidentemente irritava Archimeno. Quello che al suo amico era parso il farneticare di un ubriaco, per il trierarca aveva avuto un senso preciso. La sua perdita e la preoccupazione per l’Afrodite chiaramente lo toccavano da vicino. Ma c’era di più: la vista del sangue, la mia citazione dall’Odissea, non l’avevano forse sconvolto perché gli richiamavano la sua vendetta sull’uomo che l’aveva ingannato? Altrimenti, perché svenire? In effetti, gli uomini non si sentono male alla vista d’un graffio. Ma sentir rammentare una sanguinosa vendetta compiuta con arco e frecce e aggiungervi la vista di vero sangue poteva essere stato troppo per l’assassino. Sì, Archimeno doveva essere pieno di paura. Che sciocchezza da parte mia quel giorno pensare ai timori d’Archimeno e trascurare i miei! Il giorno della seconda prodicasìa mi trovò più saggio. La parte avversaria era lì: tutti vestiti di abiti invernali nuovi di fine lana follata che li facevano apparire ancor più maestosi. Nei suoi paludamenti invernali, il grave Euticleide appariva più che mai un pilastro della moralità pubblica. Persino Telemone sembrava ben messo, serio, e neanche troppo stupido. Polignoto, un po’ più magro, era sempre di bell’aspetto, ma più con l’aria d’un uomo d’affari di mezza età: adesso sembrava molto più anziano di me. Notai che lo schiavo al suo seguito era il Sinopeo dai capelli tinti di rosso, quello che avevo visto subito dopo il delitto, quand’era ritornato con il fiato corto dall’inseguimento dell’assassino. Mi ricordai dei commenti fatti allora su di lui. Di certo nessuno pareva disposto ad attribuire l’omicidio a uno o più schiavi. E appariva improbabile che lo schiavo fosse stato frustato per essersi lasciato scappare l’assassino. Portava una tunica nuova e appariva robusto e compiaciuto mentre stava in attesa allegramente fuori dalla porta. Non potei impedirmi di sospirare. Quanto sarebbe stato meglio per me e per i miei se il delitto fosse stato opera degli schiavi. Sulle prime, l’udienza si svolse proprio come me l’aspettavo, ricapitolando quanto era già stato detto. Io ripetei la mia difesa, asserendo che Filemone non poteva essere ad Atene all’epoca del fatto. Mi stavo ancora domandando se fosse il caso di dichiarare, una volta iniziata la nuova fase, che speravo di portare in aula un marinaio in grado di confermare che Filemone si trovava altrove, ma fui preceduto. Infatti, quando il Basileus si volse al gruppo avversario per chiedere se avessero del nuovo materiale da produrre, Euticleide disse con voce rimbombante: – A dire il vero, sì, signore –. Io mi feci tutto orecchi. – Abbiamo – riprese Euticleide schiarendosi la gola – nuove testimonianze sulle attività dell’accusato; e delle prove che contraddicono le asserzioni fatte dalla difesa –. E mi diede un’occhiata severa. – Abbiamo, signore, un soldato delle truppe di Alessandro, ritornato da poco ferito dalla guerra. È un pover’uomo, ma appartiene alla nostra fratrìa. Ci ha detto che l’accusato, Filemone, ha partecipato anche lui alla grande battaglia presso la città di Isso. Ma, signori, Filemone si batteva dalla parte dei Persiani! Fece una pausa per permettere alle parole di penetrare a fondo. Per poco non mi cedettero le ginocchia. Questa era una delle cose più orribili che si potessero dire di un uomo. «Amico dei Persiani» è un’ingiuria orribile; in passato le famiglie venivano condannate all’esilio per il loro sostegno ai Persiani. Combattere per i Persiani equivaleva ad alto tradimento. Alessandro aveva mostrato quello che ne pensava dopo la battaglia del Granico, quando aveva ordinato che tutti i Greci che avevano combattuto per Dario fossero immediatamente passati per le armi. Filemone ed il suo patrimonio non potevano attendere grazia dai pubblici poteri, se veniva provata una simile accusa contro di lui, e forse anche se diventava semplicemente opinione corrente. Visto che quelli che erano contro Alessandro dovevano tenere nascoste le loro idee politiche, i vecchi sentimenti popolari di odio verso i Persiani potevano sfogarsi incontrollatamente. Tutti, i nobili come i poveri, avrebbero potuto esecrare Filemone a loro piacimento. Mi sentivo come se mi avessero cucito in un sacco e non potessi più né muovermi né respirare. – Dopo la disfatta dei Persiani – proseguì Euticleide – quando gli sciagurati mercenari si staccarono da Dario per la sua viltà, quest’uomo, come alcuni altri rinnegati, prese la direzione dell’Occidente attraverso le città ribelli. Euticleide dovette intuire che stavo freneticamente cercando di ricordare date e calcolare tempi, poiché aggiunse: – La battaglia presso Isso ebbe luogo più di un anno fa: egli ha avuto dunque vari mesi di tempo per ritornare. Questo soldato ne ha avuto notizie a Sidone: Filemone era già tornato in Grecia per via mare. Aveva una cicatrice sopra un occhio, per una ferita ricevuta in battaglia, e così la gente lo ricordava facilmente. Ci fu un breve silenzio, ed io ritrovai la voce: – Dov’è questo testimone, questo soldato? Fatelo venire! – Signore – disse Euticleide – abbiamo pensato fosse più saggio non presentare l’uomo in questa udienza. È ferito e ammalato, il freddo gli nuoce alla salute. Sarà portato davanti a voi più avanti. Intanto abbiamo preso nota della sua deposizione, che vi sarà presentata per iscritto se la vorrete accettare. – Il suo nome? – domandò il Basileus. – Perdonatemi, signore – Euticleide mi lanciò un’occhiata – so bene che è irregolare nascondere un nome, ma davvero… ci sono tanti pericoli. Si tratta di un uomo debole, ferito, che non è in grado di difendersi. Non ha bisogno di farsi dei nemici –. E qui Euticleide mi rivolse uno sguardo eloquente, come se fossi un forzuto manigoldo che non ci avrebbe pensato due volte ad abbattere un uomo con una mazzata in testa. – Il suo nome sarà rivelato al momento opportuno, quando porteremo qui l’uomo a deporre direttamente. – Sì – disse Polignoto di rincalzo. – Se volete, prendetela come una semplice dichiarazione d’intenti. Ma non ci pareva giusto tenere segreta questa prova, e ci riserviamo di produrla in futuro, tenendo conto dello scopo della prodicasìa. – Molto bene – approvò il Basileus. – Che cosa avete da dire, Stefanos? – Questa è un’accusa mostruosa – replicai con quanta forza potevo. – E da parte di un anonimo, oltre tutto! Signore, chi potrebbe confutare un’ombra? E se quest’uomo si può trovare, chi è in grado di provare che è Filemone quello che ha visto? In un momento come questo, se vogliamo diffamare il nome di un qualsiasi uomo assente dalla città, possiamo dire che è andato a combattere per i Persiani. Tutto ciò che si sa di Filemone è che è andato lontano ed è rimasto lontano, ma non era il tipo da battersi contro i Greci –. Ci fu una risatina sommessa da parte di qualcuno, Telemone, probabilmente. Nella mia ultima frase avevo usato un’espressione infelice. Non era stato forse battendosi con un Greco che Filemone era stato condannato la prima volta? Io seguitai in fretta: – Non posso ammettere che questa sia una prova, mancando sia il testimone, sia un documento firmato da lui. Può essere accettata unicamente come dichiarazione d’intenti se il Basileus lo concede. Io certo non sono in grado di difendere mio cugino contro un uomo che non esiste ancora davanti a questa Corte. Non potei trovare altro da aggiungere. Sarebbe stato il colmo della stupidità precisare che anche se Filemone avesse combattuto per Dario, questo non provava che fosse l’assassino di Boutades. A norma di logica la cosa era vera, ma un simile argomento sarebbe equivalso ad ammettere in anticipo che Filemone era un traditore, e questo doveva essere smentito ad ogni costo. A questo punto sarebbe stato rischioso riferire il mio brandello di supposta prova, e cioè che un marinaio aveva visto Filemone in terre lontane non molto prima del delitto. Tutto ciò poteva essere facilmente falsato in modo da collimare con la loro storia. Dovevo riflettere prima di decidere se dovevo servirmi in futuro della testimonianza del marinaio. Al momento la mia mente era paralizzata. Una volta accettata, l’idea che Filemone potesse aver combattuto per i Persiani era sufficiente anche senza la responsabilità dell’omicidio a spogliarlo di ogni proprietà e a tenerlo per sempre in un miserevole esilio, magari anche con una taglia promessa a qualsiasi Greco o Macedone che riuscisse a ucciderlo. Il Basileus domandò se avevamo qualcosa da aggiungere, ma non fu detto altro, e presto ci fu permesso di andarcene. Sfilammo via decorosamente, attraverso la piccola folla di sfaccendati che si raduna sempre in qualsiasi luogo dove accada qualcosa d’importante. Polignoto se ne andò seguito dal mellifluo ragazzo di Sinope, e Euticleide si avviò con aria d’importanza giù per il colle, in compagnia di alcuni clienti che l’avevano aspettato. Io mi lanciai verso un comodo gruppetto d’alberi, dove potei liberarmi in pace la vescica e le budella che erano sul punto di scoppiare. Quando ripresi a scendere giù per il sentiero, inciampai quasi in Telemone, che se ne andava in giro zoppicando come al solito. – Non hai un bell’aspetto, – commentò questi. – È molto doloroso per te, eh sì, molto doloroso. Imprecai mentalmente e digrignai i denti. Quant’è ripugnante la pietà di coloro per cui proviamo antipatia o sfiducia. – Sto benissimo, vi ringrazio, – risposi, e mi misi a camminare più in fretta che potei. Ma il vecchio scemo zoppo sembrava deciso a far strada insieme a me, e seguitò a chiacchierare allegramente al mio fianco, come se stessimo tornando da una festa. – C’è Euticleide avanti a noi. È un uomo molto impegnato Euticleide. Ed è anche uno che sa come condurre gli affari, non credi? È grazie a lui che siamo usciti dalla prodicasìa così in fretta. Un altro l’avrebbe menata per le lunghe. Ma anche Polignoto è in gamba. Ha veramente un gran cervello, pur essendo così giovane. Sai che sta piantando degli olivi nuovi? Quella proprietà gli frutterà senza dubbio dei grossi guadagni. E così gli ho detto: «Perché non ingrandisci la casa, Polignoto? Il materiale da costruzione non rincarerà in questo periodo». E lui ha detto che è esattamente quanto ha intenzione di fare non appena si sarà liberato dei suoi impegni come corègo. – Spero che lo spettacolo proceda bene, – dissi freddamente. – Sì, benissimo. E che costumi! Non si è badato a spese. Alessandro ne sarà compiaciuto. Suppongo che non sarà presente, ma certamente apprezzerà l’omaggio contenuto nella storia di Eracle. Sai, credo che Polignoto sia proprio il tipo di uomo, di giovane nobile ateniese, che piace ad Alessandro. Senza dubbio Alessandro desidera che Atene poggi su una base solida. Antipatro ha invitato Polignoto a casa sua. E lui ci andrà al suo ritorno da Corinto. – Quindi partirà per Corinto? – Sì, per affari. Per riscuotere un debito dovuto a suo zio. Partirà oggi. È così coscienzioso. E ha un tale rispetto per la memoria di suo zio, se mi perdoni l’indelicatezza di nominarlo. Polignoto ha fatto preparare una magnifica lapide col miglior marmo di Caria ed un elegante lavoro di intaglio. Non lo sai? Le figure di Boutades e sua moglie in rilievo – (le sue mani le disegnarono nell’aria) – e un epitaffio. In questo momento ci lavora Tecnofilo, il migliore incisore su pietra, nella sua bottega. È quasi finita. La gente ci va solo per guardare. Dovresti andarci anche tu. È una vera e propria opera d’arte. Gli ci è voluto un bel po’ per trovare il marmo. Concordai che si preannunciava una gran bella lapide. – Bene, come stavo dicendo, l’invito di Antipatro sta a significare che Polignoto è un personaggio assai stimato nelle questioni politiche, no? Ha una tale competenza. Io gli ho detto: «Polignoto, pare che il fato ti sorrida in questo momento». Anche se questo odioso delitto è avvenuto in casa sua, la sorte sembra favorevole. Antipatro ha bisogno di circondarsi di uomini intelligenti e saggi, come il maestro Aristotele di cui è tanto amico. Io credo che Polignoto starebbe benissimo al fianco di Aristotele; sarebbero un po’ come il Protettore della città e il Filosofo. Polignoto lo ha conosciuto al Liceo, ovviamente, come te d’altronde, non è vero? Ma, purtroppo, dimenticavo che tu non hai avuto molto tempo da dedicare agli studi. Che peccato. Mi faceva male la testa. Non riuscivo a capire dove esattamente questo garrulo Telemone volesse andare a parare, ma non riuscivo a indurmi a credere che la nostra conversazione, o meglio, la sua, fosse casuale. Forse era stato Euticleide a dirgli di parlarmi, o magari l’aveva fatto di testa sua. Telemone avrebbe potuto avere una mente molto più brillante e malevola di quanto gli avessi fatto credito, oppure queste potevano essere solo chiacchiere senza malizia. Non aveva importanza. Mi figurai il quadro che gli altri Ateniesi dovevano avere della situazione: da una parte il povero Stefanos, circondato solo da donne e con un cugino lestofante; dall’altra il brillante Polignoto, con tutto il suo clan ad assisterlo e a godere del suo successo. Io avevo insinuato che il loro testimone non esistesse, ma sapevo che esisteva quanto bastava. All’interno della fratrìa c’era un vecchio soldato. All’interno della fratrìa c’era sempre qualcuno pronto a fornire quanto era richiesto. Non mi sarebbe servito a nulla affermare che il testimone fosse corrotto; probabilmente non era stato nemmeno necessario corromperlo, se desiderava accattivarsi le simpatie della fratrìa. Magari era tutto vero… Che orribile pensiero! In cuor mio non potevo dire di essere sicuro che Filemone non avesse mai combattuto per i Persiani; magari prendeva parte a qualsiasi combattimento gli capitasse. Ero in dubbio, e la vita mi sembrava più amara. – Sei molto silenzioso, Stefanos, – disse Telemone in tono premuroso. – Sì, – ammisi io. – Pensavo a quanto stavate dicendo. Questo era verissimo. Tutto quanto diceva Telemone era carico di significati. Lasciaci in pace, non affannarti a cercare di difendere il tuo parente. È un’impresa disperata. L’avevano già detto per mezzo della loro sconcertante «prova», e adesso Telemone lo ribadiva, parlandomi della grandezza della loro tribù. Noi siamo forti, voi siete deboli. E lo erano davvero forti, e sicuri di godere del favore di ogni autorità terrena. Le autorità terrene e quelle celesti non sono sempre d’accordo riguardo a queste cose, ma le storie che ce lo narrano non sono molto confortanti in proposito. Pensai a Edipo nella sua tomba a Colono che lasciava Creonte, i suoi figli e i Tebani a distruggere ogni cosa a loro piacimento. Persino la mia amicizia con Aristotele sembrava ambigua e illusoria. Forse Telemone intendeva ricordarmi quanto fosse fragile la mia intesa con questo Macedone. Era ben poco probabile che l’amico di Alessandro intendesse prendersi a cuore le vicende di un soldato di Dario! Niente di quanto era stato mio sembrava più mio in quel triste momento. In seguito sarei stato più ansioso, più spaventato, addirittura terrorizzato, ma non sarebbe accaduto nulla di tanto orribile quanto quel momento in cui il mio mondo sembrava sfuggire alla mia debole presa mentre restavo a guardare impotente, come un’ombra. Chi avrebbe mai pensato che uno sciocco come Telemone potesse uccidere un uomo con le sue parole? Vidi due uomini ai piedi della collina, e li riconobbi. Erano Teosoforo e Archimeno. Parlavano con gli altri usciti dal tribunale. Si interruppero e ci rivolsero un’occhiata gelida. Mentre ci avvicinavamo, l’austero Archimeno mi sbalordì gridando: – Adulatore dei Persiani! Ruffiano dei Persiani! Leccaculo di Dario! Queste parole ebbero almeno il merito di scuotermi dalla mia apatia, e per questo lo ringraziai. Non solo quegli insulti furono uno choc, ma ci si può aspettare un linguaggio così osceno da balordi di strada, non da un austero cittadino. Non poteva certo essere tacciato di usare un velato sarcasmo. Teosoforo, invece, aveva il suo solito aspetto. Quando mi avvicinai, disse semplicemente: – Perché non ci fai vedere le tue stoffe e i tuoi tappeti persiani, cugino di Filemone? li hai tenuti nascosti troppo a lungo. Telemone fece spallucce, mi lasciò e se ne andò per la sua strada. Io risposi: – Questi insulti non sono degni di voi, Teosoforo. Sapete bene che non ho stoffe persiane come non ne avete voi, e che non ho più motivo di voi per averne! Archimeno si fece avanti e mi fece una smorfia, mostrando tutti i denti. Aveva l’aspetto di un teschio sghignazzante, con due solchi verticali tracciati sulla fronte col carbone. – Ah, – disse ingrossando la voce. – Guardate il rampollo impudente di una tribù di adulatori dei Persiani. Ruffiano di Dario! – (La parola che usò questa volta non fu altrettanto cortese di «ruffiano»). – Cittadino Archimeno, queste offese non vi si add… – E allora? Cosa vuoi farmi? Va’ a raccontarlo ad Alessandro! Tesoruccio di Dario! – Fece un gesto osceno con le dita. – Perché non vai a combattere per gli Egiziani? Loro combattono in posizione orizzontale. «Oh, soldato che vai in guerra, con una piccola lancia appuntita tutta tremante!» –. (Questo era un frammento di una canzoncina da monelli di strada). – Ah, ah! Beccati una spada nella pancia, beccati una spada nella pancia! Saltellava su e giù tutto eccitato, e si era fatto tutto rosso in viso. Mi allontanai da entrambi, borbottando: – È da stupidi cercare di parlare in modo ragionevole con voi… – Ah! Te ne darà Euticleide di ragioni quest’autunno, vedrai più ragioni che grappoli d’uva! Teosoforo cercò di frenarlo, ma il suo crudele piacere continuò a sfogarsi in brevi scrosci di risa. Era questa l’emozione che avevo davanti agli occhi, non tanto odio, quanto piacere. Gioia. Probabilmente sollievo. Non avrei saputo dirlo. – Beccati una spada nella pancia, – continuò a ripetere mentre proseguivo lungo la strada. Teosoforo lo trascinò via nella direzione opposta, ma Archimeno non riusciva ancora a trattenersi dallo sghignazzare tra uno strillo e l’altro, – Beccati una spada nella pancia! Improvvisamente mi resi conto che era matto. Be’, ogni tanto almeno i matti si divertivano. Io, invece, ero sano di mente (probabilmente), e per me ogni gioia sembrava svanita. Mi trascinai a casa e me ne andai a letto. Lì, dove nessuno poteva vedermi o sentirmi, piansi in silenzio e a lungo. IX Questioni familiari Non so cosa mi spinse a ritornare al Pireo qualche giorno dopo. Non avevo progetti definiti né speranze. Forse lo consideravo un luogo di buon augurio per me. Se è così, dovevo restare amaramente deluso. L’inverno si avvicinava rapidamente. Dal mare soffiava un vento freddo, benché fra le nuvole filtrasse qualche raggio di sole. Avvolto in un logoro mantello di lana grezza, mi mescolai con la gente più umile del porto e gironzolai per il mercato. Non che ci fosse molto da vedere: è un luogo squallido, dove si affonda nel fango, nel letame e nelle lische di pesce, e le bancarelle hanno ben poco da offrire, salvo il cibo scadente e il rozzo vasellame che i poveri possono permettersi di comprare. Mi ricordo che stavo in piedi presso un mucchio d’ortaggi di seconda scelta che puzzavano di marcio. Un raggio di sole che illuminava le foglie verdi e gialle dovette gettare il suo riverbero anche sul mio viso. D’un tratto, mi sentii tirare per la manica. – Signore! Signore! – Rigirandomi, vidi al mio fianco una vecchia sdentata, con la faccia coperta di rughe simile alla pece del ciabattino. La sua mano nodosa e coperta dalle macchie della vecchiaia mi stringeva il braccio. Non era una mano molto pulita, e nemmeno bella da vedere. – Donna, vattene… – Signore! La mia padrona vi prega di venire da lei –. Poi, abbassando la voce, sussurrò: – La vostra parente ha bisogno di voi! – Ma io non so di parenti… – Ssst! – implorò, portandosi un dito grinzoso alle labbra. – Vi ho già visto al Pireo, ed ho aspettato che ci ritornaste. Conosco il vostro nome e vi dirò tutto, ma non qui. Venite. Sentii una vaga apprensione. Mi si affacciò alla mente il sospetto, dopo la scenata di Archimeno, che questo potesse essere un tranello, e che seguendo quella strega avrei potuto essere trascinato alla rovina. D’altro canto, in quella posa sembrava una delle Parche, le dee del Fato, e tutti gli uomini obbediscono al Fato. Non ero venuto al Pireo in cerca dell’ignoto? Certo non avevo immaginato niente del genere, e desiderai ardentemente che non mi alitasse in faccia quelle zaffate d’aglio e di denti marci. Scossi via la sua mano ma risposi: – Verrò. – Seguitemi, allora. Senza farvi vedere. Siate discreto. Sgattaiolò via attraverso la folla, ed io le tenni dietro a distanza. Un compito non facile, perché vista di spalle rassomigliava a qualsiasi altra povera vecchia, un fagotto informe di stracci scuri. Dopo che lasciammo la piazza affollata, s’incamminò, velocemente per la sua età, per vie e viuzze rumorose, poi per luoghi deserti e poveri tuguri, ed io la seguii, come Teseo nel Labirinto. Nemmeno una volta si voltò a guardarsi alle spalle. Fosse stata Orfeo, Euridice sarebbe stata salva, ma io sentii che mi stava conducendo dentro gli Inferi, e non fuori. Finalmente si fermò presso una piccola casa (benché questo sia un termine troppo ottimistico per quella misera abitazione). Le pareti non erano imbiancate e mostravano delle crepe profonde. Fuori, lungo il sentiero che conduceva alla porta, stavano mucchietti di rifiuti. – Entrate – disse la mia misera sibilla, ed entrai. Mi trovai in una piccola stanza dalle pareti affumicate. In un braciere bruciavano dei noccioli d’oliva. Il penetrante odore di una latrina non lontana si faceva sentire. Alcune cose, però, indicavano ordine e pulizia. Sulla tavola alcuni piatti, scrupolosamente puliti, erano accomodati in ordine. C’erano due sgabelli di legno ed una sedia rivestita di cuoio che aveva visto giorni migliori: una gamba era lievemente lesionata, ma il legno era stato lucidato di fresco. Il passaggio nella stanza attigua era coperto da una tenda di discreta fattura, che raffigurava Penelope al telaio; era logorata dall’uso, ma era stata abilmente rammendata in vari punti. Una piccola finestra in alto, in parte aperta e in parte sbarrata con assi, lasciava entrare un po’ d’aria e la luce grigiastra del giorno. Non era una bella casa, ma non sembrava nemmeno tanto sinistra. Non avevo più paura che fosse una trappola, ma ero perplesso. – Sedetevi – disse la mia guida indicandomi la sedia ricoperta di cuoio. – Il signore non vuole accettare qualcosa da mangiare o da bere? – No, grazie – mi affrettai a rispondere. – Ma Stefanos, il figlio di Nichiarco, deve gradire qualcosa in casa nostra. Scalderò un po’ d’acqua, e così berrete la nostra camomilla prima di andarvene. Pose un recipiente con dell’acqua sul braciere e poi si voltò a guardarmi. – Il figlio di Nichiarco si sta domandando perché è qui. Vi ho sentito descrivere. Poi vi ho visto al Pireo qualche tempo fa, e ho riconosciuto il nobiluomo sotto quei vecchi panni. Ho pensato: «Starà cercando di aiutare Filemone in qualche modo. Quindi perché non cercare d’avvicinarlo quando ritorna?». Voi siete affezionato al vostro parente, e volete aiutare Filemone figlio di Likias, ora che è nei guai. Non è così? – Sì, è così – risposi. – Noi pensiamo che non ci sia nulla di onesto che non fareste per aiutare lui e i suoi. Non è vero? – Nulla – dissi calorosamente – nulla di quanto permettono gli dei che io non farei per Filemone, mio cugino –. Mi era balenata l’idea che lei, o qualche persona a lei nota, potesse avere delle prove in grado di sostenere la mia causa e il cuore mi balzava in gola per l’eccitazione. – Il legame di parentela è sacro, signore. Parlo in nome di vostri congiunti. Io, la vecchia serva Nusia, vengo a voi in nome loro come supplice –. D’un tratto, si gettò drammaticamente in ginocchio e cercò di abbracciare le mie gambe mentre stavo seduto lì, su quella sedia sgangherata. Mi sentii imbarazzato piuttosto che importante. – Va bene, va bene – dissi, aiutandola a rialzarsi – ma come posso capire di cosa mi stai parlando? La sua parte le piaceva. Capivo che doveva aver provato questa scena più d’una volta nella sua mente. – Prima di tutto, signore, giurate che anche se non consentirete a fare quanto vi chiedo anche a nome di un’altra donna senza difesa, non ci farete del male. Riflettei. Non avevo intenzione di fare del male a delle donne anziane, e mi sembrava improbabile che la cosa fosse di qualche utilità, quindi giudicai abbastanza sicuro prometterglielo. Mi parve di veder muoversi la tenda con l’immagine di Penelope. – Lo giuro – risposi. – Lode a Zeus! E adesso, ascoltatemi. – Sedetevi – dissi, in tono bonario. Mi dava fastidio averla così vicina, mentre gesticolava, s’agitava e i cernecchi le sfuggivano dall’acconciatura del capo. Lei sedette a suo agio, un fagotto di stracci, uguale a qualsiasi altra vecchia pettegola accanto al fuoco. – È così, signore. Voi conoscete vostro cugino Filemone, o forse dovrei dire lo conoscevate? – Sì, naturalmente. – Be’, era un giovanotto scatenato, ma di buon cuore, e forse non sapete tutto su di lui. Anzi, non lo sapete di sicuro. Ho una sorpresa per voi. Cosa mi direste se vi dicessi che vostro cugino Filemone era sposato? – Filemone? Sposato? Ma non… Si mise a ridacchiare di gusto, abbandonando la posa drammatica e il linguaggio formale di poco prima. – Ah, ah. E invece lo era. Un po’ un galletto con le donne il vostro Filemone, si può ben dire. Ma questa non è stata una delle solite avventure. Era un vero gentiluomo, e sapeva come si trattano le ragazze di buona famiglia. Si è sposato con tutte le dovute formalità prima di lasciare Atene. E con una giovane donna assolutamente rispettabile di discendenza ateniese, e tutto come si deve. – Non riesco a crederci. Ma via, un matrimonio è una faccenda in cui entra tutta la famiglia. Non può essere fatto di nascosto. Non è legale! Lei si accigliò. – È legale, non vi preoccupate. E non mettetevi a fare delle insinuazioni sulla mia giovane padrona, che ho curato fin da quando era bambina, come già sua madre prima di lei. Melissa, figlia di Archia, ecco chi è. È andata al matrimonio pura e vergine, come qualsiasi nobile sposa di Atene. Possiamo mostrarvi il lenzuolo nuziale macchiato, se volete vedere. La sua parentela ne era al corrente; c’è stato prima un fidanzamento in piena regola, ci sono dei testimoni. Ma c’erano motivi per cui Filemone non poteva informare la sua famiglia. Non è una cosa tanto bella, lo ammetto, ma i motivi erano giusti. E non è il caso di creare dissapori tra le famiglie, ora che la cosa è fatta, e ben fatta, non vi pare? Se la stava godendo, come tutte le vecchie ogni volta che si presenta l’occasione di spettegolare su un matrimonio, e su cose da donne. Raccolse distrattamente un’oliva tutta rattrappita da un piatto e se la cacciò in bocca, per rinfrescarsela dopo tutto quel parlare. – Ci potevano essere dei disaccordi sulla dote. Melissa ha una buona dote, vedete, ma per ora non possiamo venirne in possesso. Filemone pensava che tutto sarebbe finito bene; e quanto al fatto di sposarsi giovane, be’, con suo padre morto era suo dovere sposarsi e generare un erede. Ma poche settimane dopo le nozze, lui fu coinvolto in quel brutto affare e dovette tagliare la corda. Ci fece trasferire qui, sotto falso nome. E qui siamo rimaste. E – aggiunse guardandomi con occhi brillanti e giocherellando col nocciolo dell’oliva – adesso c’è un bambino da questo matrimonio. Vostro nipote. Un bel maschietto robusto. – Ma dov’è questa persona? – domandai. Mi girava la testa. – Là dentro –. La vecchia accennò alla tenda che scivolò rapidamente indietro, al suo posto. – È una rispettabile donna sposata. Naturalmente non potete vederla, se prima non la riconoscete come vostra parente. Non sarebbe affatto conveniente. Ero in un bel pasticcio. Non potevo dare un’occhiata a questa Melissa, né tanto meno giudicare da me se fosse una sgualdrina, un’amante o una vera moglie, senza prima riconoscerla in qualità di sposa legittima. Le donne hanno una vera abilità nel manipolare le convenienze a loro vantaggio. Quell’incontro, dopo tutto, mi aveva effettivamente portato in una trappola. – Voi siete un uomo buono e giusto, signore – riprese la vecchia in tono suadente. – Non potreste lasciare dei parenti alle prese con la fame. Abbiamo sentito dire che avete fatto del vostro meglio per Filemone nell’udienza in tribunale, ma le cose stanno peggiorando adesso, e che cosa sarà di noi? Che cosa sarà del povero caro bambino? Vorrei saperlo –. D’un tratto la vecchia cominciò a lamentarsi, dondolando avanti e indietro sul suo sgabello e piagnucolando, – Oh, oh, moriremo di fame o saremo perseguitate e costrette a lasciare la casa. Senza amici e senza casa! Oh, povera me! Una vecchia e una giovane a morire sopra a delle fredde pietre! Oh, che Atena ci aiuti! Oh, povera me! – Mi fece venire il mal di testa. – Va bene – dissi. – La vedrò. – Vedrete chi? – chiese vivacemente la vecchia, interrompendo i suoi lamenti. – La moglie di Filemone – risposi rassegnato. Riflettendoci sopra, mi resi conto che la promessa mi vincolava solo a non fare del male, e comunque non desideravo fare niente del genere, chiunque esse fossero. Quanto a dire che accettavo di vederla come parente, non c’erano testimoni maschi sul posto, e neppure gentildonne. Avrei sempre potuto smentire in seguito. La vecchia interruppe di botto il suo lamento, come se l’avesse tagliato di netto con un coltello, e si diresse al passaggio, chiamando con voce dolce: – Mia signora, mia Melissa! Il vostro parente desidera vedervi, moglie di Filemone. La tenda si scostò lentamente. Una donna apparve. – Buongiorno a te, moglie di Filemone – dissi. Le parole mi restarono in gola. Era giovane, snella e bellissima. I suoi capelli erano biondo-oro, come potevo vedere dai pochi riccioli che sfuggivano dalla sua acconciatura. Vidi con delusione che non sembrava affatto una cortigiana: era vestita con modestia, come la moglie d’un qualsiasi cittadino, e senza traccia di lusso. Costei non era sicuramente una cortigiana. Si fermò sulla soglia, guardandomi con occhi d’un azzurro intenso, con molta serietà; poi attraversò con grazia la stanza e venne a inginocchiarsi ai miei piedi, toccandomi le ginocchia. – Vengo come parente e come supplice, Stefanos, figlio di Nichiarco, cugino di mio marito Filemone – disse a voce bassa. L’aiutai a rialzarsi e risposi: – Benvenuta è la vista della sposa di mio cugino –. In realtà, poche viste potevano giungermi meno gradite, nonostante la sua bellezza. Le accennai di sedersi, e lei s’accomodò compostamente su uno sgabello, con alle spalle la vecchia che sorrideva e annuiva. La stanza aveva un’aria pesante, e mi pareva ancora meno accogliente di prima. La ragazza aveva l’aria d’un giglio cresciuto sopra un mucchio di rifiuti. Mio malgrado, mi sentii preso da compassione. Anche se non fosse stata altro che l’amante di Filemone, avrei provveduto a farle avere un po’ di denaro. – Dimmi, moglie di mio cugino, da dove vieni? E, devo aggiungere, come mai vi siete sposati senza che nessuno ne sapesse niente? Mi guardò con aria di rimprovero. – Qualcuno lo sapeva. Il nostro è stato un vero matrimonio. Ma il destino ci è avverso. Lascia che ti spieghi –. Trasse un respiro ansimante e cominciò il suo racconto. – Il nome di mio padre era Archia. Era un cittadino di Atene. Benché fossimo ateniesi, ci trovavamo a Tebe al tempo dei… disordini di qualche anno fa. Fu un momento terribile, con i soldati che uccidevano e saccheggiavano. Io non so niente di politica – (pensai che forse non voleva manifestare dei sentimenti anti- Macedoni) – ma so che dovemmo fuggire per salvarci la vita. La nostra casa fu distrutta e mia madre uccisa prima che lasciassimo Tebe. Come molti altri, ritornammo ad Atene, la nostra vera patria. Mio padre ed io incontrammo Filemone quando giungemmo ad Atene con altri che cercavano rifugio qui. Ero una bambina e lui era un bambino. Ma ci diede dell’acqua da bere, lo abbiamo sempre ricordato. Mio padre non stava molto bene. Trovammo asilo in casa d’un cugino, una piccola fattoria lungo la strada per il Sunion. Incontrammo Filemone di nuovo, tre anni dopo. Un ladro aveva assalito mio padre e me sulla strada fra Atene e il Sunion, e ci aveva portato via i nostri fagotti. Filemone era vicino, riuscì a prenderlo e ci ridiede le nostre cose. Dopo di questo, venne di tanto in tanto a visitare mio padre. Era tutto molto corretto. Io stavo nelle stanze delle donne, con la moglie di mio cugino e Nusia, e imparavo a filare. – Non aveva figli maschi tuo padre? – Vedi, questo è uno dei nostri guai. Avevo un fratello, ma non so dove sia. A Sparta, da qualche parte, temo – aggiunse in tono sommesso. – E il nostro denaro e i nostri beni erano tutti a Tebe. Mio padre mi ha sempre promesso una buona dote, e ci deve essere un mucchio di denaro da qualche parte. Mio padre ne ha dato una parte ad un amico, un tebano in buoni rapporti con i Macedoni a quanto mi hanno detto, subito prima che si scatenasse la tempesta. Così, tutto quel che dobbiamo fare è tornare laggiù e riprenderlo, quando la situazione si sarà normalizzata. C’erano delle belle anfore e degli oggetti d’argento, mi ricordo, e delle belle stoffe oltre al denaro. – Ehm – dissi. – Ci sono dei documenti? – Penso che ce ne siano, da qualche parte. Io non so nulla di affari. Ne parlavano mio padre e Filemone; penso che lui ne sia al corrente. In ogni modo, questo tebano è un galantuomo, altrimenti mio padre non gli avrebbe affidato il suo denaro e la roba. – Mmm – ripetei. Dicesse il vero o no, mi sembrava che Filemone avesse tante probabilità di riscuotere una dote quante di trovare del miele in un nido di vespe. – Il mio povero padre era molto preoccupato quando seppe di essere vicino alla morte. Vedi bene che situazione disgraziata. Con mio fratello forse al servizio del re spartano Agide, che cosa sarebbe stato di me e del nostro denaro? Così mio padre mi offrì in matrimonio a Filemone, e nel testamento lo nominò suo erede, nel caso suo figlio morisse. Filemone fu molto contento all’idea di sposarmi, dopo aver considerato la questione – aggiunse in tono affettato. Povero Filemone! Tutti sanno che nessun uomo di buon senso sposa una donna per la bellezza. Anzi, in una famiglia come si deve, dove faccende del genere sono sistemate secondo le buone regole, la sposa e lo sposo non si vedono prima del matrimonio. Ma Filemone non era uomo di buon senso. Lo splendore di due occhi azzurri e una storia patetica dovevano esser stati determinanti per lui. – Non è stata una cosa avventata – riprese Melissa, con un leggero tono di sfida, come se avesse letto i miei pensieri. – So che queste nozze possono sembrare non proprio come si deve, sai. Mi dispiacque tanto avere una cerimonia così modesta. E so che i parenti di Filemone avrebbero dovuto essere presenti. Ma lui e mio padre sapevano che la sua parentela avrebbe potuto fare delle difficoltà per la dote, per mio fratello e per le altre nostre disgrazie. Se mio padre fosse rimasto in vita sarebbe stato tutto diverso, naturalmente. – Come fu organizzato il matrimonio quindi? – Ci fu la cerimonia del fidanzamento, secondo le regole, e mio padre consegnò a Filemone la dote, cioè la promessa della dote. I testimoni furono mio cugino e uno dei suoi amici. Poi ci sposammo e andammo ad abitare in casa di mio cugino. – Avresti dovuto abitare in casa di Filemone! È questo che fa un matrimonio – dissi severamente. – Ma Filemone non voleva disturbare sua madre con queste cose. È vecchia, mi diceva, e ammalata. Ma glielo ha detto più tardi, credo. Ad ogni modo, diceva che gliene avrebbe parlato. Sarebbe stato tanto più semplice arrangiare l’aspetto pubblico della faccenda una volta che avesse avuto la dote. Non volevamo che la gente dicesse che si era sposato al di sotto della sua condizione. – Quando avevate intenzione di fare qualcosa in proposito? – Appena la situazione si fosse normalizzata. Un po’ di denaro e dei preziosi di famiglia, oro e oggetti che non rischiano di marcire o di spezzarsi sono stati sepolti nel giardino della nostra vecchia casa a Tebe. Filemone diceva che sarebbe stato divertente andare in seguito a riesumarli. Sì, questo era proprio tipico di mio cugino. – Ho avuto dei regali di nozze. Adesso ne ho dovuti vendere alcuni, naturalmente. Nusia si occupa di queste cose per me; io cerco di non muovermi di casa. Ma guarda questa tazza e questa ciotola: sono di Filemone. Le guardai. Erano effettivamente di Filemone, appartenenti alla sua casa. Le avevo viste in altri tempi. – Da queste non mi separerò – disse Melissa. – Ma tutto si è messo contro di noi. Mio cugino è morto, e sua moglie è ritornata da suo fratello. E il povero Filemone è rimasto coinvolto in quel guaio. Subito prima di andarsene, mi portò qui, in questa casetta. Viviamo qui sotto un altro nome, naturalmente. Io passo per la moglie di Eforo. Quando Filemone partì ancora non sapevo di essere incinta. Il bambino ha quasi un anno e mezzo ora. Ovviamente, essendo una donna sola e soprattutto sotto un falso nome, non potevo presentarlo alla fratrìa e ai membri del demo. È un bel bambino. Aspetta, te lo faccio vedere. Si alzò e andò nella stanza accanto, ritornando subito con un piccino in braccio. Sembrava mezzo addormentato, ma si mise subito obbedientemente a trotterellare sulle gambe grassocce. – Ecco tuo nipote – disse orgogliosamente Melissa, mentre la vecchia faceva udire dei suoni affettuosi. Spinse il bimbo verso di me, ma lui si aggrappava alle sue vesti, guardandomi con avversione e dicendo «mamma!». Altro dilemma. Se toccavo il bambino, sarebbe stato come riconoscerlo come membro legittimo della famiglia. Melissa risolse il problema, piuttosto slealmente, cacciandomelo in braccio. Lo guardai bene in viso: il bambino era ben tenuto, sano e sorprendentemente pulito. Prometteva di diventare bello come sua madre, ma più robusto. Le donne e i vecchi sono bravissimi a scorgere delle somiglianze di famiglia nelle facce dei bambini. Io non ci capisco nulla. Il bambino aveva capelli folti e ricciuti e gli occhi castani. Non c’era nulla che indicasse che non era di Filemone. Anzi, quando mi colpì con il suo robusto piccolo pugno, mi dissi che doveva essere proprio un suo rampollo. Ma nessun bambino porta segni di legittimità 0 d’illegittimità sul viso 0 nei modi. Goffamente, lo ridiedi alla madre. – Si chiama Likias – disse lei orgogliosa. Inghiottii una risposta aspra. Che sfacciataggine, chiamare un bambino illegittimo come il suo nonno paterno! E anche se era legittimo, a rigor di norma non aveva diritto a un nome. Non era stato presentato a nessuna autorità, né ricevuto nella tribù o nel demo. La mia fiducia vacillava. In ogni modo, pensai con amarezza, sarebbe toccato a me pagare perché il bambino, legittimo o no, non morisse di fame. – Pa-pà – disse il piccolo, appoggiandosi con una mano sul mio ginocchio. – Dove pa-pà? – Non potevo supporre che il bambino fosse stato addestrato, ma la scena fu di grande effetto. La vecchia era raggiante. – Ecco, gli rammentate suo padre; vedete, ha notato la somiglianza. – Molto commovente davvero – replicai seccamente – dato che non ha mai visto suo padre –. Vi fu una breve pausa. – Pa-pà! – ripeté il bimbo, fiduciosamente. – E invece l’ha visto – disse la padrona di casa in tono di sfida. – Molte volte. Come pensi che abbiamo tirato avanti, tutto questo tempo? Di cosa credi che abbiamo vissuto? – Intendi dire che Filemone è stato qui di nuovo? Qui al Pireo? Ad Atene? – Sst! Sì, è tornato. Sono di nuovo incinta, non vedi? – (Ahimè, la mia inesperienza! Lo vedevo, adesso che me l’aveva detto). – È il suo secondo figlio. Ma Filemone non è più tornato da molto tempo, e non deve tornare ora, la situazione è troppo pericolosa. La gente dice che lui combatteva per i Persiani. Dobbiamo stare ancora più nascosti. D’un tratto Melissa si mise a piangere. Lacrime di cristallo scorrevano da quei suoi grandi occhi azzurri. – Non ho di che vivere! – gemette. – Dobbiamo avere qualcosa. Come potrò nutrire i miei bambini? La vecchia strega si mise a piagnucolare anche lei, per compagnia. Mi alzai. Dovevo andarmene da quella stanza soffocante e da quelle donne in lacrime. – Oh – disse Nusia. – Non vi ho dato la camomilla. – Lascia andare – risposi. Poi mi volsi alla giovane donna. – Non piangere. Senti, sarai al sicuro. Qui c’è un po’ di denaro per adesso – e rovesciai sulla tavola le monete che avevo con me. – Fra pochi giorni te ne porterò dell’altro, e forse … anche altre cose – aggiunsi guardandomi attorno. – Oh, grazie, grazie – dissero tutte e due le donne insieme; e la più anziana aggiunse in tono pratico: – Quando? – Troviamoci sulla piazza del mercato subito dopo l’aurora fra tre giorni – dissi, ormai totalmente coinvolto. – Ma prima che me ne vada, dimmi ancora una cosa – pregai, rivolto alla giovane donna dai capelli d’oro. – Dimmi, devo saperlo. Quando è stato qui Filemone per l’ultima volta? Melissa smise di piangere e mi guardò dolorosamente. Poi disse lentamente: – Non l’ho più visto da circa due mesi. L’ultima volta è stata nel mese di Boedromione. Uscii incespicando, e mi affrettai ad allontanarmi attraverso i vicoli più sperduti del Pireo. Quelle ultime parole mi martellavano nel cervello. Il mese di Boedromione, cioè l’epoca in cui Boutades era stato ucciso. Tutto l’edificio della mia difesa, di cui mi ero sentito così sicuro, adesso cadeva in rovina. Avevo creduto di sapere che la prova della zia Eudossia era sicura, anche se terribilmente difficile da dimostrare. Filemone non era ad Atene. Ma ora, o quello che le donne mi avevano detto era un fiume di bugie messo insieme da chissà quale diabolico nemico per chissà quale scopo, oppure era tutto vero, con la possibile eccezione riguardo alla realtà del matrimonio. Se Filemone era stato ad Atene al tempo del delitto, allora non c’era più difesa, salvo la ferma fiducia nel mio spirito che lui non avesse niente a che fare con l’omicidio. Ma il bisogno di sapere mi torturava. C’era una sola persona che poteva confermare o negare la verità di quanto avevo appena udito. Giunsi a casa in fretta, come se avessi avuto le ali ai piedi, e piombai su mia madre e la zia Eudossia, che stavano mangiando placidamente dei pasticcini al miele. Presi la mia sbalordita zia per un braccio e la tirai sgarbatamente nella stanza migliore, quella dove in tempi più felici ero solito ricevere gli ospiti. E chiusi la porta. Credo che dovetti sembrarle pazzo. Non ero mai stato sgarbato con la zia Eudossia. Vidi che era spaventata, smorta e tremante, e che l’avevo urtata proprio nel fianco che le doleva, ma in quel momento non riuscivo a provare pietà. Le lasciai andare il braccio e mi piantai davanti a lei, tempestandola di domande in un frenetico bisbiglio. – Zia Eudossia, so tutto. Filemone è ritornato ad Atene, non è così? Non è così? È stato qui nel mese di Boedromione, sì 0 no? Rispondimi! E risparmiami le bugie e le scappatoie. Per Zeus, voglio la verità! Speravo che avrebbe negato tutto indignata e sconcertata. Ma il suo volto crollò come un muro crepato, rivelando dietro la consueta espressione dolente e paziente l’ansia di una consapevolezza colpevole e nascosta da tempo dentro di sé, che ora si sforzava di affiorare. – Sì – balbettò lei. – Non so come tu lo sappia, Stefanos, ma… sì, è tornato ad Atene. In segreto, parecchie volte. Per rivedere la sua vecchia madre. Io pensavo di aver mantenuto così bene il segreto. Ma adesso… Oh, cielo! E credevo che neanche la tortura me l’avrebbe fatto dire! Piangeva, e si lasciò cadere su una sedia. Ero sollevato che non s’inginocchiasse davanti a me. Avevo avuto abbastanza genuflessioni per un giorno. – Non importa – dissi. – Che tu me l’abbia detto o no, io sono venuto a saperlo. So che Filemone era qui al momento del… in quel momento. Ho parlato con qualcuno che aveva buoni motivi di saperlo. – E chi sarebbe? – La moglie di Filemone – risposi. La zia Eudossia svenne. X L’enigma dell’iscrizione Quando Aristotele con mia sorpresa mi mandò a chiamare, andai senza troppo entusiasmo. Aveva sentito, naturalmente, della seconda prodicasìa, e mi disse che desiderava assicurarmi che «non tutti» credevano che Filemone avesse combattuto per i Persiani. Ritenni che questo significasse che le più alte autorità cittadine si riservavano il giudizio. – E inoltre – aggiunse allegramente – questa testimonianza è tardiva ed incompleta. Tutto sommato, sembra più un’ipotesi che una prova. – Ah, – dissi amaramente – questa è storia vecchia. Come dice il poeta, Ciò che prima ci minacciava e sembrava così triste, benché dovesse ancora accadere, sembra un vago ricordo, ora che questa nuvola nera scaglia tuoni e fulmini sulle nostre teste. – Versi espressivi, – commentò Aristotele, – ma non è granché come poesia, non credi? Che cos’è questa nuvola nera? È saltato fuori qualcosa di nuovo? – Sì – risposi gravemente. – Ma è una cosa privata… di famiglia… e non dovrei parlarvene. Siete stato buono con me, e siete saggio, ma questa è una faccenda personale e molto strana, e potrebbe avere le più serie conseguenze. – Stai diventando un vero oratore, Stefanos. Hai ridestato tutta la mia attenzione; sto già cercando d’indovinare. E con quanta abilità mi lusinghi. I saggi hanno sempre l’ambizione di voler essere considerati saggi. Quanto alla bontà, be’, siamo sempre ben disposti verso chiunque ci lodi per delle buone qualità che non siamo sicuri di possedere. Insomma mi hai conquistato, e penso che dovresti dirmi questa cosa strana e seria. Ti prometto il silenzio, anche nel caso che non possa esserti d’aiuto. Mi sentivo colpevole nel tradire così un segreto di famiglia, anzi una vergogna; ma non potei fare a meno di riferirgli tutta la storia delle due donne al Pireo. – Non so cosa pensare – conclusi. – A volte penso che sia tutto vero, a volte che lo sia solo in parte, e cioè che si tratti dell’amante di Filemone, non di sua moglie. E chissà chi è il padre del bambino che aspetta? Ma che importa, se riusciamo a liberare Filemone da un sordido legame? La cosa importante è che lei sostiene che lui era qui nel Boedromione. Potrebbe anche essere qualche losco complotto per estorcerci denaro; ho pensato anche a questo. – Potrebbe darsi, – concordò lui. – Ma sarebbe un rischio anche per loro associarsi con una famiglia così compromessa. Perdonami, ma vi trovate tutti in un certo senso sotto una nuvola nera (ahimè, di nuovo poesia), e non siete ricchi. Una ragazza così bella se la caverebbe meglio con qualche ricco protettore. Ma, ovviamente, potrebbe anche trattarsi di una prostituta, incinta e in difficoltà, che cerca disperatamente un sostegno mentre non può esercitare il suo solito mestiere. Potrebbe essere disposta a dire qualsiasi cosa dietro pagamento. Ma la testimonianza di una prostituta può essere respinta. Le giurie ateniesi non sono molto favorevoli alle prostitute… in pubblico –. Aristotele ridacchiò, come un uomo che conosce il mondo. Lo trovai molto irritante in quel momento. – Oh, che Atena ci aiuti! – dissi disperatamente. Aveva di nuovo capito tutto. – Ha importanza per me. Non avete visto… la difesa della zia Eudossia non è mai stata altro che una bugia! Adesso ha ammesso che sapeva che Filemone era qui. È andato a vederla parecchie volte, anche all’epoca del delitto. Così sotto questo aspetto, cioè il peggiore di tutti, il racconto della ragazza risponde al vero. E se anche nessun altro lo sapesse, io lo so. L’unico fatto su cui contavo non esiste più. Per un minuto circa vi fu un mortale silenzio. – Adesso lo vedete – dissi desolatamente. – Ormai crederete anche voi che sia colpevole. Tutto quello che vi posso chiedere è di non dire nulla… di non interferire. – Dunque adesso tu credi che Filemone sia colpevole? – mi domandò Aristotele guardandomi fisso. – No – risposi. – Lo so che vi sembrerà una pazzia. Ma ci credo meno di prima, se mai fosse possibile. – Perché? – Perché troppe cose mi hanno ricordato Filemone. Il vero Filemone, scavezzacollo, impulsivo e buono di cuore. Tutta questa faccenda con la donna… è un pasticcio, ma sembra naturale, e stranamente normale. E il bambino sembra proprio suo. Oh, è così difficile spiegare. Ma non sono emersi altri motivi per cui Filemone avrebbe dovuto far fuori Boutades. Nella mia testa ho seguitato a rimuginare e rimuginare; ma nel mio cuore io penso, io sento, che Melissa si ritiene sposata a Filemone. Non riesco a pensare a lei come a una nemica; piuttosto come a un altro fardello. – Oltre alla sua catastrofica ammissione, che cos’ha da dire la zia Eudossia? – Be’… dice che Filemone una volta aveva cominciato a dirle qualcosa di una ragazza, ma che lei gli troncò il discorso, dicendo che non voleva sentire niente dei suoi affari di donne. Quando le ho parlato, sulle prime mi ha dichiarato che non dovevamo riconoscere questa femmina. Anche se c’era stata una sorta di cerimonia, non si trattava di un vero matrimonio, la ragazza era probabilmente una sgualdrinella ambiziosa, e in ogni caso una forestiera. Ma poi, pensando al bambino, ha cominciato a raddolcirsi. Dice che vorrebbe vedere un nipotino prima di morire. Questa ragazza non dovrebbe far altro che mostrare il bambino alla zia Eudossia e mettersi a piangere, e sarebbe accettata in famiglia nello spazio d’un pomeriggio. – No – disse Aristotele in tono deciso – non permettere che questo avvenga. Tieni lontana la ragazza da casa vostra e tieni i tuoi lontani da lei, specialmente la zia Eudossia. Non ci devono essere legami visibili. Non adesso. Bada che le tue donne tengano la lingua a freno. – Cosa posso fare? Non posso certo andare in giro in cerca dei parenti di Melissa al Sunion, per verificare se c’è stato un matrimonio, o andare a scavare tesori nascosti a Tebe. Per fare tutto ciò ci vorrebbero dei mesi, a dir poco. In questo momento è impossibile accertare se il matrimonio è legittimo. – Uhm –. Aristotele congiunse le punte delle dita meditativamente. – Tu pensi che Melissa sia, o ritenga di essere, la moglie di Filemone. A questo punto, dunque, sarà bene che tu ti comporti come se trattassi con la moglie di Filemone e con suo figlio. Se Melissa è un’impostora che cerca solamente di estorcere denaro per il suo mantenimento, potrà così essere soddisfatta. Se è la moglie di Filemone, o anche una concubina illusa che pensa di essere la moglie, la tua famiglia è in obbligo di un sostegno a lei e ai suoi figli. È un rischio, naturalmente. Potrebbe recitare una parte sotto la direzione di qualcun altro. Potrebbe essere stata comperata dalla parte avversa. È un rischio che devi correre. Non mettere niente per iscritto, e non prendere testimoni per le tue transazioni. Se le cose vanno storte, quella donna potrà essere smentita e non avrà prove di essere stata riconosciuta da te come una della famiglia. Potresti sempre dire che ti ha semplicemente detto di avere avuto un figlio illegittimo da Filemone, e che tu le hai dato un modesto soccorso per pietà, prima di venire a sapere della sua cattiva fama. Appioppare dei figliuoli spurii a dei cittadini non è cosa ben vista; e così la giuria sarebbe probabilmente dalla tua parte se gli accusatori volessero servirsi di un’arma così infangata. – Capisco – risposi. – Ma sento che quella storia fondamentalmente è vera. Perciò avrei torto a non aiutarli. Per lo meno, questa è una cosa che posso fare per Filemone. – Giusto. Ma segretamente, segretamente, Stefanos. Non ritornare in quella casa. Trovati con la vecchia serva, e fatti raccontare quanto puoi da lei. Sta’ attento a qualsiasi incongruenza che possa dimostrare che la loro storia è falsa. Ma ricordati questo –. Si chinò in avanti con aria grave. – Se si tratta della moglie e del figlio di Filemone, sono in pericolo. Perciò tu sei obbligato in coscienza, verso di loro e verso Filemone, a prendere tutte le precauzioni. – In pericolo? – ripetei, sbalordito. – Sì, sì, certamente. Mi pare che il modo migliore di assisterli sia di trasferirli in qualche località remota il più presto possibile. Questo potrà anche servirti come prova, perché più la storia di Melissa è vera, più lei sarà ansiosa di andarsene. Se invece il suo scopo è attirarti in una trappola con una storia falsa, lei farà del suo meglio per non partire. In questo, credo di poterti aiutare. Melissa può andare in Macedonia, finché non sia consigliabile tornare. Posso dire una parola alle persone giuste e provvedere un carro e alcune guide. Se tu puoi pagare il noleggio del carro e fornire il denaro per le provviste, il resto è semplice. Lascia fare a me. Facciamo il quinto giorno della prossima decade? Cioè la metà del mese. Penso che questo spazio di tempo sia necessario, ma indugiare di più sarebbe metterli in pericolo –. La sua mente sembrava funzionare alla velocità dell’acqua di una cascata. Non riuscivo a tenergli dietro. – In pericolo? – ripetei ancora. – Come, in pericolo? – Io sono stato in parte conquistato dalla tua fiducia in quella donna. O rappresenta un pericolo per te, come abbiamo detto, e col mandarla via ce ne liberiamo, oppure, come tu nel tuo cuore sei convinto che sia, è la moglie di Filemone, e in tal caso è in pericolo. Qualcuno odia Filemone. Lo odia. E odia chiunque gli appartiene. Anche te. Mi domando perché. – Odiarci! Ma questo è ridicolo. Filemone ha ucciso un uomo durante una rissa, è vero, ma la famiglia fu risarcita adeguatamente. Sono gente modesta, e non hanno mai parlato di vendetta. E quanto a me… Non ho fatto del male a nessuno, e neppure mio padre ne ha fatto. Qualcuno potrebbe essere in collera con me per qualche parola avventata, suppongo, ma… – No, non in collera. Io qui avverto la presenza dell’odio, una cosa più mortale della collera, e più sicura. Il tempo guarisce dalla collera, ma non dall’odio. Non ti sei accorto della differenza? Chi è in preda alla collera mira a procurare dolore alla sua vittima, vuole farla soffrire. Chi odia è sicuro di sé, distaccato, non gli interessa se la sua vittima provi dolore o no, purché possa annientarla. Un uomo in collera alla fine prova pietà per chi ha offeso; un uomo che odia non proverà mai pietà. Il vero odio è contagioso. Dopo i terremoti, i fulmini e quant’altro, è la cosa più letale al mondo. Io temo che il tuo antagonista, tuo e di Filemone, sia un uomo capace di odiare, e non solo un uomo in collera. – Ma chi – dissi piuttosto abbattuto – chi potrebbe odiarci? Odiare me? – Non te, magari. Non come individuo. Ma per qualcosa che rappresenti. Come la gente può odiare quelli che sostengono una causa politica che aborriscono. – Oh, sì – dissi lentamente. Cominciavo a vedere un po’ di luce nelle tenebre. – Stavo dimenticando. Mi sono fatto odiare da qualcuno l’altro giorno –. Gli raccontai degli insulti di Archimeno e anche di Teosoforo, e del sarcasmo e, soprattutto, delle oscenità di Archimeno. Quando Aristotele mi sollecitò a raccontargli altre cose, gli riferii tutto l’incidente alla bancarella della carne cotta. Aristotele sospirò. – Cosa dobbiamo fare di te? I giovani sono molto impulsivi. È stata una cosa molto imprudente. Ti prego, non farti dei nemici, o se te ne sei già fatti, cerca di non aizzarli ancora di più. – Mi spaventate ora – dissi seriamente – con i vostri discorsi sull’odio. – Un po’ di paura è un’ottima medicina; troppa, invece, ci toglie il discernimento. Quanto ai miei discorsi sull’odio, ho usato uno stile da oratore, vero? Qualche volta devo pur farlo, se non l’ho già fatto. In questo caso potrei sbagliarmi, ma credo di no. L’odio esiste, ne sono sicuro, ma perché? Strano come vanno le cose, – continuò in tono più gioviale, guardandomi benevolmente. – Volevo parlarti di nuovo dei vasi, e invece ho fatto un’orazione sull’odio. Come si potrebbero combinare le due cose? Una scena di odio su un vaso? O solo un vaso pieno d’odio? A proposito, suppongo che non ti sarai ricordato di portarmi quel frammento di vaso? Me ne ero ricordato invece, e l’avevo con me, avvolto in un ritaglio di stoffa, benché quasi mi fosse uscito di mente. Sembrava una cosa del tutto trascurabile ormai, ma glielo porsi obbedientemente. Aristotele si mostrò compiaciuto come se gli avessi dato un intero vaso dall’intricata decorazione. Lo rigirò da ogni parte fra le sue lunghe dita; se lo mise sotto gli occhi, poi lo allontanò. – Senti qui gli orli – disse. – Questo è stato rotto poco prima di quando l’hai ritrovato. Buona ceramica ateniese. Guarda l’argilla rossa e la bella vernice. Ai miei occhi non c’era proprio niente di speciale in quel pezzetto di vaso rotto. – Se vi piace questo genere di roba – dissi in tono lievemente sarcastico (evidentemente dovevo sentirmi meglio) – c’è un bel mucchio di rifiuti dietro casa nostra dove si possono trovare i cocci di tutto il vasellame che abbiamo rotto in dieci anni. Vi farò dono dell’intera collezione. – Andiamo, Stefanos, non prendere in giro il tuo vecchio maestro. Non credo – aggiunse più seriamente – che questo sia il marchio d’un vasaio. Mi sembra faccia parte di una vera e propria iscrizione. Credo che questo segno sia una porzione di lettera. Non ti sembra, Stefanos? Guardai sopra la sua spalla oziosamente. Sulle prime non vidi nulla che non avessi visto prima. E poi vidi una lettera in quel segno, che aveva l’aria di far parte di una parola scritta, con le sue linee nitide e sicure; non un semplice marchio messo lì isolatamente. E la lettera era ovviamente la «fi» (Φ) che sovente viene tracciata in forma di croce, così o così . È l’iniziale di Filemone. – Sembrerebbe una… – cominciai, obbedendo all’abitudine di rispondere alle domande d’un maestro. Poi mi interruppi. – Non ne sono sicuro – terminai goffamente. – Questo frammento lo tengo io, se non ti dispiace – disse Aristotele. Mi dispiaceva, e avrei voluto riprendermelo, ma ovviamente non dissi nulla. Meglio considerarla una questione senza importanza. Per la prima volta mi si affacciò l’idea che la punta d’arco cretese fosse stata messa lì per incriminare mio cugino. Forse quel frammento era un’altra falsa prova, collocata deliberatamente. Cercavo confusamente delle spiegazioni, ma tenni la bocca chiusa. – Quand’è che un vaso non è un vaso? – chiese Aristotele in tono allegro. – Quando è rotto. A proposito di vasi e di anfore da vino, – disse allegramente Aristotele – mi viene in mente che presto dovrò andare a pranzo dal ricco Cleoforo. Un uomo rispettabile, gran parlantina e nessun ingombro di idee. Devo andare più spesso nella buona società, serve a raffinare le maniere. E ci sono dei lati positivi nei pranzi dei ricchi: il loro vino è ottimo. Non dimenticarti della partenza per la prossima settimana. Porta il danaro per il noleggio del carro, al resto penso io. Ritrovai la vecchia al Pireo, nel luogo che aveva indicato vicino alla piazza del mercato. Il suo aspetto non era migliorato in questa seconda occasione, e il pensiero di chiedere una conversazione in privato non mi piaceva affatto, ma ella mi anticipò dicendo – Credo, signore, che voi ed io dovremmo poter parlare un momento tranquillamente, lontano dai curiosi. Seguitemi sulla spiaggia –. Io le tenni dietro. Stava diventando un’abitudine. Di nuovo passammo attraverso sentieri remoti e quartieri miserabili, ma questa volta per sbucare su un tratto solitario della spiaggia, lontano dai cantieri navali e dai pescatori. Non era una bella giornata per passeggiare in riva al mare. L’aria era fredda, e l’acqua stessa appariva grigia e desolata, come se fosse anch’essa oppressa dalla povertà. La sabbia ruvida e la ghiaia ci scricchiolavano aspramente sotto i piedi. – Prendi – le dissi, contento di disfarmi del fardello che sino allora avevo cercato di nascondere. – Qui c’è del vestiario per il bambino e una coperta, un po’ di fichi, del formaggio e un vaso di miele. E qui c’è un po’ di denaro – aggiunsi, facendolo cadere nella sua mano adunca. La vecchia lo esaminò e controllò le monete, senza il minimo imbarazzo. – Non è molto, ma dovrebbe bastare alla tua padrona e al bambino per un certo tempo –. Non le avevo potuto dare molto, naturalmente, perché una certa somma si sarebbe dovuta spendere per il noleggio del carro, e il pensiero di come trovarla mi aveva già procurato una notte insonne. Con mio sollievo, la vecchia ridacchiò di piacere alla vista delle monete; l’offerta le pareva generosa. – Molte grazie, signore. Oh, che benedizione non doversi preoccupare di come comprare il pranzo di domani. E poi la mia padrona ha bisogno di tante attenzioni adesso che è incinta, e l’inverno è alle porte. Ovviamente, mio signore, non è affatto decoroso che voi veniate in casa della mia padrona mentre il padrone è assente. I vicini potrebbero sparlare e fraintendere, non essendo al corrente dei fatti. Il buon nome di una donna è una cosa molto fragile, specie in un posto sordido come il Pireo, dove in realtà la mia signora non dovrebbe vivere. – Senti, – mi affrettai a dire. – La tua padrona, il bambino e tu stessa dovete allontanarvi da qui, dal Pireo e da Atene, verso un luogo sicuro. Come dite voi, questo non è un posto adatto per Melissa. Aspettare Filemone non serve. Non può certo venire adesso. Presto ci sarà il processo, e la moglie di un uomo accusato di omicidio si trova in una posizione difficile. Volete fidarmi di me? Ho un piano. – Non sono tanto affezionata al Pireo, – rispose lei tirando su energicamente e rumorosamente col naso, – non mi si spezzerebbe il cuore se dovessi andarmene, e nemmeno alla mia padrona, non in questo momento. E capisco il vostro intento meglio di lei: volete che nessuno sappia che Filemone è stato qui, ed è più facile portare avanti questa tesi con noi lontano. Giustissimo. Ma sentite, non starete mica pensando a qualcosa di losco, vero? Far sparire la moglie scomoda e indesiderata dalla famiglia, e strangolarne il figlio e la serva per poi gettare i loro cadaveri in un fosso? Ne ho già sentite di storie come questa. – Grande Zeus, no! – protestai indignato. – Giuro su Zeus, protettore dei supplici, dei forestieri, delle vedove e degli orfani, che una simile idea mi ripugna, e che non lo farei per nessun interesse al mondo. Prometto alla tua padrona che può contare sul mio onore. – Meglio che sia così, – commentò la vecchia enigmaticamente, e borbottò un fiume di imprecazioni. Arguii che se avessi fatto del male a Melissa una vendetta indegna e dolorosa si sarebbe abbattuta su di me per mano di vari dei. Poi ella s’illuminò. – Io mi fido di voi, caro… mio signore, voglio dire. Lo si vede in faccia, quando ci si può fidare. Sono d’accordo con voi che è meglio andarcene di qua, in un momento così difficile. Perché è un momento difficile vero? – I suoi occhi, infossati fra le rughe, mi scrutarono in viso. – Voi pensate che le cose vadano male per il padrone, non è così? – Sì –. Non c’era motivo di nascondere la verità. – Be’, allora ho sempre pensato che voi aveste il diritto di sapere tutto. L’ho pensato fin da quando abbiamo deciso di rivolgerci a voi. Ho un peso sul cuore. – Di che si tratta? – domandai pazientemente, preoccupato all’idea di nuove rivelazioni. Poteva essere qualcosa di subdolo e piagnucoloso, ma futile, come ad esempio il numero dei buchi negli abitini del bambino, oppure poteva essere un nuovo colpo. Santo cielo… magari altri bambini? – Io voglio dirvelo. Melissa non vuole; quindi, in un certo senso, sto infrangendo una promessa, anche se io non mi sono mai impegnata con un giuramento solenne, e lei ha dato la cosa più o meno per scontata. Ma ora ci troviamo in un grosso pasticcio, e niente ha molto senso, per quanto io non possa fare a meno di chiedermi se in realtà non esista un senso da qualche parte. Melissa non riflette sulle cose, ma io sì. A volte si mette un mucchietto di lana sul fuso, lo si pettina e lo si tira, ma non si riesce a cavarne un filo che sia un filo; poi, all’improvviso, ecco che si forma, e tutto fila liscio. E anche la vita è così. – Giustissimo, – commentai seccamente. – Ammiro la tua filosofia. – (Ma non si dovrebbe mai usare l’ironia contro le donne o chi ci è inferiore). – Che cosa vuoi dire? – Se ve lo dico, signore, non direte alla mia padrona che ve l’ho detto, vero? – No, – risposi con decisione. – Ormai sono abituato a mantenere i segreti –. Pronunciai queste parole in tono molto virile, ma poi arrossii. Non avevo forse spiattellato tutti i miei segreti ad Aristotele? – È vero, – disse la vecchia allegramente. – Un gentiluomo sa come vanno trattate queste cose. Ma, signore, adesso dovete ascoltarmi e lasciarmi raccontare tutto a modo mio. – Certamente, – dissi. Il vento sembrava più freddo, e l’acqua più grigia. Alcuni gabbiani facevano dei versi derisori. Non avevo voglia di stare a sentire una lunga storia. Se Omero, resuscitando dalla morte, fosse spuntato davanti a me su quella spiaggia desolata e avesse detto con entusiasmo, «Ho scritto un nuovo poema epico!», io avrei detto «Non potremmo andare a sentirlo dentro casa?» e poi avrei aggiunto, «Potremmo rimandare a domani?». Ma dovevo restare là, a camminare su e giù per la spiaggia e ascoltare questo fagotto gracchiante, che interrompeva il suo discorso per schiarirsi la gola e sputare. Tuttavia c’erano delle buone ragioni per restare ad ascoltarla lì all’aperto. La vecchia si soffiò il naso e cominciò. – Voi non sapete, e voglia il cielo che non lo sappiate mai, cosa è stato l’assedio di Tebe. Io mi meraviglio di essere ancora viva. Fu otto anni fa, ma io lo ricordo come se fosse accaduto da una settimana. Vorrei tanto che non fosse così. Mi ricordo, – ella aggiunse, – che fu preceduto da vari presagi, che ci lasciarono tutti pieni di terrore, come persone che vivono dentro un sogno. Nel tempio di Demetra comparve una ragnatela, una cosa enorme, delle dimensioni di un mantello, splendente come un arcobaleno, bella e innaturale. Tutti quanti andarono a vederla, e gli àuguri dissero che era un segno che gli dei avevano abbandonato la città. E a Dirke, sulla superficie dell’acqua, continuava a formarsi una strana increspatura, un’onda del colore del sangue. Dissero che questo annunciava un massacro. Be’, il massacro arrivò ben presto, subito dopo che gli uomini di Alessandro sfondarono le mura. Dappertutto c’erano grida e confusione, e a volte i nostri, per errore, si uccidevano fra loro. Scappammo dalla città più presto che potemmo, e seguitammo a fuggire, i genitori di Melissa, la bambina ed io. Che fuga! Correvamo alla cieca, inciampando, con le bocche piene del sapore della paura. E che spettacoli! Mucchi di cadaveri agli angoli delle strade e nelle vie che uscivano dalla città. Dopo un po’, la madre di Melissa rimase indietro e fu catturata. La vidi uccidere, signore. Tenevo coperta la testa della bambina. Melissa non seppe mai come fu uccisa sua madre, né che io la vidi. Questo è un segreto che ho mantenuto. Ma credo che la mia signora abbia sempre sentito che la morte della sua povera madre dovette essere veramente orribile. Oh dei, che disgrazia nascere donna e non poter avere la propria vendetta! – Si schiarì la voce e sputò nella sabbia. – Melissa vide abbastanza spettacoli in quella fuga da rimanere sconvolta per sempre. Siano ringraziati gli dei che ne venne fuori viva e libera. Altri bambini più piccoli di lei furono uccisi o venduti come schiavi, mentre ancora piangevano per tornare dalla loro madre o per succhiarne il latte. Allora Melissa non aveva ancora dodici anni. Ebbe salva la vita, la libertà, la salute e la verginità (Oh, davvero, che benedizione!). Ma anche così non è più stata la stessa di prima. Il motivo per cui vi dico queste cose è che tutto questo la rese molto paurosa. Continuò ad avere incubi fin quasi all’epoca del matrimonio. È Ateniese di diritto, ma non è uguale a una bella e giovane donna ateniese che non abbia vissuto quest’esperienza. Si spaventa più facilmente di una ragazza normale. Suo marito la fa sentire più sicura, ed è a suo agio quando le sono vicina. Melissa ha bisogno di me. Non possiamo separarci, per lo meno finché non potrà vivere insieme a suo marito tranquillamente e decorosamente, e io prego di poter restare con lei fino alla mia morte. Pregate, signore, di non dover mai vedere la caduta di una città abbandonata dagli dei! – Così mi auguro, – risposi, non senza simpatia. – Melissa, come ho detto, aveva circa dodici anni allora, ed era bella quasi come adesso. È cresciuta presto. Del suo primo incontro con Filemone sapete già; ma ci fu un’altra persona che incontrò durante quella fuga. Il suo nome, – e la vecchia mi guardò fisso, – era Boutades. – Come? – Sì. Boutades era uno dei cittadini che dovevano esaminare la posizione dei profughi di Tebe che cercavano rifugio ad Atene. Vide Melissa senza velo, con i capelli sciolti, al suo primo entrare in città. Me lo ricordo bene io, con quella faccia grassa, così ben nutrita. Pensai, «Non hai mai visto il pericolo tu, è evidente!». Fu molto colpito da lei, povera bambina, e le domandò di diventare la sua amante in termini piuttosto rozzi. Cose simili possono accadere anche alle più virtuose in tempo di guerra, quando le donne perbene vengono cacciate dalle loro case. La poverina si abbassò il velo e si mise a piangere; suo padre era lì e gli disse subito di no. Fu anche abbastanza furbo da ingannare Boutades sul posto dove avevano intenzione di stabilirsi, in modo che non potesse ritrovarla. Poi andò a stare con i cugini, e tutto si svolse come vi abbiamo già detto. Ma quest’uomo, questo Boutades, e questo è realmente straordinario, non dimenticò mai Melissa, o almeno così disse quando la ritrovò. Perché infatti la ritrovò vari anni più tardi, dopo il matrimonio, quando Filemone era già in esilio e il bambino era nato da poco. Sembrava rincretinito per lei. Il buffo è che era ricco abbastanza da poter comprarsi l’amore in qualsiasi casa di piacere, o da mantenere mezza dozzina di donne, se ne avesse avuto voglia. A volte mi domandavo se fosse del tutto a posto con la testa. Ad ogni modo, gli uomini di una certa età a volte diventano come bambini, che si ostinano a volere un solo giocattolo e nient’altro gli sta bene. La cosa più strana è che si attaccò al bambino quasi quanto a Melissa, benché normalmente gli uomini non impazziscano per i bambini. E se si vuole accalappiare un uomo è meglio tenere i neonati in fasce ben nascosti. Boutades tornò ad offrirle quella posizione che le aveva già prospettato, e disse che avrebbe adottato il bambino legalmente e come si deve. Stava accanto al bambino come una vecchia nonna o un nuovo padre. E addirittura, quando Melissa lo respinse e spiegò che era sposata, lui disse che avrebbe adottato anche Filemone, e che avrebbe assegnato al bambino e a suo padre un lascito nel suo testamento. Tutto questo lo disse in segreto, mi capite? Dovevamo incontrarci in una capannuccia abbandonata, e quando parlava d’affari mi mandava fuori, ma io ascoltavo attraverso la porta. Non accadeva niente di sconveniente: lui era vecchio e grasso, e Melissa avrebbe potuto scappar via facilmente, se qualcosa non andava. Non è accaduto niente di male, ve lo assicuro – ripeté la vecchia scrutando la mia faccia aggrondata. – Le ha solo ripetuto l’offerta, come vi ho detto. Due volte, per essere precisi. – Davvero? E Melissa era lusingata? – Non prendetela così, signore. Naturalmente rispose di no. Ma la seconda volta lo disse con più esitazione. Era a metà dell’estate scorsa, e Melissa era molto a corto di mezzi e depressa di spirito. Filemone non era tornato da un pezzo, e quel che è peggio sentimmo dire che era morto. Non siate severo con lei in cuor vostro. Ricordate che è solo una donna, ed è suo dovere e suo desiderio allevare il bambino in buona salute e in buona posizione. – Sono lieto di sentire che Melissa sia una buona madre – dissi con ironia. – Considerate, signore – replicò la vecchia in tono di rimprovero – il suo abbattimento, la sua miseria. Una giovane sposa, forse una giovane vedova, con un bambino e nessuno a cui rivolgersi. Non poteva presentarsi alla vostra famiglia, non essendo stata riconosciuta come moglie, e se anche voi aveste pensato che Filemone era morto avreste potuto mandarla via facilmente. La mia povera signora! Ha ricominciato a piangere e ad avere quegli orribili incubi da molte notti. Ricordatevi che vi ho detto che è più paurosa della maggioranza delle donne. Fuggita da Tebe, la madre uccisa, il padre morto, il marito bandito dalla città e ora quasi come se fosse morto. Loro due, Melissa e Boutades intendo dire, s’incontrarono ancora, per la terza volta, e questa volta lui fece un accordo scritto, su delle tavolette che consegnò a lei. Prometteva che l’avrebbe sposata, in caso di morte di sua moglie e se Melissa risultava vedova. Disse persino che non avrebbe dormito con lei, a patto che non si concedesse a nessun altro, eccetto il marito, se ritornava. E avrebbe potuto adottare il marito insieme al bambino e provvedere a lei. Non molti uomini sarebbero altrettanto generosi. Probabilmente Melissa avrebbe acconsentito, ma poi arrivò vostro cugino, suo marito, che non era affatto morto, grazie agli dei. E così Melissa non ebbe bisogno di accettare l’offerta. Il resto lo sapete: Boutades fu ucciso, e ormai la mia padrona non potrebbe accontentarlo neanche se lo volesse. – Grande Atena! – dissi sbalordito. – Ha parlato con qualcuno di questo… questo piano? – Naturalmente no. Era un’idea molto segreta. Boutades disse che nessuno doveva saperlo finché tutto non fosse legalmente sistemato. Nessuno. Naturalmente, la mia padrona non ne fece parola ad anima viva. E mi raccomandò particolarmente di non parlarne a voi, perché avreste potuto allontanarci del tutto. – Dove sono quelle tavolette? – dissi concitatamente. – E cosa c’è scritto sopra di preciso? I suoi occhi si fecero vitrei, come quelli d’una lucertola. – Oh, quanto a questo, signore, chi potrebbe dirlo? Di sicuro Melissa le avrà distrutte ormai. Non le ho più viste dall’estate. E quanto a quello che c’era sopra, io so solo ciò che vi ho detto. Dovreste capirlo, signore, che non so leggere. – Perché mi hai detto tutto questo? – Perché ho pensato che doveste saperlo, signore. E inoltre… Voi siete un cittadino… Ero sicura che avreste saputo se… Non è stato lasciato nulla da Boutades per la mia padrona e per il bambino? Quando lui morì… nel testamento? – No. Certamente no –. Non riuscivo a capire se quella vecchia fosse un essere astuto o un’imbecille. – Be’, ma dopo tutto Boutades intendeva adottare il bambino. Forse era questo che gli premeva particolarmente. Non potrebbe avere qualche diritto questo bambino? O Filemone? Non sarebbe giusto che Melissa reclamasse qualcosa per il piccolo Likias, pur essendo la moglie d’un altro uomo? Non potremmo sollevare la questione negli anni a venire? – Ne dubito molto – risposi arrabbiato. Questa donna era proprio assurda. – Boutades non ha lasciato disposizioni del genere. E anche se le vostre tavolette potessero essere esibite, la corte le respingerebbe, e la famiglia di Melissa ne sarebbe infamata. Agli Ateniesi non piacciono giochetti del genere con la proprietà di un cittadino. Se il bambino fosse stato legalmente adottato, avrebbe dei diritti. Queste trattative fatte alla chetichella non gli danno diritto a niente. Qualsiasi uomo di buon senso vi direbbe altrettanto. Tieni segreta questa storia e cerca di dimenticarla. – Voi ne sapete più di me signore – disse, in tono di dubbio. – Vi prometto di non farne parola a nessun altro, se è questo che vi preoccupa. Ora dovrei tornare a casa. Vi ho trattenuto a lungo. La mia padrona sarà in pensiero. Mille grazie per i vostri doni. Quando volete prendere accordi per la partenza? Combinai in fretta di incontrarmi di nuovo con lei per comunicarle il progetto definitivo. Assentì pacatamente a tutto. Poi lasciai che si avviasse lungo la spiaggia e le tenni dietro lentamente. Mentre svoltavo nel Pireo, così assorto nei miei pensieri da stentare a rendermi conto di ciò che mi circondava, fui bruscamente ridestato da una vista spiacevole. Di fronte a me c’era uno schiavo ateniese che conoscevo, un giovanotto brutto e dinoccolato, con una faccia simile al muso d’un torello. Era uno degli schiavi di Archimeno, l’avevo visto spesso. Quest’uomo stava seguendo con lo sguardo la vecchia. Mi parve che mi vedesse e, vedendomi, scantonasse. Ci aveva visti insieme? Forse si trovava al Pireo per un’incombenza ordinaria, mi dissi, e forse le mie spiacevoli sensazioni nascevano dal fatto che qualsiasi richiamo all’esistenza di Archimeno mi dava sui nervi. Non avevo spazio per altri pensieri molesti. Ne avevo già troppi. Quella vecchia mi aveva detto la verità? Oppure lei e Melissa avevano escogitato insieme una enorme bugia per i loro propri fini? In ogni caso, la vecchia non era per niente stupida. Doveva essersi resa conto di avermi detto una cosa terribile. Avevo sempre saputo che Filemone non poteva avere un movente per uccidere Boutades o, per lo meno, avevo creduto di saperlo. E adesso, ecco qua. Quella donna, Nusia, mi aveva indicato un movente per Filemone. Uno dei più vecchi moventi del mondo. Omicidio per gelosia. Vendetta per la seduzione di sua moglie. Presi subito una decisione. Questo motivo doveva a tutti i costi restare segreto. La parentela di Boutades non doveva saperlo: avrebbe assicurato il trionfo della loro accusa. Avrei seguitato a combattere tenendo nascosta a tutti quella storia. Se le donne si proponevano di sfruttarmi, va bene, le avrei pagate. Le avrei portate via, mi giurai, se fosse stato possibile. E avrei dovuto tener celato tutto questo ad Aristotele, pur accettando senza rimorsi l’appoggio che era disposto a darmi. Non potevo raccontargli questa faccenda. C’era poi quel maledetto frammento di vaso con sopra una lettera incriminante. Forse proveniva da qualche oggetto appartenente a mio cugino. Forse era la prova effettiva di una verità terribile. Come potevo sperare che Aristotele non ne facesse uso contro di noi? Quanto a illudermi che i suoi occhi acuti non avessero identificato la lettera come l’avevano identificata i miei, non era davvero il caso. Ma forse lui pensava ancora ragionevolmente che non c’era necessariamente un rapporto fra un vaso con sopra la prima lettera del nome di Filemone e il delitto. Non potevo dargli le ultime notizie. Quando avesse saputo che Filemone aveva un così forte movente per uccidere, avrebbe potuto mettersi contro di noi e consegnare le prove agli avversari. Non potevo lasciare che questo accadesse. Non potevo permettere che mi togliesse il suo appoggio proprio quando avevo bisogno di lui per far fuggire le donne in Macedonia e trovar loro rifugio lì. Sarei stato un bugiardo. Avrei ingannato il mio migliore amico. A cosa era servito tutto quel parlare di virtù e giustizia all’Accademia e al Liceo? Erano solo chiacchiere. Avevo un solo dovere chiaro nella mente, ed era verso mio cugino. Se nel fare il mio dovere fossi diventato un uomo malvagio, pazienza. XI Fuoco e tenebre Con una nuova spregiudicatezza che si induriva sopra di me come una corazza d’argilla, andai a trovare Aristotele e, inghiottendo un senso di colpa, insistetti perché le donne e il bambino venissero spediti in Macedonia più presto di quanto avevamo progettato. Aristotele disse che la cosa, forse, era possibile. Gli inviati militari in partenza da Atene per Pella che avevano consentito a fare da scorta alla famiglia potevano essere in grado di mettersi in viaggio il terzo giorno invece del quinto. Aristotele mi assicurò che due fidati servi macedoni che dovevano ritornare a Stagira si sarebbero presi cura delle due donne e del bambino. Aveva detto a tutte le persone coinvolte nella faccenda che i viaggiatori erano parenti del marito di sua sorella, obbligati a rientrare in patria. Il marito della donna era morto in guerra. I viaggiatori sarebbero stati ben provvisti e il viaggio non sarebbe stato troppo pericoloso. I suoi euforici progetti aggravarono il mio senso di colpa. Il gruppo doveva incamminarsi il terzo giorno all’alba partendo da casa di Aristotele. Io dovevo incontrarmi con Melissa e Nusia al Pireo in un punto stabilito, ad esempio una capanna abbandonata non troppo lontana dalla loro abitazione. Arrossii ricordando quanto avevo sentito raccontare di incontri segreti in capanne abbandonate. Se ci fossimo incontrati là dopo mezzanotte e le avessi condotte a casa di Aristotele, loro sarebbero potute partire tranquillamente mentre io sarei tornato a riposare nel mio letto. Aristotele era soddisfatto di come aveva organizzato le cose. – Io sostengo sempre – dichiarò con compiacenza – che noi filosofi non siamo i meno pratici fra gli uomini, ma anzi i più pratici –. Era anche molto loquace a proposito del banchetto in casa di Cleoforo. Voleva raccontarmi chi c’era, cosa avevano bevuto, di cosa si era parlato. – Dicono che la lapide della tomba di Boutades sia quasi ultimata – disse. – Pare che sia molto bella e imponente. Bisognerà che le dia un’occhiata. Parlano molto anche del lavoro teatrale che andrà in scena per le Dionisiache. Un grande spettacolo. I fabbricanti di maschere sono già all’opera. Anche l’accompagnamento musicale sembra sia di prim’ordine. Speriamo che non ci assordi i timpani. Ma l’attore Timostene ha un forte raffreddore, e non fa altro che ingoiare miele e camomilla e crogiolarsi nel terrore di perdere la voce e non ritrovarla mai più. – Mancano dei mesi allo spettacolo, – dissi distrattamente pensando ai fatti miei, – mentre al processo mancano solo poche settimane –. Mi chiesi come avrei potuto continuare in questo modo, con l’animo colmo d’ansia e di ipocrisia. – Il poeta ha già ricevuto un dono da parte di Polignoto, e alcuni citano già qualche verso del dramma. Ieri sera, ad esempio, me ne hanno declamato alcune parti: O Chirone, meno di un uomo e più di un uomo. La tua saggezza rinfranca lo spirito prostrato. Come uno scroscio di pioggia, il gioioso apprendere Fa piovere ricchezza sull’animo inaridito e oppresso, E lo rende fertile e prolifico come la feconda primavera. – Non ho una grande opinione di questi versi. Un centauro non è uno scroscio di pioggia, e la primavera non è feconda. Tu che ne dici? – A dire il vero, non sono un buon giudice, – risposi con aria modesta e palesemente annoiata. – Sciocchezze. Ma dovresti leggere più poesia, Stefanos. Ho l’impressione che il tuo spirito sia molto prostrato e abbia bisogno di una feconda primavera. – Sto benissimo, – risposi garbatamente. – Ovviamente mi sentirò più sollevato quando le persone che sappiamo saranno al sicuro e lontano da qui. – Giustissimo. Ma non puoi fare nulla per accelerare le cose. La vita continua. Sai che si fanno molte supposizioni riguardo alla commemorazione di questo grande spettacolo? Ci si chiede se Polignoto farà forgiare un vaso speciale decorato con scene del dramma, e chi potrebbe essere l’autore di un simile capolavoro in questo momento. Cleoforo mi ha fatto tornare in mente il bellissimo cratere che il padre di Boutades, il Boutades più importante, l’uomo che fu persino più influente di suo figlio, aveva fatto forgiare per commemorare le proprie imprese come corègo. L’hai mai visto? – No, – risposi brevemente. Volevo andarmene, ma lui continuava a blaterare di drammi e di vasi, associandoli indelicatamente a un nome che odiavo sentir pronunciare. – È davvero un bell’oggetto, decorato, come saprai, con scene di un dramma che tratta di Eracle e Laomedonte. Vi sono ritratti il poeta Demetrio, il suonatore di lira Carino e, al centro, il flautista Pronomo. Attorno a loro vi sono attori vestiti da satiri e il grande satiro, coperto da una pelle di leopardo. Si dice che tutte le figure siano bellissime, Eracle con la testa di leone, Laomedonte ed Esione. Devo vedere questo cratere, questo pensiero mi mette l’acquolina in bocca. Credo proprio che Polignoto dovrà accontentarsi di qualcosa di molto più semplice. Vorrei essere stato tanto in confidenza con Boutades da andare a fargli qualche visita. Mi stai ascoltando, Stefanos? Hai mai visto questo vaso? – No, – dissi io. – Non ero tanto in confidenza con Boutades da andare a fargli visita, ed è improbabile che questo accada con Polignoto, – aggiunsi in tono amaro. – Sei sicuro di non averlo mai visto? – insistette. – Te ne ricorderesti? – Sì, ne sono sicuro, – risposi spazientito. – Certo che mi ricorderei di una decorazione simile. Una volta ho visto qualcosa di simile da Teosoforo – o perlomeno, c’erano dei satiri dalle code pelose che danzavano in un boschetto. – Ma non è affatto simile, – protestò Aristotele vivacemente. – Volevo solo sentire un’altra opinione in proposito, se possibile. Cleoforo è incapace di fare distinzioni quando loda qualcosa. Però non si può negare che il suo gusto stia migliorando. Ci siamo trovati tutti d’accordo sul fatto che la nuova arte sia di molto inferiore a quella antica. È confortante sapere che la propria opinione in materia d’arte è confermata da un’autorità come il cittadino Cleoforo, vero? Ad ogni modo, lui non nutre alcun pregiudizio nei confronti degli arredi moderni; la sua casa ne è piena. Anche troppo. Mi fa venire il mal di schiena. Com’è vero che è facile irritarsi con le persone a cui si è fatto torto. È difficile chiacchierare spensieratamente con un uomo che stiamo ingannando senza ombra di rimorso, specie se si è nuovi nell’arte dell’inganno. Mi ritirai appena fu possibile. Il giorno dopo incontrai Nusia e le diedi le istruzioni, lasciando a lei il compito di sistemare i particolari del loro trasloco. Dovevamo incontrarci in una certa capanna deserta, forse una stalla da capre che la stessa Nusia mi indicò. Mi chiesi se fosse lì che Melissa e Boutades si erano incontrati. Dopodiché, non restava che aspettare. E venne la fatidica notte. Avevo progettato di dormire un po’ prima della partenza, ma non riuscii a prender sonno, e mi misi in cammino più presto di quanto intendessi. Non dovevamo incontrarci se non dopo il tramonto della luna, ma mi dissi che era meglio incamminarmi. Quando giunsi al Pireo, la luna era ancora visibile. Faceva molto freddo. Alcune foglie morte cadevano nell’oscurità sfiorandomi il viso. Tutte le case in quelle vie secondarie apparivano chiuse e tranquille. I miei passi risuonavano forte. Solo un gruppetto di festaioli ubriachi rompeva il silenzio della notte. Girai alla larga da loro e tutto ridivenne tranquillo. Dovevo andare alla capanna e aspettare là, come si era progettato. Ma l’inquietudine che mi aveva assalito come una febbre rendeva molto penosa l’idea dell’attesa. D’un tratto, decisi che sarei andato alla casetta e avrei sollecitato le donne a far presto. Avevo l’impressione che il tempo occupato in altre faccende che non fossero frenetici preparativi fosse tempo sprecato. Avevamo convenuto che sarebbe stato meglio non arrischiare di farci vedere insieme al Pireo, ma una simile cautela ora appariva ridicola. Chi poteva vederci in quella borgata scura e silenziosa? Nella mia frenesia decisi di trovare la casa. Sia ringraziato il cielo per questo, e per l’avventatezza che talvolta non è folle frenesia, ma un disegno divino che si realizza per nostro tramite. Proprio mentre arrivavo alla casupola, contento di avere trovato la strada giusta, udii un rumore. Un suono di passi che non erano i miei. Mi fermai e poi balzai in avanti. Nello stesso tempo vidi delle sfere di luce ondeggiare confusamente intorno alla casa che cercavo, illuminandola d’improvviso, come se tre o quattro piccoli soli rossi vi si fossero levati intorno. Persino le crepe dell’intonaco erano visibili, come nella piena luce del giorno. Le strane luci danzanti si mossero di nuovo. Poi ci fu un bagliore come di una stella cadente e un crepitìo. Una fiamma balzò su dal tetto, come dal becco di una lampada a olio. Dall’interno della casa vennero delle grida. Balzai avanti e andai a urtare contro una massa voluminosa che, mi ci volle un momento per capirlo, era un uomo. Lui si mise a lottare con violenza. Prima d’avviarmi nel mio cammino solitario mi ero segretamente armato di un piccolo pugnale; ora lo tirai fuori, rapidamente anche se maldestramente, e lacerai il braccio del mio avversario. Lo sconosciuto fuggì nel buio. Io corsi dentro la casa. Era piena di fumo, e sul pavimento crepitava una delle palle di fuoco che avevo viste. Avvicinandomi, scoprii che era una torcia di pino e di stoppia. Afferrai quanto rimaneva del manico e la scaraventai in strada. – Oh, signore! – Era la voce di Nusia, aggrappata alla tavola e in preda alla tosse per il gran fumo. C’era anche Melissa, pallida come la luna, con il suo bambino stretto fra le braccia. – Venite! – dissi. Nusia, ritornata in sé dopo che avevo gettato fuori la minacciosa torcia, stava rapidamente radunando il bagaglio: ceste e fagotti. Melissa si diede a imitarla, più debolmente. Sbattevamo l’uno contro l’altro nel fumo. Non era molto buio, anzi, si stava facendo più chiaro sopra di noi, dove la prima torcia bruciava attraverso le stoppie del tetto. Anche le rappezzature della finestra avevano preso fuoco, e sembrava ne filtrasse uno strano riflesso solare. – Il mio bambino! – esclamò Melissa, spingendo fra le mie braccia il piccolo che si agitava. Non aveva visto il pugnale che tenevo ancora in mano. – Andiamo! – dissi con una sorta di grido soffocato. Il tetto era fatto di alghe marine disseccate e di paglia. Una cascata di scintille cominciava a piovere su di noi. Un’altra torcia entrò dalla finestra. Melissa, con mia sorpresa, si mostrò più pronta di quanto avessi pensato. Imitando quanto avevo fatto prima, la scagliò fuori, ma ebbe meno fortuna di me: il suo abito prese fuoco, e Nusia, tossendo e tremando, si mise a batterci sopra con un panno. – Ora! – gridai. Non riuscivamo più a respirare, nonostante la porta aperta e la finestra, attraverso cui uno sconosciuto ci bersagliava di torce incendiarie. Ci precipitammo tutti insieme alla porta. La veste di Melissa fumava ancora, e Nusia seguitava a batterci sopra mentre correva, vibrando il suo braccio ossuto come una trebbia. Mi sentii sollevato quando sbucammo sulla strada, dove almeno c’era aria da respirare e il tetto non ci sarebbe caduto sulla testa. Ma Melissa d’un tratto si volse e tornò di corsa dentro la casa. Ero certo che fosse impazzita, e mi ricordai la storia, raccontatami una volta da mia madre, di un uomo che durante l’incendio della sua casa insistette per tornare nell’edificio in fiamme e nascondersi sotto il letto, dove morì carbonizzato. Passai il bambino a Nusia, come Melissa aveva fatto con me, e le corsi dietro, in tempo per vederla arrancare verso di me trionfalmente con la tenda di Penelope fra le braccia. Doveva averla strappata dagli anelli in un batter d’occhio. – Non devo dimenticarmi di questa – disse stupidamente. La spinsi fuori dalla porta. Ed eccoci di nuovo in strada, a scavalcare le torce incendiarie e a correre. Melissa riprese in collo il suo bambino mentre Nusia si affaccendava con i bagagli. Ansimavamo e incespicavamo, con i polmoni sconvolti dal fumo e le gambe molli. Nusia si era ripresa presto, e procedeva con vigore. Io tolsi nuovamente il bambino a sua madre per alleviarla, e così mi trovai costretto ad andare piano. Guardai Melissa con ansia: respirava faticosamente e temetti che si sentisse male. Continuammo ad arrancare verso la nostra destinazione per le vie buie con ridicola lentezza, come un sogno al contempo orribile e comico. La luna non era ancora sparita del tutto. D’un tratto, ci fu una risata di scherno accanto a me, e una torcia ondeggiò, gettando riverberi rossastri e nascondendo il pallido chiarore della luna. Ridiedi il bambino a Melissa. – Correte! – gridai alle donne. Poi mi girai per affrontare il mio assalitore. Ero quasi abbagliato dalla luce, e la sua faccia restava nell’oscurità delle ombre vacillanti. Forse si era anche annerito il viso con la fuliggine per rendersi invisibile. Quanto a me, mi sentivo orribilmente in vista. – Oh, Stefanos! – bisbigliò una voce. – Chi è? – gridai, ma nessuno rispose. Da qualche parte lì vicino un cane cominciò a ululare. Un’altra forma oscura con una torcia si delineò alla mia sinistra. Mi parve che questo nuovo nemico fosse quello che avevo già ferito. Infuriato dalla rabbia, gli saltai addosso di nuovo, lanciando fendenti con il pugnale al disotto della torcia in cerca del braccio che la reggeva, ed ebbi fortuna. La torcia cadde, bruciacchiandomi un po’ i capelli. Scavalcai d’un balzo il fuoco e attaccai di nuovo, e sentii che il mio pugnale affondava nella carne. L’assalitore alla mia destra non si avvicinò, e questo mi diede coraggio. Se rifiutava di aiutare il suo compagno, non doveva essere molto audace. Mi volsi e corsi verso quest’altra torcia, scoprendo i denti e lanciando irosi mugolii; non parole, solo mugolii, come fanno i cani. La torcia sparì ondeggiando. Accelerai la corsa, e presto il rumore di passi rapidi e pesanti mi disse che il nemico stava scappando. Mi buttai all’inseguimento con il pugnale in mano. L’uomo con la torcia che avevo ferito almeno due volte cominciò a rincorrermi, ma presto sentii i suoi passi incespicare e poi cessare. Una parte della mia mente prese nota di un particolare. L’uomo ferito correva a piedi nudi, mentre quello davanti a me portava dei sandali. Entrambi dovevano indossare vesti molto scure. Continuai ostinatamente l’inseguimento dell’uomo coi sandali, l’inseguitore che adesso era l’inseguito. L’uomo gettò la torcia, e seguitammo a correre attraverso i vicoli oscuri senza più il beneficio della luce. La luna era tramontata, e il Pireo era scuro come la cappa d’un camino. Una volta il nemico cercò d’intrappolarmi nascondendosi fra due case e aspettandomi al varco per saltarmi addosso. Fortunatamente, gli orecchi mi avvertirono della manovra senza che dovessi pensarci. Strisciai intorno all’angolo e gli piombai addosso così bruscamente che per poco non lo catturai. Certo fu colto di sorpresa: udii la sua esclamazione soffocata quando gli fui sopra; evidentemente il suo udito non era acuto come il mio. Poi mi sfuggì di nuovo, e io ripresi l’inseguimento. Il Pireo è il luogo meno adatto per una gara di corsa, specialmente di notte. Una volta scivolai su un mucchio di letame. Seguitavo ad andare a sbattere contro imprecisati ostacoli. Ma così accadeva anche a lui. Dovevamo sembrare due ragazzi impegnati in una gara. Imprecai tra me e me per non essere riuscito a catturarlo. Avevo una gran voglia di mandare a segno il mio pugnale, ma mi sentivo alquanto sfinito per via del fumo che avevo respirato. Mi rendevo anche conto che dovevo tornare indietro e garantire la salvezza delle donne e del bambino. Quando compresi che il nemico era ormai innocuo e cercava solo di scappare, desistetti dall’inseguimento, sperando che per qualche tempo ancora non si rendesse conto che non gli stavo più alle calcagna. Mi piaceva l’idea di quest’uomo che seguitava a correre inseguito solo dalla vuota aria della notte. Comunque, cessata l’eccitazione della caccia, il mio stato non era molto invidiabile. Respiravo a fatica e sentivo le gambe molli e stanche. Avevo anche perduto l’orientamento. Dovetti sciupare più di mezz’ora errando, incespicando e addentrandomi sempre più nei vicoli tortuosi e invasi dalle tenebre e sovente senza uscita, prima di giungere alla capanna. Bisbigliai cautamente: – Nusia! – ma non mi rispose altro suono che la voce del vento. Chiamai ancora ed entrai nella capanna. Sembrava completamente vuota, e nessuno mi rispondeva. Mi venne in mente d’un tratto che forse la moglie e il bambino di Filemone, ed anche la vecchia naturalmente, fossero stati fermati e uccisi mentre si trovavano sotto la mia tutela. Ma dove erano i loro cadaveri? Avrebbero potuto essere dovunque. D’un tratto, una voce maschile disse: – Signore! – in tono basso. Qualcuno era venuto fuori da dietro la capanna. – O Zeus, di nuovo! – borbottai, afferrando debolmente il pugnale. – Signore? Siete l’amico di Aristotele? Siete Stefanos, il figlio di Nichiarco? – Sì. Chi siete? – Oh, signore, temevo non arrivaste più. Sono lo schiavo di Aristotele. Vi sto aspettando da più di un’ora. Il mio padrone ci ha mandati in due ad aiutarvi, in caso di difficoltà. – Be’, le difficoltà non mancano – risposi. – Sono sfinito, ho combattuto contro due uomini. Per Zeus, sapete niente delle due donne? Mi aspettavo che replicasse «Quali donne? Dove?» o qualcosa di altrettanto confortante. Rimasi stupito quando rispose con calma: – Oh, sì, sono a posto. L’altro… il mio compagno, Autilo, è andato avanti con loro. – Ma dove? – ribattei in tono quasi arrabbiato. Mi sentivo petulante come un bambino, seccato che non mi avessero atteso. – Ma, signore, ve l’ho detto. A casa nostra. Il padrone ha detto di portarle a casa. – O grande Atena! – balbettai distrattamente, riconoscente e costernato allo stesso tempo. Ecco che Aristotele, a cui avevo nascosto un così grave segreto, mi stava aiutando in questa impresa al di là di ogni aspettativa, come certo non avrebbe fatto se avesse saputo. – Be’ – rispose lo schiavo sorpreso – sono sue parenti, no? O di sua moglie. E per impazienti che siano di mettersi in viaggio, stanotte non partiranno, o meglio stamattina. Dovreste vedere la ragazza! Non si regge più. C’è stato una specie d’incendio. Venite a casa con me ora, e vedrete come stanno le cose. Lo schiavo mi prese sollecitamente sotto braccio, e riprendemmo la via per Atene mentre io incespicavo e mi appoggiavo a lui. Avevo avuto il buon senso di nascondere il pugnale. Chiunque ci avesse visti nelle ultime due miglia avrebbe pensato che ero un ubriaco riaccompagnato a casa dopo una bisboccia. Quando giungemmo alla dimora del filosofo, c’era una promessa d’aurora nel pallore dell’oriente. – Devo vedere Aristotele – dissi come se fossi venuto in visita. – Il padrone non si è ancora alzato. Venite a lavarvi! – rispose lo schiavo in tono piuttosto sgarbato. Speravo che non avesse notato le macchie di sangue. Ma quando mi fece entrare in casa e mi lavò, non vidi sulle mie mani niente di più allarmante d’un po’ di sudiciume. Mi strofinai vigorosamente i capelli per liberarmi del puzzo di bruciato. Via via che l’acqua mi rinfrescava la testa, il mio cervello riprendeva a funzionare. Quando mi condussero da Aristotele ero ridiventato abbastanza presentabile. Lo schiavo mi aveva persino prestato una delle tuniche pulite del suo padrone. La vittima della mia perfidia mi invitò a far colazione con lui. Davanti a un boccale di vino corroborante e a delle fette di pane, ci mettemmo a discorrere. Aristotele non sembrava affatto sconcertato dallo sconvolgimento dei suoi piani. Gli raccontai del fuoco, della lotta con i due uomini invisibili e dell’inseguimento nel buio, mentre lui mi ascoltava attentamente. Mi disse di non stare in pensiero per la giovane donna. Pitia gli aveva descritto le sue condizioni, e lui aveva ordinato cure appropriate. A quanto sembrava, Melissa era più esausta che sofferente. – Il bambino sta benone – continuò. – L’ho visto. È un magnifico maschietto. La mia bambina lo farà divertire con i suoi giochi. E la vecchia sta sorprendentemente bene anche lei, e cerca di darsi da fare per il piccino e per la sua padrona, ma le è stato ordinato di dormire. In ogni modo non sono in condizioni di viaggiare oggi. Ma per una straordinaria fortuna, la partenza degl’inviati di Antipatro è stata rimandata. Così, se piace agli dei, il gruppetto si metterà in viaggio fra due giorni. Ho fatto uscire il carro dal cortile per non attirare l’attenzione. Tutto è a posto qui. E adesso, per amore di noi tutti, Stefanos, torna a casa a dormire –. Mi guardò pensosamente e aggiunse: – Il tuo coraggio della scorsa notte merita una lode. Ma non tentare il destino. Non venire da me finché le donne e il bambino sono ancora qui. Evita di uscire dopo il crepuscolo e sta’ alla larga da vicoli oscuri e terreni abbandonati. Preferirei saperti al sicuro. Mi accomiatai. Prima di raggiungere la mia casa, la momentanea energia che avevo ritrovato all’aurora era scomparsa, e le ginocchia mi vacillavano per la stanchezza. Mi diressi quasi a tastoni al mio letto, e caddi in un sonno profondo come il Lete. XII Spade e pietre Aristotele mi aveva avvertito di stare lontano da casa sua, finché «le sue parenti» erano là. La cosa mi irritava moltissimo, benché non avessi alcuna voglia di vedere le donne; inoltre, non sarebbe stato affatto decoroso per me andare a trovare quelle che agli occhi di tutti apparivano come la parente di un altro uomo col suo bambino e la sua schiava, ospitate nelle stanze delle donne in casa sua. Ma continuavo a domandarmi cosa stesse accadendo. Tremavo all’idea che la zia Eudossia potesse leggermi nella mente. Se mai avesse avuto sentore della faccenda, la vedevo già correre da Melissa, reclamarla come sua nuora e portare a casa il nipotino, ratificando così quel dubbio matrimonio e attirando ogni sorta di pericoli sulle nostre teste. Finalmente, il terzo giorno, in risposta a un suo oscuro messaggio, mi incontrai con Aristotele di giorno, in un boschetto presso il Liceo, dopo l’uscita degli studenti. Mi parlò a bassa voce, passeggiando su e giù come gli piaceva fare. – Sono partite – disse. – Se ne sono andate all’aurora, nel modo stabilito. – Sono dolente – risposi in tutta sincerità – che questi miei guai abbiano invaso casa vostra. – Nessun guaio – ribatté lui. – Il bambino è piaciuto tanto a tutti. Mi chiamava persino «papà»… il che dimostra che non è ancora molto bravo nel distinguere le persone. Mia moglie e la mia bambina erano felici di giocare con lui –. Sospirò. – È un peccato che non abbiamo figli maschi. Ho ricevuto dagli dei ogni sorta di doni, tranne questo –. Aveva lo sguardo perduto in lontananza. Mi parve un argomento pericoloso. Avrei potuto dirgli: «Perché non ne adottate uno?», ma temevo che avrei potuto aggiungere stupidamente: «So di un caso che vi sorprenderà…». Aristotele si riscosse. – Da quanto Pitia mi ha detto della ragazza, mi è sembrato che potesse viaggiare senza pericolo. Non c’erano segni di febbre, né rischi di aborto. Pitia le ha parlato, e ne ha avuto una buona impressione. Dice che è una giovane beneducata e modesta. Vale sempre la pena di sentire l’opinione d’una donna a proposito di un’altra donna. Mia moglie dice anche che la vecchia Nusia veglia sulla sua padrona meglio di cinquanta madri –. Ridacchiò. – Mi è sembrato che Nusia non fosse molto amata dalle altre schiave. Sulle prime la compativano come una poveretta, ma lei ha messo subito le cose a posto. Brontolava a tutto spiano, e trattava la modesta eleganza della nostra casa e dei suoi arredi con la condiscendenza di chi è abituato alle dimore della più alta nobiltà! – Ci credo, – risposi con convinzione. – È una tremenda vecchia arpia. – Sai, credo che Nusia sia piaciuta molto a Pitia. È stata molto colpita dalla fedeltà di quella donna verso la sua padrona. E non dimenticare quanta efficienza ha dimostrato in quell’orribile notte. Evidentemente al momento giusto sa smettere di blaterare. – Senza dubbio, – concordai. I miei valorosi sforzi in quell’occasione erano sembrati giorno per giorno meno efficaci. Al contrario di Eracle, io non avevo ucciso il mio nemico, ma avevo sprecato il mio tempo a correre per le strade buie. Senza far caso al mio malumore, Aristotele continuò. – Pitia dice che sono entrambe molto fiere. Le abbiamo vestite alla macedone. Melissa ha accettato in prestito gli abiti e una coperta di pelliccia solo col pretesto che erano necessari per la loro sicurezza e per il benessere del bambino. Ma non hanno voluto accettare roba nuova. Pitia dice che si risentivano facilmente se si osservava che il loro vestiario non era in perfetto stato. Quest’atteggiamento testimonia in loro favore: non è una condotta da accattoni. Quindi penso che non stessero consapevolmente cercando di estorcerti qualcosa. Ad ogni modo, Pitia dice che, mentre Melissa dormiva e Nusia vegliava sulla sua padrona, ha colto l’occasione di esaminare i loro effetti personali e di aggiungere alcune cose che saranno utili durante il viaggio. Mia moglie si è messa anche a cucire e a rammendare per loro, un’occupazione che le piace molto. Cuce e fila da quella principessa che è. Una vera Penelope! A proposito, tu avevi menzionato una tenda con un’immagine di Penelope ricamata sopra. Anche Pitia me ne ha parlato. Era stata malamente bruciacchiata in due punti, e gli orli erano logori. Lei l’ha ripulita e rammendata di nascosto, in modo da non urtare la sensibilità delle due donne. Era un lavoro pregevole, dice, il che dimostra che un tempo devono aver abitato in una casa di una certa dignità –. Rise. – Si potrebbe ben dire che avevamo tre Penelopi in casa: quella della tenda, la donna bionda col suo bimbo in attesa del marito assente, e la mia bella Pitia bruna che cuce e tesse. Io, però, sono un ben misero Ulisse, anche se ai miei tempi ho viaggiato tanto. Tuo cugino sembra il più adatto a questo ruolo, ma lui farebbe meglio a non tornare. Mi affrettai a precisare, – Al contrario di me con voi, Ulisse non aveva debiti di gratitudine con nessuno, eccetto ovviamente con Mentore, e in questo riconosco che vi è una somiglianza. Ma vi ripagherò per le cose che avete dato alla moglie di mio cugino, visto che devo chiamarla così. Filemone mi risarcirà, naturalmente, e così sarà tutto a posto. Aristotele parve dispiaciuto. – Accidenti alla mia lingua! Si tratta di poche cose modeste che non ci occorrono e che siamo stati felici di dare. Volevo solo richiamare la tua attenzione sul fatto che la condotta di quelle donne non è da accattone. Non si sono profuse in moine, ringraziamenti o allusioni, e non hanno accettato nemmeno la metà di quanto è stato loro offerto. Per quanto ho prestato non posso accettare denaro; quanto alle cose donate, mi vergogno a dirlo, ma erano vecchie e senza valore. Ma se credi, dammi cinque dracme quando ti fa più comodo, e non parliamone più. Sai che andrò a cena da Polignoto tra due sere? A questo cambiamento di argomento dissi, – Oh? –, ma senza sorpresa. Ciò che aveva detto Telemone era vero. Polignoto stava diventando un uomo importante ad Atene, e naturalmente desiderava essere in buoni rapporti con il filosofo macedone amico di Antipatro. – Già, e ne sono onorato. Vedi, in questo periodo mi diverto a frequentare la buona società. Ippomene e Laio mi hanno parlato molto bene di Polignoto. Sospirai. Ippomene e Laio erano amici e agenti di Antipatro, strenui sostenitori di Alessandro. Senza dubbio Polignoto era ben visto dai cittadini più influenti. – Mi hanno detto – aggiunse Aristotele, – di avere incontrato per caso Polignoto appena fuori Corinto due mesi fa, e di aver fatto il viaggio di ritorno insieme a lui. Hanno giudicato molto valide le sue idee in fatto di commercio, e sono stati molto colpiti dalle sue imprese come corègo. Ci saranno anche loro a questa cena. Sarà davvero una riunione importante. – Spero che trascorriate una bella serata, – dissi garbatamente. – Vi manderò il denaro per il vestiario delle due donne e vi sarò molto obbligato se mi farete avere notizie del loro viaggio. Quel giorno non dissi nulla ad Aristotele sul processo di Filemone. Come potevo chiedere ancora assistenza e consiglio dopo avere ricevuto tanto da lui, a piene mani e senza scrupoli? Avevo un bel parlare altezzosamente di ripagarlo per alcuni indumenti; ma come avrei potuto ricambiare la stupefacente ospitalità offerta a delle forestiere di dubbia origine? Se le donne non erano disoneste, io certamente lo ero. Pensavo anche, a disagio, che la terza prodicasìa si avvicinava di giorno in giorno e io non avevo preparato nulla nella mia mente. Non avevo idea di cosa avrei detto, e neppure di ciò che la parte avversa avrebbe potuto sostenere contro di noi. Il fumo che avevo respirato nella casa al Pireo sembrava essermi andato al cervello, tanto lo sentivo inerte e confuso. Tre giorni dopo la partenza di Melissa e del bambino ero nell’agorà, e mi sforzavo di apparire fiducioso e senza preoccupazioni. Non era un esercizio piacevole; erano pochi ormai quelli che si degnavano di salutarmi. Trovare qualcosa da vedere o da ascoltare mi dava un certo sollievo, perciò mi fermai a sentire un rètore che teneva uno sproloquio sul commercio del grano, e poi mi fermai davanti al banco d’un fabbro che stava battendo del bronzo. Quando entrò nell’agorà il banditore per fare gli annunci quotidiani, rivolsi a lui tutta la mia attenzione. Sentii le solite banalità: descrizioni di animali smarriti, il resoconto del furto di due orci di vino. Cominciavo a distrarmi, quando rimasi stupito udendo il seguente annuncio: – Ascoltate tutti! Ateniesi, ascoltate! In virtù dell’autorità di Antipatro e con il consenso del Basileus, Aristotele il filosofo rende noto che desidera comperare 0 prendere a prestito esemplari di armi. Equipaggiamento da guerra e armature vecchie e nuove, ateniesi o forestiere, allo scopo di studiare gli strumenti bellici e aiutare così i nostri eserciti in Oriente. Armi ed armature devono essere consegnate alla casa di Aristotele. A quelli che desiderano venderle sarà offerta una somma in denaro, da stabilirsi in base al valore dell’oggetto. Udite! Pensai di aver solo immaginato questo proclama, ma il banditore lo rilesse. Un brusìo di commenti si levò dagli ascoltatori, tanto nobili che popolani. Riuscii a cogliere qualche commento qua e là: – Una spada è una spada. Che cosa c’è da studiarci su? – Be’, immagino che questi filosofi vogliano dimostrare di essere buoni a qualcosa. – Aristotele adesso farà la guerra nel suo studio. – Per un po’ di denaro, gli porto mia moglie: come arma offensiva è la migliore. Mentre uscivo dall’agorà sobbalzai, nel vedere lo schiavo di Archimeno, quel tanghero dinoccolato, in piedi accanto al banco di un venditore di castagne, all’angolo opposto. Non credo che mi stesse osservando. Aveva il torso e le braccia quasi interamente nascosti dalla tunica bruna tessuta in casa, ma un gesto catturò la mia attenzione. Era la mano sinistra che si tendeva a ricevere le castagne. Poi vidi che la mano destra e il polso erano avvolti da una fasciatura tenuta ferma da una cinghia di cuoio. L’uomo teneva il braccio rigidamente. Pensai al mio pugnale. Ma non fu quel piccolo pugnale di bronzo che portai alla casa di Aristotele quel pomeriggio. Non mi piaceva l’idea di uscire dalla città senza averla addosso, ormai ripulita e nascosta sotto gli abiti, sebbene un Ateniese non dovrebbe andare in giro armato. Ad ogni modo, avevo deciso di portare un’arma qualsiasi alla dimora del filosofo, perché questo mi avrebbe consentito di fargli visita senza provocare commenti. Ero anche pieno di curiosità per questa sua nuova e strana trovata. Così presi una vecchia spada che era appartenuta a mio nonno, niente di speciale, visto che aveva la lama tutta rovinata. Quando giunsi a casa di Aristotele, trovai il cortile affollato di gente che andava e veniva. C’erano alcuni cittadini di buona famiglia, ma la massa era di persone comuni. Lo schiavo al cancello aveva appena cacciato fuori un tipo volgare, un attaccabrighe. Questo tizio si scagliava contro il muro e vi batteva i pugni gridando, – Ridammi la mia picca! Che tu possa marcire negli Inferi! Ridammela! – Non finché non vi calmerete, signore, – disse lo schiavo in tono persuasivo spingendomi dentro. Poi si asciugò la fronte con la mano. – È la seconda lite oggi pomeriggio, – osservò stancamente. – È una cosa veramente sconveniente invitare in casa tutta questa gente volgare, e per giunta armata. Perché non sono tutti quanti nell’esercito? Io mi sentii offeso dai suoi commenti. Era uno schiavo macedone, ed era evidente che considerava gli Ateniesi più umili come esseri inferiori. Entrai con aria altezzosa, col cinturone della spada allacciato alla vita, e mi unii alla folla in attesa. Sembravamo un esercito di mentecatti, radunato da un re ridotto in miseria. Non c’erano due persone che fossero vestite o armate alla stessa maniera. Qui c’era un uomo con un grande scudo antico di cuoio e niente spada per accompagnarlo; là ce n’era un altro con una vecchia spada piegata e senza scudo né armatura. Un tipo corpulento, giovane e biondiccio, ostentava un’elegante daga, mentre un nanerottolo dalla barba grigia portava una vecchia spada persiana di dimensioni enormi. Un ometto magro dalla testa minuscola aveva un vecchio elmo, sagomato come un vaso di metallo, che gli scivolava giù coprendogli la faccia. Sulle armi e sulla loro storia si facevano discussioni animate, che somigliavano piuttosto a parodie di alcuni passi dell’Iliade. Credo che alcuni si profondessero in narrazioni fantastiche, vantandosi delle grandi battaglie in cui essi o i loro antenati erano stati impegnati, e si spacciassero per membri di famiglie molto importanti. Alcuni ben noti scapestrati, rifiuti del quartiere peggiore della città o del Pireo (uomini le cui stesse madri avrebbero strillato come upupe se mai avessero reclamato un padre, figuriamoci un’intera famiglia) si vantavano della grandezza dei propri nonni, o spiegavano con dettagli inverosimili che qualcuno troppo eminente per essere nominato aveva donato loro il premio che recavano, come ricompensa per il loro valore. Altri, mal vestiti e palesemente male assortiti con l’arma che portavano, spiegavano riluttanti che «l’avevano trovata per caso». Ad un tratto la porta si aprì, e comparve Aristotele in compagnia di Euticleide. Il filosofo stava parlando con tutta serietà all’alto personaggio. – Onoratissimo, Euticleide. È un vero privilegio –. Il suo sguardo si posò su di noi, come da una grande distanza. – Questo buon cittadino – aggiunse rivolgendosi a tutti – mi ha offerto, perché io le esamini, le armi e l’armatura che il suo trisavolo portava nella battaglia di Platea. Quali oggetti di venerazione! È una causa altamente patriottica quella a cui voi, Euticleide, contribuite. Sì, signore, comprendo che si tratta d’un prestito. Chi si separerebbe da cimeli così preziosi? Molti ringraziamenti a voi e alla vostra famiglia. Il vostro spirito è di esempio alla città e sarà lodato da Alessandro. La piccola folla ascoltava pazientemente, come è d’obbligo quando i filosofi parlano a cittadini eminenti. Questo era un vero e proprio discorso di ringraziamento pubblico. Anche ai miei orecchi suonava pomposo. Euticleide era evidentemente compiaciuto. Aveva l’aria di sguazzare nei pubblici elogi. Se ne andò quasi raggiante, in compagnia d’un ometto magro e dall’aria campagnola che zoppicava, e al quale offrì il braccio con condiscendente affabilità. Sembrava un Euticleide molto più simpatico di quello che avevo conosciuto alle prodicasìe; riuscivo persino a comprendere perché a qualcuno potesse piacere. Era forte, era ricco, e si poteva facilmente trattare con lui usando i modi formali che semplificano le complessità delle relazioni sociali. Sapeva essere generoso con quanti gli portavano rispetto, come l’ometto che in questo momento teneva a braccetto. Osservandolo, mi venne improvvisamente in mente che alcune menti, come alcuni corpi, hanno bisogno di un nutrimento speciale per prosperare. Euticleide era una di quelle persone che prosperavano grazie al successo e alle lodi. Tutti gli uomini amano queste cose, ma alcuni tirano fuori il meglio di sé solo quando vengono nutriti costantemente di queste cose. Ammirai Euticleide più di prima, e pensai che non mi sarebbe piaciuto affatto vederlo in un momento in cui gli veniva offerto come cibo un fallimento. Senza dar segno di avermi notato, Aristotele domandò a me e a un altro cittadino insieme se non ci dispiaceva aspettare un po’. Faceva passare per primi alcuni fra i più poveri, trattando con ciascuno di essi da solo a solo nell’interno della casa per un minuto o due. Pensai che forse faceva questo per evitare loro di arrossire quando gli veniva offerto il denaro, ma una simile delicatezza sembrava superflua. Di fuori, fra quelli che stavano ad aspettare in cortile, le conversazioni e le battute di spirito continuavano. – Perché non parti per la guerra, nonno? – disse qualcuno a un minuscolo vecchietto dai capelli grigi. – Hai proprio l’età giusta! – Ehi, Simonide, butta via quella spadina storta! Comprati una lancia bella lunga, e poi vedi se la tua ragazza ti riprende! – Be’, che se ne farà questo Macedone di tutta questa roba? Un uomo nervoso e malvestito, probabilmente un liberto, disse: – Alcuni dicono che ucciderà uno schiavo al giorno con ognuna di queste armi, finché non le avrà provate tutte e saprà quale uccide meglio. – Per le uova bruciate di Leda! No! A tutti quelli che gli portano un’arma letale, come quel vecchio giavellotto che porti tu, farà uccidere un uomo, e con la sua stessa arma. E se non sa farlo abbastanza in fretta, il filosofo saprà come incoraggiarlo. È quello che si chiama radunare un esercito. Il gracile liberto impallidì. Vidi che lo schiavo a guardia del cancello ridacchiava da dietro le mani. Finalmente il gruppo si diradò. Il mio compagno passò prima di me; poi fu la mia volta, ed io entrai con la spada avita. La stanza dove si trovava Aristotele era un vero spettacolo. Aveva l’aria di un’armeria tenuta da un custode ubriaco. Mucchi di lance, di picche e di giavellotti erano sparsi sul pavimento come rami tagliati. C’erano spade e pugnali da tutte le parti. Un vecchio elmetto stava rovesciato su una tavola, come una sorta di strana ciotola. Per poco non andai a sedermi su una spada di ferro tutta arrugginita, mentre urtavo col piede in una corazza di bronzo. Aristotele stesso sedette sulla punta d’un giavellotto e schizzò in piedi immediatamente. – Devo far portar via queste sedie – borbottò. Camminava irrequieto fra i suoi tesori, toccandone ora uno, ora un altro. – Non è meraviglioso? – esclamò. – Guarda un po’ tutta questa roba! Mi sembra che potrei far guerra contro tutta una città io da solo. Questo è un giavellotto della Tracia. Questo è uno scudo moderno, macedone, un po’ ammaccato, come quello che portano le «Compagnie a Piedi». Ha perduto la cinghia. Quest’altro è uno scudo greco, all’antica. Vedi la differenza? Quello macedone è corto e rotondo e si porta allacciato al corpo, per cui i soldati possono combattere con tutt’e due le mani. Gli diedi la mia offerta. – Ah – disse, esaminandola – una spada greca. Di circa cinquant’anni fa. Non dovresti mai lasciare che un fodero di cuoio si dissecchi così. La lama si è smussata. Eppure, anche questa servirà. – Potete averla in prestito, se vi è utile – risposi. Non aspiravo certo a riscuotere un obolo o due come la maggioranza dei miei compagni nel cortile. – Chi avrebbe mai pensato che ci fossero tante armi ad Atene? – seguitò Aristotele in tono entusiastico. – È meglio di quanto si potesse sperare. Vedi, non solo la gente ha le armi dei suoi avi, relitti delle antiche guerre, ma ora quelli che ritornano dalle campagne di Alessandro hanno armi e trofei, magari ormai inservibili. Ecco una sarissa che ha visto giorni migliori –. Additava una picca molto lunga e sottile, con una lama di ferro all’estremità. La lama era lunga almeno un piede e sembrava pericolosa. L’asta sottile era scheggiata nel mezzo e vidi che dei rami vuoti all’interno erano stati uniti uno all’altro sopra un tubo di bronzo per fabbricare questa fragile alabarda. Anche l’impugnatura era scheggiata, e sembrava rosicchiata. – Dovrebbe avere un’estremità a punta da infilare in terra, ma non ce n’è più traccia. Le sarisse possono essere fissate al suolo, e funzionano come una palizzata contro una carica, sebbene il loro uso principale sia proprio nella carica. Un’arma intelligente, difensiva e offensiva insieme. Roba macedone. Però, all’inizio, è difficile da maneggiare, vista la lunghezza. Be’, non andare a inciampare nella lama –. Era eccitato, come un bambino davanti a dei nuovi balocchi. Capivo che sarebbe stato gioiosamente impegnato in questa occupazione per settimane o per mesi. E avrebbe potuto seguire ancora la mia azione legale? – L’uomo che mi ha offerto questa sarissa l’aveva portata a casa dalla guerra – seguitò. – Quel tale con Euticleide. Mi pare che debba testimoniare contro di te. È quello che giurerà sulla presenza di Filemone dalla… dalla parte sbagliata, capisci? Non stupirti se lo rivedi presto. Che sia stato in guerra, questo è certo. – Oh – dissi cupamente. Quel pomeriggio, lì nel cortile, avevo dimenticato la terza prodicasìa e la sua prossima scadenza. Aristotele raccolse una picca e poi la lasciò cadere. – Le mie mani e le mie braccia non sono più forti come dovrebbero. Ho mangiato e bevuto troppo ieri sera, temo. Una cosa non troppo filosofica, ma il cibo era molto buono, e che vino! Ti avevo detto che dovevo cenare da Polignoto? – Sì. – Una compagnia molto scelta. C’era anche Euticleide. E così finalmente ho visto coi miei occhi la famosa stanza. Per fortuna, la cena non è stata servita lì, ma ci siamo entrati dopo. È tutta pulita ora, e ci tengono sacrifici espiatori regolarmente. Ippomene ha detto che aveva lo stesso aspetto dei tempi di Boutades, e Polignoto ha risposto che cercava di mantenerla così in onore della memoria di suo zio. Il nostro ospite ha detto di aver voluto lasciare le cose com’erano sempre state. Poi ha fatto un sorriso triste e ha citato Omero, o meglio lo ha parafrasato: Addio Boutades, ti riverisco persino nell’Ade, Perché sto realizzando quanto ti ho promesso in passato. – È stato un momento molto triste, ma poi tutti hanno ricominciato a lodare la stanza e i suoi arredi. Alcune cose erano state tenute sotto chiave nel momento critico dei funerali e poco dopo, ma adesso tutto è tornato al suo posto. Eppure, sono stato contento di uscire da quella stanza. Non si può certo dire che la citazione di Omero mi avesse rallegrato, perché si trattava, guardacaso, di alcuni versi dell’Iliade, che minacciavano una vendetta promessa da Achille ad un fantasma offeso. Aristotele si provò distrattamente un elmetto tracio, e si fermò a riflettere in mezzo alla stanza. Aveva un aspetto molto strano con gli occhi luccicanti che uscivano dalle strette fessure nel bronzo dell’elmo, e il naso metallico lo faceva somigliare a un uccello dal becco aguzzo. – Non riesco a ricordare, – disse all’improvviso con voce preoccupata, – dove si trovino in questo momento gli oggetti di questa stanza. Intendo dire se guardo da un’altra parte. Si ricordano meglio le cose che ci sono, o quelle che non ci sono? – Si coprì per qualche secondo con le mani i buchi degli occhi nell’elmo. Aveva un’aria decisamente grottesca. Poi tolse le mani e spalancò gli occhi. – Ecco! Sapevo di aver dimenticato qualcosa. Avevo contato ventitré oggetti portati questo pomeriggio – inclusa la tua spada. E adesso ne ricordo ventidue, oltre al mio arredamento. Ma avevo dimenticato una cosa: l’elmo che ho sulla testa. Però non è male. Prova tu, Stefanos. Dai una buona occhiata intorno, poi chiuditi gli occhi e dimmi ad alta voce cosa c’è nella stanza, e possibilmente dove. Sembrava non rimanesse altro da fare che assecondarlo nel suo gioco. Chiusi gli occhi e descrissi gli oggetti dentro la stanza. Confusi le picche con le lance e dimenticai la corazza sotto la mia sedia, ma non me la cavai male. – Bene! – disse Aristotele. Mi mise un elmo a forma di ciotola sulla testa. Era troppo grande e mi scivolava sul naso. – La memoria è la madre delle Muse. Questa stanza è un vero caos. A me non piace il disordine. Devo mettere tutto quanto in ordine e fare una sorta di lista, inserendo le cose simili in categorie ben definite. Sorrisi. La passione di Aristotele per le liste e le categorie era una fonte di divertimento per i suoi allievi. Una volta, mentre ci faceva lezione nel boschetto e noi gli trottavamo dietro, un cane bastardo si era unito al corteo, e noi lo avevamo interrotto alla fine di una frase per chiedergli scherzosamente, – Aristotele, a quale categoria appartiene questo? – Il maestro aveva risposto argutamente, – Alla categoria degli studenti. Abitudini della madre deplorevoli, antenati sconosciuti, modi accattivanti, parla quando non è il suo turno e frequenta le lezioni senza capirci nulla. – Non mi piace il disordine, – ripeté Aristotele. – Ma spesso la vita è disordinata. È un errore aspettarsi troppo ordine. Ora, tu che hai buona memoria, dimmi cosa hai visto nella stanza di Boutades quando ci sei stato entrato. – Ma ve l’ho già detto una volta, – protestai. – Molto tempo fa. Adesso ridimmelo. Mi sentivo ridicolo, ma il tentativo di ricordare le cose non fu una prova penosa quanto mi aspettavo, visto che stavamo facendo un gioco stupido e avevamo per giunta la testa dentro un elmo. Ricordai tutto molto chiaramente, benché si trattasse di tanto tempo prima. Ma come avrei potuto dimenticare? Aristotele spalancò di nuovo gli occhi quando ebbi finito, e scosse la testa una volta, lentamente. Si tolse l’elmo e vi guardò dentro come se cercasse delle api. D’un tratto qualcuno bussò forte alla porta, che venne aperta prima ancora che cessasse il rumore dei colpi. Entrò un uomo basso e tozzo con indosso una tunica da operaio, da cui uscivano delle gambe muscolose e sudicie con larghe ginocchia nodose e delle lunghe braccia robuste. Le membra che si dipartivano dal busto tozzo sembravano rami di quercia spuntati dall’esile tronco di un cespuglio. – Scusate, maestro, ma non potreste ricevermi? Vostra Eccellenza, sto aspettando da molto tempo, e devo andarmene. Perciò ho cercato di non farmi vedere da quel vostro schiavo. Una fucina non può mandare avanti il lavoro da sola, vi prego, Vostra Eccellenza. – Capisco, – disse Aristotele, aggiustandosi i capelli arruffati, quei pochi che gli erano rimasti. – Hai qualcosa da vendere? – Proprio così, signore. Ho detto al vostro schiavo, «Il tuo padrone non vorrà perdersele. Se verrà a sapere che le ha perse andrà su tutte le furie, e magari ti caccerà via a calci per la delusione. Non sono in molti a portare roba del genere». Così gli ho detto. «Non con una storia come questa», fresca fresca, per così dire, del campo di battaglia. – Oh? È un’arma di gran valore? – Di gran valore dite? Il fabbro, o qualunque cosa fosse, mi ha lanciato un’occhiata curiosa mentre ero seduto con la faccia nascosta dall’elmo, o almeno così speravo. Probabilmente avrà pensato che ero qualcuno, magari uno schiavo, che prendeva parte a qualche misterioso esperimento con le armi del filosofo, perché ha detto tutto contento, «Già al lavoro, vedo», ed è tornato da Aristotele. Di gran valore? Potete ben dirlo. Signore, è l’arma più letale di questo mondo o di qualsiasi altro, se usata nel modo giusto. È mortale come un fulmine, ma fa molto meno rumore. Ve ne ho portate addirittura due. – Dove sono? – chiese Aristotele, perché l’uomo non aveva con sé né lance dalla punta in ferro, né arnesi di bronzo luccicante. – Ssst! – disse in tono misterioso. – Sono nascoste –. Indicò una grossa borsa di cuoio che aveva lasciato cadere ai suoi piedi. – Sono troppo di valore. Le hanno usate a Tiro. Proprio queste qui. Volete comprarle, signore? Per Alessandro, che gli dei lo proteggano. Mi piacerebbe darvele per niente, ma questo non è giusto (voi filosofi dite «giusto») nei confronti della mia famiglia. Ho una brava moglie e cinque figli da sfamare. Quindi, temo proprio che dovrò vendervele. Per quanto, non mi sembra giusto neanche questo. Non è forse per colpa di una di queste armi che ci ho rimesso un dente davanti e quasi tutta la testa? Quindi chiederò solo sei oboli, che fa tre oboli ciascuna. Mi accorsi che Aristotele era molto curioso. E anch’io. Cosa teneva quel tizio in quella borsa di cuoio? Mi chiesi inquieto se non stesse portando dei serpenti, e cercai di ricordare se avessi mai sentito dire che le truppe di Alessandro usavano dei serpenti velenosi contro il nemico. Ma credevo di no. Un pensiero simile dovette venire in mente anche ad Aristotele, perché chiese all’uomo: – Di che si tratta? Sono vivi? Devo prima vederli. – No, non sono vive. Non si può dire che siano vive in questo momento, – rispose l’uomo cautamente. – Non mi va granché di mostrarle, se non le vendo. Forse non dovrei separarmene –. Sollevò la sua borsa. – Permettetemi di raccontare la storia dell’assedio di Tiro, Vostra Eccellenza. – No, grazie, amico – disse Aristotele. – Ti darò quattro oboli, se riesci a convincermi che queste armi sono vere e che sono state usate nell’assedio di Tiro. – Convincervi dite? Ve ne convincerete quando le vedrete. Per il sacro focolare di Zeus, non l’ho giurato che sono state usate nell’assedio di Tiro? – Guardò tutto contento i quattro oboli che Aristotele gli porgeva e se li mise in bocca. – Ora, fatemi vedere questa roba – disse Aristotele. Il venditore d’armi posò la borsa sul pavimento con aria diffidente, ne allargò l’imboccatura, vi mise dentro le mani e ne tirò fuori… due pietre. Aristotele cominciò a sorridere. – Sì, – disse seccamente. – Delle pietre. Sono armi veramente letali. – Giusto, – disse il fabbro. – È proprio così, signore –. Egli porse riverentemente le pietre al filosofo. Erano rotonde, e grandi più o meno come due pugni stretti uno contro l’altro. Avevano tutta l’aria di essere normali pietre, grigie e insignificanti. – Queste pietre qui sono due di quelle lanciate con le catapulte a Tiro. Le ho raccolte dopo, dagli squarci aperti nelle mura. Queste non sono che le più piccole, ma ce n’erano alcune grandi come la vostra testa, o anche più grandi. Avreste dovuto sentire i fischi in aria, e poi i tonfi e il fracasso quando andavano a segno. Sono tra le armi più letali al mondo. Le lance si possono spezzare e le spade si possono piegare, scheggiare o arrugginire, e a volte un buono scudo può bloccarle entrambe. Ma non esiste quasi niente che possa fermare una pietra che vola in aria, una volta lanciata, e una pietra fa un bel danno dove si ferma, anche con un elmo in mezzo. E poi si spezzano difficilmente e non arrugginiscono mai. Sono molto obbligato a Vostra Eccellenza e vi auguro ogni bene –. L’uomo si inchinò e fece per uscire, ma giunto alla porta si voltò per dire in tono adulatorio, – Potrei… – Ascolta, fabbro, – disse Aristotele. – Gioca a rimbalzello, se vuoi, ma non fare altri giochi con le pietre. Sono oggetti pericolosi, come dici tu. Non è necessario mettere a rischio la tua sicurezza portandone altre più grandi. Mi hai capito? – Sì, signore, – disse l’uomo ammiccando impercettibilmente, e chiuse la porta. Aristotele scoppiò a ridere. – Ecco uno degli uomini più intelligenti di Atene! Dovrebbero offrirgli una carica pubblica, mandarlo in missione diplomatica! Non avrei mai pensato che un giorno qualcuno mi avrebbe fatto sborsare del denaro per comprare delle pietre, e non marmo, o porfido, ma due pietre che avrei potuto raccogliere dal ciglio della strada quando volevo. Ho infranto la prima regola del commercio: guardare sempre cosa si compra prima di sborsare il denaro. Guardai i due oggetti con curiosità. – Saranno state usate veramente nell’assedio di Tiro? – È impossibile dirlo, Stefanos. Una di queste ha cozzato violentemente contro qualcosa, ma potrebbe essere stata lanciata contro qualsiasi muro di Atene stamattina, e poi presa a calci lungo la strada. Non è improbabile che siano state usate a Tiro. Ma è ugualmente, anzi no, molto più probabile, che non siano mai state così lontano. Una lezione utile, Stefanos. Anzi, due. La prima è: non comprare armi nascoste dentro una borsa; la seconda è: qualsiasi oggetto comune può essere usato come arma, se le circostanze sono favorevoli. Ciò che ha detto l’uomo è assolutamente vero. Senza dubbio le pietre avranno compiuto una vera devastazione a Tiro, e prima ancora nelle altre città. È giusto ricordare che esistono molti tipi di armi. Forse, dopo tutto, i miei quattro oboli sono stati spesi bene. Dopo aver tolto dalla sua sedia il giavellotto, si sedette e guardò gli oggetti rotondi e grigi che aveva in mano come se fosse assorto in una grave riflessione. Dovetti chiedergli due volte se sapesse qualcosa del viaggio delle due donne. – Cosa? Ah, sì. Ho avuto notizie oggi. Viaggiano lentamente, ma senza soste. Melissa sopporta bene il viaggio, e anche il bambino. Dovrebbero essere vicini alla Beozia, ormai. Non arriveranno a Pella se non in primavera. Posò le pietre, guardò il giavellotto e fece il gesto di infilzarci qualcuno, spaventandomi un poco. – Con questo qui la forza deve venire dal braccio e dal corpo. Gli archi o le catapulte aumentano la potenza di un colpo, come pure le lance. Ma da lontano la precisione non è garantita. Qual è l’arma migliore, Stefanos? – Suppongo, – risposi, – che dipenda dalle condizioni in cui si combatte. A volte è necessario uno scontro ravvicinato, a volte; come negli assedi, occorre colpire da lontano. – Mm. Sì. È proprio così. Giusto –. Raccolse dal mucchio di giavellotti e picche che era in terra un oggetto di media grandezza dalla punta smussata e lo posò sulla tavola. – È una freccia scita, Stefanos. Mi chiedo… – La prese e cercò di infilzare l’aria con questa. – Si potrebbe usare come lancia corta? Mi sentii a disagio davanti a lui, che sedeva lì intento in pose minacciose e senza scopo. Non avevo voglia di sentir parlare di frecce più di quanto fosse necessario. Aristotele aveva un’aria alquanto pericolosa in quella stanza ingombra di oggetti letali. Uno schiavo entrò per dire al suo padrone che alla porta c’era altra gente con armi da vendere, e io mi alzai per accomiatarmi. – La terza prodicasìa sarà tra pochi giorni, – dissi malinconicamente. Ma lui non sembrava molto propenso a profondersi in consigli. – Ah, già. Dovrai dire ai tuoi avversari che non possono provare che Filemone era sul luogo del delitto. Se quel loro soldato viene a deporre contro di te, accenna con discrezione al fatto che l’infermità può avergli indebolito la memoria. Ma cerca di mostrarti molto rispettoso del suo onorevole servizio. Pensa a tutti i giovani che conosci e che somigliano a Filemone. Tempestali di domande sul riconoscimento. È tutto quello che puoi fare in questo momento. Lo lasciai ancora intento a scrutare la freccia accigliato e ad agitarla davanti a sé in aria. Ad ogni modo, pur essendo impegnato in questi sinistri movimenti, mi disse scherzosamente: – Arrivederci, Stefanos, e a proposito, non dire nulla di questo mio ultimo acquisto, o ti giocherò qualche brutto tiro. Pensa alle battute pesanti che ne nascerebbero! Ad ogni buon conto, se mai ti sembrerò borioso e stupidamente orgoglioso della mia intelligenza, potrai sempre sussurrarmi, «Quella borsa di cuoio conteneva delle pietre». XIII L’ultima prodicasìa Il giorno precedente la terza prodicasìa stavo percorrendo la grande via che costeggia il lato meridionale dell’Acropoli, quella che ospita tutti i monumenti celebrativi, quando mi giunse un brusìo di voci. – Non è enorme? – Che magnifiche incisioni! La gente faceva a spintoni per vedere qualcosa che stava scendendo giù per la via, e anche io mi accodai. Veniva verso di noi un carretto, trainato da due muli e spinto da schiavi. Sul carretto c’era qualcosa di bianco che nel pallido sole invernale brillava come un mucchio di neve. Aveva tutto attorno un solido imballaggio di fagotti di paglia, ed era tenuto ritto da altri schiavi. Quando il carro si avvicinò, riuscii a vedere di cosa si trattava. Era un monumento. Una pietra tombale. Capii di chi era prima ancora di vederla da vicino. Affascinato, mi spinsi verso il carro, e mi fermai sul margine della strada a osservarla mentre passava. La pietra era uno splendido blocco di marmo, elegantemente tagliato e scolpito. Su di esso erano incise, in altorilievo, le figure sedute di Boutades e di sua moglie. Boutades mi passava lentamente davanti. Fu una specie di scossa per me rivedere il suo viso, ormai così familiare nei miei sogni ad occhi aperti. I pesanti lineamenti e la figura tozza erano stati piuttosto abbelliti dal senso estetico dello scultore; l’arroganza che sembrava ancora trasparire da quegli occhi senza vista aveva acquisito maggior dignità di quanta ne avesse in vita, e non tutte le rughe del volto erano state riprodotte. Eppure, la somiglianza era viva ed eloquente, inequivocabile persino nell’attaccatura dei capelli. Naturalmente, non vi era nulla che accennasse all’orribile fine dell’uomo, o rammentasse la smorfia che gli avevo visto sulla faccia subito dopo la morte quella fatale mattina. La moglie, una donnina magra, sedeva con aria sottomessa a fianco del marito. Ogni linea del suo corpo, nel fluido panneggio della veste, indicava una gentile obbedienza. Sembravano una coppia di mezza età, prosperosa e felice. Cominciai a leggere l’iscrizione sotto le figure, che descriveva il rango, i servizi e le molte virtù di Boutades, e alludeva al dolore dei parenti superstiti, specialmente del nipote Polignoto, committente del monumento. Non una parola sul modo in cui i due coniugi erano venuti a morte. Avvertivo il brusio d’approvazione che saliva dalla piccola folla intorno a me. Non so dire quando cominciassi a sentirmi a disagio, udendo i brusii diventare mormorii di disapprovazione e persino di orrore. Alzai lo sguardo, e vidi una delle persone che mi stavano accanto dare una gomitata al suo vicino e indietreggiare; dopodiché mi guardarono entrambi con un’espressione di rabbioso terrore. – Sta profanando il monumento, – disse uno. Mi resi conto che il sole proiettava la mia ombra sulla pietra scintillante, oscurando il viso di Boutades. Poi, uno degli schiavi che spingevano il carretto (probabilmente uno schiavo che un tempo aveva servito Boutades quand’era in vita) mi riconobbe, e accigliandosi fece una serie di scongiuri per scacciare gli influssi maligni. Provai dolore e vergogna. Era vero, la mia presenza lì rappresentava una sorta di profanazione. Avrei dovuto avere il buon senso di andarmene da un’altra parte, una volta compreso cosa stesse accadendo in strada. – Oh, Boutades, – pensai. – Io non esercito influssi negativi su di te. Piuttosto, è la tua ombra, la tua immagine raffigurata su una pietra tombale, ad avere il potere di recarmi danno –. Mi allontanai rapidamente, e feci un lungo giro prima di presentarmi nell’agorà. Continuavo ad avere in mente quel monumento. Lo immaginavo mentre passava, con le figure sedute di Boutades e di sua moglie, attraverso la Porta del Dipilon e procedeva verso la tomba sul colle Kerameikos. Quelle due forme bianche mi erano sempre davanti con aria di scherno. Il giorno della prodicasìa mi svegliai con la sensazione di aver preso un raffreddore. Si stava manifestando nella solita, spiacevole maniera dei raffreddori, con solletico nel naso e bruciore in gola. La mia voce suonava strana, con il tono rauco d’una corda di cetra spezzata. Parlare sarebbe stato uno sforzo. Mi avvolsi nei miei indumenti più caldi. Tutti i miei oppositori avevano l’aria di stare benone. Euticleide appariva più maestoso che mai, con la faccia ben pasciuta e splendente. Polignoto era come al solito, occhi limpidi, guance rosee. Io sapevo di avere la faccia gialla e gli occhi acquosi. Noi due avremmo potuto stare fianco a fianco come i simboli della Salute e della Malattia. Persino lo schiavo di Polignoto, il Sinopeo che come al solito accompagnava il suo padrone, sembrava più grassoccio di prima, e aveva l’aria raggiante di chi prevede un ottimo pasto a mezzogiorno. Attorno a loro Telemone si dava da fare con un’alacrità che sarebbe bastata per due persone. In un primo tempo, le formalità furono esattamente come nelle occasioni precedenti. Le seguii macchinalmente. Sentivo la testa pesante e intontita, ma non solo per via dell’infreddatura. Mi rendevo conto che avrei dovuto mentire, e questo mi spaventava. Senza saperlo, il Basileus mi facilitò le cose dicendo: – Possiamo prendere per scontato che la tua difesa è la stessa di sempre, Stefanos, e cioè che tuo cugino era assente? – Sì – risposi. Questo, in un certo senso, era vero, pensai. Loro potevano presumere questo senz’altro. Così non stavo esattamente infrangendo il giuramento fatto davanti agli dei. Pure, mi domandavo se gli dei offesi mi avrebbero punito, sapendo che intendevo mentire, e in loro nome. Gli dei non si lasciano ingannare. I discorsi continuarono e io mi sentivo inebetito. Poi, ad un tratto, mi resi conto che Euticleide stava dicendo: – Ecco il nostro testimone, preannunciato nell’ultima prodicasìa – e spingeva avanti l’ometto che aveva portato la sarissa ad Aristotele. Questo ex soldato fu presentato come Sosibio, cittadino ateniese di uno dei demi di campagna. Sentimmo la storia del suo servizio sotto Alessandro; poi, rispondendo alle benevole domande di Euticleide, l’uomo descrisse com’era stato ferito. Nel complesso, tutto molto commendevole. Quando il Basileus gli rivolse altre domande, il veterano rispose prontamente. Questo Sosibio aveva una voce sottile e spiacevole, e le sue parole venivano fuori a spizzichi e bocconi. Sembrava un po’ impressionato dall’ambiente. Di tanto in tanto, mentre parlava, un muscolo presso la bocca gli si contraeva, come se avesse un tic. Benché si comportasse inappuntabilmente, lo trovavo tutt’altro che simpatico. In un’altra occasione e da un altro uomo, la descrizione che ci diede della battaglia presso la città di Isso e della disfatta dei Persiani sarebbe stata per me di grande interesse. Disse che quando lui e i suoi compagni della fanteria stavano cercando di seguire la cavalleria attraverso il fiume Paia, si erano trovati gravemente impediti tanto dalla rapida corrente quanto dall’azione nemica. Mentre le file si sbandavano, dei soldati provenienti dalla parte avversa si gettavano nel fiume e su per le sponde, e lottavano con gli uomini d’Alessandro con feroce ostinazione. – E la cosa più terribile, signori – aggiunse – era che i soldati di fronte a noi sull’altra riva, che scendevano nel fiume e falciavano i nostri, non erano Persiani, bensì Greci. Ci gridavano in greco degli insulti orribili. Fu allora che vidi Filemone di Atene: prima al di là del fiume, di fronte a noi, poi dalla nostra parte del guado. Combatteva e gridava. – Lo conoscevate? – domandò Polignoto, forse con un’ombra di dubbio nella voce. – Come potevate riconoscerlo? – Lo conoscevo, l’avevo visto prima. Ad Atene, un tempo. – Lo vedeste di nuovo quel giorno? Nella battaglia? – domandò il Basileus. – Sì. Noi passammo sull’altra sponda. All’inseguimento. La cavalleria tagliò fuori i Greci venduti ai Persiani. Cominciarono a correre. Al crepuscolo, Alessandro li aveva ridotti tutti alla fuga –. Ridacchiò. – Dario fuggì via come un uccello sul suo carro, non toccava neanche terra. Sicuro che lo rividi, quel Filemone. Se la dava a gambe davanti a noi. Ferito su un lato della faccia. Ma non fu preso. – L’avete rivisto più tardi o ne avete sentito parlare? – No, non l’ho rivisto. Ma ne ho sentito parlare più tardi, a Sidone. Era passato di lì andando a casa ad Atene. La gente se ne ricordava. Io rimasi con l’esercito finché fui ferito, a Tiro. – Vedete dunque – interloquì Euticleide riassumendo la situazione. – Filemone fu riconosciuto fra quelli che combattevano per i Persiani. Era ferito. Non era consigliabile per lui restare in Asia durante l’avanzata di Alessandro. Sappiamo quali vendette ha fatto Alessandro sui traditori passati ai Persiani! Così, questo vigliacco decise di tornare a casa. Ed ebbe tutto il tempo di rientrare ad Atene prima del momento in questione. Il momento del delitto. Toccava a me esaminare il testimonio. Non sapevo cosa dire. – Come sapevate che era Filemone? Vi diede il suo nome? L’uomo esitò, guardando Euticleide. – Sì – disse poi. – Penso di sì. Lo diede certamente a Sidone, ad alcuni di là. – Voi pensate, ma non ne siete sicuro. Non lo ricordate con certezza. Non è forse vero che aveste semplicemente l’impressione che quell’uomo nella battaglia fosse Filemone? Voi vedeste uno che in qualche modo gli somigliava. – No. Lo riconobbi. – Andiamo – dissi. Il cervello mi si stava schiarendo un poco. – Descrivete quest’uomo meglio che potete. – Be’, era alto… – Alto come? Molto, molto alto? – No, non eccessivamente. Ma alto, non piccolo. Robusto e muscoloso. Agile. – Di che colore aveva i capelli? – Castani. – Castani come? – Castani e basta. Non castano scuri. Piuttosto ricci. – Aveva un elmo? – domandai, ricordandomi l’ultimo colloquio con Aristotele in mezzo alle armi. – Ehm… no. Non credo. O forse uno piccolo. Potevo vedergli i capelli, dunque non doveva coprirgli la testa del tutto. – Di che colore aveva gli occhi? – Bruni. – Descrivete la sua voce –. L’uomo apparve sbalordito. Le voci non gli sembravano cose da potersi descrivere. – Be’… una voce. Una voce giovane… chiara –. Sbirciò di nuovo Euticleide. – Con un accento ateniese – aggiunse trionfalmente. – Dei segni particolari, dei nèi, delle macchie? – Nossignore. Salvo la cicatrice che avrà adesso della ferita ricevuta quel giorno. – Ah! La cicatrice della ferita che secondo voi ricevette in battaglia. Che genere di ferita? Uno sfregio? Uno strappo? Un buco nella faccia? Era presso l’orecchio? O vicino l’occhio? O sul mento? – Su uno zigomo, all’ingiù. – Su quale lato della faccia? Esitante, Sosibio si toccò il viso da entrambi i lati. – Non vi state specchiando in una vasca – dissi piuttosto malignamente. – Da che parte? Esitò ancora. – A destra, credo. Ma potrebbe essere stato a sinistra. No, era a destra –. Euticleide diede un’occhiata infastidita al suo testimone. – Signore – dissi freddamente al veterano – vediamo di esercitare la vostra memoria e le vostre capacità di descrizione. Descrivetemi Glauco, figlio di Glauco, ed Eufrastione figlio di Decagone, che sicuramente avrete visti. Costoro erano due giovanotti di Atene di buona famiglia, entrambi famosi per le loro prodezze atletiche; chiunque poteva conoscerli. Erano circa dell’età di Filemone. Il testimone sembrò riluttante, ma il Basileus intervenne a sostegno della mia richiesta. Quindi Sosibio, con molte interruzioni, descrisse i due giovanotti. – Ecco – ripresi, quando ebbe finito. – Glauco è alto, ma non troppo alto, robusto, con capelli e occhi castani. Lo stesso dicasi di Eufrastione. Ecco a che cosa si riduce la vostra descrizione. E aggiungete che entrambi sono muscolosi e che nessuno dei due ha dei segni particolari. Potevate anche dire che naturalmente tutti e due parlano con accento ateniese! Chi potrebbe riconoscere chiaramente l’uno o l’altro da una simile descrizione? Chi potrebbe designare un individuo e dire «Questo resoconto si applica a lui e a nessun altro»? Inoltre, in un dettaglio avete sbagliato: Eufrastione ha gli occhi grigi. Con quanta faciloneria l’avete fatto rassomigliare a Glauco. Tutti gli uomini di una certa età e in buona salute sembrano uguali a questo testimone –. Mi voltai verso l’intera corte. – La sua descrizione dell’uomo che chiama Filemone, che ha visto nella furia della battaglia, potrebbe adattarsi almeno a mezza dozzina di giovani ateniesi, e probabilmente a molti di più –. Mi sentivo euforico ora, e con la testa più sgombra. Tornai a rivolgermi al testimone per insistere con le domande. – Quando incominciò la battaglia? In quale stagione dell’anno era? E in quale momento del giorno? – Questa stagione dell’anno, più o meno; un pochino prima. E la battaglia cominciò… oh, a metà pomeriggio. – Sì – dissi. – Insolitamente tardi per l’inizio d’una battaglia, ma Alessandro mise molta cura nel disporre le truppe, e gli ci volle del tempo. Com’era il fiume? – chiesi. – Freddo – rispose lui con enfasi. – Dev’essere stato molto duro per voi – dissi in tono comprensivo – dover combattere e attraversare un fiume nello stesso tempo. Non può esser stato facile, poiché dite che avete dovuto aspettare che prima passasse la cavalleria. – Sicuro – annuì lui fieramente. – Non fu facile. Nemmeno per la cavalleria, figurarsi per noi. Persino i cavalli restarono impantanati nel fango, signori; così vi potete immaginare che cosa fu per noi quel passaggio. – C’era molto fango? – domandai innocentemente. – Molto? C’era più fango di quanto abbiate mai visto ad Atene, anche se fosse piovuto per un mese. Avreste dovuto vedere i cavalli che cercavano di venirne fuori, gli ultimi cavalli, dopo che i primi erano andati. Tutta una gran confusione, e più scivoloso del ghiaccio. – Dunque, tutte e due le sponde del guado erano in gran confusione. Ci saranno stati degli spruzzi sollevati dai cavalli e dagli uomini nel fiume, e anche schizzi di fango. Siete stato schizzato anche voi? – Certo che lo sono stato. Tutti eravamo schizzati. Combattere non è come andare a una festa, con gli abiti tutti in ordine. Non si poteva avvicinarsi al fiume senza… – e fece una pausa, cercando di riflettere. – Senza coprirsi di fango – terminai per lui. – E questo valeva anche per i nemici, no? I reparti di fanteria che si scagliavano contro di voi dopo che la vostra cavalleria era passata. Dovevano essere sdrucciolati giù da una sponda fangosa e su per un’altra, inzuppandosi nel frattempo in un fiume d’acqua sporca. Sosibio annuì, con aria infelice. – Qui dunque, signore – dissi rivolto al Basileus – abbiamo un testimone le cui reminiscenze e capacità di descrizione non sono, nel migliore dei casi, molto accurate. Questo testimone pretende di aver visto e riconosciuto un uomo in particolare. Non una sua conoscenza, ma semplicemente un uomo che aveva visto in giro per Atene. Lo descrive molto genericamente, nonostante la pretesa di fornire dei dettagli. Il testimone poi dice che ha visto quest’uomo in un momento di grande agitazione e confusione, pieno di pericoli e di tensione, in cui il testimone stesso doveva concentrare tutte le sue facoltà nel salvarsi la vita. Inoltre, pretende di aver visto questo particolare individuo in quella che dev’essere stata la fine del pomeriggio di un giorno alla fine dell’autunno. Pretende anche di averlo visto di nuovo, qualche tempo dopo, a distanza, da dietro e nell’oscurità, o nel migliore dei casi al crepuscolo. Quando Sosibio lo vide a una certa vicinanza, quest’uomo doveva essere ricoperto di sudiciume, essendosi schizzato di fango, poi infradiciato in un fiume sporco, poi di nuovo infangato. Questa persona non doveva essere facilmente distinguibile dagli altri soldati greci nemici! Che ci fossero dei Greci a combattere dalla parte dei Persiani, ahimè, nessuno lo nega. E la maggioranza di questi Greci nemici dovevano essere dei giovani alti e robusti, adatti al servizio attivo; e tutti in quel momento gridavano, con le facce distorte e schizzate di fango, con i capelli fangosi e grondanti. Il testimone Sosibio può senz’altro aver visto un giovane Greco di alta statura in queste condizioni. Ciò non costituisce un’identificazione. Tutto il resto non è che un seguito di supposizioni prive di fondamento. – Dice che era Filemone – s’interpose Euticleide. – Questo è stato confermato al suo passaggio da Sidone. – Già, ma sappiamo se questa misteriosa persona che passò per Sidone fosse lo stesso uomo che si trovava in battaglia? Certamente no. Questo testimone ha dei ricordi molto imprecisi. Un uomo a Sidone può avergli detto che era Filemone di Orinto, e lui può avere frainteso. Oppure ci può essere stato un altro Filemone; probabilmente ce ne sono a centinaia in Grecia, con o senza una cicatrice. O l’uomo che vide in battaglia può avergli rammentato vagamente mio cugino. Come abbiamo visto, nella sua memoria gli uomini sono più o meno uguali, e l’unica persona a Sidone che abbia menzionato un nome può essere stato il testimone stesso. Con la spensieratezza con cui gli uomini parlano quando hanno davanti una coppa di vino, all’udire di un tale con una cicatrice può aver detto, «Ah, sì, Filemone», intendendo dire «l’uomo somigliante a Filemone che ho veduto in battaglia». Poi può essersi persuaso che l’uomo passato per Sidone, l’uomo visto in battaglia e mio cugino Filemone fossero una sola e unica persona. Può darsi che abbiamo seguitato a parlare di tre persone diverse. Sosibio non afferma di avere incontrato l’uomo con la cicatrice a Sidone. Insisto che qui non c’è una identificazione che valga la pena di essere presa in seria considerazione a lume di logica e di ragione. È tutto – e qui cercai di sorridere serenamente – confuso e fangoso. Gli avversari scossero il capo, ma non dissero granché. Euticleide appariva furioso e ostinato, e annunciò che tutto si sarebbe chiarito al processo. Per quell’epoca, disse, speravano di avere un testimone in grado di deporre non solo che Filemone poteva trovarsi ad Atene, ma che vi si era trovato effettivamente. – Nel qual caso – aggiunse in tono canzonatorio – le obiezioni grossolanamente sollevate dal difensore contro le dichiarazioni del nostro testimone sono destinate a cadere. E questo fu tutto. Starnutii tre volte, violentemente, e tutti si ritrassero. Il Basileus dichiarò chiusa la seduta. La testa mi si era schiarita notevolmente durante la mia escussione del testimone, ma ora mi doleva. Mi sentivo piuttosto fiero dei miei sforzi, ma mi rendevo anche conto che al processo non avrei potuto fare di più di quanto avevo fatto ora per smentire le dichiarazioni del veterano. E al processo, il testimone sarebbe giunto preparato da quest’episodio preliminare. Quindi, quel giorno tutto quanto sarebbe potuto andare diversamente. Ma anche se fosse andato come stamattina, mi chiesi come avrebbe reagito la cittadinanza riunita all’Areopago. Forse si sarebbe schierata emotivamente con il soldato e sarebbe stata pronta ad accettare la sua testimonianza contro Filemone, a prescindere da quanto fosse superficiale o illogica. Getta molto fango e vedrai che un po’ si attaccherà. Be’, oggi anch’io ne avevo gettato un po’. Tuttavia, se Euticleide avesse messo in atto la sua minaccia di produrre un testimone che aveva visto Filemone ad Atene, eravamo perduti. Un mese prima avrei preso quella minaccia alla leggera. Ora sapevo che probabilmente ad Atene, o almeno al Pireo, c’erano delle persone che avevano visto Filemone. Mi stupivo che i miei avversari non avessero fiutato la pista che conduceva al porto. Forse tenevano in serbo qualcosa? Starnutii di nuovo e uscii. Mi sentivo la gola infiammata. Mi tornò in mente l’attore che aveva un brutto raffreddore ed era terrorizzato di perdere la voce, e provai simpatia. E se avessi perso la voce per sempre prima del processo e avessi dovuto sussurrare di fronte all’intera cittadinanza di Atene? Al margine del sentiero, con i radi capelli grigi arruffati dal vento, stava una vecchia e odiosa conoscenza: Archimeno. Mi perseguitava, come certe immagini nel sonno che ricorrono una notte dopo l’altra. Mi sentii stanco, perché avevo già subito tutto questo in precedenza. Ancor prima che parlasse, capii che avremmo interpretato la stessa scena, e con lo stesso pubblico: Teosoforo. Ebbene, se avessi potuto, l’avrei cambiata questa noiosa commedia. Avrei ampliato il nostro pubblico. Decisi di restare vicino ai miei avversari per non essere isolato, quindi ci allontanammo alla spicciolata procedendo lungo il sentiero. Davanti a me vedevo le larghe spalle e il collo robusto di Euticleide e Polignoto, col suo devoto schiavo che gli trotterellava accanto. Ero a circa tre passi da loro quando Archimeno mi parlò. Continuavo a sperare che la vergogna di comportarsi come un pazzo in presenza di cittadini tanto rispettabili avrebbe soffocato la sua oscena volgarità. Per conto mio, io non desideravo affatto incontrarmi con lui, e sapevo che non avrei dovuto dar voce ai rabbiosi sospetti che mi ribollivano nel cervello. Non qui, non adesso. Archimeno parlò in un tono basso e sibilante, pieno di veleno, come il dente di una serpe. – O Stefanos! Venduto ai Persiani! Cugino di uno che si è venduto ai Persiani! Porta il tuo piccolo pestello in battaglia e vai a pestare spezie per i Persiani! Non risposi nulla, ma ero furioso. L’uomo mi trotterellava accanto sul sentiero con passi leggeri, quasi danzando. – Lascia in pace le ragazze, e provati a dar l’assalto a delle mura! Tu, amico dei Persiani! Tu, lurida fogna. Rovinare femmine, ecco che cosa sai fare. Ti piace startene dentro un nido caldo, eh, ruffiano dei Persiani? E allora va’ a baciare i piedi ai Persiani e domandagli di essere castrato e messo a guardia delle loro donne! Ma sta’ attento che gli uomini di Alessandro non vengano ad infilzarti con una spada grande e grossa! Mi sentivo imbarazzato e furibondo. Vedevo che quelli davanti a me sul sentiero riuscivano a sentirlo, e probabilmente, pensai con amarezza, si godevano la scena. – Ah! Ah! Beccati una spada nella pancia! – gridò Archimeno allegramente. Eppure, a dispetto della vergogna e della collera, le sue parole richiamarono alla mia mente una cosa che poteva essere un’idea. La mia rabbia era turbolenta, e mi ricordai dello schiavo con la mano fasciata. – Quel che faccio di me non ti riguarda, vecchio rinsecchito senza cervello – risposi. Amministrai la mia voce nel migliore dei modi, pur gracchiando un po’; non volevo abbassarmi a sussurrare come un vigliacco. Continuai, guardando torvo il mio antagonista e notando come le rughe verticali sul viso rosso di Archimeno si facessero più profonde. – Quanto a scappare dal pericolo, ne conosco di gente che è svelta a tagliare la corda. Quelli che aggrediscono i cittadini farebbero meglio a esser cauti. Ricordati, idiota: chi se ne va in giro di notte ad aggredire la gente, di giorno viene riconosciuto. Lascia sempre delle tracce dietro di sé. Lo schiavo che regge la torcia può bruciacchiarsi anche lui. E se conti su uno schiavo, ricordati che la sua discrezione non vale due soldi. Azioni vergognose, di notte, contro gli inermi. Bell’orgoglio! Bell’onore! C’è ancora una legge ad Atene. Pensaci. E ora va’ a casa tua, imbecille vigliacco, e bada a come ti comporti, oppure le guardie ti chiuderanno dentro una stanza a rinfrescarti quel tuo cervello cotto. – Beccati una spada nella pancia – sussurrò Archimeno. Ma non sembrava più così allegro. Teosoforo s’interpose. – Che maniere sono queste? Con un cittadino rispettato e vecchio abbastanza da essere tuo nonno? Suppongo che questi siano i nuovi modi raffinati degli amici dei Persiani e che dobbiamo farci l’abitudine. – Ruffiano dei Persiani! – rincarò Archimeno tutto accigliato. – Lurido cane! – Sì – disse Teosoforo. – Ci vorrà del tempo prima che ci abituiamo ai modi squisiti dei barbari. Sono veramente irresistibili. Venite via, amico. Guidò Archimeno giù per il sentiero, non perché avesse bisogno del suo appoggio (perché il vecchio aveva un’andatura decisa), ma per impedire che tornasse indietro ad aggredirmi. La scena non mi aveva lasciato del tutto soddisfatto, ma almeno avevo cambiato qualche battuta. In un dramma, pensai distrattamente, io ed Archimeno saremmo stati i protagonisti, e Teosoforo il direttore del coro, ma l’intera truppa, Euticleide, il soldato Sosibio, Polignoto, Telemone e tutti gli altri avrebbero dovuto trovarsi nel coro, e non darci le spalle. Il battibecco non era stato di mio gradimento, gli insulti mi avevano avvilito. Ma se non altro avevo fatto capire ad Archimeno che sapevo che era stato lui a dar fuoco alla casa di Melissa, e speravo di averlo spaventato. Se pure era stato lui. Come potevo esserne del tutto sicuro? Era stato effettivamente presente? Era a lui che avevo dato la caccia attraverso i vicoli oscuri del Pireo? Adesso ne ero convinto più che mai. Ma perché? Mi diressi a casa per cercare di riflettere, ma al momento del mio arrivo tutto quello che desideravo era di buttarmi sul letto. Passai il resto della giornata chino su catinelle fumanti di erbe in infusione, cercando di farmi passare il mal di testa. Mi svegliai tardi la mattina dopo, sentendomi un pochino meglio, ma non molto. Mia madre mi portò la colazione e sedette accanto a me. Nello sforzo d’intrattenermi, mi diede ragguagli di faccende di casa che non m’interessavano affatto. Poi aggiunse magnanimamente: – C’è anche una novità in città che potrebbe interessarti, Stefanos. Quanto a me, qualsiasi disgrazia che succeda in quella casa mi è gradita. Ora che hai finito di mangiare, te lo dico. – Mi dici cosa? – Uno degli schiavi che un tempo appartenevano a Boutades è morto. È caduto giù da una rupe nel Parnete, dicono. Polignoto l’aveva mandato a fare una commissione ieri a mezzogiorno. Non è tornato, e stamattina il suo corpo è stato ritrovato da alcuni pastori. I nostri schiavi hanno sentito la notizia. – Sì – disse la zia Eudossia, che era entrata nella mia camera per godersi la conversazione. – Alcuni dicono che l’hanno assalito dei predoni. E questo è esattamente quanto mi auguro, perché chiunque sottraesse loro delle ricchezze avrebbe tutta la mia gratitudine. Aveva alcune monete con sé, e sono sparite, ma sai, potrebbero averle prese i pastori. Le tavolette che portava erano intatte. E non c’erano segni di lotta, niente graffi. I pastori hanno riportato il corpo in città, e alcuni ad Atene l’hanno visto. Nessun segno di lotta, solo una leggera contusione sulla testa. Si è rotto l’osso del collo. – Certo – disse mia madre – avrà messo il piede in fallo al crepuscolo e sarà caduto. Probabilmente avrà bevuto quando non doveva. Sono così negligenti questi schiavi. Un povero Sinopeo balordo, senza nemmeno quel tanto di cervello che basta a tenersi sul sentiero. – L’hanno trovato sotto la rupe tutto storto – disse mia zia. – Non c’era sangue, e così per un momento hanno creduto che potesse essere vivo, ma quando l’hanno toccato, hanno capito che era morto da parecchio tempo. – Polignoto è molto triste – aggiunse mia madre spensieratamente. – Anzi, molto depresso. Era il suo schiavo favorito, andava con lui dappertutto; molto devoto, dicono. Sembra che Polignoto non riuscisse a crederci, sulle prime. Ma non è poi un gran guaio per lui, – sospirò. – Se ne procurerà un altro. Gli auguro di peggio, e gli dei lo sanno. Vorrei che tutta la famiglia precipitasse da una rupe, e anche Euticleide! – Mamma! – protestai. – Sta’ attenta che gli dei non odano questo cattivo augurio e ti puniscano. – Lo meritano – replicò mia madre ostinatamente. – Ci hanno resi infelici! Vorrei almeno che Polignoto udisse cattive notizie ogni mattina quando si alza, e così tutta la famiglia. Come ho già detto, mia madre prendeva tutta la faccenda dell’accusa come un grave insulto personale. – Ah! – disse zia Eudossia, mettendosi solennemente la mano sul cuore – è il giudizio degli dei, ecco quello che è. Io speravo molto che non lo fosse. Mi si era affacciato il sospetto, all’udire la notizia, che lo schiavo potesse essere l’assassino di Boutades. Me lo rammentai come l’avevo visto il giorno del delitto, sudato dalla corsa, pallido e tremante, e mi ricordai di aver pensato: «Quello schiavo ha paura». Se adesso era morto per giudizio degli dei, che cosa avrei potuto fare al processo? A cosa serviva la legge, se gli dei punivano prima il colpevole, non lasciando all’innocente modo di discolparsi? Se ci avessi pensato prima, avrei potuto chiamare lo schiavo a testimoniare, farlo mettere alla tortura, estorcergli una confessione. Ora mi era sfuggito di mano. Mi sentivo non meno afflitto di Polignoto per quella perdita. Che fare? Avevo avuto una buona idea, ma era giunta troppo tardi. XIV Un giorno alla fattoria La mattina dopo mi svegliai più in forma. Avevo già precedentemente fissato di andare quel giorno alla nostra fattoria, e sapevo che il fattore e sua moglie mi stavano aspettando. La nostra casa di Atene aveva bisogno d’olio e di formaggio. Così mi misi in viaggio con uno dei nostri schiavi, che portava due sacchi di letame e di rifiuti di cucina da spargere sui terreni della fattoria per fertilizzarli; al ritorno si sarebbe reso utile badando al carro dei muli con il carico del formaggio e dell’olio. Lo schiavo non profumava esattamente come un vaso d’unguento, e così lo tenni a distanza. La cosa, comunque, non lo dissuase dal chiacchierare. Insistette per raccontarmi dell’incidente occorso allo schiavo Sinopeo e dell’aspetto del suo cadavere, tutto bianco e con un lato della testa vicino alla tempia completamente fracassato, «come una crosta di pane con un buco al centro». Quindi fui costretto a risentire la storia daccapo. Arrivammo sul mezzogiorno. Il sole era pallido nel cielo invernale. Stavamo ormai avvicinandoci al giorno più corto dell’anno. La fattoria, benché non fosse che una costruzione piccola e rustica, appariva accogliente. Fui ben lieto di sottrarmi al freddo, sedermi davanti a un fuoco di rami d’olivo e sorseggiare un po’ di vino con Dametas e sua moglie Tamia, che conoscevo fin dall’infanzia. Tamia non doveva essere stata così vecchia allora, poiché mi aveva allattato durante una malattia di mia madre, ma ora sembrava veramente decrepita, con il viso pieno di rughe e il sorriso che mostrava una bocca quasi interamente sdentata. Questa coppia aveva lavorato alla fattoria per molti anni. Ora Dametas era vecchio e stava diventando cieco, e notai che le sue mani, deformate dal lavoro e con le unghie spezzate, avevano un tremito persistente. Pensai con apprensione che avrei dovuto trovare presto un nuovo fattore. Dametas era anziano, poteva diventare infermo ed essere costretto a letto, poteva anche morire. Era un pensiero sconvolgente, come quello che cadessero le colonne d’Ercole. Anche Tamia, mentre mi conduceva in giro orgogliosamente a ispezionare la tessitura, la dispensa e tutti i lavori delle donne, sembrava muoversi a fatica. Nell’osservare il panno appena tessuto, lo portava molto vicino agli occhi. Mi accorsi presto che anche l’udito la tradiva. Nel cercare di rispondere alle mie osservazioni, teneva il suo sguardo opaco ansiosamente fisso sul mio viso, cercando di indovinare ciò che dicevo, e tentando di nascondere la sua infermità. Discorrere con lei era perciò irritante e deprimente insieme, per quanto mi fosse cara. Per quanto tempo ancora avrebbe potuto seguitare a lavorare come doveva? E dietro le sue spalle, le schiave potevano permettersi ogni sorta d’insolenze: lei non le avrebbe sentite. Avevo sperato di risollevarmi un po’ lo spirito visitando la fattoria che avevo sempre amata, ma ero un uomo ormai, con tutte le preoccupazioni d’un uomo. Ispezionai il porcile e guardai i campi. Lo schiavo che avevo portato con me fu mandato a spargere il concime e poi a tagliare della legna. Dametas ed io discorrevamo animatamente degli affari della fattoria, e Tamia cucinava delle focacce, offrendomele poi con del miele «per la gola». Quando Dametas ed io ispezionammo il locale dov’era conservato l’olio, mi sentii abbastanza sollevato alla vista delle file di orci. L’olio che assaggiai era eccellente. – Abbiamo tenuto da parte un po’ delle ultime olive perché tu le vedessi – mi disse Dametas. – Quelle delle piante sul lato della collina, che fruttificano più tardi. Vieni. So che ti piace veder spremere le olive. Questo spettacolo era stato il mio divertimento favorito quando ero bambino. Pensai melanconicamente che per Dametas e sua moglie ero sempre un bambino. E quella vista mi piacque ancora. Il mulo camminava descrivendo lenti circoli, la màcina del frantoio si muoveva piano, oscillando, e si udiva un rumore raschiante; poi i frutti schiacciati schizzavano nel recipiente. Queste olive compresse, ora senza i noccioli, vennero raccolte con tutto il sugo e messe dentro a delle ceste. Io le seguii nel capanno dove dovevano essere spremute, e vidi mettere sulla cesta il pesante coperchio. Tamia sollevò l’estremità di un bastone che premeva forte contro le olive schiacciate. L’olio filtrava giù attraverso l’intrico di vimini e gocciolava nella conca di terracotta sottostante. Lento dapprima, e poi lievemente più rapido, un filo sottile di materia grassa, color del miele, gocciolava giù in piccoli globi, più compatti e viscosi di gocce d’acqua. Tamia sorrideva e si illuminava in viso mentre spremeva i frutti, e io stavo a guardare, sentendo le mie preoccupazioni attenuarsi mentre l’olio fluiva e colava così abbondantemente, ora da un buco nel cesto di vimini, ora da un altro. Un’ombra cadde sul torchio. Io mi volsi verso l’entrata. L’ombra era proiettata dal corpo massiccio di Euticleide. – Stefanos, figlio di Nichiarco? – chiese con cortesia. – Sì, Euticleide – risposi, e mi affrettai a uscire come per salutarlo. In realtà non volevo che il pacifico capannone dell’olio fosse insozzato dalla sua presenza. Euticleide non sembrava aver fretta di muoversi. – Un buon raccolto d’olio quest’anno – disse – ma è tardi per torchiare –. Il suo tono, benché sempre cortese, implicava che ero un amministratore negligente. Tamia continuò la spremitura, ma chinò il capo in direzione dello straniero con uno sdentato sorriso di benvenuto. Euticleide e io uscimmo all’aperto. Era passato mezzogiorno ormai, e le ombre azzurre si allungavano. – Ho visitato un mio affittuario da queste parti – spiegò Euticleide – e appena saputo che eri qui ho deciso di vederti subito, perché si tratta d’una faccenda urgente. Riguarda quel debito di tuo padre verso di me. Temo di doverti chiedere di pagarmelo, e presto. – Mio padre? – chiesi sbalordito. – Ma non aveva debiti con voi. – Direttamente con me no, questo è vero. Ma aveva un debito verso il mio amico e ospite Agesandro. Te lo ricordi, questo? Frugai nella mia mente e mi rammentai che nel mese di Boedromione, subito prima che il delitto e l’accusa sgombrassero ogni altro pensiero dalla mia testa, avevo passato in rassegna tutti i conti. A quel tempo mi preoccupavo di raccogliere abbastanza denaro per sposare la figlia di Callimaco; come sembrava lontana anche quella speranza. Mi ricordavo d’aver pensato che prima di tutto avrei sistemato i debiti, fra i quali quello con Agesandro. Non mi era stato possibile vendere la vigna, Agesandro non mi aveva fatto pressioni per essere pagato, e nell’ansietà per la vicenda di Filemone avevo dimenticato tutto. È disonorevole dimenticare un debito, sì, ma un giovanotto costretto a rinunciare al proprio matrimonio probabilmente è incline a credere che chiunque altro possa rinviare i propri piaceri a un altro momento. Arrossii, e vidi che Euticleide era compiaciuto di trovarsi in vantaggio. – È vero – risposi. – Devo del denaro ad Agesandro. – Duecento dracme – precisò Euticleide con viva soddisfazione. – Non così tanto – ribattei. – Agesandro prestò a mio padre centoventi dracme… – Già, ma c’è l’interesse, Stefanos, l’interesse. Un prestito a breve scadenza è diventato un prestito a lungo termine. Perciò adesso tu devi anche un bel po’ d’interessi. – Ma era un accordo fra amici… concittadini. – Era una questione d’affari, mio caro ragazzo. È ovvio. – Ma perché Agesandro non è venuto di persona? È con lui che avrei dovuto discuterne. – Mio caro Stefanos –. Euticleide aveva preso un tono quasi da congiunto. Infilò il braccio sotto il mio e seguitammo a passeggiare. Io mi sentivo umiliato nella sua robusta presa, come se mi conducesse in prigione. – Certo – seguitò – era ad Agesandro che tuo padre doveva il denaro. Ma Agesandro è un mio parente, oltre che un amico e un ospite. Capirai! Ha avuto delle perdite, e così, per assisterlo, mi sono accollato i debiti che la gente aveva contratto con lui. Ragion per cui adesso sono io il tuo creditore. – Voi! – esclamai, risentito. – Non fare lo sciocco, caro ragazzo. Ho proprio paura che tu ti stia comportando scioccamente a forza di ostinazione e di capricci. Ma d’altronde, sei giovane, bisogna tenerne conto. Eppure, guarda questa fattoria – aggiunse sprezzantemente, agitando la mano libera in direzione dei miei poderi. – Cade a pezzi. Quel vecchio rimbambito che mi ha fatto entrare è carico d’anni e incompetente. Una persona nella tua situazione dovrebbe vivere quietamente in campagna, lavorando con le proprie mani per mantenere la famiglia. – Mio padre era di buon nome e di condizione elevata come voi – ribattei in tono risentito. – La mia è un’ottima famiglia. – Molte ottime famiglie cadono in disgrazia nel mondo. Devi guardare le cose come sono. Chissà, anche la mia famiglia in secoli venturi potrebbe essere ridotta come la tua adesso. Ma hai un carattere troppo impulsivo. Vedo che non vuoi ascoltare i buoni consigli. Mi fissava con i suoi occhi freddi color ardesia e duri come pietre. La forza del suo braccio sembrava immensa per un uomo della sua età. – Adopera il buon senso, o sarà peggio per te. È ovvio che voglio il denaro. È ovvio che mi devi pagare. Furioso con me stesso per dovermi abbassare così, cominciai nondimeno a pregare: – Ma pensate che momento difficile è questo per me… e mio padre è morto da così poco tempo. Non potreste aspettare finché… non potreste aspettare? – Mi hai preso per una donna, che si lascia commuovere da preghiere o lacrime? La gente come te, a sentirla, è sempre in un momento di difficoltà. Detesto i piagnucoloni che somigliano a certi cani. Non pensare di sfuggirmi, o sarà peggio per te. – Sareste pronto a qualunque cosa pur di far denaro? – domandai con impertinenza. Il risentimento e la disperazione mi rendevano audace. – Pensavo che i veri Ateniesi, quelli i cui antenati combatterono a Maratona, disprezzassero l’usura! Il suo braccio era come il torchio che spremeva le povere olive. – Le tue sciocche parole non mi danno fastidio. Non sono qui per discutere con te sui sentimenti. Ho pagato ad Agesandro il debito e l’interesse. Ora, naturalmente, voglio riavere quanto mi spetta. Non sei più sulle ginocchia della balia ormai, e non stai trattando con un uomo di paglia. Va’ a casa da tua madre a lamentarti, o resta qui a pavoneggiarti sul tuo campo di cavoli, come un bambino che gioca alla fattoria, se preferisci, ma ricordati che devi pagare. Inghiottii la rabbia e cercai di ricondurre la conversazione a un livello più ragionevole. – Sentite – dissi quanto più quietamente potevo. – Posso e voglio pagarvi il debito. Venite, vi farò vedere –. Lo condussi al magazzino dell’olio e additai le file di grandi orci. – Ecco – dissi. – Ho tutto questo da vendere. Posso ricavare molto già così. Il resto seguirà presto, quando avrò venduto… alcune altre cose. Quell’olio prezioso! Venderlo subito e immediatamente consegnare il ricavato a un creditore! Così sarebbe sfumato l’olio da cucina per la nostra casa e per la fattoria, e anche il denaro per pagare quanto occorreva per affrontare l’inverno. Mi accorsi che Euticleide si rendeva conto di quello che ciò significava per me, poiché sorrise torvamente. – Molto bene. Ma il primo acconto dovrà essere versato presto. – Per la fine di questa settimana – promisi. – E quanto al resto non contare su un gran rinvio… – seguitò. Fummo interrotti nel nostro colloquio da grida selvagge provenienti da poco distante. – Ahi! Ahi! – Corsi in direzione di quelle urla trascinando Euticleide con me, e lui allentò la presa. Presso la catasta della legna dietro la casa era accovacciato il mio schiavo in condizioni pietose. Si dimenava avanti e indietro, reggendosi una mano che grondava sangue. La teneva vicina alle labbra, ma non poteva succhiarla perché preferiva usare la bocca per gridare, e ogni volta che guardava la mano le sue urla spaventate si levavano più forti. Nello spaccare la legna si era evidentemente mozzato la punta di un dito. Era uno spettacolo orribile, ma Euticleide non parve trovarlo tale. Si avvicinò e sorrise, come se la vista del sangue gli desse piacere, e rimase a guardare per alcuni istanti. Poi corrugò la fronte con disprezzo. – Smettila di far baccano! – disse brutalmente allo schiavo, e accostandoglisi lo scosse con violenza. Il poveraccio, sbalordito, soffocò le grida e guardò con nuovo timore l’importante sconosciuto dall’aria severa. – Ecco! È così che bisogna trattarli – proclamò Euticleide. – Vanno soggetti all’isterismo come le donne e bisogna richiamarli alla ragione, per poca che ne abbiano. Un imbecille imprudente – concluse guardandomi, e capii che stava pensando: «Che povera casa malgovernata è mai questa, dove persino gli schiavi sono così stupidi da tagliarsi le dita? Tale padrone, tale servo». Si era ormai radunata una piccola folla. Tutti gli schiavi si stringevano intorno, e Tamia schioccava la lingua e cercava di calmare lo schiavo ferito. Euticleide si diresse verso il cancello. Io lo seguii di malavoglia. – Che posto movimentato! – disse sarcasticamente. – Mai un momento di riposo –. Non mi ero reso conto prima che Euticleide sapesse essere ironico. Non mi era mai parso spiritoso. – Ricordati quel debito, Stefanos. Spero di non dovertelo rammentare di nuovo. Lo guardai incamminarsi giù per la strada, massiccio, minaccioso. Sembrava strano che pochissimo tempo prima mi era parso di comprendere perché la gente lo stimasse. Euticleide! Probabilmente Agesandro lo stimava in quanto generoso amico e ospite che offriva aiuto e protezione. Ma Euticleide non era solo un uomo imponente e rispettabile come avevo creduto sino ad allora. C’era in lui una volontà molto forte, e forse un certo compiacimento nella crudeltà. Queste cose stavano alla radice di quell’energia che suscitava la gratitudine di quanti erano protetti da lui. C’era in quell’uomo, pensai, molta più vitalità di quanto non avessi creduto, benché di un genere repellente. Altri uomini avrebbero potuto assecondare il suo volere, e persino con zelo, e non solo per rispetto nei confronti di un cittadino austero e di nobile nascita, ma perché soggetti a una vera e propria costrizione. Non avevo mai odiato tanto Euticleide, e non l’avevo mai visto così chiaramente come un condottiero d’uomini. Ma perché ce l’aveva tanto con me? Mi sentivo come se tutta la nostra famiglia venisse battuta e torchiata come le olive sotto la pesante macina, che si muoveva lentamente, inesorabilmente, riducendole a una poltiglia gocciolante. Ma la macina non è capace di crudeltà: esegue solo il suo compito. Mi appoggiai pesantemente al cancello, sforzandomi di riflettere. Supponiamo, pensai ad un tratto, supponiamo che Euticleide abbia assassinato Boutades per qualche motivo. Per denaro, magari. O supponiamo che ci fosse qualche causa segreta. Forse Euticleide aveva sentito il bisogno di vendicarsi di Boutades. Mi ricordai che Euticleide era arrivato in casa di Boutades contemporaneamente a me dopo il delitto. Quindi poteva avere avuto il tempo di uccidere Boutades, di andarsene e di ritornare. Però non mi era sembrato ansimante. Ma perché avrebbe dovuto per forza essere ansimante? Il contatto fisico con lui mi aveva insegnato quanto fosse forte. Certo la vista del sangue, come nel caso del mio schiavo, non lo disturbava affatto. E disprezzava le emozioni, per cui lo spettacolo di un vecchio amico o conoscente sgozzato a quel modo non doveva averlo sconvolto troppo. E poi, ecco che si scagliava contro di me, il debole difensore, per accertarsi che il delitto fosse attribuito ad un capro espiatorio adatto e senza appoggi. Chi conduceva, in realtà, l’azione degli accusatori? Euticleide. Chi faceva le domande, suggeriva le risposte, portava un testimone? Sempre Euticleide. Nel rimuginare il passato, mi rendevo conto che aveva occupato un posto di primo piano in tutte e tre le prodicasìe. Stando così le cose, per Euticleide io ero solo un fragile ostacolo sul suo cammino. E anche se fosse stato lui l’autore del delitto, cosa avrei potuto fare? Non volevo pensare che l’assassino fosse lui. Avrebbe reso le cose troppo difficili, come se mi avessero chiesto di abbattere una torre servendomi solo delle mani. Ma non riuscivo ad allontanare tale sospetto. Era una tentazione molesta nella mia mente, come un dente dolorante che si sente il bisogno di premere con gli altri denti. Starnutii varie volte. Il raffreddore mi stava tornando. Lasciai il cancello e rientrai per scaldarmi un po’ al focolare. Il dito dello schiavo era stato fasciato con affettuosa cura da Tamia, che ora stava servendo al poveretto del brodo caldo. Egli alzò lo sguardo terrorizzato quando mi vide comparire, ma quando si accorse che ero solo, la sua espressione si fece più rilassata e tornò a bere il suo brodo. Cosa dovevo fare adesso con lui? Certo non era in grado di guidare il carro con il carico di olio e di formaggi sulla via del ritorno; avrei dovuto farlo io stesso più tardi. Dopo essermi riscaldato, mi sentii troppo inquieto per restare in casa. Mi aggirai tra i capannoni e attraverso i campi, cercando di pensare. Dissi a Dametas, che trotterellava con precauzione in mezzo alle mucche, che quella sera avrei portato via non solo le provviste necessarie per la casa, ma anche quelle da vendere. Annuì placidamente, senza rendersi conto che intendevo vendere quasi ogni cosa, lasciando noi tutti, padrone, famiglia, fattore, schiavi, se non alla fame certo molto alle strette per il resto dell’inverno. Strinsi i denti. Duecento dracme non erano una grossa somma, ma per me sì, tanto più che dovevo versarle tutte subito! Maledetto l’inventore dell’usura! Soffermandomi a riflettere, mi resi conto che avrei potuto contestare l’entità del debito, ma ormai mi ero impegnato a pagarlo accettando la somma menzionata da Euticleide; quindi, a questo punto, non sarebbe stato legale sporgere reclamo. E poi, il mio creditore non avrebbe accettato passivamente un reclamo, su questo non c’erano dubbi. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era un’altra lite o un’altra causa. Seguitai cupamente a camminare per la fattoria mentre le ombre si allungavano. Nel lento crepuscolo azzurrino mi trovai nel boschetto degli ulivi a guardare i grossi alberi simbolo della vita quasi senza vederli. In fondo al boschetto c’erano due alberi sacri dedicati ad Atena, un po’ discosti dagli altri. Faceva buio sotto le piante, e soprattutto dove troneggiavano gli ulivi della dea. L’unico rumore era il fruscìo delle foglie. Poi mi giunse un altro rumore attraverso quel mormorio, come se qualcuno avesse strisciato leggermente contro il tronco di uno degli alberi sacri. Mi diressi subito da quella parte. Poi mi fermai. Tutto taceva. Mi mossi di nuovo, e udii di nuovo il rumore, come se qualcuno si fosse mosso cautamente e rapidamente tra gli alberi. Mi pareva addirittura di sentire uno sguardo su di me, qualcuno che mi fissasse alle spalle. Mi girai senza far rumore, cercando di muovermi silenziosamente e guardando gli alberi da cui proveniva il rumore e dove al buio, dietro i tronchi contorti, qualcuno mi stava osservando. Mi voltai senza far rumore, ma il mio naso rovinò la mossa. Starnutii due volte, molto forte, svegliando gli echi del boschetto. Una voce bisbigliò: – Stefanos? – Questa parola così familiare, udita così di recente in un’occasione violenta, mi fece drizzare i capelli in testa. Che pazzo ero stato a venire in un luogo tenebroso da solo. Avrei dovuto rammentare l’avvertimento di Aristotele. Non ero al sicuro nemmeno sulla mia terra. Euticleide, ad esempio, non aveva trovato difficoltà a raggiungermi. – Stefanos – ripeté la voce, giovane, canzonatoria. Rimasi fermo, per affrontare il nemico nascosto nell’ombra. Ci fu un movimento dietro il tronco contorto di un grande albero. Aguzzai gli occhi nelle tenebre. Dapprima vidi la macchia bianca d’una faccia, poi l’intera forma di un uomo che veniva furtivo verso di me per il viottolo oscuro in mezzo agli alberi. La figura si fece più chiara. E allora, per poco non perdetti i sensi. Perché davanti a me nel boschetto buio stava mio cugino. Filemone. Lo riconobbi senza ombra di dubbio, nonostante quel che avevo detto a Sosibio sulla difficoltà di riconoscere qualcuno nella semioscurità. Mio cugino Filemone. Proprio lui. – Ciao, Stefanos. Come stai, a parte il raffreddore? Corsi verso il mio caro cugino, che non rivedevo da due anni, e l’abbracciai, e nel farlo emisi un acuto gemito di dolore. – Che cosa fai qui? – gli chiesi in una sorta di disperato bisbiglio. – Per Zeus, re degli dei e degli uomini, per Atena, dea di questo boschetto, non dovresti essere qui. Non sai che la tua vita è in pericolo? Filemone mi scostò da sé e sorrise in modo rassicurante. – È una lunga storia. Sono felice che sia tu, Stefo. Sulle prime non distinguevo chi stava avvicinandosi. Io sto bene. Sono stato soldato, so badare a me stesso. – Ma perché sei qui? Sei stato bandito dalla città, e adesso sei accusato di omicidio… – Sì, sì, lo so. Ma… be’… tu non ci crederai, e temo che non ne sarai contento, ma il fatto è che ho preso moglie… – Sì – risposi spazientito – so tutto di questo. Rimase sbalordito. – Cosa? Lo sai? Non è una sorpresa? Io credevo di farti restare a bocca aperta. Bene, e così, naturalmente, sono venuto a vedere se mia moglie e il bambino stavano bene. E anche a portarli fuori di Atene. Le cose potrebbero mettersi male per loro, a quanto sento. – Eccome – concordai decisamente. – Ma Melissa e il suo bambino sono al sicuro. Li ho spediti sani e salvi fuori città. – Davvero? E così non c’era bisogno che venissi, dopo tutto. Come sei stato bravo, Stefanos! – La sua ammirazione era sincera. – Come hai fatto a sapere tutto? Ma tu sei così intelligente, e anche Melissa, per essere una donna. Immagino che avrete organizzato ogni cosa fra voi. Mi hai tolto davvero un gran peso dal cuore, Stefanos. E io che mi preoccupavo… Dove si trovano, adesso? – In cammino per la Macedonia, se gli dei li aiutano. – Ma come… – Sta’ zitto, per piacere – replicai con i nervi tesi. – Non è il momento di chiacchierare. È alla tua salvezza che bisogna pensare. Tu sei al bando, accusato di omicidio, denunciato come rinnegato e soldato dei Persiani, e sa il Cielo cos’altro ancora qui ad Atene. Qualcuno vuole portarti via i tuoi beni, forse anche la vita, e tu arrivi qui come se venissi a passeggiare! Suppongo che tra poco vorrai andare in una delle botteghe da barbiere sul mercato per una bella chiacchierata! Idiota che sei, dobbiamo portarti via il più presto possibile! – Non parlare così di furia, Stefanos, non riesco a seguirti – protestò bonariamente. – Sì, lo so che è un momento pericoloso. Siamo scivolati sul fango. Non ci resta che tirare le redini e portare il carro all’asciutto. Questo era mio cugino, ricordai, quello che parlava sempre nel gergo delle corse o delle gare sportive. – Ma non abbiamo tempo. Tu devi andartene. È stata una pazzia venire. Una vera pazzia. Perché invece non mi hai mandato un messaggio? – Ci ho pensato, ma non sapevo bene cosa dire, né come metterla nel caso che il messaggio finisse nelle mani sbagliate. E volevo rivedere Melissa e il bambino. E anche mia madre. Quando ho pensato che Melissa e il piccolo Likias potevano essere in pericolo, per forza dovevo venire, era mio dovere. Sono già stato qui prima, sai, e me la sono cavata sempre! Mi venne in mente qualcos’altro che avevo dimenticato a proposito del cugino Filemone. Era uno sciocco. Audace, sì, ma piuttosto sciocco. – Puoi rinunciare all’idea di rivedere zia Eudossia questa volta – dissi severamente. – Sta bene, ed è arzilla. Ma non ti voglio in giro per le vie di Atene. Saresti catturato davanti ai miei occhi e giustiziato prima della fine del mese. Incatenato pubblicamente alla gogna, poi strangolato o bastonato a morte: è questa l’esecuzione per gli omicidi, lo sai. E sarebbe questa la tua sorte, sempre che non arrivasse prima una folla patriottica furiosa contro i Persiani a prenderti in consegna. Gli enumerai tutte le cose più spaventevoli che mi venivano in mente, sperando di riuscire a intimorirlo. Era sempre stato molto difficile mettere paura a Filemone. Sembrava perplesso piuttosto che spaventato, come se stesse giocando a guardie e ladri e lo avessero scoperto. – E che ne sarebbe di me? – continuai insistendo su quell’argomento. – Rischio la vita se si diffonde la notizia o anche solo il sospetto che ti ho offerto asilo. Non devi andartene in giro a pavoneggiarti rendendoti ridicolo. Se tu vuoi morire, fa’ pure, ma io non voglio. Ho dovuto parlare in tuo favore alle prodicasìe e dovrò difenderti al processo. Dobbiamo restare vivi entrambi, se vuoi che la zia Eudossia conservi il suo patrimonio e tua moglie e tuo figlio la loro vita e il loro buon nome! – Oh – disse senza capire. – Pensavo che sarebbe stato magnifico rivederti, Stefanos. E adesso sei arrabbiato con me. Non arrabbiarti. Me la sono cavata magnificamente e farò tutto quello che mi dici. – Bene. Lasciami pensare. Dove sei stato oggi? – Ho gironzolato per la fattoria. Sono stato in quella piccola foresta lassù e sono venuto qui solo all’imbrunire. Pensavo che magari avrei potuto dormire in un capannone. Mi è sempre piaciuta la fattoria, e sapevo dove mi trovavo, sai, non mi sono perso per strada. Vedi, sono arrivato al Pireo stanotte in cerca di Melissa, ma lei non c’era più e la casa era bruciata. È stato un colpo per me, posso ben dirlo! Poi sono venuto qui, prima dell’aurora, tenendomi fuori delle mura. Pensavo di stare nascosto per un po’ e poi magari venire a cercarti una notte. – Nessuno ti ha visto? – Che io sappia, no. – Speriamolo. Ma dovremo correre il rischio. Che facciamo adesso? – Puoi darmi un posto dove dormire qui alla fattoria? Poi, domani… – Ma quale domani! Dobbiamo andarcene subito. Stanotte. – Ma… – Sta’ zitto e fammi pensare! Mentre io starnutivo, mi stringevo la testa e pensavo, aspettò pazientemente, proprio come quando, da bambino, aspettava che inventassi un nuovo gioco. – Hai del denaro? – gli domandai. – Sì, un po’. Non molto, circa dieci dracme. – Non basta. Suppongo che te la sentirai di cavalcare per un lungo tratto. – Sì che me la sento! – rispose fieramente. – Lo facevo già da bambino, ti ricordi, e mi sono impratichito nell’esercito. Ho badato ai cavalli per un po’. – Bene –. Se riusciva a restare a cavallo per due stadi, potevo contare sul suo talento naturale e la sua resistenza e farlo cavalcare per un centinaio di parasanghe, sempre che non facesse spezzare le zampe al cavallo per imprudenza. – Bene! – dissi. – Per il momento, ti nasconderò nel fienile. Poi salirai di nascosto su un carro e andremo via. Dovrai stare assolutamente zitto, non aprire neanche bocca finché non ti dico che puoi farlo. Va bene? – Sì. Tu farai abbastanza rumore per due, fra gli starnuti e il respiro da vecchio brocco. Era vero. L’infreddatura mi si era concentrata in gola. Tossii a più riprese, poi, facendogli ripetuti cenni di silenzio, lo condussi per il boschetto e attraverso un campo, fino ad una stalla che alloggiava mucche e capre da latte, e lo nascosi fra la paglia. Poi tornai da Dametas e gli dissi bruscamente: – Ho bisogno di portare via con me quanti più prodotti da vendere sia possibile. L’uomo che era qui oggi mi fa pressioni per un debito che deve essere pagato subito. – Oh, tesoro mio – disse Tamia. – Quell’omaccione! Non mi è piaciuto per niente. Ignorai la sua simpatia. – Ci ho pensato su e ho deciso. Prenderò il carro più grande e due muli. Voglio che ci siano messi sopra prima di tutto gli orci dell’olio, imballati bene con paglia pulita. I formaggi e i rotoli di tessuto possono essere messi intorno agli orci. Porta il carro vicino alla stalla. Io prenderò i muli e poi penserò all’olio. Dametas osservò che era così tardi che avrei fatto bene a dormire alla fattoria e ripartire il giorno dopo. – No – dissi fermamente. – Devo andarmene stanotte. Penso di poter vendere a buon prezzo la roba a un tale che conosco dalle parti di Megara. Manderò ad avvertire a casa. Mi rivolsi allo schiavo che si era tagliato un dito, dicendogli di andare a casa e informare mia madre che giudicavo necessario effettuare una grossa vendita nel più breve tempo possibile, e che andavo a Megara col carro della fattoria. Potevo restare lontano quattro o cinque giorni, ma non doveva impensierirsi se ritardavo. Lo schiavo rimase colpito da questo messaggio, e lo ripeté con grande attenzione. – Se viene qualcuno a reclamare per il debito – aggiunsi – mia madre deve dirgli che sistemerò tutto il più presto possibile –. Gli diedi qualche obolo, per consolarlo della sua ferita. Fui grato che stesse abbastanza bene da mandarlo a riferire un messaggio, ma non tanto da sperare di accompagnarmi nel mio viaggio. Poi, rapidamente e freddamente, scelsi le giare d’olio, quasi tutte quelle che avevo, i rotoli di panno e i formaggi. Gli schiavi andavano e venivano, collocando ogni cosa con attenzione sul carro. Venne buio del tutto e terminammo il lavoro alla luce delle torce. Continuavo a starnutire di tanto in tanto. Se fossi stato io invece di Filemone a nascondermi in mezzo alla paglia, senza alcun dubbio sarei stato scoperto persino da Tamia. Risistemai con cura il carico a mio piacimento, assicurandomi che rimanesse spazio sufficiente per un uomo disteso. Finito il lavoro, consumai un rapido pasto e accettai l’offerta di Dametas di un vecchio mantello di lana che portava per lavorare in campagna. Era un indumento pesante, di lana sudicia e non troppo profumato (odorava di Dametas e letame), ma molto caldo. Ora veniva la parte più difficile. Dametas e Tamia mi accompagnarono al carro, come sapevo che avrebbero fatto. Rimandai indietro Tamia col pretesto di un vaso di miele, e chiesi a Dametas di aprirmi il cancello. Appena ebbero girato la schiena, feci un debole fischio e Filemone saltò fuori. Lo spinsi sul carro, lo coprii con la paglia e ci misi sopra del panno e dei formaggi. Era quasi tutto coperto quando Tamia ritornò. Presi il barattolo di miele e lo cacciai con troppa foga dietro un ginocchio di Filemone. Vi fu un lieve grido, ma Tamia non lo udì, e mi diede delle provviste per il viaggio. Proprio mentre Dametas stava tornando, notai che un piede di Filemone sporgeva fuori. Lo ricoprii in fretta, come potevo, con un pezzo di stoffa. Lentamente ci mettemmo in marcia, con Dametas che reggeva una torcia per farmi lume. Era molto scuro, ma nel riverbero della torcia scorgevo ancora l’alluce di Filemone. Il fattore mi fece addii e buoni auguri presso il cancello, ed io m’incamminai in testa al convoglio, guidando i muli e sollecitandoli. Mi augurai che fossero molto resistenti. Fuori, sulla strada, la luce della luna consentiva una certa visibilità, e riuscii persino a scorgere la forma del piede di Filemone che sporgeva fuori da sotto il pezzo di stoffa. Grazie al Cielo il mio fattore era quasi cieco, e sua moglie quasi cieca e anche sorda. XV Viaggio in Eubea Avanzavamo lentamente sul sentiero, io con i muli e Filemone dentro il carro. Avevo detto al fattore e fatto riferire a mia madre che andavo in direzione dell’oriente, oltre l’Imetto, verso Megara, e speravo che i curiosi ci avrebbero creduto. Io sarei andato nella direzione opposta. Ma quando pensavo ad Euticleide, sentivo un peso sul cuore. Avrebbe chiesto di me? E cosa sarei stato in grado di pagargli alla fine di questo viaggio? Era veramente un’impresa disperata. Ne dipendeva la vita di Filemone, e forse anche la mia. Il meglio che potessi sperare, se il mio piano riusciva, era la mia completa rovina finanziaria o qualcosa di molto simile, e tutto perché il mio spericolato cugino si era intestardito a voler tornare nella rete. Dopo aver percorso circa otto stadi mi fermai, in modo che Filemone prendesse una boccata d’aria e si stirasse le membra, e io potessi ricoprirlo meglio di paglia. – Sono tutto un crampo – si lamentò lui. – Non farci caso – ribattei io. – Potresti stare peggio. Stavolta ti nasconderò completamente. Lui non fece obiezioni, ma chiese sommessamente, – Dove andiamo Stefo? – Non te lo dirò finché non ci avrò riflettuto bene. Ci sto pensando, se sai cosa voglio dire. – Più che altro starnutisci – ribatté lui. Io mi limitai ad aggiungere, – Devo portarti lontano da Atene. – Lontano? Andando così piano? Argh! – Risalì sul carro e disse, – Stefanos, suppongo che avrò bisogno di urinare durante il viaggio. – Non azzardarti ad urinare su quei formaggi – dissi arrabbiato. Poi mi calmai e aggiunsi, – Se vuoi farmi un segnale perché mi fermi, sposta quel vasetto di miele avanti e indietro per tre volte. Ma sta’ attento, avvisami in anticipo. Sei un uomo e un soldato, e dovresti essere in grado di tenere a freno la tua vescica. Filemone ridacchiò e si distese sotto la paglia, i formaggi e i rotoli di stoffa. Io continuai a trascinarmi stancamente per tutta la notte, starnutendo o tossendo quando ne avevo necessità. La notte era serena, ma fredda. Eravamo nel mese di Poseidone inoltrato, eppure in quell’aria limpida mi sentivo la testa più sgombra e riuscivo a concentrarmi. In un primo tempo avevo pensato di trasportarlo attraverso la Beozia finché non avessimo raggiunto Melissa e il suo gruppo. Ma sarei rimasto lontano da Atene troppo a lungo. Melissa e la sua scorta ci precedevano di troppo, e noi eravamo costretti ad andar piano. La cosa migliore da fare sarebbe stata accorciare le distanze, mandando Filemone da solo attraverso strade per le quali sarebbe potuto passare più facilmente inosservato. Prima del mattino avevo riesaminato il mio piano diverse volte senza trovarci difetti, salvo quello di essere difficile e pericoloso. Ma qualsiasi alternativa era altrettanto difficile e pericolosa. Ci fermammo in mezzo alla nebbia dell’aurora. Feci nascondere Filemone dietro una macchia di cespugli, e divisi con lui il pane e il vino. Poco dopo passarono un paio di campagnoli, che mi guardarono senza curiosità. Mi resi conto che seduto lì, con addosso il vecchio mantello sporco di Dametas e gli occhi rossi e lacrimosi, sembravo anch’io un lavoratore dei campi, e probabilmente più vecchio di quanto fossi. Questo mi suggerì un’idea. Seduto lì, masticando il mio pane, mi rivolsi ai cespugli tra cui era nascosto Filemone. – Andiamo in Eubea – dissi. – Melissa e gli altri sono in cammino verso la Macedonia, con una scorta di uomini di Antipatro. Dovrebbero arrivare a Pella all’inizio della primavera. Ti comprerò un cavallo a Calcide, e tu dovrai continuare il viaggio da solo attraverso la Tessaglia in direzione della Macedonia. Il tuo nome è Leandro, sei un soldato ferito che torna dalla guerra, in cerca della moglie che lo crede morto. Adesso ripeti tutto. Il cespuglio obbedì, sussurrando docilmente. Aveva imparato tutto alla perfezione. – Ma come ha fatto Melissa… – Ssst! Te lo spiegherò poi, se c’è tempo. Scrutai attentamente in tutte le direzioni, e poi feci salire in fretta Filemone sul carro. Ma mentre lo ricoprivo, vidi nella luce dell’aurora qualcosa che mi arrestò un momento. Sulla sua faccia, a sinistra, dove la guancia incontra l’attaccatura dei capelli, c’era una cicatrice, non recente, ma senz’altro una cicatrice, lunga quasi quanto il mio pollice. Seguitai il cammino riflettendo tristemente. Bisognava percorrere molte salite e allungare di molto il cammino, passando per i sentieri serpeggianti tra le colline. Avevo paura di far scendere Filemone dal carro per alleggerire il carico. Più o meno a metà strada verso Dekelia, trovai la capanna vuota di un taglialegna e le ceneri di un fuoco. Raccolsi quelle più chiare e me le strofinai tra i capelli, per somigliare a un uomo con la testa brizzolata; poi, specchiandomi in una pozza, mi sentii soddisfatto del risultato. Strofinai anche la faccia di Filemone con ceneri miste ad olio, in modo che apparisse olivastro e sudicio, con una carnagione da contadino che non vedeva un po’ d’acqua da parecchio tempo. Adesso, se ci fossimo seduti sul ciglio della strada, anche lui avrebbe avuto l’aspetto giusto. Questo trucco aiutava anche a nascondere la sua cicatrice, di cui non feci parola. Mi sarebbe piaciuto avere un altro mantello come quello di Dametas, e il mio desiderio fu esaudito. Forse la mia fortuna durava perché continuavo a offrire libagioni alle divinità di ogni boschetto o ruscello presso il quale passavamo. Era meglio non correre rischi. Ad ogni buon conto, fuori da Dekelia trovai un vecchio contadino, che mi vendette il suo logoro mantello per tre oboli e una piccola forma di cacio. Distesi sul carro il mantello che portavo, e mi misi quello «nuovo». Non aveva un buon odore, ma dichiarai che era molto più caldo, e il vecchio ed io ci separammo con reciproca soddisfazione. Ero veramente contento, anche se ben presto dovetti cominciare a grattarmi. Evidentemente le pulci dovevano aver goduto per qualche tempo del tepore del mantello. Anche Filemone fu contento, quando gli diedi il mantello di Dametas e gli permisi di scendere dal carro per fare quattro passi. Disse che Dametas gli stava simpatico e che il suo odore non lo infastidiva. Trovò il travestimento addirittura divertente. Era sempre pronto a godersi qualsiasi novità gli si presentasse. Proseguimmo il cammino quanto era possibile, fermandoci a riposare solo al tramontare della luna. Dormimmo sulla paglia del carro sparsa per terra, avvolti nei nostri mantelli da contadini. Io mi ridestai molto presto e scrutai il cielo sopra di noi, dove la costellazione di Orione stava sparendo all’approssimarsi dell’aurora. Rammentai che da bambini durante le placide notti d’estate, Filemone e io dormivamo all’aperto o restavamo svegli a chiacchierare delle bravate compiute o ancora da compiere. Sembrava che le nostre vite si fossero allontanate, e invece, eccomi qui insieme a Filemone. – Sei sveglio, Stefo? – Filemone – dissi d’un tratto. – Come ti sei fatto quella cicatrice? – Questa? Oh, un colpo di spada. Niente di serio. Ti ho detto che sono stato soldato. – In quale battaglia? – Nella battaglia di Isso, presso il fiume Paia. Devi averne sentito parlare. – La battaglia di Isso? Oh, Filemone, come hai potuto? – Cosa intendi dire con come ho potuto? È stato facile. Molti Greci si sono arruolati. Io l’ho fatto appena giunto in Asia, e ho seguito la marcia con i migliori. È stata una grande battaglia, Stefo, non sarei mancato per nulla al mondo. – Migliore delle risse nelle taverne, suppongo. – Ah, non farmi la predica. Sei solo geloso. Avresti dovuto vedere quei Persiani come scappavano! E Dario per primo, via come una lepre. Brutta figura per un re, no? – Allora… Tu non combattevi dalla parte dei Persiani? – Cosa vuoi dire? – La sua voce si levò bellicosamente dalle tenebre. – No di sicuro! Hai creduto una cosa simile? – Non sapevo cosa pensare –. Gli riferii i dettagli dell’accusa nell’ultima prodicasìa. – E poi – aggiunsi, – visto che avevi effettivamente una cicatrice… Ho cominciato a temere… – Sciocchezze. Quasi tutti riportano delle ferite in battaglia. Sosibio non me lo ricordo, ma io non ero proprio in prima linea. Feci un bel po’ di caccia ai Persiani, però. Dopo la battaglia, Alessandro congedò una buona parte delle truppe greche. Peccato, proprio quando cominciavo a divertirmi. Troppi Macedoni in giro. Mi piacerebbe arruolarmi in un’armata tutta di Greci, ma il capo sa quello che fa. Visto che ero ferito, sono stato tra i primi ad essere congedati. E più tardi sono passato per Sidone, questo è vero. Lo interrogai sulla conversazione avuta a Sidone. Gli pareva di ricordarsi qualcosa del genere, ma aggiunse di aver parlato a troppi soldati e marinai per poterseli rammentare. Mi diede il nome del suo capitano macedone, ed io me lo impressi nella memoria. Ora che stavamo discorrendo, volevo sapere tutto. Dovevo conoscere la verità. In un certo senso, la verità non avrebbe potuto fare alcuna differenza: avrei dato tutto, persino il mio sangue se necessario, per salvare Filemone, anche se di omicidi ne avessi commessi sette, ma volevo sapere. – Filemone – dissi, – sapevi che Boutades conosceva Melissa di vista? – Sì, ma volevo domandarti, Stefanos, com’è che anche tu conosci Melissa? Narrai brevemente i miei incontri con Nusia e la sua padrona, senza accennare ai miei dubbi circa la legalità del matrimonio. – Tutto questo è tipico di Nusia. Sa come cavarsela nelle difficoltà –. Filemone era molto compiaciuto. – E la cosa ha avuto un lieto fine. Sì, sapevo che Boutades conosceva Melissa, un po’ più che di vista anzi per la verità, ma senza niente di male. Voleva adottare Likias. Figurati! – Cosa pensasti… – Oh, mi parve buffo quando Melissa me lo riferì. Capivo benissimo come uno potesse perdere la testa per Melissa a prima vista; ma Boutades sembrava impazzito anche per il bambino. E quando lei gli spiegò di essere già sposata, voleva adottare me. Te lo immagini? Io vestito con grande eleganza a fare il fannullone nella sontuosa casa di Boutades? Cosa avrebbe pensato mia madre, poveretta? Ovviamente, Boutades fu molto gentile e generoso in tutta questa storia, ma non mi piaceva granché. Pensavo che doveva avere qualche rotella fuori posto. E così, con i dovuti modi, gli dissi di no. – Cosa? Vuoi dire… che lo incontrasti? – Sì. Ci incontrammo una volta a Egina, all’inizio dell’estate scorsa, molto civilmente. Le donne non ne sapevano nulla. Pensavo che potesse essere un imbroglio. Così non ci incontrammo sull’isola; io rimasi su una barca. Ma non era un imbroglio. Boutades parlò in tono molto lusinghiero di tutti i suoi beni e del denaro che aveva. – Ti parlò di questo? – Sì, in dettaglio. Aveva persino una lista con sé. Sembrava molto fiero di tutto ciò. Seguitava a dire che era un uomo facoltoso. Rimasi veramente stupito di quanto fosse ricco. Mi elencò persino una lista di crediti che aveva –. Filemone ridacchiò, un po’ a disagio. – Sai, mi raccontò una storia molto strana. Pare che avesse un amico, e che circa due anni e mezzo fa questo amico si fosse messo nei guai. Aggredì una povera schiava di una fattoria lungo la strada per Megara. La picchiò a tal punto da lasciarla quasi in fin di vita, e quella rimase completamente sciancata. Quella schiava era la preferita della famiglia, e loro insistettero per essere risarciti. Questo amico aveva investito tutto il suo denaro in navi da carico o roba del genere, quindi Boutades gli prestò il denaro per pagare, e dovette pagare tanto, perché voleva che tutto passasse sotto silenzio e restasse fuori dal tribunale. Parte di questo prestito doveva ancora essergli restituito, una grossa somma. Boutades mi raccontò questa storia come se fosse stata un buon investimento. Che ne pensi? – Non mi piace. – Nemmeno a me. Una storia veramente scabrosa, eh già. Eppure, aveva molte ricchezze ed era un cittadino molto potente. Parlò di ottenere un’amnistia per me entro poco tempo. Quella sì che era una tentazione, te lo dico io! – Ma perché voleva proprio te? – Non ne ho idea. Non so perché ci tenesse tanto a me. Forse perché è, cioè era, così attaccato all’idea di una discendenza. Polignoto non si è mai sposato, vero? Questo è stupido da parte sua. Io, invece, ho fatto il mio dovere da buon cittadino. Pensaci anche tu, Stefanos. In un certo senso, sono maggiore di te ora, essendo marito e padre. – Filemone, voglio farti una domanda, e tu devi dirmi la verità giurando solennemente sugli dei. Io, a mia volta, giurerò di spendere le mie sostanze e anche il mio sangue per metterti in salvo e riabilitare il tuo nome, qualunque sia la risposta. – Sei così maledettamente serio, Stefanos! Saresti bravo come avvocato. Hai la voce giusta per fare il rètore, solenne, enfatica e piena di parole. – Giura! – lo sollecitai. Giurammo entrambi nella forma più solenne mentre spuntava l’aurora. – Ecco la domanda – dissi con un respiro profondo. – Hai ucciso tu Boutades? – No! – esplose Filemone con voce tonante. Nella pallida luce vedevo il suo viso sporco che mi guardava con occhi indignati. – Per il padre Zeus e per tutti gli dei, no! E così, il mio stesso cugino pensa che me ne vado in guerra vendendomi ai Persiani, e poi ritorno per uccidere un vecchio nella sua camera! E perché poi? Perché questo vecchio voleva adottarmi e io sono allergico ai padri adottivi ricchi, suppongo. Bel cugino che sei, a pensare queste cose orribili di me. Per Diòniso, mi piacerebbe prenderti a pugni! Mi stava sopra, infiammato di rabbia. Mi alzai, ma appena fui in piedi mi diede una botta nello stomaco e crollai in terra. – Avanti – disse agitando i pugni e trotterellando di qua e di là come un pugile. Mi attaccai alle sue ginocchia come un supplice. – Pace! Per favore, Filemone! Sono veramente dispiaciuto, ma non ti sarò molto utile se mi metti fuori combattimento! Mi guardò infuriato e poi si mise a ridere. Mi aiutò a rimettermi in piedi, ma ormai ridevamo entrambi così di cuore che ricademmo seduti a ridere insieme. Non ero così felice da mesi. La cosa peggiore di tutte era stata il crescente terrore segreto che mio cugino fosse l’assassino di Boutades. – Ora, fra amici e senza giuramenti – dissi quando ebbi ripreso fiato, – dov’eri la notte del delitto? Ad Atene? Qualcuno ha potuto vederti? – Fra amici, e ancora sotto giuramento – rispose, – qualcuno potrebbe avermi visto ad Atene un paio di giorni prima, quando andai a trovare mia madre, o al Pireo la vigilia dell’assassinio. Sai, è curioso: avevo pensato di tornare a rivedere ancora mia madre, ma d’un tratto mi è tornata la prudenza, e così dopo il crepuscolo mi sono avviato verso Idra. – Prudente… tu? – Sì. È un effetto della paternità – mi spiegò. – Ho la fortuna di avere alcuni amici fra i battellieri. Be’, non sono proprio amici magari, e come battellieri sono piuttosto strani. Non sono in buoni rapporti con la legge, credo. Sono un po’ schivi, come lucertole che corrono a nascondersi nelle fessure. Un attimo prima li vedi, l’attimo dopo non li vedi più. Ho il sospetto che alcuni di loro siano Spartani, e per di più fuorilegge. Se non fai domande a loro, loro non ne fanno a te. – Ma potrebbero fornire delle prove. Chi sono? Come si chiamano? – Non verrebbero mai in un tribunale, caro Stefanos. Sono troppo timidi per questo. Comunque, due di loro sono noti con i nomi di Fidia e Fidippide quando sono in città. Non mi arrischierei a dire che questi bei nomi siano i loro nomi veri. Se vuoi metterti in contatto con loro, va’ da Simonide il vasaio, sulla piazza del mercato. Di’ solo «I vasi rossi non devono essere infornati durante la fase sbagliata della luna», e incidi l’immagine di un albero su un frammento di vaso o una tavoletta. Lui lo interpreterà come un ordine, e chiederà dove dovranno essere consegnati i vasi, e qualcuno si presenterà da te. È tutto quello che so, ma bada bene, io non ho mai incontrato Simonide. La zona del mercato è troppo pericolosa. Avrei voluto seguitare a discorrere con questo cugino e amico ritrovato, ma la luce dell’aurora era ormai chiara, e dovevamo rimetterci in cammino. Quel giorno camminai con molta allegria, cantando spensieratamente. La difesa della zia Eudossia era giusta! Ma lei non lo sapeva. Filemone non era ad Atene. Non era lui il colpevole. Ero immensamente grato che la visione di un insolito Filemone che commetteva un orrendo crimine fosse svanita per sempre dalla mia mente. Sarebbe troppo lungo esporre le nostre avventure lungo la strada. Fu un viaggio tedioso e disagevole, soprattutto per Filemone. Via via che ci allontanavamo da Atene, lo lasciavo venir fuori più spesso, il che ci facilitava le cose sulle salite. Tuttavia, fare piccole soste, ad esempio per comprare delle provviste, mi sembrava pericoloso. Passammo altre due notti nella stessa maniera della prima. Una notte piovve, e mi tornò il raffreddore. Nel buio avevamo modo di parlare, e Filemone mi narrò tutti i suoi vagabondaggi e le sue varie imprese. Io gli raccontai ciò che era accaduto ad Atene con riferimento a lui, e sottolineai l’aiuto ricevuto da Aristotele nel far fuggire Melissa. Filemone non conosceva il filosofo, e non parve molto colpito dal mio racconto. – Mi sembra un buffo vecchietto – disse con sufficienza, – ma lo ripagherò, puoi starne certo. Si è comportato molto bene con noi. Dev’essere un gran parlatore, no? Quei vecchi filosofi stanno sempre seduti a sentenziare. – Aristotele non sta seduto, lui è un peripatetico. – Be’, allora a passeggiare e a sentenziare. Cercano di apparire importanti coi sillogismi e i giri di parole. Perché non chiamiamo uno specchio di bronzo specchio di bronzo e un pezzo di sterco pezzo di sterco, e così via, e la facciamo finita? Bisogna stare attenti a questi sofisti. Ti dimostrano che il bianco è nero e te lo fanno anche credere, se gli dai retta. Proseguimmo attraverso l’Attica e oltre i confini della Beozia verso lo stretto dell’Epiro, e Filemone continuò a viaggiare ingloriosamente nascosto. Quando eravamo troppo vicini alle case perché potessi parlargli, a volte mi mettevo a cantare per tenerlo allegro e informarlo di cosa c’era intorno. Cantavo agli orci pieni d’olio: Siamo in Beozia adesso, mm e alcuni di questi Beoti vivono presso l’oceano e altri sulle colline, mm, oh! Quando attraversammo Orinto, cantai quasi sussurrando, per avvertirlo di restare nascosto. Il vasetto di miele cominciò a spostarsi e a ballonzolare avanti e indietro: il segnale convenuto. Continuai a cantare e a borbottare con la voce arrochita dal freddo: Piacerebbe anche a me fare un bel bisogno, ma non posso ancora, no… no…. mm. È veramente da maleducati urinare in un mercato, sì, è veramente da maleducati e anche piuttosto pericoloso. Non voglio offendere nessuno. Uomo avvisato mezzo salvato… mm. Ma non posso restare qui a lungo. Ero irritato con Filemone, perché il suo segnale significava che dovevamo passare rapidamente attraverso Orinto, e io avevo programmato di comprare del pane e del vino in questa città. Ma quando fermai il carro, lui rise sommessamente, e disse che l’aveva fatto per vedere cosa avrei fatto o cantato. Scendemmo verso Delio e seguimmo il sentiero sulla costa avvicinandoci allo stretto dell’Epiro, dove l’oceano si comporta in modo strano, salendo e scendendo di livello parecchie volte al giorno a intervalli irregolari. Ed ecco davanti a noi il grande ponte dell’Eubea. Ne avevo sentito parlare spesso. La sua costruzione era stata giudicata una grande impresa quand’era avvenuta ottant’anni prima. Questo ponte aveva dato ai Beoti, e non agli Ateniesi, il dominio dell’Eubea. Ad ogni modo, per un uomo considerato un criminale dagli Ateniesi l’isola era pericolosa, sebbene non quanto l’Attica. Gli Ateniesi avevano rapporti commerciali con l’Eubea, e ovviamente anch’essa ormai aveva aderito all’alleanza con i Macedoni. Se si fosse venuto a sapere che un criminale Ateniese accusato di omicidio era passato attraverso l’Eubea e gli era stato offerto un qualsiasi tipo di assistenza, Atene avrebbe potuto riunire tutti i Beoti presenti entro le sue mura e minacciare di condannarli al pagamento di una sanzione; nessuna città vicina sarebbe stata ansiosa di lasciare che un cittadino considerato criminale in Atene se ne andasse in giro libero e impunito. Tuttavia la Beozia era sempre più sicura dell’Attica, se non altro perché nessuno avrebbe sospettato che Filemone si trovasse lì. Ma dovevamo essere prudenti. Subito dopo l’aurora attraversammo il grande ponte. Mi diede una curiosa sensazione guardare in giù e vedere l’acqua del mare muoversi sotto di me da entrambi i lati. Non avevo mai visto niente di simile prima d’ora. Mentre ci avvicinavamo, Calcide, il capoluogo dell’Eubea, la città della lavorazione dei metalli, appariva imponente nella luce del primo mattino. Di fronte a Calcide, sulla sponda beota dello stretto, vidi un’altra città innalzarsi bianca sulla cima di un colle. Doveva essere Aulide, la famosa Aulide, dove era stata sacrificata Ifigenìa. Immaginai lo stretto ingombro delle navi di Agamennone in attesa del vento. Come avevano fatto le donne di Calcide ad andare ad Aulide, sull’altra riva, a chiedere misericordia per la vittima e a piangere insieme a lei? Allora il ponte non esisteva. Mi tornarono in mente alcuni versi della tragedia di Euripide: Ifigenìa che diceva appassionatamente, «In verità, il piacere più dolce dell’uomo è guardare il sole», e il fosco ammonimento di Achille: «Ricordate, la Morte è una cosa spaventosa». Attraversammo Calcide il più furtivamente possibile, una città prosperosa con le case decorate a stucco nuove e scintillanti. Mentre passavamo davanti alla bottega di un macellaio, raccolsi da terra un pezzo di interiora di maiale, un frammento sanguinolento di budella. Il mio appetito crebbe; non avevo niente da mangiare per quel giorno, ma tenni il minuscolo pezzetto di carne nel palmo della mia mano. Dopo un’ora di cammino da Calcide, in un tratto di campagna dove si vedevano delle fattorie in lontananza, trovai un posto riparato tra gli alberi e feci uscire Filemone dalla sua prigione di paglia pungente. – Un po’ d’aria fresca finalmente! Per Diòniso, sono tutto accartocciato come una foglia di prezzemolo! Dove siamo? Glielo dissi, senza perdere tempo a citargli Euripide. Normalmente Filemone non si interessava mai alle discussioni di argomento letterario. Ma provò un certo interesse per il ponte. – Avrei voluto vederlo, e avrei visto volentieri anche Calcide. – Be’, non puoi. E devi restare qui. Promettimi che te ne starai seduto qui tranquillo all’ombra di questi alberi avvolto nel tuo mantello, e non muoverti finché non torno. – All’ombra dici? Stefo, non siamo in estate, caso mai non l’avessi notato. Fa un freddo da gelare. Perché dovrei starmene seduto all’ombra? – Non voglio che qualcuno ti veda – spiegai pazientemente. – Avvolgiti nel mantello. Puoi prendere la borraccia del vino. Siediti e cerca di non farti notare. Voglio che tu abbia l’aria di un contadino che ha bevuto a colazione e sta facendo un sonnellino. – Oh, per me va bene, se posso avere il vino. – Adesso – annunciai, – cambierò aspetto anch’io –. Disegnai una linea sul mio braccio destro con un pezzetto di carbone, e poi, col sangue di maiale del piccolo frammento di interiora, dipinsi lungo di essa una lunga ferita sottile. Il sangue si asciugò rapidamente nell’aria gelida, dando così l’impressione che avessi una ferita che aveva appena cominciato a guarire, quel tipo di ferita che lascia una cicatrice permanente. Mangiai un po’ di pane e lasciai il resto a Filemone. Poi, dopo avergli dato le ultime istruzioni perché stesse lì seduto ad aspettarmi, girai il carro con le mule e tornai a Calcide con il mio carico. Uno dei primi posti che vidi sulla via del mercato fu una bottega di barbiere. Provai una gran tentazione di farmi tagliare la barba e i capelli e di darmi una lavata. Mi sentivo sudicio e a disagio, e le pulci del mantello del contadino si erano completamente abituate a me. Entrai dentro il negozio, ma all’interno mi vidi riflesso per un istante in uno specchio di bronzo. La mia immagine era così irsuta, così spaventosa, che mi bloccai. Per un secondo non capii nemmeno di stare guardando me stesso. La mia esperienza fu completamente diversa da quella di Narciso. Lasciai frettolosamente il negozio. Se io stesso stentavo a riconoscermi in queste misere condizioni, per chiunque altro sarebbe stato molto più difficile, e chiunque avesse descritto questa persona a Calcide non avrebbe fornito una descrizione propriamente accurata di Stefanos di Atene. Le mie escursioni al Pireo mi avevano indurito lo spirito. Non m’importava più di apparire una persona di bassa estrazione. Anche la «cicatrice» mi sarebbe stata utile. Ricordandomi di Sosibio, mi era venuto in mente che gli uomini ricordano più facilmente segni caratteristici strani piuttosto che tratti veri ma ordinari. Dal momento che quanto avevo da fare a Calcide doveva svolgersi in pubblico, era meglio che mi ricordassero come un campagnolo sudicio e irsuto, con una ferita sul braccio impossibile da collegare al lindo Stefanos, le cui braccia erano assolutamente integre. Guidai il mio carro verso la piazza del mercato, e mi diedi da fare ad annunciare la mia merce. – Olio! Buon olio fresco dall’Attica! Gli affari andarono bene; ben presto mi ritrovai a porgere orci, a ritirar denaro e a dare il resto. Il mio braccio mostrava costantemente ai miei clienti il suo solco macchiato di sangue. – Come te la sei procurata? – volle sapere uno di loro. – È stato un amico con un coltello – risposi seccamente. – Bell’amico! Ecco, questa è l’amicizia attica! – Non sprecai il mio tempo a difendere la mia città davanti a quei forestieri. Mi sentivo strano a trovarmi in una città straniera; i suoi bei monumenti sembravano diversi dai nostri, e persino alcune delle lettere delle iscrizioni erano scritte diversamente. Non avevo viaggiato molto prima di allora, e desiderai avere un po’ di tempo libero per andarmene in giro ad esplorare la zona. Fui persino tentato, quando alcuni dei migliori barattatori cercarono di offrirmi degli oggetti in bronzo di Calcide di elegante fattura, ma il denaro, denaro contante, era quello che mi serviva. La qualità dell’olio dell’Attica è assai rinomata, e il nostro era così buono che finii la vendita più presto di quanto mi aspettassi. I formaggi e i rotoli di panno furono più difficili da vendere: alcune forme erano rimaste schiacciate nel viaggio, e la stoffa aveva un aspetto meno invitante così coperta di polvere. Ad ogni modo, dopo un po’ mi disfeci anche di queste e potei quindi uscire dalla città. Una volta tanto, mi concessi il lusso di viaggiare seduto sul carro vuoto, e mangiai un pezzo di una delle forme di formaggio schiacciate che non ero riuscito a vendere. Era ancora presto nel pomeriggio quando giunsi al boschetto da Filemone. Ed eccolo ancora seduto là, con la borraccia di cuoio ormai vuota al suo fianco. – Ci hai messo un bel po’ – disse. – Non quanto temevo – risposi. – Ho venduto le merci e ho fatto un po’ di denaro. Adesso viene la parte veramente difficile. Dovremo comprare un cavallo, e ci vorrà del tempo, temo. L’Eubea non è Argo. – Forse non ci vorrà tanto tempo – replicò lui. – Mi sono guardato attorno mentre eri via. Vedi quel campo laggiù, in quella fattoria con il frutteto? – Mi additò una valletta a circa dieci tiri d’arco di distanza. – Ci sono dei cavalli in quel recinto, Stefo. E uno di loro potrebbe andar bene. Legai i muli e ci avviammo alla fattoria. Da vicino, scorgevo i cavalli di cui aveva parlato Filemone più chiaramente. Non avevo la sua vista perfetta. – È quello nero – mi spiegò. – È un castrato. Deve avere quattro anni. Ha l’aria di essere molto robusto e anche veloce. – Mi sembra un po’ malandato – dissi dubbiosamente. L’animale in questione aveva un mantello a chiazze piuttosto irsuto e la coda ingarbugliata. – Lascia andare il mantello – replicò Filemone. – Guarda come si muove. Te lo dico io, Stefo, che ho badato ai cavalli quand’ero nell’esercito. Fidati del mio giudizio. Io me ne intendo! Decisi che mi sarei fidato del suo giudizio, anche perché sapevo ben poco di cavalli. Cavalcare andava bene per i ricchi in partenza per un lungo viaggio, oppure per gli anziani, gli invalidi e i soldati. Avvertii Filemone di stare zitto, ma mi attenni al suo consiglio sul prezzo da offrire al fattore quando ci avvicinammo a lui. L’uomo parve stupito di trovarsi davanti dei compratori di cavalli così all’improvviso in un giorno d’inverno. Spiegai che non potevamo permetterci una cavalcatura di prima qualità, e che avevamo adocchiato l’animale che ci sembrava più a buon mercato nel recinto. Ci occorreva perché il nostro era morto, e mio fratello, che era un po’ zoppo, doveva andare a trovare uno zio in Tessaglia. (Filemone si era messo a zoppicare vistosamente. Mi augurai che non esagerasse). Il fattore ci fece esaminare il cavallo. Mio cugino gli guardò in bocca e salì in groppa per fare il giro del campo. – Potrebbe andare – disse infine laconicamente. – Bene, Fidia – conclusi rivolto al finto zoppo. – Dipende da te. Possiamo cercare altrove, se vuoi. Il fattore, che si era fatto più interessato, s’interpose elencando i molti meriti del cavallo. Dopo un’animata contrattazione, la vendita fu conclusa a trenta dracme, meno della somma che mi aspettavo di dover pagare. Filemone era felice quando lasciammo la fattoria. Tornammo ai muli e al carro vuoto, e io mi avviai per la strada, mentre mio cugino cavalcava il suo nuovo destriero. Il fattore ci aveva dato in omaggio una briglia di scarsa qualità. – È stato magnifico da parte tua comprarmi questo cavallo, Stefo. Se trovo un tratto di strada piana, provo a farlo trottare. È un peccato che non faccia una gran figura, ma ci penserò io con un po’ di brusca e di striglia. – Guardati bene dal farlo – lo ammonii severamente. – Nutrilo bene e trattalo con cura, ma quanto all’aspetto, è molto meglio che rimanga così irsuto e ispido. Si addice di più al tuo aspetto. – Si addice di più al mio aspetto? Be’, di tutte le… – Sì – dissi spazientito. – Non capisci? Sei un contadino zoppo e povero. Ed eccoti qui, un po’ sporco, con addosso un mantello pesante rustico e logoro. Il cavallo com’è ora si adatta perfettamente all’uomo che si suppone tu sia. Ma se tu fai diventare quel cavallo bello come un destriero dell’esercito di Alessandro, apparirà in contrasto col tuo aspetto, e sarai sospettato almeno di furto di cavalli! E non farlo galoppare troppo, abbi cura dei suoi zoccoli e delle sue zampe. Tutta la nostra salvezza dipende dal fatto che tu possa cavalcare a lungo passando inosservato. Filemone parve poco convinto. – Mi sembra un peccato… – Sarà un peccato maggiore se ti prendono e ti imprigionano, o se ti scoprono e ti rimandano ad Atene incatenato per l’esecuzione. Tutto deve filare liscio. Ora, alla prossima svolta della strada ci diremo addio. Io devo tornare a casa e tu devi proseguire da solo. Rimase in silenzio e pensieroso. Proseguimmo lentamente fino alla curva, e lì smontammo. La strada era deserta, a parte noi. – Ecco – dissi tracciando una mappa nella polvere della strada. – Questa è la direzione che devi prendere per arrivare allo stretto di Artemisio. Attraversalo in tutta sicurezza, non rischiare quando c’è un temporale. Quando sarai arrivato dall’altra parte, sarai in Tessaglia. Prosegui verso nord e il nord ti porterà a Larissa. Là dovrai scoprire qual è il modo migliore per attraversare le montagne dell’Olimpo. Probabilmente è meglio se cerchi di tenerti lungo la costa. Molto più avanti c’è la foce di un fiume, dove il Lidia si congiunge con l’Assio. Attraversa il Lidia, e tra i due fiumi troverai la città di Pella. Là forse troverai Melissa, ma devi essere prudente nel chiedere di lei. Io cercherò di mandarti del denaro a Pella, ma non sarà facile. Probabilmente non avrai notizie da me fino alla primavera. Sii prudente in Macedonia. Ricordati che lì sei Leandro, un soldato in cerca di sua moglie che ti crede morto ed è andata a stare con i suoi parenti. Eccoti del denaro. È tutto quello che posso darti. Filemone ripeté quanto avevo detto e imparò la mappa. La cancellai col piede e allungai le braccia per abbracciarlo. – Stefanos… stavo pensando. Tu hai venduto tutto il tuo olio per comprarmi il cavallo e darmi questo denaro, non è così? E hai rischiato la vita per portarmi fin qui. Oh, Stefo, io e i figli dei miei figli ci ricorderemo di te. È così difficile trovare le parole… – Lascia stare le parole – ribattei in fretta. – Non sei forse mio cugino? Il modo migliore di ripagarmi è che tu badi alla tua sicurezza. Ci abbracciammo di nuovo dolorosamente, entrambi con le lacrime agli occhi. – Addio – dissi. – Prego per te Zeus, padre degli uomini e degli dei, amico del viandante. Va’, adesso! Va’, svelto! E prego che in futuro avremo tempo per parlare di questa avventura. Con un elegante movimento, Filemone balzò in groppa al cavallo e si avviò. Il cavallo iniziò un leggero trotto, e presto egli fu lontano da me e sul punto di svanire lungo quella strada. Cavalcava bene il mio cugino centauro. Guardò indietro ancora una volta, e mi salutò agitando il braccio. Lo salutai anch’io e rimasi a guardarlo, finché il cavaliere avvolto nel suo mantello sul suo cavallo nero fu solo un puntino scuro in lontananza che si allontanava sempre di più. Solo gli dei potevano sapere quando lo avrei rivisto. XVI Ritorno ad Atene Rendendomi conto che potevo viaggiare più rapidamente a piedi che non con il carro e i muli, specialmente d’inverno e in un paese collinoso, vendetti con riluttanza l’intero equipaggio al proprietario di una casa nella parte di Calcide ricadente nel territorio dell’Epiro, e tornai verso Atene. Il tempo era meno piacevole di quando avevo viaggiato insieme a Filemone: c’erano nubi pesanti, venti di tempesta e pioggia. Tra le colline fui sorpreso due volte da brevi tempeste di neve. Una volta giunto alle alture del Parnete, le attraversai il più velocemente possibile, non avendo molta simpatia per quella regione. La distanza fino a casa mi sembrò lunga e faticosa, nonostante al ritorno il tempo necessario per il viaggio si fosse dimezzato. In una bottega di barbiere a Dekelia mi feci radere e lavare. Avevo lavato via la mia «cicatrice» subito dopo aver attraversato il ponte, lasciandomi così alle spalle il contadino scarmigliato con la cicatrice sul braccio che vendeva olio sulla piazza del mercato di Calcide. Ma, nonostante ciò, mia madre rimase colpita dal mio aspetto, e disse che le sembravo stanco e mal ridotto dal viaggio. Mi interrogò, naturalmente, sulla vendita dell’olio. Deglutii, e dissi che avevo cattive notizie. Il carro si era rovesciato, trascinando nella caduta le giare dell’olio e i formaggi; e così gli sperati guadagni erano svaniti quasi interamente. Mia madre vide come ero addolorato e non mi rimproverò per la mia (supposta) negligenza. Mi toccò il cuore vederla raccogliere le sue cose più preziose per venderle, come mi disse. – Sistemeremo il debito con quell’odioso Euticleide, naturalmente. Ha sempre avuto antipatia per tuo padre, fin da quando Nichiarco lo batté in una gara di corsa quando erano giovani. Mia madre mi subissò anche di suggerimenti, alcuni sensati, altri ridicoli, sulle cose a cui avremmo potuto rinunciare. Io temevo che le nostre economie ci avrebbero portato al punto che lei e la zia Eudossia si sarebbero nutrite di finocchio e sarebbero andate in giro vestite di stracci. Era orribile pensare che Euticleide potesse ridurci così! Tuttavia, la prima cosa importante da fare era cominciare a liberarsi di questo creditore. All’indomani del mio ritorno, andai alla casa di Euticleide e rimasi ad attendere in cortile, alla maniera di un umile merciaio ambulante, o di un supplice in cerca di favori. – Sei in ritardo di un giorno – disse freddamente Euticleide quando si degnò di ricevermi. Gli diedi quanto mi pareva di potere ragionevolmente dargli in quel momento: settanta dracme. Era l’ammontare di quanto mi ero trattenuto dal dare a Filemone, più la somma realizzata con la vendita dei muli e del carro. – Non è molto – osservò Euticleide, in tono scoraggiante. – Oggi, o meglio ieri, mi aspettavo di riscuotere almeno la metà della somma che mi è dovuta. Mi sentii cadere il cuore. Avevo sperato che si raddolcisse. – È tutto quello che ho al momento. – Cosa? Dopo aver venduto l’olio? – Alcune delle giare mi si sono rotte mentre andavo a Megara. Un sorriso sottile, come la lama di un coltello, gli si formò sulle labbra. Godeva della mia sconfitta. – Un bel maldestro. Io non intendo fare sconti per la stupidità, figlio di Nichiarco. – Cose peggiori di queste sono capitate sulla strada per Megara – risposi con la sconsideratezza dettata dal risentimento. Gli occhi di Euticleide si riempirono di rabbia. – Non essere sciocco e insolente. Senza dubbio accadono cose peggiori, ma questa non è da meno per te. Che tu venda l’olio o preferisca rovesciarlo per la strada, devo sempre essere pagato. Inghiottii l’orgoglio e chinai la testa umilmente. – Devi portarmi – continuò – almeno trenta dracme per completare la prima metà del debito. E presto. Vediamo. Portale dopodomani sera. Ti concedo tutto questo tempo, per quanto non dovrei essere così generoso. Devi avere altre cose che puoi vendere. Non è poi così difficile. Borbottai fra i denti alcune false e servili parole di ringraziamento e me ne andai, detestandolo. Guardando di nuovo il suo volto odioso pensai che avrei potuto avere davanti l’assassino di Boutades. Ed era lui l’uomo sulla strada per Megara? Senza dubbio era evidente che non provava alcuna simpatia per me o per la mia famiglia. Probabilmente mia madre aveva ragione. Non era il tipo d’uomo che accettasse di perdere una corsa, né che perdonasse chi aveva trionfato su di lui. Nonostante la mia ansietà per il denaro e il fiero risentimento verso Euticleide, avevo in me una sorta di gioia perenne. Il mio cuore esultava ogni volta che pensavo a due cose. Filemone è in salvo! Filemone è innocente! Non potei più resistere alla tentazione di far visita ad Aristotele, nonostante il suo ammonimento a non andare troppo spesso da lui. Dissi a mia madre che volevo consultare un medico per la mia salute, e lei, che si crucciava del mio persistente raffreddore, trovò la cosa ragionevole. A volte Aristotele si prestava a esercitare la medicina, e la gente cercava spesso di consultarlo, sebbene lui preferisse le malattie rare e curiose. Gli dissi che questa era stata la mia scusa, e Aristotele insistette nel fare la sua parte. Mi esaminò la gola e prescrisse i soliti rimedi. Poi mi guardò acutamente e disse: – Ti sei anche stancato molto in questi ultimi giorni, Stefanos. Non ti pare imprudente fare delle lunghe marce a piedi in inverno, con quel raffreddore, e oltre tutto con un carico? – Come potete saperlo? – È semplice per un medico. Sei più magro, sei abbronzato dal sole e dal vento. Le tue braccia sono più muscolose di prima, e la tua mano destra è un po’ incallita. – Ah, bene – replicai. – Avrete udito che ho portato a vendere il nostro olio dalle parti di Megara. – Può darsi che l’abbia sentito dire – ammise. – Ma, sai, penso che tu sia andato più lontano di Megara. Non solo, ma penso anche che in quel viaggio non volessi essere riconosciuto. Spero che i tuoi rozzi indumenti non ti abbiano messo troppo a disagio. – E questo come lo sapete? – Ero veramente sbalordito. – Dal fatto che non ti sei rasato per alcuni giorni in quel viaggio. Hai il viso bruno e la pelle indurita, ma la barba deve essere cresciuta liberamente. Ti sei rasato alla fine del viaggio, e così una parte del tuo viso è più chiara. Se fossi andato a vendere l’olio senza essere in incognito, avresti mantenuto il tuo solito aspetto. Ci sono botteghe da barbiere lungo la strada per Megara, come dappertutto del resto. Ne deduco che ti sei lasciato crescere la barba perché volevi mutare aspetto, e forse anche perché non ti andava di entrare in una bottega. Una cosa poco piacevole. E poi, una barba lunga e sporca offre un riparo alle pulci. Anche gli abiti che hai indossato di recente ti hanno messo a stretto contatto con questi animaletti. Vedo i segni dei loro morsi. Sei andato distante da qui e travestito. Dunque non a Megara, come racconti agli altri. – Oh – dissi. – Sembra così semplice! – Già. Non c’è niente di straordinario, una volta spiegate le ragioni. Osservazione e logica. Ma, sai, la curiosità mi tenterebbe a spingermi anche più in là. Perché mai Stefanos avrebbe dovuto intraprendere un viaggio così arduo in questa stagione, e per di più non in perfetta salute? Perché è dovuto partire all’improvviso e travestito. Ti assicuro che le mie deduzioni sono piacevoli. Avevo dibattuto fra me se raccontare ad Aristotele di Filemone e della sua fuga: questo mi decise. In ogni modo, la sua implacabile logica l’avrebbe condotto molto vicino alla verità. Inoltre desideravo raccontargli ogni cosa. Eppure esitai. – Aristotele – dissi con molta serietà. – Vi voglio dire una cosa strana: una notizia lieta, ma pericolosa. Dovete giurarmi di non parlarne a nessuno e di fingere persino con voi stesso di non averla sentita, perché in questa faccenda io e i miei siamo esposti ai rigori della legge, sebbene davanti agli dei io non potessi fare altrimenti e sia quindi libero da rimorsi. Ma l’esserne a conoscenza potrebbe mettere in urto con la legge anche voi. Ho già detto troppo. Aristotele fece un paio di volte il giro della stanza, ancora ingombra di armi da guerra, ormai meticolosamente ordinate. Corrugò la fronte per qualche istante e toccò una lancia, un elmo, una ciotola; poi si volse a me sorridendo. – Va bene. Ti do la mia parola. Se anche non posso aiutarti, giuro di non ostacolarti. Farò il giuramento più solenne. Ti basta? Dopo che ebbe giurato e fatto le libagioni, si appollaiò su una sedia e disse con impazienza, – Avanti! – come un ragazzino ansioso di sentire una nuova storia. Mi chiesi se la sua curiosità fosse più forte del suo senso di giustizia. In un certo senso, la sua volontà di trasgredire la legge mi sconcertò, sebbene il suo giuramento fosse per me un grande sollievo. – Ho visto Filemone – annunciai drammaticamente. Aristotele si limitò ad annuire. – L’avevo indovinato ancor prima di giurare. Non mi capita spesso di comprare pietre nascoste dentro borse di cuoio. In verità, Stefanos, sei troppo trasparente. Ma cos’hai fatto con lui? Raccontai tutto ad Aristotele, be’ quasi tutto. Badavo ancora a selezionare i fatti nell’esporglieli. Ma gli narrai fedelmente l’incontro con Filemone, i dettagli della fuga e del viaggio in Eubea, l’acquisto del cavallo e l’addio. – Veramente magnifico – disse con soddisfazione. – Ti sei mostrato perseverante e pieno di risorse. Mi congratulo con te. Mi sentii arrossire d’orgoglio. – Così adesso il tuo caro cugino che, devo dire, mi sembra piuttosto spericolato e imprudente, è lontano da Atene e sta viaggiando per raggiungere sua moglie e il bambino. L’unico inconveniente mi sembra il fatto che ci hai rimesso un mucchio di soldi, e poi c’è quell’altra piccolezza di esserti esposto a farti arrestare per avere ospitato e assistito un uomo al bando della città, rientrato illegalmente e sotto accusa d’omicidio. Spero per amor tuo che nessuno ti abbia visto. Mi auguro che nessun altro noti l’anomalia del tuo viso abbronzato rispetto alla pelle più chiara sotto la barba. Fa’ attenzione ai dettagli, sono importanti. Ma, d’altra parte, la maggior parte della gente non è molto brava a notare i dettagli. L’idea della cicatrice era buona. – Così mi era sembrata – ammisi. – La cosa più strana di te, Stefanos, è che nonostante la borsa vuota, nuove ansietà per la legge, e la salute un po’ scossa, mi sembri felice, addirittura esultante. Come lo spieghi? – Sì! Sì, proprio felice! – risposi spensieratamente. E aggiunsi d’un fiato: – Filemone è innocente! Adesso lo so! Senza dubbio non è lui il colpevole. – Ma, mio caro Stefanos! – Per la prima volta, Aristotele appariva sorpreso. Si alzò e riprese a passeggiare per la stanza. – Pensavo che questa fosse la nostra ipotesi fondamentale, no? Come mai quest’esultanza per qualcosa che dovevamo ritenere scontato? La cosa è veramente interessante. Avanti, su, quando e perché hai cominciato a sospettare che Filemone fosse colpevole? – Mi fissò con i suoi occhi attenti e penetranti. Mi sentii d’un tratto profondamente abbattuto. Mi ero scavato da solo un trabocchetto. Avevo avuto l’astuta pensata di non raccontare ad Aristotele tutta la storia, ma in realtà avevo un immenso desiderio di alleggerirmi la coscienza e ora avrei dovuto confessare tutto. Ma cosa avrebbe pensato lui della mia duplicità? – Oh, Aristotele – mormorai. – Vi ho fatto un gran torto. Questa consapevolezza mi ha tormentato per tutto questo tempo, ma vi scongiuro di ascoltarmi come un supplice… – Feci l’atto di inginocchiarmi. – Lascia perdere le formalità e veniamo al fatto – mi interruppe il filosofo. – In che modo pensi d’aver mancato verso il tuo povero vecchio maestro? – Accettando il vostro aiuto nel far fuggire la donna e il bambino mentre pensavo che Filemone fosse colpevole – risposi decisamente. – Ah! Mi hai ingannato! Mi meraviglio di te, Stefanos… be’, non troppo. Come sei giunto a questa importante conclusione? Quando? L’avevi sempre creduto colpevole? È così? – No, no davvero. Ma poi ho scoperto che Filemone non solo era stato qui nel mese di Boedromione, ma anche che aveva un movente per uccidere. – E che genere di movente? Non il generico piacere di far fuori dei vecchi… o un’abitudine presa in guerra, immagino. – No. Qualcosa che non avreste mai pensato –. Gli spiegai di Boutades e dei vaghi progetti di adozione di cui aveva parlato Nusia; progetti o propositi riguardo a Melissa che ero convinto che ella avesse cercato di nascondere al marito. – E così – conclusi – sapevo, o credevo di sapere allora, che Filemone avesse un movente. La gelosia. Aveva scoperto, così pensavo, che un altro uomo cercava di sottrargli sua moglie e il bambino. E allora era venuto ad Atene a uccidere il seduttore nella sua stessa casa. – Boutades non sembra aver avuto molto successo come seduttore. Se ci fosse riuscito, Melissa non si sarebbe trovata a vivere così poveramente. Ma le tavolette che Nusia menzionava… – Aristotele balzò in piedi all’improvviso. – Stefanos, testa di legno! Che disdetta! A causa delle tue paure e delle tue sciocche deduzioni hai lasciato che quella donna se ne andasse con la prova più importante. La cosa migliore che potessimo avere, se l’avessimo avuta veramente! Grande Atena, manda la saggezza al tuo popolo! E pensare che quelle tavolette probabilmente sono rimaste in casa mia per due giorni. C’è di che sudare dalla rabbia. Mi domando se è possibile recuperarle… ma rimane così poco tempo prima del processo. Solo due decadi e due giorni. No, non credo che si possa sperare di mandarle a prendere. – Non vi darei nulla che possa incriminare Filemone – protestai. – Vi ho già dato troppo: quel frammento che stupidamente vi ho portato, dopo averlo raccolto sul luogo del delitto… e con sopra il nome di Filemone. – Il nome di Filemone? – Aristotele sembrava realmente sbalordito. – Be’… con una «fi»… – Cosa? Sciocco che sei, non è una «fi». Hai la testa troppo piena di Filemone. Non vedi che è… ma lasciamo andare. Quello che ci occorre sono gli scritti in possesso di Melissa. E ora dimmi il resto. Dopo avere concluso che Filemone era colpevole d’omicidio per gelosia, e dopo avermi indotto a usare la mia influenza per far sparire la moglie di un omicida (a quanto supponevi) cos’è che ti ha fatto cambiare idea? Gli dissi dell’indignazione di Filemone alla mia domanda se avesse commesso il delitto, e della sua risposta all’accusa di avere combattuto dalla parte dei Persiani. Quando seppe del comportamento di mio cugino, il filosofo rise. L’idea che fossi stato messo fuori combattimento sembrava divertirlo. Poi, però, aggiunse in tono grave – Quindi, in virtù della parola di uno spaccone che ti mette fuori combattimento sei pronto a credere che sia tutto così limpido e cristallino? Certo, è logico. – Vi sbagliate, – protestai. – Voi non conoscete Filemone, e lui ha fatto un giuramento solenne. Sapeva che lo avrei aiutato fino a spendere l’ultima moneta, addirittura l’ultima goccia di sangue, sia che fosse innocente o che fosse colpevole. Potrà non essere un filosofo, – conclusi – ma è un ragazzo onesto. Dopo aver parlato con lui, non ho avuto bisogno di altre prove. Ma ce ne sono, se volete ascoltarmi ancora. Gli narrai l’incontro di Filemone con Boutades, e come si era svolto. – Così, vedete – conclusi – Filemone non aveva desideri di vendetta. E se fosse stato in cerca di denaro (il che non era) avrebbe fatto meglio a lasciare che Boutades lo adottasse. Se fosse stato adottato, la gente avrebbe potuto dire che era tornato per ucciderlo ed ereditare una fortuna. Ma noi sappiamo che non fu adottato: dunque non era l’erede e non aveva voluto esserlo. – Questo è quanto dici tu – rispose. – Una bella storia, ma senza testimoni. – Be’, forse dei testimoni ci sarebbero, di un certo tipo – risposi pensierosamente. – Filemone ha menzionato degli amici che erano marinai, di un genere un po’ equivoco, temo. Come le lucertole, ha detto. Ad ogni modo, era con loro sul battello diretto ad Egina in quella famosa notte. E così, la difesa della zia Eudossia dopo tutto era giusta, anche se lei non lo sapeva –. Aggiunsi tutti i dettagli, comprese le misteriose istruzioni di Filemone sul come si poteva far giungere un messaggio a quegli strani marinai. Aristotele scosse la testa. – Ti piacerebbe presentare la tua difesa al tribunale con dei testimoni che sono praticamente dei pirati? Con ogni probabilità, le lucertole sparirebbero nella prima fessura libera sul muro e si renderebbero invisibili. Se davvero esistono. – Sono sicuro che esistono. Perché state cercando di accusare Filemone, proprio ora che so che è innocente? Per scuotere la mia fiducia in lui? Nessuno riuscirà più a scuotere la mia fiducia nella sua innocenza, qualsiasi cosa si dirà contro di lui. – Un buon rètore prevede tutte le obiezioni del caso – rispose Aristotele con dolcezza. – Coraggio. Ti sei comportato molto bene con tuo cugino. Non farò più la parte dell’accusatore. Ma non credi di meritare un piccolo castigo per avermi ingannato così sfacciatamente? Oh, quegli scritti! Se solo potessimo metter mano sulle tavolette! Perché non le abbiamo qui? Perché non le hai prese tu, almeno? Dov’erano? No, zitto. Voglio riflettere. Restammo in silenzio per alcuni minuti. Aristotele giocherellava con la parte anteriore d’una corazza di metallo di squisita fattura, con delle scene omeriche incise sopra. Tutt’a un tratto disse: – Io so dove sono nascoste le tavolette. Anche tu lo sai, se ci pensi un momento. – No, – dissi, – non lo so. – Che cosa ti ricorda questa? – tenne la corazza davanti a me. – Una battaglia. – Sì, ma la figura? La scena? – Achille. La guerra di Troia. – Sì, e poi? – Be’, l’Iliade, suppongo. – E cosa ti ricorda l’Iliade? – Omero. L’Odissea. – Esatto. È un esercizio stupido, ma questa figura mi ha aiutato a riflettere. Adesso probabilmente sai dove sono state nascoste le tavolette. – Temo proprio di no – risposi. Mi pareva di essere nuovamente a scuola. – Ma sì che lo sai. Qual era l’oggetto così prezioso per Melissa che si precipitò indietro nella casa in fiamme per portarlo in salvo? – Oh! La tenda di Penelope! – Già. Proprio lei. E quello stesso ricamo con la figura di Penelope, usato come schermo per una porta, avrà avuto dei pesi nel fondo, per impedirgli di fluttuare troppo per la corrente. Le tende usate in questa maniera vengono spesso appesantite con ciottoli o frammenti di argilla cuciti nell’orlo. Ma nel caso nostro, o grande Atena, dea dei telai, perché hai lasciato che quel tessuto ci sfuggisse di mano? Aspetta un momento, però. Mia moglie ha rammendato la tenda mentre Melissa dormiva. Le domanderò se ha notato qualcosa. Uscì in fretta e rimasi solo per un certo tempo, chiedendomi se Aristotele fosse convinto della colpevolezza di Filemone proprio adesso che io ero così sicuro, anzi sapevo con certezza, che era innocente. Sembrava un’ironia del destino. D’un tratto, udii qualcuno che si avvicinava correndo allo studio. Alzai gli occhi stupefatto, ma era il padrone di casa in persona che entrava precipitosamente. Sorrideva, raggiava addirittura. Aveva le mani occupate. – Gli dei ci aiutano, finalmente! – esclamò. – Sia ringraziata la benefica Atena, che ha guidato mia moglie. Guarda! Stese le mani verso di me. Reggeva quattro tavolette, una intera e tre spezzate. Tavolette d’argilla, con delle frasi scritte sopra. – Abbiamo in mano i documenti – dichiarò in tono di trionfo. – Nel rammendare il ricamo, mia moglie ha notato che l’orlo era logoro e insudiciato. Allora ha ritessuto il fondo della tenda e lo ha ricucito, dimenticando però di rimetterci queste. Non pensava che avessero maggior valore dei soliti pesi, ma quando si è resa conto di averli lasciati fuori li ha conservati, nel caso fossero delle lettere. A quest’ora Melissa potrà aver notato che mancano –. Aristotele depose gli oggetti su un tavolino basso e ne mise insieme i pezzi con attenzione. – Ora – annunciò – possiamo leggerli. Li esaminammo per alcuni minuti; ma i miei occhi ansiosi correvano avanti, e sulle prime non riuscivo a capire quanto leggevo. – Ah! – disse Aristotele. – Mi sembra una bozza, non un documento con valore legale. Filemone doveva sapere che un’adozione non è valida senza una apposita cerimonia e dichiarazioni di consenso firmate da entrambe le parti. Melissa può non essere al corrente di queste sottigliezze legali. Vedi, questa è la dichiarazione del proposito di Boutades di adottare Filemone figlio di Likias e farne il proprio erede, e di considerare Likias, figlio di Filemone, come suo nipote, oltre alla concessione di un appannaggio per il mantenimento della moglie. Non sono sicuro che sia tutto qui, ma è probabile che sia completo. E c’è la firma di Boutades in fondo –. La sua espressione si fece solenne. – Capisci cosa significa? – Be’ – risposi – sembra confermare quanto ha detto Filemone. – Proprio così. È una tesi sostenibile in qualsiasi tribunale che un uomo abbia poco da guadagnare uccidendo un generoso padre adottivo prima che l’adozione abbia luogo. Ovviamente – aggiunse con la sua orribile propensione a vedere difetti dappertutto, – queste tavolette potrebbero essere un falso. Supponiamo per esempio che Melissa volesse proteggere Filemone. Ma perché prendersi tanta pena? Se esistevano delle tavolette originali in grado di comprometterlo, perché non distruggere solo quelle? È facile distruggere delle tavolette, non credi? – mi chiese, rivolgendomi un’occhiata penetrante. – Che sistema useresti tu? – Le brucerei – risposi prontamente, – o le ridurrei in polvere. Oppure, il sistema più rapido, le butterei in un fiume o in mare. – Sì. Non è difficile distruggere delle tavolette. O delle pergamene, o dei papiri, come usano in Egitto. Gli unici scritti che possano durare sono quelli incisi sul marmo o sul bronzo, per quanto Ares e Kronos riuscirebbero a distruggere anche quelli. Le parole scritte sono così fragili. Ma noi le conserveremo con cura queste tavolette. M’incarico io di custodirle; è più sicuro, non ti pare? Da quanto mi dice Pitia sullo stato dell’orlo della tenda, questi oggetti vi erano rimasti dentro un bel po’, avevano cominciato a logorare il tessuto e l’orlo non era stato mai ricucito. Anche questo mi assicura che si tratta degli scritti originali, eseguiti non più tardi della scorsa estate. Melissa aveva trovato un ottimo posto per nasconderli, ma non un posto sicuro: le tavolette si sono rotte. – Sì, tenetele voi – dissi. – È più sicuro, sebbene solo gli dei sappiano se e come potrò usarle a nostro vantaggio nel processo. Ma la mia casa molto presto non avrà più un posto dove nascondere nulla; saremo poveri come lo era Melissa, se Euticleide riesce nel suo intento – aggiunsi. Non intendevo piagnucolare sullo stato delle mie finanze, ma l’eccitazione mi aveva sciolto la lingua. – Che cosa ha fatto Euticleide? Gli raccontai la storia del pesante debito e il comportamento di Euticleide; dissi anche ad Aristotele il sospetto che mi era balenato sul conto di lui quel giorno alla fattoria. – E non appena ho cominciato ad odiare quell’uomo e a considerarlo crudele, Filemone mi ha raccontato una strana storia confidatagli da Boutades. La storia di un uomo ricco che aveva quasi ammazzato di botte una schiava, appartenente ad una buona famiglia che abitava nei pressi di Megara. Quest’uomo aveva dovuto risarcire la famiglia, e Boutades gli aveva prestato del denaro che non gli era stato restituito. – E tu credi che quest’uomo fosse Euticleide? – Mi sembra abbastanza crudele da esserne capace – e raccontai ad Aristotele del comportamento crudele di Euticleide nei confronti del mio povero schiavo. – Interessante – commentò. – Supponendo per adesso che tanto la storia di Filemone quanto quella di Boutades siano vere, quello che mi hai detto vale tanto per Boutades quanto per l’altro uomo. – In che senso? – Perché Boutades ha usato tanta cura nel proteggere il suo amico? Al punto di non menzionare il debito nemmeno nel suo testamento? Io me lo ricordo abbastanza bene, e non c’era nulla che vi facesse riferimento nemmeno nell’elenco delle sue proprietà. Non c’era nessuna frase del tipo «Assicuratevi che A o B paghi il restante numero di dracme per un debito che sa lui». Non rimane che da pensare che Boutades stesso fosse presente all’aggressione, se la sua storia è vera. Quindi avrebbe usato tutta quella cura perché non se ne sapesse nulla e la cosa non avesse conseguenze su di lui –. Sospirò. – No, a essere sincero, non ce lo vedo Boutades a fare il violento; ma avrebbe potuto essere ubriaco e in compagnia dell’altro uomo, anche lui ubriaco. O magari avrebbe potuto incoraggiare qualcun altro a comportarsi brutalmente. A quanto pare era ben informato sulla faccenda. Prestare denaro al colpevole gli avrebbe consentito di averlo in pugno, di chiunque si trattasse. Il potere è una cosa piacevole. E anche il denaro, e noi sappiamo che Boutades lo considerava molto piacevole, soprattutto man mano che invecchiava. Supponiamo che l’altro uomo dovesse pagare Boutades regolarmente, e per un ammontare superiore al suo debito. Pagare Boutades per il suo potere, il suo potere di parlare o di mantenere il silenzio. – Be’, se fosse andata veramente così – osservai, – l’uomo di Megara non avrebbe potuto essere Euticleide. Lui e Boutades erano ottimi amici. – Oh, quanto sei ingenuo – mi derise Aristotele. – La sanguisuga vuole bene al suo ospite. Dopo tutto, un uomo può comportarsi male coi propri nemici perché gli piace, ma allo stesso modo può comportarsi male con gli amici perché gli riesce facile. Normalmente è una cosa terribile essere alla mercé di un’altra persona; e se abbiamo commesso qualcosa di orribile, chi è messo a parte del segreto ci terrorizza minacciandoci di tradirci. Se Boutades ha raccontato questa storia a Filemone, è probabile che fosse compiaciuto del proprio potere e volesse spiattellare tutto a qualcuno, anche se magari non fino in fondo. – Non credete – insistetti, – che possa essere stato Euticleide a compiere quella cosa orribile? Ammazzare di botte, o quasi, la schiava? – Quasi tutti gli uomini sono dei potenziali assassini. Tuttavia, ognuno lo è secondo la sua natura. Alcuni sostenevano che tuo cugino Filemone fosse un assassino prima di essere condannato all’esilio. – Ma quello fu omicidio colposo, durante un combattimento leale. – Giusto. Tuo cugino è il tipo di campione coraggioso che sfida sempre gli altri a usare i pugni. Un modo di pensare da giovanotto, un delitto da giovanotto. Mi auguro che viva abbastanza da diventare vecchio e cambiare modo di pensare. Quest’altro delitto a Megara sembra più il crimine di un uomo giovane che quello di uno avanti negli anni. Un colpo di testa, un delitto passionale, un genere di passione particolare, può darsi. – Quindi non credete che Euticleide… – Non dico questo. Non dico che debba essere stato per forza un giovane, ma potrebbe essere stato un uomo con un carattere troppo giovanile per la sua età. Normalmente gli uomini si comportano male con gli altri ogniqualvolta ne abbiano la possibilità, per rabbia o per avidità. Ma queste cose variano da uomo a uomo. Boutades non dev’essere stato un tipo facile a menare le mani. Le risse da taverna non gli si addicevano. Gli piaceva far pesare il proprio potere, ma solo se considerava la cosa senza rischi. – Ed Euticleide? – Euticleide ama far sentire la sua forza, come tu hai motivo di sapere. A proposito, non preoccuparti troppo per il denaro. Penso che possiamo trovare un compratore per la tua piccola vigna –. Aristotele agitò una mano per tagliar corto ai miei imbarazzati ringraziamenti e proseguì. – Euticleide è un uomo molto più sanguigno di Boutades. È rigidamente controllato, eccetto quando considera più saggio non esserlo, ma nutre delle forti passioni, ad esempio, la smania di far sentire la propria autorità. Guardati da lui, Stefanos. Non mettertelo contro. Euticleide si ritiene un uomo fortunato. Il sentirsi fortunati incoraggia una sola virtù: la gratitudine agli dei. Il fortunato, o colui che si ritiene tale, intraprende le imprese più rischiose, buone o cattive, con la sicurezza del successo. D’altra parte, esistono anche falliti recidivi che si autoconvincono di aver avuto successo, una volta tanto, in un’impresa sconsiderata grazie a ciò che per propria convenienza interpretano come fortuna. Ma essendo disperato, lo sfortunato può anche aver usato più audacia del solito. In generale, invece, il fortunato che ha agito razionalmente attribuisce la propria fortuna alla razionalità. Nell’intraprendere un’impresa audace, la pianifica in ogni dettaglio, persino con temerarietà, mentre con ogni probabilità lo sfortunato (mi riferisco sempre alla visione soggettiva della fortuna) non si fida della ragione e agisce in base a un impulso improvviso. Gli appetiti possono anche essere gli stessi (brama di potere, denaro, sesso, vendetta), ma il modo di agire è diverso. L’età dell’uomo, la sua posizione, le sue convinzioni sulla propria fortuna determinano le sue azioni. Vedi, Stefanos, se consideriamo un delitto abbastanza a lungo e con la necessaria attenzione, finiamo col vederne trasparire la personalità del criminale. – Suppongo che sia così – risposi educatamente. Non potevo fare a meno di pensare che Aristotele, con tutte le sue digressioni, stava eludendo un punto di capitale importanza. In questo momento rifiutava di affrontare direttamente la possibilità che Euticleide fosse l’assassino, pur essendosi spinto al punto di ipotizzare che Euticleide potesse essere stato prosciugato del suo denaro da Boutades. Neppure io volevo pensare ad Euticleide, ma l’idea non mi dava pace. Rabbrividii. Lui mi guardò con aria benevola. – Va’ a casa, e bevi tutte le tisane che le brave donne di casa tua ti prepareranno. Quanto a me, sai cosa intendo fare domani? Nel pomeriggio devo tenere una conferenza, ma alla mattina… penso che farò una visita a qualcuno che non sarà in casa. O per lo meno, mi assicurerò che non sia in casa all’ora che ci andrò. È strano, non ti pare? Ci capisci qualcosa? – No – risposi con tutta sincerità, e tossii. – Ti sei affaticato mentre avevi la febbre. È uno stato ben noto in medicina per i suoi effetti sul cervello. La mente diventa ottusa e istupidita, o al contrario stimolata e iperattiva? Ho dimenticato quale sia la risposta giusta. E mi rivolse un sorriso furbescamente innocente. XVII Aristotele organizza un viaggio La mattina dopo, con il pensiero del debito incombente su di me, mi misi in azione per vendere alcune delle nostre cose più preziose. Mi fece male al cuore prendere il piccolo assortimento di gioielli di mia madre, i suoi bei vasi da unguenti e il migliore dei suoi vassoi dipinti. Ero contento che mio padre non fosse lì a vedere suo figlio depredare l’amata madre. Con questo spiacevole compito raggiunsi, se non altro, il mio scopo di raccogliere un po’ del denaro reclamato da Euticleide. Sia ringraziato Ermete, che negli ultimi tempi avevo pregato con la stessa devozione di un mercante o di un ladro. Nel pomeriggio, andai ad una delle speciali conferenze tenute da Aristotele, a cui il pubblico poteva accedere pagando una certa quota. Lo feci, in parte, nella speranza di poterlo vedere da solo più tardi, e sentire la spiegazione delle sue misteriose parole della sera prima. A chi era andato a far visita? Perché era andato a cercare uno che non si trovava in casa? Inoltre, assistere alla conferenza nei miei abiti migliori e pagare la mia quota mi pareva un modo di riaffermarmi come uomo di cultura, dopo l’umiliante esperienza del mattino. La società ateniese non doveva sapere della mia povertà, delle mie preoccupazioni. Al processo nell’Areopago intendevo presentarmi come un cittadino di buona reputazione, capace di imporre rispetto. Ma, nonostante la mia aria di pensosa concentrazione, non ero in grado di godermi molto la conferenza. Aristotele sembrava molto distante: l’uomo pubblico e il filosofo interamente assorbito dal suo discorso. Tenne la conferenza come al solito, parlando rapidamente, con gli occhi accesi dall’interesse, e facendo nel frattempo agili gesti che solo chi prestava attenzione era in grado di seguire. L’argomento era la Commedia. Sono sicuro che le sue osservazioni fossero interessanti e originali, e che la varietà degli esempi addotti fosse veramente eccezionale, ma continuavo a perdere il filo del discorso. Cercai di prendere appunti, ma vi rinunciai ben presto. (Per fortuna questa conferenza faceva parte di un ciclo successivamente trascritto e conservato per i posteri). La Commedia non era il soggetto più adatto per me quel giorno. Alla fine, mi unii al piccolo gruppo che circondava il maestro. Lui parlava ancora, rispondendo alle obiezioni fatte dagli ascoltatori più attenti, paragonando la commedia moderna con l’antica, discutendo i rispettivi meriti d’Assionico e d’Antifane, a paragone con Aristofane. Solo quando il gruppetto cominciò a diradarsi si degnò di accorgersi di me. – A proposito di quella spada, Stefanos, figlio di Nichiarco, desidero farti un paio di domande. Se vuoi essere così gentile… La mia storia delle armi, sapete – spiegò agli studiosi rimasti. – Rimani anche tu, Eubolo, per quelle notizie sull’armatura del tuo bisnonno usata nelle guerre contro Sparta. Ci condusse entrambi in casa sua, ed ebbe prima un lungo colloquio con Eubolo, senza fare molta attenzione a me. Solo dopo che Eubolo se ne andò, lusingato dall’attenzione dimostrata per la sua famiglia e le sue armi, ebbi modo di parlare al maestro. – Ti ho visto fra il pubblico – mi disse. – Cosa te ne è parso? – Della conferenza? Oh… molto bella – risposi educatamente. – Povero Stefanos. Non hai tempo per le commedie. Senza dubbio ti interessa di più la mia visita di questa mattina. Ho qualcosa da mostrarti… – Scusate, signore – disse uno schiavo affacciandosi sulla porta – c’è un’altra persona che vuole vedervi. Ha delle armi da vendere. Dice che non può aspettare. – Fallo passare, allora – rispose Aristotele guardandomi con un’espressione di scusa. Entrò un uomo che riconobbi. Era uno dei marinai che avevo sentito discorrere nella taverna del Pireo vari mesi prima. Era il capitano. I suoi occhi mi sfiorarono senza riconoscermi. Poi si volse ad Aristotele. – Chiedo scusa, signore, per avervi interrotto. Ma ho questo arnese da vendere, e ho sentito che state raccogliendo armi per farci sopra un libro e aiutare l’esercito. Al contrario dell’odioso fabbro, quest’uomo non aveva oggetti nascosti dentro una borsa. L’oggetto che intendeva vendere era sotto i nostri occhi. – Ah! – disse Aristotele. – Un arco. L’uomo lo depose sulla tavola. Io ne detestavo la vista, ma Aristotele no. – E in buone condizioni anche – seguitò il mio maestro. – Ha ancora la sua corda, e non è allentata. Come ne siete venuto in possesso? – L’ho avuto da un amico, eccellenza, marinaio come me, che l’aveva avuto da un reduce. Un oggetto non comune, vero? È vostro per cinque dracme. – Suppongo – disse Aristotele seccamente – che vogliate venderlo perché vostra moglie e i vostri figli sono in difficoltà, altrimenti non vorreste separarvi da un oggetto così antico e prezioso. – Non direi, signore. Non mi trovo in difficoltà. Mia moglie è morta, che sia benedetta, e i miei figli sono adulti e capaci di provvedere a loro stessi, a parte la femmina. Pensavo che poteste avere bisogno di una cosa del genere e, be’, cosa me ne faccio io di un arco? Sto solo chiedendo quello che è giusto. – Avete ragione, amico – disse Aristotele. – Sembrate un uomo onesto. Mi dispiace di aver parlato in modo così scortese. Dover mercanteggiare mi ha reso antipatico. Vi pagherò quanto chiedete. Suppongo che non ne abbiate altri. – No, signore –. L’uomo possedeva una certa dignità, e aveva accettato benevolmente le scuse di Aristotele. – A che mi servirebbe collezionare armi? Specie se è vero che la nostra flotta non combatterà per chissà quanto tempo. E se mai mi trovassi in combattimento, il che potrebbe anche accadere prima della fine dei miei giorni, mi augurerei di essere armato di tutto punto come un Ateniese, e non di battermi con uno di quegli arnesi persiani. – Giustissimo – commentò Aristotele. – Sì, avete ragione. Questo è un arco persiano. Non ho molti archi nella mia collezione. Ma visto che sono usati da entrambi gli eserciti mi piacerebbe poterne esaminare degli altri. – Potrei trovarne degli altri, forse – disse il marinaio, dubbiosamente. – Alcuni ne hanno presi dagli arcieri macedoni, vecchi archi e frecce, come ricordi; ma è roba malandata e di poca utilità. Perché non ve ne fate mandare di nuovi dalla Macedonia? Suppongo che gli archi cretesi, non vi interessino. Sono piuttosto scadenti, fabbricati rozzamente. Però sono stati usati in battaglia. – Certo – approvò Aristotele. – Non avete degli archi cretesi da vendermi, per caso? – Nossignore. Potreste provare tra gli equipaggi delle navi granarie. Ma immagino che avrete già esaminato l’arco cretese che appartiene al cittadino Archimeno, l’arconte. – Oh! Archimeno ha un arco cretese? – Certo, signore. O per lo meno l’aveva. Gliel’ha portato la primavera scorsa un marinaio di ritorno da Creta. Vedete, non aveva altro dono da offrire. E si sa che a lui piacciono questi ricordi di guerra. Lo teneva nello stanzone, dove fa i conti e bada ai suoi affari. Io ho avuto, ehm… occasione di fargli visita una volta, e ho visto quell’arco. – Bene, bene, – disse Aristotele – domanderò al cittadino Archimeno se posso averlo in prestito. Mi piacerebbe dargli un’occhiata. Probabilmente non desidera venderlo. Grazie per il vostro aiuto. Tornate ancora se avete qualcos’altro che possa essermi utile. Eccovi il denaro. Aristotele accompagnò il marinaio alla porta molto cerimoniosamente. Quando fummo di nuovo soli, si rivolse a me con occhi brillanti di entusiasmo. – Dobbiamo andare a fondo a questa faccenda, Stefanos. E subito! Non avrò pace finché non l’avrò visto. Un arco cretese! – Sono parole malaugurate per me – dissi, facendo con la mano un gesto di scongiuro contro il malocchio. – Versiamoci da bere e usciamo subito – insistette il mio maestro. Ben presto fummo sulla grande strada che porta in città. Camminavamo molto in fretta. – Io non voglio far visita ad Archimeno. Non voglio neanche vederlo – protestai. – No. È giusto. Non devi entrare con me. Quando saremo vicini a casa sua, tu prosegui e va’ ad aspettarmi fra i tempietti sotto l’Acropoli. Verrò a cercarti appena ho finito con lui. Spero che Archimeno sia in casa! Arrivammo abbastanza presto alla residenza di Archimeno. Abitava presso l’Acropoli, in un bell’edificio, benché non così ricco, né così imponente come le case di Boutades e di Euticleide, nel demo aristocratico sotto il Colle delle Muse. Fui contento di proseguire, non desiderando affatto di sentirmi insultare di nuovo da quell’uomo. Mentre aspettavo, feci delle offerte in parecchi santuari. Quando Aristotele riapparve, mi sorpassò con un cenno quasi impercettibile. Capii che dovevo tenergli dietro senza che ci facessimo vedere a parlare insieme in quella parte così frequentata della città. Si incamminò di buon passo ed io lo seguii verso il tempio incompiuto di Zeus, una reliquia dell’odiata tirannide di Pisistrato. Non eravamo lontani da casa mia. Le erbacce avevano invaso le rovine del tempio rimasto inutilizzato. Nelle vicinanze si trovava un boschetto, che circondava il più modesto tempio di Zeus dove venivano celebrati i sacrifici. Qui Decaulione e Pirra, gli ultimi sopravvissuti dell’umanità, si erano fermati a guardare la piena delle acque che defluiva attraverso un’apertura nelle rocce, e qui avevano lanciato le pietre, tramutatesi in uomini e donne, per ripopolare la nostra meravigliosa terra. Il luogo aveva un’atmosfera pacifica e sacra. Fu in questo tranquillo boschetto che Aristotele si fermò, ed io lo raggiunsi. Non c’era nessuno attorno. – Avete l’arco? – domandai. – No. Nemmeno per idea. Stefanos, quell’uomo è molto strano. Figurati, mi ha insultato! Mi ha detto in faccia che sono un forestiero! – Tutto qui? – domandai imperturbabilmente. – È capace di dire ben altro, credetemi. – Avevo incontrato Archimeno di rado prima di oggi, – mi spiegò Aristotele, – e ci eravamo scambiati le cortesi frasi di circostanza che puoi immaginare. Allora mi era sembrato serio, dignitoso, austero, ed è stato così all’inizio, ma poi! Credo proprio che quest’uomo sia in preda a una profonda angoscia. – Cos’è accaduto? – Mi hanno fatto entrare nella stanza di cui ci aveva parlato il marinaio, quello stanzone. Dopo i soliti convenevoli, ho accennato al mio lavoro, sottolineando il valore patriottico dell’iniziativa, ovviamente. E Archimeno era tutto sorrisi e offerte di aiuto. Poi gli ho detto che speravo che, essendo di ricca e distinta stirpe, potesse avere qualche arma di famiglia da prestarmi, e lui mi ha parlato con grande boria di suo nonno. A proposito, credo che la sua nobile famiglia abbia commesso un errore politico durante il governo dei Trenta, e i discendenti sono ansiosi di cancellarlo. Ciò nondimeno, la nostra conversazione è stata estremamente banale. Poi, però, ho detto di aver sentito che conservava come curiosità un’arma che mi interessava, un arco cretese. Credimi, Stefanos, Archimeno è diventato pallido come un cencio proprio davanti ai miei occhi. – E allora? – Per un momento non ha detto niente. Poi mi ha risposto che non gli pareva di avere niente del genere. Ho ribattuto che ne avevo sentito parlare. Forse avrò esagerato, Stefanos, dandogli l’impressione che me ne avessero accennato in parecchi. E allora lui: «Ah, quel vecchio arnese!». Ed io: «È vero, gli archi di scarsa qualità diventano presto inservibili se non sono tenuti bene. Mi sembra di ricordare che questo fosse tipicamente cretese, con la punta di corno». E Archimeno ha cominciato a borbottare fra sé, cambiando colore. E poi ecco che salta fuori a dire: «Voialtri immigrati! Non so perché vi permettano di entrare! Non siete capaci di stare al vostro posto!». Io mi sono trattenuto dal ribattere, e gli ho semplicemente rammentato il mio dovere verso Alessandro e i servizi che gli ho reso. Allora ha cambiato registro, e con un sorriso tutto ossequioso mi ha detto che avrebbe voluto essermi utile, ma che l’arco era sparito. Gli ho chiesto se l’avesse dato via. E lui, in fretta: «No, è stato rubato qualche tempo fa». Gli ho detto che mi dispiaceva, e lui ha ripetuto che doveva averlo preso uno schiavo, e comunque era un oggetto senza valore. Allora ho detto con aria sbalordita, «Avreste dovuto rimediare. Uno schiavo con un’arma è pericoloso. È contro la legge lasciar passare un simile furto». Messo così alle strette, mi ha detto: «Non so chi l’ha preso; a un certo punto l’estate scorsa è sparito e non ci ho fatto caso». Ed io: «No, infatti, non credo che nella vita di tutti i giorni qui ad Atene vi possa servire un arnese simile». Lui si è rabbuiato e ha borbottato che gli dispiaceva di non poter essermi di maggiore aiuto. Io me ne sono venuto via, ma nell’uscire l’ho udito parlare da solo in un modo molto strano. Con molte imprecazioni. Ma una delle frasi che ho colto nei suoi vaniloqui era: «Quel maledetto arco! Vorrei non averlo mai visto!». Ed ecco tutto – concluse Aristotele. – Ti ho dato un resoconto completo. Adesso giudica tu. Cosa te ne pare? – Mi sembra ovvio, adesso – risposi. – I miei sospetti, i miei primi sospetti, dopo tutto erano fondati. Dev’essere stato Archimeno a uccidere Boutades. Aveva un movente, essendo stato truffato a proposito della nave. Aveva l’arma e poi l’ha distrutta. Ma la punta si è spezzata ed è rimasta sotto la finestra di Boutades. – Che abbia avuto l’arma lo credo anch’io. O almeno l’ha avuta. Credo che il mio piccolo gioco d’azzardo abbia avuto successo. Giocando d’azzardo si può anche vincere. Bisogna pur giocare, se si vuol vincere. – Ma voi non siete un giocatore – dissi, sorpreso. – Non con i dadi o con le pietre, e per denaro. Ma in questo genere di partite al bersaglio ogni tanto faccio centro e vinco il premio. Anzi, uno di questi premi ce l’ho nella manica adesso. È di questo che intendevo parlarti prima che fossimo interrotti da quel bravo marinaio. Guarda! Cosa ti pare di questo? Stese la mano e mi mostrò un frammento di ceramica: una scheggia sottile non più lunga dell’unghia del mio mignolo. – Dimmi un po’ che cos’è. Guardai obbedientemente l’oggetto. – È una scheggia, – dissi – un piccolo frammento di un vaso, suppongo. – Sì. Va bene. E che altro? Cosa ti dice? – I frammenti di ceramica non dicono niente – ribattei con pesante sarcasmo. – Non sono come i rètori. Sanno qual è il loro posto, e cioè tra i rifiuti. Non serve a niente. È troppo piccolo per scriverci sopra una lettera. È semplicemente una piccola scheggia di un vaso, probabilmente un vaso grande, dipinto di rosso e verniciato. – Andiamo. Non noti nient’altro? Di che colore è la terracotta? – Gialla. Piuttosto opaca. Non ha un bel colore, a dire il vero. Ma la vernice rossa ha fatto presa in profondità. – Dunque l’argilla era gialla? – Sì. Credo di sì. Sulle prime credevo che fosse rossa, come di solito. Ma, Aristotele, perché parlare di ceramiche adesso che non abbiamo in mano nemmeno un recipiente o un bricco? – Non ne parlerò più per il momento –. Sospirò. – Forse hai ragione. Se sapessi dove sono stato in visita senza essere invitato e mentre il padrone di casa era fuori… e dove mi sono fermato alcuni minuti per scrivere un messaggio! Ma, mio caro, adesso sei stanco, e la tua maggior preoccupazione dev’essere la tua sicurezza. – Diciamo piuttosto il processo – gli rammentai con amarezza. – È questo che non riesco a togliermi dalla mente in questo momento. – Anche al processo pensavo – ribatté. – Non lasciare che i sospetti di oggi condizionino la tua condotta e ti occupino troppo la mente. Mantieni il segreto finché non sarò di ritorno. – Di ritorno? Partite? – Sì, non te l’ho detto? Devo assentarmi inaspettatamente per affari. Parto domattina all’alba. Le mie ricerche sulle armi non mi lasciano respiro. Me ne lamento con tutti. Sì, devo partire. Probabilmente dovrò fare parte del viaggio in battello. Oltre tutto con questo tempo! Vado a sud, giù per l’istmo di Corinto, se non più lontano. Accidenti a chi ha inventato per primo i viaggi in inverno! Sacrifica per me a Poseidone mentre sono via. – Lo farò senz’altro – risposi educatamente. – E spero che farete un buon viaggio e avrete successo nei vostri affari –. Dentro di me, avrei voluto rimproverarlo perché mi abbandonava, il che era sciocco, poiché non era responsabile per me, e in ogni caso cos’avrebbe potuto fare? – Sarò di ritorno prima del processo, naturalmente – disse Aristotele. – Se la cosa ti può confortare, Stefanos, ti aiuterò a preparare le tue arringhe. – Cosa dovrei fare, ora? Come devo comportarmi con Archimeno? – Non fare nulla, Stefanos. Lo dico sul serio. Sta’ alla larga da Archimeno. Ti prego di essere prudente. Non accettare doni. E non uscire da solo se puoi farne a meno, specialmente di notte. Evita i luoghi solitari. Ricordati la sorte dello schiavo Sinopeo. – Quello che scivolò in un dirupo tra le colline del Parnete? – Quello la cui testa si scontrò con un oggetto duro sulle colline del Parnete vorrai dire. Ricordati l’importantissima lezione del nostro allegro mercante di pietre. Tenersi a distanza non basta a garantire una totale sicurezza. In realtà sarai al sicuro solo dopo il processo. – Allora – dissi cupamente – dovrò starmene in casa come una donna a far niente? E il mio povero cugino? – Be’ – disse Aristotele con cautela – potresti seguire il suo suggerimento e cercare di far giungere un messaggio ai suoi pirateschi compagni, anche se io aspetterei un po’. Se uno di loro fosse disposto a giurare che Filemone era diretto a Egina al momento del delitto, potrebbe esserci utile… nel caso che la faccenda si mettesse proprio male. Ma io spero in un esito migliore. Come vedi, Stefanos, stiamo avvicinandoci al successo finalmente! Rivolgiamo le nostre preghiere al padre Zeus in questo tempio. Pregammo in quel piccolo tempio e ci separammo. Le statue rimaste senza vernice e le colonne crollate del tempio abbandonato splendettero candide e desolate quando vi passammo accanto. Quell’edificio senza tetto, così imponente nelle ambizioni di chi lo aveva concepito e ormai così diroccato e mutilato, mi parve il simbolo più adatto a rappresentare la tesi della mia difesa in questo processo. XVIII Pericolo e rischio di morte Aristotele se ne andava, anzi, doveva essersene già andato. Questo fu il pensiero con cui mi svegliai la mattina dopo. Avrei dovuto occuparmi da solo dei preparativi per il processo. Decisi di mettermi in cerca del misterioso Simonide, il vasaio di cui Filemone mi aveva parlato, e tentare di far giungere un messaggio per suo tramite a uno dei loschi ma utili naviganti. Se fossi riuscito a persuadere uno di quei marinai a fare da testimone al processo giurando sull’assenza di Filemone al momento fatale, questo sarebbe stato pur sempre qualcosa. Da quanto mi aveva detto Filemone, sapevo che la bottega di Simonide era lontano dal mercato, sulla strada che conduce alla Porta Acarniana, in una zona piena di piccoli e modesti opifici. Trovai infatti senza difficoltà la bottega. Fu facile riconoscerla, perché sul bancone di legno pieno di crepe qualche analfabeta aveva scarabocchiato col carbone una figura oscena e anatomicamente ambigua, aggiungendo a mo’ di didascalia, «a Simonide gli piace fotere». L’aspetto del padrone della bottega era in stridente contrasto con quest’oscena descrizione: era un uomo esile, dal viso bruno e dall’espressione stizzosa, tutto sudato in mezzo ai suoi vasi. Questa non era certo una grossa fabbrica di ceramica, e aveva un aspetto assai poco attraente. Si vedevano solo un paio di garzoni ad assistere il padrone. Il pavimento era cosparso di vecchi frammenti d’argilla; evidentemente il padrone non era ansioso di aumentare le sue fatiche adoperandosi in grandi pulizie. Il vasellame in vista era abbastanza scadente. C’erano alcuni calici neri di discreta fattura, ma nessuna traccia di bei vasi dipinti. L’intera produzione sembrava consistere di rozze giare da acqua, del tipo robusto usato dalle schiave per andare a prendere acqua dal pozzo, o di larghi recipienti grezzi, del tipo usato dagli uomini per vomitare dopo un banchetto. – Simonide il vasaio? – domandai, pur sapendo che doveva essere proprio lui. – Sissignore – rispose con un misto di rispetto e d’impazienza. Inghiottii la saliva e dissi: – I vasi rossi non erano molto ben riusciti –. Poi aggiunsi, come mi aveva insegnato Filemone: – Bisogna cuocerli nella fase giusta della luna. – Ah, mi dispiace di sapere che non siete soddisfatto. Volete darmi un’altra ordinazione? – Sì – risposi. – Fornitemi di questi, per favore. E gli diedi il messaggio, scarabocchiato su un frammento di brocca rotta, un coccio del tipo usato ordinariamente per scriverci sopra brevi note. Un lato era già stato usato tempo prima per una lista di compere. Sul rovescio avevo scribacchiato il disegno (che speravo somigliasse a ciò che sarebbe dovuto essere) di un albero dai rami piatti, e sotto di esso avevo scritto «Fidippide o Fidia», quest’ultimo abbreviato per mancanza di spazio. Avevo preferito abbreviare Fidia perché il nome Fidippide mi faceva pensare a una persona veloce. Simonide, invece, non mi sembrava affatto una persona veloce. Diede un’occhiata casuale allo scritto e disse: – Una grossa ordinazione è un po’ problematica per noi in questo momento. Potrebbero esserci dei ritardi. Non posso promettere nulla. Magari fra una settimana o due, ma non è sicuro. – Fate quel che potete – risposi, piuttosto abbattuto dalle sue allusioni. Sembrava che Simonide avesse dei dubbi sulla possibilità che i due loschi marinai si facessero vedere. – Un giorno delle prossime due settimane – aggiunsi con fermezza. – E meglio presto che tardi. Si tratta di… una riunione, capite? E avremo bisogno di una grossa provvista. Se non potete servirmi, dovrò rivolgermi altrove. – Io credo che nessun negozio da nessuna parte riuscirebbe a fornirvi un’ordinazione così grossa con così poco preavviso, – rispose Simonide in tono un po’ insolente – ma farò quello che posso… – E seguitò in un tono lamentoso, tipicamente da bottegaio: – Non dipende da me, capite? Come posso prevedere… non sono un indovino. Farò del mio meglio, ma una così grossa consegna viene a costare, signore. Sospirai e posi sul banco il mio denaro, dieci dracme. – Prendete queste come caparra e per l’acquisto del materiale, ma non ci saranno altri versamenti finché non mi avrete consegnato qualcosa, o almeno fatto sapere che l’ordinazione verrà eseguita. – Molto bene. Il vostro nome e indirizzo, signore? Così vi possiamo mandare a dire qualcosa. Borbottai il recapito con riluttanza. Ma se lui o i suoi soci dovevano venire da me privatamente, dovevano per forza conoscere il mio indirizzo. – Benissimo. Penso che ci faremo sentire la prossima settimana. Capisco la necessità di far presto, ma non è un momento molto buono, signore. Ad ogni modo… se proprio vi occorre la merce… Mi scrutava acutamente, tanto da mettermi a disagio. Forse sapeva tutto di me, e magari anche dell’ultima avventura di Filemone. Un personaggio così bizzarro poteva avere delle fonti segrete d’informazione, oscuri ruscelli sotterranei che sgorgavano fuori all’interno della sua sudicia bottega. Simonide gettò con negligenza il mio messaggio tra un mucchio di altre note scarabocchiate su cocci simili, ordinazioni di un’idra o di due anfore e così via, in mezzo alle quali, magari, si trovavano dei messaggi strani come il mio. Annuì con aria altezzosa, quasi a volermi congedare. Ma la sua altezzosità fu comicamente contraddetta dal gesto che compì subito dopo: appoggiò l’indice a un lato del naso, con grande concentrazione, e poi disse, – Benissimo, signore – strizzando gli occhi e accennando un vago sorriso, il primo che gli avessi visto fare, mentre dava due o tre colpetti sul naso, come se stesse convincendolo con dolcezza a fidarsi di lui. La mia visita a Euticleide, in serata, offuscò il resto del giorno. Ci sono cose peggiori dei crucci per il denaro, come già sapevo, e come avrei avuto modo di sapere ancor meglio prima che il giorno finisse. Ma i crucci economici, anche se spregevoli, sono assillanti; averne è come stare seduti su un formicaio o camminare tra le vespe. Mi vestii con cura per quella visita, non volendo apparire né troppo ricco né troppo povero, e mi incamminai attraverso la città verso il ricco demo presso il Colle delle Muse. La maestosa dimora di Euticleide era proprio di fronte alla casa che ancora consideravo come la residenza di Boutades. Sbirciai quel malaugurato edificio, rammentandomi la mattina in cui erano cominciati tutti i nostri guai. Decisi che non mi piaceva granché quel demo, nonostante le case imponenti e l’aria pura delle colline. Fui introdotto nella casa di Euticleide abbastanza sollecitamente, ma il padrone non sembrava aver fretta di vedermi, nonostante la sua insistenza sulla puntualità. Fui lasciato solo in una fredda anticamera piena di spifferi per quasi due ore. Questa esperienza non servì certo a migliorare il mio umore, ma ovviamente dovetti astenermi dal manifestare il mio risentimento. Quando Euticleide si degnò finalmente di ricevermi, capii che si rendeva perfettamente conto di entrambe queste cose, e che ne era compiaciuto. Non mi rivolse nessuna scusa, ma disse soltanto: – Bene, Stefanos, spero che avrai portato il denaro questa volta. – Sì – risposi. – Eccolo –. Non potei trattenermi dall’aggiungere: – Se avessi saputo che sareste stato impegnato così a lungo, sarei venuto più tardi. – Ma allora avresti dovuto fare la strada al buio. Io sono spesso occupato per affari urgenti, come certamente capirai. Il mio tempo è molto prezioso. Mi ricordai di Simonide. Anche lui aveva parlato di problemi di tempo: – Pare che siano tutti molto impegnati di questi tempi – dissi seccamente. – Non che mi sia importato di aspettare – precisai, con un’alterigia che non sentivo. – Posso pensare alla filosofia dovunque mi trovi, e questo mi fa passare il tempo. – Giusto. Dovresti riflettere sulla natura delle virtù, Stefanos, soprattutto della prudenza. La raccomando alla tua attenzione. Anche questo fa parte della filosofia, credo. Tu mi hai consegnato trenta dracme. Soltanto trenta, da aggiungere alle precedenti settanta. Metà del debito. Io sono un uomo occupato e puntiglioso in questioni d’affari, e mi aspetto lo stesso dagli altri. Spero che mi farai avere le restanti cento dracme quanto prima. Diciamo fra tre giorni? – Non posso prometterlo – replicai seccamente. – Dovrò vendere un pezzetto di terra e ci vuole del tempo. – Oh? Siamo al punto di vendere della terra? Spero che tu non stia cercando di vendere dei possedimenti che appartenevano ai tuoi avi, Stefanos. Ricorda che ci sono leggi che lo proibiscono. Sentii la rabbia prendermi alla gola. Conoscevo la legge quanto lui. – Certo – risposi. – Non si tratta di poderi di famiglia. È una vigna isolata, un acquisto di mio padre. – Nichiarco era spesso incauto nelle sue compere. E chi vorrà acquistare una vigna in inverno? Comunque, Stefanos, io non posso aspettare in eterno che tu concluda questa tua transazione immaginaria. Non mi riguarda. Mi devi versare il denaro, qualunque cosa tu decida di fare con i tuoi magri poderi di terra acida. Ad ogni modo, sarò ancora generoso, benché sia contro il mio interesse. Dovrai pagarmi la somma restante più gli interessi. Ti darò altri venti giorni. Arrossii di collera, mio malgrado. Questo significava che avrei dovuto pagarlo il giorno prima del processo! Doveva sapere che avevo abbastanza pensieri per la testa anche senza questo. Lo guardai e compresi che lo sapeva molto bene. Perciò ringhiottii le parole di protesta e mi limitai a rispondere, con la maggior calma possibile: – Sì. Vi pagherò allora. Molte cose possono succedere in venti giorni. O in ventuno. – Giusto. Siamo d’accordo, dunque. Non ti trattengo più. Ci rivedremo quando mi porterai l’ultima rata. La sua sgarberia era incredibile. Non si era nemmeno sentito in dovere di offrirmi una coppa di vino. Come se fossi stato uno schiavo venuto per una commissione; anzi, nelle case della gente perbene gli schiavi venivano accolti meglio. Me ne andai schiumando di rabbia. Poteva darsi che non riuscissi a vendere la vigna, quello era vero. E allora? Nell’imminenza del processo, giornate importanti sarebbero state sciupate in sforzi frenetici per cercare di radunare cento dracme, e sarei andato in tribunale svantaggiato dal peso di umilianti preoccupazioni e abbattuto da pesanti sacrifici. L’intera famiglia avrebbe dovuto vivere in grandi ristrettezze almeno per il resto dell’inverno. Quando uscii da casa di Euticleide, uno strano istinto mi fece andare nella direzione opposta a quella da cui ero venuto. Suppongo che fosse perché non volevo passare di nuovo davanti alla casa di Boutades, ma non mi resi conto della direzione che avevo preso fin quando non mi ritrovai vicino al sentiero che corre su fino alla cima del Colle delle Muse. La cosa non m’infastidì, sebbene fosse ormai buio fitto. Conoscevo benissimo il sentiero. Una volta in cima, dopo aver oltrepassato il tempio, avrei trovato il sentiero per scendere sul versante opposto del colle, e ci sarebbero state di nuovo strade e case. Avevo con me una torcia, accesa al lume del custode di Euticleide, e non vi era nulla di spiacevole nel fare una breve passeggiata su per la piccola altura prima di tornare a casa. Anzi, approfittai dell’occasione per mormorare imprecazioni contro me stesso in mezzo al boschetto e per liberarmi della collera con un’energica passeggiata. Quindi salii in cima al Colle delle Muse. Ma in quell’occasione, per me esso sarebbe stato ben altro che la dimora delle Muse. O dolce Talia, bella Erato, leggiadra Tersicore, come avrete giudicato la profanazione di quella notte? A questo punto, però, faccio dolorosamente appello a Mnemosine perché mi aiuti a ricordare. Camminavo svelto nel furore della collera, accorgendomi appena di quanto mi circondava. A un tratto, mentre ero immerso nelle mie turbolente fantasticherie, mi accorsi che qualcuno camminava alle mie spalle. Mi fermai. Tutto era immobile; si udiva solo il mormorio del vento invernale fra gli alberi. Proseguii, e subito mi sembrò di udire di nuovo dei passi. Non riuscivo a distinguere nulla al di là del cerchio tremolante di luce proiettato dalla mia torcia. Ma d’un tratto mi tornarono in mente delle impressioni già immagazzinate che sul momento il mio cervello non aveva avuto tempo di analizzare, ed esse mi davano la spiacevole notizia che qualcuno mi stava seguendo su per il sentiero, e probabilmente mi aveva seguito appena fuori dal cancello di Euticleide. Troppo tardi mi ricordai l’avvertimento di Aristotele di stare lontano dai luoghi deserti. Perché non avevo portato qualcuno con me? Uno schiavo, magari? Ma la collera e la vergogna per la visita ad Euticleide mi avevano fatto sembrare naturale l’andarci senza accompagnatori. Cos’era accaduto allo schiavo Sinopeo? Com’era morto? Sembrava importante e interessante saperlo. Affrettai il passo quanto potevo, quasi mettendomi a correre, e mi sentii sicuro di essere inseguito. In cima al colle, presso la spianata del tempietto, mi fermai e mi guardai attorno. E allora potei scorgere un’altra torcia. Troppo vicina. La mia torcia indicava all’inseguitore o agli inseguitori dove ero. E se mi avessero scagliato contro qualcosa, magari delle pietre? Ero troppo visibile. D’impulso, scaraventai a terra la mia torcia e la spensi. Adesso ci vedevo molto poco, ma i miei inseguitori ancora meno. Proseguii rapidamente, inconsapevole di dove andassi (verso le rovine del tempio in verità), ma il cammino era difficile, e le radici degli alberi mi ostacolavano. Pensai ironicamente che la cosa che mi riusciva meglio era correre, di certo non la cosa più eroica. Fuggire, correre, scappare: nella mia vita pareva non ci fosse altro che questo. No, dovevo battermi da uomo. Non avrei dovuto preoccuparmi di questo. Che lo volessi o no, stavo per battermi con qualcuno. Perché l’uomo con la torcia stava guadagnando terreno su di me, e mentre si avvicinava capii che non era solo. Dietro di lui si udivano altri passi, di corsa. Mi volsi disperato, addossandomi al tempietto. D’un tratto sentii un gran colpo alla spalla. Distinsi la figura di un uomo che reggeva la torcia, con una brutta faccia bitorzoluta nell’alone di luce, una faccia che non avevo mai visto. Il fatto che non mi conoscesse evidentemente non diminuiva la sua ostilità. Picchiarmi gli sarebbe riuscito ancora più facile. Rammentando la lotta che avevo affrontato qualche tempo prima, ignorai la minaccia del suo braccio destro e feci un balzo verso il sinistro che impugnava la torcia. Lo colpii con tutte e due le mani, gli strappai la torcia e la calpestai. L’uomo mi colpì con un piede mentre ero impegnato in questo, ma io riuscii a colpirlo allo stomaco col mio pugno destro. Adesso eravamo al buio. Qualcosa fischiò nell’aria. Mi scansai a sinistra e sentii il tonfo pesante di un oggetto che andava a sbattere contro il santuario. Un bastone! Ecco cosa doveva essere! Balzai, nell’oscurità, in direzione dell’aggressore, e con mia sorpresa gli afferrai un braccio. Lo piegai all’indietro e sentii un grugnito di dolore e rabbia. Afferrai l’arma, che non riuscivo a vedere ma solo a immaginare, e torsi il polso dell’uomo, facendogli mollare la presa sul randello. Continuò a tentare di colpirmi a calci, ma io ormai avevo capito a cosa mirava, e continuavo a spostare i piedi e le gambe fuori portata. Credo di essere stato più veloce di quanto si aspettasse. Trionfante, riuscii a impadronirmi del bastone. Ma proprio mentre l’impugnavo, qualcuno sopravvenne dall’altro lato e mi assestò un terribile colpo nelle reni. Vacillai con un urlo di dolore, ma non tralasciai di colpire a casaccio con una botta violenta il mio primo assalitore, che mi auguravo fosse ormai disarmato. Lo colsi nel basso ventre, e dovette sentire un male feroce, anche se il mio colpo non fu forte quanto lo sarebbe stato qualche secondo prima che fossi colpito. Poi l’aggressore dietro di me mi afferrò una spalla. Risposi con un calcio, senza colpirlo, ma riuscendo tuttavia a sbilanciarlo per qualche istante. Mi piegai e scrollai la spalla, allentando la sua presa; poi, rigirandomi quanto potevo, diedi al secondo assalitore una bastonata nelle gambe. Lui mi lasciò andare subito, ma scoprii presto che era solo per avere entrambe le braccia libere e sollevare il suo randello sopra la testa per abbatterlo su di me. Io balzai rapidamente di lato mentre il suo randello discendeva, e lo martellai sul fianco mentre il suo bastone non trovava che il vuoto. Menai ancora due colpi, di cui almeno uno dovette andare violentemente a segno sul collo 0 sulla testa di questo secondo uomo, perché udii un gemito; poi lo sconosciuto si accasciò a terra e rimase immobile. Tutto ciò si era svolto molto in fretta. Fino a quel punto me l’ero cavata abbastanza bene. Avevo disarmato un assalitore e ferito seriamente (o così speravo) l’altro. L’inizio della lotta era durato solo pochi secondi, ma ancora non conoscevo il numero dei miei nemici. Perché in quel momento un altro uomo, col solito randello (avrebbero potuto provare tutti e tre a impersonare Eracle), balzò verso di me e abbatté con forza il suo bastone di legno sul mio avambraccio destro, producendo un sibilo nell’aria. Se mi avesse colpito il gomito, cosa che non avvenne per un pelo, credo che non sarei mai riuscito a scrivere questa storia. Sul momento mi parve che il braccio mi si fosse spezzato. Con un grido di dolore lasciai cadere il mio bastone, ma ebbi abbastanza presenza di spirito da spingerlo al buio con un calcio, proprio mentre il primo uomo, a cui l’avevo preso, mi afferrava alle caviglie, facendomi piombare a terra. Il suo compagno, l’ultimo arrivato che mi aveva appena disarmato, mi colpì due volte nel ventre con il suo corto randello. Sapevo che per fare questo aveva dovuto piegarsi, per capire dove si trovava approssimativamente il mio corpo. Così, non appena quello che mi aveva afferrato mi lasciò andare per colpirmi a sua volta, inarcai il corpo, scalciando con tutte le mie forze verso l’addome di chi mi stava sopra. L’uomo indietreggiò barcollando, e io balzai in piedi e mi misi a correre, o meglio a zoppicare, lontano dal tempietto, dirigendomi alla cieca verso il pendio. Ma dopo questa lotta il mio respiro affannoso avrebbe indicato a chiunque dov’ero, se non fossero bastati i miei passi a tradirmi. Presto mi furono addosso di nuovo, e di nuovo fui colpito alla schiena. Caddi in ginocchio. Ma mentre uno degli assalitori si portava davanti a me per colpirmi in faccia, gli afferrai una gamba, e piegando la testa come un uccello o un serpente, la morsi selvaggiamente quasi fossi stato un cane. La sua sorpresa fu grande, e così pure la sua rabbia. Gridò al suo compagno, – Maledetto, mi ha morso! – Questi emise versi furiosi e cominciò a colpirmi sul collo con i pugni nudi, a tutta forza. Ci sono dei punti nel collo che fanno un male terribile quando ci si batte sopra. Mi vennero le vertigini. L’uomo riprese a picchiare. Fui colto dalla nausea. Mi rialzai, e quello che avevo morso mi colpì allo stomaco. All’improvviso, e con mia grande sorpresa, vomitai. Suppongo che l’uomo si trovasse proprio in quella direzione. Sentii delle imprecazioni, e poi quello che mi aveva colpito sul collo ricominciò da capo. Fui percosso anche sul viso, ripetutamente: sentivo il sangue colarmi dal naso. Poi il randello fischiò in aria e mi piombò su una guancia. Fu allora che perdetti due grossi denti laterali. I pugni mi grandinavano sul torace, sulla schiena e nella pancia. Tirai dei pugni deboli cercando di tenermi dritto. In un certo senso era strano che non usassero più il randello e rimanessimo a lottare tutti insieme in un groviglio scuro; ma suppongo che quello col randello avesse paura di ferire il suo compagno. Cercai debolmente di estrarre il mio pugnale. È un dono del cielo che non l’abbia trovato, perché se l’avessi fatto, avrebbero potuto facilmente togliermelo e usarlo per finirmi quando ne avessero avuto voglia. Continuarono a picchiarmi energicamente. Erano evidentemente uomini robusti e in perfette condizioni fisiche. Sapevo che stavamo lottando pesantemente e che questo non era affatto uno scherzo. Quest’esercizio coi pugni era solo il preludio. Man mano che mi indebolivo, l’uomo col bastone cominciò a colpirmi senza troppa cautela. Mentre il randello mi percuoteva sulla schiena e sulle spalle, mi resi conto che era irto di chiodi. Sentivo la pelle e la carne lacerarsi. Molto chiaramente, tra la morsa del dolore e la nebbia che mi velava la vista, pensai: «Mi picchiano per buttarmi a terra di nuovo. E allora mi uccideranno. Una volta caduto, non ci sarà più bisogno di essere prudenti col randello. Sarà facile sfondarmi il cranio». Questo pensiero rese lucida una parte del mio cervello tormentato, che ancora si sforzava di fare il suo dovere, e allora mi chiesi mestamente, «Perché me ne sto qui a farmi ammazzare?». Quest’ingenua domanda mi riscosse. Scattai (credo abbastanza lentamente) in mezzo ai due, e cominciai a correre. Credo che fossero colti di sorpresa, perché avevano smesso di aspettarsi una qualche reazione da parte mia. Ovviamente m’inseguirono. Dopo pochi secondi, un colpo di bastone chiodato mi lacerò le natiche e mi azzoppò quasi per sempre (per quanto, se il colpo mi avesse impedito di correre, «per sempre» sarebbe durato circa un minuto in più di vita). Un altro colpo mi colse alla spalla, la stessa che era stata così ferocemente martoriata poco prima. Seguitai a correre, mentre negli occhi mi balenavano lampi e stelle, e mi parve che al di là di queste strane luci vi fosse il buio eterno. Sentivo nella testa un rombo come quello del mare. Grandi onde, tra le quali entro pochi minuti sarei annegato. Rendendomi conto a fatica di quanto accadeva, piombai in mezzo a dei cespugli, e proprio in quel momento ricevetti un nuovo casuale colpo sulla testa. Seguitai a cadere, a cadere, a cadere, rotolando e rimbalzando su cespugli e pietre, e sentendo a ogni sobbalzo uno strazio che mi lacerava i sensi. Poi cessai del tutto di sentire, e le tenebre mi chiusero gli occhi. XIX Pensieri di morte Mi risvegliai all’aurora. Dico «mi risvegliai», ma in realtà non fu niente di simile ad un normale risveglio. Piuttosto, fu come il ritorno in superficie di un uomo quasi affogato. Vedevo poco e male, come se guardassi il mondo attraverso delle fessure. Vedevo pietre taglienti e qualche filo d’erba, e tutto mi appariva mostruosamente grande. Mi sentivo in testa un fragore che m’impediva di vederci chiaramente, e il cranio mi doleva come se stesse per spaccarsi. Richiusi gli occhi e li riaprii poco dopo, cercando di muovermi. Lo sforzo fu così doloroso che desistetti, ripiombando nel torpore. Non so per quanto tempo rimasi così, dormendo e vegliando a brevi intervalli. Le cose si facevano un po’ più chiare ogni volta che riaprivo gli occhi. Sentivo qualcuno che gemeva, e mi resi conto che ero io. Poi riacquistai un po’ di lucidità, e feci un enorme sforzo per accertarmi di non avere ossa rotte. All’inizio mi parve di non riuscire a muovere la gamba sinistra, e fui preso da un’enorme paura; poi scoprii che riuscivo a muoverla, ma mi faceva male. Mentre il chiarore dell’alba aumentava, riuscii ad intravedere rivoli di sangue sulle mie mani e sulla tunica sporca e ridotta a brandelli. Mi tornarono in mente spezzoni di ricordi. Sapevo di essere Stefanos, e non solo un animale ferito e mugolante che emergeva dall’oscurità. Ricordai qualcosa della notte appena trascorsa. Infine, riuscii a raccogliere la forza necessaria per tirarmi su fin quasi a sedere e guardarmi intorno con gli occhi gonfi e velati. Ero vicino al fondo del pendio, in mezzo a una macchia di cespugli sotto una sporgenza di roccia. Piegai la testa con un senso di nausea e riuscii a distinguere sopra di me il crinale del colle. Le tracce della mia caduta erano tuttora visibili nella terra sconvolta e nella vegetazione schiacciata. C’erano anche alcune orme umane a qualche distanza, ma non intorno a me. Pensai confusamente che i miei assalitori dovevano avermi colpito proprio mentre precipitavo giù da una sporgenza del colle; poi, scendendo a cercarmi per una strada più sicura, dovevano aver scorto la mia sagoma immobile e pensato che fossi morto. Dovevo essere rimasto un bel pezzo senza muovermi, né esalare un grido. Fui preso di nuovo da una grande debolezza e ricaddi nell’oblio. Ma poco dopo rinvenni di nuovo, con la sensazione di dover vomitare (avevo in bocca un sapore terribile di sangue incrostato e bile), ma capii che era impossibile; i conati scossero la mia carcassa ferita e mi sentii trapassare le ossa da lame d’acciaio bollenti. Guardando le macchie di sangue mi resi conto che il randello mi aveva lacerato le carni. Il freddo dell’aria notturna doveva aver asciugato rapidamente le mie ferite, il che era un bene, perché così doveva essermi rimasto un po’ di sangue. Quasi ogni parte visibile (e molto era visibile, perché la mia tunica era ridotta a brandelli) era coperta di lividi ed escoriazioni. Durante la notte era piovuto un po’, e intorno a me tutto era umido e fangoso. Capii che non era salutare restarmene seduto lì a riflettere sulle mie ferite. Avevo bisogno di calore, di coperte, di medicine, di ogni genere di soccorso, e dovevo cercare di tornare a casa. Decisi di compiere uno sforzo per farlo. Quella decisione era molto più coraggiosa della mia determinazione a portare Filemone in salvo in Eubea, e comportava molta più fatica. Chi lo consideri facile dovrebbe provare a strisciare giù per il pendio di una collina con il corpo interamente coperto di ferite e la testa confusa, con gli occhi gonfi, pesti e quasi inservibili e le dita intorpidite che rifiutano di far presa. Per la maggior parte del tragitto strisciai sul ventre come un serpente, ma molto più lentamente. Ogni ciottolo che incontravo sul mio cammino mi faceva altrettanto male di un pugno. Quando giunsi in fondo al pendio, mi alzai sulle mani e le ginocchia e arrancai come un bambino. Di tanto in tanto gemevo, lo so, ma non piangevo. Tutte le lacrime che avessi mai potuto versare non avrebbero mai reso giustizia al dolore che provavo. Ogni tanto la sofferenza, il rombo nelle orecchie e la cecità mi sopraffacevano, e mi appiattivo a terra ripiombando nel torpore. Ma ogni volta che riaprivo gli occhi, riprendevo a strisciare un po’ più in là… e ancora un po’ più in là. Infine raggiunsi una strada. Non riuscivo a capire esattamente dove mi trovassi, ma vidi che ero su una strada, e più in basso c’erano delle case. Provai un nuovo terrore: la gente sarebbe potuta uscire dalle case e avrebbe potuto accorgersi di questo essere abbietto e sanguinante che insozzava la sua bella strada, questa creatura animalesca ridotta a brandelli che strisciava su quattro zampe come un rospo. Dietro di me avvertii un rumore di zoccoli. Non riuscivo a girare il capo per guardare, ma lo scalpitio si avvicinava, e torreggianti sopra di me vidi le gambe di un uomo, il suo corpo vestito di lana bruna, le zampe d’un mulo e la sua pancia. Le cose appaiono molto strane viste dal livello stradale, ve lo assicuro. Dominai la mia vergogna e gridai: – Aiuto! – Per lo meno, intendevo gridare; ma la voce fu così debole che l’uomo non mi udì. Gemetti, e provai di nuovo. Questa volta si fermò e abbassò lo sguardo. – Che Atena ci salvi! – Non gli piacevo affatto, era chiaro, e il suo primo impulso fu di proseguire. – Aiuto – ripetei più chiaramente. – Sono un buon cittadino di Atene… sorpreso dai ladri… quasi ucciso. L’uomo si grattò la testa. – Oh – disse piano. E poi: – Come faccio a sapere che non siete voi stesso un ladro? Ho sentito che alcuni attirano nei tranelli i poveri passanti. Io non ho un soldo in tasca, sono lo schiavo d’un uomo povero, che Atena mi aiuti! – Non sono un ladro – balbettai. – Buon cittadino. Portatemi a casa. Ricompensa. Nel nome di Zeus! – L’oscurità tornò a inghiottirmi, ma quando riaprii gli occhi l’uomo era ancora lì. – Mi sembrate un po’ malridotto infatti – ammise. Pensai che non sarebbe mai diventato famoso come medico: questa sua diagnosi mi sembrava assolutamente inadeguata. – Quanto sarà la ricompensa? – Cinque dracme. Sembrava ancora dubbioso. – Dieci! – dissi. Che importava se fossi poi in grado di pagare il debito, o no? – Bene. Che nome? Dov’è la casa? Glielo spiegai, e lui esclamò: – A cavallo, signore! – L’uomo mi afferrò con le sue mani rozze e mi buttò sul dorso del mulo con la stessa delicatezza che avrebbe usato per un sacco di orzo. La mia emicrania non fu certo alleviata dal trovarmi con la testa in giù, ciondoloni sul fianco del mulo. Ci mettemmo in marcia. L’essere sballottato a testa in giù mi provocò un violento senso di nausea prima ancora che il mulo avesse fatto quattro passi, ma ormai non avevo più nulla da vomitare. Il movimento della bestia sotto di me era come una tortura. Il dolore sembrava un elemento, come il mare, e io vi ero immerso. Chiusi gli occhi, e la natura misericordiosa mi fece perdere conoscenza. Quando rinvenni, mi trovai disteso su un giaciglio più morbido che non il dorso d’un mulo, e vi era un volto ansioso, bagnato di lacrime, chino su di me: mia madre. – Oh, è vivo! – gridò. – Parlami, figlio mio! Oh, Stefanos… l’uomo che ti ha portato a casa ha detto che doveva consegnare un morto che abitava qui, e anch’io ti ho creduto morto, figlio mio! Sia ringraziato Zeus! Io chiusi gli occhi; poi li riaprii. – Sto morendo – dissi seccamente e con convinzione, e poi ripiombai nel torpore. Le ore che seguirono, una giornata o due, furono un alternarsi di dolore e sonnolenza, tuttavia qualche parte della mia mente tentava ancora di funzionare. Mentre giacevo così, a volte cosciente pur senza aprire gli occhi, compresi con chiarezza che qualcuno, uno sconosciuto, aveva tentato di eliminarmi. Pensai amaramente e sacrilegamente che avrei desiderato morire. Poi, mentre la ragione ancora lottava, riflettei: «Se sono ancora vivo sono in pericolo», e mi colpì l’idea che l’unica via di salvezza, a parte il morire sul serio, consisteva nel fingermi morto; o se questo non era possibile, nel fingermi moribondo. Chiunque avesse cercato di uccidermi sarebbe rimasto molto deluso apprendendo che respiravo ancora; ma si poteva indurlo ad attendere facendogli credere che il successo fosse semplicemente rimandato di poco. Sì, dovevo fingermi moribondo. Nei primi due 0 tre giorni ci riuscii benissimo, naturalmente, e senza dovermi imporre di recitare una parte. I giorni che seguirono non furono neanch’essi molto difficili, per quanto riguardava la mia finzione. Trascorrere una notte ferito, all’aperto, sul fianco di una collina e sotto la pioggia non è molto salutare, e il raffreddore che pensavo mi fosse passato tornò a manifestarsi in modo terribile, rendendomi la respirazione tanto difficoltosa che temetti di aver contratto una di quelle affezioni maligne dei polmoni che conducono in breve tempo alla tomba. Probabilmente fui affetto da qualcosa del genere, ma in una forma assai meno grave; appresi in seguito di aver avuto una gran febbre e di aver trascorso una notte in delirio. Dal canto mio, posso dire di essere stato tormentato per un certo tempo da orribili incubi, nei quali un borioso Boutades veniva verso di me armato di un randello, che si tramutava poi in un vasetto di una cosa che lui continuava a versarmi in gola finché non ne venivo quasi soffocato. Sì, in quei primi giorni diedi esattamente l’impressione di uno che stia per morire. Anzi, all’inizio ero stato così convincente che in Atene si sparse la voce che ero morto. Il mio nemico così poté godersi una quarantina d’ore di tranquillo compiacimento, prima che si diffondesse la notizia che ero solo gravemente ferito, in seguito a un attacco di predoni, e che si pensava che non sarei sopravvissuto. Dopo sei o sette giorni, la mia parte si fece più difficile: grazie alle devote cure di mia madre, i miei polmoni si stavano sgombrando e il mio corpo si ristabiliva; persino quelle tremende lacerazioni prodotte dai chiodi si andavano cicatrizzando, dopo che mia madre le aveva ricoperte di unguenti per eliminarne i veleni. In un certo senso, man mano che le mie condizioni miglioravano, io mi sentivo peggio, poiché ero quasi sempre cosciente: infatti, invece di arrendermi docilmente al dolore, sentivo l’impulso di lamentarmi. Con grande sforzo di volontà, mi imposi di non aprire bocca, di non muovermi e di seguitare a respingere il cibo, che fino a poco prima non desideravo affatto e che adesso cominciavo ad agognare. Ebbi un visitatore in quei primi giorni, un uomo che insistette per vedermi dicendo che era un amico di Aristotele e aveva faccende importanti da discutere. Era un cittadino di nome Diocle, che vedendomi mi disse di essere venuto per comprare la vigna che, a quanto aveva udito, desideravo vendere. Aveva portato con sé i documenti necessari, e completammo la transazione lì per lì, con me ancora disteso sul mio letto. L’uomo mi lasciò duecentocinquanta dracme in una borsa di cuoio, e per un certo tempo io tenni la somma gelosamente per me, non osando neppure parlarne a mia madre per tema che quella meravigliosa ricchezza svanisse. Non so se una simile vendita sarebbe risultata valida in sede legale, qualora qualcuno avesse voluto contestarla, perché forse non ero ancora del tutto in me all’epoca dell’affare. Il compratore mi appariva mescolato ai fantasmi dei miei sogni febbrili, e in seguito vi furono dei momenti in cui dubitai della sua esistenza. Tutta la faccenda, comunque, fortunatamente apparteneva alla realtà. Le mie condizioni intanto miglioravano, e questo causava delle difficoltà riguardo al mio preteso stato di moribondo. Dovetti confidarmi con mia madre. Con mia sorpresa, mi capì subito quando spiegai che pensavo di essere stato vittima di un attacco ordito dai miei nemici e che sarei stato tuttora in pericolo, se non fosse stata confermata la voce che stavo per morire. Mia madre escogitò addirittura vari modi per protrarre l’inganno. La schiava che mi portava il cibo ritrovava le porzioni quasi intatte; mia madre mi dava poi da mangiare segretamente. Si aggirava nelle stanze della servitù pallida e piangente (le lacrime, in parte, erano di sollievo) e trascorreva il suo tempo in sospiri e lamentele. Gli altri membri della casa e persino mia zia Eudossia mi vedevano solo come una pallida figura avvolta in bende e con gli occhi chiusi che respirava a fatica. Come appresi in seguito, le notizie che circolavano per Atene riguardo alle mie condizioni di salute furono assai convincenti. La schiava che portava i pasti disse a tutte le sue conoscenze al pozzo che il padrone «soffiava come un mantice ed era bianco come la neve». Queste e simili descrizioni si diffusero in tutte le migliori famiglie, e così, tanto nell’agorà come nelle cucine, i rimpianti per la mia morte prematura si mescolavano ai commenti sui terribili eccessi compiuti dai rapinatori. (Sebbene, naturalmente, ci fossero anche dei tipi intransigenti per i quali la mia morte era da interpretarsi come un castigo degli dei contro la nostra famiglia). Frattanto, sul mio giaciglio solitario nella stanza oscurata, avevo modo di riflettere. A mia madre avevo detto che l’attacco era stato tramato contro di me dai miei nemici, e questo era quanto pensavo. Ma chi erano? Ripassai nella mente la mia visita a Euticleide quella sera. Mi aveva forse fatto aspettare di proposito, in modo da assicurarsi che me ne andassi a un momento prestabilito e nell’oscurità? Perché, tra tutti i luoghi malaugurati che potevo scegliere, avevo dichiarato di essere andato a vendere il mio olio proprio a Megara? Che regalo avevo stupidamente fatto ai miei antagonisti quella sera prendendo la strada solitaria del colle! Non pensavo di poter riconoscere gli assalitori, neppure l’uomo dal viso bitorzoluto che avevo intravisto per un momento. Non vi erano notizie di un corpo trovato in cima al colle, perciò l’uomo che avevo scaraventato a terra non doveva aver sofferto troppi danni. Ormai dovevano essere tutti ben lontani o ben nascosti. Mi domandai se fossero già stati pagati 0 se dovessero aspettare il mio funerale. In questo difficile periodo della convalescenza, circa undici giorni dopo l’attacco, ebbi un altro visitatore, uno che certamente non aspettavo. Entrò di forza nella mia camera tra le proteste dei familiari, dicendo che aveva un messaggio da trasmettermi a ogni costo, se respiravo ancora. Lo guardai lievemente sorpreso. Era un uomo robusto dalla carnagione bruna, indurita dalle intemperie; aveva membra muscolose, ma il suo stomaco sporgeva a botticella, come succede alla gente che indulge a bere, e i suoi occhi piccoli somigliavano a delle uova cotte, circondati com’erano da grosse borse. Entrò con aria d’importanza e si fermò accanto al mio letto, con l’aria di uno che aspetta di sentirsi dare il benvenuto. – Ebbene? – domandai. – Da parte di Simonide – disse, con una significativa mossa del capo in direzione dello schiavo di casa. Congedai il domestico e il mio visitatore chiuse la porta. – Chi siete? Che volete? – sussurrai. – Eh, ragazzo mio – attaccò a bassa voce. – Pensavo che sareste stato felice di vedermi. Non è andata come mi aspettavo, o meglio, come vi aspettavate. Mi chiamo Fidippide –. Strizzò gli occhi piccoli e si grattò il petto con un gesto disinvolto. – Oh. Sì, desideravo molto vedervi. Potete… – Piano. Un momento. Fatemi controllare il carico. Con mia grande preoccupazione, afferrò il mio polso nella sua zampa pelosa come se fosse stato un medico; poi mi toccò la fronte. – Non c’è male – borbottò. – Ben calafatato – aggiunse dando un’occhiata alle fasciature. – Adatto a navigare: meglio di quanto pensassi –. Si accomodò familiarmente sull’orlo del letto, e sputò un po’ delle foglie d’alloro che stava masticando. – Bene, figliuolo, ci troviamo nei pasticci, eh? Non è bene lasciare che la pentola sia rimessa al fuoco. No, no. Lasciate fare a me. – Aspettate – dissi. – Forse non avete capito bene. Io non vi ho chiesto di badare alla mia salute… – Ah, – fece lui con aria saggia – non c’è niente come l’aria di mare per rimettersi in salute. Aria pura e distanza curano molti mali. – Ma per cosa credete che vi abbia fatto cercare? – domandai alquanto perplesso. Ammiccò furbescamente. – Be’, volete spedire della merce, no? Il più presto possibile. Si può fare stanotte. Basta fissare il prezzo. – Della merce? – Certo. Un bel sacco di grano da spedire oltre mare, o un carico di pelli da infilare nella stiva. Roba da portare al sicuro, da traslocare in quattro e quattr’otto. – Da traslocare in… – È tutto chiaro come il vostro naso, anche se era più bello prima che ve lo schiacciassero, vero? Avete chiesto di me quando sapevate di correre un grave pericolo. Mi dispiace non avervi potuto aiutare prima che il ferro fosse caldo, ma ora non vorrete mica aspettare che torni il fabbro, vero? Voi volete tagliare la corda, e io posso organizzare tutto, farvi prendere il largo. È più salutare star fuori che dentro casa, come dice chi se ne intende. – Oh – esclamai, comprendendo finalmente. – No, grazie. Non voglio prendere il largo –. (Devo ammettere che per un attimo l’idea mi parve attraente). – Voglio – sussurrai d’un fiato – che mi promettiate di comparire come testimone e giurare che mio cugino Filemone era in viaggio con voi verso Egina in una certa notte… se questa è la verità. Si alzò in fretta. – È la verità, senz’altro, ragazzo mio, ma non è da dire ad alta voce. Non è per affari del genere che sono venuto qui da amico e vi ho offerto il mio aiuto. Niente tribunali per me. Mi fanno male alla salute. – Io posso… ehm… ricompensarvi bene per il disturbo – insistetti. Scosse il capo, con aria dolente. – No. Non voglio presentarmi a una giuria. No, per nessun prezzo. Per quel che riguarda la legge e roba simile, sono una barca che fa acqua. Non si possono dipingere delle assi marce e farle sembrare un trireme, questo è certo. – Per piacere, pensateci – bisbigliai disperatamente. – Non dite subito di no. Potrei ricompensarvi bene. Se vi promettessi l’impunità e una buona reputazione… potrei richiamarvi? – Non posso dire con certezza dove sarò. Non serve cercare d’impressionarmi per poi farmi testimoniare sotto tortura. Me ne vado e non mi troverete più, se non vorrò farmi trovare. – Non voglio farvi del male – ansimai rauco. – Ma pensateci su, vi prego. Non ci perdereste. Voglio dire che sareste risarcito per il tempo perso, mi capite? Strizzò l’occhio, ma la faccia tornò ad aggrondarsi. – Potrei anche pensarci, ma è più probabile di no –. Si avviò alla porta. – Attenzione a non dire niente –. Poi annunciò a voce molto alta: – Presto ci dedicheremo ai vostri vasi, signore – ed uscì. Questa visita mi portò scarso sollievo. Sembrava avessi fatto poco o niente per Filemone. I giorni che seguirono furono malinconici. Una guarigione lenta non è una cosa piacevole. Provavo per me stesso una compassione così profonda che a volte non riuscivo a pensare ad altro, nemmeno a mio cugino. Tuttavia, stavo riprendendomi. E il processo si avvicinava. Il diciassettesimo giorno fui in grado di passeggiare per la stanza per un certo tempo, naturalmente in segreto. E alla sera me ne stavo seduto sulla mia sedia, quando sentii dei passi rapidi dirigersi verso la camera. Mi aspettavo che lo schiavo respingesse gli eventuali visitatori, ma per maggior sicurezza mi ero appena alzato per tornare sul letto a fare la parte del moribondo quando la porta si aprì. E chi vidi entrare, se non Aristotele in persona? – Vengo come tuo medico – annunciò allegramente. – Ho detto di non lasciar entrare nessuno mentre ti visito –. Il suo aspetto vivace sembrava portare un po’ di animazione nella mia monotona prigione. Chiuse la porta. – Vediamo un po’. Uhm, sì, mi sembri un po’ giù –. Rise sommessamente e aggiunse con dolcezza: – Ma non così giù come certa gente vorrebbe, credo. Oh, Stefanos, che pazzo sei stato! Non ti avevo messo in guardia contro i luoghi solitari? Cos’è accaduto, realmente? Bisbigliando per amore di segretezza, gli dissi tutto sul mio piano di «fare il moribondo». – La miglior cosa che potessi pensare – disse – date le circostanze. Lascia che veda le tue ferite –. Quando ebbe finito di esaminarmi, dichiarò che le piaghe si stavano cicatrizzando bene. – A parte il fatto che d’ora in poi sarai uno sfregiato – aggiunse. – Sono rimasto molto male quando sono tornato ad Atene e ho appreso che eri stato assalito da briganti e aspettavi di essere traghettato attraverso lo Stige. È stato rimandato il processo? – No – risposi. – Benissimo! Stefanos, sono sicuro di avere trovato il modo di vincere la nostra causa. Sempre che riusciamo a tenerti in vita per i prossimi quattro giorni. Grazie ad Atena sei quasi ristabilito! Vedi, parte del mio piano dipende dal tuo aiuto. Ho bisogno di te per darmi una mano in una faccenda difficile e pericolosa. È così intimamente connessa con la tua causa che esiterei a chiedere l’appoggio di un altro. E non posso fare tutto da solo, visto che non sono Eracle. – Lo farò, qualunque cosa sia – risposi con entusiasmo. – Aspetta. Ti senti abbastanza bene da uscire di notte e aiutarmi a spostare un oggetto pesante? Ci vorrà un notevole sforzo. – Io mi sento abbastanza bene per fare qualunque cosa ci aiuti a vincere la causa – ribattei. La speranza e la forza mi si erano accresciute per effetto della sua presenza, come se fosse stato Ermete, un messaggero divino venuto ad aiutarmi nel momento del bisogno. – Supponga sia un rischio – borbottò Aristotele appollaiandosi su una sedia. – Ma sarà bene affrontarlo. Con il tuo permesso, aspetterò qui facendo finta di curarti. Manda tutti i domestici a letto. A mezzanotte, una lettiga verrà a prendermi. Ho un valido amico fra le guardie, che mi lascerà uscire dalla porta della città col pretesto di fare un lungo giro per tornare a casa. Ma invece di me, sarai tu che partirai in segreto sulla lettiga, mentre io verrò dietro umilmente a piedi. Nel cuore della notte cominceremo il nostro lavoro clandestino. Poi, penso che sarebbe meglio se tu venissi tranquillamente a casa con me. A tua madre bisognerà dirlo della tua visita a casa mia, ma cerchiamo di nasconderlo a tutti gli altri. Se vengono a scoprirlo… be’, sto semplicemente cercando di curarti con dei rimedi usati in Macedonia, e con le medicine orientali preparate da mia moglie. Ma è meglio se tutti seguitano a pensare che stai morendo pacificamente a casa tua. – Ma… – obiettai. – Cos’è questo strano lavoro che dobbiamo fare? Dove andiamo? – Credo che per adesso non te lo dirò. Non è precisamente piacevole. Non è cosa da ruminarci sopra in anticipo. Rimasi insoddisfatto, ma non c’era altro da fare che fidarsi del maestro. Feci chiamare mia madre, mentre Aristotele attendeva in anticamera come si conviene. Le dissi della progettata visita e della necessità del segreto, ma non il resto del nostro piano. Lei assentì a malincuore, e disse che avrebbe spiegato ai familiari che le medicine lasciate da Aristotele andavano somministrate unicamente da lei nei prossimi giorni. Le diedi da custodire il denaro ricavato dalla vendita della vigna, e le diedi istruzioni di far recapitare a Euticleide la somma che gli era dovuta da parte mia tramite uno schiavo fidato nel giorno stabilito. Poi furono portati i cordiali e le spezie che erano stati ordinati. Aristotele mi fece respirare del balsamo e prendere un po’ di vino caldo. Le ore scorrevano lentamente. – Com’è andato il vostro viaggio? – domandai tanto per far conversazione. – Molto bene, grazie – mi rispose. – È proprio per questo che penso che abbiamo buone probabilità di vincere la tua causa. – Ma allora volete dire… che siete partito per causa mia? – Sì. Principalmente. E ho trovato ciò che cercavo. Sapevo che c’era, ma non ero sicuro di trovarlo. – Non sono un bambino – ribattei, contrariato. – Avanti, raccontatemi. E ditemi anche dove andiamo e cosa dovremo fare. – Le due cose si riducono ad una sola – rispose. – Quindi, per prima cosa risponderò alla seconda domanda. Quello che ti chiedo di fare, Stefanos, è una cosa antipatica da proporre anche a un uomo in buona salute e col morale alto. E ha i suoi rischi. La legge potrebbe non essere d’accordo –. Rise. – Ma tu non sei troppo scrupoloso nell’osservanza della legge quando si tratta di una buona causa, vero? Ora posso ripagarti per lo scherzetto che mi hai fatto qualche tempo fa. – Ditemelo subito – insistetti. – Dove andiamo? Allora me lo disse. Quando appresi dove ci stavamo dirigendo, rabbrividii. Quando mi spiegò quello che dovevamo fare, mi si rizzarono i capelli. E quando mi disse quello che si aspettava di trovare, e perché proprio lì, non trovai nulla da replicare. Mi alzai subito e lo seguii nella notte. XX Al crocevia di Ecate Erano passati molti giorni dalla mia ultima uscita, e l’aria aperta mi parve strana. Ma non ebbi tempo di lagnarmi del freddo della notte, perché Aristotele mi spinse sulla lettiga, che era stretta e scomoda e odorava fortemente di cuoio umido e di vecchia paglia. Non vedevo niente, ma sentivo ogni movimento degli schiavi che mi portavano, e pensavo che avrei dovuto insistere per andare a piedi. Oltre tutto mi sembrava disonorevole viaggiare così, come una nonna vecchia e grassa. Mi sentii sollevato quando Aristotele ordinò al veicolo di fermarsi. – Dovrai camminare ora – disse. – Te la senti, no? – Mi guardò mentre sgusciavo fuori dalla lettiga. Tutti quei giorni di degenza sembravano avermi infiacchito le gambe. Ma lui disse, – Ottimo! – e mi diede da portare una torcia. Ci allontanammo a passo che mi parve svelto, poi, girato un angolo, ci lasciammo dietro gli schiavi e la lettiga. Presso un boschetto, svoltammo di nuovo. – Ho creduto bene non far conoscere neppure ai miei schiavi la nostra destinazione precisa – spiegò Aristotele. Presto capii chiaramente dove eravamo: sulla grande strada per Eleusi, nel punto in cui attraversa il Kerameikos. Proseguimmo da quella parte, mentre Aristotele di tanto in tanto si voltava a guardare se arrivavano altri viandanti. È una strada molto frequentata normalmente; ma in quella fredda notte d’inverno non si vedeva nessuno. Stavamo arrivando al crocicchio delle tre strade: il crocevia di Ecate, Artemide la terribile, dea della morte e dell’oscurità. Sopra di noi brillava il suo pianeta, Febe, la luna nuda e fredda, pallida sorella del caldo sole. Ci avvicinammo al santuario di Ecate, il cui altare buio era illuminato dai raggi lunari. Là, presso quell’incrocio stregato dalla luna e circondato dai morti, era quello il luogo più giusto per rivolgere una preghiera ad Artemide. Pregai fervidamente, e il mio cuore ebbe un sussulto quando pensai che la dea avrebbe potuto non approvare la nostra missione. Questo era il suo mondo, e la notte l’ora a lei sacra. Non avrebbe potuto forse scoccare i suoi divini strali contro di noi tra quelle tenebre fruscianti? Anche il mio compagno stava ancora mormorando le sue orazioni quando ci avviammo per uno dei sentieri che serpeggiano in mezzo alle tombe. Raffiche intermittenti di vento mi facevano rabbrividire, nonostante il tepore del mio caldo mantello. Sopra di noi, in alto, piccole nuvole trascinate dal vento passavano sopra la luna, come navi guidate da un potente faro su una spiaggia. La pancia delle nuvole si faceva d’argento passando sopra la luna e, allo stesso modo, le sagome scure delle stele funerarie mandavano un improvviso bagliore al passaggio delle nostre torce. A poco a poco, ora un monumento, ora un altro si svelavano al nostro sguardo. Intere scene incise nel marmo balenavano con un’apparenza di vita. Qui una testa virile che ci guardava fissi, là un bambino ridente abbracciato dai suoi mesti genitori. Questo giardino di polvere e d’ossa sembrava pieno d’occhi che ci spiavano: mi sentivo attorniato da centinaia di presenze. Se ciò che molti considerano vero lo è realmente e lo spirito intelligente, separato per sempre dal corpo, scende nell’Ade dopo la morte, oh, che orrore dev’essere quella prima visione di tante ombre simili a lui presso le rive dello Stige! Senza dubbio, ogni spirito memore della propria carne e della vita gioiosa rifugge atterrito da tutte le ombre, pur essendo esso stesso diventato tale. La mia mente si perse in queste cupe divagazioni, e così per un po’ mi scordai il motivo per cui ci trovavamo lì. Ma il mio compagno sembrava sereno, come se fosse stato nel suo studio a casa sua, e camminava senza sforzo apparente, sebbene l’aria gelida della notte non dovesse essere piacevole per i suoi reumatismi. A un tratto si fermò, agitando la sua torcia verso un blocco di pietra, che si illuminò di un vivido bagliore. Boutades. La sua faccia mi guardava con aria sprezzante. Sì, erano Boutades e sua moglie, come li avevo visti già una volta, quel giorno in cui la lapide era stata trasportata per le vie. – Qui – disse Aristotele a bassa voce. Infilò la sua torcia ben dritta nella terra, e mi accennò di fare altrettanto. Il vento agitava leggermente le fiamme, quel tanto che bastava a far ondeggiare e tremolare la luce sopra le figure incise, cosicché Boutades sembrava sorridere imbronciato e fare piccole smorfie, come un uomo tormentato da un’indigestione. Fui quasi tentato di ridere. – Al lavoro – disse Aristotele. Buttò indietro il mantello, scoprendo due lunghe sbarre di metallo. Le aveva portate fin lì come uno può portare una spada: fissate alla vita con un pezzo di corda. La mia ammirazione per la sua energia aumentò. Camminare così ingombro non doveva essere stato facile. – Per sollevare pesi – bisbigliò. – E qui c’è qualcosa per scavare –. Mi porse un grosso badile. – Scava! – comandò. Obbedientemente, cominciai a scalzare la terra intorno alla base della lapide. – La terra è già abbastanza smossa – dissi con sorpresa. – Da’ qua – ordinò Aristotele, e afferrato il badile cominciò anche lui a scavare, delicatamente, tastando la base della lapide con le mani. – Sì, è senz’altro piuttosto smossa nel mezzo. No, non c’è bisogno di far leva qui. Proveremo invece sui lati –. Seguitò a scavare per un po’, spostando la terra con precauzione e depositandola in piccoli mucchi. – Ora – disse. – Prova a far forza con la leva lì a sinistra, ed io farò lo stesso a destra –. Poi, quando le sbarre di metallo furono in posizione, comandò: – Forza! Su! Facemmo leva tutti e due insieme. La lapide rimase immobile. Provammo di nuovo a scalzarla. Si mosse lievemente, appena appena. Sentivo il sudore imperlarmi la fronte. – Uff! – esclamò Aristotele guardandosi attorno. Lì vicino c’era una piccola stele in forma di colonna, un po’ trascurata, che s’era rovesciata su un lato. – Ecco – disse lui. – Portiamola qui. Mettila di fronte alla lapide, a poca distanza. La colonnina venne via facilmente dal terreno, ma risultò un carico tutt’altro che da poco: circa il peso di un ragazzo sui quattordici anni direi. Normalmente non ci avrei fatto caso, ma quella notte mi venne il fiato corto. – Siediti – disse Aristotele dopo avermi dato un’occhiata. – E adesso guarda –. Spinse la leva sotto il monumento di Boutades, come prima, ma appoggiando una parte della sbarra di metallo sulla colonna. – Questo dovrebbe rendere le cose più facili. Prova. Ne dubitavo, ma obbedii. Aveva ragione, e quando ci riprovammo tutti e due insieme, la pietra cominciò a cedere, a una pressione molto minore di quella esercitata nei primi sforzi. Boutades e sua moglie avevano l’aria sbalordita mentre incominciavano a dondolare all’indietro; poi svanirono alla nostra vista. La lapide si abbatté lentamente sul terreno con un tonfo sordo. Di fronte a noi ora c’era solo un nero riquadro di terra cimiteriale. Aristotele vi si accovacciò accanto e cominciò a lavorare di badile. – Ecco – disse – dove prima hai trovato la terra smossa, segui quella linea e… ah! Frugò nella terra e ne estrasse qualcosa. – Non usare il badile, scava con le mani. Cominciai a scavare, e fra il terriccio che mi si appiccicava alle dita sentii qualcosa di duro, e raccolsi un frammento sudicio di un vaso rotto. Sistemammo i cocci in un mucchietto ordinato e seguitammo a scavare, come bambini che giocano nella sabbia. I frammenti erano uno vicino all’altro, e dopo un po’ ne formammo un cumulo. A un certo punto non ne trovai più, e Aristotele aveva già cominciato a ripulire con un cencio i nostri reperti. – Guarda – disse, porgendomi un grosso coccio con le dita macchiate di terra. Alla luce della torcia, vidi che era un frammento di ceramica dipinta con parte di una figura, e la figura era di un uomo con un manto di pelli. – Diòniso – spiegò Aristotele da conoscitore. Stava accostando i vari pezzi rapidamente, con la fronte corrugata e l’espressione molto concentrata, e sotto le sue mani si ricomponeva come per magia la scena d’una festa, con il dio Diòniso, un suonatore di flauto e un coro di satiri. – Ancora un pezzo – disse Aristotele, tornando in fretta al riquadro di terra, e scavando furiosamente. – Eccolo! Aggiunse il frammento mancante e la scena fu completa: la parte centrale d’un vaso, ricomposta dai cocci del vaso stesso accomodati in forma di circolo. Al chiarore delle torce, i frammenti di argilla rossa dipinti e verniciati sembravano quasi eseguire una danza gioiosa nei colori del rosso, del nero e del bianco, e nonostante qualche traccia di terra ancora attaccata qua e là, le eleganti figure erano chiaramente visibili. La scena dipinta era l’opera di un grande artista, e creava un vivace contrasto con il tetro mondo che ci circondava. – È magnifico – dissi. Aristotele prese il complimento interamente per sé. – Te l’avevo detto che ci sarebbe stato. Ho potuto arrangiare i pezzi così in fretta perché avevo avuto occasione di studiare questa scena. E anche l’iscrizione alla base è come me l’aspettavo. Distolsi gli occhi dalla brillante decorazione e guardai i cocci opachi che formavano la base. C’era tutta un’iscrizione. Le lettere si distinguevano debolmente alla luce delle torce, ma riuscii a leggere: «Appartengo a Boutades». Un pezzettino risultava ancora mancante, e quando ce lo avessi aggiunto, la parte inferiore della «B» nel nome del possessore sarebbe stata completa. Avevo portato via con me non una «fi» ma parte di una «beta». – Sì – disse Aristotele. – Possiamo unirci l’ultimo frammento. Tutti questi cocci insieme formano un intero; temo, però, che una parte di questo bel lavoro sia svanita per sempre in atomi di polvere. Comunque sia, ne abbiamo a sufficienza. Prenderò questi, per il momento. Raccolse i frammenti con cura e li avvolse in lana grezza; poi infilò l’involto in una borsa di cuoio che portava appesa al collo. – Ora capisco – dissi tristemente. Non provavo alcun senso di trionfo, perché mi rendevo conto vagamente di ciò che tutto questo significava: avrei dovuto affrontare un terribile compito. E il senso dell’omicidio denunciato dai frammenti del vaso era orrendo. Non riuscivo a comprenderlo nemmeno adesso. – Almeno adesso potremo tornare a casa – dissi. – No, non ancora. Prima dobbiamo rimettere tutto in ordine –. Accennò alla lapide rovesciata e cominciò a sistemare i mucchietti di terra dov’erano prima servendosi della pala. Rimettere la pietra al suo posto fu un lavoro duro come lo era stato il rimuoverla; più duro, anzi, perché dovevamo stare bene attenti a ricollocarla esattamente nella posizione originale. Dopo avere risistemato il monumento funebre di Boutades, dovemmo riportare a posto anche la colonnina. Stavolta pesava come un uomo di mezza età dalla corporatura robusta. Poi Aristotele estrasse una spazzola e si diede a ripulire la lapide di Boutades dove aveva toccato la terra. Infine spazzò il terreno intorno alla tomba. – Temo che i segni della nostra presenza resteranno visibili – concluse. – Il terreno è molto duro. Ci vorrebbe un po’ di pioggia. La neve sarebbe meglio, ma temo che non sia il caso d’aspettarsela. – Già che ci siete, potreste ordinare una tempesta o un terremoto – dissi con pesante sarcasmo. – Povero Stefanos. Non ti senti molto bene, vero? Mia moglie avrà del cibo pronto per noi e medicine e vino caldo per te. Sta’ attento a come parli, però. Non bisogna provocare gli dei. Ci incamminammo di nuovo. Aristotele ricusò gentilmente le mie deboli offerte di aiutarlo a portare gli arnesi. Le torce si erano quasi consumate, e si spensero prima che giungessimo al luogo dove la strada di Eleusi lascia il Kerameikos. Proseguimmo piano nell’oscurità. Benché non fossimo restati più di un’ora nel cimitero, mi sentivo più stanco di quanto fossi stato dopo tutto il viaggio con Filemone. Inoltre detestavo quell’oscurità; mi ricordava quell’altra notte buia sul Colle delle Muse, e continuavo a immaginare dei passi che mi inseguivano. Quando ritrovammo gli schiavi, fui persino lieto di rientrare nella lettiga. Mi addormentai quasi immediatamente, ma non fu un sonno tranquillo. Il mio dormiveglia era colorato di rosso, di bianco e di nero in immagini frammentate: la scena infranta della festa che avevamo dissotterrato vicino al crocevia di Ecate. XXI Aristotele maestro di retorica L’indomani stavo male di nuovo, e la pratica medica di Aristotele si rivelò utile, come lui non mancò di far notare. Avrei potuto ribattere che la colpa della mia ricaduta era in parte sua. Non è la cura migliore per gli infermi andarsene in giro nelle notti invernali a spostare lapidi e a depredare cimiteri. Ad ogni modo, non ero dell’umore adatto a discutere. Tutto sembrava remoto e desolato. Vidi che Aristotele era in pensiero per me, e così pure Pitia, o almeno così mi parve, perché continuava a mandarmi delle medicine da prendere. Fra l’altro, delle pozioni orientali che non avevo mai assaggiato prima. Prima di sera mi sentii sollevato e persino in vena di scherzare, e la mattina dopo stavo molto meglio, salvo un leggero dolore in mezzo alla fronte. Fu allora, a tre giorni di distanza dal processo, che Aristotele cominciò a lavorare con me all’esame delle prove. Ci chiudemmo nel suo studio, che ancora presentava tracce della sua collezione d’armi, e ripassammo tutto il materiale insieme. La mia meraviglia cresceva man mano che comprendevo quanto prima non avevo saputo interpretare. Aristotele passeggiava per la stanza dissertando. Io l’interrompevo di tanto in tanto per porgli delle domande o discutere. Era come seguire la prima lezione di geometria correndo a rotta di collo. I concetti sembravano tutti nuovi, la logica irresistibile. Ripassai da solo tutta la difesa diverse volte, finché mi sentii sicuro che l’avevamo preparata nell’ordine migliore e in maniera completa. Discutemmo anche diversi modi di presentarla, a seconda di quello che gli accusatori avrebbero potuto dire. Poi, appena fu stabilito con certezza quali persone dovessero parlare, inviai dei messaggi ai miei testimoni, uno dei quali era già stato convocato da Aristotele. Aristotele stesso spedì dei messaggi a due dei miei testimoni, ma io ignoravo di chi si trattasse. Ero convinto che non avrebbe tentato nulla (ad esempio una trappola) che potesse mettere a rischio la nostra causa all’Areopago. Dal canto mio, mi sentivo soddisfatto, perché sapevo che tutto ciò di cui avevo bisogno era che i testimoni dicessero la verità, nient’altro. Quel giorno di studio accanito ebbe un effetto enormemente tranquillizzante sul mio spirito. Ripetere i fatti e considerarli qualcosa di simile a delle proposizioni matematiche rendeva il mio lavoro simile a un esercizio intellettuale, comprensibile e addirittura piacevole. Ricomponevo insieme i fatti nella mia mente ricavandone un disegno preciso, come Aristotele aveva rimesso insieme i frammenti del vaso. Ora comprendo come alcuni possano prendere gusto a un simile lavoro e farne persino una specie di professione, come alcuni filosofi e studiosi di retorica che passano il tempo a preparare arringhe legali per conto di terzi. Aristotele, naturalmente, non era di quelli che vendono la propria abilità ad accusatori e accusati. Pure, in quest’occasione, mostrò del tutto gratuitamente con quanta bravura era in grado di preparare una difesa, e come era superiore a tutti quei professionisti della retorica i cui famosi sproloqui sono tenuti in tanta ammirazione. Quella sera attaccammo a lavorare sull’aspetto puramente retorico dell’arringa. Aristotele si guardò bene dal fare ciò che sarebbe stato così facile per lui, cioè scrivere tutto un bel discorso e consegnarmelo. No. Era essenzialmente un insegnante, e si applicò a un compito più difficile: estrarre da me stesso la formulazione più appropriata per l’arringa, esattamente come faceva con gli studenti dell’Accademia durante le discussioni. Questo è il compito del vero maestro: dare, per così dire, la parola ai muti. A suo parere, i discorsi scritti da un altro e poi mandati a memoria suonano sempre falsi quando vengono recitati. E cosa può esserci di più disarmonico del sentir parlare un uomo rozzo e goffo con frasi eleganti e ornate, o di udire un pavido oratore usare frasi audaci come un Agamennone che pungoli le sue truppe? Aristotele si sedette di fronte a me ad ascoltare, senza risparmiarmi delle amichevoli critiche. – Hum! – diceva – non mi piace quella frase roboante –. Oppure, – Questa constatazione è zoppicante: hai perso di vista il punto principale –. O addirittura si metteva a ridere, dicendo: – Questo stile a tuoni e fulmini in quel punto suona male; è troppo burrascoso. È più adatto alla giuria d’un tribunale qualunque, che magari si commuoverebbe fino alle lacrime. Ma ricordati che la tua giuria è interamente composta di ex arconti, gli uomini più imperturbabili di Atene. Abbi sempre presente di che tipo è il tuo auditorio. Questa è la prima legge della retorica. In un’occasione commentò: – Questo giro di frasi suona troppo presuntuoso ed astuto. La giuria ha già assistito ad altri processi, e ha già sentito altre volte questo genere di cose. Questa causa è troppo seria; i giurati non avranno voglia di sorridere dei tuoi motti di spirito, e potrebbero pensare che tu stia cercando di celare un punto debole. Usa pure l’arguzia, ma con parsimonia. Schiettezza e moderata passione, ecco cosa serve. Tutto quanto stoni con l’effetto generale è meglio lasciarlo da parte. Ma era anche pronto ad applaudire una frase efficace, un’osservazione acuta o un tono espressivo. Mi insegnò come tenere le mani in modo disinvolto quando non facevo dei gesti. Finché non si è provato a parlare in pubblico, non si sa come le mani possano essere d’imbarazzo. Aveva un occhio critico per ogni tipo di gesto, che fosse adatto o no. Una volta m’interruppe ridacchiando e disse: – Se fai così, hai l’aria di uno che sta abbattendo un albero con un’accetta. – Ebbene – dissi, lasciandomi andare a sedere – mostratemi voi come va fatto. Io sono stanco –. Allora Aristotele si alzò e cominciò a improvvisare un discorso in un tribunale immaginario (una rustica arringa per la restituzione di un catino di bronzo) con una così burbanzosa serietà, un tale sfoggio di belle frasi malamente cucite insieme, e un tale spreco di gesti convulsi che fui ridotto con le lacrime agli occhi per le risate. Poi Aristotele cambiò totalmente di stile, adottando i modi di un pomposo cittadino le cui labbra gorgogliavano di saliva, un uomo incline ad altezzose scrollate di spalle e a bruschi cambiamenti da una posa all’altra. Alla fine del discorso ridevamo tutti e due. L’ilarità mi fece venir la tosse, e sentivo la gola indolenzita. – Mi ritroverò a parlare sotto voce – mi lamentai. – Oppure sarò ridotto a balbettare e a impappinarmi, come Demostene quand’era giovane. – Eccolo qui Demostene – replicò Aristotele, iniziando una terza parodia che ricordo bene, un discorso sulla conservazione delle antiche usanze ateniesi su come lavare i panni. La ricordo ma non la ripeterò, per riguardo a entrambi questi uomini illustri. Penso che Aristotele avesse dell’antipatia verso Demostene, perché questi, grande filosofo ma totalmente sprovvisto d’umorismo, era pronto a credere che solo lui e quelli come lui fossero veri patrioti, e che chiunque dissentisse da lui anche su un solo punto fosse in cuor suo una canaglia. Sì, devo omettere la parodia di Aristotele, anche se non posso fare a meno di osservare che la cosa che trovai più divertente in quel momento, tornando allo stato mentale di uno scolaretto, non fu l’ironia pungente, ma il semplice umorismo di una battuta che Aristotele intercalava di tanto in tanto: – Ehm, perdonatemi se metto in bocca un sassolino –. Alla fine del «discorso di Demostene» sembrava che avesse un’intera spiaggia sotto la lingua. Questa sorta di recita mi risollevò lo spirito, oltre ad ammaestrarmi nel modo più piacevole, perché Aristotele aveva trovato modo di inserire in tutte e tre le arringhe alcune delle mie peggiori affettazioni. Il giorno dopo, cioè quello precedente il processo, potei prendermela più comoda, per riguardo alla mia voce. Quel giorno Aristotele si addossò la parte dell’accusa, parlando in nome di Polignoto e dei suoi testimoni e invitandomi a considerare ciò che avrei detto, o come avrei modificato il mio discorso in vista di questa o quest’altra obiezione. Entrambi eravamo preoccupati della possibilità che l’esposizione della mia difesa fosse interrotta come non pertinente a metà del mio primo discorso o all’inizio del secondo. Vige la regola che tanto l’accusatore quanto l’accusato si attengano rigidamente al punto in questione in tutti e quattro i discorsi. In un processo per omicidio, questa regola esercita una forte pressione sull’accusatore ed è giusta e imparziale nell’impedire che l’accusato venga infangato di accuse generiche, ma nel mio caso ciò poteva rivelarsi inopportuno, per non dire fatale. Le prove che avevo da addurre erano senz’altro di grande rilievo, ma la linea che avrei dovuto seguire era insolita, e la maggior parte di quanto avrei detto non era stato preannunciato in nessuna delle prodicasìe. Se l’araldo suonava il corno e mi interrompeva, ero perduto. Avrei dovuto ripiegare su materiale vecchio e trito. La mia difesa era unica nel suo genere poiché consisteva nel provare chi era stato il vero assassino; ma se non mi si consentiva di farlo, l’accusatore si sarebbe trovato in vantaggio, e Filemone avrebbe potuto esser giudicato colpevole. In quel caso, inoltre, non sarebbe mai stata fatta giustizia, perché Polignoto non avrebbe più cercato di trovare gli assassini di Boutades, e a me, che non ero parente della vittima, non sarebbe mai stato consentito di portare alla luce ciò che sapevo. Discutemmo della spiacevole possibilità che mi fosse impedito di esporre la mia difesa. In quel caso avrei dovuto essere estremamente abile nell’introduzione degli elementi (apparentemente) estranei, intrecciandoli con la difesa ovvia e diretta di Filemone. – Io vedo una strada per impedire l’interruzione – disse Aristotele – o per prevenirla, se preferisci. Anzitutto, siccome nel complesso l’Areopago è un tribunale composto di uomini giusti, la giuria, benché simpatizzi con Boutades e con Polignoto, sentirà di doverti risparmiare ogni inutile censura nei riguardi di Filemone. Se Polignoto chiama il soldato a testimoniare, come hai ragione di credere, la sua deposizione potrebbe sembrare diffamatoria, oppure, anche se risponde al vero, estranea al caso. Un acuto senso di giustizia potrebbe indurre la giuria a interrompere la sua deposizione. Ora, se le cose si mettono in modo da far pensare che il soldato sia messo a tacere, tu devi pregare la corte che gli permetta di continuare. – Continuare? – dissi, sbalordito. – Ma io sarei felice di levarmelo dai piedi. – Sì, d’accordo, ma dopo il brutto viene il bello. Quel che ha detto il soldato non è una prova. Si tratta d’un testimone debole; se sei capace di farlo crollare, puoi gettare il dubbio su tutta la tesi dell’accusa, e nessuna delle identificazioni sembrerà più molto sicura. Inoltre, se domandi alla corte di lasciarlo continuare, e non saltando su aggressivamente ma limitandoti a chiederlo con umiltà, allora farai buona impressione. Apparirai come un uomo che desidera arrivare alla verità. Dopo, potrai legittimamente scalzare la cattiva testimonianza e farla crollare, e usarla come pretesto per introdurre nuovi elementi. (Dobbiamo sperare che Polignoto presenti come testimone il soldato durante il corso del suo primo discorso). Visto che ti sarai attirato delle simpatie mostrando una mentalità aperta, la corte sarà meno propensa a interromperti mentre sviluppi la tua tesi. Se è possibile, fai in modo che non vedano dove vai a parare fino alla fine della tua arringa. Continua a dargli corda, e non annodarla finché non sarà troppo tardi per protestare. La faccenda si presentava difficile. Avrei dovuto essere tanto abile da pensare a tutte quelle cose mentre ero in piedi a parlare, io così poco pratico come oratore che avrei già trovato difficile pronunciarmi nel caso di un furto di pagnotte! – La giuria di sicuro non sarà disposta ad accogliere favorevolmente il mio argomento principale. Io stesso non riuscivo a crederci finché non me l’avete dimostrato al di là d’ogni dubbio. I giudici saranno prevenuti. E inoltre sono molto propensi a dichiarare Filemone colpevole e a farla finita, ne sono sicuro. Dopo tutto, sono della stessa classe ed età di Boutades. – Sì, Stefanos, ma sono anche desiderosi che si faccia giustizia contro il suo assassino. Se tu fai in modo che gli entri in testa un dubbio sulla colpevolezza di Filemone, staranno bene attenti. E non dimenticare che i vecchi dalla barba grigia sono curiosi non meno dei giovani, sebbene richiedano che si dimostri un minimo di ragionevolezza e di riflessione. Tu puoi ridestare il loro interesse. E il sistema migliore è un approccio dignitoso, razionale e naturale per indurli, piano piano, ad accettare un nuovo punto di vista. Ormai, Stefanos, hai imparato queste regole alla perfezione: niente goffaggine, niente false solennità, né espressioni stereotipate. – Come può venirmi tutto naturale se non ho fatto altro che provare e riprovare discorsi e fingermi uno stile? – Ah! Questo è uno dei grandi dilemmi dell’arte retorica. Quello che ci vuole è un’artificiosa mancanza di artificiosità. Niente in pubblico suona più falso degli sforzi naturali per cercare di impressionare gli altri. Un tribunale e una giuria non sono un boschetto e un ruscello mormorante; là bisogna usare una certa intelligenza per scoprire qual è il proprio stile naturale. Prendiamo ad esempio te che non sei addestrato nell’arte della retorica: i tuoi primi impulsi ti porterebbero a un uso eccessivo sia di frasi pompose, sia di balbettii esagitati. Ma tu non sei né pomposo, né balbuziente. No, il miglior modo per apparire naturali si scopre grazie all’artificio. La mattina del processo dovetti farmi svegliare prima dell’alba per essere riportato segretamente a casa mia. Mia madre mi disse che aveva fatto la sua parte, e che pensava che nessuno sapesse dove avevo passato gli ultimi giorni. Aveva anche fatto recapitare il denaro ad Euticleide, secondo le mie istruzioni. Mi vestii dei miei panni migliori, che lei aveva preparati, ma prima insistette per legarmi intorno al torace delle fasce di lana impregnate di grasso per tener lontano il freddo. Accettai anche delle palline di miele, bollite e lasciate indurire per la mia povera gola. La zia Eudossia era pallida e tremante. Mi pose la mano sul braccio. – Farai del tuo meglio per il mio povero figliuolo, lo so – disse. – Oh, Stefanos, salvalo, salvalo! Devi salvarlo –. Mi implorava come se fossi uno straniero che poteva essere 0 no disposto ad esaudirla. Questo mi ferì. Gli dei sapevano che stavo dedicando a quell’intento corpo, anima e beni. Mi incamminai, seguito dalle loro preghiere. Andavo più svelto che potevo, raccogliendo i miei testimoni in vari punti lungo la via. Erano in verità un gruppo eterogeneo. Uno andava avanti in lettiga; gli altri trottavano dietro di me con mantelli e cappucci di semplice lana bruna. Era ormai il tetro mese di Gamelione, il più freddo dell’anno. Il sole splendeva a intermittenza, interrotto da nuvole grigie, ma dava poco calore. Arrivammo all’Areopago. Lo spazio aperto per il processo si trovava là, sulla parte occidentale del colle, e già andava colmandosi di spettatori. Vidi Polignoto farsi avanti col suo seguito di testimoni. Euticleide era uno di loro. Così, dunque, non avrebbe potuto far parte della giuria. Almeno ero contento di non dover più considerare questo testimone dell’accusa come un creditore, anche se Euticleide non sembrava granché contento di vedermi. Lo vidi lanciarmi un’occhiata minacciosa ma non priva di allegria, l’occhiata di un uomo che guardi un noioso insetto infastidito di trovarselo davanti, ma contento di poterlo schiacciare. Polignoto non mi guardò. C’era qualcosa d’irreale nella scena. Mi sentivo come se stessi per assistere a uno spettacolo teatrale. Passò molto tempo senza che accadesse nulla. La folla riempiva tutto lo spazio. Poi arrivarono i giurati. Il rito sacrificale incominciò. Presto tutto fu pronto per i giuramenti. XXII Comincia il processo Polignoto avanzò per primo verso l’altare. Stese la mano sopra le offerte, rappresentate dalle membra sanguinolente di un cinghiale, un ariete e un toro, macellati secondo le norme particolari imposte dal rituale in caso di omicidio. Appariva dignitoso e grave, pur nella sua gioventù e bellezza. Pronunciò il giuramento con voce chiara: – Io, Polignoto, figlio d’Eusebio, vengo qui davanti a questa corte e al cospetto degli dei e accuso Filemone, figlio di Likias di Atene, dell’omicidio di Boutades, pure di Atene. Affermo di essere il nipote dell’assassinato e il parente adulto più prossimo. – Giuro per tutti gli dei, celesti, terrestri e sotterranei, per Atena, protettrice di Atene, per il fuoco e per le acque dello Stige e per queste cose sacre che sono sull’altare che la mia accusa è veritiera, e che Filemone di Atene è l’assassino volontario di Boutades. Vengo a dimostrare a tutti i presenti e a questa giuria che le cose stanno così, e tutto ciò che mi propongo di dire riguarda questo caso soltanto, senza aggiunte che non siano pertinenti. – Se quest’accusa non è veritiera, insieme a tutte le mie dichiarazioni ad essa pertinenti, possa una maledizione discendere sulla mia casa, e la distruzione piombi sulla mia famiglia, mia moglie, la stirpe di mia moglie e i miei figli, e il totale annientamento su di me. Un terribile giuramento, in verità. Poi l’Orcote mi fece un cenno. Era il mio turno di giurare. Temevo che la mano mi tremasse mentre la stendevo sopra l’altare, e che il mio nervosismo fosse attribuito all’intenzione di spergiurare. Cominciai a dire – Io, Stefanos… – e sentii d’avere preso un tono troppo alto. Il mio giuramento era la controparte di quello di Polignoto. Dichiarai che ero il parente più prossimo di Filemone, e il più qualificato a difenderlo, che lui era innocente dell’accusa e lo avrei provato; e infine invocai la distruzione su di me e su quanti mi erano cari, come pure su Filemone e la sua famiglia, se le mie affermazioni erano false. Sulle prime riuscivo soltanto a vedere la carne rossa sopra l’altare, simbolo sanguinante di un omicidio. Poi, sollevando gli occhi, vidi tutta la moltitudine, che si era zittita. Allora mi sentii calmo, perché sapevo che la mia causa era giusta e che potevo giurare con tutta tranquillità sull’innocenza di Filemone. Poi mi sedetti ad ascoltare il primo discorso di Polignoto. Il processo per omicidio si divide in quattro parti. La prima arringa da parte dell’accusatore è seguita da quella del difensore; poi l’accusatore ha nuovamente la parola, e infine l’accusato (o chi lo rappresenta, come nel mio caso) parla per ultimo. Questo sistema dà tutti i giusti vantaggi all’imputato; in verità, la legge di Atene è molto equa. Se l’imputato è colpevole, o se gli pare che per lui il processo si metta male, ha l’opportunità di rinunciare a tenere il suo secondo discorso, e può approfittare di quest’ultima occasione per tentare la fuga da Atene, prima di trovarsi soggetto alle penalità stabilite dalla legge. Nel mio caso, non avrei avuto bisogno di ritirarmi personalmente, perché se la legge si pronunciava contro di noi, sarebbe stato Filemone e non io ad essere condannato… Ma… e se mi fossi espresso in maniera disastrosa? Se ogni cosa fosse andata a rovescio, avrei dovuto ritirarmi prima dell’ultima arringa? Una volta pronunciata anche una sola frase di questa, essa sarebbe stata valida, e io non avrei potuto ritardare in alcun modo l’emissione del verdetto di questo processo. Benché avessi esaminato la mia difesa insieme ad Aristotele, continuavo a chiedermi cosa dire nella mia prima arringa, se fosse più saggio parlare di questa o quell’altra cosa all’inizio o alla fine. Ma con uno sforzo distolsi la mia mente dal problema di ciò che avrei dovuto dire, e mi costrinsi ad ascoltare Polignoto. Egli guardava il suo uditorio con composto dolore, stando elegantemente eretto nella posa caratteristica dell’uomo di nobile famiglia. Appariva imponente come una statua di bronzo, e la sua voce era chiara e incisiva (non aveva bisogno di pillole al miele). Quasi ogni volto tra la folla esprimeva ammirazione e simpatia, mentre l’uditorio si sporgeva in avanti per udire il suo primo discorso di accusa in questo famoso processo di omicidio. – Onorevoli giurati di Atene e nobile pubblico, io Polignoto, vengo davanti a voi nel mio dolore per raccontarvi di un crimine nefando, compiuto da Filemone nella bassezza del suo cuore; quel Filemone che ha privato mio zio della vita volontariamente e nel modo più obbrobrioso. Il modo in cui è avvenuta l’uccisione rende il crimine ancora più grave. Essa è stata segreta come il lavorio di un veleno, ma di gran lunga più sanguinosa; sanguinosa come l’opera di una spada o di un pugnale, ma assai più subdola. Vorrei che la mia lingua non dovesse formulare l’orribile racconto di come Filemone venne di notte e trafisse mio zio, con una freccia, da una finestra, mentre sedeva pacificamente nel suo studio. Con la sua malvagità, straziò a tal punto il cuore di Boutades da farne uscire tutta la linfa vitale. Fui io che lo trovai, disteso sul pavimento con una freccia nella gola, morto o morente. Seguì poi una relazione di come Polignoto fosse entrato nella stanza, svegliato da un rumore sul far dell’alba; come avesse rinvenuto il cadavere e poi visto qualcuno al di là della finestra; come l’avesse rincorso nel giardino e poi avesse visto il fuggitivo saltare al di là del muro. – A questo punto chiamo l’egregio Telemone di Atene come testimone. Telemone si presentò. Il vecchio Gambacorta era tirato a lucido e appariva in gran forma. Giurò solennemente che l’accusato, Filemone, era colpevole. Poi ripeté più o meno quanto aveva detto prima alla prodicasìa, affermando di aver visto e identificato l’assassino. – Proprio così – disse Polignoto. – Io ritornai in casa e venne Euticleide, in compagnia di alcuni altri. Vi dirà egli stesso quello che vide. Chiamo l’egregio Euticleide di Atene come testimone. Anche Euticleide giurò che l’accusa era rispondente al vero e che Filemone era colpevole. Diede una completa e commossa descrizione di come gli era apparso il cadavere di Boutades. – Uno spettacolo pietoso, signori, il suo corpo giaceva là dove era stato abbattuto. Si poteva tirare una linea retta dalla finestra al luogo dove si trovava prima di cadere colpito a morte. Una cosa orribile a vedersi, signori. Sangue dappertutto, i capelli raggrumati. Mi scoccò un’occhiata ostile, come se accusasse me personalmente di aver abbattuto il suo collega ex arconte. – Non mi fu detto nulla sul momento a proposito dell’assassino, perché in quell’istante il parente più prossimo di questi si trovava molto stranamente nella stanza. Ma subito dopo Polignoto mi disse che l’assassino era Filemone. Euticleide appariva molto imponente. Le facce dei giurati sembravano dire: «È uno di noi, uno di cui ci si può fidare». – Finora, signori, – riprese Polignoto – si è parlato solo di quello che ho visto e di quello che altri hanno visto. Nessuno nega che Boutades sia stato ucciso da una freccia scoccata da un arco. Si tratta, come questo oggetto dimostra – ed esibì la punta di corno dell’arco – di una freccia scoccata da un arco cretese. Questo fu trovato fuori dalla finestra. Ma mi si obietterà con una certa fondatezza che la luce non era molto chiara, che ho visto l’assassino solo di sfuggita come anche Telemone, e che non ci si può fidare della nostra vista. Vi darò allora maggiori prove che l’assassino, il malvagio che ha perpetrato quest’azione cruenta è Filemone. Perdonatemi, signori, se mi lascio travolgere dall’emozione. Non è una morte ordinaria quella di cui parliamo, e Boutades, ricordatevi, era per me come un padre. O ombra corrucciata! Guarda il tuo vendicatore! – Distese il braccio. La folla era col fiato sospeso. Poi Polignoto riprese il controllo e seguitò: – Porteremo ora delle prove più consistenti che è stato Filemone, un uomo già una volta esiliato per omicidio e pieno di rancore e di furore, a compiere questo delitto. La difesa sosterrà che non può essere stato lui, dato che era in esilio. Sciocca obiezione! Non è mai capitato che degli esiliati rientrassero clandestinamente? Dimostreremo che Filemone rientrò in Atene contro la legge. Inoltre, vi riveleremo che razza di vita conduceva, che razza di uomo era e perché fosse inevitabile il suo ritorno per fare ciò che fece. L’araldo non interruppe Polignoto. Nessuno mise in dubbio la pertinenza della testimonianza che stava per essere resa. Io ero il più interessato di tutti, e non vedevo l’ora di sentire cosa avrebbe detto il mio avversario. Avrebbe forse rivelato inaspettatamente la notizia del matrimonio di Filemone? O magari avrebbe fatto un resoconto distorto dei suoi rapporti con Boutades? – Chiamo Sosibio di Atene come testimone. Costui era il veterano, che si fece avanti tutto vispo e spavaldo. Mi sbirciò piuttosto nervosamente, ma rifece il suo racconto come l’aveva fatto alla prodicasìa. Quando arrivò alla battaglia sulle rive del fiume, vidi i giurati guardarsi l’un l’altro con aria dubbiosa e alcuni di essi rivolgere gli occhi all’araldo. Allora parlai a voce bassa all’Orcote: – Per favore, guardate che non sia interrotto. Questo potrebbe essere importante. Vi prego di lasciarlo continuare –. Il messaggio fu trasmesso al Basileus, e i giurati presero un’aria di approvazione; poi si accomodarono meglio per ascoltare. Naturalmente desideravano udire il resoconto della battaglia, e solo un delicato senso di giustizia li aveva indotti a pensare che forse avrebbero dovuto interrompere una digressione che prometteva di essere diffamatoria. Io ascoltai tutto pazientemente. Il resto del racconto del soldato fu come la prima volta, solo con espressioni più appropriate. – E così – concluse Polignoto, dopo aver congedato con garbo l’interessante testimone – vediamo che l’accusato, Filemone, è effettivamente ritornato in Atene dall’Asia Minore. Aveva dovuto lasciare il teatro della guerra perché aveva motivo di temere le truppe d’Alessandro, essendo un traditore. E perciò è venuto qui. E, signori, adesso chiamerò un testimone a dimostrare che lui, Filemone, si trovava ad Atene in quel giorno fatale. Qui c’era qualcosa di nuovo! L’annuncio fece sensazione fra l’uditorio, e la gente si spingeva avanti per vedere. Io pure mi sporsi. Questo testimone non era comparso in nessuna delle tre prodicasìe. Si trattava di un certo Cleofonte, del Pireo. Dopo il giuramento, dichiarò d’aver visto Filemone in una delle strade presso la piazza del mercato al Pireo nel pomeriggio precedente il delitto. Questo Cleofonte era un pescivendolo, un ometto piccolo e nodoso, vestito rusticamente ma con dignità. Probabilmente era stato pagato per il suo disturbo, riflettei, sapendo come i popolani del Pireo sono contrari a farsi coinvolgere negli affari dei signori di Atene; l’ometto era visibilmente impaurito. Ma non avevo motivo di giudicare falsa la sua deposizione. Era probabilmente il testimone più onesto che avessimo visto sinora. Fra l’altro, correva un certo rischio di cacciarsi nei guai, perché infatti, se aveva visto un esiliato, avrebbe dovuto denunciarlo subito. Ci fu un gran mormorio nel tribunale dopo questa testimonianza. Capii che la giuria stava pensando che Polignoto aveva segnato un punto decisivo. Se Filemone si era effettivamente trovato in città, non era tutto chiaro, tutto evidente? – Così, egregi signori, – continuò Polignoto – sappiamo che quest’uomo violento, questo Filemone, esiliato, si trovava in Atene al momento del delitto. Aveva già avuto un’esperienza di omicidio, ricordàtelo. Era stato a Creta, e conosceva bene le possibilità dell’arco cretese. Ma perché, perché avrebbe dovuto uccidere il mio povero zio? Vi dirò io perché, sebbene la ragione sia strana, quasi al punto da far pensare che l’uomo fosse pazzo. Vi devo dire, signori, che sebbene all’epoca della condanna all’esilio fosse già un uomo di diciannove anni, Filemone sentiva molto la mancanza di un padre –. Il pubblico rise e anche Polignoto si lasciò sfuggire un pallido sorriso. – Non intendo scherzare, signori, l’argomento è troppo grave. No, come tutti sappiamo, Filemone era il vero e legittimo figlio di Likias. Ma suo padre era morto, e questo scavezzacollo si trovava in una posizione molto modesta. Si fissò nell’idea che avrebbe dovuto avere i requisiti e le aspettative di un figlio di ricchi. E il mio povero zio divenne l’oggetto della sua attenzione. Poiché una volta Boutades gli aveva parlato con bontà, lui si lasciò prendere dalla stravagante idea che egli avrebbe dovuto adottarlo, a dispetto di ogni logica. Mio zio lo raccontò a sua moglie e a me, e ci si rise sopra. Ma non ne parlò fuori di casa, per rispetto alla memoria del povero Likias. Ecco, adesso possiamo immaginare senza difficoltà questo sciagurato giovane, la cui vita è stata una sequela di guai provocati da lui stesso. Per prima cosa uccide un uomo in una rissa ed è bandito dalla città. Poi, in esilio, vagabonda sui mari senza meta, e infine, nella perfidia del suo cuore, si arruola nell’esercito persiano. Ferito in una grande battaglia in cui stava dalla parte del nemico e timoroso dei vincitori, fugge di nuovo verso la patria e rientra in Atene, benché la città gli sia interdetta. Io penso che non avesse un preciso piano d’assassinio finché non raggiunse la spiaggia, ma chi può dirlo? Una volta in Atene, solo e sprovveduto, decide nella sua mente disperata di far vendetta sull’umanità per le conseguenze dei propri errori, e anzi di rivolgere questa vendetta sul mio sfortunato zio. Filemone intendeva uccidere Boutades e prendersi le ricchezze che pensava dovessero essere sue, che sarebbero state sue se fosse stato, come avrebbe voluto, figlio d’un ricco. Fu senza dubbio in questa sorta di frenesia che uscì nella notte, per togliere la vita a mio zio nel modo più vile e meno rischioso per lui. Provò soddisfazione nel vedere la sua vittima morta e coperta di sangue? Certo, l’udire me che mi muovevo impedì a Filemone di compiere la rapina che progettava. Arrivai troppo presto, disgraziatamente. Pochi minuti più tardi lo avrei sorpreso in casa nell’atto di rubare. Fu un’impresa folle, ma la follia non è una scusa perché l’omicidio fu compiuto deliberatamente e con la piena consapevolezza di causare la morte di un uomo. Ah, povero zio, privato in questo modo infame della sua vita! La follia di Filemone dimostra che gli stessi dei lo hanno maledetto. E anch’io lo maledico e lo esecro, Filemone, l’assassino. E possa io stesso essere colpito da maledizione se non ho detto la verità nella mia accusa davanti agli dei e a queste cose sacre. XXIII L’Areopago in tumulto Mi sentivo come se la terra mi stesse sprofondando sotto i piedi. Polignoto non aveva menzionato nessun movente alle prodicasìe. Non era difficile accorgersi che la giuria era convinta. Uno dei punti salienti della mia difesa sarebbe stato forse seriamente indebolito. Contavo di causare sorpresa riferendomi al desiderio di Boutades di adottare Filemone. Ma ora sarebbe stato molto più facile per l’accusa screditare tutto ciò come un prodotto della fantasia di Filemone e contraddire i documenti dichiarandoli falsi. L’unico e lieve vantaggio di questa nuova situazione era che mi offriva l’opportunità di continuare sull’argomento e introdurre questioni che non erano state menzionate alle prodicasìe. Mi alzai per parlare. L’uditorio mi appariva come una macchia indistinta. Il cielo sopra di noi era grigio e minaccioso. Avevo l’impressione di rivolgermi a un mondo tutto di ferro. – Onorevoli giurati di Atene! Io, Stefanos, mi presento a voi per difendere il mio infelice cugino Filemone, e per dirvi che è innocente di questo terribile delitto. Mi proverò a confutare la tesi dell’accusa punto per punto. Nessuno nega che Boutades sia stato trafitto da una freccia, né che il suo corpo sia stato visto da molti esattamente come l’accusatore e due testimoni l’hanno descritto. Ma vi può essere un errore circa l’identità dell’assassino, specialmente in un caso in cui nessuno è arrivato sulla scena se non dopo che il delitto era stato commesso. Quanto al fatto che l’assassino sia stato visto, la luce era veramente fioca: quel tipo di chiarore che precede l’aurora e in cui è difficile distinguere il bianco dal nero. Ripetei scrupolosamente tutti i punti che avevo specificati alla prodicasìa, sottolineando soprattutto la miopia di Telemone. La giuria ascoltava come di dovere, ma senza molto interesse. Passai quindi alla deposizione del soldato. Qui mi sentivo più forte. Interrogai il testimone come avevo già fatto, ma questa volta fu più guardingo. Tuttavia era sempre un testimone da poco: ostinato e ansioso di compiacere quelli della sua parte, cosicché una domanda inattesa era sufficiente a confonderlo. Questa volta riuscii a sbilanciarlo con un paio di questioni tecniche sulle armi e le armature degli alleati e dei Persiani. Fu colto nell’atto d’implorare con lo sguardo un suggerimento da parte dei suoi per rispondere a una semplice domanda sugli elmi macedoni. Questa sciocchezza gli fece perdere un po’ di credito presso la giuria, ed io fui in grado di puntualizzare che la sua «identificazione» di Filemone era dubbia. – In realtà – dissi – questo testimone non ha del tutto torto. Filemone era presente in quella battaglia, certo. Combatteva dalla parte dei Greci e dei Macedoni nella grande vittoria presso la città di Isso, e là fu anche ferito mentre si batteva onorevolmente. Ho qui il nome del suo capitano, un Macedone –. Feci passare il nome alla giuria, perché tutti lo vedessero. – Mandate a chiamare quest’uomo, che è capitano nell’esercito di Alessandro, e lui vi potrà parlare della condotta di Filemone in battaglia. È lontano da raggiungere, e ho appreso questo fatto solo recentemente. Ma vi prego, aiutatemi nel mandare a chiedere quest’informazione prima di bollare Filemone nelle vostre menti come traditore. Vi domanderete come sappia tutto ciò, e come mai, sapendolo, non abbia agito prima. Come avrete compreso, io ho comunicato con Filemone dopo l’inizio del procedimento giudiziario. Se questo è un delitto, domando il vostro perdono, ma sicuramente non è un crimine per un cittadino rispondere a una lettera inviatagli dal suo parente più prossimo in grandi angustie, né sollecitare a sua volta una risposta –. Stavo affrontando un tema pericoloso, e non ero contento di aver giurato che avrei detto il vero, anche se mi premurai di non dire una vera e propria bugia. – La legge di Atene è giusta, e tiene conto dei vincoli di sangue. Ma è stato solo dopo la diffusione di tale calunnia che ho avuto notizie dall’accusato e ho potuto chiedergli della guerra; e così sono venuto a sapere il nome del suo capitano. Filemone, benché in esilio, è sempre un patriota, e si è battuto per i Greci. Non aveva motivo di fuggire dall’Asia, e inoltre, essendo uno degli eroi di una gloriosa vittoria, non poteva trovarsi nello stato d’animo che l’accusa ha indicato. La giuria fu abbastanza colpita da questo: non del tutto, ma la mia fiducia e il nome di Alessandro avevano sortito il loro effetto. Vedevo i primi segni di dubbio riguardo alla colpevolezza di Filemone. Adesso, almeno, i giurati erano meno propensi a considerarlo irrevocabilmente un traditore e, di conseguenza, come uno sconsiderato assetato di vendetta. Anche il fatto che avessi insistito perché al veterano fosse permesso di parlare aveva influenzato i giudici in mio favore. Colsi questo piccolo vantaggio e andai avanti. La parte successiva della mia difesa non sarebbe stata così piacevole. – Sì, signori, ho un’ammissione da fare. Ma perché aver paura? Chi avrebbe paura di ammettere la verità davanti a una corte di giustizia ateniese? Io non chiedo pietà. Chiedo giustizia, un giudizio equo. Adesso so una cosa che prima non sapevo, che gli dei mi aiutino: e cioè che Filemone è stato veramente ad Atene. Non lo sapevo quando giurai fiduciosamente davanti al Basileus che l’imputato non era qui e non avrebbe potuto esserci. Ma ora in verità, parlando in suo nome, devo ammettere che fu colpevole di aver violato le leggi riguardanti l’esilio. Voi potreste dire giustamente, «Per questo egli merita la morte secondo la legge». Ma, signori, vi prego di considerare che, sebbene colpevole sotto questo aspetto, può essere innocente in tutto il resto. Mi appello ai vostri cuori perché consideriate i suoi sentimenti e la condizione in cui si trovava tornando nella città natale come un clandestino, dopo aver combattuto per il proprio paese. – Perché si macchiò di quest’azione illegale? Ah, signori, perché voleva rivedere la sua vecchia madre, che sta morendo di un male incurabile. Lei sapeva della sua venuta. Nessun altro della famiglia ne fu al corrente fino a poco tempo fa, quando la sventurata donna, non potendo resistere, me lo ha confessato. È giusto che ora ve ne parli. Punite anche me personalmente, se volete, per l’infrazione commessa da Filemone; ma fatelo dopo il processo. Io sono disposto a farmi rinchiudere in prigione. Ma questa è un’altra faccenda. Chi di noi non ha commesso un torto, non un crimine, ma un torto, e tuttavia non è terrorizzato alla sola idea di commetterne un altro? Le infrazioni non sono tutte uguali. Noi stiamo discutendo questa causa, e di questo crimine Filemone è innocente. Mi asciugai la fronte. La giuria aveva preso un’aria molto solenne. L’accusatore e i testimoni avevano l’aria compiaciuta di cinque cornacchie nere su un albero. Polignoto, benché fiero, sembrava dispiaciuto per me; Euticleide, invece, aveva una smorfia compiaciuta sul viso. – Considerate, signori, che anche se Filemone merita la morte secondo la vostra legge, e tuttavia quella stessa legge non viene applicata sempre in modo rigoroso, egli non merita che l’orrenda calunnia di quell’infame delitto penda sul suo nome per sempre. Tra un’azione, il ritorno dall’esilio, e l’altra, il crimine più ripugnante, vi è un enorme abisso. Alcuni di noi possono immaginare che abbia commesso la prima. Nessun uomo a cui sia rimasto un briciolo di onore e di umanità può immaginare che abbia commesso la seconda. Compresi che la giuria per la maggior parte concordava con me sulla differenza fra i due reati, ma i più, tuttavia, pensavano che con l’ammettere la presenza di Filemone avevo rinunciato al punto principale della difesa. C’era qualche simpatia per me (anche se riluttante), ma nessuna per Filemone. Dovevo spingermi più a fondo. – Ma non è tutto qui quel che ho da dire a proposito del suo ritorno. Vi racconterò una storia che sarà per voi di grande interesse, la storia complicata di una famiglia. Filemone è rientrato per rivedere la vecchia madre, è vero. Ma anche per rivedere un’altra donna: sua moglie Melissa, che aveva sposato segretamente prima dell’esilio. È venuto dunque a rivedere lei e il loro bambino. Ora giungiamo alla parte più strana della vicenda. Questa donna fa parte di una famiglia ateniese che viveva a Tebe. Durante la fuga da questa città all’epoca del saccheggio, in compagnia di suo padre e dei domestici, fu vista e ammirata da Boutades, che più tardi la ritrovò, dopo il matrimonio e dopo la nascita del figlio di Filemone. Boutades allora avrebbe voluto adottare il bambino come suo. Ci furono delle grida fra il pubblico. – Questa donna e il bambino, dove sono? – In Macedonia – risposi tranquillamente. – Se mandate i messaggeri di Antipatro là, li troverete nella capitale. Questa donna, dunque, spiegò che si era sposata, e fu allora che Boutades decise che gli sarebbe piaciuto adottare anche Filemone: avrebbe avuto così un figlio e un nipote. Osservate che la faccenda corrisponde, più o meno, a quanto sostenuto dall’accusa, solo che i termini sono invertiti. E, incidentalmente, perché l’accusatore non ha menzionato questa storia dell’adozione in nessuna delle tre prodicasìe? Polignoto prese un’aria di rimprovero come per dire, «Ma io avevo visto il collegamento solo di recente». Ero certo, comunque, che avrebbe saputo trovare una spiegazione nella sua prossima arringa. Euticleide giocherellava con la frangia della veste, sporgendo le labbra. – Ecco! – dissi teatralmente, presentando le tavolette che Aristotele e io avevamo rinvenuto nel loro nascondiglio. – Qui c’è una prima bozza dell’accordo, eseguita dal compianto Boutades. Questa copia era in possesso della donna che ora si trova in Macedonia. Questo documento, non vistato da testimoni, così com’è non ha valore legale, trattandosi ovviamente di una minuta. Tuttavia le tavolette sono scritte di pugno di Boutades e contrassegnate dal suo sigillo. Notate anche che queste tavolette sono vecchie: non sono state redatte nelle scorse settimane. Quelli che conoscono la scrittura di Boutades possono esaminarle da vicino. Porsi le tavolette all’Orcote, che le passò dapprima al Basileus e poi alla giuria. Si era destato un grande interesse. – Sono sicuro che l’accusa griderà: «È un falso!». Tuttavia, chi potrebbe essere il falsario? È in grado, una donna, di scrivere così? E anche se lo fosse, troverebbe i termini corretti? Oppure mio cugino, che non è certo un uomo colto, potrebbe avere scritto come una persona versata nelle leggi e negli affari? E come imitare il sigillo di Boutades o la sua scrittura? Inoltre, se chiunque, uomo 0 donna, fosse tanto audace o tanto abile da tentare un falso, pensate che si limiterebbe a imitare una minuta, e non invece un documento che risulti valido in un tribunale? Queste tavolette non possono essere esibite per reclamare una parentela adottiva o un diritto di eredità. Sono inutili. Dimostrano soltanto che Boutades pensava effettivamente di adottare Filemone. Vi domanderete anche come mai non si trovò copia di questa bozza di accordo fra i documenti di Boutades. Una domanda molto pertinente, sulla quale ritornerò, perché io stesso me la sono posta. Per trovare una spiegazione dobbiamo approfondire il caso. Mi rendo conto che alla maggioranza di voi, che non conoscete Filemone, il ritratto di lui tracciato dall’accusa può sembrare plausibile. Ma mio cugino non è quell’uomo ossessionato e furente che ci è stato descritto. È un essere allegro e bonario. Aveva sperimentato la gioia di una battaglia vittoriosa. Aveva una bella moglie e un magnifico bambino. Pensava, e con ragione, che il suo valore in battaglia avrebbe potuto portare a una commutazione della sentenza di bando, e l’eredità di sua moglie gli consentiva anche qualche speranza di prosperità. Io vi chiedo d’immaginare per lo spazio di due minuti che possa essere possibile che Filemone non abbia commesso il fatto. È vero che era stato a Creta, e tutti giurano che Boutades è stato ucciso con un arco cretese. Ma nessun altro poteva avere accesso a un arco cretese? Chiamo come testimone il cittadino Archimeno. Archimeno non sembrava entusiasta di testimoniare. Era venuto in lettiga con la scusa di non sentirsi bene. Infatti non sembrava molto in forma, ma parlò con chiarezza, senza mai abbandonare il cipiglio, con le due rughe sulla fronte così profonde da dare l’impressione che fossero incise nel suo cranio. Archimeno giurò che Filemone era innocente e che la sua dichiarazione era vera. Poi testimoniò di aver posseduto un arco cretese, che durante l’estate era scomparso. Descrisse il luogo dov’era tenuto e gli uomini che erano stati nella stanza e dovevano averlo visto. Io lo interruppi dicendo: – Ricordatevi, questo è importante. Non tutti sapevano che Archimeno aveva quest’arco, non tutti sapevano che era un arco cretese. Ma alcuni sì, e fra questi lo stesso Boutades, Polignoto, e altri uomini di una certa posizione, e così pure alcuni schiavi e dei marinai –. Poi tornai a rivolgermi al testimone: – Perché non avete denunciato la scomparsa dell’arco? – Non sapevo chi l’avesse preso – replicò a bassa voce. – Ma perché non ne avete parlato, comunque? Pensavate di sapere chi l’avesse preso? – Sì. Credevo che fosse stato lo stesso Boutades. – Un po’ più forte, per favore. Pensavate che l’avesse preso Boutades. Perché? – Per una specie di… scherzo. – Una beffa tra amici? Eravate amici? L’uomo mi sbalordì. Rivolto a me e all’intera assemblea esclamò: – Io ODIAVO Boutades! Mi aveva imbrogliato, aveva fatto della mia vita un inferno. Mi fece accettare una nave in cambio di un credito che avevo, una nave così male attrezzata che mi sarei rovinato a cercare di ripararla. Era disonesto nell’animo. Non indietreggiava davanti a niente, a niente! Non gli importava nulla né di Atene né della trierarchia. Si curava solo di se stesso, della sua reputazione e del denaro. Soprattutto il denaro. Signori –e si volse alla giuria – guardate un po’ a voi stessi e alle vostre navi, ed esaminate da vicino i conti fatti con Boutades. Sono sicuro che anche fra voi c’è qualcuno che lui ha imbrogliato, e lo sa. Ma nessuno è stato ingannato come me. Nessuno! Avevo pensato persino di uccidermi, per causa sua. Non sono il suo assassino, ma sono felice della sua morte. Se avessi pregato per cent’anni non avrei potuto chiedere niente di meglio! Che gli dei lo maledicano anche nell’oltretomba e Radamanto lo condanni! Alla fine di questo incredibile sfogo, Archimeno scoppiò in lacrime, e non bagnandosi leggermente gli occhi arrossati, ma versando una cascata di lacrimoni come quelli di un bambino, che gli scorrevano sulle rughe tra il naso e il mento e formavano dei rivoletti sulla sua tunica. Appariva molto vecchio, molto pietoso e molto strano. Penso che tutti avvertimmo la presenza di un tocco di follia, e magari qualcosa di più che un tocco; eppure gli credemmo. La giuria era in subbuglio: certamente le parole di Archimeno sugli uomini che come lui erano stati imbrogliati dal defunto erano andate a segno, e tutti si sentivano sdegnati a quella denuncia della disonestà di Boutades. La reputazione dei trierarchi in generale è soggetta a tali ingiurie, e la pietà per Boutades che prima era stata così forte d’un tratto scemò. Ormai egli non era più quel ritratto di uomo retto che finora si era voluto dipingere. Il delitto rimaneva grave come prima, pure, d’un tratto, l’atmosfera per me si era fatta più respirabile. I giurati non erano più implacabilmente convinti dall’accusa: adesso erano più disposti ad ascoltarmi. – Quello che Archimeno dice risulta vero – asserii. – Boutades era avaro. Ma negli ultimi tempi la sua avarizia crebbe. Era ossessionato dall’idea di adottare un figlio ed un nipote e lasciare una grossa eredità. La proprietà divenne il suo unico obiettivo. Ma torniamo all’arco. L’assassino tirò contro di lui con un arco cretese. Sì. Ma vi chiederò di nuovo di fare il vostro penoso dovere e di immaginare l’orribile vista. Chiedo al cittadino Euticleide, testimone per l’accusa, di ripetere la sua descrizione di come appariva il cadavere e dello stato della stanza. Euticleide parlò di nuovo, con esagerata pazienza. Fece una relazione molto pertinente, ma quando gli chiesi di descrivere quello che si trovava sulle varie tavole esitò, e non fu in grado di fornire una risposta completa. – Ma il cadavere – insistetti. – Avete visto chiaramente il cadavere? – Sì, certo. Giaceva nel modo che ho detto. – C’era molto sangue? – Sì. – Anche nei capelli? – Sì. Quando abbiamo sollevato quel povero corpo, i capelli sulla nuca erano ingrumati di sangue. Io li ho visti. – E i piedi? – Anche. Le sue pantofole, perfino le suole, erano piene di sangue. Ma non vedo a cosa serva tutto ciò – aggiunse sdegnosamente. – Quel poveretto era morto, questo è certo. Protesto perché il difensore fa delle domande inutili per guadagnare tempo. Lo lasciai ritirare. Nessun altro fece obiezione alle mie domande. – Raffiguratevi il cadavere con l’occhio della mente, signori. L’accusatore ha detto che Boutades era seduto a lavorare alla sua tavola, di fronte alla finestra. Stava quindi lavorando pacificamente alla tavola in fondo alla stanza, rivolto a ovest. L’assassino che tirava su di lui dall’esterno, a ovest, non poté tirare da molto vicino alla finestra, perché una freccia dev’essere scoccata da un po’ di distanza per guadagnare forza. Ma… dov’era Boutades? Il cadavere era rivolto nella giusta direzione, giusta, intendo, per un uomo colpito dalla parte della finestra. Ma il corpo era quasi in mezzo alla stanza. Se Boutades fosse stato colpito mentre lavorava alla sua scrivania, dove forse l’assassino poté vederlo chiaramente dal di fuori perché la vittima, che non sospettava nulla, aveva una piccola lampada sulla tavola, allora sarebbe caduto accanto o sopra la scrivania. Per lo meno, il suo sangue avrebbe spruzzato la scrivania. Forse, direte voi, si alzò, e così ricevette il colpo mortale in piedi e cadde repentinamente all’indietro. Ma allora, non sarebbe dovuto cadere sulla sua sedia, o accanto ad essa? Invece il cadavere si trovava nel posto sbagliato, al centro della stanza. Se Boutades avesse visto l’assassino attraverso la finestra e si fosse alzato in fretta correndo verso il centro dello studio… be’, allora sarebbe stato colpito alla nuca, e non alla gola. Perché, dunque, era al centro della stanza o lì vicino quando la freccia lo colpì nel collo? E ci sono anche degli altri fatti curiosi. Tutti testimoniano che c’era una gran quantità di sangue. Sangue sul pavimento, sulla tunica della vittima, sulle sue pantofole e nei suoi capelli. Ora, la grande vena del collo è una parte vitale, e contiene molto sangue. Ma qualsiasi soldato vi potrebbe dire che un uomo colpito da una freccia generalmente non sanguina molto, perché spesso la stessa freccia funziona da tampone alla ferita. Comunque, in questo caso naturalmente, il sangue potrebbe essere sgorgato dalla bocca mentre il corpo cadeva all’indietro, per l’impatto del colpo. Ma un uomo molto forte, muovendosi rapidamente innanzi, può essere in grado di fare diciamo un passo o due prima della caduta, specialmente se la freccia, benché mortale, non è stata scoccata da una grande distanza. Perché le suole delle pantofole erano coperte di sangue? Io direi perché l’assassinato stava camminando in avanti, verso la porta situata ad est, quando fu colpito. E fece un passo o un passo e mezzo nel suo proprio sangue prima di cadere sul pavimento. Sulla scrivania non vi era traccia di sangue. Non è strano? O ci stava lavorando, nel qual caso la scrivania avrebbe dovuto esserne coperta, o se ne stava allontanando, in tal caso doveva avere la schiena rivolta alla freccia. Cioè, se l’assassino si trovava all’esterno della casa. È questo il problema, come un problema di geometria. Feci una pausa per lasciare che le mie parole andassero a segno, e diedi tempo alla giuria di riflettervi sopra. Erano tutti curiosi. Avevo incatenato la loro attenzione al problema. – Vi faccio notare che c’è una netta possibilità che l’assassino si trovasse dentro la casa, non fuori. Anche se, ovviamente, voi direte che l’assassino potrebbe essere scappato dalla finestra, e su questo torneremo dopo. Ma se è possibile, anzi se è addirittura probabile dalla posizione del corpo che l’assassino fosse in casa in quel momento, allora è molto strano che nessuno l’abbia visto. L’omicida non sarebbe dovuto fuggire rapidamente tra il momento in cui colpì Boutades e quello in cui Polignoto entrò e vide suo zio che spirava? Non poteva certo uscire per la porta che dà nell’atrio. Poteva l’assassino trovarsi in fondo alla stanza, di fronte alla finestra, con Boutades trafitto nella gola fra lui e la finestra stessa? Sì. Poteva allora aver preso la fuga attraverso la finestra? No, certamente no, perché avrebbe lasciato tracce sul pavimento insanguinato, 0 macchie di sangue tra la scrivania e il davanzale. Ma io ho ulteriori prove, e non semplici illazioni, che l’assassino si trovava in casa. Come sapete, in casa di Boutades è custodito un famoso vaso, un bellissimo vaso commemorativo. Alcuni di voi l’hanno visto recentemente, altri nel passato. Stava sul tavolino appoggiato alla parete affrescata, a circa sei spanne di distanza dalla parete dov’è la finestra, e a sinistra della medesima. Nei giorni in cui Boutades viveva e lavorava in quella stanza, nessun passante poteva vedere il vaso dalla finestra. Se l’assassino avesse scoccato la freccia dal di fuori, non avrebbe potuto colpire il vaso, da qualunque parte prendesse la mira, da presso la finestra o da più lontano. E nessuno avrebbe potuto raggiungere il vaso per toccarlo o per prenderlo da fuori la finestra. Eppure, qualcosa accadde a questo vaso nel momento in cui Boutades fu ucciso. Non si trattò di un’arma. Il cadavere non era vicino al vaso, e l’assassino dall’esterno non avrebbe potuto raggiungerlo. Eppure esso è un testimone. Domando che il famoso vaso delle feste dionisiache sia mandato a prendere per essere esaminato; dopo chiarirò il punto. Avevo paura che la corte potesse negare il consenso, ma dopo alcune perplesse consultazioni fra l’Orcote, il Basileus e gli arconti, fu mandato un uomo a prendere il vaso. Polignoto obiettò vivacemente contro questa procedura, che violava la sua proprietà e la sua casa, ma gli fu assicurato che il vaso sarebbe stato guardato soltanto dal tribunale, che io non l’avrei toccato e che sarebbe stato immediatamente restituito. Telemone parlò a Polignoto in tono conciliante. Euticleide era più seccato, e continuava a rivolgere obiezioni a tutti gli arconti e alla giuria, finché il Basileus tagliò corto: – Ho parlato: basta così –. Gli altri testimoni avevano l’aria perplessa, e udii distintamente l’uomo del Pireo dire: – Uff! Che cos’è un vecchio vaso, dopo tutto? – Questa battuta consolatoria non fu accolta con molto favore dagli altri. – Signori – proseguii – abbiate pazienza. Vi assicuro che questa faccenda ha molto a che fare con il caso di Filemone. Io so che vi state domandando: «Che l’assassino fosse dentro o fuori della stanza, che importa, se l’assassino è Filemone?». Ma non è così. Ho ammesso che si trovava in Atene, come esule rientrato clandestinamente; e per quel che ne so, il degno pescivendolo del Pireo ha ragione quando dice di averlo visto il giorno prima del delitto. Ma Filemone non era più ad Atene quando il delitto fu commesso. Chiamo Filandro di Atene come testimone. Filandro di Atene era la mia vecchia conoscenza, Fidippide, l’allegro mascalzone che mi aveva offerto l’opportunità di prendere il largo alla chetichella. Il lavoro d’un buon barbiere e il dono d’una tunica di seconda mano l’avevano reso meno losco, ma chiaramente, nonostante la sua sfacciataggine, non si trovava a suo agio nel tribunale, ed io temevo che il suo sguardo sfuggente quando sbirciava la giuria fosse interpretato a nostro sfavore. Pronunciò il giuramento con voce sonora, ma parve non trovare di suo gusto le mie delicate e necessarie domande sulla sua occupazione. – Uomo onesto. Aiutante d’un vasaio – fu tutto quello che gli si cavò sulle prime. – Sì, ma avete avuto anche qualche esperienza di mare, non è così? Mi pare che vostro padre fosse un pescatore. – Sì. Un onesto pescatore. Non che sia mai stato quello che si dice fortunato nella pesca. – E sapete manovrare una barca, no? – Sì. A volte lo faccio. Quando gli affari vanno a rilento, mi guadagno qualche soldo in più trasportando la gente a vela o coi remi. Mettiamo che una vecchia signora vuole andare a Idra. Io ce la porto. Sempre coi dovuti modi. Filandro è beneducato. A prezzi ragionevoli. – E – aggiunsi in tono persuasivo a questo cugino di Caronte – è cosa nota che voi fornite un passaggio sul vostro battello a chiunque ne abbia bisogno a prezzo modico. Perciò, chiunque conosca il Pireo può rivolgersi a voi offrendo di pagare per il trasporto? – Sì, certo. Sono conosciuto al porto. Chiunque si può rivolgere a me. Però, principalmente, sono un aiutante vasaio – ripeté con ostinazione. – Noto come una persona onesta, prezzi ragionevoli – aggiunse di nuovo con enfasi. – Filandro non approfitta del cliente. Qualche soldo onestamente guadagnato è quello che chiedo, quanto basta per il prossimo pasto. Non voglio altro. Ci volle del bello e del buono, ma finalmente indussi il mio riluttante testimone, così dissimile dal precedente, ad ammettere con molta prudenza di avere traghettato nella sua barca Filemone su una delle isole la notte prima del delitto. – Mica sapevo che era Filemone il proscritto – disse ansiosamente. – Non volevo fare niente di proibito, vedete. Ho saputo che era lui solo quando siamo stati in alto mare, molto fuori dal porto, e visto che era un tipo così robusto e capace di far fuori una persona come niente, ovviamente sono stato zitto. Io sono un povero diavolo. E poi, proprio perché sono un povero diavolo, ho avuto paura di denunciarlo al ritorno, sebbene normalmente l’avrei fatto. Ma temevo che quelli della legge avrebbero potuto dirmi: «Come! L’avete lasciato scappar via, e adesso pagherete la penalità». Ma non volevo assolutamente mettermi contro la legge, prego che ne teniate conto, signori. E adesso mi sembra tardi per rimproverarmelo, perché a cosa serve piangere sul latte versato? E in ogni modo non è una cosa importante come questo delitto tremendo che dovete giudicare. «Non devo più preoccuparmi del mal di denti ormai», come disse l’uomo quando lo portarono all’esecuzione. Spero solo che questo non sia un argomento troppo delicato da affrontare qui. Mi liberai del mio prudente testimone dopo aver stabilito chiaramente il fatto che Filemone non era ad Atene al momento del delitto. Temevo il giudizio degli dei su quest’uomo, questo Filandro alias Fidippide, ma la giuria aveva l’aria di pensare che sull’argomento principale egli diceva la verità, come infatti l’aveva detta, e i giurati apparivano chi divertito, chi colpito, chi perplesso. – Così dunque, signori, non è Filemone l’assassino che quella notte agì nell’interno della casa. E l’assassino era dentro la casa, come vi proverò definitivamente mostrandovi il vaso e spiegando come andò in pezzi. Mostrate pazienza per il mio paradosso, ma fra un momento, quando lo vedremo, sarà tutto chiaro. Il vaso si ruppe inopportunamente, e proprio al momento del delitto. Non è che precipitasse a terra in conseguenza della pressione della folla intorno al corpo di Boutades quella mattina. No. In quel momento non c’era più. Io domando a tutti i presenti non coinvolti per il caso giudiziario e che hanno visto la stanza quella mattina di tornare indietro con la mente per ricordare se ci fosse o no il vaso commemorativo delle Dionisiache. Non c’era. In quel momento i frammenti del vaso infranto erano già stati ben nascosti. Delle voci provenienti dalla giuria e dal pubblico gridarono: – Ma il vaso è sempre lì! Non è mai stato rotto! – E invece sì, signori. Ci furono due colpi quella notte. Il primo fece precipitare il vaso, il secondo abbatté Boutades, che si era già alzato, si era voltato e camminava in avanti quando il secondo colpo lo raggiunse. L’assassino aveva probabilmente progettato che lui dovesse morire alla sua scrivania, ma il rumore del primo colpo che mandava un oggetto in frantumi mise in allarme la vittima e le diede tempo di muoversi. L’assassino all’interno della casa voleva che la sua vittima gli fosse di fronte al momento in cui l’avrebbe uccisa, ma non che avanzasse fino al centro della stanza. Così, dopo, spostò il corpo perché si trovasse nel posto giusto. Così facendo, è probabile che abbia spostato inavvertitamente la freccia, causando la fuoriuscita d’una anormale quantità di sangue. Non poteva riportare il corpo vicino alla scrivania, perché avrebbe destato sospetti trovandosi troppo lontano dalla pozza di sangue. Ma quando il cadavere fu spostato e rigirato, i capelli della vittima si inzupparono e si ingrumarono di sangue, e le suole delle sue pantofole furono parimenti macchiate. Solo l’assassino, innervosito, era consapevole del significato del vaso rotto. I frammenti furono frettolosamente raccolti e nascosti in un grosso recipiente nella stanza. Un’anfora da vino a collo lungo e molto panciuta. Quanto al vaso delle Dionisiache che si trova ora in casa di Boutades, dichiaro che si tratta di un’abile riproduzione. Il vaso originale era di buona ceramica ateniese e, come comprende chiunque abbia pratica in materia, l’argilla ateniese è rossa. Io vi predìco, invece, che il vaso mandato a prendere ora da casa di Boutades risulterà fatto di argilla gialla. Ed eccolo qui! L’inviato stava entrando in tribunale, e depose il vaso davanti all’Orcote e al Basileus. Ci fu un mormorio di ammirazione. Un burlone gridò: – Adesso giudichiamo il vaso! – e si udirono delle risate. – No – ribattei – non si sta giudicando il vaso. Non è responsabile della morte di Boutades. È un testimone, come ho già detto. Ammiratelo quanto volete, ma ascoltatemi. Il vaso originale era di argilla rossa. I suoi frammenti furono nascosti dopo che ne fu eseguita una copia. Nascosti in un luogo da cui si prevedeva che non sarebbero mai più ricomparsi fino alla fine del mondo. Ma, vi domanderete, chi è questo assassino all’interno della casa? Chi ebbe tempo di far sparire i frammenti? L’uomo che li levò di torno e ne fece fare un’ottima riproduzione era certamente la stessa persona che sapeva del nesso tra la distruzione del vaso e il delitto e che voleva che il delitto apparisse compiuto in ben diverse circostanze. Nessun assassino che tirasse dall’esterno poteva aver colpito il vaso con una freccia, e neanche averlo toccato. Se chiunque altro, all’infuori dell’assassino, avesse distrutto il vaso, lo avrebbe detto apertamente. E se la copia fosse stata ordinata da una persona innocente, sarebbe stata eseguita in Atene. Accettate il mio ragionamento? E siete d’accordo quando affermo che se questo vaso è una copia, e se si può scoprire il nome dell’uomo che la fece eseguire segretamente, quest’uomo è l’assassino? Poiché infatti lui e lui solo aveva la conoscenza, la volontà e l’opportunità di fare tutto questo. Alcuni dei giurati annuirono; altri restarono in silenzio, cercando evidentemente ancora di seguire il filo del mio ragionamento. – Ecco il vaso – dissi. – Non è sotto processo, ma lo metteremo sotto interrogatorio come un testimone. Domando che un piccolo frammento sia tolto dalla sua base, per vedere se l’argilla sia rossa o no. Chiedo che sia l’Orcote a provvedere a questo. Ci furono delle proteste particolarmente vivaci da parte di Polignoto. – Ma è un vaso di valore – obiettò l’Orcote preoccupato. – Può essere che lo sia, e può essere che non sia poi così prezioso – ribattei. – E la vita di un uomo e il suo buon nome sono forse meno importanti d’un vaso? Io non domando che sia distrutto, né danneggiato gravemente. Prendetene una scheggia, quanto basta a vedere il colore dell’argilla. Con riluttanza l’Orcote portò il vaso al Basileus, che sedeva in mezzo agli arconti. Con visibile disgusto, il Basileus grattò delicatamente la base del vaso con un coltello. – Guardate! – gridai. – Cosa vedete? Argilla rossa di Atene? O argilla gialla di Corinto? Si udì un’esclamazione strozzata da parte del Basileus. – È gialla! – Si era alzato e sollevava il vaso in direzione della giuria e del pubblico. – È di argilla gialla, è una copia! – La parola passò di bocca in bocca, sebbene non molti riuscissero a vedere abbastanza da vicino. Il Basileus esibì il vaso alla prima fila di giurati. – Chiamo – dissi io – Onesimo di Corinto a testimoniare. Onesimo di Corinto, un ometto tranquillo, era di professione vasaio. Non l’avevo mai incontrato prima di quella mattina. – Vedete quel vaso? – gli domandai, e l’oggetto fu portato più vicino. – L’avete visto prima? – Sì. L’ho fatto io. Copiando dei frammenti di un altro vaso più vecchio. È una riproduzione. E molto buona anche – aggiunse. – Quando è stata fatta? – Nella mia bottega a Corinto sulla fine dell’autunno. – E chi è l’uomo che vi ha dato l’incarico di farla? Mi disse che il suo nome era Periandro di Megara. Aveva l’aria d’un ricco, benché viaggiasse semplicemente, accompagnato da uno schiavo con i capelli rossi. – L’avete rivisto poi? – Sì. Oggi. – Potete indicarlo? E Onesimo levò il dito. Ci furono esclamazioni soffocate e un grande tumulto. Tolsi una borsa di cuoio dalla mia cintura e l’aprii in fretta, con dita tremanti. – Sì! – gridai al di sopra del baccano. – E qui c’è il vaso originale. Questi frammenti sono stati recuperati da me dove l’assassino li aveva nascosti! – Li protesi in alto, bene in vista sul palmo della mano, con le tracce di decorazione ben visibili sull’argilla rossa. – Erano nascosti, lo giuro, in un luogo molto strano: sotto la pietra tombale della vittima! Feci una pausa, e per farmi udire al di sopra del chiasso, gridai: – Ed ecco l’assassino! Il suo nome ci è ben noto. Chi è l’uomo che ha urgente bisogno di denaro per lo spettacolo che dovrà mettere presto in scena? Chi è l’uomo che aveva maggiormente da perdere se Boutades decideva di adottare un figlio per amore di prole? Chi aveva maggiori motivi di desiderare Filemone ridotto in polvere con tutte le persone a lui care? Chi ha potuto compiere il delitto dall’interno della casa scegliendo il momento opportuno e il complice più adatto? Chi ha avuto modo di assassinare Boutades con tutto suo agio, facendolo a corpo nudo per non avere addosso macchie di sangue, e con uno schiavo a tenergli i vestiti e un lume nel frattempo? Chi ha la forza di scoccare una freccia mortale e di muovere un corpo pesante? Chi ha avuto modo di raccogliere i frammenti di un vaso infranto, e poi il tempo e l’opportunità di rimpiazzarlo? Io dichiaro che Filemone è innocente, per tutti gli dei, poiché il nome del vero assassino è Polignoto! Preso dalla mia passione, avevo rivelato tutto in anticipo, e avevo riunito le mie prove e tutto il resto nel mio primo discorso. Normalmente nella tattica legale questo è un errore, e consiglio a ogni altro difensore di non provarsi a farlo. Avevo perso la testa e avevo continuato ad accumulare accuse su accuse sin dal primo momento in cui mi ero reso conto di aver destato l’interesse dei giurati. E nessuno mi aveva interrotto. Dal momento in cui era stato mostrato il vaso, nessuno, nemmeno il Basileus, aveva pensato di mettere in dubbio la pertinenza di quanto dicevo. I giurati erano troppo curiosi e sorpresi. Polignoto era pallido e sconvolto. Si era sbiancato in volto quando era stato detto all’inviato di andare a cercare il vaso. Credo, comunque, che non si ricordasse l’aspetto del vasaio di Corinto, e non si fosse reso conto di chi era finché l’uomo aveva fatto la sua deposizione. Polignoto non era avvezzo a fare attenzione alla gente umile, a meno che non fosse bella. Persino allora aveva sperato di superare quel momento difficile con la sfacciataggine. Avrebbe potuto raccontare varie bugie (anche se il fatto di aver dato al vasaio un nome falso era stato più compromettente che dare quello vero). Ma credo che fosse stata la resurrezione dei frammenti a sconvolgerlo di più. Ora, nella folla sovreccitata, si udì una sorta di fischio, e si notò che la gente si ritraeva da lui. I suoi stessi testimoni si allontanavano dalla sua persona come se avesse potuto contaminarli. E allora, diventato impopolare per la prima volta in vita sua, Polignoto perse la testa. Può darsi che si fosse reso conto confusamente di trovarsi a un processo di cui era l’imputato, che avesse intuito che sarebbe stato condannato e giustiziato se avesse pronunciato il suo secondo discorso. Lo si vide vacillare per alcuni secondi. Poi, con un grido selvaggio, fuggì dal tribunale e giù per il Colle dell’Areopago. – Inseguitelo! – gridò qualcuno, non un’autorità, ma uno dell’uditorio, e la folla cominciò a muoversi, urtandosi e spingendosi. Il Basileus rimase seduto con gli arconti e la giuria, cercando di decidere cosa fare. Mi sedetti anch’io, e qualcuno mi porse del vino leggero da bere. Non ero in condizioni di inseguire Polignoto, né volevo unirmi alla caccia selvaggia. Quello che seguì, lo so solo per sentito dire. Polignoto si precipitò giù per il colle verso la città. Aveva alcuni minuti di vantaggio sugli inseguitori, ed era un magnifico corridore. Da qualche parte in città, presso la strada per il Pireo, trovò un cavallo, lo prese, e partì al galoppo per quella stessa strada che io conoscevo così bene, inseguito dalla folla che procedeva più lentamente circa tre stadi dietro di lui. Lungo la strada, molti degli inseguitori desistettero. Si dice che Polignoto giunse al Pireo e si spinse fino alla riva del mare, dove trovò due schiavi al lavoro intorno a una barca per metà fuori dall’acqua. Con minacce e imprecazioni chiese di essere portato fuori in mare seguendo la costa. I due, spaventati, obbedirono, pur seguitando a obiettare che la barca non era adatta a navigare e che si preparava una tempesta. Polignoto non ne tenne conto: sembrava, disse più tardi uno dei due schiavi «un dio uscito dal mare a cui niente poteva far danno». Così, contro il loro volere, gli schiavi si misero in mare, certi di finire travolti dalla furia degli elementi. Gli inseguitori giunsero sulla spiaggia in tempo per scorgere Polignoto, appena visibile sulla sua imbarcazione, che si allontanava da loro sulle grigie acque agitate. Poi sul mare avanzò una burrasca di vento e di pioggia, e Polignoto fu nascosto da una cortina di pioggia e foschia, come se un dio l’avesse rapito alla vista. Quelli che erano rimasti a guardare dalla spiaggia si trovarono presto fradici e cercarono riparo. Così Polignoto scomparve, e lo stupore per la sua uscita di scena durò tutta la notte. Quella notte in cui io dormii esausto nel mio letto, con le lacrimose espressioni di gratitudine di mia madre e della zia Eudossia ancora ronzanti negli orecchi. Filemone era stato formalmente dichiarato innocente dal Basileus. Il giorno dopo, nuove meraviglie. I due schiavi marinai erano riapparsi nella notte, sbattuti sulla spiaggia di Salamina come due tronchi d’albero, eccetto per il fatto che erano animati. Stando al loro racconto, la barca, che faceva acqua, era stata sommersa circa due ore dopo che avevano preso Polignoto a bordo. Gli schiavi si erano visti perduti, ma erano riusciti a strappare delle assi dal battello e ad aggrapparvisi, e grazie a queste erano giunti a riva. Naturalmente, il loro unico desiderio era di approdare alla spiaggia più vicina. Ma Polignoto, dissero, aveva voltato le spalle ad Atene e se n’era andato a nuoto in una direzione del tutto diversa. – Inutile parlargli e anche gridare – disse uno. – Era come un uomo di marmo, salvo che nuotava bene. Si è allontanato come un delfino. Così Polignoto, col suo viso duro ma sereno come quello d’un nume (riuscivo a immaginarmelo benissimo), s’era diretto ad altre sponde nel colmo della tempesta, come un Ulisse che, però, non nuotava verso Itaca e non incontrava coste ospitali, né principesse. Tuttavia, quando udimmo questa storia dagli schiavi, tutti quanti pensammo che in qualche modo ce l’avrebbe fatta. Polignoto sarebbe approdato da qualche parte e avrebbe seguitato a vivere in qualche altro luogo di questo mondo. Dovette nuotare a lungo e con forza, allontanandosi dalle correnti che l’avrebbero portato a Salamina o al Pireo, e riuscendo a raggiungere un punto dove la corrente lo spingeva verso est. Questo apparve evidente quando fu ritrovato. Poiché infatti fu ritrovato, e in uno stato tutt’altro che degno d’un nume. Una settimana dopo la sua scomparsa, si apprese che il suo corpo era stato ritrovato sulle scogliere intorno a Egina. Era gonfio e violaceo, orribilmente mutilato per essere stato a lungo sbattuto fra gli scogli. Ma era rimasta una parte delle sue vesti sufficiente a dimostrare che era lui, e aveva ancora il suo anello al dito. Della sua persona, solo i capelli ricciuti erano riconoscibili. Gli Ateniesi non vollero che il cadavere fosse riportato in città. Alcuni personaggi ufficiali che conoscevano Polignoto andarono, con riluttanza, a identificarlo, ma nessuno volle contaminare il suolo della città ospitando il cadavere di un assassino così abbietto, un uomo che era in realtà un parricida, recando così offesa agli dei. Gli dei avevano mostrato la loro disapprovazione infliggendo essi stessi la punizione al momento opportuno: su questo erano tutti d’accordo. Il fatto che i due schiavi si fossero salvati da quello strano naufragio dimostrava che gli dei volevano rendere chiaro al di là di ogni dubbio che la loro vendetta era diretta solo contro Polignoto. Vi furono delle tensioni con i cittadini di Egina; essi dichiararono sdegnati di non voler contaminare neppure loro la propria città. Furono portati dei doni e si fecero dei discorsi per placare gli animi. Venne fatto osservare che, se gli dei avevano mandato Polignoto là, evidentemente desideravano che lui vi rimanesse, e non potevano avere risentimenti nei confronti dei cittadini di Egina, visto che Polignoto non era uno di loro. Il cadavere fu seppellito sotto un mucchio di pietre in una remota spiaggia dell’isola. Così l’uomo che in vita sua era stato ricercato, corteggiato e invitato a cena nelle migliori case, da morto non ebbe nemmeno una sepoltura decente, né una vera e propria tomba. Forse avrebbe fatto una fine più dignitosa se fosse stato giustiziato. A volte, ma non spesso e solo ultimamente, mi sembra di avvertire in cuore una sorta di vaga pietà per Polignoto, le cui fiere speranze gli avevano promesso tanto. XXIV Dopo il processo Il processo era terminato in maniera molto irregolare, ma il Basileus e la giuria avevano proclamato l’innocenza di Filemone pronunciando un formale giudizio in questo senso davanti a un tribunale quasi vuoto. Molto più tardi fu pubblicamente rivolta contro Polignoto una denuncia per omicidio. Non si presentò nessun difensore. La città fu sottoposta alle purificazioni rituali. Si offrirono dei sacrifici, e molte delle proprietà personali di Polignoto furono gettate fuori dalle mura. A tempo debito, un secondo cugino di Polignoto prese quietamente possesso della proprietà, badando bene ad offrire copiosi sacrifici su tutti gli altari e a fare sostanziose donazioni ai poveri e ai vari fondi cittadini. Quelli che erano stati testimoni d’accusa al processo di Filemone furono trattati con clemenza. Telemone, piagnucolando, ripeteva a chiunque volesse ascoltarlo che Polignoto gli aveva detto di aver visto Filemone quella notte, e che lui a sua volta era sicuro di avere visto qualcosa. Non trovò altro che disprezzo. Euticleide disse che si sentiva inorridito a pensare quale serpe avesse serbato in seno, e si sottopose a un’elaborata purificazione rituale per la colpa d’involontario spergiuro nell’aver confermato la responsabilità di Filemone; quanto al resto fu molto puntiglioso nel sottolineare che non aveva detto nulla che non fosse vero, e puntualizzò il fatto che una parte della sua deposizione era servita a discolpare l’innocente. Anche lui fece larghe donazioni in beneficenza. Nessuno fece domande riguardo allo strano Fidippide e alla sua complicità con un esule rientrato clandestinamente; dal canto suo, egli fu molto contento della sua giornata al tribunale, e specialmente del fatto di essere stato tra coloro che erano arrivati fino al Pireo e avevano visto Polignoto fuggire a bordo della sua barca. A quanto pare, Fidippide era una specie di fuggiasco. Gli pagai del denaro, per essersi disturbato a comparire come testimone al processo. Spero solo che si sia purificato dinanzi agli dei per la sua complicata testimonianza riguardo alla propria totale innocenza. Quanto a me, nessuno mi fece delle domande sulla portata del mio aiuto nei riguardi di un confinato rientrato clandestinamente, ed anzi, la precisa indole della mia assistenza non venne mai alla luce. Io stesso mi sentivo un po’ a disagio riguardo a certe mie dichiarazioni pronunciate sotto giuramento, poiché, se proprio non avevo detto il falso, certo avevo presentato le mie comunicazioni con l’imputato in modo non rispondente al vero. Perciò feci speciali preghiere e sacrifici e poi comunicai la faccenda al Basileus, ma non prima di aver saputo dell’ascesa di Filemone nel favore popolare. La cosa più importante è che la posizione giudiziaria di Filemone non fu per nulla aggravata dal fatto di essere rientrato clandestinamente. L’opinione generale era che si trattava di un uomo ingiustamente colpito, e che gli dei avevano protetto nonostante tutto. Prima della fine dell’estate, la sua sentenza di bando fu commutata, e gli fu concesso di ritornare con sua moglie e i bambini (ormai il piccolo Likias aveva un fratello minore). Così la zia Eudossia poté vedere i suoi nipotini prima di morire; sopravvisse ancora un poco, e si spense esattamente a un anno di distanza dall’epoca in cui Filemone era stato accusato d’assassinio. Fin dall’indomani del processo, fu chiaro che l’opinione pubblica era in mio favore, e cominciai a guardarmi attorno con qualche speranza. Euticleide insistette nel restituirmi l’interesse sul denaro che era stato prestato a mio padre e ripagato da me con tanta difficoltà. Non volli rifiutarlo per un senso di responsabilità verso la mia povera famiglia, sebbene non mi piacesse l’idea di ricevere qualcosa da Euticleide. In ogni modo, sono certo che il suo calcolo degli interessi era stato orribilmente esoso. Il giorno dopo il processo ero del tutto senza voce, e non c’era da stupirsene. Quando mi ripresi, ebbi un periodo molto affaccendato sia per gli interessi di casa, sia nell’intrattenere i molti che accorrevano a vedermi e a congratularsi. Gli stessi che si erano tenuti alla larga da noi dopo l’accusa. Fu sola una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Polignoto che ebbi l’opportunità d’una conversazione con Aristotele. Gli portai un piccolo dono, come umile testimonianza d’una grande gratitudine, e ci ritrovammo a discutere di nuovo dell’affare. Alcuni aspetti mi lasciavano ancora perplesso. – Che l’assassino fosse Polignoto – gli rammentai – me l’avete detto la notte in cui andammo al Kerameikos, e quando mi trovavo a casa vostra intento a ripassare l’arringa di difesa, mi avete indicato le prove che lo denunciavano come tale. Ma io vorrei sapere quando avete cominciato a pensare che l’assassino fosse Polignoto. E perché non me l’avete detto subito quando l’avete saputo? – Oh, l’ho saputo fin dall’inizio – rispose il filosofo con disinvoltura. Poi sorrise: – No, non proprio dall’inizio. Non lo sapevo, allora. Ma lo pensavo. Pensai anche che potesse essere stato Filemone. Ma quello che mi dicesti sulla posizione del corpo mi fece riflettere. E poi, che motivi aveva Filemone? Che ragioni di trovarsi in casa? Forse Polignoto l’aveva costretto o persuaso a commettere il delitto? Una quantità di pensieri come questi mi passavano per la mente, ma non mi convincevano. Pensavo che dovesse essere stato Filemone o Polignoto. Poi, quando la moglie di Boutades morì… mi parve una circostanza molto sospetta. I pettegolezzi delle schiave al mercato mi fecero capire che motivo impellente aveva Polignoto per disfarsi di suo zio. – Ma perché non me l’avete detto? – protestai calorosamente. – M’avete mandato in giro in spedizioni pazzesche… Al Pireo mascherato… e sapevate già chi era l’assassino! – Sapere e provare sono due cose diverse. A rigor di termini, non lo sapevo, lo pensavo soltanto, e non riuscivo a vedere una strada per trovare il genere di prova che sarebbe stata richiesta in un caso così difficile. Speravo che tu t’imbattessi in qualcosa che io potessi interpretare, o che le prove si presentassero da sé. Stefanos, io avevo paura che tu potessi sospettare la verità. Ho ringraziato il cielo che tu non l’abbia fatto, perché tu non sai fingere, ragazzo mio. Avresti buttato fuori i tuoi pensieri lì per lì, ma senza nessun sostegno di prove sarebbero passati per farneticazioni, mentre tu ti saresti trovato in grave pericolo. Finché rimanevi inconsapevole e senza sospetti, tutto occupato a perseguire l’idea che Filemone non si trovava ad Atene in quel momento, risultavi innocuo, anzi utile per l’accusatore, che voleva un autentico processo per omicidio da cui Filemone uscisse condannato. Era sicuro che infine avrebbe potuto provare che Filemone era stato ad Atene. – Non me l’avete detto – ripetei in tono di rimprovero. – Mi avete lasciato andare avanti senza dirmi niente, e si trattava di mio cugino. – A cosa sarebbe servito? – replicò pacatamente Aristotele. – Preferivo che tu rimanessi in vita. Se l’assassino aveva potuto uccidere anche la moglie di Boutades senza pensarci due volte, ovviamente non aveva troppi scrupoli. E pensavo che la tua tesi, alla fine, potesse pure fondarsi sulla difesa della zia Eudossia. – E così è stato in fondo – risposi con un certo sollievo. – Ma… alcune cose non quadrano. Mentre preparavamo l’arringa e le prove, vi ho chiesto se era stato Polignoto a incendiare la casa di Melissa e ad assalirmi, e mi avete risposto: «No, lascia perdere questo». Ma ora voglio sapere. È stato Polignoto? – È stato qualcuno che ti odiava, Stefanos. Qualcuno che ti odiava in modo del tutto particolare. Archimeno era rimasto inorridito all’udire che il delitto era stato commesso con un arco cretese. Era balzato alla conclusione che si trattava dell’arco che lui aveva perduto (il che poi risultò esatto) e tremava all’idea che l’omicidio fosse imputato a lui. Infatti aveva chiari motivi per uccidere Boutades. Penso anche che in qualche modo si sentisse colpevole per avergli augurato così spesso di morire. Perciò si sentì sollevato che l’accusa colpisse Filemone, e finì col desiderare che il tuo nome e quello della tua famiglia fosse totalmente disonorato. In quest’odio trovava sollievo alla vergogna, alla paura e al senso di colpa. Sì. Tu, Stefanos, eri diventato nella sua mente un oggetto di odio furibondo. Archimeno ti venne dietro, vide quello che credeva il tuo nido d’amore, e diede fuoco alla casa. – È ammalato adesso – rammentai. – Non è stato più lo stesso dopo quella sfuriata il giorno del processo. Devo ammettere che rimasi molto sorpreso quando mi diceste che doveva essere uno dei miei testimoni. E tuttavia sostenete che fu Polignoto ad organizzare l’attacco contro di me sul Colle delle Muse? – Sì, ne sono convinto, benché ora, probabilmente, non sia più possibile provarlo. L’assassino cominciò a sentirsi a disagio man mano che il giorno del processo si avvicinava. Tu parli delle tue sofferenze durante quei mesi, Stefanos, con le prodicasìe da affrontare e tutte le cose che ti si mettevano contro. Ma hai mai pensato cosa dovette sopportare l’accusatore? Dover sempre sorridere e mostrarsi sereno mentre mentiva, cospirava e stava in guardia. Una vita totalmente innaturale. Persino ad un criminale condannato è concesso di parlare di quanto gli sta a cuore. Sì, Polignoto dev’essere stato infelice e pieno di paura. Era terrorizzato che il suo schiavo avesse rivelato qualcosa. Abbiamo già parlato della probabile messinscena del delitto, con l’assassino nudo in modo da non sporcarsi di sangue, e lo schiavo a reggergli le vesti e un lume, quello schiavo Sinopeo così pallido e spaurito la mattina del delitto e così allegro e coccolato dal suo padrone in seguito. Suppongo che Polignoto avesse deciso di assassinarlo sin dall’inizio, una volta celati nel loro nascondiglio finale i cocci del vaso che probabilmente lo schiavo portava sempre con sé. Può darsi anche che sia stato riluttante ad uccidere l’unica creatura di cui poteva fidarsi e che gli era devota. Credo che inavvertitamente tu abbia detto qualcosa, magari un’osservazione rivolta ad un’altra persona, che ha fatto temere a Polignoto che potessi sapere o intuire qualcosa che non avresti dovuto sospettare. Ad ogni modo, accadde qualcosa che gli fece capire che doveva liberarsi subito dello schiavo. Tornai indietro con la memoria, e ricordai un’osservazione stupida e inopportuna che in effetti il vero assassino poteva aver frainteso. – Così, – continuò Aristotele – come già sappiamo, Polignoto uccise lo schiavo. Questo non deve aver giovato alla sua tranquillità di spirito. E sospettando che tu potessi sapere troppo, pensò che fosse meglio toglierti di mezzo, processo o non processo. Chi può sapere cosa avesse in mente? Forse a quell’epoca ti odiava principalmente perché ai suoi occhi eri la causa della morte del suo schiavo preferito. Probabilmente, tra tutti quelli che ha ucciso, lo schiavo era l’unico a cui volesse bene. – Non gli sarebbe certo dispiaciuto uccidere me – replicai. – Detestava già Filemone, che vedeva come un usurpatore, e fece del suo meglio per schiacciarlo insieme a tutta la sua famiglia. È un miracolo che io non sia morto, come sarebbe accaduto se avesse usato lo stesso sistema a cui ricorse per eliminare lo schiavo. – Sì, – concordò Aristotele – ma nel tuo caso sarebbe stato troppo ovvio, e ne sarebbe risultato un delitto di troppo. Perciò decise di rivolgersi a dei sicari. Abbiamo già parlato di come Polignoto abbia colto di sorpresa lo schiavo sulle montagne del Parnete e lo abbia fatto precipitare giù con una pietra lanciata da una catapulta. Non si può fare a meno di ammirare l’intelligenza e la flessibilità mentale di cui era dotato. Si era reso conto del pericolo insito nel ripetersi delle situazioni. Commise tre delitti diversi con tre armi diverse. Ogni volta gli parve importante adattarsi alle circostanze. Aveva anche buon gusto nella scelta delle armi. Quel giovanotto aveva un ingegno piuttosto macabro. – Intendete dire – dissi esitante – che uccise Boutades nel suo studio, il luogo dove suo zio amministrava il suo denaro e dove aveva abbozzato i documenti dell’adozione… – Esatto, e poi sostenne che Filemone, l’estraneo, aveva compiuto il delitto dall’esterno della casa. Provvide per suo zio una fine leggendaria, macabra e memorabile ad un tempo. A sua zia riservò una fine tipicamente femminile. La spacciò con il veleno, forse con una segreta allusione al fatto che la riteneva velenosa. Alla vita dello schiavo pose fine con una rozza pietra. Era capace di variazioni. Quanto a te, decise di rivolgersi a dei sicari per eliminarti. Anche questo era appropriato oltre che necessario, perché ti considerava con disprezzo e non voleva sporcarsi le mani con te come con una persona di famiglia. Ad ogni modo, mi piacerebbe tanto conoscere quei particolari di cui non possiamo essere sicuri – continuò Aristotele. – Ad esempio, dov’era l’arma del delitto, l’arco, insieme alla sua compagna indesiderata, la seconda freccia, subito dopo l’omicidio? Mi sono chiesto spesso se l’arco e la freccia si trovassero addosso a Polignoto quando lo vedesti quella mattina, diciamo tra il corpo e la tunica. Tu hai detto che si muoveva come se fosse fatto di legno. Se non si trovavano addosso a Polignoto, saranno stati nascosti da qualche parte all’interno della stanza, magari dentro l’anfora. Senza dubbio non si poteva sperare di ritrovare l’arma. Arco e freccia potevano essere bruciati senza difficoltà. – Ma la punta di corno sarà stata spezzata prima che l’arco fosse nascosto – gli ricordai. – Polignoto avrà voluto che fosse ritrovata fuori dalla finestra. Doveva servire a collegare la freccia con l’arciere immaginario all’esterno e a identificarlo come Filemone. – Vero. Ma il frammento del vaso rotto cadde accidentalmente, e probabilmente nello stesso momento –. Aristotele rise. – Guarda un po’ cosa ha combinato quel frammento. Te l’ho detto che vale la pena di osservare bene i vasi. Quella scheggia di ceramica doveva essere rimasta impigliata nella tunica di Polignoto, o nei suoi sandali. E visto che lui non sapeva che fosse stata smarrita e ritrovata, nemmeno la sua mente flessibile poteva essere preparata all’eventualità che venisse usata contro di lui. Ciò nondimeno, sono sicuro che il vaso rotto sia stata la più grave contrarietà per lui. È stata l’unica cosa che è andata storta nei suoi piani. Una volta visto il frammento, ne dedussi che un vaso, un importante vaso attico, doveva essersi rotto nella casa di Boutades all’epoca del delitto. E quando mi resi conto che il vaso delle Dionisiache non era presente nella stanza subito dopo l’assassinio, ho intravisto in questo l’unico tipo di prova che avrebbe sostenuto la nostra tesi. Ma quando io ed altri notabili fummo invitati in quella casa a cena, il vaso delle Dionisiache era nuovamente in evidenza. Cosa era accaduto nel frattempo? Niente di straordinario; ma Polignoto era stato a Corinto. Ti ricordi di quando ti dissi che una volta andai a visitarlo senza essere invitato e mi fermai a scrivere un messaggio? – Sì – risposi. – E quando faceste la visita sapendo che Polignoto era assente, vi fermaste nel vecchio studio di Boutades con la scusa del messaggio, e questo vi diede l’opportunità di esaminare il vaso e grattarne l’orlo. E vi sono molto grato per essere andato fino a Corinto a verificare chi aveva eseguito la copia. Vorrei che me lo aveste detto; avrei almeno potuto pagare. E lo farò… – Lasciamo perdere la gratitudine! – replicò Aristotele ammiccando. – È l’enigma che conta. Ne ero affascinato. Niente sarebbe bastato a tenermi lontano. È un’ottima cosa risalire alle fonti, esaminare i fatti. E non volevo darti troppe speranze. Inoltre, avresti potuto lasciar trapelare qualcosa. Troppo pericoloso per te – concluse frettolosamente. – Ma – replicai – continuo a non capire come potevate sapere che bisognava cercare i frammenti sotto la pietra tombale. Quella notte, quando veniste a casa mia, mi diceste che il vaso era stato riprodotto e che i frammenti originali sarebbero stati dove li trovammo. Ma come sapevate che sarebbero stati lì? Aristotele parve leggermente a disagio. – Nella mia mente mi sentivo sicuro che quello era il posto più logico dove cercarli, benché non ne avessi avuto una prova oculare. Forse erroneamente ti ho rivelato la cosa come se fosse un fatto certo. – Non è che siete stato voi a mettere i frammenti lì, vero? – Diamine, Stefanos, hai un’opinione esagerata della mia forza e della mia malvagità! No davvero. Ho usato il metodo deduttivo. Ormai avevo un’idea precisa di come funzionava la mente dell’assassino. Mi ero reso conto che in tutta questa carneficina mostrava di intuire con molta chiarezza cosa fosse più appropriato in ogni situazione. Era pieno di risorse e adattabile, e in ogni circostanza, comprese le prodicasìe, ispirava le azioni all’occasione. Rispettava le convenzioni. Ora, era chiaro che sarebbe stato necessario conservare i frammenti del vaso finché non fosse stata eseguita la copia. E lo schiavo avrebbe potuto essere ucciso solo dopo aver eliminato i frammenti e aver messo il nuovo vaso al suo posto. Polignoto avrebbe potuto gettare i frammenti nel golfo di Corinto, o disfarsene in altro modo mentre era fuori città. Ma un uomo prudente avrebbe conservato i frammenti dell’originale finché il nuovo vaso non fosse stato portato a casa sano e salvo. E lui era prudente, oltre che audace. Io pensai che avrebbe fatto quello che sarebbe stato normale fare. Attendere che la copia fosse felicemente arrivata, prima di disfarsi dell’unico modello esistente. E così supposi che si fosse liberato dei cocci nel periodo fra il suo ritorno da Corinto e la morte dello schiavo. Cos’era avvenuto nel frattempo? Una sola cosa degna di nota. La collocazione della pietra tombale di Boutades. – Sì – dissi. – Mi ricordo quel giorno –. E mi tornò alla mente la bianca faccia marmorea di Boutades mentre passava per le vie. – Ebbene – seguitò Aristotele prendendo gusto alla sua dissertazione – come ho detto, l’assassino aveva dimostrato un forte senso di ciò che è appropriato. E anche un forte senso della famiglia. Sotto certi aspetti era molto simile a suo zio, avido e possessivo, con poca considerazione per la gente e molta per le cose. È strano, ma io penso che Boutades imparò qualcosa di nuovo prima di morire, quando si affezionò al piccolo Likias; ma questo avvenne perché aveva bisogno di qualcuno a cui trasmettere i suoi averi. Aveva bisogno di sapere che aveva un figlio. Polignoto non imparò mai a valutare le persone, ma apprese dall’esempio di avarizia di suo zio che a volte vale la pena di spendere. Aveva rispetto per i beni di famiglia. Una volta, in mia presenza, disse che gli piaceva vedere le cose nel luogo a cui appartenevano. Io credo che questo fosse vero, anche se Polignoto lo intendeva in senso ironico. Quando alla cena citò quei versi dell’Iliade, guardò il vaso delle Dionisiache, la copia ovviamente. Quelle parole di Achille, come ricorderai, erano tratte dal funerale di Patroclo, quando l’eroe guarda la pira su cui vengono sacrificati ogni sorta di beni e persino vite umane. Le parole di Omero si riferiscono ai riti e alle offerte funebri. Credo che di recente Polignoto si fosse ricordato di quei versi. Anche lui, come l’eroe, stava sacrificando degli esseri viventi, e anche lui stava accertandosi che ogni cosa venisse fatta secondo la tradizione. In pratica, aveva già stabilito dove dovesse finire l’originale. Le eredità non devono uscire dalla cerchia della famiglia. Ma quando muore un ricco, a volte gli oggetti di valore e persino i preziosi tramandati dagli avi vengono seppelliti con lui. Al mio ritorno da Corinto, mi rammentai quella frase dell’Iliade, ne compresi il senso e mi sentii certo. Il luogo più appropriato per i frammenti di quel bellissimo vaso era la tomba di Boutades. Con quel pesante e imponente monumento sopra, i cocci sarebbero stati al sicuro per sempre, nascosti a tutti e ironicamente restituiti al legittimo proprietario. – Credete dunque che abbia sepolto i frammenti nella fossa subito prima che ci fosse collocata sopra la lapide? – Non ne sono sicuro. Penso che questo avrebbe comportato dei rischi superflui. Gli operai avrebbero potuto scavare nel terreno. E i cocci, te lo ricorderai, non erano molto in profondità. No, io credo che Polignoto e il suo fidato schiavo abbiano fatto una visita segreta al Kerameikos proprio come noi, ma per nascondere i frammenti, non per trovarli. Due uomini possono spostare la lapide, come sappiamo. E la loro spedizione non era così rischiosa come la nostra. Polignoto aveva un’ottima giustificazione nei confronti di qualsiasi passante, perché dopo tutto si trattava della lapide di suo zio pagata col suo denaro. Poteva dire che era venuto a rendere omaggio alla tomba, o che aveva udito che la pietra si era incrinata 0 era caduta, o addirittura che era venuto a seppellire un’offerta dimenticata. – E così Polignoto si è sottoposto a tutta quella spesa e quel disturbo. Avete ragione sul fatto che Polignoto fosse pronto a spendere quando l’occasione lo richiedeva. Guardate ai funerali, alla lapide di Boutades e alla copia del vaso. E penso che fosse impaziente di finanziare le feste dionisiache. – Sì. E invece il dramma su Chirone non si farà. Sono certo che la storia di Chirone abbia offerto al nostro assassino un divertimento tutto personale. Probabilmente fu dopo aver deciso quale dovesse essere l’argomento del dramma che Polignoto decise come uccidere Boutades. La freccia scoccata da Eracle, l’eroe forte che uccideva il suo maestro. Be’, gli attori sono molto tristi e resteranno senza soldi. – Soldi – ripetei. – Polignoto ne aveva e ne voleva di più. Sono il furore, il timore e l’avarizia, come avete detto una volta, a causare i delitti. E l’avarizia sembra più potente di quanto pensassi. – Ma Polignoto amava il potere più di qualsiasi altra cosa. Il denaro era per lui soltanto un mezzo per raggiungere un fine o diversi fini. Faceva dei costosi investimenti. Ingaggiare dei sicari, come inscenare produzioni teatrali, si addice soltanto ai ricchi. E in entrambi i casi la riuscita può essere diversa da quello che il promotore desidera. Al contrario, Archimeno non poteva permettersi di assoldare dei sicari per assassinarti. – E allora chi fu l’uomo che aggredì e storpiò la schiava sulla strada per Megara? Fu Polignoto o Euticleide? – Oh, Stefanos, non l’hai indovinato? Fu Archimeno. Ecco perché Boutades aveva tanto potere su di lui. L’ira, la paura e anche il senso di colpa, che era alla base di tutt’e due, furono questi sentimenti a radicarsi nell’animo di Archimeno e a fargli nutrire tanto odio nei confronti di Boutades. Sì, se Archimeno fosse stato abbastanza coraggioso, avrebbe potuto assassinare lui stesso Boutades. Ma lui è il tipo d’uomo che sfoga il suo odio solo sui più deboli. Era sempre crudele con le donne. Ma tu non eri un debole. Archimeno fece un errore a mettersi contro di te, no? Mi sentii lusingato. – Suppongo – dissi – che voi non abbiate corrotto Archimeno perché testimoniasse, ma che lo abbiate in qualche modo minacciato. Gli avete mandato un messaggio il giorno prima del processo, vero? – Non ho fatto alcuna minaccia, Stefanos. Gli ho semplicemente ricordato che quella era l’occasione adatta per vendicarsi dell’uso perverso fatto da Boutades di un certo incidente. Bada bene, non sono sicuro che Archimeno non meriti un castigo legale per il crimine commesso in passato, ma gli dei stanno già facendoglielo pagare. – E così… Euticleide non è colpevole di nulla – conclusi in tono piuttosto deluso. – Be’… Euticleide può avere sospettato che Polignoto fosse l’assassino. Questa è un’altra delle cose che non sapremo mai. Io sono dell’idea che Euticleide indovinò la verità quasi subito, la indovinò e non vi diede molto peso, ma vide nella futura scalata al potere di Polignoto una grande opportunità per se stesso. Non è vecchio, ed è ancora ambizioso. La sua famiglia ha commesso errori politici e perduto influenza, ma per lui si presentava l’occasione di rioccupare la sua antica posizione. Poteva rendersi indispensabile a Polignoto. Senza dubbio Euticleide desiderava di vedere te e la tua famiglia ridotti in polvere per compiacere Polignoto e per garantire che il processo filasse liscio. Dopo tutto, saresti stato troppo povero per poter ingaggiare uno che ti scrivesse l’arringa –. Sorrise con autocompiacimento. Poi ridivenne serio e continuò: – È questo il guaio con gli oligarchi. Hanno delle gran brutte abitudini. Polignoto aveva l’anima dell’oligarca. E così Euticleide. Ma Polignoto era un tipo insolito, giovane, brillante, spericolato. Si fidava molto della sua fortuna. Pensava superstiziosamente che lo avrebbe sostenuto fintanto che faceva omaggio alle convenzioni e rispettava quel particolare spirito conservatore che è evidente nel decoro esterno delle sue azioni. Sì, Polignoto si sentiva un beniamino della fortuna. Uno di quelli a cui gli eventi obbediscono. – Sembrava… così buono – dissi ricordandolo. – Sembrava degno di ammirazione. Sapete, in un certo senso, anch’io avevo simpatia per Polignoto; o per lo meno lo stimavo. – Già – sospirò Aristotele. – Polignoto era il tipo da ispirare il miglior genere di retorica. Postfazione di Beppe Benvenuto Dell’autrice, Margaret Doody, si sa poco o nulla. È certo, o quasi, che nell’Ottanta aveva all’incirca quarantuno anni, viveva fra le due sponde dell’Oceano e si manteneva insegnando una qualche materia del tipo letteratura inglese, filologia classica o forse, meglio, letteratura comparata. È certo anche che aveva scritto un libro di fiction di un genere assai singolare. Ed è quasi altrettanto sicuro che l’opera era stata pubblicata nel ’78 in inglese e due anni dopo nei Gialli Mondadori. Da allora però se ne sono perse le tracce (rinvio per saperne di più alle non semplici scoperte fatte per l’occasione da Emanuele Ronchetti sull’iter accademico dell’autrice, vedi postfazione da p. 443). Il libro è diventato, bancarelle incluse, introvabile. Così tutto ciò che di questa misteriosa signora e del suo unico frutto letterario si poteva conoscere, non andava oltre i passaparola degli informatissimi, oppure rimandava al ricordo di chi, oramai quasi vent’anni prima, aveva sfogliato il vecchio Giallo mondadoriano restandone piacevolmente sorpreso. Che Aristotele detective sia un libro un po’ «speciale» lo si intuisce sin dalle prime battute. La Doody costruisce intorno al più celebre filosofo dell’antichità una narrazione credibile e coinvolgente: una vicenda autenticamente noir, ben ambientata, storicamente e filosoficamente corretta. Il libro è, però, anche un romanzo di formazione. Al centro della scena uno svogliato frequentatore delle lezioni del filosofo di Stagira, che improvvisamente si trova a dover fronteggiare una storiaccia criminale nella quale è coinvolto un parente. Il suo nome è Stefanos. A lui dobbiamo anche il racconto dell’intera peripezia. Il giovane, grazie all’«aiuto» del Maestro, salverà dalla condanna il cugino primo, Filemone (esule da Atene a causa di un precedente omicidio), accusato di aver ucciso per avidità e gelosia l’oligarca Boutades. E si impadronirà di quel «metodo deduttivo» la cui importanza anche pratica, il suo mentore, Aristotele, gli ha fatto apprezzare. Stefanos, ventidue anni, è da poco, in seguito alla scomparsa improvvisa del padre, nella non semplice condizione di capofamiglia «con una madre e un fratello minore a cui provvedere», oltre una schiera di domestici e schiavi da foraggiare. E se non bastasse proprio in quel momento, ma si sa che le disgrazie arrivano a grappoli, si trova ad accorrere fra i primi, passava davvero, davvero da lì, per puro caso, sulla scena del delitto, precisamente nella stanza al centro della quale, disteso sul pavimento, giaceva «l’eminente cittadino Boutades, del clan degli Etioboutadi», ex corègo e trierarca. Così, sbrigativamente, già nella sequenza iniziale vediamo in movimento, in una notte avanzata che già volge all’alba, alcuni degli attori che ci accompagneranno per l’intera storia. Di Stefanos e del patrizio ucciso abbiamo parlato. Della sua morte veniamo ora a sapere che è stata provocata da una freccia scoccata da un tipo d’arco, quello cretese, come spiega il protagonista- narratore, poco usato nell’evoluta Atene. Sul posto accanto al cadavere sono anche il nipote ed erede Polignoto, l’affarista e strozzino Euticleide, e un servo che, vanamente, cerca di rincorrere quello che tutti i presenti assicurano essere l’assassino. Ma che per il momento non ha ancora un volto e un nome. Di lì a poco, è la sequenza successiva, concluso il funerale di Boutades, il povero Filemone sarà pubblicamente accusato dai familiari della vittima. Fissato il lead, la Doody procede spedita raccontando il disorientamento del suo primattore. Stefanos non sa in effetti a che santo votarsi per tirare fuori dai guai lo sventurato congiunto. Da quel bravo figliolo che è, sa anche di non poter deludere l’anziana e malata zia Eudossia, madre di Filemone, che ne invoca l’aiuto con parole così impegnative e toccanti da non ammettere repliche: «Oh, Stefanos, devi salvarlo! Tu sei il capo della famiglia ora, tu puoi fare qualcosa per ristabilire la giustizia». Convinto dell’innocenza del cugino, anche se qualche dubbio in proposito farà a più riprese capolino fra i suoi pensieri, Stefanos brancola nel buio. E gira a vuoto. In città si sente guardato di traverso e intorno a sé avverte tutto, fuorché simpatia. Gli rimane una chance: Aristotele, di cui, in passato, era stato studente, seppure di non «particolare talento». Forse potrebbe venirgli in soccorso. E così, per quanto oppresso da mille timori, osa bussare alla sua porta. Il filosofo si mostra disponibile e gli promette aiuto e consigli. Gli suggerisce subito un percorso. Con il suo argomentare pacato, apparentemente spicciolo, lo incita a considerare il caso da più punti di vista. Stefanos uscirà dal primo appuntamento non solo rinfrancato, ma anche fornito di una serie di indicazioni pratiche, che lo porteranno a svolgere una vera e propria controinchiesta. Il Maestro, da quel momento, senza farlo notare, senza dirlo esplicitamente, lo prende per mano e lo conduce per le aspre vie di un’avventura dall’esito incerto. Facendosi un po’ allenatore e un po’ alter ego, ne tiene desto l’ingegno, invitandolo a scrutare, comunque, dietro le pieghe di accadimenti e uomini. Lo sollecita a fronteggiare, davanti ai giudici dell’Areopago, da pari a pari, Polignoto, con argomenti ancora più stringenti di quelli esibiti dal rampante antagonista. Gli consiglia l’esercizio maieutico di mettersi comunque nei panni dei suoi contraddittori («Un buon rètore prevede tutte le obiezioni del caso»). Un piccolo sunto di questa metodica aristotelica applicata al nostro delitto, si ha quando il Maestro a proposito del tipo di morte di Boutades («molto interessante»), puntualizza: «L’uomo colpisce il suo simile per uno di questi motivi: per caso, per impulso, per abitudine, o per intenzione. Un caso non può essere stato; a meno che l’assassino intendesse uccidere qualcun altro e abbia commesso un errore. Possibile ma non probabile. Abitudine: certamente no. L’abitudine di ammazzare gente all’alba, con arco e frecce, sarebbe un’eccentricità troppo notevole. Impulso: sì, l’assassino può essere stato spinto a commettere il delitto dal suo vero progettatore. Il che mi porta ad un quarto motivo: perché chiunque abbia progettato questo delitto, sia stata sua o no la mano che ha colpito, voleva che Boutades morisse». E all’obiezione di Stefanos che si potrebbe trattare anche di un delitto compiuto da un pazzo, Aristotele conclude così la sua fenomenologia del crimine: «Sì, un desiderio irrazionale della morte di un uomo è anche possibile. I moventi irrazionali sono i più difficili da enucleare, sebbene spesso finiscano col sembrare razionali una volta che siano sviscerati». Alla maniera di Sherlock Holmes o meglio di Archie Goodwin, il celebre aiutante-narratore di Nero Wolfe, Stefanos si traveste da poveraccio, occhi e orecchie ben aperte a caccia di notizie, di pezze d’appoggio per smontare le accuse contro Filemone. Lo vedremo, come un vero investigatore, frequentare bettole, ascoltare le confidenze di servotte risentite, scoperchiare i tremori di alcuni sospettosi colleghi dell’estinto, magari aggirandosi fra i marinai puzzolenti dell’angiporto del Pireo, o fra le schiave del mercato, a rubacchiare, senza farsene accorgere, qualche indiscrezione, qualche retroscena sulla vita privata, non sempre immacolata, dell’ucciso. Il suo smuovere le acque non passa però inosservato: gli procura il risentimento piccato di quelli che si sentono disturbati dalla sua petulante curiosità. E tuttavia qualche passo in avanti riesce a farlo. Ma ogni conquista, ogni pezzetto di verità in più che viene scoperchiando, fa subito il paio con una controverità che ne scuote le certezze. Non riesce a districarsi più di tanto fra gli intrighi politico-finanziari che l’ucciso aveva tramato alle spalle di un collega trierarca. E non sono rari i momenti in cui si sente davvero perduto, melanconicamente solo, di fronte a un compito che gli appare troppo superiore alle sue acerbe energie. Ma si tratta di horror vacui temporanei, e però così laceranti da farlo sospettare persino delle buone intenzioni della sua ancora di salvezza, Aristotele. I passaggi di autentico panico, si alternano con accortezza a quelli di azione. La suspence è garantita e mantenuta grazie a un dosaggio equilibrato di colpi di scena, rimuginamenti fra sé e sé, dialoghi tesi e argutamente pensosi. La costruzione del libro ha un suo andamento semplice, quasi elementare, anche se un occhio sapiente può cogliere come, dietro un dialogare piano e un raccontare nitido, si nasconda una mente sapiente capace di orchestrare i ruoli in campo. La Doody tira le fila del suo intreccio, lasciando, come si conviene, il lettore sino in fondo con il dubbio di aver effettivamente sbagliato ad intendere chi è il vero assassino. E pur sposando, sin dalle prime pagine, la tesi innocentista di Stefanos, l’autrice opportunamente evita di mostrarsi partigiana; riservandosi, quando è il caso, di far leva sulla saggezza sfuggente ma demiurgica di Aristotele. Un’ambiguità funzionale che non solo tiene desto l’interesse, spazientendo e disorientando chi legge, ma che consente di mantenere il filosofo al centro della scena narrativa. Quello di Aristotele risulta così un perfetto dietro le quinte. In parte e solo verso la fine, il Maestro perderà la sua olimpica flemma, trasformandosi da austero pensatore in vero detective. E con quale energia e spregiudicatezza il lettore lo scoprirà da solo. Bisogna ricordare a questo punto che il romanzo è ambientato in un periodo di decadenza (siamo intorno al 330 a.C.). Atene va perdendo ogni autonomia politica e ogni vigore democratico, per avviarsi a diventare uno dei tanti spezzoni di quell’incredibile impero universale che il giovane Alessandro sta mettendo assieme con la fulminante rapidità di un prediletto dagli dei. Una città quindi livida, amareggiata, cattiva e querimoniosa, come può essere solo una ex grande che ha visto scorrere davanti ai proprio occhi un sogno di dominus universale e che ormai volge inesorabilmente al tramonto. Non è un caso perciò che la Doody scelga di raccontarci quell’era di trapasso con le tinte sfumate del grigio, mentre atmosfere e interni hanno sempre un tocco accentuatamente plumbeo. L’eccellente metropoli è divenuta intimamente ingenerosa, e, per paura di un incerto futuro, quasi inospitale. E soprattutto dominata dal sospetto. Niente di strano che Stefanos per avere un po’ di aiuto per uscire dalla sua disgraziata condizione, trovi udienza in uno straniero, sebbene illustre e temuto, come l’ex precettore del potentissimo Alessandro, lo stagirita Aristotele. Sui concittadini non può contare. Il plauso arriverà solo alla fine, a catarsi avvenuta, a successo platealmente conseguito. Ma tant’è. Malgrado le ricorrenti crisi di smarrimento, Stefanos, confortato dal Maestro, riesce ad uscire indenne dalle situazioni ad alto rischio. Non senza commettere qualche errore: «Sei troppo trasparente», lo ammonisce spesso il suo mentore. Morti violente e colpi di scena non mancano. Il vero regista dell’indagine, è sempre, naturalmente, Aristotele. Il filosofo si prende il gusto di tirare le fila della storia, e di spiegare che ognuno dei delitti perpetrati aveva una sua tecnica speciale, e una geometria simbolica. A bocce ferme, il Maestro si intrattiene più che su come, su quando e perché dell’assassinio, su una sorta di messa a punto, ad uso del discepolo ma soprattutto del lettore, di un metodo di lavoro. Così l’indagine di un delittaccio diventa una sorniona rievocazione di un filosofico ragionare. Un invito a guardare oltre l’apparenza degli eventi, quando si devono adattare «idee» teoreticamente sostenute ad una prosaica vicenda di ammazzamenti, gelosie, inganni, ambizioni, lotte di potere e di denari. Dalla striminzita mezza paginetta biografica che accompagnava la prima edizione nei Gialli Mondadori leggiamo che Margaret Doody ha iniziato a scrivere Aristotele detective in una casa di un vecchio villaggio di pescatori «immersa nel profumo del salmastro». E dalla stessa fonte sappiamo che continuava a provare un intenso «rimpianto del mare della sua infanzia». Non è forse del tutto campato in aria immaginare perché la scrittrice faccia scomparire l’assassino fra i flutti di una tempesta che agitava le acque davanti all’isola di Salamina, dove invano aveva cercato riparo dal suo destino. Beppe Benvenuto Realtà e finzione di Aristotele investigatore di Emanuele Ronchetti Margaret Anne Doody, canadese di nascita, è professore di inglese e di letterature comparate; ha studiato alla Dalhousie University, a Oxford e, per un certo periodo, ha insegnato nel Galles, a Swansea. Prima di approdare alla Vanderbilt University, dove attualmente lavora, è stata alla Columbia e a Princeton. Una carriera accademica di tutto rispetto, nella quale la pubblicazione di Aristotle Detective (Bodley Head, London 1978) ha segnato un momento importante. Come ci racconta in apertura del suo bellissimo libro sulla storia del romanzo (The True Story of The Novel, Harper Collins 1997), è stato proprio l’aver pensato e scritto quel thriller storico e il suo seguito, sinora inedito – Aristotle and Poetic Justice – a spingerla a occuparsi del romanzo antico: per intenderci, dalla Ciropedia di Senofonte ai romanzi ellenistici su Alessandro Magno. Non è un caso se la voglia dell’autrice di raccontare la torbida storia di una catena di omicidi nell’Atene classica si sia incontrata con la convinzione della studiosa di letteratura che il romanzo cominci proprio da allora. Dal 328 a.C. Contro l’idea di molti autorevoli critici che le passioni a cui siamo abituati, in particolare l’amore romantico eterosessuale, datino dal sorgere della borghesia (dal 1650 in poi secondo Lawrence Stone, per esempio), Margaret Doody sostiene che c’è una continuità ben visibile tra immaginario greco-romano e moderno. Come le capita di far dire ad Aristotele stesso nel racconto Aristotle and the Fatal Javelin del 1980 (The Mistery Guild Anthology, ed. by John Waite, Constable London): non c’è età per le passioni e per gli istinti omicidi. Fedele alla Poetica di Aristotele, Margaret Doody si attiene alla massima del maestro: «Ora, siccome gli imitatori imitano persone che agiscono, e queste persone non possono essere altrimenti che o nobili o ignobili – perché i due unici criteri su cui si fonda la diversità dei caratteri possiamo pur dire che siano sempre questi, e tutti gli uomini infatti differiscono nel carattere in quanto sono virtuosi o non virtuosi – costoro dunque imiteranno o uomini migliori di noi o peggiori di noi o come noi» (1448a). In effetti i personaggi che circolano nell’Atene del romanzo non hanno qualità diverse da quelle degli uomini comuni. Alcuni sono malvagi, altri semplicemente stupidi, qualcuno, come Stefanos, l’involontario protagonista, allievo del filosofo, è ingenuo e volenteroso. Al tocco di realismo, che circoscrive e definisce, in certo senso, la materia bruta del romanzo, si può aggiungere la considerazione moraleggiante della giustizia poetica, secondo la quale si nutre aristotelica fiducia nel fatto che il cattivo finirà male e il buono felicemente. La plausibilità della storia è garantita dalla naturalezza delle vicende e delle situazioni. Come da quel ritrattino del filosofo che risulta dal dialogo un po’ concitato tra Filemone e Stefanos, in fuga sulla via di Megara. «Mi sembra un buffo vecchietto», disse con sufficienza, «ma lo ripagherò, puoi starne certo. Si è comportato molto bene con noi. Dev’essere un gran parlatore, no? Quei vecchi filosofi stanno sempre seduti a sentenziare». «Aristotele non sta seduto, lui è un peripatetico». Oltre che passeggiare, però Aristotele cura, nel senso che fa il medico. E del resto questo non ci stupisce, sapendo che era il figlio di Nicomaco, il medico personale di Aminta II, re di Macedonia, nonno del grande Alessandro. L’interesse per la medicina, la duplice cura dell’anima e del corpo, è colto come elemento importante della curiosità scientifica e umana dello Stagirita. Lo troviamo diverse volte impegnato a prescrivere pozioni e linimenti, dimostrando, incidentalmente, di apprezzare il buon vino. Sull’attendibilità storica di questo particolare non è possibile pronunciarsi con certezza, ma è una nota che non risulta stonata. Tra medicina ed eugenetica, allo scopo di realizzare quell’armonia auspicata nei rapporti gerarchici familiari, si manifesta pure la fedeltà dell’autrice alle predilezioni del filosofo. La storia del matrimonio clandestino di Melissa con Filemone, l’accusato, padre del piccolo Likias, e della complicata relazione con Boutades, che vuole adottare tutto il nucleo familiare genitore compreso, non è altro che la riproduzione della concezione aristotelica della preminenza assoluta del padre. Che se è vero che deriva in primo luogo dalla necessità biologica, non è detto che non possa essere surrogata da un artificio legale. In assenza di legame biologico, come in questo caso, si può ovviare attraverso l’istituto giuridico dell’adozione, che supplisce razionalmente alle impotenze della vita. In tal modo il ricco, poi crudelmente assassinato, Boutades, aspira comunque a una sorta di «patria potestas», che la possibilità dell’adozione gli concede. Avviene così che da seduttore della bella Melissa si trasformi nel protettore della virtù insidiata, non si sa quanto spontaneamente, e pur tuttavia questa decisione innesca gelosie e risentimenti che scateneranno la violenza assassina. Il mondo delle passioni e il gioco delle relazioni e degli impegni economici offre un altro terreno di verifica della rappresentazione romanzesca. Nel dirimere, o, per lo meno, nel cercare di capire le motivazioni confuse delle azioni, va tenuta in conto la nostra disponibilità ad accettare lodi per le buone qualità che non abbiamo, così come la predisposizione a coltivare un odio freddo e pervicace, ben diverso dalla collera istantanea e prorompente verso chi ci intralcia nei nostri progetti. In tutto ciò bisogna agire da filosofo, come insegna l’Aristotele della Doody, e comportarci come uomini dotati soprattutto di grande senso pratico. La vedova di Boutades si «suicida» poco dopo l’assassinio del marito. Stefanos, sconvolto, esprime ad Aristotele la sua incapacità a capire come la donna che, in occasione del funerale del marito, affranta, aveva gettato un anello d’oro nella fossa di Boutades in segno di omaggio, fosse la stessa che, invece, all’annuncio della sua morte, pochi giorni prima, aveva festeggiato gozzovigliando con un porcellino da latte. «È difficile giudicare della buona salute di un matrimonio dall’esterno. Questa donna avrebbe potuto non sopportare il fatto di essere privata di un compagno di litigi per tutta la vita. Le nostre abitudini sono più forti di quanto non sospettiamo». Sembra quasi un riferimento ironico alla vicenda matrimoniale tra Socrate e Santippe. Del resto, si avvertono nel libro echi e tracce di Platone, e l’autrice ha inoltre prestato ad Aristotele dei tratti socratici, perfettamente funzionali alla sua attività di ricerca investigativa. Nell’aiutare Stefanos a preparare l’arringa decisiva di fronte all’Areopago, il filosofo dimostra di essere un consumato retore ed attore. Per addestrare l’allievo non sceglie la via a prima vista più facile, che sarebbe consistita nello scrivergli il discorso. Cerca, maieuticamente, di estrarre dallo stesso Stefanos le argomentazioni, gli atteggiamenti e le modalità più adatti a persuadere il pubblico del tribunale. E l’allievo riconosce in questo metodo quello usato da Aristotele nell’Accademia, quando cioè era ancora allievo di Platone, prima di fondare la sua scuola, il Liceo. Se ci spingessimo per un istante al di là dell’ambiente antico, l’episodio della preparazione dell’arringa potrebbe ricordarci anche un filosofo più vicino a noi. Il Denis Diderot del paradosso dell’attore, teorico delle tecniche più efficaci e adeguate a coinvolgere l’uditorio. Non è qualcosa di innaturale e gratuito, del resto, perché sappiamo bene come la tradizione poetica e retorica aristotelica abbia giocato un’influenza decisiva lungo tutto l’arco della civilizzazione. Se volessimo confrontare l’inizio della Retorica con le considerazioni che Aristotele propone circa le regole a cui gli oratori erano obbligati sulla scena dell’Areopago, nonché sulle modalità di raccogliere e presentare le prove, avremmo una introduzione esemplare al modo di procedere del nostro personaggio. Come ogni detective che si rispetti, anche Aristotele fa ampio uso di ingegnose deduzioni e induzioni. Anzi, alla fine della storia, quando Stefanos gli esprime la sua riconoscenza, Aristotele si schernisce. Afferma infatti che non si è impegnato nella vicenda per benevolenza, perciò la gratitudine nei suoi confronti non è giustificata. Piuttosto si dice spinto da una motivazione egoistica: il gusto di risolvere un problema intricato, utilizzando tutti gli elementi a sua disposizione. Applicando cioè le tecniche deduttive e induttive all’analisi psicologica dei personaggi coinvolti. Studiando le mosse e le possibili reazioni dei protagonisti; ricostruendo la dinamica degli eventi, la traiettoria delle frecce, le tracce e gli indizi, anche nascosti e apparentemente irrilevanti. In questa attività, tra l’altro ci si rivela un Aristotele esperto conoscitore della ceramica greca del suo tempo e fine intenditore delle sue differenti qualità, estetiche e di fattura. Tuttavia, queste coordinate logiche non sono riducibili a una specificità sillogistica. Il nostro Aristotele si comporta e ragiona come Aristotele, senz’altro, ma anche come Sherlock Holmes, praticando, per di più (non si sa quanto inconsapevolmente), inferenze alla David Hume o abduzioni alla Charles Sanders Peirce. Come l’inimitabile Zadig di Voltaire (lo Zadig del terzo capitolo del racconto) che dice: «Nessuno è più fortunato di un filosofo che legge nel gran libro che Dio ha messo sotto i nostri occhi. Le verità che egli scopre sono tutte sue; nutre ed eleva il proprio animo; vive tranquillo; nulla teme dagli uomini e la tenera sposa non viene a tagliarsi il naso». Così, con mossa stupefacente, agli eunuchi del re che gli chiedono: «Giovanotto, non avete per caso visto il cane della regina?», da buon lettore del libro del mondo, risponde: «Si tratta di una cagna e non di un cane». Pur non avendo visto la cagna, Zadig arriva alla realtà a partire dalle impronte di un animale, che lasciavano solchi lievi e prolungati, indizio di un cagnolino – a questo punto di sesso femminile – con le mammelle pendenti a sua volta testimonianza di recente maternità. «Altre tracce in senso diverso, che sembravano aver costantemente rasato la superficie della sabbia accanto alle zampe anteriori, mi hanno messo in grado di sapere che aveva le orecchie molto lunghe; e poiché avevo notato che l’impronta di una zampa era sempre meno profonda di quella delle altre tre, ho compreso che la cagna della nostra augusta regina era, se posso azzardarmi a dirlo, un po’ zoppa». Se è vero, come ha detto Agatha Christie, che la vita è un mistero irrisolto, gli investigatori sembrano essere utili e talvolta efficienti ausiliari nell’orientarsi nella nebbia. L’Aristotele di Margaret Doody appartiene a questa galleria di curiosi per professione, simpaticamente bisbetico e professorale, esattamente come ci aspettiamo che un illustre maestro e professore sia. Cinico quel tanto da mettere alla prova il fedele e ingenuo Stefanos. E nello stesso tempo così pedagogico da discettare sui vari tipi di desideri razionali: il desiderio di vendetta, il desiderio di guadagno e il desiderio di assicurarsi una esistenza facile. Tre motori immobili degli inconsulti e disordinati moventi delle nostre azioni. Emanuele Ronchetti Indice I - Io, Stefanos II - Omicidio ad Atene III - Canti funebri e accuse IV - In casa di Aristotele V - Notizie e voci VI - Dal Pritaneo al Pireo VII - Taverne e vasi rotti VIII - Sangue e insulti IX - Questioni familiari X - L’enigma dell’iscrizione XI - Fuoco e tenebre XII - Spade e pietre XIII - L’ultima prodicasìa XIV - Un giorno alla fattoria XV - Viaggio in Eubea XVI - Ritorno ad Atene XVII - Aristotele organizza un viaggio XVIII - Pericolo e rischio di morte XIX - Pensieri di morte XX - Al crocevia di Ecate XXI - Aristotele maestro di retorica XXII - Comincia il processo XXIII - L’Areopago in tumulto XXIV - Dopo il processo Postfazione di Beppe Benvenuto Realtà e finzione di Aristotele investigatore di Emanuele Ronchetti