diff --git "a/static/data/il_segreto_di_pietramala.txt" "b/static/data/il_segreto_di_pietramala.txt" new file mode 100644--- /dev/null +++ "b/static/data/il_segreto_di_pietramala.txt" @@ -0,0 +1,9041 @@ + Elia Rameau, un giovane linguista di Parigi che gira il mondo per +catalogare lingue esotiche, viene inviato a compiere una delicata missione: +deve studiare e descrivere la lingua di Pietramala, un borgo isolato sulle +montagne della Corsica. Dopo un viaggio in cui sembra che tutto cospiri +per impedire il suo arrivo a Pietramala, Elia scopre che il borgo nasconde +tre misteri: è stato abbandonato all’improvviso secoli prima, ogni traccia +di lingua scritta è stata cancellata e nel cimitero non ci sono tombe di +bambini. Cosa tiene insieme queste assenze? Inizia così un viaggio +avventuroso che porta Elia in un palazzo di Manhattan per scoprire il +segreto della lingua di Pietramala, una lingua che minaccia di tornare a +uccidere. +Un viaggio che attraversa agguati, fughe, inganni, l’amore per una ragazza +bellissima, l’amicizia con due attori di teatro, l’odio per chi violenta la +natura umana, la crisi profonda di chi non riesce a risolvere un enigma e +una visione del mondo piena di fantasia e di sapori. Un romanzo +avvincente che cambia e commuove il lettore, portandolo a conoscere +mondi nuovi, lingue dimenticate e amori indimenticabili. +“Non potevo immaginare che da quella notte tutta la mia vita sarebbe +cambiata, che quella che sembrava una trappola si sarebbe rivelata invece +una catapulta per l’anima.” + Andrea Moro è professore ordinario di Linguistica generale presso la +Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia, dove studia la teoria della +sintassi delle lingue umane e i fondamenti neurobiologici del linguaggio. +Dottore di ricerca in linguistica, borsista Fulbright negli Stati Uniti, si è +diplomato in sintassi comparata all’università di Ginevra ed è stato varie +volte “visiting scientist” al MIT e alla Harvard University. Ha pubblicato +numerosi articoli in riviste internazionali tra le quali Nature Neuroscience, +Nature Human Behaviour, Trends in Cognitive Sciences, Linguistic +Inquiry e i Proceedings of the National Academy of Science. Tra i suoi +libri, tradotti in diverse lingue: The raising of predicates (1997), Dynamic +Antisymmetry (2000), I confini di Babele (2006), Breve storia del verbo +“essere” (2010), Parlo dunque sono (2012) e Le lingue impossibili (2017). Il +segreto di Pietramala è il suo primo romanzo. + Oceani. 27 + Andrea Moro +Il segreto di Pietramala +La nave di Teseo + © 2018 La nave di Teseo, Milano +Published by arrangement with The Italian Literary Agency +  +ISBN 978-88-9344-434-7 +  +Prima edizione digitale gennaio 2018 +  +  +Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. +È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. + Sommario +Capitolo primo +Settembre, ovvero quando il mare di Corsica porta a scoprire che gli abitanti di un +villaggio sono tutti fuggiti e ad accorgersi di un’altra sorprendente assenza. +Capitolo secondo +Ottobre, ovvero quando l’aria si fa irresistibile per mangiare, baciare e decifrare un +mistero. +Capitolo terzo +Novembre, ovvero quando si parte per l’altro mondo e cambia l’odore dell’aria e ci si +riesce a perdere in un appartamento di Manhattan pieno di libri. +Capitolo quarto +Dicembre, ovvero quando vedere la vita degli altri ti fa capire meglio la tua ma non te ne +accorgi e scopri che in un mondo senza luce cambiano molte più cose dei colori. +Capitolo quinto +Gennaio, ovvero quando di fronte a due pietanze non sai cosa scegliere e finisci per farle +raffreddare entrambe. +Capitolo sesto +Febbraio, ovvero quando il freddo sembra fermare anche le palpebre ma non i pensieri. +Capitolo settimo +Marzo, ovvero quando il lettore entra in gioco e ci si accorge di una cosa semplice che +abbiamo sempre avuto di fronte e che stupisce molto. +Capitolo ottavo +Aprile, ovvero quando si sbrinano i sogni e ritorna la nostalgia della luna sul mare tiepido +ma non è ancora ora. +Capitolo nono + Maggio, ovvero quando finalmente si ritorna dove si era partiti, si decifra un’iscrizione +che ora appare ovvia e ci si accorge di cosa valga veramente la pena. +Epilogo +Postilla + a MEM +Questo libro è dedicato alle cose belle che finiscono, +perché mi provano che ne cerco una che non finisca. + Capitolo primo +Settembre, ovvero quando il mare di Corsica porta a scoprire che gli abitanti di un villaggio sono +tutti fuggiti e ad accorgersi di un’altra sorprendente assenza. +[1.1] Preposizione nome verbo articolo nome congiunzione articolo nome +verbo preposizione nome congiunzione nome verbo articolo nome. +Evidentemente, in principio non era il verbo. Almeno non qui. In principio +qui c’era solo una banalissima “preposizione”, il nome disadorno di un +monosillabo seguito da altre etichette grammaticali e niente di più; in +principio, qui, c’era solo un ordine senza significato, l’esoscheletro di un +pensiero senza pensiero, come la carcassa vuota di un insetto asciugato dal +tempo. +Riposi in fretta la lettera – senza un commento, senza un sospiro – +nella mia cartella di cuoio. Era nera, chiusa con uno spago rosso: una di +quelle morbide e che profumano di buono; vi custodivo tutte le lettere che +mi aveva spedito la Signora – così fin da bambino mi ero abituato a +chiamarla – nel corso degli anni. Fu un movimento rapido, come di chi, +preso di soprassalto da un richiamo, pur intento in qualcosa di importante +deve volgersi subito ad altro: avrei decifrato il messaggio in un secondo +momento. Era stato il barrito gutturale e potente della nave a scuotermi: +imponendosi su tutto, avvisava che stavamo facendo ingresso nella baia. +In piedi, sul ponte principale, mentre guardavo il sole all’orizzonte sul +mare volsi di scatto la testa dalla parte opposta e vidi: eravamo ormai +all’interno della baia di Calvi, in Corsica. +È la baia di Calvi un meraviglioso anfiteatro naturale, emergente +dall’acqua e abbracciato da una catena non interrotta di monti, tutta a +creste e avvallamenti, che vien quasi a ritagliare un’ellissi di mare a uno +dei due fuochi della quale punta il promontorio della cittadella vecchia, +sagomata come un veliero di pietra. La cittadella, germe originario +dell’insediamento, fu fortificata da poderosi bastioni nel Cinquecento, +eretti poco dopo l’inaugurazione del palazzo dei governatori genovesi, ed è + oggi una caserma dell’esercito francese. A chi arriva per mare, +quell’immagine di un castello a sagoma di nave, ancorato in una baia +protetta dalle montagne, si imprime con un senso struggente di meraviglia +e questa meraviglia è, se possibile, resa ancor più intensa perché sorge +dopo ore di traversata, quando gli occhi sembrano ormai aver dimenticato +la dimensione verticale, e genera l’impressione che si tratti di un’opera +progettata da squadre di ingegneri e architetti, come il palazzo di un +imperatore, e non una combinazione involontaria, ma non per questo +meno stupefacente e armoniosa, di forze naturali. La pietra illuminata +dalla luce radente di settembre aveva i toni di un impasto di terre rare, +come un tessuto indiano, il cui orlo netto delimitava con un ricamo il cielo +blu intenso, sgombro da ogni sbavatura di bianco. +Io però non avevo tempo per emozionarmi, qualora anche ci fossi +riuscito: ero giunto fin lì solo per lavoro e avrei concluso il tutto quanto +più velocemente possibile per far ritorno a Parigi al massimo in qualche +settimana. Ero lì per guadagnarmi qualche soldo: non avevo necessità di +contemplazioni. +Non mi aveva scosso nemmeno l’emozione di una traversata +difficoltosa. La navigazione da Genova era stata ben più che tranquilla. Il +mare di settembre aveva confermato la sua fama: brezze favorevoli, +residuo addomesticato di una “tramontana chiara”, come la chiamavano i +marinai, ci avevano accompagnato costantemente generando solo rare +folate che increspavano a chiazze l’acqua e un cielo così terso da far +intuire le stelle ancora prima che apparissero. E per giunta anche all’arrivo +il tempo era meraviglioso. Non era infatti una notte né buia né +tempestosa; anzi, non era nemmeno una notte. Era una sera ed era per +giunta straordinariamente quieta, una di quelle dove si vede la luna +insieme al sole e non si sa più a chi spetti il cielo. L’unica crepa nella +gelatina di indifferenza che stava tra me e quel paradiso era la percezione +che, per quanto la Corsica fosse vicina, tuttavia, lo stacco tra l’isola e il +continente era incommensurabile. Non era la prima volta che vedevo la +montagna nell’acqua – così i marinai chiamavano l’isola – ma ogni volta +era sempre come se entrassi in un mondo alternativo o meglio nel vero +mondo, mentre quello che lasciavo alle spalle appariva come un ricordo +poco plausibile. + L’inversione turbolenta delle eliche aveva frenato il traghetto facendolo +tutto tremare e annunciando con ciò le operazioni di attracco. Dovevo +recuperare lo zaino e la valigia con il materiale: ero pronto a sbarcare. Un +ultimo sguardo dal ponte verso la baia mi fece rendere conto che la luce +del tramonto iniziava a gareggiare con le lampade delle case. Scacciai la +tenerezza dagli occhi deviando lo sguardo verso la scala di ferro che +avevano appoggiato alla chiglia. L’affrettarsi dei marinai sul molo a +raccogliere le cime per far attraccare la nave, la corsa dei passeggeri +vocianti e carichi di bagagli verso le uscite, i saluti di coloro che +aspettavano i nuovi arrivati: tutto avrebbe dovuto infondermi una certa +allegria e invece mi sentivo solo e lontano anche se non sapevo bene +rispetto a cosa e soprattutto a chi. L’unica sensazione veramente familiare +era il profumo del rosmarino e della carne alla griglia che una locanda +vicino al porto stava preparando per la sera. Scesi con l’intenzione di +andare a mangiare prima di raggiungere il mio albergo. +Il ricordo della mattina appena trascorsa mi tornò allora in mente +vivido: ero arrivato a Genova da Parigi il giorno prima di imbarcarmi e +avevo trovato una stanza alla Locanda della Formica, dove mi piaceva +soggiornare quando mi trovavo in quella città. Sceglievo sempre quella +locanda e non solo perché dalla camera si vedeva la chiesa dove era +seppellito Andrea Doria – uno dei miei eroi – ma soprattutto perché sotto +la finestra c’era una focacceria che al mattino resuscitava i sensi molto +meglio di qualsiasi trillo di sveglia. Farsi destare dal naso è più piacevole +che dalle orecchie. Quella mattina, inebriato dal profumo, non avrei mai +lasciato la stanza, la locanda, la città, la terra: ma dovevo per forza partire +per la Corsica e portare a termine la missione che mi avevano assegnato. +Ero pronto: lo zaino ben equipaggiato sulle spalle e una borsa con il +necessario per il lavoro. In piedi, un istante prima di aprire la porta per +lasciare la stanza, mi sorprese la mia immagine allo specchio. Mi guardai; +fermo. Gli specchi – si sa – non riflettono mai; semmai, suggeriscono +interpretazioni. Dei riccioli neri e lucidi stavano già rispuntando sulla mia +testa tonda e la barba – di quelle che sembrano crescere dal nulla nel giro +di una sola notte – metteva in evidenza le labbra ben fatte, unico +particolare del mio volto che mi non mi dispiaceva. Provai a sorridere per +vedere che effetto facevo ma fui distratto dall’impressione del mio corpo. +Aveva ragione un tipo che mi disse una volta che avevo l’aspetto di un + soldato del regno del secolo scorso: robusto, spalle larghe, basso; con lo +zaino in spalla in effetti sembravo sbucato da un ritratto commemorativo +della fanteria; solo gli occhiali tondi e piccoli di metallo tradivano la +passione per la lettura, in equilibrio con quella per il cibo. Sospirai, come +d’altronde chiunque sano di mente fa alla mattina davanti allo specchio. +“Elia Rameau,” mi disse una volta la Signora, “i tuoi occhi sono lunghi e +sorridenti come se lo sguardo mistico d’Oriente avesse acquistato la +ragione di quello d’Occidente; non sprecarli: usali, consumali, rimpiangili +e sarai felice.” Mi consolai con quella frase che non capii bene allora né +capisco meglio ora e che comunque mi sembrò convincente come poche. +Lesto, presi la borsa per uscire ma mi fermai ancora una volta: osservai la +stanza. Fui sul punto di rituffarmi sul letto e concedermi di nuovo al +sonno, ancora impigliato tra le lenzuola illuminate dal sole radente del +mattino; invece spalancai la porta della camera e imboccai il corridoio +lasciandola sbattere alle spalle sospinta dalla corrente d’aria fresca che si +era nel frattempo formata. Mi lasciai spingere anch’io dalla stessa +corrente. Era una giornata di tramontana chiara. Si parte. +Durante la traversata avevo raccolto le mie carte, riordinato le mappe e +pensato come effettuare il censimento. Prima di partire mi ero procurato +quaderni, microfoni e i cavi, che avevo arrotolato stando attento ad +assecondare la venatura della plastica, come mi aveva insegnato un mio +amico, esperto di registrazioni e delle mie ansie come nessun altro al +mondo; avevo infine riposto ciascun microfono in un incavo sagomato in +un blocco di gommapiuma che perfettamente si adattava a una scatolina di +legno fatta fare su misura. Tutto doveva funzionare al meglio. Il mio +compito era ben definito: registrare e trascrivere tutto quello che veniva +detto e scritto nel villaggio di Pietramala, nella Corsica del Nord. Si +trattava di fatto dell’ultimo tassello di un capillarissimo e definitivissimo +atlante linguistico commissionato dall’Unione Europea ad una società +francese di antica tradizione affiliata all’Accademia di Francia: la +prestigiosa Société linnéenne de linguistique comparative. “Area 44” +veniva chiamata nella tassonomia tecnica del progetto quella zona ancora +muta, e l’Area 44 toccava a me. Mi avevano avvertito che era +completamente isolata e che da anni nessuno aveva ricevuto segnalazioni +dagli abitanti; l’agglomerato risultava ancora in buono stato dalle +rilevazioni satellitari. Non c’era da essere sorpresi. Era stato così anche per + l’Area 45 e la 22, nella valle dell’Hornád al confine tra Ungheria e +Repubblica Ceca e nella regione di Barataria in Andalusia. Se non fosse +stato per qualche mancia sganciata alle persone giuste, o forse per altre +concessioni, come insinuavano i colleghi italiani, esperti evidentemente +dell’arte di convincere, non sarei mai riuscito a registrare niente. +Così mi trovavo alla soglia dei trent’anni ad aver accettato un lavoro +precario, disgustato, dopo anni di studio intensissimo, dalle offerte +universitarie che sembravano valutare come unici dati rilevanti la mia +data di nascita, le mie preferenze sessuali e la marca delle mie giacche, in +tutti gli ordini di gradimento possibili. Avevo stramaledetto il giorno in cui +avevo deciso di studiare: per tutti i cinque lunghissimi anni del liceo non +avevo fatto altro, giorno e notte. Meglio: non ero riuscito a fare altro, anzi +– tanto vale essere sincero – non avevo voluto fare altro. Cosa o chi mi +avesse spinto a studiare così tanto e di tutto, non lo capisco bene neppure +ora: forse i miei genitori, senza farmelo intendere, forse la mia curiosità, +forse la Signora. Quegli anni passati con lei – lo riconosco – devono essere +stati decisivi. Mi ricordo ancora le sue parole con quella voce rauca, +perentoria e rapida, a proposito dei miei studi: “Elia, ti sarai accorto che si +ammette comunemente che l’unico e tipico scopo della vita per un ebreo +sia di diventare ricco. Non c’è niente di più lontano dalla verità. La +ricchezza è per l’ebreo soltanto un grado intermedio, un mezzo per +arrivare al vero scopo ultimo, non è quello reale. L’ebreo è determinato a +salire a un livello superiore nel mondo della cultura. Perfino il più ricco +preferisce dare sua figlia al più povero degli intellettuali che a un +commerciante; anche il più scassato venditore ambulante, che trascina la +mercanzia sotto la pioggia e il vento, proverà a scegliere almeno uno dei +suoi figli per farlo studiare a costo dei più gravi sacrifici. È infatti ritenuto +titolo d’onore per l’intera famiglia annoverare tra i suoi membri qualcuno +che ricopra un ruolo di intellettuale: un professore, un esperto, un +musicista, come se con i suoi successi li nobilitasse tutti.” Così mi disse la +Signora che, senza tentennamenti, diede per scontato che io dovessi +ricevere una educazione improntata ai valori della cultura ebraica per +nulla disturbata dal fatto che io fossi figlio di una coppia di cattolici. +Fu in quel preciso momento che mi rivenne in mente il messaggio +enigmatico che la Signora mi aveva scritto e che io avevo in fretta e furia +infilato nella cartella di cuoio, ma ormai si era fatto tardi e dovevo cercare + un posto dove cenare. Volevo trattarmi bene. Mi aspettavano giornate di +lavoro molto intense anche se – lo sapevo per esperienza – non prive di +situazioni comiche; avrei fatto parlare gli abitanti di Pietramala e +registrato le loro voci nel loro dialetto, riportandone la struttura +fonologica e ogni sfumatura dell’intonazione frasale, ogni vocabolo, +rigorosamente suddiviso nei diversi campi semantici di base nei quali era +organizzato il grande dizionario dell’atlante, e ogni restrizione sintattica +delle regole che costituivano la lingua di Pietramala: solo che chissà +quante volte loro non avrebbero capito e io avrei dovuto iniziare da capo o +addirittura passare ai gesti e mimare le richieste nei modi più strani. +E dire che io volevo invece fare un mestiere che mi costringesse a +guardare il cielo; mica un mestiere nobile, mica necessariamente +l’astronomo, io avrei anche solo venduto aquiloni. Però intanto ero lì: coi +quaderni, i microfoni e i cavi. +Salii verso la piazzetta che congiunge la cittadella fortificata con il resto +del paese: piante strane e tozze e grosse che – dicono – non possono mai +ammalarsi né prender fuoco occupavano un piccolo campo sterrato dove +una compagnia di uomini che assomigliavano a quelle piante stava +giocando a bocce. Mi lasciai guidare dall’istinto e mi fermai in uno dei +ristoranti che si affacciavano sulla piazzetta: quello che mi sembrava +servisse il vino ai giocatori di bocce. Ormai il sole era calato. Non dovetti +aspettare molto. Un cameriere fino ad allora intento a guardare la partita +mi notò e si avvicinò al mio tavolo. Camminava rapidamente mentre si +asciugava le mani sul grembiule pulito; aveva l’aria di chi avrebbe +preferito cenare insieme a me invece di servirmi. Scostò una sedia dal +tavolo e mi si sedette accanto appoggiando il braccio sulla tovaglia come +fossimo in confidenza: salutò in corso con una voce ispida, perfettamente +intonata al suo volto selvatico, e mi chiese cosa desiderassi mangiare. +Ricambiai il saluto in corso con parole gentili e un sorriso, ma +l’espressione della mia bocca non era affatto in sintonia con lo sguardo +preoccupato che gli dedicai: ordinare da mangiare per me non era facile. +Avrei dovuto renderlo partecipe della mia esigenza che certamente non +avrebbe capito: avevo scelto il menù completo, dall’antipasto al dolce con +anche il caffè e il mirto, ma avrei voluto che le portate fossero servite +nell’ordine inverso. Mi feci coraggio e gli spiegai la faccenda con la +partecipazione di chi descrive per l’ennesima volta lo stesso monumento a + una comitiva di turisti. La reazione che mi aspettavo, tuttavia, non fu +nemmeno lontanamente vicina a quella che ebbe luogo: non un sospiro; +non un sorriso; non un fremito delle sopracciglia. Si appoggiò meglio al +tavolo per trascrivere la comanda; incolonnò la lista delle portate e poi, +senza scomporsi, con la matita tracciò semplicemente una freccia a fianco +della lista dal basso verso l’alto. Mi parve allora di essere normale; mi +parve di essere stato anche un cretino a sottovalutarlo. Certo non gli dissi +che avevo scelto certi piatti per semplificare la cena. I bocconi nel piatto +vanno disposti in modo razionale e se ci sono parti troppo diverse allora si +fa una fatica boia a combinarli simmetricamente: i piatti fatti di una cosa +sola, come certi risotti, ad esempio, o le frittate, invece, sono rilassanti. +Non necessitano di nessuna funzione combinatoria. So bene che non è +veramente necessario combinare tutto in quel modo, ma non volevo avere +delusioni e trovarmi senza il giusto bilanciamento in bocca. Inoltre tutto +questo mio affanno combinatorio mi salvava dall’imbarazzo di non sapere +dove guardare, o meglio mi faceva desistere dallo spiare con attenzione le +espressioni e i sussurri degli altri commensali: le coppie stagionate che +masticano senza dirsi nulla, i colleghi che parlano male dei colleghi che +parlano male dei colleghi, chi si ama per la prima volta e osserva di +nascosto la lingua nella bocca dell’altro sincronizzando istintivamente i +morsi e – il peggio – quelli soli come me che riconoscono di non essere +nemmeno unici in questa solitudine. Non avevo alternative se non +lasciarmi andare a pensieri personali, sperando che i pochi commensali +nulla intuissero dal mio sguardo. +A cosa si pensa quando si mangia da soli? Se nessuno me lo chiede, lo +so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so. Quella sera il primo +pensiero fu agli anni della scuola, forse per il rancore implicito che +provavo nel trovarmi lì a fare un lavoro banale dopo tanta fatica nello +studio. Pensai ai professori che avevo incontrato e mi ripetei una cosa che +mi ero già detto varie volte: detestavo quelli che volevano insegnarmi +qualcosa. Ho sempre preferito quelli che invece si lasciavano derubare +anzi che ti invitavano a farlo, senza dirlo ovviamente: ti facevano venir +voglia di far tue le loro idee e anche i modi che usavano con grande +sicurezza per esprimerle; perfino i gesti, certe oscillazioni della voce in +prossimità di concetti chiave, o l’aprirsi e il richiudersi ritmico delle mani, +quasi una punteggiatura aerea, avresti voluto farli tuoi. Le idee, d’altronde, + non si possono certo regalare né imporre: per trasmetterle occorre invece +far provare invidia e gelosia; si educa provocando la tentazione del furto e +alla fine permettendolo e premiandolo con finta distrazione. Arrivò il +mirto, di poco preceduto dal caffè: dunque, iniziava la mia cena. +Chissà perché mi sentivo totalmente in trappola: avevo l’età nella quale +ci si dovrebbe sentire di vivere una vita staminale, di poter ancora +diventare tutto. E invece niente. Io, quella vertigine lì, l’avevo persa +completamente: non c’era più spazio per l’imprevisto nelle mie giornate e +dunque per il futuro. Mi trovavo a osservare la mia vita come si osservano +quei giochi dove si affiancano migliaia di tesserine di domino: quando +nasci cade la prima e, una dopo l’altra, di conseguenza, cadono tutte, +ognuna abbattuta dalla precedente, congiungendo distanze anche lunghe +ed eliminando con ciò tutti i dubbi sull’origine delle cause – almeno quelle +locali – ma con essi anche tutta la creatività; qualche campanellino che +suona, qualche pallina colorata che precipita e rimbalza, uno zampillo che +spegne una candelina ma tutto più o meno prevedibile e scontato, +semicartesiano direi, della metà extensa. L’unica incertezza in questo +carillon era purtroppo anche l’ultimo evento sperimentabile: la pedina alla +fine della fila, che non poteva più cadere addosso a nessun’altra. In quei +momenti allora mi sorprendeva e travolgeva la consapevolezza che quella +cosa che si può veder solo capitare ad altri ed è l’unica certa insieme +all’adesso – non mi andava di chiamarla per nome – sarebbe capitata +anche a me. E questo mi generava un’apnea della speranza e della ragione +nella quale non mi rivelavo ben allenato. Ora però ero solo stanco. Stanco +perfino di sperare negli imprevisti: sentivo la morte – ormai non serve a +me più negarle il nome – venirmi incontro; solo un po’ più lenta della noia +e se la preda di queste due fiere ero io, tanto valeva accelerare l’impatto e +correre in braccio alla prima. Arrivò in quel momento esatto una torta di +farina di castagne profumata da una marmellata di fichi di raro equilibrio, +seguita da un’ottima polenta con il brasato cotto in un vino rosso intenso. +La saliva scacciò le lacrime. +Non avevo nemmeno niente da leggere, per distrarmi durante la cena. +Non che non mi piacesse leggere, anzi, ma come al solito non ero riuscito +a portarmi dei libri nuovi in viaggio e non perché mi mancassero; al +contrario. Avevo passato giorni a prepararli, scegliendoli e impilandoli uno +sopra l’altro sul tavolo, cambiandone, a seconda dell’umore, l’ordine o il + numero, sfilando o inserendo o sostituendo quelli che al momento +sembravano confortarmi per forma o colore – odore, talvolta – oppure +provocarmi e incuriosirmi. Poi, come sempre, al momento di uscire di +casa, mi rendevo conto che tutti non avrei potuto portarli e tuttavia +nemmeno uno poteva essere preferito e sudavo e sudavo e sudavo freddo +per l’ansia di non saper scegliere. Alla fine, come per tutti i miei viaggi, la +pila dei libri, nell’ultimo ordine superstite, rimaneva sul tavolo ad +aspettarmi al ritorno come una specie di lapide commemorativa +provvisoria, pronta a essere smontata, rimontata e abbandonata per un +altro viaggio per il quale sarei partito senza nulla da leggere. Un cenotafio +di parole; questo era il mio zaino. D’altronde – ecco forse la santa verità – +non leggevo più niente perché mi stufavo di tutto; avevo comprato libri +che si erano rivelati solo sdolcinati ammiccamenti ora a questo ora a quel +padre della cultura (ovvero a quel potente, potentissimo editore) buoni +solo per il ruminare dei critici che contano; oppure libri che ti chiedono di +contemplare la bellezza di una formula dicendoti al contempo che non +potrai mai capirla, insegnando con ciò la modestia ai lettori. Storie; io +volevo invece delle storie da leggere d’un fiato: di quelle che ti fanno +fingere di non star bene per evitare un invito a cena e permetterti così di +finirle. Quelle con la trama, con gli incontri, gli scontri, le coincidenze, le +sparizioni e le agnizioni, quelle di fantasmi, le mie preferite. Volevo in +fondo solo una storia e che magari non finisse male: mica chiedevo troppo. +Ma non potevo certo scrivermela da solo: l’onanismo è già claustrofobico +quando si tratta di liquori corporali, figuriamoci quando si tratta di parole. +E poi, qualora anche avessi deciso di scrivermela da solo, la storia che +avrei voluto leggere, non avrei saputo nemmeno da che parte cominciare: +se usare la prima o la terza persona, il presente o il passato; se sarebbe +stato meglio scrivere con la biro sulla carta o con il portatile, quello invece +lo sapevo. Per non parlare dei contenuti: abituato a lavorare sulle regole +della sintassi non sapevo come trattare la semantica. L’unico elemento che +sapevo dominare era quel fenomeno umanissimo e specialissimo che è la +punteggiatura, così umano che nessuno ha avuto il coraggio di +rintracciarla – sia pure in forma embrionale, s’intende – nel linguaggio di +altri animali. La punteggiatura è come l’elettroencefalogramma di un +cervello che sogna – non dà le immagini ma rivela il ritmo del flusso +sottostante – ed è per giunta anche rassicurante: se ci si trovasse, ad + esempio, a sfidare la vertigine di una frase relativa, che spuntasse inutile e +troppo lunga tra la protasi e l’apodosi di un periodo ipotetico di quelli +dove ci si sente persi perché a metà non ci si ricorda più cosa di cosa si +stava parlando e si teme di dover iniziare da capo a leggere tutta la frase, +allora ci si potrebbe agganciare alle virgole aggrappandosi alle quali si +riuscirebbe ad arrivare salvi alla fine della frase, intrappolando la relativa +tra di esse; né mai sarei riuscito a frenare in tempo prima del punto fermo +di una frase particolarmente lunga, se qualche punto e virgola – geniale +endiadi, icona del pensiero debole – non mi avesse(ro) reso disponibile +una sosta decisa ma non definitiva e permesso, quindi, in tempo, di +rallentare. Per non parlare poi dei due trattini che, segnando un inciso in +arrivo da un mondo parallelo ma non meno vero, creavano una corsia di +emergenza dove far scorrere una frase quando un’altra le stava appresso +come due macchine in una tangenziale affollata all’ora di punta. La +punteggiatura è l’impalcatura della narrazione. Saprei distinguere Tolstoj +da Gadda anche semplicemente osservando l’affiorare delle sole virgole su +un foglio bianco. Anzi, mi spingevo a dire che tutta la filosofia occidentale +non era che una riflessione sulla punteggiatura nelle opere di Platone. +Arrivò a porre fine a quella riflessione – se così possiamo chiamare +quel ruminare di pensieri – un piatto di tagliatelle al sugo di cinghiale: +erano buonissime, a parte l’abuso di noce moscata che mi aveva guastato +un po’ il sapore. Insieme ai chiodi di garofano e alla cannella la detesto e +sono ben lieto che tutti e tre finiscano contemporaneamente nello strüdel +liberandomi così in un sol colpo dalla fatica di evitare troppe ricette: la +cena si avviava a concludersi nel modo migliore. +Certo, scrivere sarebbe potuto essere un buon diversivo a una vita tutta +prevedibile. Avrei scritto a mano, su quaderni grandi. Mi è sempre +piaciuto, da piccolo, veder scrivere sulla carta e questo ben prima che +imparassi a leggere: l’odore dell’inchiostro e il crepitio del pennino sulle +impercettibili increspature della carta erano il mormorio di un insetto +felice che semina il suo seme nero e solo a lui comprensibile su prati +bianchi. Poi, quando capii che quei sentierini volevano dire qualcosa, un +po’ della magia svanì ma mi è rimasta ancora nel naso e nell’orecchio la +sorpresa del gesto dello scrivere. La vita nell’universo – si sa – è rarissima +e il linguaggio tra le bestie lo è ancora di più; ma la scrittura fra gli +uomini, quella è una singolarità davvero commovente: non so se qualcuno + in qualche altra galassia sappia scrivere, trasferire le regolarità dei suoni – +impronta dei pensieri – su un oggetto in modo che chiunque lo osservi li +faccia rivivere anche quando chi li ha impressi se ne è andato. Anche sullo +stile che avrei utilizzato per scrivere, come sulla punteggiatura, però non +c’erano per me scappatoie. Sapevo infatti che avrei pensato e scritto da +uomo di pianura. Tutto quel cielo senza margini come una lavagna da +ciclopi era impossibile da sostituire. E quando l’acqua delle risaie in +primavera lo raddoppiava – il cielo, intendo – allora mi prendeva +addirittura la paura, che forse era però una felicità male interpretata, di +non avere abbastanza inchiostro per tutti i pensieri che mi era concesso di +avere. Avrei invece preferito talvolta aver la mente di un uomo di +montagna, abituato a osservare la luce apparire e scomparire tra confini +disegnati dalle creste delle rocce. Mi sarei sentito rassicurato dai limiti +stabili, imposti da quelle quinte naturali, e avrei forse avuto alla fine più +fantasia; la cattività intermittente e totalmente predeterminata della luce +che compare e scompare dietro quei profili mi avrebbe reso pari a quel +poeta classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di +regole che conosce ed è più libero del poeta che scrive quel che gli passa +per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora. +Avevo dunque punteggiatura e stile, quelli sì. Mi mancava però la storia +da raccontare: ero come chi ha tutta l’attrezzatura per compiere una +scalata ma gli manca una montagna. La tristezza riaffiorò come una +vampata dalla pancia fin su al petto e in faccia, tant’è che temetti si +vedesse da fuori. Per fortuna arrivò l’antipasto: crostini di pâté di olive e +affettato. La cena era dunque praticamente arrivata al termine ed ero +riuscito ancora una volta nell’intento di svuotare di significato quella +stupidissima e insulsa espressione italiana “essere arrivati alla frutta”, visto +che per me la frutta era l’inizio. +Mi rallegrai del sincronismo con il quale avevo esaurito nello stesso +istante sia i pensieri che il cibo: non avrei dovuto né inventarmi altre +riflessioni né chiedere altro da mangiare per parificare l’abbinamento. Fu +allora però che un pensiero improvviso, quasi uno starnuto nel sonno, +interruppe quel ruminare più mentale che gastrico e mi balzò alla +memoria quel messaggio che avevo infilato nella cartella di cuoio. Lo tirai +fuori e lo rilessi tutto, immediatamente, d’un fiato con molta più +attenzione. Lo rilessi ancora. Niente. Il mio orgoglio era sbriciolato. Se + almeno il margine di quel foglio fosse stato troppo piccolo avrei potuto +millantare di aver risolto l’enigma ma di non aver spazio sufficiente per +scrivere la soluzione e rispedirlo al mittente, ma i margini erano ampi, +capaci, larghi, erano piazze per raduni di idee; erano proprio quelle che mi +mancavano. Allora, non capii nulla; invece, ora che capisco, so anche che a +nulla varrebbe trascrivervi la soluzione, perché senza aver fatto il percorso +che ad essa porta, sarebbe del tutto incomprensibile. Il mio percorso ebbe +inizio quella sera e ora che incanutito senesco posso portarvi con il mio +racconto a rifarlo, quel percorso. Dunque da qui io posso partire e voi, se +volete, seguire. +Si era fatta nel frattempo l’ora di pagare e il cameriere doveva averlo +percepito, visto che ricomparve, sempre asciugandosi le mani sul +grembiule pulito: “Undici euro,” mi disse come se avesse da tempo fatto il +conto. “Totale perfetto,” risposi io, senza suscitare alcuna reazione. Non +avevo infatti perso l’abitudine di pensarlo. Sono – tanto vale dirlo ora – +polidattilico superiore sinistro. Cioè, in concreto, ho sei dita nella mano +sinistra: un dito in più tra mignolo e anulare. Questo fatto, su un bambino +discretamente precoce e poco incline a misurare il mondo secondo punti +di vista altrui come ero stato io, ovviamente, aveva lasciato il segno: +imparando a contare sulle dita da solo, infatti, mi ero raccontato che 11 +fosse il numero che fotografava il totale perfetto, le parti nelle quali si +organizzava in modo naturale tutto. Mi ricordo quando, ancora +piccolissimo, mia mamma mi mandò per la prima volta a comprare una +confezione di uova: tornai a casa giubilante perché credetti che una fosse +in regalo. E anche gli orologi, secondo me, avevano un’ora di troppo due +volte al giorno che non sapevo mai come spiegare né impiegare. Poi mi +dissero che si contava di dieci in dieci: mi adeguai e rividi tutta la mia +aritmetica (continuando tuttavia a pensare che gli orologi fossero costruiti +male). Diventai allora bravissimo a fare i conti nel nuovo modo, finché, +naturalmente, la mamma, anni dopo quella volta, non mi mandò ancora a +comprare le uova. A quel punto, le uova in regalo erano diventate due: +esattamente – e sorprendentemente – tante quante le ore in più del giorno +e questo mi fece riconoscere per la prima volta il mistero. Mi arresi. Poi, da +ragazzino, dopo le uova, affrontai la questione della Trinità e capii +definitivamente che il mondo non si lascia interpretare rispetto al numero +delle nostre dita. + Va bene. Ero in Corsica. Avevo mangiato ma ero triste, tristissimo. Non +restava che ripartire per l’albergo che avevo prenotato, ma una +consolazione si era formata chiara in me: la tristezza è una fortuna. +Talvolta è uno scudo che ci protegge dalla delusione che proviene +necessariamente dalla felicità assopendo le aspettative; altre volte invece è +un provvidenziale ematoma della mente: la tiene gonfia e dolorante, +dunque quieta, ma solo per poco tempo, solo perché non si abbia a ferirla +ancora e la si lasci a riposo per rigenerarsi. Salutai senza convinzione il +cameriere che non sembrò rimanerne male, ripresi lo zaino e uscii sulla +strada. L’aria era cambiata, un profumo diverso nel vento, un profumo +amaro. Mi allacciai il giubbotto e strinsi bene la tracolla dello zaino. +Dovevo mettermi in cammino: era tempo di giungere a Calenzana, il paese +dove avrei costituito la mia base e dal quale sarebbe cominciata l’ascesa +verso Pietramala. Dal cielo qualche goccia di pioggia mi segnalava che lo +spazio tra me e le nuvole non era vuoto ma non mi sarei mai immaginato +di cosa si sarebbe riempito da quel momento in poi. +[1.2] Quando piove tantissimo mi immagino sempre di essere un albero +alto e frondoso e di sentire l’acqua solleticarmi tutte le foglie +contemporaneamente. Quella mattina pioveva tantissimo ma non avevo +tempo di immaginarmi niente di più di ciò che dovevo fare. Guardai fuori +dalla finestra, scostando di poco la tenda polverosa: non sembrava +nemmeno che ci fosse aria tra le gocce, tanto lo scroscio era compatto. +Avevo puntato la sveglia alle cinque e, come mi capita tutte le volte che +devo fare qualcosa che non mi piace di mattina presto, mi ero svegliato +esattamente un minuto prima che suonasse. È evidente che abbiamo +dentro di noi un orologio: nessuno sa come faccia il nostro corpo a +calcolare il tempo – non è nemmeno detto che sia il cervello – ma è certo +che questo orologio si sincronizza con le emozioni: il mio, per l’appunto, +mi risparmia di essere svegliato quando non vorrei dandomi l’illusione di +essermi svegliato spontaneamente. In concreto, mi risparmia quella +sensazione schifosa che assomiglia a quando si è stati buttati in piscina +con tutti i vestiti addosso e ogni movimento trova una resistenza +invincibile contro una forza che ci avvolge completamente. Le mie +palpebre si aprirono di scatto alle 4:59 mentre il corpo giaceva ancora tutto + inerte; osservai il soffitto e subito dopo scostai con un gesto rapido le +coperte, nella speranza che il freddo affrettasse quell’agonia alla rovescia e +mi spingesse a riattivarmi per intero. Mi ricordai solo allora dov’ero e +perché ero lì: ero in Corsica per la missione ricognitiva sulla lingua parlata +nell’Area 44; la sera prima avevo camminato per qualche ora dalla fine +della cena a Calvi fino a Calenzana, un paese della Balagna, la zona +collinare che dalla costa arriva a lambire la grande catena montuosa, spina +dorsale dell’isola. Per raggiungere Pietramala, avevo infatti capito che il +percorso ideale era fare base a Calenzana e da lì puntare verso il monte +Cinto, un colosso di quasi tremila metri, che generava uno scenario alpino, +inaspettato a quella latitudine; si diceva che sui sentieri del Cinto in certi +giorni si potesse sentire il vento contemporaneamente carico del profumo +del mare e della resina dei pini di montagna: una miscela inebriante. In +me, invece, stava prendendo corpo un raffreddore di quelli memorabili: +non avrei goduto di nessun profumo – pensai – e comunque non +desideravo altro che arrivare, registrare quella lingua e tornarmene +indietro. +A Calenzana avevo trovato alloggio in una locanda vicino alla chiesa, +quella grande del Settecento, sulla strada principale, vicino a un grande +platano ancora carico di foglie. Il padrone, per nulla incuriosito dalla +presenza di un turista di fine stagione – così mi parve mi avesse catalogato +– mi aveva accompagnato nella mia stanza senza nemmeno registrare i +documenti, molto più preoccupato che i suoi quattro amici nel salone da +pranzo non si servissero di mirto a volontà in sua assenza. Lo avvisai +subito che il giorno dopo sarei ripartito prestissimo; mi disse, senza +guardarmi negli occhi mentre mi faceva strada salendo ai piani superiori, +che non era un problema e che potevo senz’altro lasciare i soldi sul tavolo +sotto le chiavi da riconsegnare; avrei dovuto solo sincerarmi che all’uscita +la porta di legno dell’ingresso si chiudesse alle mie spalle. Si rese conto a +quel punto che il suo fare non era per nulla accogliente come invece +sarebbe dovuto essere e, sebbene fosse chiaro che non si sarebbe sforzato +nemmeno di accennare un sorriso, ebbe almeno la cura di guardarmi negli +occhi e, con una frase brusca accompagnata da una smorfia, di farmi +notare che il tempo non consigliava di partire per una gita sulle montagne; +la mia impassibilità, che lui non poteva sospettare fosse del tutto +indipendente dal suo fare brusco, lo convinse subito a non insistere. + D’altronde, era una raccomandazione certamente dettata più dal timore di +dover poi essere coinvolto in un’eventuale procedura di soccorso che dalla +preoccupazione per la mia incolumità. Mi chiusi nella stanza dopo aver +chiesto che mi preparasse un panino, il sapore del quale perfettamente +coincideva con l’aspetto di chi lo aveva preparato: selvatico ma sincero. +La stanza era spoglia e fredda e non tentava nemmeno di nascondere il +fatto che gli arredi – un letto, una sedia, un armadio, una scrivania – +provenivano dalla casa di qualche anziano che se ne era andato +all’improvviso; sulla testata del letto qualcuno aveva tentato di strappare +un’immaginetta sacra incollata da anni ma doveva aver presto desistito, +lasciando un santo decapitato che teneva in mano un cuore sanguinante. Il +complesso, per quanto sapesse di antiquato, non era, tuttavia, spiacevole: +l’unica nota davvero fastidiosa era una piccola pianta sghemba che +fuoriusciva ritorta e nodosa da un vaso appoggiato sul davanzale interno +dell’unica finestra. Era evidente che il vaso era troppo piccolo e che se la +pianta era lì lo era solo per la volontà e la cura di qualcuno, perché era ben +frondosa e aveva le foglie lucide e curate: chissà poi perché. Il vaso, dal +canto suo, non sembrava particolarmente prezioso: conclusi che chi aveva +curato quella piantina e l’aveva tenuta in quel vaso non poteva averlo fatto +se non per il gusto di costringerla a crescere in uno spazio a essa +innaturale. Una cattiveria vegetale, insomma: sempre che si possa davvero +fare qualcosa di cattivo a un essere vivente. Non avevo certo il tempo di +metterla in salvo e, anzi, nemmeno di valutare se ne avessi davvero voglia; +occorreva infatti che senza altri indugi raggiungessi entro il prossimo calar +del sole Pietramala. Dormii presto. +Risvegliato completamente, feci un controllo finale. Dalla mappa +dettagliata che la Société mi aveva fornito, il percorso non sembrava +chiarissimo: un sentiero verso la montagna era certamente ben segnato, +ma la strada che conduceva all’Area 44 e dunque a Pietramala non +sembrava davvero connessa con il sentiero. La linea tratteggiata si +interrompeva poco prima; di certo – mi dissi – Pietramala stava su una +specie di costone di roccia alla fine di una gola strettissima e non sarebbe +stato affatto agevole raggiungerla: forse quello era il motivo della scarsità +di documenti e, soprattutto, del fatto che quelli della Société avessero +lasciato a me, giovane e ultimo arrivato, l’incarico di quella registrazione +finale. Ricontrollai lo zaino: avevo tolto parte degli indumenti che avevo + portato da Parigi mettendoli nella borsa e avevo invece caricato nello +zaino registratore, quaderni, microfoni, cavi e batterie. D’accordo con +l’oste avrei lasciato tutto il resto dentro un borsone nella mia stanza e sarei +passato di lì a poco, cioè alla fine della missione, a ritirarlo prima di +ripartire per Parigi. Ero dunque pronto per l’ascesa a Pietramala. Scesi al +buio le scale, lentamente, cercando di non far rumore, e, lentamente, +attraversai il salone da pranzo, buio e deserto a quell’ora. Il silenzio dentro +la locanda dava voce all’inerzia totale dell’ambiente: niente si muoveva né +lì né ai piani di sopra. E quel silenzio e quell’inerzia erano resi ancora più +impressionanti dal confronto con il muro d’acqua che vedevo e sentivo +scrosciare al di là dei vetri: non sarei certo riuscito a contrastarlo con un +ombrello, avrei solo potuto immergermici. Aprii la porta che immetteva +sulla strada dopo aver appoggiato le chiavi sul bancone dell’ingresso, tirai +su il cappuccio, stringendo i lacci in modo che aderisse bene al viso, +malgrado gli occhiali, assicurai lo zaino al corpo con le cinghie, +controllando di non aver lasciato aperta nessuna cerniera, tirai un sospiro +e varcai finalmente la soglia; il passo che feci per scendere dal gradino +risultò più lungo di quanto fosse necessario e mi fece quasi ruzzolare +provocandomi uno sbuffo involontario, quasi un colpo di tosse. L’aria +tiepida della locanda che avevo nei polmoni venne sputata fuori bianca +come il vapore del fiato invernale e ne entrò di gelida. Faceva molto freddo +e pioveva a dirotto: cosa potevo desiderare di più? Partii. +Come mi aspettavo, il primo tratto di marcia non presentava particolari +difficoltà: la strada era molto stretta ma non c’erano automobili in giro e +mi dissi che non dovevo temere nulla. Il percorso si inerpicava +rapidamente ma anche questo non mi dava fastidio: avevo gambe ben +allenate e le mie spalle non facevano certo fatica a portare lo zaino. Quello +che invece iniziava a disorientarmi e, prima ancora, a stupirmi era il fatto +che dopo sette ore di marcia, dunque verso mezzogiorno, la luce non era di +molto cambiata rispetto a quella che, almeno in termini di orari, avrebbe +dovuto precedere l’alba; segno che il cielo era coperto da una massa di +nuvole densissima. Fu più o meno allora che mi trovai al punto dove si +doveva abbandonare la strada principale per prendere il sentiero interno +in direzione sud-ovest, verso il Cinto. Imboccai il sentiero come si entra in +un corridoio sconosciuto al buio: a tentoni. Il sentiero era evidentemente +poco frequentato, tanti erano i rami che trovai non dico caduti ma proprio + cresciuti lungo il percorso, e non era certo un sentiero di quelli +improvvisati: i piedi appoggiavano su una distesa di sassi che qualcuno +doveva aver disposto con una certa sapienza. La luce, intanto, contro ogni +aspettativa diminuì ancora, mentre all’inverso la pioggia aumentò, +facendosi, se possibile, più pesante; non intendo dire più fitta, perché ciò +sarebbe stato fisicamente impossibile: ogni goccia si era fatta più pesante, +ogni singola goccia. Lo capivo dal rumore sul cappuccio; non si sentiva più +il crepitio indistinto della pioggia omogenea: ora scendevano grandi gocce +distinte e dense e pareva quasi che prendessero la mira dal cielo e non che +cadessero a caso. O almeno quella era la mia percezione, che +evidentemente iniziava a distorcersi. Per qualche decina di minuti – che +forse furono solo lo spazio di un istante – o per un istante – che forse si +dilatò nella mia percezione come qualche decina di minuti – fui davvero +indeciso se tornare indietro o continuare. Prevalse in me il senso di +disgusto all’idea di dover rivivere quella partenza così triste e fastidiosa e +l’umiliazione – più rispetto a me che agli altri – di ritornare alla locanda +senza nulla di fatto. Decisi allora di proseguire. Quello che avvenne da +quel momento in poi non lo auguro a nessuno: nemmeno se tutti i diavoli +del cielo si fossero coordinati avrei potuto vivere un’esperienza simile. +Sulla mia testa incombevano nubi nere che rotolavano senza sosta, e +nell’aria regnava la sensazione pesante e opprimente del tuono. Sembrava +quasi che la catena dei monti che avevo attraversato inerpicandomi lungo +il sentiero avesse separato due reami divisi e avversi e che ora fossimo +entrati in quello del rombo del cielo. Presto fui racchiuso da una cortina di +alberi che in alcuni punti formavano un arco sulla strada al punto che era +come se passassi dentro un cunicolo. E poi ancora rocce enormi e arcigne +mi dominavano spavalde da entrambi i lati. Anche se mi riparavo in un +anfratto della roccia, che talvolta scorgevo lungo il percorso, sigillandomi +come potevo nei miei indumenti, riuscivo comunque a sentire levarsi il +vento dai lamenti e dai fischi che esso provocava soffiando tra le rocce e +dai rami degli alberi che sbattevano tra loro mentre passavo sotto. Iniziavo +a tremare; non era solo paura, perché la paura mi fa tremare in modo +diverso. Erano tremori a ondate, l’indizio sicuro che stava salendo la +febbre. Perché ero lì? Perché la mia vita non poteva essere normale? Cosa +ci facevo su un sentiero in Corsica a caccia di frasi e parole il contenuto +delle quali non sarebbe mai davvero interessato a nessuno? Proseguii, i + denti che battevano come nacchere impazzite, il corpo in preda agli +spasmi, ormai tutto inzuppato, sperando che almeno il materiale nello +zaino fosse rimasto asciutto. Il tempo stava rapidamente peggiorando: alla +pioggia e al vento gelido si aggiungeva una sarabanda di saette e tuoni. +Quando, superato il costone di roccia, inaspettato, vidi il borgo di +Pietramala, illuminato a scatti, arroccato e slanciato verso l’alto come una +cattedrale gotica, separato dal versante della montagna sul quale mi +trovavo da un ardito ponte gobbo di pietra ad un’unica campata, allora mi +misi di scatto a correre forsennatamente per arrivare il prima possibile alle +case. Correvo e correvo, senza nemmeno sentire i piedi appoggiarsi per +terra e sputavo fuori il fiato che quasi mi sembrava di urlare senza volerlo. +Den die Todten reiten schnell – ricordo ora di aver ripetuto quello che mi +diceva sempre la Signora quando mi incitava a far svelto – “perché i morti +viaggiano veloci”; sì, perché io, in quel momento, lì, credevo di essere +morto. +Fu dunque così, completamente fradicio, con quel sapore di metallo in +bocca che solo la pioggia ti fa sentire, scosso dai brividi della febbre +montata a dismisura, che mi trovai fermo, in piedi, al di là del ponte a +guardare, illuminato dai lampi che non cessavano di scoccare tutt’intorno, +il grande arco che segnava l’ingresso di Pietramala. I passi che seguirono +non sembravano nemmeno guidati dalla mia volontà: attraversai l’arco ed +entrai in paese. +[1.3] Lo scroscio fragoroso di acqua che il cielo stava riversando sopra +ogni cosa mi conteneva tutto e non mi dava scampo: ero come un pesce +che avvolto da una rete non può più far nulla se non lasciare che la +trappola lo avvolga causando il danno minimo. Sembrava quasi che tutta +la pioggia fosse indirizzata a me in particolare. E poi il buio, un buio che al +confronto una notte normale sarebbe sembrata appena grigia. Ma dove era +il mondo? Dove erano le cose? Dove ero io? Cosa ero diventato? Che ci +fosse qualcosa intorno potevo intuirlo solo dai lampi che frequenti +scoccavano invertendo per un istante il buio completo in una luce +altrettanto accecante seguiti a ruota dal cupo rimbombo dei tuoni. Lo +scenario compariva a scatti, e non mi era facile ricomporlo intero un +fotogramma per volta. Ma non avevo alternative. Vedevo: una casa di + pietra; un portone; ancora una casa, ma più grande; quattro finestre +disposte su due file; una scala di pietra; un loggiato; altre case, altri +portoni. Una via, dunque. Continuavo a camminare nella speranza di +vedere qualche luce da qualche finestra. Nulla. Ancora una casa; un muro +lungo senza aperture, la chiesa; forse. Capivo di andare in salita solo +dall’acqua che scrosciando contro i piedi mi veniva incontro. Continuai a +camminare guidato da quella strana visione stroboscopica che si andava +assemblando nella mia memoria. Smisi di camminare solo quando mi +accorsi che lo scroscio d’acqua mi si riversava sui piedi da tutte le parti +con la stessa intensità. Ero dunque arrivato al centro di qualcosa. Un +lampo, anomalo, più lungo di tutti gli altri, forse doppio, mi permise di +vedere a sufficienza per capire che ero in mezzo a una piazzetta circondata +da case di pietra che formavano una rotonda, e tra esse di scorgere un +edificio più grande degli altri, ma sempre contenuto nelle proporzioni, che +dichiarava il suo ruolo speciale con una doppia scalinata di pietra e un +portone incorniciato da fregi con teste di animali strani: avrei detto di +essere di fronte al palazzo del comune. Dovevo dunque essere arrivato al +centro di Pietramala. +Mi resi conto allora della stranezza di quella situazione, la prima di una +serie di sorprese che avrebbero cambiato la mia vita: non c’era da nessuna +parte nessuna una luce accesa, nessuna finestra illuminata, nessuna +lampada in nessuna strada; un buio ostinato, come una benda imposta +sugli occhi per impedire la vista di qualcosa. Pensai che il temporale +avesse fatto saltare la corrente in tutto il paese. Rapidamente, mi spostai +dal centro della piazzetta: mi trovai a muovermi lungo un muro, sperando +di essere protetto; lo scroscio diminuì un poco: stavo camminando – +pensai – sotto il cornicione di una casa. Tastando con le mani nel buio le +pietre del muro provai a individuare un portone che ricordavo di aver +visto allo scoccare di un lampo. Lentamente, palmo a palmo, esplorai le +pietre finché sentii, inzuppata, una superficie di legno: una porta, +finalmente. Bussai, rasserenato dopo quei minuti di concitazione, per la +prima volta sospirando dopo l’affanno. Bussai, convinto che in pochi +istanti sarei stato asciutto. Bussai, deciso a chiedere riparo e una +spiegazione. Bussai, ripetutamente, ancora e ancora bussai più forte, +bussai e bussai ancora senza voler riconoscere che era del tutto inutile. +Poi, serrate con forza le mani, presi a pugni quel portone come per + svegliarlo da un letargo malefico, mentre il sapore delle mie lacrime ormai +si aggiungeva a quello della pioggia che mi cadeva sul volto. Toccai allora +la maniglia di quel portone, non afferrandola ma accarezzandola quasi, +come si accarezza qualcosa di noto e caro, quasi fingendo di esser tornato +a casa, e il portone, senza sforzo, con quel mio movimento si aprì. Tali +furono l’impeto e la sorpresa che non riuscii nemmeno a fermarmi sulla +soglia e con un solo passo, che era in realtà una caduta frenata, irruppi +all’interno. +La cascata di pioggia contro il mio corpo era terminata. Ero ancora +scosso dai brividi ma avevo capito di essere in salvo. Sganciai le cinghie +dello zaino e lo sfilai immediatamente dalle spalle, senza fare un passo; al +buio. Lo aprii e infilai le mani cercando a tentoni la lampada da campo: per +fortuna il telo aveva retto e tutto era miracolosamente asciutto all’interno. +Accesi la lampada a neon, non senza fatica dato che le mani tremavano +forte: avviandosi a singhiozzo iniziò a diffondere una luce bianchissima; +prima fioca poi intensa. La scena intorno a me mi sorprese e al contempo +mi rasserenò: la casa era evidentemente disabitata da tempo, almeno a +giudicare dalla rete di ragnatele che pendevano ripugnanti dal soffitto, ma +era tutto in ordine. Si capiva che doveva essere appartenuta a qualche +famiglia di benestanti: oggetti di un certo valore sulle mensole, brocche di +peltro ben sagomate, piatti decorati alle pareti e sedie di legno robusto. +Sulla parete di fondo, opposta rispetto all’ingresso, erano disposte due +porte simmetriche separate da una piattaia dai vetri decorati. Provai ad +aprire la prima senza sperare di farcela, ma, come quella d’ingresso, non +oppose resistenza alcuna. Dava su un corridoio con altre tre porte e +altrettante stanze: si trattava di stanze da letto, una grande matrimoniale e +due con letti per bambini. Anche la seconda porta a fianco della piattaia +era aperta: portava in una cucina decisamente ampia e ben attrezzata, +confermando che non si trattava di una casa di semplici contadini. Non mi +chiesi molto di più; ero capitato in una casa disabitata; di quelle che si +possono trovare in Italia nelle campagne dell’Appenino o in certe regioni +montuose della Francia continentale o della Spagna. L’impressione netta, e +decisamente strana, è che però doveva essere stata abbandonata da secoli. +Lo stile dei mobili, dei dipinti, delle posate nella cucina mi facevano infatti +pensare di essere in un’abitazione ricostruita secondo lo stile toscano +dell’inizio del Settecento e non a un arredo recente. Dovevo essere + capitato in una specie di museo – fu il mio primo pensiero. Il mattino +seguente avrei cercato qualcuno in paese cui spiegare come mai ero lì e +avrei iniziato il lavoro. Ora dovevo solo cercare di dormire; la febbre era +nel frattempo aumentata ancora e non riuscivo più a stare sveglio. Nel +camino del salone stava accatastata della legna secca: non so come ma +riuscii ad accendere il fuoco; la luce naturale della fiamma si miscelò con +quella biancastra del neon generando un impasto ambiguo che non mi +metteva a mio agio; spensi la lampada. Quella scelta mi distese per un +momento dandomi l’illusione di poter controllare tutto. Dovevo +assolutamente dormire ma non me la sentivo di adagiarmi su quei letti: +erano troppo impolverati, forse marci; stesi invece sul pavimento di legno +della grande sala d’ingresso un foglio di plastica speciale, che avrei +utilizzato in caso di campeggio all’aperto, e mi infilai nel sacco a pelo dopo +essermi completamente denudato e aver appeso i vestiti alle sedie intorno +al camino. Bevvi qualche sorso d’acqua, sorpreso che il mio corpo non la +rifiutasse dopo tutta quella che mi era caduta addosso, e le mie palpebre si +chiusero velocemente, più velocemente di quanto non svanisse in me +l’immagine delle fiamme che per un istante vidi anche con gli occhi chiusi. +Mi addormentai confondendo il flusso della coscienza e credetti di +svegliarmi. Fu allora che un sogno arruffato e vivido mi afferrò rapace la +mente. +Mi trovavo in una terra arida dove un sole enorme aveva prosciugato +tutte le nuvole. Ero dentro una stanza fatta di argilla e legno, al centro di +un villaggio di poche case, povere, accatastate le une alle altre. Una tenda +leggerissima e trasparente come una garza pendeva tutto intorno al mio +letto e alcune donne stavano al di là della tenda e io al centro, malato. Le +donne respiravano all’unisono tra di loro senza parlare e al contempo +respiravano insieme a me che respiravo respiri rapidi e frequenti. Folate di +mosche ronzavano intorno alla tenda rabbiose, sussurrando parole oscene. +Io stavo morendo e le donne in piedi intorno a me senza parlare mi +osservavano morire. Un fiume di tristezza esondò nel mio cervello e si +riversò per tutta la stanza e iniziai a piangere e piangere. Capii tutto. Io +non era la prima volta che morivo. Io ero Lazzaro ma ora non c’era più +nessuno a resuscitarmi e stavo morendo un’altra volta. Perché farmi +questo? Perché non capire che cavarsela una volta non serve a niente se +non ad aumentare il dolore? Perché risorgere se si deve rimorire? What’s + the use of getting sober if you’ve gotta get drunk again? Stupida musica in +testa per uno che sta morendo per la seconda volta. Così, pieno di rancore, +finalmente mi addormentai. +La febbre era passata. Mi svegliai intorpidito. Non avevo il coraggio di +aprire gli occhi per vedere dov’ero ma lo feci: dovevano essere passate +molte ore. Una luce tenue si era diffusa nella stanza: guardai l’orologio al +polso. Erano le due del pomeriggio. Avevo dormito tantissimo. Mi colpì il +silenzio: non quello in casa, che evidentemente era disabitata, ma quello +all’esterno. Niente. Aprii il sacco a pelo e ne sgusciai fuori. I vestiti erano +asciutti ma freddi e odoravano di fumo: li indossai in fretta, immaginando +di andare rapidamente a presentarmi in qualche casa per chiedere +ospitalità e iniziare il lavoro. Che lingua avrebbero parlato? Non ci +sarebbero dovute essere sorprese. Delle due grandi varietà della lingua +corsa, di fatto un dialetto toscano, avrei incontrato al massimo qualche +differenza negli esiti delle vocali dal latino, ma niente differenze nel lessico +e tantomeno nella sintassi: fondamentalmente un corso cismontano, forse +la lingua più simile all’italiano fra tutte quelle parlate in Italia. La mia +missione, a ben guardare, era praticamente inutile: spinta solo +dall’esigenza di sistemare l’ultimo tassello di un mosaico. Ma non uno di +quei tasselli decisivi, che rendono comprensibile un’immagine altrimenti +muta; il mio tassello era di quelli marginali, che stanno dove non ci sono +sfumature, come un pezzo di cielo in un cielo senza nuvole o il verde della +fronda di un grande albero del quale si vedono solo le foglie. Stupendo: +avevo studiato nella migliore università del Massachusetts per sei lunghi +anni per finire con l’andare a caccia di una farfalla che per giunta non +interessava a nessuno. Presto. Dovevo sbrigarmi presto: andare subito +fuori a conoscere le persone, prendere contatti e organizzare le interviste. +Due o tre giorni di registrazioni – mi dissi – e poi sarei tornato a +Calenzana e, da lì, a Calvi, poi a Genova e poi finalmente di nuovo a casa a +Parigi. Con questa missione avrei chiuso: mi sarei inventato un altro +lavoro; basta con incarichi faticosi e stupidi; non li volevo più. Erano +ancora più umilianti di quelle finte promesse di carriera di quei professori +universitari – buoni quelli – che avevo incontrato. +Guardai ancora fuori dalla finestra. Pioveva, sì, ma pochissimo, e la luce +tenue del cielo, ancora coperto ma non più cupo, finalmente illuminava la +piazzetta. Pietramala appariva come un borgo compatto e armonico: dal + mio punto di osservazione, sembrava fatto di una manciata di case +disposte come sui lati di una specie di rombo arrotondato. Di fronte alla +mia ce n’era un’altra un po’ più grande delle altre: tutte in pietra, tutte ben +disegnate e proporzionate, come se fossero state progettate insieme da +un’unica mano. Erano in buone condizioni per essere case di un borgo così +sperduto. Tra una e l’altra appena lo spazio di un viottolo pavimentato con +lastre di buona qualità, senza buchi o sbalzi, tranne che a un estremo del +rombo, dove – immaginavo – si poteva imboccare la strada che conduceva +al ponte e che io avevo percorso la notte prima alla rovescia durante la +tempesta. In mezzo alla piazza si trovava una fontana di pietra chiara ben +levigata dalle forme aggraziate, come una grande coppa, sormontata da +una copertura rotonda, anch’essa di pietra. Insomma, Pietramala era un +borgo davvero ben costruito; piacevole all’occhio nelle proporzioni e nei +colori chiari della pietra di costruzione che si armonizzavano con le +tonalità calde delle tegole di cotto sui tetti. Ma dove erano tutti? Indossai +la giacca a vento – faceva comunque ancora freddo – e misi in spalla la +versione alleggerita dello zaino, quella con solo i cavi dei microfoni, il +registratore e i quaderni, per andare a cercare qualcuno. +Uscendo, notai immediatamente l’assenza di qualsiasi tipo di +illuminazione: nelle case e nelle strade. Non ero particolarmente stupito +che mancassero nella casa dove ero io – mi ero ormai convinto che fosse +una specie di museo in disuso – ma che non ci fossero lampioni per le +strade o luci dalle finestre che vedevo, questo era davvero strano: forse che +tutto il borgo fosse un museo? Mi accorsi subito della mia stupidità: non +c’erano tralicci, non c’erano segni di collegamento, come potevo +aspettarmi illuminazione per le strade? Pietramala era veramente solo un +borgo sperduto e non ci poteva essere alcun collegamento con la rete +elettrica corsa. Probabilmente – mi dissi – se la cavavano con batterie o +generatori oppure, come capita ancora in qualche paesino di zone +depresse, più semplicemente se la cavavano senza elettricità. Pazienza. +Provai a bussare alla prima porta. Nessuno rispose. Provai a una seconda: +la reazione fu identica. Non continuai neppure: non mi ci volle molto a +quel punto a capire che a Pietramala non c’era proprio nessuno. Allora +gridai, stando ben attento a non confondere la debole eco con una +risposta: nessuno. La speranza che fossero tutti in qualche processione o al +lavoro non era ragionevole. Il silenzio che c’era fuori di me invase anche + me paralizzandomi: allora imposi silenzio anche nel pensiero per la paura +di dover ammettere l’ovvio. Avevo fatto tutta quella fatica per niente: +l’Area 44 era vuota. Punto. Pietramala era un villaggio fantasma. Nessuna +persona da intervistare, nessuna registrazione, niente di niente di niente. +La rabbia mi salì furiosa: quegli imbecilli della Société non si erano +nemmeno dati la briga di verificare che il paese dove mi avevano spedito +fosse abitato. Contavo talmente poco io che la mia missione era stata +assegnata senza alcuna certezza di portare a casa un risultato. Quell’area +valeva meno di un controllo: anzi, ero io che non valevo assolutamente +niente di niente di niente. +Mi sedetti sulla base circolare della fontana in mezzo alla piazzetta, i +gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani: chiusi gli occhi. Ero lì, al +freddo, in un pomeriggio di settembre inoltrato, in un villaggio vuoto, +sotto una pioggerellina fastidiosa, senza aver null’altro da fare se non +tornare indietro e chiudere la missione. Mi chiesi quanti al mondo stessero +vivendo una situazione simile alla mia e pensai quanti mondi diversi +fossero simultanei al mio di allora, in quel luogo. Da qualche parte del +mondo – mi dissi – era estate o era inverno, era l’alba o era il tramonto, +c’era la nebbia o il vento, stavano cadendo le foglie o stavano maturando +le ciliegie, ed era un’ora qualsiasi. Da qualche parte del mondo – mi dissi – +il posto e l’atmosfera che stai pensando esistono e noi siamo solo una +varietà tra le tante: niente di assoluto. Mi parve di comprendere chiaro il +motivo per il quale, anche se non sappiamo come dimostrarlo, ci lasciamo +facilmente addomesticare dall’idea che la Terra è rotonda: serve a non +sentirci in trappola, perché se la Terra è rotonda possiamo sempre +scappare in un’ora e in un clima diverso, possiamo sempre fuggire da un +mezzogiorno d’estate o da un tramonto invernale verso la situazione +opposta. E io, lì, in trappola, c’ero in pieno, dunque occorreva +immediatamente reagire e andarmene. Avevo chiuso con quella missione e +con quel lavoro: mi sarei fermato solo quella notte e poi sarei ripartito. +Avevo cibo a sufficienza per quattro giorni; mi sarebbe bastato senza +problemi per le prossime ore. Feci ritorno nella casa dove avevo lasciato il +sacco a pelo: riaccesi il fuoco del camino e mi riaddormentai. Non potevo +immaginare che da quella notte tutta la mia vita sarebbe cambiata, che +quella che sembrava una trappola si sarebbe rivelata invece una catapulta + per l’anima. Non potevo certo nemmeno immaginare quale mistero +imperscrutabile e spaventoso nascondesse il borgo di Pietramala. +[1.4] Stavo sognando di essere su una spiaggia d’estate; di fronte a me alte +ruggivano le onde. Un vento teso piallava i riccioli di spuma che si +disperdevano rapidi contro il blu intenso. Stavo giocando a tuffarmi +correndo verso il mare, quando un’onda troppo grande per essere vera mi +risbatté dalla parte sbagliata della vita e sbucai fuori dal sogno: non ero in +spiaggia, ero ancora in trappola a Pietramala dentro il mio sacco a pelo e +quello era un ricordo e io ero infelice perché non c’è pensiero più infelice +di un ricordo felice. Ebbi un moto di stizza: il sacco a pelo che mi aveva +protetto il sonno era diventato una camicia di forza. Lo tolsi di dosso con +un gesto di rabbia e mi vestii di furia; ricomposi lo zaino senza troppa cura +e spalancai la porta di casa per lasciare definitivamente quel borgo vuoto. +Non so dire cosa mi prese in quell’istante preciso nel quale, tenendo la mia +mano ben stretta sulla maniglia della porta, fermai tutto. Forse uno scatto +di orgoglio per ridare senso a una fatica così pesante, forse la curiosità per +quello che avevo intorno, forse solo una specie ragionamento fatto sotto la +soglia della coscienza, fatto sta che sfilai di scatto lo zaino, lo lasciai cadere +per terra e varcai la soglia di casa con un’intenzione nuova. Volevo +perlustrare il borgo e capire qualcosa di più di quello che avevo visto. +Doveva esserci un senso. Iniziai ovviamente dalla piazzetta. +Anche alla luce di quella mattina, per quanto oscurata ancora da +nuvole basse e dalla solita pioggia fastidiosa, il borgo di Pietramala +appariva come l’avevo ricostruito al tatto la notte del mio arrivo. Si +trattava davvero solamente di una manciata di case, appollaiate su un +costone di roccia, circondato da una muraglia di sassi compatti, scelti e +sistemati da mani sapienti, accessibile dalla montagna che costituiva uno +dei fianchi della gola solo per il tramite di quel ponte che avevo imboccato +di corsa la notte del mio arrivo: un ponte sottile ma ben piantato che +collegava la montagna al costone in un’unica elegante campata che sulla +sommità si restringeva a forma di gobba; di lontano, l’avresti detto simile +alla schiena di un gatto che si inarca per stiracchiarsi o forse all’arto di un +grande animale preistorico che cercava di afferrare il borgo. Tutte le case, +benché disabitate apparivano in buone condizioni; i tetti, costruiti con + tegole di buon impasto e con legname stagionato, avevano tenuto nel +tempo. Il borgo non aveva vere e proprie vie ma viottoli a gradoni che +dalla piazzetta salivano a un livello più alto. E i viottoli, foderati di pietra +chiara e levigata, sembravano essere prolungamenti delle case, come se +tutta Pietramala fosse un unico edificio composito dove la gente non +distingueva il dentro dal fuori delle abitazioni. L’unico varco in questo +intreccio di pietra era la piazzetta che, come avevo notato la sera prima, si +apriva in un punto dando forma all’unica via vera e propria del borgo: +quella che conduceva verso il ponte. Salii anche in cima al campanile della +chiesa per avere una visione d’insieme più chiara. La scala di legno interna +al campanile era perfettamente conservata, anche se impolverata. In cima, +ad un’altezza davvero considerevole, si aprivano bifore sui quattro lati: +osservando verso il lato dove si sviluppava il borgo, i tetti ne +confermavano il volto aggraziato e la struttura centrata sulla piazza a +forma di rombo. Tetti simili ne avevo visti solo in Toscana e in qualche +zona della Francia meridionale, al confine con i Pirenei, tutti costruiti tra +la fine del Seicento e i primi del Settecento: il borgo ricopriva l’altura in +modo naturale, assecondandone l’andamento, come sempre capita quando +l’architettura si sviluppa ricombinando elementi piccoli come i mattoni o i +sassi. Rimasi qualche minuto a osservare dall’alto il reticolo di viottoli che +avevo percorso in lungo e in largo posando lo sguardo sui tetti e tra le +case; lo feci lentamente, cercando di imprimere nella memoria ogni +singolo dettaglio. +Riconobbi, sorprendendomi quasi lo vedessi per la prima volta, l’arco +molto alto e sottile, posto all’ingresso del borgo, subito dopo il ponte, +proprio nel punto nel quale iniziava la breve salita verso la piazzetta; non +ci avevo fatto troppo caso quella notte, nella fretta di correre verso le case +a cercare un riparo. Si trattava di una costruzione insolita. La curvatura +dell’arco non iniziava solo a una certa altezza, come è normale in un +costruzioni di quel tipo, appoggiandosi per un tratto sopra delle colonne +dritte: quell’arco si incurvava dolcemente fin dalla base, regalando +un’eleganza inspiegabile a quella struttura, certamente anomala per +l’architettura dell’epoca nella quale era ragionevole pensare che fosse stato +costruito il borgo. Forse – mi dissi – non l’avevo notato così bene anche +perché era completamente coperto di edera tanto che pareva quasi + generato dall’intreccio di rami ricurvi che sbucando dal terreno si +avvinghiavano intorno a esso ricoprendolo completamente. +La curiosità per quel borgo che sembrava dimenticato dal mondo – +anzi, che era dimenticato, se si esclude la sua registrazione nell’atlante +linguistico della Société – iniziava a crescere dentro di me insistente. Cosa +era successo a Pietramala? Perché era deserta? Non c’erano segni evidenti +di disastri o incendi o scorribande o terremoti – l’arco si sarebbe +frantumato e comunque ci sarebbero state tracce di scassi o rovine – né +pareva che il borgo si fosse, come dire, spento per consunzione naturale. +Sembrava all’opposto che il borgo fosse stato abbandonato di punto in +bianco, nel pieno della sua vita quotidiana. Forse la stanchezza o forse la +paura di rimanere senza una spiegazione mi giocarono un brutto scherzo; +avventatamente, credetti di aver già capito tutto e sussultai di orgoglio. +Forse una malattia gravissima aveva colpito Pietramala e gli abitanti erano +scappati in massa in cerca di ricovero verso altri borghi o città, tenendo +quanto più possibile segreta la causa della loro fuga per non essere +respinti. Così, convinto di aver scoperto l’equazione che soddisfa tutte le +condizioni al contorno, pensai che si trattasse solo di perfezionare +quell’intuizione, cercando i dati che la confermassero e riportassero i +dettagli recalcitranti al rango di conseguenze logiche, perché qualche +particolare ancora non mi tornava. Continuai, dunque, a riflettere, mentre +il respiro si era fatto più robusto e sulla fronte si distendevano finalmente +le rughe del dubbio. Continuai a sviluppare i miei pensieri, raffigurandomi +la situazione. Quando un’epidemia colpisce un centro abitato, per quanto +rapida – mi dissi – il tempo di reazione delle persone può essere sì veloce +ma non così tanto da costringere a una fuga di massa nel giro di poche +ore. Ci deve essere necessariamente un tempo in cui si accumulano morti +ravvicinate e numerose: anzi, è proprio questa piena improvvisa e +inarrestabile di morti a dare l’innesco alla fuga; altrimenti, se la comunità +pensa di riuscire a resistere all’epidemia tende a non spostarsi: nessuno +abbandona volentieri i propri oggetti e la propria casa senza una ragione +che non ammetta altre soluzioni. Questo pensiero sulla presenza di morti +come testimonianza di un’epidemia improvvisa e gravissima crebbe +rapidamente in me e mi portò a una conclusione ovvia e inevitabile: +dovevo fare immediatamente un sopralluogo al cimitero di Pietramala che +avrebbe fornito la prova definitiva della mia spiegazione e con essa + dimostrato il trionfo della mia intelligenza. Il sole era ormai tramontato, +ma non potevo certo aspettare il giorno dopo. +In questa desolata spelonca tra i monti, nella fievole luce della luna, +stava il cimitero di Pietramala. Un fazzoletto di terra, da tempo visitato +solo dal vento, occupava lo spazio libero tra le case appena dietro alla +chiesa, altra testimonianza che il paese dovesse essere stato costruito +prima del 1804 quando l’editto napoleonico di Saint Cloud proibì la +sepoltura entro le mura dei centri abitati. Non si trattava ovviamente di +uno spazio grande ma le tombe non erano pochissime: lapidi sobrie, +piccole, fitte, allineate in file di undici – tanto che non dovetti nemmeno +fare la fatica di contarle – recavano solo il nome del defunto e le date di +nascita e di morte. Nel leggerle mi colpì immediatamente un fatto +inaspettato: avevo immaginato che il paese fosse stato edificato tra la fine +del Seicento e l’inizio del Settecento ma non mi sarei aspettato di trovare +quasi solo persone nate e vissute in quell’arco di tempo relativamente +breve. Mi era evidente che la vita nel borgo fosse durata poco più di +sessant’anni perché poi fu spazzato via dalla malattia. Ma a questa ipotesi, +e dunque alla mia soluzione, si contrapponevano le date sulle lapidi: in +primo luogo non c’erano molte tombe con date ravvicinate, né considerate +nell’insieme né, dato ancora più importante, tra quelle più recenti. E come +poteva essere? L’epidemia, per essere tale, doveva aver provocato +un’ecatombe in tempi brevi. Ma la cosa che più mi sorprese da quel rapido +censimento e contro la quale inesorabilmente s’infrangeva la mia ipotesi +era che mancavano totalmente tombe di bambini: tutti i morti avevano, +all’incirca, almeno una quindicina d’anni. Cosa poteva voler dire questo +fatto? Forse che la malattia aveva preso solo gli adulti perché i giovani +erano in qualche modo immuni e che poi tutti gli abitanti furono fatti +evacuare in fretta e furia? Forse che i giovani si ammalarono tutti subito e +fossero stati portati via in gruppo lasciando lì per qualche tempo solo gli +adulti? Forse. Ma erano tutte ipotesi vaghe e nemmeno troppo probabili. +Dentro la mia testa di sicuro c’era solo una costellazione di fatti senza +correlazione immediata: un borgo isolato costruito in poco tempo circa tre +secoli prima, abbandonato all’improvviso, abitato solo per una cinquantina +d’anni, durante i quali nessuna persona giovane era morta. La sindrome +perfetta – mi dissi: un concorso di eventi, cioè, tali che ciascuno di essi +potrebbe avere una causa indipendente ma che quando si manifestano + tutti insieme sono riconducibili a un’unica causa. Mi mancava proprio di +individuare quella unica causa da cui derivare congiuntamente quella +costellazione di fatti. In quelle condizioni, mi ero convinto che rimanesse +ancora solo una possibilità prima di rigettare la mia ipotesi: cercare nelle +case qualche testimonianza scritta di quanto era avvenuto. Certo non mi +aspettavo cronache dettagliate, relazioni o trattati ma qualche diario, o +anche dei libri, magari fatti pervenire da qualche biblioteca di medico +famoso per capire cosa stesse avvenendo e poi abbandonati nella fuga +repentina e generale, quelli sì. La ricerca doveva dunque continuare a un +livello diverso. +Uscii dal cimitero, ripercorrendo a ritroso i gradoni dei viottoli di pietra +in mezzo alle case e quei brevi tratti dritti che costituivano le stradine di +Pietramala. Muovendomi a passi rapidi, spinto dalla curiosità, mi accorsi di +come era cambiata la mia missione: solo poco tempo prima mi aspettavo +di essere ospitato in qualche casa di contadini, festeggiato come un +ambasciatore dal mondo nuovo, di registrare annoiato le loro frasi ovvie, +di prendere nota di tutte le vocali e di qualche strana espressione, di far la +conta delle differenze lessicali rispetto alle varietà già note del corso. +Invece no: mi trovavo in una situazione che non capivo nemmeno bene +ma che mi stava dando una nuova sensazione. Dopo tanto tempo stava +iniziando a prendere sostanza nella mia mente, sia pure in una forma +latente e non ancora perfettamente riconoscibile, l’embrione, anzi, non +ancora, la morula di un senso di curiosità per qualcosa che stava +accadendo fuori di me: tutto poteva ancora diventare tutto. Ora si trattava +di iniziare concretamente l’ispezione del borgo e di lasciare che questa +sensazione si sviluppasse e maturasse. Le case non erano poi molte: sarei +riuscito a controllarle tutte in poco tempo ma volevo iniziare con un +minimo di metodo. Decisi di andare a dormire, il mattino seguente sarei +partito dal centro. +Di buon’ora raggiunsi la piazzetta, mi guardai intorno e puntai dritto +verso la casa che mi sembrava la più ricca, quella con il loggiato e un bel +portone di legno scolpito. +Aprii la porta. Ovviamente non fui più sorpreso che la serratura fosse +sbloccata, anzi a quel punto sarei stato sorpreso del contrario. La casa era +veramente signorile nella qualità dell’arredo e nella proporzione dei locali. +Al piano terreno una grande anticamera con soffitto affrescato a motivi + geometrici dava su una sala da pranzo ampia, capace di ospitare intorno al +tavolo almeno una ventina di persone, tante erano le sedie disposte tutte +intorno, foderate di un tessuto prezioso che lasciava ancora intravedere +qualche luccichio dorato sotto lo strato di polvere. Da quella sala si +accedeva a un’altra, probabilmente destinata a luogo di studio o +conversazione dopo pranzo, data la collocazione. Il cuore mi batteva forte: +entrai nella stanza buia percependo dal rumore dei miei passi che le pareti +erano foderate di legno. “Una biblioteca!” – esclamai tra me e me, +emozionato. Andai ad aprire gli scuri per far entrare la luce: mi girai di +scatto e, abbracciando con lo sguardo tutti gli scaffali insieme, sorridendo, +allungai le mani nella fretta di afferrare almeno un libro, ma le mani +nemmeno raggiunsero metà del percorso che avrebbero voluto compiere: +le fermai prima perché tutti i ripiani erano completamente vuoti come i +loculi di un cimitero non ancora inaugurato. Il sorriso rimase più a lungo +della delusione tanto essa fu cocente. +Il senso di demoralizzazione si prese in me tutto lo spazio della +speranza: se lì non c’era nulla – mi affrettai ad ammettere – difficilmente +avrei trovato qualcosa altrove. Cercai con un certo affanno, misto a stizza, +di aprire rapidamente tutti i cassetti di un mobile imponente che mi trovai +di fronte per leggere le carte che potevano esservi custodite, ma maggiore +era la convinzione di non trovar nulla che quella di procedere nella +ricerca. Niente, infatti. Andai nelle stanze da letto, aprii anche lì tutto +quello che poteva contenere qualcosa di scritto. Niente, ancora. Era +evidente che la scelta della casa più ricca si era rivelata infelicissima: ed +era evidente che a nessuno era importato che in quella stanza ci fossero +quadri di valore, soprammobili preziosi, posate d’argento. Mancavano solo +i libri e qualsiasi altra traccia scritta. Uscii con passo svelto da quella casa, +ed entrai immediatamente nel portone di quella di fianco. Si trattava di +una dimora meno nobile: qualche libro ci sarebbe ben stato, un quaderno, +una nota, una ricetta, un elenco almeno! Da lì avrei potuto ricavare +frammenti di informazioni sulla lingua e sarei stato in grado di darne una +classificazione, sia pure sommaria. Niente. Niente di niente. Niente di +niente di niente. Mi resi conto che al di là dei nomi – per lo più italiani e +francesi – che avevo letto sulle lapidi delle tombe, non c’era in tutta +Pietramala +nessun’altra +scritta. +Uscii +turbato +ma +non +ancora +completamente vinto. Forse ero solo stato sfortunato: c’erano ancora + parecchie altre case. L’esito però fu identico per tutte: non una riga scritta, +non una stampa, non un libro, nemmeno un quadro con una didascalia – e +dire che di quadri ce n’erano – o un barattolo di conserva con sopra +un’etichetta. Pensai all’unico ambiente che mi rimaneva da controllare, e +che – mi dissi dandomi del cretino – avrei fatto meglio a controllare prima +di ogni altro: la sacrestia della chiesa. Ma certo! La sacrestia doveva +contenere almeno i registri battesimali e di morte, insomma doveva esserci +tutto quello che serviva per tener memoria degli eventi di quella comunità +religiosa che, per quanto piccola, doveva comunque avere un minimo di +attività soprattutto essendo così isolata da non potersi appoggiare ad altre +chiese vicine. Io sarei stato dunque in grado di catalogare la lingua parlata +a Pietramala perché, insieme al latino, inevitabilmente ci sarebbero stati +appunti e note manoscritte. +Entrai in chiesa e con grande meraviglia constatai che nonostante la +ricchezza di marmi intarsiati e affreschi e qualche quadro di valore anche +lì non c’era nemmeno una parola scritta; neanche sotto i santi e sull’altare. +La sacrestia, una stanza interamente rivestita di legno di noce scuro con +sculture di cherubini paffuti e una madonna ieratica, era arredata con +mobili molto grandi e articolati. Aprii ogni cassetto, guardai sopra ogni +scaffale. Frugai dentro tutte le scatole: non una pagina, non una frase, +nemmeno una parola scritta. Rifeci il controllo da capo, come se sperassi +di essermi sbagliato, riaprendo le scatole, i cassetti, guardando ancora +sopra gli scaffali; provai perfino a frugare nel tabernacolo. Per la prima +volta da quando ero partito da Calenzana mi accorsi di sudare, malgrado la +temperatura dell’aria non si fosse alzata di un solo grado; dalla mia fronte, +cadevano gocce fredde che non facevano in tempo a espandersi al contatto +con gli oggetti, subito risucchiate dalla polvere di tre secoli che faceva +apparire grigia ogni cosa. All’improvviso, allora, mi fermai; interruppi la +ricerca e sospesi ogni gesto; rimasi immobile, respirando lentamente per la +prima volta dopo ore. Mi ero arreso, o meglio, convinto. Fu quello il +momento di non ritorno, l’insopprimibile, sovrana sensazione che ti +prende quando ti accorgi che non hai più le energie per ignorare un +pensiero che da ore tieni schiacciato sul fondo dalla coscienza con ogni +sforzo da ore e riemerge con ancora più forza al pari di un’asse di legno +tenuta sotto i piedi sott’acqua. E allora un terrore infinito s’impadronì di +me e tanto più forte si manifestò perché non generato da una presenza + minacciosa o da una visione orribile, che avrei saputo o almeno cercato di +domare evitandole, ma dal più disarmante e coinvolgente tra tutti gli stati +della mente: la coscienza di un vuoto. In quel villaggio era stato fatto +scomparire deliberatamente tutto quello che era mai stato scritto. +[1.5] La mattina successiva, proprio al momento del risveglio, con un +senso di nostalgia lancinante, mi ricordai di me bambino e non potei non +riconoscere quanto il mondo fosse più semplice quando iniziavo la +giornata con un disegno e il disegno sempre con un sole in alto a destra. +Quella regressione – lo capisco ora – era l’effetto della decisione di non +essere tornato subito indietro da Pietramala. Più precisamente, era l’effetto +di un tarlo che era germinato nel mio cervello; un tarlo che avrei potuto +lasciar lavorare, senza degnarlo di uno sguardo, facendolo scavare +indisturbato, e che invece mi misi prima a inseguire e poi addirittura ad +anticipare. Era il tarlo di una curiosità che in qualche modo mi spaventava +ma che mi aveva anche risvegliato da una noia tossica. Cosa era successo a +Pietramala? Perché il borgo era stato evacuato? Perché non c’erano morti +tra i giovani? E, soprattutto, perché ogni traccia di quella lingua era stata +fatta sparire? Nel dormiveglia mi venne quasi il timore che fosse proprio la +lingua a essere stata la causa delle morti: una lingua infettiva che uccideva +per tramite di un funestissimo contagio grammaticale. Per fortuna, quel +poco di razionalità che mi rimaneva mi distolse da quel delirio. Rimaneva +vera, tuttavia, una volta lasciato decantare il pensiero, la sensazione netta +che il mondo da quella notte non poteva più essere semplice per me. Forse +la semplicità l’aveva persa da tempo, ma di fatto io me n’ero accorto solo +allora. Tutto mi sembrava aver perso la semplicità. Anzi: tutto era semplice +ma forse troppo semplice, nel senso che tutto era fatto di parti che non si +capiva come potessero stare insieme, e dunque alla fine tutto era +incomprensibile. Non ero nemmeno più sicuro di che cosa volesse dire la +parola “semplice”. Da bambino giocavo a ripetere la stessa parola +tantissime volte di fila finché mi rimanevano in bocca solo sillabe svuotate +di significato che potevo ricombinare in un ordine diverso. Allo stesso +modo la situazione nella quale mi trovavo aveva fatto a brandelli la +nozione di semplicità: si era prima frammentata e poi completamente fusa +nella mia mente, finendo con il perdere tutti i connotati, come una statua +di cera sciolta in un secchio; forse – arrivai a pensare – la semplicità non +esiste nelle cose ma negli occhi di chi le guarda e allora c’era qualcosa di + sbagliato nel mio sguardo. In una situazione normale avrei atteso che tutti +i miei pensieri si disperdessero come un fumo molesto, ma in questo caso +non avevo niente da perdere nel tentare di capire la causa o, almeno, nel +dare un senso a ciò che avevo scoperto. +Ora però la domanda vera era un’altra e non riguardava il pensiero ma +l’azione: che cosa dovevo fare? Certamente non aveva più senso stare a +Pietramala. Rimaneva solo una cosa razionale da fare: raccogliere tutto e +tornare a Parigi, o comunque andarsene da lì, anche perché il cibo sarebbe +finito presto e il cielo sembrava rapidamente deteriorarsi, sebbene non +avesse mai smesso di piovere. Pensai che avrei potuto consegnare alla +Société una descrizione dei fatti ma ritenni che non mi avrebbero creduto: +avrebbero ignorato la mia relazione sull’Area 44 inventandosi che la +lingua di quella zona fosse simile a quelle limitrofe, non preoccupandosi +più di tanto. A quel punto avrei potuto risparmiarmi anche la fama del +visionario e inventarmela io la lingua di Pietramala così da accontentarli +con un trucco; cosa cambiava? Un velo di tristezza calò rapido sui miei +propositi e ne annullò i colori, proprio come la polvere che avevo visto +nelle case del borgo: il desiderio di trovare una spiegazione a quell’assenza +mi stava evaporando tra le mani e non riuscivo a fare altro che rispondere +con un vuoto a quel vuoto. Solo che il vuoto della mia risposta era il vuoto +della mia vita, che per un istante avevo pensato di poter riempire. +Mi sbozzolai in poche mosse dal sacco a pelo; mi alzai, mi rivestii e +senza passione preparai lo zaino per il ritorno: era ancora presto e il +cammino non sarebbe stato così difficile, sia perché avevo già +sperimentato il percorso una volta, sia perché la pioggia era meno intensa, +sia perché non mi importava più di niente. Tornavo alle mie cose, volando +via da tutto quel mondo incomprensibile: mi sarei dimesso dal lavoro e +avrei cercato qualcosa d’altro, qualsiasi cosa d’altro da fare. Avevo già lo +zaino in spalla quando, all’improvviso, senza una ragione precisa, mi tornò +vivida l’immagine dell’arco, quell’arco strano alto e sottile che stava +all’ingresso del villaggio. Su un arco – mi dissi – di solito, ci sono delle +iscrizioni e le iscrizioni non potevano averle portate via facilmente; forse +scalpellate e ridotte a segni illeggibili, ma se l’evacuazione dal borgo era +stata davvero repentina, come avevo ricostruito dai dati a mia +disposizione, non potevano aver avuto tempo di badarci; o forse +semplicemente se ne erano dimenticati, come me ne stavo dimenticando + io. E non avrei potuto notarle la prima volta che lo avevo ispezionato +perché era coperto di edera né potevo sospettare ancora che non avrei +trovato nulla di scritto: ora invece quell’arco poteva rappresentare la +chiave della soluzione, la testimonianza scritta della lingua scomparsa, la +soluzione della sindrome muta. Non c’era bisogno di lasciare nulla nella +casa: avrei trovato l’arco all’imbocco del ponte, così tenni lo zaino in spalla +e uscii rapido. +Attraversai la piazzetta e imboccai di corsa la strada in discesa +lastricata a grandi blocchi, la percorsi tutta con un senso di attesa sempre +più crescente e alla fine me lo trovai di fronte. A ben guardarlo era +davvero una figura insolita: non ne avevo mai visti di fatti così e non solo +per l’edera: mi parve veramente una forma naturale, non un oggetto +costruito. Senza nemmeno togliermi lo zaino, con tutte e due le mani +afferrai l’edera dalla parte dove l’arco sorgeva da terra, sul lato sinistro +guardando il paese – avevo infatti pensato che la scritta dovesse accogliere +chi arrivava, non chi lasciava Pietramala – e mi accorsi di quanto tenace e +fitta fosse la rete di rami e foglie del rampicante avvinghiata da secoli alla +pietra di granito. Non desistetti; strappai le prime foglie e qualche ramo a +mani nude e poi mi aiutai con un coltello a serramanico che avevo portato +con me. Per i primi metri non c’era nulla; solo pietra levigata sulla quale +aveva fatto presa la vegetazione. Ripresi con ancora più concitazione a +strappare foglie e rami, quasi più attirato dalla rabbia e dalla voglia di +uccidere quella pianta che spinto dalla speranza di trovare qualcosa. +Invece, sotto un ramo più legnoso e tenace di altri, scolpita da mani +sapienti, a un’altezza dell’arco che quasi superava l’estensione del mio +braccio teso, finalmente, comparve nitida una “A”. La gioia per la scoperta +di quella lettera, l’inizio, l’alfa, o anche semplicemente la prima lettera che +imparai a scrivere, mi fece tremare le mani. L’iscrizione, almeno l’inizio, +c’era ed era ben conservata, a giudicare da quella prima lettera: si trattava +solo di scoprirla tutta. Dal momento che l’arco era alto poco più di tre +metri non sarei mai riuscito a strappare l’edera fino a quel punto, né, +qualora l’avessi fatto, sarei riuscito a leggere facilmente l’iscrizione. +Occorreva una scala. Tolsi con uno strattone lo zaino e lo appoggiai per +terra: risalii di corsa la strada verso la piazzetta dirigendomi dalla parte +opposta, dove stava la chiesa. Certamente nella sacrestia dovevano avere +una scala, almeno per permettere di accendere le candele più alte. Tornai + ansante con la scala sulle spalle, ripercorrendo i viottoli lastricati di +Pietramala. La appoggiai all’arco e senza fermarmi salii in cima: là, con +ancora più rabbia che forza, continuai a strappare i rami della pianta e le +foglie, fermandomi ogni tanto, come si libera dalla terra uno scrigno +nascosto vedendo affiorare uno stemma prezioso. Quando la scritta, che si +estendeva per almeno due metri, fu tutta esposta, mi fermai, scesi dalla +scala e finalmente lessi: +ABCCCDDEEEEEEFGGIIIIIIIIILLMMMMNNNNNOOPRRSSSTTTTTTUUUUUUUUX +Il mio sorriso rimase più a lungo sul volto di quanto la mia mente non +intendesse; come quando si saluta un amico che si è incontrato +camminando per strada e per inerzia si tiene l’espressione gioiosa anche +quando è già passato oltre. Le labbra, ancor più stupide del cervello, si +lasciarono alla fine convincere ma non si distesero: incaute tentarono +immediatamente l’impossibile compito di proseguire dopo la prima lettera +e pronunciare il resto della sequenza. Già la terza consonante fece ingoiare +suono e speranza. Non era una frase normale: o meglio lo era ma era +trascritta in codice; avevo di fronte un anagramma, alla moda di quelli che +si scrivevano proprio alla fine del Seicento e nel Settecento. Tutte le parole +di una frase venivano smontate raccogliendo le lettere uguali in gruppi e +poi i gruppi erano disposti in ordine alfabetico; al momento buono, chi +l’avesse composto avrebbe potuto dimostrare di conoscere già la soluzione +di un problema famoso, il contenuto di una profezia o la natura di un +legame familiare che non era opportuno fosse svelato prima: pochissime +combinazioni su miliardi potevano avere senso con un numero simile di +lettere e questo sistema, in un mondo che non poteva nemmeno contare su +aiuti informatici, costituiva un espediente semplice, poco costoso ma +inviolabile per custodire un segreto. +Perfetto, pensai assorbendo la delusione come un pugno ricevuto nel +dormiveglia. Non sarei mai riuscito a decifrare l’anagramma e, +probabilmente, con esso il segreto di Pietramala. Una sola cosa mi diede +un minimo di conforto. Accanto a questa iscrizione stava inciso sulla +pietra: 1721-1723. Avevo evidentemente ricostruito bene il periodo +dell’edificazione di Pietramala. Quello doveva essere stato il periodo di +costruzione dell’arco e il borgo in quegli anni doveva essere stato ancora + vivo, vivace e pieno di aspettativa per il futuro. Il contrario esatto di come +mi sentivo io allora. Per vergogna verso me stesso, trasformai il senso +devastante di delusione in un rifiuto e pensai di chiudere definitivamente +con quell’enigma. “Per me,” dissi ad alta voce con tutta la rabbia della +quale ero capace, “la storia finisce qui.” Che non sarebbe stato così avrei +dovuto capirlo perché pronunciai quelle parole mentre stavo finendo di +trascrivere l’iscrizione. Arrivato all’ultima lettera, chiusi il mio taccuino. +Infilai il tutto nello zaino, assestai cinghie e cinghiette e mi incamminai sul +sentiero che mi riportava a Calenzana; senza voltarmi. +Non è certo una novità per nessuno che il ritorno sembra sempre più +rapido dell’andata; la mente è libera dalla zavorra delle aspettative di chi +parte, che non è fatta solo di desideri ma anche del peso degli scenari +possibili che al ritorno si sono ridotti all’unico vero dono inestimabile +dell’esperienza. Rividi alla rovescia il sentiero tortuoso che mi aveva +portato quella notte a Pietramala, girai intorno alla prima montagna, poi +alla seconda, poi raggiunsi il fondovalle per risalire infine su un breve +altipiano e scendere dall’altra parte della cordigliera. Allora riuscii a +sentire, sebbene attenuato, quel profumo mitico di mare e di conifere; +forse era il maestrale che, dopo aver accarezzato il Mediterraneo, si era +infilato in una qualche gola pettinando gli alberi ed era giunto fino a me o +forse era solo il mio desiderio di vento. Perfino la pioggia, che mai dalla +mia partenza a Calenzana aveva smesso di cadere, bagnava di meno: o era +la mia mente che si era impermeabilizzata come le piume delle oche +perché aveva capito che covava ora dentro di me qualcosa di prezioso e +non poteva lasciare che si infradiciasse. +In distanza, superato l’ultimo costone di roccia, prima di reimmergermi +in un bosco verso la strada principale, scorsi tra le nuvole basse +dell’autunno la vallata tranquilla della Balagna; di lontano distinguevo il +mare. Era grigio, con dei refoli bianchi alzati dal vento sulle creste più +audaci: segno di tempesta imminente. Una barca in affanno tentava di +entrare nella baia di Calvi per trovar riparo. Chissà da dove tornava: forse +il suo segreto era più grande del mio. Forse il segreto di chi incontriamo è +sempre più grande del nostro ma non possiamo saperlo. Rimasi incantato +a guardarla. Lo sanno tutti: è dolce, quando sulla distesa del mare i venti +sconvolgono le acque, guardare dalla terra la grande fatica che altri fanno; +non perché sia dolce il loro tormento, ma perché è dolce vedere da quali + mali siamo privi noi. Eppure, per un istante mi chiesi se quell’uomo sulla +barca non pensasse la stessa cosa di me. Non si può mai sapere se il mare +con la maggior tempesta sia quello che vedi o quello nel quale ti trovi. +Era il tramonto quando entrai nel bosco per raggiungere l’ultimo tratto +di strada che mi separava da Calenzana: la luce tra le piante mi sorprese; +capii di non avere nomi a sufficienza per chiamare le tonalità di verde che +persistevano nella vegetazione ormai miscelate ai tratti dell’autunno. +Quando ne uscii, trovai subito di fronte a me le prime case della strada +carreggiabile e le luci artificiali; una macchina mi passò a fianco rapida; +guidava una donna che sembrava cantare e mi fece un cenno coi fanali. +Ero decisamente tornato nell’aldiquà. Il mio passo invece che rallentare +per la stanchezza si risvegliò. Stavo varcando la soglia ideale che +designava l’ingresso di Calenzana e rimasi senza fiato dalla meraviglia: il +mio piede quasi non aveva toccato terra quando la pioggia, +ininterrottamente caduta in tutti quei giorni, all’improvviso cessò. Allora +fu come quando un rumore fastidioso al quale ci si è abituati smette di +colpo: il senso di pace arriva inaspettato e solo allora si comprende quanto +disagio si era provato fino a quel momento. Sorrisi. Ora avevo un mistero +da decifrare. + Capitolo secondo +Ottobre, ovvero quando l’aria si fa irresistibile per mangiare, baciare e decifrare un mistero. +[2.1] Era veramente fresca l’aria fresca di quella mattina; seduto a un +tavolino appena fuori della locanda lungo la strada principale di +Calenzana, sotto l’ombra viva di un platano, ordinai la prima colazione. +Mentre aspettavo, contai i quadratini rossi della tovaglia, cercando di +capire se erano di più di quelli bianchi. Pensare ai numeri, alla mattina, mi +serve per avviare la testa senza sussulti. Avevo buoni motivi per sfuggire a +un risveglio completo. Sentivo chiaramente di aver aperto e chiuso un +numero dispari di parentesi nella mia vita: occorreva tornare da capo e +contarle, per riuscire a pareggiare i conti, sia pure provvisoriamente, e +tirare innanzi. In questo esercizio di algebra esistenziale, il naufragio della +missione a Pietramala non contava in sé – salvo l’imbarazzo di dover +riferire alla Société che l’Area 44 era vuota, da me eventualmente +aggirabile con la finta relazione – quello che mi bruciava davvero era la +consapevolezza che quell’evento chiudeva una fase della mia vita, anzi che +chiudeva l’ultima fase che fosse chiudibile senza la necessità di ripensare a +tutta l’architettura di fasi che l’avevano preceduta. Da allora in poi – ne +ero certo – ogni scelta mi avrebbe costretto a ripensare tutto dall’inizio, +non dando niente per scontato. Ma mi sentivo confuso e indeciso. Quello +che mi era successo mi aveva privato di ogni scusa per lamentarmi di una +vita senza stimoli ma non mi aveva (ancora) suggerito cosa fare di diverso. +Era come un meteorite caduto nel deserto: una voragine di sabbia, per +quanto grande, è sempre sabbia. Non c’era in effetti molto da fare; sarei +tornato a Genova e da lì a Parigi a riferire al centro di ricerca della Société +ma non potevo farlo prima di qualche giorno, perché una burrasca stava +impedendo ai traghetti di salpare da Calvi e i pochi voli, sia da Calvi che +da Bastia, erano già pieni: non valeva certo la pena di scendere ad Ajaccio +in treno o in macchina. Male, cioè bene: avevo finalmente un buon +momento per godermi qualche giorno di riposo senza dovermi inventare + giustificazioni: la fama dell’isola della bellezza, anche così si chiama la +Corsica, sarebbe stata messa alla prova dai miei sensi tutti in parata; +volevo godermi quei giorni a Calenzana come fossero stati i miei ultimi +tre. Il vento aveva già provveduto a riattizzare i profumi dell’autunno: +ottobre faceva il suo ingresso sontuoso, con i suoi gialli, i suoi rossi, le sue +grandi nuvole barocche, i suoi primi camini accesi, le marmellate di fichi +sul formaggio, subito dopo un buon caffè, naturalmente. La decisione di +fermarmi a Calenzana, d’altronde, era nata con un pretesto ma avevo +anche un altro nuovo motivo, di minor peso certo rispetto a quello che mi +era capitato, ma sempre valido per aspettare a Calenzana. +La sera prima, al mio ritorno alla locanda, l’oste non si era esibito in +smancerie nel vedermi ma un abbozzo di sorriso mi aveva fatto sentire in +qualche modo accolto. Il vantaggio della sua riservatezza si era poi rivelato +ideale per la mia esigenza di ordinare le portate dei pasti alla rovescia: +iniziavo a pensare che quella ritrosia corsa fosse in realtà l’espressione di +un senso di tolleranza comune nell’isola, abituata da secoli a veder +transitare di tutto. Mangiai in silenzio e in disparte; ero troppo stanco per +parlare e il mio silenzio sembrava giustificato dal vociare sguaiato di un +gruppo di italiani che si raccontavano barzellette sconce: mi limitai a +sorridere ogni tanto senza peraltro smettere di masticare. +Quando gli italiani lasciarono il locale, i corsi mi fecero cenno di +andare da loro, facendomi spazio al loro tavolo e aggiungendo una sedia. +Se ne stavano seduti intorno, solidi, agganciati al terreno come ceppi di +alberi non ancora sradicati. Mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza ma +non potevo assolutamente dire di no. +“Si ferma per la festa?” mi domandò uno di loro versandosi della +grappa nella tazzina dove aveva bevuto il caffè. +“Quale festa?” dissi io sentendomi stupido per la domanda. +“Quale festa, quale festa?” ripeté scimmiottandomi quasi: “Ma come?! +C’è una sola festa a Calenzana e lei è qui per caso?” rise di gusto e risero +gli altri. “È la festa della processione della Madonna delle nevi!” aggiunse. +Sorrisi. Ci mancava giusto la processione. “Ah, certo, quella festa,” +risposi fingendo di sapere di cosa stesse parlando, “son qui per quella; ci +vediamo domani.” +Nessuno disse più nulla. Salutai tutti e salii in camera. Trovai ogni cosa +esattamente come quando l’avevo lasciata ma la stanza non era stata + abbandonata durante la mia assenza: qualcuno aveva certamente +innaffiato la piantina, quella nel vaso troppo piccolo, perché il terreno era +scuro e umido mentre tutto nella stanza era secco e impolverato. La +guardai con una certa compassione, avrei voluto liberarla ma come si fa a +liberare una pianta? Una pianta puoi solo ripiantarla: le piante non +camminano, non possono scegliere dove andare, devono adattarsi a +cambiare quello che non va in loro lì dove si trovano, non possono +spostarsi al sole o all’ombra come gli altri esseri viventi. Per loro il +presente non è solo un tempo ma anche un luogo. Io – mi dissi – sono +fortunato a non essere una pianta: posso sempre scegliere di andarmene, +anche se solo dal luogo. Il sonno arrivò presto: s’infilò a letto con me senza +dire niente, ci coprimmo insieme e fummo presto un respiro unico. +Così la mattina mi informai subito leggendo un opuscolo che era a +disposizione nella locanda: la processione della Madonna delle Nevi era +l’evento più importante per quella regione e forse per tutta l’isola. +Sembrava un evento speciale che richiamava non solo turisti, il che mi +sarebbe interessato poco, ma soprattutto gente da tutta la Corsica. Che +fare? Fermarmi o andare a Calvi per imbarcarmi appena possibile? Presi +qualche minuto per riflettere ma non ero sincero con me stesso e finsi di +ragionare scegliendo invece quello che mi sembrava fosse semplicemente +più piacevole. Visto che avevo deciso di redigere una finta relazione per la +Société, tanto valeva procedere senza fretta. Mi sarei preso qualche giorno +in più e sarei rimasto a Calenzana a vedere la processione: l’albergo +comunque era pagato. Malgrado tutta l’acqua che mi era caduta addosso, +le domande nate nel buio di Pietramala sembravano essere appassite: non +capivo nemmeno più perché me le fossi fatte. Non sapevo che quelli erano +i giorni del silenzio dopo la semina, quando fragile il destino delle piante si +attacca alla terra. Lasciai correre i pensieri mentre altrove si preparava la +mia storia nuova. +Fu così che – nell’attesa della processione – mi ritrovai a fare colazione +sui tavolini della locanda, sotto al platano: mi portarono caffè e latte, in +proporzioni decenti, e credetti di non aver più altra preoccupazione che +cercare di capire in quale fase della vita mi trovassi. Intorno a me, gruppi +di operai allestivano le tribune di legno e ferro che avrebbero permesso di +vedere la processione da un punto comodo mentre passava lungo la strada +fino alla chiesa. Dovevo solo trovare qualcosa cui pensare nelle ore che + precedevano l’inizio per evitare di tornare con la testa a Pietramala e +ruminare pensieri acidi. Decidere cosa pensare durante un’attesa non è +mai facile. Il tentativo di ingannare il tempo ricostruendo nella mente le +fasi della mia vita, infatti, era troppo debole e non durò nemmeno lo +spazio di un croissant: fui subito distratto da altro e, per mia fortuna, +l’attesa diventò innocua. +Un gruppo di bambini vocianti la interruppe correndo lungo la strada +con i loro zaini pieni di libri e quelle faccine un po’ stupite, ancora +indecise se la scuola fosse solo una specie di brutto gioco o l’anticipo di ciò +che avrebbero dovuto sopportare dopo per tutta la vita. Ma quell’evento +inaspettato fu provvidenziale per me perché innescò pensieri naturali che +mi tennero la testa ben occupata e soprattutto lontana da Pietramala. +Avvenne che a uno di loro, nella corsa, cadde da uno zaino il sussidiario e +finì in mezzo alla strada: non feci in tempo a richiamarlo, tanto correvano +spediti, e raccolsi il libro per evitare che qualche macchina ci passasse +sopra rovinandolo. Mi rimisi seduto al tavolino e lo sfogliai ma non lo lessi +davvero: davanti ai miei occhi risorsero invece le pagine dei miei libri di +scuola, il loro profumo, la carta, la rilegatura importante. Mi piacevano +tantissimo i libri fin da allora ma non tanto i romanzi; mi piacevano i +manuali, soprattutto quelli dai quali imparavo come funzionava qualcosa: +la radio, i virus, le foglie... Quando ero ragazzino compravo anche di +nascosto i libri degli anni di scuola successivi al mio: per vedere come +sarebbe andata a finire la Storia, per sapere quali imperatori sarebbero +comparsi sulla scena, quali regole misteriose di algebra mi sarebbero state +rivelate – ricordo benissimo come rimasi ammaliato quando scoprii che +avrei usato la lettera “x” al posto di un numero per fare i conti – quali +atomi e quali forme metriche latine e greche avrei saputo riconoscere. +Quelle pagine nuove sotto le dita anticipavano il mio futuro che emanava +dalla struggente fragranza della carta. E non era un amore finto: mi +piaceva davvero studiare. Non dico che mi piacesse essere interrogato o +passare pomeriggi e vacanze a fare i compiti: quelle torture le odiavo e +speravo sempre che un asteroide cadesse nel cortile della scuola per +scamparne una, ma studiare, cioè imparare, scoprire e memorizzare mi +piaceva proprio, anche se non si poteva ammettere con gli amici. Nelle +sere di maggio, quelle tiepide, quando loro giocavano a pallone, io mi +agganciavo alla scrivania e studiavo: studiavo senza sosta. Solo che la + voglia, senza che io me ne accorgessi, dopo qualche anno deviò in una +specie di costrizione crudele autoinflitta. Continuava a interessarmi ciò +che studiavo, ma per apprendere bene, praticamente, mi seviziavo. Per +imparare il paradigma dei verbi greci, per esempio, mi imponevo di +ripeterli per dieci volte ininterrottamente senza errori, come una conta: se +sbagliavo, anche una sola volta, iniziavo tutto da capo. Anche in sogno +ripetevo orao, opsomai, eidon, eoraka, eoramai, opopa, ommai, oida, dieci, +cento volte di fila. Tutto questo non accadde nei primi due anni di scuola, +che passai seguito dai miei genitori, ma quando, dopo la loro morte, fui +preso sotto la protezione della Signora. In effetti, la forma della mia vita è +stata tutta plasmata da lei. +La Signora, al secolo M.me Éloise Rosalind Hausdorff von Koch, era +una nobildonna di origine francese che passava gran parte dell’anno in +Svizzera, in una grande villa liberty sul lago di Ginevra. Nata nel 1914 da +una famiglia poverissima di librai ebrei, aveva ereditato un impero dal +marito, che aveva fatto fortuna dapprima con il commercio del legname +poi con la produzione di carta che riforniva le maggiori case editrici +d’Europa, incluse per ironia proprio quelle bavaresi che pubblicarono il +Mein Kampf. Conobbe i miei genitori, e me, durante il periodo nel quale +vivemmo a Roma. I miei genitori, dei quali parlerò più avanti, erano un +giardiniere e una cuoca, e la Signora li aveva assunti durante l’anno in cui +abitò a Villa Aurelia, una delle più belle del Gianicolo. Dopo la loro morte +improvvisa, l’affetto che aveva sviluppato verso di loro e verso di me si +manifestò con grande generosità: chiese il mio affidamento e mi portò con +sé a Ginevra. Là mi assicurò un’educazione degna di un sovrano: mi +iscrisse alla scuola più cara e selettiva di tutta la Svizzera e mi riempì di +affetto e attenzione, ricambiato da me che la consideravo non una nonna +né una mamma: la consideravo invece un papà. La Signora non mi fece +mai capire quanto fosse ricca né io ero particolarmente interessato a +questo aspetto della vita ma lo scoprii da solo. Certo lei non lo facilitava. +Non sopportava di esibirsi: era così elegante da sfoggiare sul suo collo ben +fatto il nulla. D’altronde, con una bellezza come la sua anche l’invecchiare +diventava un gioiello. Non mi trascurò mai, qualunque fosse il suo +impegno. Per tutti gli anni del collegio, ogni settimana, mi scrisse una +lettera che mi veniva sempre recapitata il venerdì mattina. Quando +d’inverno la scuola si spostava a Gstaad – mi svelò anni dopo – talvolta mi + veniva a vedere di nascosto mentre imparavo a sciare sul campetto privato +ma non volle mai interferire direttamente con la mia vita. Si faceva portare +dall��autista in macchina ai bordi della pista, vicino agli alberi, senza farsi +riconoscere, e con un binocolo – questo me lo rivelò l’autista anni dopo – +guardava come me la cavavo con gli sci; finiva con il tornare a casa con le +lacrime agli occhi e il respiro corto. Non so se per come sciavo male o +perché le spiaceva non essermi venuta incontro. Solo d’estate stavamo un +mese intero insieme: ci si spostava allora sulla Costa Azzurra, dove aveva +un’altra villa, non meno grande, non meno bella a Cap d’Antibes. Non ho +molti ricordi di quei mesi, che senza scuola non mi lasciavano tranquillo. +Ricordo solo che di pomeriggio si riposava in stanze fresche dal soffitto +alto e impreziosito da stucchi chiari dove il sole entrava filtrato da +persiane perennemente socchiuse, per poi poter essere in piena forma alla +sera per le feste danzanti; fumando Muratti in abiti eleganti sulle terrazze +che guardavano il mare, gli ospiti si intrattenevano fino a tardi numerosi, +brindando e giocando a carte intorno a grandi tavoli rotondi, ripartendo +poi quasi all’alba in gruppetti sui loro motoscafi, chiacchierando di cose +inutili. La Signora capiva benissimo che non ero a mio agio ma riteneva +che quel sacrificio sociale fosse parte della mia educazione. L’unico +vantaggio che allora percepivo era che in quelle notti mi era consentito di +andare a letto all’ora che volevo. Dormendo il pomeriggio, ovviamente, +passavo gran parte della notte sveglio; mi rifugiavo sulla torretta della +villa, una specola molto ampia e aggraziata, e osservavo per ore la luna, i +pianeti – Giove soprattutto – e le costellazioni. Erano gli anni nei quali mi +convinsi che avrei lavorato guardando il cielo, ma non lo confessai mai +alla Signora. +Negli ultimi anni, mentre studiavo a Boston, la vista le era calata +tantissimo e le sue lettere si erano inevitabilmente diradate: ma non aveva +mai voluto sostituirle con telefonate. Diceva che le parole, per capirle +davvero, andavano ripronunciate con la propria voce e che quindi si +poteva solo leggerle. Quel misterioso messaggio che mi aveva mandato – a +proposito: l’avevo lasciato nello zaino e non avevo ancora avuto il tempo +di rifletterci – era nella forma proprio uno dei suoi tipici messaggi di quel +periodo: brevissimi e intensi. Tutti molto affettuosi; tranne quello, però. Mi +ricordo quando la salutai alla partenza per l’America, quando le dissi che +sarei stato via per quattro anni. Pianse. “Piangi?” le chiesi stupito e con la + bocca che tremava. “Sì,” mi disse, e poi sorrise, senza però smettere di +piangere, e aggiunse: “Certo che piango; tu parti e sei la mia vita. Ma se io +scoprissi che tu non parti perché piango, allora piangerei di più. Dunque, +parti che è meglio.” Mi raccomandò soprattutto di non investire mai su una +sola cosa: “Non fare mai come la mia amica pianista, che quel mignolo che +le tranciò un mozzo maldestro in barca a vela si portò via tutto il resto del +suo cuore e del suo cervello,” ripeté per l’ennesima volta. “Assaggia di +tutto e rimani libero: chiediti ogni giorno se sei felice e se non lo sei fai +qualcosa per esserlo.” La salutai alla partenza per l’America osando un +abbraccio così forte che le fece scricchiolare le spalle ma fece finta di +niente. Mi incamminai a piedi perché le avevo chiesto di non farmi +accompagnare dall’autista all’aeroporto. Imboccai il viale alberato che +attraversava il parco della villa trascinando una valigia enorme: c’era un +punto esatto, più o meno a metà del viale, dove, per un gioco di correnti +d’aria che non capivo, l’odore dell’asfalto perdeva la battaglia con quello +della resina dei pini che si infittivano vicino alla villa. Mi piaceva ogni +volta lasciarmi alle spalle la strada ed entrare nella villa, sempre luminosa, +sempre calda e ampia. Quel giorno invece imboccai il viale alla rovescia e +fu dall’odore che mi resi conto della fine della mia infanzia: sarei andato a +studiare a Boston. Il mio viatico erano una cultura robusta e ampia e la +morale di una donna del 1914. Per me, nato nel 1982, si trattava di una +prospettiva unica, che avrei dovuto giocarmi bene. +Quel pensiero intenso oscurò bruscamente il caleidoscopio di fantasie +scatenate dal sussidiario che avevo raccolto per terra. Lo riposi sul +tavolino di fronte a me, distesi la fronte liberandola dall’espressione +perplessa e forse buffa con la quale era rimasta corrugata per tutto quel +tempo di memorie, e fu allora come svegliarsi davvero. Il sole si era fatto +intenso anche sotto le frasche del platano e la colazione era ormai un +ricordo, incalzata da un nuovo appetito. Quanto tempo era passato da +quando la mia immaginazione aveva ricostruito quegli anni? Tanto, visto +che le tribune allestite intorno a me erano quasi state completate. Mi resi +conto allora che avrebbero ospitato una folla enorme. Per la processione +della Madonna delle Nevi si aspettava gente da tutti i paesi, forse anche +dal continente. Improvvisamente mi girò forte la testa e dovetti +appoggiarmi a un muro: forse si trattava di uno dei miei attacchi. La mia +malattia, sconosciuta ai più, era subdola e si manifestava quando meno me + lo aspettavo. Se non fosse stato per quella conoscenza del greco antico che +mi ero fatto a scuola, la prima diagnosi mi avrebbe fatto ancora più paura: +“escatofobia”, mi disse scandendo bene il termine lo psichiatra. Ero +escatofobico, avevo cioè il terrore che le cose finissero. Ma non è +semplicemente che avevo paura e basta; è che mi avvelenavo tutto il +presente vedendo sempre la fine in ogni inizio. Così entrando a una festa +mentre mi accoglievano gli amici finivo con essere immediatamente triste +immaginando i saluti di congedo, o quando iniziavano le vacanze venivo +preso da crisi di pianto violente. Perfino il volto dei bambini nel giro di +qualche secondo nella mia mente si trasformava nello stesso volto da +vecchi: affioravano le rughe, si gonfiavano le borse sotto gli occhi, i capelli +si ritraevano dalla fronte assottigliandosi e le guance si afflosciavano +confondendosi con un collo raggrinzito. Nessun libro bello poteva +piacermi, perché sentivo già tra le mani l’ultima pagina, quella girando la +quale saluti l’autore e i personaggi per sempre. Quelle ondate di tristezza +potevano scaturire all’improvviso e disperdevano i miei desideri come il +fumo uno sciame di farfalle. Accettai la diagnosi solo perché dava un senso +alla mia altrimenti inspiegabile esigenza di invertire le portate nei pranzi e +nelle cene esorcizzandone la fine, come se correndole incontro riuscissi a +dominarla: non fosse stato per quell’indizio, l’escatofobia mi sarebbe parsa +semplicemente l’unico modo di capire il tempo e, con esso, la realtà intera. +Evidentemente, l’atmosfera di inizio della festa della Madonna delle Nevi +mi aveva innescato un attacco di escatofobia. Avrei voluto che tutto fosse +già finito; e la voglia era proporzionale alla felicità di trovarmi in una festa +che in qualche modo mi aveva conquistato, anche se non ne avevo +(ancora) motivo. +La gente iniziò ad arrivare a gruppi. Erano festosi, chiassosi, colorati. Si +sedettero sulle tribune mamme, nonne, papà, bambini, tanti bambini, +ragazzi e ragazze e poi ancora turisti da ogni dove. Arrivavano, si +sedevano, guardavano intorno scrutandosi tutti; venivano per vedere ma +anche per esser visti, come sempre. La processione si sarebbe svolta al +tramonto. Tutti erano equipaggiati con maglioni, giubbotti, cappelli, +qualcuno con anche un ombrello; l’aria di ottobre sembrava raffreddarsi +rapidamente. Iniziarono a riempire dapprima le tribune, poi, quando +nessun posto rimase libero, si infilarono anche dietro le transenne del +percorso; in un paio d’ore tutto il viale alberato che portava alla grande + chiesa settecentesca si era popolato di una moltitudine di gente vociante +che parlava di tutto ma che in fondo era solo ansiosa di assistere al grande +evento. L’atmosfera si fece tesa quando il sole, ormai basso, iniziò a +proiettare ombre lunghe, di alberi e di persone. La direzione della +processione avrebbe fatto in modo che il disco del sole si trovasse alle +spalle del corteo esattamente nel momento in cui avrebbe lambito con la +parte inferiore la cresta della montagna. La repentina diminuzione di luce +generò allora uno strano silenzio, come quando si assiste a un’eclissi di +sole e perfino gli uccelli smettono di muoversi. Il sole tocco la montagna e +si udì il primo urlo – lungo, disumano – subito seguito da un secondo, da +un terzo, da molti altri, finché le urla, ritmate, si composero all’unisono. +Dal fondo del viale, una massa scura prese forma: era la testa del corteo +della processione. La gente si fece il segno della croce: molte donne +strinsero nelle loro mani un rosario. Tamburi segnavano il passo, mentre il +corteo si avvicinava: iniziavo a distinguere nettamente le figure. Le +persone nel corteo indossavano un saio nero, con un cappuccio velato, +anch’esso nero, che non lasciava intravedere nulla del viso. Saranno state +almeno una settantina, compatte, procedevano con un passo strano, +innaturale, come interrotto e sospeso proprio nel momento in cui il piede +che avanzava avrebbe dovuto toccare il suolo. Le spalle oscillavano +secondo un ritmo scazonte – sinistra, destra, sinistra, sinistra, destra – e +l’urlo stridente e disumano si ripeteva ogni tre passi. In mezzo al corteo, la +statua bianchissima di una madonna stranamente anziana, appoggiata su +un pianale di legno portato da una dozzina di incappucciati, si ergeva in +una posizione mai vista con le braccia distese lungo il corpo, come se non +potesse o non volesse più toccare nulla. All’improvviso, quando il corteo +ebbe percorso almeno un centinaio di metri acquisendo un ritmo ipnotico +per noi che guardavamo, dagli occhi cavi della madonna sbucarono dei +serpenti che si avvolsero intorno al collo della madonna. Erano molti, +sgorgavano a fiotti, spaventati, e molti finivano con il cadere per terra. Sul +suolo, non resistevano molto: i piedi degli incappucciati li schiacciavano, +lasciando dietro il passaggio sangue e le loro carcasse schiacciate e ancora +frementi. La donna di fianco a me si sentì male. La sostenemmo in due, +cercando di farla sdraiare ma non c’era spazio. Il centro del corteo era +allora esattamente di fronte a me e stava svoltando per entrare nella piazza +della chiesa. Il frastuono provocato dalle urla e ritmato da quello dei + tamburi aveva raggiunto l’intensità massima: i serpenti non uscivano più. +Vennero allora spalancate le grandi porte della chiesa: il corteo entrò in +silenzio e, per quel che riuscii a vedere dalla mia postazione, depositò la +statua nella navata. La folla intonò subito un canto in corso, seguito da un +rosario, recitato in latino. Un quadro enorme, trasportato da un gruppo di +anziani, venne deposto sulla facciata dell’altare: era il ritratto di un Cristo. +Insolito: non aveva i soliti falsi capelli lunghi, li aveva corti, come +raccomandava san Paolo, non era uno di quei Ganimedi figli di madonne +vestite di terital rosa. Era un cristo qualsiasi, dunque un Cristo vero: +robusto, con una corda al collo, ma con l’espressione unica di chi è capace +di affidarsi. Un sospiro profondo che non avevo preventivato chiuse per +me l’evento. Scesi dalla mia postazione della tribuna. +Non mi ero aspettato quell’intensità. Mi pareva di esser stato testimone +di un rito antico, profondamente religioso, sebbene la mia fede fosse ormai +affievolita da tempo in un agnosticismo di comodo. Che dire? Interessante. +Toccante. Misterioso. Tutto vero. Ma cosa cambiava in fondo per me? +Serpenti, urla, incappucciati eppure io mi sentivo sempre fermo nello +stesso punto morto, di fronte alla stessa domanda. Cosa potevo fare della +mia vita? La gente nel frattempo stava scendendo dalle tribune e la strada +si era tutta riempita. Su un lato della piazza, non molto distante da me, gli +incappucciati si radunarono per togliersi il saio e il velo. Ne osservai uno, +che per combinazione mi stava esattamente di fronte, come se lui +osservasse me. Con un gesto fluido, afferrato il cappuccio nero dal basso, +se ne liberò in un sol colpo, mentre, scuotendo la testa, una massa di +capelli dorati e mossi, fino ad allora compressi nel cappuccio, +inaspettatamente si espanse come fosse lo sbuffo di una spuma barocca. Si +accorse che la stavo osservando: mi guardò e sorrise e tenne il sorriso per +un istante in più del dovuto. Sembrò muovere le labbra per dirmi qualcosa +e io sembrai udire quello che diceva. Fu tutto troppo rapido. Tra me e lei si +intromise un gruppo di ragazzi, anch’essi ormai senza cappuccio, che +impedì di vederci: la circondarono, due la presero sottobraccio e ridendo +tutti insieme la portarono via. Non si voltò. Non fosse stato per quella sua +prima occhiata avrei detto che me l’ero inventata. Rientrai nella locanda +con una domanda strana e completamente inattesa: mi chiesi chi mi +avrebbe potuto difendere dalla bellezza di quel volto. + [2.2] Quel sorriso alla processione mi aveva finalmente fatto capire perché +non riuscivo mai a rispondere alla domanda “Sei felice?” Bisogna +incontrare qualcuno felice per accorgersi di non esserlo ed essere disposti +a riconoscerlo. Alla processione, io avevo incontrato una donna felice. Il +problema è che una volta che te ne accorgi cambia tutto: ogni gesto, ogni +abitudine, ogni scelta non sono più neutre, si misurano rispetto a quello +che ci si rende conto che si può desiderare. +Mi accorsi così che tutto era cambiato per me. La giornata aveva fatto +sparire tutto ciò che nei giorni precedenti aveva turbato la mia vita. Era +sparita la traversata da Genova, l’incubo del percorso tra le montagne, +tutta l’acqua che mi era caduta addosso, i fulmini e i tuoni; erano spariti a +poco a poco i viottoli, le case e la piazzetta di Pietramala, era sparito lo +spavento di non aver trovato nessuno, erano sparite le lapidi e le date, +l’arco, ed era sparita, alla fine, anche la lingua sparita. Non sapevo più se +l’esperienza della processione era stata la causa di quel cambiamento o se +io stesso mi ero lasciato azzerare la mente da quell’evento per paura di +riconoscere che quello che avevo vissuto a Pietramala modificava tutto +nella mia vita. Mi resi definitivamente conto che qualcosa era cambiato +dopo la processione al risveglio la mattina dopo, passata una notte rapida +come nei sogni. Ignorai completamente i fogli con i paradigmi che avevo +iniziato ad abbozzare per la mia relazione finale. Frugai bene nello zaino +per vedere se avevo ancora una maglietta pulita e scesi a far colazione. +L’oste mi servì senza che glielo chiedessi il caffè in una tazza grande +con il latte e dei croissant in un cestino inaspettatamente ingentilito da +una fodera a quadretti rossi e bianchi impossibili però da contare, ripiegati +com’erano su se stessi: forse – mi dissi – la mia presenza alla processione +l’aveva reso meno diffidente. Dovette intuire qualcosa del mio pensiero +perché prese la sedia e si sedette anche lui. +“Non parte più, signor Rameau?” chiese con l’aria di chi deve averne +visti di turisti fermarsi oltre il limite previsto. +“Sì, certo: devo finire di scrivere la relazione e tra un paio di giorni +ritorno a Genova,” risposi mentre osservavo i cubetti di zucchero +risucchiare il caffè per poi sparire a loro volta risucchiati dal liquido scuro. +“Non le piace Calenzana?” +“Certo, è un paese molto interessante,” risposi pentendomi subito della +banalità della mia frase; aggiunsi altre sciocchezze che non vale la pena + riportare. Quanto tempo riuscii a resistere in quella conversazione, +tergiversando senza arrivare al dunque, sorprese anche me. Ancora un +sospiro generico, uno stupido commento sul tempo e poi, finalmente, +cercando di controllare il tono della voce: “Lei conosce tutti quelli che ieri +sono sfilati in processione incappucciati?” osai chiedergli con aria +disinteressata, come se avessi chiesto informazioni sui tipi di miele che si +producevano in Balagna. +“Certo, tutti,” rispose con un fare a mezzo tra il sorpreso e lo scocciato, +“siamo un paese piccolo e tutti qui conoscono tutti. Perché vuole saperlo?” +“Le dico la verità,” risposi vergognandomi di scomodare un concetto +così alto per un fine così personale, “mi è parso di riconoscere una +ragazza: bionda, bel sorriso, spalle larghe,” accompagnai la descrizione con +un gesto eloquente delle mani; l’oste si accorse allora che la mia mano +sinistra aveva sei dita. +Attratto da quel particolare, lasciò passare qualche secondo e poi, quasi +come per scusarsi per l’attenzione verso quello che pensava io +considerassi un difetto, rispose senza opporre neppure l’ombra dell’ironia: +“Ah, certo, Clara Maria, la figlia del panettiere: bellissima, vero?” +“Bellissima,” chiusi io il discorso, abbassando gli occhi e immergendo +rapidamente il secondo croissant nel caffè. Non credette nemmeno per un +istante alla mia noncuranza – l’oste intendo; aveva capito immediatamente +chi mi aveva colpito e perché e anche che mi sarebbe piaciuto rivederla. È +evidente che una tal bellezza non era mai sfuggita a nessuno, figuriamoci +se poteva sfuggire a questo turista (io) che viaggiava solo, apparentemente +trattenuto a Calenzana da nessun altro motivo se non quello di perder +tempo. +Si alzò, non senza prima aver sbirciato ancora di nascosto la mia mano +sinistra, e agitò lo strofinaccio da cucina che reggeva come un +moschettiere il suo cappello piumato per congedarsi alla fine di un +incontro. Si guardò intorno come per sincerarsi di non esser visto, poi tese +il braccio e indicò preciso un punto del paese non troppo distante: “La +panetteria,” disse, “quella in fondo alla via, sulla sinistra per chi va verso +Calvi; la si vede anche da qua,” aggiunse lasciando intendere il resto e se +ne andò. L’imbarazzo paga, evidentemente. +Decisi di andare subito alla panetteria: fui lì in tre minuti. La porta a +vetri era aperta e dall’interno arrivava un profumo caldo di focaccia e di + pulito. Scostai la tendina ed entrai; la ragazza era di spalle, intenta a +sistemare del pane nelle grandi ceste. +“Un momento, prego,” disse con una voce inaspettatamente pastosa e +bassa, che non corrispondeva all’immagine che ricordavo. “Desidera?” mi +disse girandosi e nel girarsi mi sorrise. Non risposi. L’atmosfera sospesa, la +interruppe subito lei: “Non era mai stato alla processione, vero? Le ha fatto +impressione vedere i serpenti?” +“Un pezzo di focaccia,” balbettai allora con la pertinenza di uno che +stringe la mano al prete che gli porge l’ostia. +Lei sorrise ancora e continuò: “Le va bene questo?” indicò un quadrato +perfetto di focaccia ligure, dove i buchi chiari della pasta luccicanti per +l’olio trapuntavano la superficie dell’impasto reso croccante dalla cottura. +“Sì, certo, benissimo.” +Non posso annoiarvi con quella settimana che passai a volteggiare in +cerchi concentrici sempre più serrati per arrivare a conoscere Clara Maria. +Nessuna Pietramala poteva più interessarmi. Storia chiusa: un’inutile +perdita di tempo confluita nella più serendipica delle storie. Finimmo, anzi +iniziammo, con il cenare insieme una sera e la nostra attrazione reciproca +fu subito così evidente che ci sembrò naturale continuare a frequentarci; +per lei, nascosi anche l’inversione dell’ordine delle porzioni con il trucco – +in realtà, forse, non avevo ancora completamente ceduto – di ordinare per +me un solo piatto. Non parlavamo tanto: in compenso, ci guardavamo +molto. Le osservavo il vestito leggero e colorato, mi colpiva che non +indossasse pantaloni, ma ero più sorpreso dallo strano disegno che aveva +stampato sul tessuto. Lei non disse una parola sul mio sesto dito. Io invece +rimanevo incantato a guardarle i denti, pecorelle bianche perfettamente +accoppiate, e quelle labbra così morbide che quando la forchetta usciva +dalla bocca potevi vedervi impressi per un istante i segni della pressione +dei rebbi. Non che capissi benissimo cosa mi stesse succedendo. Non mi +ero mai innamorato e mi chiesi se anche questo sentimento si individuasse +solo se visto in un altro. Ma non caddi nella tentazione di svaporare il mio +entusiasmo con le elucubrazioni: ora che l’avevo intuito mi volevo lasciare +andare. Alla Société sarei comunque tornato tra qualche giorno e avrei +preso qualche decisione sensata. Per ora Clara Maria mi aveva +completamente incantato. Di Pietramala e della sua sollecitazione non era +rimasto più nulla. Almeno, era quello che credevo. + Anche la preoccupazione incombente che questa storia dovesse finire +come tutto finisce, per un istante, in me si attenuò. Insomma: +quell’incontro aveva davvero cambiato le carte in tavola; per la prima +volta non sentivo solo la mia voce e non mi interessavano solo codici da +decifrare. Non era altruismo – non sono un altruista e non lo diventerò +mai – né era capacità di mettere qualcuno davanti di me in ordine +prioritario: no, Clara Maria aveva semmai rimesso proprio me al centro +della mia vita. Non come soluzione, certo, ma come punto di partenza. Mi +aveva sturato l’anima: iniziavo a riconoscere i sentimenti come gli odori +dopo un brutto raffreddore: non sapevo bene cosa annusare ma sapevo che +ero in grado di farlo. Non potevo permettermi di perderla, almeno non +subito. Dovevo cercare un modo per tenerla ancora un po’ con me. +Parlammo a lungo di noi, le raccontai della mia infanzia, della Signora, +della scuola, ma in realtà non mi aprii tanto; neppure lei mi sembrava +disposta a scoprirsi: decantò l’acqua delle spiagge della Corsica e i giorni +della scuola quando ogni giorno andava in bicicletta a Calvi. In realtà la +stavo sondando, cercando di capire quale rappresentazione di me l’avrebbe +attratta. Immaginavo che il corteggiamento consistesse essenzialmente in +questo: rispondere alle aspettative dell’altro, celando i tratti che potessero +risultare fastidiosi se non addirittura insopportabili. Ingenuo: arrivai +invece rapidamente alla conclusione che avevo un’unica carta da giocare +con lei: l’ironia, il solo tratto della mia personalità che mi pareva di poter +gestire senza sforzo e che – notavo – piaceva molto agli altri. Avrei anche +potuto cucinare ma è scomodo andare in Vespa con le pentole; ne avevo +infatti affittata una da un ragazzo di Calenzana per muovermi +comodamente in paese e nei dintorni. Era una Vespa molto ben tenuta, che +però aveva su un lato dipinta una donna nuda sicché quando andavo a +prendere Clara Maria per evitare commenti dei clienti della locanda mi +toccava fare un giro innaturale per arrivare davanti al suo negozio +presentando la fiancata destra della Vespa, quella senza la donna. +Non era facile per me iniziare a parlarle quando la incontravo. La prima +volta, per rompere il ghiaccio, ricordo che le raccontai la storia del +bruttissimo anatroccolo, quello che alla fine della storia essendo stato +buono si riscattò agli occhi di tutti diventando finalmente solo brutto. Rise. +Risi. Ridere, infatti, fa ridere: il corpo sussulta; non si riesce a trattenere +bene l’aria nella bocca e sbuffi senza senso escono a ritmi rapidi e, talvolta, + sincopati. Andò così per giorni; a ridere, intendo. Non so bene se io non +mi trattenessi più dal cercare di farla ridere perché non ero sicuro che +fosse pronta a prendermi sul serio o se non volessi affatto essere convinto +che fosse pronta. Non stetti bene quando me ne accorsi: avevo +chiaramente un attacco di escatofobia. Quel legame così bello lo vedevo +già finire e dunque cercavo di prolungarne l’inizio o meglio, mi trattenevo +ancora al di qua dell’inizio, in modo da non dover pensare alla fine. +All’improvviso, mentre stavo guidando, le dissi urlando contro il vento: +“La sai la differenza tra una patata e un pomodoro?” +“No,” rispose con la grazia di chi vuol fare un favore a un bambino +scemo, “non ne ho idea.” +“Sono rossi tutti e due tranne la patata,” risposi deciso. Fu quello il +confine: lei non sussultò per niente, non le venne fuori aria da nessuna +parte, mentre io caddi dalla sella della Vespa dal ridere. Qualcosa non +aveva funzionato: le barzellette che si basano sulla logica facevano ridere +solo me e un paio di altre persone al mondo. +“Vuoi una mora?” mi chiese lei allora subito offrendomene una. +“No grazie, non riesco a mangiare niente che faccia venire la lingua +nera.” +“Ti capisco,” rispose stenograficamente, “in fondo oggi è giovedì.” Rise. +Lei. Io no; mi accorsi allora che voleva farmi capire qualcosa. +Le giornate passavano liete e se non fosse che una frase che inizia in +questo modo starebbe bene in un tipo di storia diversa da questa direi che +era vero. Praticamente giocavamo. Facevamo l’elenco delle cose che ci +piacevano e non ci piacevano. Io odio: le giacche, gli aperitivi e gli auguri. +Preferisco vacanze bruttissime e una vita lavorativa meravigliosa che +viceversa. Lei odia: gli auguri e gli aperitivi – meno male – ma anche i +divani rigidi, i giornalisti che non sanno parlare e la gente che mangia il +pollo sul treno. Io ero nato nella settimana statisticamente più calda +dell’anno, l’ultima di luglio: quel giorno faceva più fresco dentro mia +madre che fuori, al contrario di lei che nacque a metà gennaio e l’acqua si +era ghiacciata nei tubi sicché dovettero lavarla con della vodka. +Cambiammo discorso. Mi chiese come facessi a campare e la sua domanda +mi turbò. Non volevo nemmeno per un istante che il ricordo di Pietramala +inquinasse quei momenti: non sapevo cosa dire, cosa fare, forse nemmeno +cosa pensare. Ebbi una reazione brusca, impulsiva, e chiusi il discorso con + qualche battuta nemmeno troppo riuscita. Dovetti accompagnarla a casa. +Avevo esagerato ma ero veramente preso tra due fuochi: o la smettevo o +iniziavo a mettermi in gioco sul serio, ed allora la paura che tutto finisse +mi avrebbe spinto a far finire tutto. Peccato; volevo ancora passarle una +meravigliosa dimostrazione sulla necessità di essere golosi che mi aveva +passato a sua volta un mio amico prete e matematico. Sosteneva che il più +grave dei sette peccati capitali, la superbia, fosse implicito nella +convinzione di non avere peccati e che dunque almeno uno bisognava +pensare di averlo commesso: siccome in una tradizione gemmata da +Evagrio Pontico la gola risultava il meno grave, la somma delle due +considerazioni rendeva raccomandabile una certa dose di pulsione +eccessiva per il cibo come via per la santità. Pazienza; che peccassi in quel +senso era evidente già allora e lo sarebbe stato ancora di più con gli anni. +Riavviai la Vespa dopo aver salutato Clara Maria e tornai alla locanda. +Eravamo chiaramente tutti e due intrappolati. Non sapevamo più cosa +dirci che non fosse potenzialmente pericoloso ma sapevamo che non +volevamo smettere di parlarci. Io volevo tutto: volevo lei, volevo +riappropriarmi della mia vita, volevo superare gli attacchi di escatofobia. +Avevo sete e fame, ma volevo bere e mangiare contemporaneamente. Era +come quando da piccolo volevo disegnare una pesca che si vedesse da tutti +i lati. Mi insegnarono che è impossibile: la realtà va incanalata attraverso +restringimenti, che in qualche caso chiamiamo scelte, ma che sono +indispensabili per generare significati. D’altronde, una clessidra che non si +restringa non serve a niente. +[2.3] Il giorno successivo decisi di portarla a fare una gita. L’avevo +avvisata e le chiesi di prepararsi. Con la Vespa non saremmo andati +lontano ma, approfittando della giornata mite, malgrado fossimo ormai a +metà ottobre, sarei voluto comunque arrivare su un prato fuori paese che +avevo visto pochi giorni prima; una specie di balcone digradante sulla +Balagna, ampio e riparato al contempo. Era infatti protetto dal lato della +montagna da un bosco di ulivi fitto che tratteneva il vento che in quelle +zone poteva soffiare forte. Stendemmo il telo sul prato e ci sedemmo a +parlare; il tramonto non era ancora iniziato. Mentre guidavo mi sorpresi a +pensare a come era bella e cercavo le parole per dirglielo. Volevo far colpo + dicendo che era bella come qualcos’altro di bello ma non trovavo niente +che reggesse il paragone. Mi convinsi che la cosa più bella per un essere +umano è un corpo umano bello e che di fronte a ciò non potevo +aggiungere niente. Mentre pensavo a queste cose cercai di vedere se +riuscivo a ricostruire nei dettagli il suo volto nella mia mente. Da tempo +sapevo che più una persona ti è cara meno ne ricordi il volto; ti sembra di +averlo presente, perché compare nel suo insieme, ma se cerchi di +visualizzare i particolari nell’immagine che ti si forma nella testa non ci +riesci. Provai, infatti, ma non fui in grado di evocarli; ne ricordavo bene +solo il profumo. La trovai sulla soglia del negozio, pronta, in piedi, +sorridente, con le braccia unite sul davanti per reggere la borsa, e un paio +di scarpe buffe di tela rossa; i capelli dentro un foulard che nemmeno la +Signora avrebbe portato. Mi sembrò allora di vivere un fenomeno curioso, +rovesciato rispetto a quello che provai il primo giorno nel quale la vidi: +capii che la felicità può essere solo una questione personale, che non si +può cioè capire direttamente quanto l’altro è felice, ma mi resi anche conto +che se la mia felicità cresce vedendo un’altra persona, allora per forza il +rapporto sta volgendo al meglio e anche l’altra persona è più felice. Avrei +capito solo da vecchio che quei due sentimenti – l’impossibilità di +accorgersi infelici da soli e la possibilità di misurare la felicità altrui come +riflesso sulla propria – erano la stessa cosa. In ogni caso ero felice. +Clara Maria voleva conoscermi davvero: voleva che le spiegassi cosa +studiavo ma mi pregò di non fare battute. Aveva capito benissimo per cosa +le usavo. +“Cosa hai studiato?” mi chiese direttamente. “Intendo dire: che studi +hai fatto, Elia?” +Mi sorprese quella domanda; veniva da ore di ascolto, non era casuale, +perché era un invito a espormi. “Ho studiato il linguaggio umano: sono un +linguista.” +“Chissà quante lingue parli!” +“Pochissime: francese, inglese, tedesco, italiano; so leggere il greco +antico e il latino e parlo il dialetto di mia madre che veniva dall’Italia del +Nord.” +“Credevo che chi studia il linguaggio parlasse tantissime lingue.” +“Invece no,” ero innervosito e se ne accorse dal tono, “chiedere a un +linguista se parla tante lingue è come aspettarsi che un medico abbia fatto + tante malattie,” cercai di rimediare con una battuta, ma fu peggio. +“Capito. Allora cosa sai delle lingue?” chiese lei cambiando il tema della +domanda. Già: cosa sapevo delle lingue e come dirglielo. +Passarono dei momenti lunghi: c’erano dei panini che aveva preparato +lei e delle focacce, che per fortuna non imponevano alcun ordine. “Lo sai +quanto cielo c’è nelle parole?” Le chiesi sperando di stupirla con qualche +etimologia da rotocalco, e in effetti mi guardò strano. Proseguii: “Prendi +disastro e desiderio, per esempio: sono due parole che usiamo spesso; due +parole diversissime che stimolano immagini completamente differenti. +Eppure tutte e due sono costruite con due parole che fanno riferimento al +cielo: un disastro è una cosa cattiva, nata avendo un astro, appunto, +contrario. Un desiderio, invece, ha dentro il cielo tutto intero: siderum, in +latino. Desiderare può voler dire fissare lo sguardo verso le stelle, e per +questo esser mossi a un destino voluto, oppure togliere lo sguardo da esse +per sfiducia in quello che abbiamo e dunque perché vogliamo +qualcos’altro. Ma in ogni caso, sempre di cielo si tratta. Sempre +dell’influenza del cielo. Anzi, anche l’influenza – sì quella di quando ci +ammaliamo – è una forma breve per parlare dell’influenza negativa di un +astro.” Ci fu un momento di silenzio. Provavo imbarazzo per come mi +aveva ascoltato. Mi affrettai a smorzare le aspettative. “Sai,” le dissi, +“queste cose per me sono noiosissime; me ne sono preparate solo una +manciata che esibisco al momento giusto per fare bella figura alle cene. +Per il resto io invece sono appassionato della matematica che sta dentro +nella lingua, nelle sue regole complicatissime.” Anche allora mi aveva +ascoltato. +Il tramonto stava iniziando in quel momento. “Dai, Clara Maria, +scherzavo, non mi interessa nessuna lingua specifica: mi interessa il codice +che sta dietro a tutte loro e il modo nel quale viene espresso dal nostro +cervello. Ma ti rendi conto? Ti sei mai fermata a pensare a cosa vuol dire +parlare? Quale incantatore avrebbe potuto inventare un gioco di prestigio +più sconcertante? Noi, muovendo in modo coordinato dei pezzi del corpo +– polmoni, gola, labbra, lingua – moduliamo vibrazioni di aria e con questi +gesti riusciamo a suscitare nella mente di coloro ai quali quell’aria +modulata va addosso delle emozioni, dei ragionamenti, delle immagini del +mondo che non è lì e che prima erano dentro a noi!” Avevo preso una bella + rincorsa. Detta così, mi emozionai pure io: bisognava stare attenti che non +ci si commuovesse tutti e due; non avrei saputo come gestire la situazione. +Si era fatta sera, la luce che rimaneva era solo il riflesso del sole sulle +nuvole ormai sceso sotto l’orizzonte. Ci eravamo messi dei maglioni: il +mio, un po’ stretto, era quello di suo fratello, a collo alto e a maglie grosse +blu e bianche, il suo, invece, tutto bianco e spumoso che sembrava fatto di +vapore, solo poco scollato. Ci eravamo seduti al centro del grande telo sul +quale avevamo passato quelle ore. Il vento era ormai più che fresco e ci +abbracciammo. Si vedeva da lontano la luce di Calvi. Mi chiesi davvero se +la bellezza non esistesse. Non sapevo più molto, ma sapevo che stringere +Clara Maria tra le mie braccia mi aveva cambiato completamente: avrei +dovuto ripianificare tutta la vita, decidere come fare per vivere vicini – se +cercare di portare lei a Parigi o me qui – e cosa fare per vivere; avrei +voluto poter contare sui consigli della Signora ma non ero sicuro che +avesse la forza d’animo per capire dove fossi io. Stava finendo quel +momento nel quale la mia vita da potenza diventava atto. Stavo perdendo +la mia staminalità. Ma non sapevo bene chi o che cosa togliere dalla mia +vita per far emergere la forma della mia anima definitiva. Certamente, +relegata l’esperienza travolgente di Pietramala ai ricordi o forse ai +rimpianti avevo almeno iniziato a godere di fatti reali: niente mi +interessava se non l’adesso, un istante del tempo che forse scoprivo solo +allora. +Esattamente quando pensai la parola “istante”, iniziò il canto di Clara +Maria. Si era messa come in ginocchio sul telo, con le mani appoggiate +sulle cosce. Iniziò come iniziano tanti canti: prima a bocca chiusa – il +timbro pieno e maturo della sua voce si formò su note basse – poi, +aprendola e controllando la forma delle labbra, faceva uscire il canto +sicuro modulandolo su note più alte; mi sembrò come un prolungamento +naturale dei miei pensieri o forse dei desideri; ero così preso dal canto che +quasi ebbi l’impressione che stessi cantando io. Poi uscirono le prime +parole. La sequenza di note travestite di senso mi sciolse ogni resistenza +residua in modo naturale. Fui immediatamente prelevato nei movimenti +tonali della sua voce, risucchiato a velocità vertiginosa dentro un cammino +sicuro e tortuoso di parole e note ma quanto più venivo trasportato nel +testo e nella musica tanto più mi rendevo conto di un fatto completamente + inaspettato: ogni singola parola di quel canto mi era comprensibile ma la +sequenza di parole prese in quell’ordine non aveva alcun senso. +Mi raggelai, mi si spezzò la lingua in bocca, il sangue sembrò +evaporare, sentii un ronzio nelle orecchie e divenni più pallido di erba +strappata. In modo scomposto, cercai di trattenere in me ogni sentimento +centrifugo, come si fa quando all’improvviso scappano tutti gli animali da +un recinto dopo un tuono ravvicinato; la mia mente corse ovunque per +cercare un appiglio che mi difendesse da quella corrente travolgente, per +non farmi strappare da quella gioia che avevo provato e che ora sentivo +che mi veniva portata via. Il canto, inesorabilmente, continuò e l’assenza +di significato in quella sequenza non poté non risuonare con quello di +un’altra assenza che non avrei voluto più ricordare. Clara Maria terminò +con una nota a bocca socchiusa e con un lievissimo sospiro in levare, +chiudendo gli occhi, come se con quel filo d’aria stesse chiedendo e +aspettando un giudizio. Mi guardò fissa negli occhi. Rimasi immobile, nel +corpo e nel volto: temevo che il battito del mio cuore fosse troppo forte e +arrivasse a infrangere quel miracolo di musica. Non ci fu nulla da fare: +l’incanto di quel momento fu scalzato dalla mia memoria – non sempre +fedele guardiana del cervello – che sciolse ogni barriera e mi fece +riaffiorare vivido alla mente quello che non avevo visto a Pietramala o +forse quello che non volevo vedere nella mia vita. Clara Maria aveva +cantato in una lingua senza significato e così mi aveva riaperto gli occhi. +[2.4] La mattina dopo quella notte di magia e di paura, il mio primo +pensiero fu cosa dire a Clara Maria. Mi sentivo come quando ascolto +qualcuno che parla senza finire le. Ti lasciano la responsabilità di scegliere +tra le quasi infinite strade che ogni parola apre dopo di sé, obbligandoti +oltretutto a concepire il “quasi infinito”, entità immorale quanto inutile. E +naturalmente non sopporto di far provare agli altri la stessa irritantissima +sete. Dovevo dunque una spiegazione a Clara Maria. La sera precedente +non poté capire cosa mi avesse preso dopo aver sentito il suo canto. +Riconobbi che il suo silenzio mentre la accompagnavo a casa in Vespa fu +un regalo immeritato, sempre che non fosse dovuto allo spavento che le +avevo involontariamente provocato. Da dove avrei potuto iniziare? +Avrebbe capito quello che avevo provato? Quale sortilegio poteva aver + messo un canto in opposizione tra me e lei? Non c’è veramente limite alla +distanza dalla quale un evento può causarne un altro. +Quel giorno ero in ritardo. La trovai ad aspettarmi, come se nulla fosse +successo, sorridente davanti alla porta della panetteria. Si sistemò sulla +sella, ma io non partii immaginandomi che dovesse dirmi qualcosa. Non +disse nulla di particolare, invece, solo: “Andiamo?” Mi scusai del ritardo, +scandendo le parole a voce molto alta per vincere il rumore del motore e +del vento, ma mi accorsi subito dopo che l’ora così vicina al tramonto non +era affatto un danno. Una luce obliqua e densa disegnava le ombre degli +alberi sulla strada dando al viale che portava alla locanda un non so che di +solenne e, al contempo, di accogliente. Perfino il cimiterino all’angolo +pareva ora ospitare solo anime nobili. Mi convinsi che in collina, d’estate, +verso sera, anche i morti possono sembrare soddisfatti. Sorrisi. +Andammo sulla spiaggia di Calvi a parlare, in mezzo all’emiciclo di +sabbia, proprio di fronte al promontorio della città vecchia a forma di +veliero: lo scenario lasciava senza fiato ma il fiato, io, quella sera, non ce +l’avevo comunque. Seduti accanto all’acqua limpida che profumava di +acqua limpida, iniziai a parlare, assecondando una sua richiesta che non +ebbe bisogno di esprimere a parole, tanto era dovuta. Le spiegai cosa ero +venuto a fare in Corsica, dell’incarico della Société, dell’Area 44, del +percorso di tregenda fino a Pietramala e di tutto quello che (non) vi avevo +trovato. Le raccontai tutto come l’ho raccontato qui fermandomi alla +mattina del giorno della processione perché da lì in poi era solo cosa mia. +Il silenzio che seguì a quelle parole sembrò invertire i ruoli: ora era Clara +Maria a essere impallidita. Clara Maria prese le mie mani tra le sue, con le +labbra che le tremavano accostò la bocca al mio orecchio e sussurrò, come +a voler contenere la mia possibile reazione negativa: “Quel canto l’ho +imparato da mia nonna, Elia; era un canto di famiglia tramandato da +donna a donna. La prima veniva,” mi guardò negli occhi e fece una pausa +che durò più di quanto resse il suo sguardo, “veniva da Pietramala.” +Non ho mai creduto nei destini pilotati dalle stelle, ma quella +coincidenza mi spiazzò: avevo cercato di dimenticare Pietramala, di dare +una svolta alla mia vita aprendomi per la prima volta seriamente a una +donna che mi piaceva, avevo deciso di chiudere con la mia vita precedente +e ora proprio lei la riportava indietro senza possibilità di difesa. Che fare? +In questa partita la prossima mossa la fece ancora lei, senza volerlo, + quando, girando il volto dall’altra parte, come per nascondere disgusto, +aggiunse con voce irritata, quasi sibilando: “Perché in così tanti sono +interessati a Pietramala?” +In così tanti: questa espressione non mi tornava. “Cosa vuoi dire, Clara +Maria? Io sono interessato per conto della Société ma per la Société non si +tratta di un caso affatto speciale, anzi l’hanno lasciato a me proprio come +ultimo perché non interessava a nessuno.” +“Ah sì?” si girò di scatto verso di me con un tono teso, come se l’avessi +presa in giro. “E quell’altro, allora, che mi continuava a far domande su +Pietramala, dopo avermi assunto con la scusa di far la cuoca da lui?” +“Aspetta un momento, Clara Maria: di cosa parli? Chi è quell’altro?” +Si irrigidì, poi sospirò e come rassegnata, stringendo le mie mani tra le +sue, iniziò il racconto. +Seppi che, un anno prima, era venuto a vivere a Calvi, in una grande +villa isolata sul promontorio occidentale della baia, vicino alla chiesa della +Madonna della Serra, un professore americano, tale Ismael Shannon. +Shannon entrò in contatto con il presidente del consiglio comunale di +Calenzana chiedendo notizie su Pietramala. Il presidente, stupito di +quell’interesse per un paese che gli risultava disabitato, gli diede qualche +indicazione. Non del tutto soddisfatto di quelle risposte, il professor +Shannon domandò al prete della diocesi della Balagna incaricato di tenere +i registri battesimali se potesse consultarli. Alla fine, dopo qualche +settimana di ricerca, era riuscito a risalire a Clara Maria come pronipote di +una donna che era vissuta a Pietramala. L’aveva convocata, senza dirle +ovviamente nulla del vero motivo, e le aveva chiesto se sarebbe stata +disponibile a dargli una mano per le faccende di casa. Visto che Clara +Maria non aveva accettato, le chiese almeno se sarebbe voluta passare da +lui due volte alla settimana per portare pane fresco e cucinare qualcosa. +Clara Maria, senza molta convinzione e guidata solo dal bisogno di +guadagnare qualcosa di più, accettò e per circa dieci mesi frequentò la casa +di Shannon. Dapprima tutto sembrò normale: portava il pane, cucinava e +poi tornava indietro; in macchina, d’altronde, si trattava di circa +mezz’oretta, soprattutto se si riusciva a evitare il traffico degli arrivi dei +traghetti a Calvi. Dopo qualche mese lui iniziò a parlarle di Pietramala e, +cogliendo la sorpresa e l’entusiasmo di Clara Maria nel vederlo interessato +al paese d’origine della parte materna della sua famiglia, diventò sempre + più insistente nel farle raccontare tutto ciò che lei ricordava. Ma non ne +cavò molto: lei gli parlò dell’unica cosa che ricordasse, dello stesso canto +che aveva sentito proprio Elia la sera prima. +Se i silenzi potessero essere messi in graduatoria, il silenzio che seguì le +parole di Clara Maria fu il silenzio più silenzioso che avessi mai +sperimentato nella vita. Capivo che la Société potesse essere interessata a +una ricerca sulla lingua di Pietramala per via del completamento del +grande atlante delle lingue d’Europa e che l’Area 44 fosse l’ultimo tassello, +ma perché qualcun altro dovesse provare interesse per quell’area mi +sfuggiva; forse un antropologo? C’erano altri atlanti linguistici in +competizione? Chi era esattamente Ismael Shannon? Cosa voleva sapere +rispetto alla lingua di Pietramala e, soprattutto, cosa sapeva lui? Dovevo in +qualche modo entrare in contatto con quel professore; nemmeno mi sfiorò +l’idea di buttarmi tutto alle spalle e di concludere lì la vicenda con una +pizza. +Dovetti aver pensato a voce alta, perché Clara Maria, tenendo gli occhi +bassi come nella speranza che io non sentissi, aggiunse quasi sussurrando: +“Sì, ho ancora le chiavi.” +“Scherzi?” dissi io stringendole troppo forte le mani che erano unite +alle mie. +“No, non scherzo, Elia,” disse sfilandosi dalla mia presa con una la voce +che mostrava dolore, “non sono riuscita a restituirle, anzi sono ancora qui +nel mazzo di tutte le chiavi che simpaticamente mi porto in giro in +alternativa al cilicio,” proseguì secca, facendomi notare che ormai aveva +imparato i trucchi dell’ironia. “È partito all’improvviso per New York e mi +ha lasciato detto che non gli importava delle chiavi, che la villa per molto +tempo non sarebbe stata abitata e che ce n’erano comunque altre copie +presso l’agenzia che gliel’aveva affittata. Avrei potuto buttarle.” +Ci sono casi nei quali il tacito rapporto di regole tra parlanti, con il loro +simmetrico rimpallo di domande e risposte, diventa perfettamente inutile. +Questo era uno di quelli. “Dimmi solo dove,” dissi io. +“Usciamo da Calvi, vai come per andare alla chiesa della Madonna della +Serra, poi ti guido io: attenzione perché la strada è sterrata.” +Fummo presto dall’altra parte del crinale, dove il tramonto dura di più +che lungo la baia, che è protetta da un’altura arida e rocciosa che al +mattino per prima prende il vento di maestrale e per ultima saluta il sole + alla sera. La Vespa si inerpicò sicura sulle strade asfaltate e ripide che +portavano alla chiesa, poi, d’un tratto il braccio sinistro di Clara Maria si +protese in avanti e col dito indicò una deviazione sterrata, con un cartello +piccolo e seminascosto che recava una scritta bilingue “Ermitage de Zafer +– YAVNE Foundation”. Presi quella stradina, superammo dei massi enormi e +rocciosi, sui quali la luce del tramonto sembrava disegnare dei volti, e +dopo pochissimo ci trovammo di fronte a una villa moderna, di un solo +piano, molto estesa, dalle pareti di pietra chiara e porosa che si +mimetizzavano con il colore del promontorio sul quale sorgeva, ben +tenuta, contornata da vasche di piante rigogliose e curate che parevano +innaffiate di recente. Ci fermammo. Nessun rumore proveniva dall’interno +o dall’intorno. Nessuna luce accesa, anche se il sole aveva ormai iniziato +l’immersione notturna. +“Vieni, proviamo a bussare,” dissi io senza farmi attendere. Niente. Si +sentiva il campanello suonare all’interno, segno che la corrente era +attaccata, ma nessuno rispondeva. Provammo a girare intorno alla villa, +non senza timore di trovare qualche cane a guardia del fabbricato. Niente. +Ci guardammo negli occhi. Corremmo alla porta d’ingresso; non c’era +tempo da perdere. Con esitazione, Clara Maria infilò la chiave nella +serratura e vide che girava. La estrasse immediatamente. +“Che fai? Rinunciamo proprio ora?” la ripresi io. +“Ma figurati, è che devo essere sicura di ricordarmi il codice +dell’allarme, nella speranza che non sia cambiato. Tu tieniti pronto a +riprendere la Vespa, se si attivasse la sirena, e ripartire al volo: la +Gendarmeria sarebbe qua in pochissimi minuti, c’è una pattuglia fissa alla +Madonna della Serra.” Andai alla Vespa per metterla in posizione giusta e +accenderla in caso di necessità di fuga rapida. Clara Maria attese un +secondo, ripetendo a labbra socchiuse le cifre che, appena aperta la porta, +avrebbe dovuto comporre sull’apparecchio dell’allarme. Quando le sembrò +che i numeri fossero quelli giusti, infilò la chiave nella toppa, la girò. La +porta si aprì senza cigolare. In un secondo fu dentro e digitò: 1, 7, 2, 2; la +lucina rossa intermittente si spense e al suo posto se ne accese una verde e +fissa. Nulla era cambiato: potevamo entrare in piena sicurezza. Uscì per +chiamarmi ma io, che avevo capito, avevo già spento la Vespa e le stavo +correndo incontro. + L’interno della villa nella penombra appariva sobrio ma a ben vedere +doveva esser stato arredato con stile e denaro; anzi, man mano che gli +occhi si abituavano alla luce capivo che c’era molto più del secondo che +del primo. Nell’anticamera, su un tavolo di legno laccato, squadrato e dalle +proporzioni insolitamente grandi, campeggiava un vaso di vetro rosso; alle +pareti, credetti di distinguere due stampe originali di Escher. Clara Maria, +che ovviamente conosceva bene la villa, mi fece segno di seguirla per non +perdere tempo. Passammo nella grande sala: sul pavimento di marmo rosa +divani di pelle e acciaio formavano una specie di cerchio al cui centro +stava un tavolo di cristallo letteralmente coperto di argenteria di tutti i +tipi. In mezzo c’era una bambolona di ceramica a gambe larghe, con la +gonna a pizzo rotonda aperta e allargata: “Il fascino della merda,” dissi io. +“Cosa?!” +“Sì, il ‘fascino della merda’: è un’espressione che avevo inventato +insieme alla mia amica Maria Elena, una bambina con la quale avevo +passato anni stupendi fino alla morte dei miei genitori. Quando qualcosa +era così brutto da diventare attraente dicevamo che sprigionava il ‘fascino +della merda’.” +“Dai vieni, Elia, non perderti in cose inutili”. +Attraversammo le varie stanze: pochi libri, opere commerciali di +nessun valore, pezzi buoni di arredamento, bagni moderni e ampi, una +cucina sproporzionata con un tavolo da lavoro centrale enorme e una +cappa aspirante degna del ristorante di un transatlantico. Finalmente, +fummo di fronte allo studio di Shannon. +“Qui si rinchiudeva a studiare il professore: come vedi, è l’unica stanza +che è stata svuotata del tutto.” +In effetti, gli scaffali erano vuoti: per scrupolo aprii i cassetti dei mobili, +della scrivania: niente. +“Aspetta,” mi disse Clara Maria, “c’è un solo posto dove mi disse di non +entrare per via degli scarafaggi – sapeva che mi fanno schifo – ed è la +cantina: andiamo!” +La seguii: in effetti, per una casa a un solo piano in un terreno senza +altre costruzioni, avere una cantina era un fatto insolito. Perché mai +scendere verso il basso quando sarebbe stato sufficiente aggiungere un +locale: ad ogni modo scendemmo. Non c’era luce; non nel senso che era +buio, ma nel senso che mancavano anche gli interruttori: due candelieri + che uscivano dai muri, ai lati della scala, avrebbero dovuto farmelo intuire. +“Strano,” pensai, “si vede che l’impianto si sarebbe rovinato per l’umidità.” +Usammo due piccole torce che aveva rimediato lei; la scala ci portò di +fronte a una porta chiusa; senza maniglia. Per quanto provassimo a +premere contro, con colpi differenziati, in punti diversi, non si apriva. Mi +serviva almeno qualcosa con cui far leva. “Aspettami, ci vuole qualcosa di +robusto,” le dissi. “Vado a vedere.” +“Sì ma fa presto, non posso sapere se anche questa parte non sia +protetta da un allarme.” +Salii i gradini di corsa; mi diressi in cucina, ma non trovai niente di +adatto: i raffinati coltelli erano troppo sottili, alcuni perfino di ceramica, +per essere usati come leve. Non c’era un camino – avrei potuto usare gli +alari – né una sbarra di qualche tipo. Mi ritornarono in mente i candelieri +all’ingresso: avevano una forma adatta, sarebbe bastato con non molto +sforzo divellerli dal muro e poi sfruttare la forma della placca. Tornai di +corsa in cima alla scala: “Sono io,” le urlai, “se senti del rumore sono io che +cerco di staccare i candelieri per provare a forzare la porta con quelli.” +Tolsi la candela, per evitare che intralciasse. In quel preciso istante, tutta la +parete al fondo della scala ruotò e si portò Clara Maria dall’altra parte ma +nello stesso istante un allarme risuonò potente per tutta la casa e, per +quanto potevo capire io, per tutta la vallata, per tutta la Corsica, forse per +tutto il Mediterraneo. Si accese anche una luce forte e intermittente e +sentii Clara Maria che mi urlava: “Rimetti a posto la candela!” Lo feci e la +parete si mise obliqua permettendo a Clara Maria di sgattaiolare fuori +subito. Scesi di corsa, mentre lei prese la decisione opposta: +“Ma che fai?” disse. “Scappiamo!” +“Un momento solo,” gridai, “aspettami fuori e accendi la Vespa.” +Varcai la soglia. Sembrava il caveau di una banca adibito a studio: una +scrivania in legno al centro, e le pareti coperte di libri. Li guardai tutti +velocemente: erano libri di linguistica, di logica, di matematica. Moltissimi +di loro erano riconoscibili per me dal colore e dal formato: ci avevo sudato +sopra anni. Altri erano ignoti, alcuni antichi. Ma non avevo tempo. Entro +qualche istante sarebbe arrivata la gendarmeria. Sulla scrivania, distante +da tutti gli oggetti, come se fosse stata messa in evidenza, c’era una +cartelletta azzurra. Sopra stava scritto “Notes on PL”: giuro che sperai che +fosse “Pietramala Language” ma nel dubbio, senza perdere tempo a + controllarla, l’afferrai, ripresi la corsa per le scale. Clara Maria stava sulla +Vespa già avviata. +“Monta su!” gridò. “Non c’è tempo per mosse cavalleresche”. +Saltai letteralmente sopra tenendo la cartelletta tra la mia pancia e la +sua schiena, l’abbracciai e lei accelerando al massimo uscì sulla strada +sterrata e in pochi minuti, ripresa la strada principale, sembravamo già +due fidanzatini di rientro da una scampagnata ai calanchi, anche se +invertiti nei posti. La gendarmeria stava sopraggiungendo dalla direzione +opposta facendo suonare la sirena come un maiale sgozzato. +Decidemmo di sostare qualche minuto nella piazzetta alle porte della +cittadella vecchia di Calvi. Fermammo rapidamente la Vespa e andammo a +sederci su una delle panchine libere, vicino al campo di bocce e alle piante +strane. Aprii la cartelletta. Nelle mie mani, in un’armonia diversa, visiva +ma egualmente attraente ed enigmatica, stava la trascrizione fedele delle +parole della canzone di Clara Maria: riga dopo riga, ogni parola +comprensibile, si agganciava alla seguente, urtando ogni logica, +provocando uno stordimento snervante, come se i colori di un quadro +fossero ben scelti ma il loro accostamento non avesse alcun senso. +Andammo a casa. Non si poteva fare niente di più intelligente. +[2.5] Ci rivedemmo la notte successiva. In una notte d’estate si può +desiderare tutto. Il calore irradiato da un cielo buio è una lusinga troppo +forte per non cedere alla tentazione di amare qualsiasi cosa. Sia che ti tuffi +in un mare pulito sbucando da una pineta, sia che guidi sull’autostrada +deserta con la radio che salta da sola tra i canali e sembra sapere chi sei, il +desiderio prende forma e ti porta in giro lui. Anzi, forse in una notte +d’estate il bello è che non sappiamo se il desiderio viene da noi o è un +richiamo di qualcos’altro. Eppure quella non era una notte d’estate; +eravamo in pieno autunno eppure mi sentivo più carico di desiderio che +mai. La breccia aperta in me da quei giorni a Pietramala aveva sturato tutti +i pori dell’anima e non potevo più tornare indietro; anche il tentativo di +nascondere quell’attrazione con la storia di Clara Maria – perché alla fine +mi sembrava che quella storia fosse nata in me solo per coprire +l’attrazione per l’altra storia – non aveva funzionato. Ero ritornato a essere + sommerso di curiosità per la scoperta che avevo fatto e che attendeva una +risposta, fosse stata d’interesse anche solo per me. +Ero tornato da una passeggiata appena fuori Calenzana. Era una +passeggiata breve, ma sufficiente a trovarsi per un istante in un luogo dove +non si vedevano abitazioni. Mi accorsi di avere freddo; l’autunno si era +fatto largo fuori e dentro di me. Per riprovare il caldo, avrei dovuto +aspettare la prossima primavera. Era quasi la fine di ottobre e mi pareva +un’idea sana. Unico proposito: non aver paura della paura. Clara Maria mi +era venuta incontro: era già a metà del viale alberato. Indossava il +maglione blu di suo fratello, quello che mi aveva prestato la sera del canto, +che faceva apparire i suoi denti ancora più bianchi e i suoi capelli ancora +più dorati. Sembrava un trattato di percezione dei colori, se non fosse che i +trattati non si baciano, invece lei sì: le diedi un bacio dolce e lungo sulle +labbra. Con la mano la trattenni un po’ più a lungo del normale +premendole la schiena contro il mio corpo. Sentii le labbra aprirsi in un +sorriso contro le mie: arretrò la testa e mi osservò. Aveva capito tutto +prima di me; anzi io fui in grado di capire ciò che accadeva solo perché mi +resi conto di ciò che era giusto fare guardando l’espressione sul suo volto. +“Allora, quando parti?” mi disse con una domanda che conteneva tutte +le risposte utili in quella situazione. Non le risposi. La ribaciai. +“Appena posso,” dissi con un tono calmo che non mi aspettavo, “non +avrò bisogno di visto per andare a New York, starò là pochissimo.” Lei alzò +le sopracciglia come non le avevo mai visto fare, aggrottando le labbra in +una smorfia buffa. “Be’, il tempo sufficiente per incontrare Shannon e +capirci qualcosa,” mi difesi io, “in fondo non sarà davvero molto: se lui sa +qualcosa dovremmo solo metterci a un tavolo e decifrare la struttura della +lingua nella quale è stato composto il canto. Se lui non sa niente, potrebbe +volerci un po’ più di tempo ma certo non sarà inutile: uno non tiene del +materiale sottochiave come se fosse oro e poi scappa dall’altra parte del +mondo se non sa nulla di nulla, no?” +Clara Maria annuì. “Non ti preoccupare per me; ci rivedremo.” +Non riuscii a decifrare l’intonazione: mi sembrava fosse in salendo, +come nelle domande, ma forse era solo un abbaglio uditivo; forse era +decrescente ed esprimeva una certezza. Certamente io non avrei saputo +decidere – e non lo so neppure ora – se mettere un punto interrogativo o +uno esclamativo alla fine di quella frase. + Mi prese per mano: “Elia, sei mai stato in una scuola in una mattina +presto in giugno, quando sono appena iniziate le vacanze? Si sente un’aria +ancora timida ma già tiepida che gioca tra i banchi vuoti, sfoglia i +quaderni che profumano ancora di matita, scuote i disegni dell’ultimo +Natale attaccati con le puntine su pannelli di legno. Se ti capita fallo: +quando sei entrato, trattieni il respiro e ricorda. Troverai tra quei banchi il +sapore dell’inizio; il primo giorno non svanisce mai.” Non capii benissimo +perché mi avesse detto quello, ma probabilmente aveva decifrato quali +fossero le mie paure. Clara Maria doveva aver studiato tanto, ero stato uno +stupido a pensare che fosse una sprovveduta; tipico atteggiamento di chi +come me viene da scuole speciali e pensa che l’intelligenza sia qualcosa +che appartenga a gruppi scelti. Per fortuna è distribuita ovunque come la +stupidità. Quanti Bach e Einstein fanno le cassiere nei cinema di periferia +o stillano lattice da un albero in Brasile per ricavarne del caucciù. E al +contrario, se il papà di Mozart avesse tenuto il figlio a pascolare greggi +sugli altipiani di Salisburgo, non avrebbe mai composto il Requiem. +Tergiversavo, con me e con lei per non prendere atto del da farsi. Quella +sera era evidentemente la sera nella quale ci saremmo lasciati per un +futuro completamente incerto e non solo, ovviamente, per il mistero di +Pietramala, ma perché era venuto il momento per me di capire cosa fare +della mia vita e se e come poterla condividere con Clara Maria. Quella +sera, contro ogni buon proponimento, avevo iniziato ad aprire +un’ennesima parentesi che non sapevo se si sarebbe mai richiusa. +Erano le nove e dovevamo cenare: si era deciso di andare a Calvi, in un +ristorante che conoscevo sulla via principale parallela al porto; si salivano +delle scalette ripide e una donna, figlia d’arte, accoglieva con piatti +impregnati di fantasia e di erbe corse. Clara Maria accettò ben volentieri la +proposta, ma mi chiese di aspettarla un momento fuori dalla sua +panetteria: sarebbe andata a cambiarsi per l’occasione e a prendere una +giacca a vento adatta per il ritorno in Vespa. +Mi aveva preso una fame inspiegabile e incontenibile: avrei voluto +combinare tutti gli ingredienti in un’unica ricetta perfetta che +soddisfacesse tutti i desideri ma nessuna delle combinazioni che mi veniva +in mente era convincente: ogni sapore ne richiamava un altro e poi un +altro ancora più buono e azzeccato, ma alla fine della catena l’ultimo si +rivelava sempre e irrimediabilmente incompatibile con il primo mentre io + cercavo una circolarità perfetta per non dover pensare a un inizio e a una +fine. Acciughe, olive, formaggio, salame, uova, patate, focaccia, pane, +pastafrolla, panna montata, granita di caffè: ma la combinazione della +granita di caffè con le acciughe, della quale mai avevo fatto esperienza, mi +stomacava. Avevo nella mia mente una cucina virtuale che impastava solo +nomi nudi ma che riusciva nondimeno a provocarmi conati veri. Riprovai +un’ultima volta, quasi sulla soglia, sperando di trovare la combinazione +giusta da proporre a Clara Maria per la cena: iniziai dal pane e nel preciso +istante in cui mi uscirono dalla bocca quelle due sillabe sentii che non si +trattava solo di un flatus vocis: un profumo intenso e fragrante di farina +lievitata filtrava dalla fessura della porta della panetteria e si infilava nelle +mie narici. +Entrai. Silenzio: capii che non c’erano i genitori; per accedere alla loro +abitazione si passava da una porta che dava nel laboratorio dove si +preparava l’impasto e si cuoceva e tutto era silente. Passai la soglia del +laboratorio e la chiamai. Non rispose. Salii allora a passi felpati la scala che +conduceva nell’appartamento e mi diressi sicuro, ma sempre facendo +attenzione a non farmi sentire, verso la stanza di Clara Maria. Capivo di +violare uno spazio privato ma non fui in grado di resistere. Riflessa nello +specchio, attraverso la porta di poco scostata, la vidi voltata di schiena, +mentre indossava solo un reggiseno blu che stava allacciando dietro le +spalle. Aprii completamente la porta, e mi fermai in piedi: doveva avermi +sentito entrare. Mi osservò ma non direttamente: la traiettoria dei nostri +sguardi s’incontrava carambolando sullo specchio. Poche persone sono +così belle da esserlo anche se viste di riflesso: lei lo era. Mi avvicinai senza +dire una parola e appoggiai la fronte alla sua nuca e le mani sui suoi +fianchi, premendo però come per affondarvele; poi strappai la chiusura del +reggiseno con uno scatto e la spinsi contro di me e lei assecondò quel +gesto. Sentii il profumo della farina emanare dalla sua pelle e quello del +lievito dallo spiraglio delle sue cosce morbide; e di rosmarino sul seno +vellutato; e di salvia sapevano le labbra che allora a me si schiusero: da +quei calici aperti iniziò a esalare l’odore di fragole rosse. In quel preciso +istante della mia testa s’impadronì una musica che non avrei potuto far +smettere – il preludio della prima suite per violoncello solo di Bach – e fu +quella musica a dettarci la realtà. L’attacco del primo accordo e lei che si +volta guardandomi negli occhi. Inizia il pulsare ostinato della nota bassa in + un giro ripetitivo e noi due che ci afferriamo senza ascoltarci. Poi il +pulsare si attenua e le note costruiscono una frase più lunga e io muovo la +bocca e le mani su di lei e lei inizia a seguirmi e i nostri gesti si +assecondano. Poi guida lei, in contrappunto, e sono io a seguirla. Poi di +nuovo torna il giro ripetitivo e noi riprendiamo ad afferrarci ritmicamente. +D’un tratto mi lascia in bilico e comanda lei. La lascio fare. Il gioco è +deciso: la musica riparte in una rincorsa nuova, insistente; si muove +rapidamente – sale la musica – io la seguo – di nuovo risale – allora è lei +che mi segue – aumenta il ritmo e aumento anch’io, niente ci trattiene più; +lì si fermano i muscoli, anzi tutto si ferma. Siamo senza peso, +condividiamo tutto: una sola bocca per un solo respiro. Fine della rincorsa: +ecco il salto. Starnutisco; planiamo e atterriamo insieme, finisce anche la +musica. Rimanemmo abbracciati, rallentando i respiri, rilassando il ventre, +nascondendoci come fanno gli occhi sotto le ciglia: ciascuno si riprende la +sua lingua e rimane muto. Siamo un po’ arrossati, sudati, gualciti forse, ma +il disagio è lontano da noi come il cielo buio in una mattina di giugno. +Provo un non so che di felicità nuova. +La cena di quella sera non ebbe uguali: io mangiai tutto e perfino +nell’ordine comune; Clara Maria solo poche cose ma mi parve le +piacessero molto. Per un istante non ebbi più paura della fine. Le presi le +mani nelle mie, gliele baciai e feci finta di mangiarle i polpastrelli. +“Hai ragione,” sussurrò sorridendo, con un po’ di vergogna, “per essere +più uniti di così potrei solo farmi mangiare.” Si fermò per un istante dopo +quelle parole come se le evocassero qualche cosa di più grande di lei. +Rabbrividii di gioia. Mi si era rivoltata la vita. Come se in una notte +d’estate tutte le stelle stessero ferme e cadesse il resto del cielo, avevo +completamente capovolto i punti di riferimento della mia esistenza. Avevo +una donna e un mistero da risolvere mentre prima ero solo e credevo di +aver saputo tutto. Non speravo in una fusione di anime, ma almeno in un +incastro armonico sì: dovevo cercare di non perdere l’una per risolvere +l’altro. Sapevo benissimo che quando sarei arrivato in America l���Europa +mi sarebbe sembrata non esistere: le nostre città, i caffè, l’arte, le idee, le +battaglie e le paludi della nostra politica mi sarebbero sembrati tutti un +racconto stantio o un sogno arruffato. Ma sapevo anche che mi sarebbe +capitato il contrario al ritorno e tutti i grattacieli di Manhattan sarebbero +apparsi come un racconto fatto al Kublai Khan. Ora dovevo dunque + lasciare il mio mondo per poi ritornarci con una proposta. Feci vedere il +biglietto di andata per New York a Clara Maria. Sarei partito l’indomani +mattina prestissimo per Parigi con un volo da Calvi e poi da lì per gli Stati +Uniti. La sua indicazione su dove si era trasferito Ismael Shannon +corrispondeva a quanto mi avevano detto i suoi cugini che gestiscono +l’agenzia di viaggi di Calvi. Shannon aveva fatto prenotare da loro un volo +per New York e una limousine per Manhattan. Sapevo anche l’indirizzo: +Broadway, 2109, angolo ovest con la 73a strada. Non ci ero mai stato ma +era molto facile trovarlo. +Scese dalla Vespa. Nessuno dei due piangeva: per piangere bisogna +avere il tempo di accorgersi di quello che accade e non ce n’era stato per +noi. Le dissi che non l’avrei chiamata da New York: nello stile della mia +famiglia, non si chiama se non per dare notizie cattive. Annuì e mi disse +che era lo stesso nella sua. Mi diede una carezza che sembrò non finire +mai. Poi prese il sesto dito della mia mano sinistra e lo baciò: fu come +dirmi che accettava tutto di me. Entrò nella panetteria per salire in casa. Io +rimontai sulla Vespa per l’ultima volta per andare alla locanda. Al mattino +successivo, molto presto, sarei partito. Non ero triste. Ho una fortuna +immeritata: miracolosamente, da sempre, alla fine di ogni stagione sento +forte il desiderio per quella successiva. + Capitolo terzo +Novembre, ovvero quando si parte per l’altro mondo e cambia l’odore dell’aria e ci si riesce a +perdere in un appartamento di Manhattan pieno di libri. +[3.1] New York, cioè: N, e, w, Y, o, r, k. Mi sorprende sempre come la forma +delle lettere che si susseguono componendo il nome di questa città – cunei +ineguali, aguzzi e svettanti alcuni, bassi e ripetitivi altri, disposti in un +ordine apparentemente caotico ma in realtà ritmico e armonico, +intervallati a forme più piccole, rotonde e arricciate, sovrastate da quelle +alte ma non meno indispensabili – ne evochi senza esitazione il profilo. In +quel preciso momento, New York era lì di fronte ai miei occhi; la +osservavo attraverso il finestrino dell’aereo durante l’ultima virata per +scendere al JFK ma era come se l’avessi vista molte ore prima, anticipata +proprio dalla forma scritta del suo nome al quale ora si stava +sovrapponendo. Quanto più si scende di quota, tanto più l’occhio +riconosce questa coerenza e sente il desiderio di immergersi nella città +come per riappropriarsene ed emanciparsi da quel simulacro alfabetico, +anche se il cuore sa già che non potrà possederla davvero, e che +inevitabilmente dovrà riallontanarsi da quella concretezza con un percorso +inverso, quando la vita lo porterà a una speranza se non certa almeno più +grande. +Il viaggio era filato liscio ma questo non mi aveva sorpreso: dei viaggi +mi piacciono molto gli spostamenti, trovo invece angoscianti le partenze e +imbarazzanti gli arrivi. Nessun problema con le coincidenze tra i voli a +Parigi, attesa breve, nessuna turbolenza in volo, cibo accettabile – servito, +per fortuna, tutto insieme – e film inguardabili, come al solito, che +permettono di dormire senza il timore di perdersi qualcosa di bello; +nessuno seduto di fianco; perfino le procedure doganali di sbarco all’arrivo +si erano svolte senza code. Ebbi solo un turbamento durante il volo +transatlantico quando osai alzare, sia pure di un centimetro, la tendina di +plastica del finestrino mentre tutti si erano appisolati nella penombra. Mi + ferì gli occhi una lama di luce ma feci in tempo a farmi imprimere sulla +retina l’immagine di una landa ghiacciata desertissima e mi prese una +strana vertigine, non per l’altitudine – adoravo volare – ma perché mi +chiesi che fine avrei fatto nella vita se fossi nato laggiù. Un po’ come +quando da piccolo passavo in macchina di notte in autostrada accanto alle +periferie di Genova per andare in Costa Azzurra e, guardando fuori +rannicchiato nei sedili posteriori, mi chiedevo se fosse facile lì fare i +compiti e raggiungere la scuola o se si dovesse vivere per sempre in quelle +case accatastate sulla collina ripida. Ero lì per una ragione precisa, ma +rivedere New York mi faceva sempre lo stesso effetto, qualunque fosse +stato il motivo: mi faceva sentire partecipe di una festa; me ne accorgevo +perfino da come camminavo: più veloce e deciso. Poi mi solleticava con +odori di cibi mai assaggiati; mi spaventava con impalcature impossibili e +l’esibizione futile dell’altezza; mi stupiva per le nuove forme dei palazzi e +delle scarpe; e – forse ciò che più mi colpiva – mi induceva a pensare che +nessuno fosse davvero a casa ma che fossero tutti ospiti, così – almeno per +le prime ore – finivo con il sorridere a tutti quelli con i quali incrociavo lo +sguardo finché non mi sembrava di essermi fatto riconoscere per quel che +ero: uno come loro. Passato qualche giorno, un minimo di abitudine +diluiva l’euforia ma non in modo tale da non lasciarmi percepire +un’allegria di fondo proveniente da quella città. +Mi piaceva parlare l’inglese di Manhattan, un inglese che sapeva subito +di capitale dell’impero, farcito di parole provinciali, accenti esotici, e un +certo snobismo creativo che derivava dal sentirsi al centro del mondo. +L’inglese, io l’avevo imparato a quattro anni: ricordo benissimo che avevo +chiesto ai miei genitori come regalo che mi mandassero da qualcuno a +lezione. Loro acconsentirono subito, nemmeno tanto stupiti, solo che mi +mandarono a lezione di tedesco, convinti, come peraltro fu, che non mi +sarei accorto che non era la lingua che volevo – non capii mai perché mio +padre avesse pensato al tedesco per me. Dal canto mio come mi sarei +potuto accorgere che non era inglese? Quando un giorno, quasi +casualmente, me ne resi conto, corsi a casa arrabbiatissimo – come solo un +bambino di cinque anni che si sente tradito rispetto a un patto coi genitori +può essere – e feci sputare il rospo a mio padre: stavo imparando il +tedesco. Cercai allora di porre immediatamente rimedio e cercai di +disimpararlo con tutto lo sforzo possibile: recitavo in modo sbagliato le + poesie scambiando di posto le parole o coniugavo i verbi inventandomi le +flessioni, infilavo il verbo flesso in fondo alla frase principale e inventavo +casi dipendenti dal tempo, quello atmosferico naturalmente. Come avrei +dovuto prevedere, l’unico risultato fu che quella lingua mi si impresse +nella mente in modo indelebile: non si può disimparare volendolo. +Tuttavia, di fronte a tanto sforzo, i miei reagirono con compassione e +accettarono che imparassi l’inglese che da allora considero una lingua di +divertimento, nel senso etimologico del termine: una lingua che mi porta +altrove e mi permette di prendere le distanze e di rilassarmi da pensieri +troppo frequentati. Ma non si creda che fu quello l’evento che innescò la +mia passione per il linguaggio. A me le lingue in generale non piacciono: +la passione per il linguaggio deriva invece come contaminazione – o +degenerazione – dalla mia passione per la matematica. Mi rassicurano i +sistemi di regole, trovo la teoria di Galois l’equivalente artistico più vicino +alle Variazioni Goldberg di ogni altra espressione umana – salvo forse +qualche palazzo rinascimentale – e il linguaggio umano è il sistema dei +sistemi di regole. Oltretutto con il linguaggio si può parlare di matematica, +ma non viceversa, ed è esso stesso descrivibile in termini matematici, +dunque niente era più interessante per me del linguaggio, salvo appunto la +teoria di Galois, ma eventi avversi me ne tennero lontano; inoltre mi ero +convinto che fare il linguista mi avrebbe costretto a rinunciare a un +numero minore di cose, rispetto ad altre scelte. Ad ogni modo, l’inglese mi +piaceva molto: per dimenticare la pronuncia aspra del tedesco (che in +realtà era utilissima per parlare inglese, ma lo scoprii solo dopo) avevo +anche inventato dei trucchi che mi sarei ripromesso di brevettare per +imparare una lingua straniera da adulto e con questo diventare +ricchissimo: per esempio, per acquisire la pronuncia ideale, avevo scoperto +che occorre urlare scandendo lentamente ogni parola e accentuando al +massimo i movimenti della bocca. Questo rimodella la muscolatura della +bocca e della laringe e in qualche modo riproduce una situazione tipica e +naturale che vivono i bambini quando piangono o giocano. Non ero sicuro +avesse un fondamento neurobiologico ma funzionava. Oppure sostenevo +che per parlare con un accento giusto una certa lingua bisognasse imitare +l’accento di chi parla quella lingua mentre parla la nostra e poi ricordarsi +di quell’imitazione quando parliamo noi quella lingua. Funzionava +benissimo. Tutto questo per dire che forse io a Manhattan parlavo la + lingua che volevo e questo era per me allora senza dubbio il privilegio più +alto concesso a una persona. Mentre pensavo a queste cose mi accorsi che +dovevo cercare dove andare a dormire e, soprattutto, concentrarmi per +preparare l’incontro con Shannon. Certo, mi sentivo disorientato, +inzuppato d’ansia e anche sinceramente un po’ impaurito, ma la voglia di +cercare chi mi potesse aiutare a disperdere quella depressione ciclonica di +domande che aveva come occhio Pietramala era schiacciante. +Il treno della linea E della metropolitana, sulla quale ero salito +all’aeroporto Kennedy, stava passando sotto l’East River dopo aver +attraversato il Queens: avrei cambiato linea a Times Square per poi risalire +con la linea rossa su per Broadway e scendere alla 72esima: lì sarei stato +quasi sotto la casa dove viveva Shannon. Cambiai invece improvvisamente +piano e balzai fuori dalla vettura a Times Square proprio mentre si stavano +chiudendo le porte e gli ultimi passeggeri saltavano chi di qua e chi di là +dalla soglia. Times Square non era un posto che amavo particolarmente – +troppi i residui malcelati di una scampata babilonia – ma era bello arrivare +a Columbus Circle a piedi risalendo lungo Broadway e dunque decisi di +emergere di lì sulla strada. +Sotto faceva caldo, ma anche in superficie non si scherzava – effetti +miracolosi dell’“estate indiana”. Sbucai fuori al livello della strada con le +scale mobili, molto lentamente, insieme a tanta gente. Avevo visto quelle +luci migliaia di volte – soprattutto negli anni in cui studiavo a Boston – +ma ogni volta ci cascavo. Volevo fare il topo di città e invariabilmente mi +facevo riconoscere come topo di campagna: incespicai alla fine della scala, +testa all’insù, distratto dalla voglia di guardare fino a che piano si +azzardavano a crescere i palazzi nuovi, e i cartelloni sempre più vivi e +invadenti, e le persone, e i taxi gialli, e quelli vestiti strani, e gli autobus, e +quello in bici con le cuffie che ti stramaledice in cinese perché non hai +rispettato il rosso all’incrocio, e quelle che ti propongono sesso o gite o +gamberetti. Proprio a Times Square, poi, mi colpivano le carcasse dei +vecchi palazzi disabitati da anni, coperte da luci al neon in disuso, in lista +d’attesa per la sepoltura. Mi colpivano poi tantissimo le finestre. Solo i +palazzi vecchi avevano ancora finestre che si aprivano, certo non +all’italiana: si aprivano verso l’interno, come delle porte, o verso l’alto, a +ghigliottina, ma almeno si aprivano. Penso che dalle finestre si capisce una +città: quelle a riquadri di legno bianche delle case di Parigi che lasciano + intravedere una donna che prova un vestito nuovo; quelle senza scuri che +trovi a Norimberga, perché la luce lì non viene nemmeno se la inviti; +quelle di Genova, sempre socchiuse dalle persiane, che lasciano passare il +vento fresco e il profumo del mare, della focaccia e del detersivo per i +panni. Giunto a Columbus Circle, mi accolse lo spazio ampio di cielo su +Central Park. Lì, vidi uno stormo di uccelli nerissimi: vivo, immenso, +denso, instabile. La sua forma globulare si trasformava continuamente: +compatto e sottile si lanciava rapido in alto per poi frenare e dilatarsi +all’improvviso come un fuoco d’artificio al negativo dividendosi in tanti +nuclei piccoli e indipendenti e quindi ancora disperdersi in direzioni +diverse secondo traiettorie centrifughe fino a ricompattarsi, ridanzando la +stessa danza con mirabili variazioni. In tanti guardammo quello spettacolo +che nessuno aveva ordinato né avrebbe potuto pagare; tutti, sorpresi e +soddisfatti del regalo, in ordine sparso ritornammo a fare quel che +eravamo intenti a fare prima, ciascuno in direzioni diverse. +Mancavano ancora quattordici isolati e poi sarei stato di fronte alla casa +di Shannon. Cercai di distogliermi dall’ansia di arrivare pensando ancora +alla città: altrimenti mi sarei messo a correre, tanta era la voglia di +chiedere a quest’uomo cosa sapeva della lingua di Pietramala e del destino +di quel paese svanito nel nulla. Ero stato testimone di una specie di +Pompei muta dove tutto stava nel posto in cui era stato usato per l’ultima +volta, conservato non dalla coltre di polvere vulcanica ma da un sigillo ben +più inviolabile: il silenzio. A Pietramala, niente aveva più voce; a New +York, invece, tutto parlava. Distratto da un cartellone più luminoso degli +altri, quasi venivo travolto da un’auto a un semaforo; non è colpa mia se i +segnali dei semafori di New York sono solo “avvertimenti” che ognuno +può interpretare come vuole. Di questi trabocchetti è piena la città: una +città fintamente razionale e in realtà orgogliosamente anarchica. Vanta +sfrontata una pianta ippodamea nella struttura ortogonale, organizzata in +strade e avenue, ma attinge di fatto la sua energia vitale da inaspettate vie +diagonali che lacerano la regolarità del suo tessuto connettivo, a +cominciare da Broadway. È poi una città che inganna l’occhio: una città +senza piazze, dove corridoi di palazzi ti conducono a nuovi corridoi senza +mai lasciarti sostare in uno spazio di ritrovo corale, un fuoco dove la +mente di tutti si possa concentrare. Una città dove quando cammini ti +senti portare addosso le tue coordinate: impossibile non sapere dove sei + nello spazio rispetto agli altri. In quello spazio geometrico, fatto di +rettangoli e parallele, c’eravamo noi, persone piccoline, figurine di un +presepe pagano, riscattati dall’effetto che New York provoca in chi la vive: +è una città metafisica perché ti costringe a guardare in alto; a meno che tu +non sia un poveraccio e cerchi per terra qualcosa da mangiare o da +fumare. Il che divide la popolazione in due caste compatibili ma +fondamentalmente impermeabili l’una all’altra a seconda della direzione +dello sguardo, due caste che si accorgono le une delle altre solo ai semafori +dove lo sguardo per un istante mira per tutti parallelamente al terreno per +evitare collisioni. +Ero quasi arrivato, 68esima Strada: l’ingresso nell’Upper West Side è +glorioso. Ti accoglie un’esposizione di palazzi di ogni tipo. Ho un debole +per i palazzi: il palazzo, ogni palazzo, è una prova indiscutibile della paura +della morte: tutto in un palazzo è fatto per negarla. La sua solidità è la +menzogna più drammatica ma non si esprime in modo unico: ogni palazzo +ha le sue declinazioni, coniugazioni, parti del discorso ed eccezioni. Ogni +palazzo è una lingua straniera; la riconosci e puoi anche usarla, ma per +capirla ci devi essere nato, sennò ti ci vuole un interprete e se non ci sei +entrato da piccolo ti rimarrà sempre quel passo straniero quando ne +percorri gli spazi interni, come un accento esotico. Preso da questo +pensiero non mi ero accorto di essere arrivato all’incrocio di Broadway +con la 73esima Strada, appena passata piazza Verdi, uno degli angoli più +inaspettati di Manhattan; una specie di piazza milanese in formato bonsai, +con tanto di statua del compositore e quattro personaggi in sua +compagnia: Leonora, Aida, Otello e il meraviglioso Falstaff. +Alzai lo sguardo e lo tenni fisso per almeno tre minuti, senza volerlo, +come fossi stato risucchiato dal vortice di un fiume: il palazzo di pietra, +enorme, torvo, imponente, grigio ed esuberante al tempo stesso, +dichiaratamente sontuoso, quasi un castello, era lì di fronte a me. +L’Ansonia, al numero 2109 di Broadway, che occupava un intero isolato +tra la 73esima e la 74esima Strada ovest. La sua mole non sembrava affatto +il risultato di un accumulo di materiale, ma al contrario di un lavoro +ciclopico di sottrazione di materia da un blocco immenso di pietra +precipitata dal cielo per mano di una forza divina. Le volute degli archi +d’ingresso sostenevano un blocco di piani maestoso con finestre ampie e +ben illuminate. Il palazzo, sproporzionato e grandioso solo come certi + transatlantici del passato potevano esserlo, era stato il più grande albergo +di New York ma non era veramente solo un albergo. Inaugurato nel 1904 +era un’utopia allo stato solido. Il suo nome è il risultato di una goffa +nobilitazione alla latina del cognome di un industriale, Anson Green +Phelps fondatore della Ansonia Clock Company e fu voluto da William +Earl Dodge Stokes, erede dell’industria Phelps-Dodge e comproprietario +dell’Ansonia Clock Company. Fu commissionato a un architetto francese, +Paul Emile Duboy, che lo concepì come una manifestazione pura dello stile +beaux-arts ma che finì per essere corrotto da interventi barocchi, neogotici +e rinascimentali: una specie di compendio di architettura occidentale. +Contava più di 1400 stanze e 350 suite ma non era solo la dimensione a +renderlo unico: alla sommità del palazzo c’era una fattoria che provvedeva +alla produzione e distribuzione di latte e uova fresche a tutti gli ospiti del +palazzo. Un sistema circolatorio capillare di tubi collegava le stanze e le +suite con la portineria centrale con la posta pneumatica; era anche il +primo palazzo della città di New York ad avere un sistema di aria +condizionata che rendeva quella specie di città compressa un’isola felice +nella calura monsonica che opprimeva le settimane centrali dell’estate +atlantica. I muri erano più spessi del normale. Si diceva che un ospite si +fosse sparato in una stanza mentre l’amante, in quella di fianco, non +avesse sentito nemmeno un sommesso fruscio. Per uno strano gioco del +destino, legato probabilmente alle conoscenze personali del proprietario, +inoltre, finirono per soggiornare in quel palazzo molti musicisti di gran +fama: Toscanini, Stravinskij, Rachmaninov, Mahler, Caruso abitarono +all’Ansonia, facendo pensare a qualcuno che potesse essere quello il +quartier generale del governo di Castalia, il mitico regno dove la musica +riassumeva tutto il sapere umano. Il palazzo subì vari sussulti tra i quali un +letargo forzato, quando durante la Grande Depressione l’albergo fu chiuso, +e una mutilazione, quando nel 1942 gli ornamenti metallici furono tutti +estirpati per contribuire alla costruzione di armamenti per l’esercito. Negli +ultimi anni, il palazzo, malgrado tutto, risorse: fu comprato da una +multinazionale e perfettamente restaurato, fatto ritornare agli splendori +fastosi del suo concepimento. L’Ansonia era, in quel momento, il palazzo +più sontuoso di Manhattan. In pochi, tuttavia, sapevano che quel delirio +onnisciente di pietra, ferro e cemento era in realtà incompiuto: come tante +opere grandiose, era forse solo l’accenno di ciò che sarebbe dovuto essere + più che ciò che era: mancava la torre centrale che era stata progettata per +essere il sigillo di quella babele infantile e consumistica. Come per il +duomo di Siena, una delle meraviglie del Medioevo italiano, la cui navata +centrale – pur grandiosa – fu in realtà originariamente concepita come il +transetto di una costruzione molto più ampia e poi definitivamente +ridimensionata dalle sferzate della peste, quella ricchezza incompleta, per +quanto grande, finiva con il richiamare in me più l’essenza della fragilità +che non la testimonianza imperitura della gloria. +La conoscenza di quella storia stava guidando la mia perlustrazione +visiva. Lentamente, i miei occhi salirono di piano in piano finché, alla +sommità, staccate da uno sbalzo neogotico, vidi le grandi finestre +illuminate di un appartamento: ero arrivato alla casa di Shannon. Avrei +voluto correre subito dentro e salire, anzi arrampicarmi da fuori, ma +dovevo prima trovarmi una sistemazione, rassettarmi e preparare +accuratamente tutte le domande. Lo sguardo fece fatica a staccarsi ma +proseguii il cammino. +[3.2] “Non chiamatelo Ismael,” e aggiunse, quasi con un inchino, “signor +Rameau.” Dopo tutta quell’attesa, era tutto qui ciò che il maggiordomo +riusciva a rispondere alla mia richiesta di essere ricevuto dal professor +Ismael Shannon? +Quella mattina, emozionatissimo, mi ero svegliato un minuto prima +della sveglia, cosa che mi aspettavo; rapidissimamente mi ero scrollato di +dosso il torpore della notte e l’irresistibile voglia di continuare ad +abbracciare il cuscino tiepido: una voglia ancora più irresistibile mi stava +scuotendo. Avrei incontrato Shannon: sarei stato vicino all’unica possibile +fonte di sapere che mi avrebbe permesso di decifrare il mistero di +Pietramala e del canto impossibile. Avevo preso alloggio temporaneo in un +bell’albergo su Broadway, tra la 74esima e la 75esima, un posto strategico +scelto per essere il più vicino possibile all’Ansonia, proprio di fronte a uno +dei fruttivendoli più famosi di tutta Broadway, i fratelli italiani Arvali & +Sons, che dava un colore vivace e profumato alla strada. Un mio +messaggio telefonico a casa Shannon, rinforzato dal fatto di essermi +presentato a nome del presidente della Municipalità di Calvi, mi aveva + preceduto e mi aveva permesso di ottenere l’appuntamento in tempi così +brevi. +Salire all’appartamento di Shannon si rivelò una procedura complessa. +Mi aspettavo naturalmente di dover lasciare nome, cognome e documenti +di identità alla portineria centrale, ma di passare un metal detector e di +essere perquisito a fondo, questo no. E fu solo l’inizio. All’ingresso, sentito +il nome di Shannon, mi chiesero di seguire un usciere in livrea che mi fece +strada con passo misurato lungo un corridoio piastrellato di tessere +bianche e nere, illuminato a giorno da candelieri di bronzo; mi fecero +attendere in un atrio speciale, foderato di marmo rosa, vagamente démodé; +mi registrarono, mi perquisirono ancora e finalmente mi condussero a un +ascensore riservato: “Si accomodi, signor Rameau.” +“A che piano devo salire?” chiesi. +“La accompagnerà Ireneo,” rispose l’usciere con un accenno di sorriso, +forse di compatimento, per la mia domanda goffa. Mi fece poi cenno di +procedere verso un’enorme porta di bronzo, quadrata, con figure +mitologiche in stile futurista che si aprì lentamente producendo un suono +meccanico che mi parve quello del boccaporto di un sottomarino, tanto era +pesante, denso, calibrato. Anche la pressione dell’aria a quel punto sembrò +cambiare: istantaneamente, deglutii come per liberarmi le orecchie. Dietro +alla porta comparve l’addetto all’ascensore – Ireneo, come l’aveva +chiamato l’usciere in livrea. Immediatamente, mi colpì il suo aspetto, ma +ancora di più le proporzioni. Era un ragazzo sui venticinque anni, capelli +scuri e ricci; il volto sembrava quello di una scultura classica: lineamenti +perfetti, orecchie piccole e compatte, labbra grosse e ben disegnate, un +naso dritto e adeguato a quel volto sereno e due occhi sottolineati da ciglia +folte e scure; ma quello che colpiva di più in lui erano, appunto, le +proporzioni. Non solo perché i rapporti tra le parti del suo corpo sarebbero +stati degni di un modello vitruviano, ma tutto in lui era leggermente fuori +misura: un po’ più grosso, un po’ più alto, un po’ più ampio di una persona +naturale; mi faceva sentire di una razza inferiore, come quando ci si trova +di fronte alle statue di Michelangelo. Gli sorrisi – non sorrise – ed entrai. +La porta si richiuse con lo stesso suono di ingranaggi pesanti che si +incastrano perfettamente e l’ascensore iniziò lento la corsa verso l’alto: +l’interno dell’ascensore era grande come la stanza di un appartamento; il +pavimento coperto da un tappeto prezioso e le pareti rivestite da una + boiserie di noce; un grande specchio con una cornice di legno laccato +rosso era appeso a una parete, mentre accostate alle altre, +simmetricamente, completavano l’arredamento due poltroncine moderne +di pelle rossa sottili e solide al contempo, italiane certamente. +“Benvenuto,” mi disse semplicemente Ireneo, “tra pochi istanti saremo +nella residenza del professor Shannon,” aggiunse senza emozione. Gli +sorrisi. Non ricambiò nemmeno questa volta, o meglio: sorrise, ma non a +me. Sorrise a qualcosa nella mia direzione, ma spostato di mezzo metro a +sinistra. Ricambiai e, istintivamente, cercai nello specchio cosa avesse +visto ma non trovai nulla di fianco a me. Allora capii: Ireneo era cieco. +Ecco perché non si era mosso quando ero entrato ed ecco perché non mi +aveva guardato in faccia né sorriso quando l’uomo in livrea mi aveva +presentato. Non dissi nulla, ovviamente, anche se mi sorpresi a pensare +una cosa strana: mi chiesi se Ireneo sapeva di essere così bello, anzi, mi +chiesi a cosa serve essere belli se non ci si può vedere. Il viaggio verticale +durò più del normale: “Strano,” dissi tra me e me, “essendo solo diciassette +piani. Evidentemente sono molto alti.” L’ascensore rallentò, ma con +delicatezza, non provocò quella lieve sensazione di nausea che si prova nei +grattacieli moderni; sembrava essere azionato da meccanismi primitivi. +Ireneo – che a quel punto sorrise – con gesto sicuro afferrò la leva +dell’apertura e mi invitò a scendere. “Prego, signor Rameau,” mi disse +chiamandomi per cognome e rivelando con ciò l’accuratezza di un sistema +di sicurezza che filtrava ogni arrivo tenendo conto di ogni dettaglio. La +porta si aprì e con non poco stupore – ingiustificato, date le premesse – mi +ritrovai non in un corridoio di fronte ad altre porte, come normalmente +capita uscendo da un ascensore, ma direttamente nell’anticamera di un +appartamento: molto ampia, senza finestre, illuminata solo da un enorme +lampadario di cristallo che pendeva da un soffitto a volta alto almeno due +piani. Sotto il lampadario, nel centro preciso della stanza, mi stava +aspettando in piedi un maggiordomo molto anziano e molto curato +nell’abbigliamento che però, dopo la mia ovvia presentazione – “Sono qui +per vedere il professor Ismael Shannon” – non si presentò ma si affrettò +invece a rispondermi appunto con quel perentorio: “Non chiamatelo +Ismael, signor Rameau”, accompagnato da un accenno di inchino. +Mi fece accomodare in una stanza a fianco; un’altra anticamera – ero +forse capitato in una stampa di Escher? – anche questa ricca, dove erano + esposti pezzi di antiquariato splendidi e dove qualcuno aveva +sapientemente diffuso un profumo di muschio e rum. Avevo sviluppato +negli anni una certa capacità nel distinguere i pezzi di valore, frutto del +contatto diretto con l’arte cui mi aveva esposto la Signora. Riconobbi, tra +le altre cose: un bronzetto rinascimentale, un grande vaso rosso delle +vetrerie Sisman di Murano, e – non vorrei sbagliarmi – un’oinochoe +trilobata di ceramica rodiota di fattura squisita. Scostai leggermente le +tende di velluto che coprivano le due ampie finestre e vidi Broadway +silenziosa dall’alto: la gente sembrava muoversi velocemente sui +marciapiedi ma senza troppa fretta, d’altronde quella sera l’aria era buona +e tiepida e i newyorkesi sono più sensibili degli abitanti di altre città al +clima pulito dell’autunno. Tergiversavo, perché in verità io bruciavo, +scalpitavo dalla voglia di incontrare Shannon, di chiedergli notizie di +Pietramala, della lingua, del motivo del suo interesse: ero convinto che da +lì a poco si sarebbe risolto il mistero nel quale mi ero imbattuto e sarei +potuto tornare dove ero rimasto e riprendermi in mano la vita da +protagonista. Mi figuravo a occhi aperti la scena. Si apriva una porta; lui +entrava con passo svelto, io gli andavo incontro sorridendo, lui mi +stringeva la mano, anzi mi prendeva la mano con tutte e due le sue, la +scuoteva e contento mi faceva accomodare. Anzi no: lui entrava, si +fermava sulla porta apriva le braccia e pronunciava forte il mio nome +chiedendomi di accomodarmi. Oppure: io gli andavo incontro, si +avvicinava anche lui, e mi abbracciava. La porta allora si aprì davvero, +deglutii forte e mi voltai: era ancora il maggiordomo. “Mi farà entrare in +un’altra stanza,” pensai subito, “magari nello studio.” Invece, senza +muovere nemmeno uno tra i più di quaranta muscoli facciali, tranne quei +pochissimi strettamente necessari a far uscire quel filo di fiato prodotto da +un minimo movimento dei polmoni, mi disse con una voce roca e al +contempo affettata: “Il professore non può riceverla oggi,” pausa, “ma con +grande rammarico.” Nuova pausa. “Certamente potrà invece farlo domani. +Le chiede di perdonare questo contrattempo e volentieri le offre l’accesso +alla sua biblioteca, sperando di farle cosa gradita.” “Sperando di farle cosa +gradita,” ripetei nella mente accentuando la voce sgradevole. “È uno +scherzo? Vengo dall’altra parte del mondo per incontrarlo e mi vuol far +vedere i suoi libri?” Il maggiordomo per nulla scomposto dal mio pallore +livido e dalle narici che si tesero in una smorfia di stizza, aggiunse: “Le + faccio strada, signor Rameau, sono convinto che questo inaspettato +diversivo sarà di suo completo gradimento.” Proseguimmo per un paio di +minuti percorrendo un corridoio dal soffitto molto alto, illuminato da una +luce calda e pastosa: mi resi allora conto che l’appartamento di Shannon +occupava interamente gli ultimi due piani dell’Ansonia, un vero castello +nel castello. Giungemmo a una scala circolare, dalle volute maestose, salite +le quali si aprì una porta a doppio battente che dischiuse lo scrigno più +imprevisto e sorprendente di libri che avessi mai non dico visto ma +nemmeno pensato. A perdita d’occhio, scaffali su due o tre piani coprivano +ogni parete; scale robuste e ampie disseminate ovunque permettevano di +raggiungere i volumi più alti; balconcini veri e propri con ringhiere di +ferro battuto si sporgevano a intervalli regolari ospitando tavoli e +poltroncine dove potersi fermare a leggere in quel capolavoro di +architettura libraria. Alla fine dello stanzone si vedeva una scala che +portava al piano superiore; anche intorno alla scala, scaffali curvi di libri +in ordine ascendente, come un girone rovesciato. Dov’ero? +M’inebriava quella vista: tutte le biblioteche delle quali avevo letto, +ovviamente, sembravano riassunte in quel luogo. “Quando vuole, mi trova +premendo questo cicalino,” mi disse il maggiordomo che per un istante +sembrava essersi lasciato scappare un accenno di sorriso, in reazione alla +mia nuova espressione d’estasi. Quando fui sicuro che se ne fosse andato, +feci allora di scatto una cosa strana, infantile: mi misi a correre lungo una +parete, come per leggere il più velocemente possibile i titoli di tutti i libri +che incontravo, facendo passare il dito sul dorso; dove il dito sobbalzava, +perché un libro sporgeva più di altri, lì mi fermavo a leggere; ne aprii +alcuni. Guardavo subito sempre l’indice analitico: era per me la radiografia +del libro. Da lì si può osservare in filigrana per chi è scritto e dove e +quando e in chi e in cosa crede chi l’ha scritto, quali sono i suoi amici e i +suoi nemici, quanto si sente forte e quanto debole, quanto ha paura e +quanto invece dimostra coraggio. Un indice analitico svela al contempo +l’impalcatura e la rete vascolare che alimenta le idee che fanno il libro. La +biblioteca si estendeva su almeno tre piani. Mi fermai solo per chiedermi +quale movente potesse aver attratto l’attenzione di un uomo dotato di quel +potere e di quella sterminata e raffinata cultura – almeno da quel che si +poteva ragionevolmente dedurre – verso la lingua di Pietramala. Su un +grande tavolo di legno lucido, mi attrasse una pila di libri che qualcuno + doveva aver selezionato tra gli altri. Gli accostamenti, stupefacenti, erano +stranissimi: un testo barocco della Commedia di Dante scritto a ritroso, +dove il poeta ripercorre l’aldilà dal paradiso all’inferno; un Perì tou tou +protou antrhopou omphàlou, introvabile trattato di ontologia applicata +nella perduta traduzione di Boezio, quello dove per la prima volta si parla +di una frase ben formata ma senza senso come di una ordinatio dictionum +congrua sententiam nullam demonstrans; il saggio in tre volumi di +Mackenzie sul legame neurofisiologico tra orgasmo e starnuto nel maschio +della specie umana; il De minimo di P. A. M. Planck, il Triginta intentiones +umbrarum illustrato da J. M. Barrie; una guida rinascimentale su come +costruire il Colosseo con riga e compasso e comunque senza usare lo zero; +Il rosa e il grigio, grande e perduto romanzo francese dell’Ottocento +sull’affievolirsi delle passioni nell’Occidente e il trattato sulle Grammatiche +euclidee di Charlie A. Brown. C’era anche il manuale di chirurgia +addominale a paziente in stato di veglia di François Lanvert e Émilien +Lansarat, rarissimo e il Permutato ordine solo, il libro censurato di Turing +sull’alfabeto come modello della natura in Lucrezio; poi ancora il carteggio +tra C. Lorenzini e M.W. Godwin sulla Natura del vero Golem; il Libro degli +opposti, di Max Bolzmann, dove si spiega perché generare il freddo è più +difficile che generare il caldo; Flattongue, il libro postumo di Delu Delu +sulle lingue impossibili; il mitico Dictionnaire des toutes les pensees qui +peuvent entrer en l’esprit humain, de mesme qu’il y en a un naturellement +étably entre les nombres di M. C. Hardy in un originale del 1629 e un +manoscritto misterioso dal titolo Aabceeghiiiiiillmmnrstv contenente il +resoconto fatto a Marco Polo da parte di un angelo muto. Continuai più +inebriato che incredulo a percorrere le sale, ognuna dedicata a un dominio +culturale e temporale diverso, secondo un’architettura epistemologica +rigorosa e cosmica: dunque attraversai la fisica del Settecento e quella +dell’Ottocento, la gastronomia latina di età tardoimperiale e quella +barocca. Mi ritrovai anche in una sala più grande delle altre. Al centro, +stava uno scrittoio, sullo scrittoio legate tra di loro con un nastro azzurro +sette buste con sette lettere; le buste erano chiuse ma mi incuriosì il foglio +che le accompagnava – recitava: Sette lettere di sette personaggi famosi a +sette personaggi altrettanto famosi senza che molto cambi – e i titoli delle +lettere: Lettera di Cratete di Mallo ad Aristarco di Samo ovvero la fiamma ed +il cristallo; Lettera di Isaac Newton a Mendeleev ovvero del descrivere e del + comprendere la natura; Lettera di Galvani a Volta ovvero come nasce uno +strumento pratico da una polemica teologica; Lettera di Edipo a Ulisse ovvero +matto è colui che pone la mente fuori del tondo; Lettera di Jean-Baptiste de la +Quintinie ad Apicio ovvero dell’aggiungere e dello scartare; Lettera di Isaac +Barrow al dottor Semmelweiss ovvero del duello e della dimostrazione; +Lettera di Cristoforo Colombo al principe di Serendip ovvero del fidarsi. +Lasciai cadere per terra tutte le lettere; ebbi un capogiro violento. Venni +preso da un attacco fortissimo e imprevedibile di escatofobia: sarebbe +giunto presto il momento in cui quella visita sarebbe finita e io avrei +dovuto certamente rinunciare a qualche cosa. Avevo la sensazione che +ovunque guardassi il mio sguardo venisse soddisfatto esattamente dal libro +che andavo sognando di trovare. Troppi libri, troppi. E non tanto quelli +che riconoscevo: l’angoscia vera veniva da quelli che non conoscevo e mi +rivelavano curiosità che non sapevo di avere. Mi sembrava di essere +tornato ai tempi dell’università quando avevo letto moltissimi libri +semplicemente perché stavano accanto ad altri che cercavo e che alla fine +ignoravo. Quante volte, per me, il libro interessante era stato quello a +fianco del libro che cercavo, quello imprevisto e che per questo davvero +colma l’ignoranza. Trovare è scontato; scoprire è eccitante e all’eccitazione +della scoperta io non resistevo. Avrei voluto portarli via tutti, quei libri. +Oppure, avrei cercato di trovare il modo di rinchiuderli tutti in una +memoria portatile, così piccola da poter essere ingoiata in caso di pericolo. +Avere nella mia pancia tutto il sapere del mondo: forse era quello il mio +desiderio più grande. +Non ce la facevo più e non potevo rischiare di svenire lì. Tremando, le +mani sudate e fredde, schiacciai il cicalino: da una porta vicina alla stanza +dove mi trovavo – evidentemente erano tutte connesse da un reticolo di +corridoi – nel giro di pochi minuti comparve il maggiordomo: “Signor +Rameau, ritiene che la sua visita possa considerarsi conclusa?” +“Sì, grazie,” risposi io mentre sudavo freddo; sudavo sempre moltissimo +quando mi emozionavo, “ringrazi di cuore il professor Shannon” (stetti +attento a non pronunciarne il nome di battesimo, come mi aveva indicato). +“Il professore l’aspetta per domani sera a cena; si raccomanda di essere +qui presto e puntuale, per le sette, in modo da avere il tempo per parlare +insieme con calma. Mi ha pregato inoltre di comunicarle che non ci +saranno altri commensali.” E aggiunse, fingendo di pensarci al momento, + quasi distrattamente: “Non si preoccupi per l’abbigliamento; la cena è +informale.” Aveva capito benissimo con chi aveva a che fare; certo, se mi +avesse visto ai ricevimenti a casa della Signora sarebbe sobbalzato per la +mia eleganza, ma io non ero a mio agio con abiti diversi da un maglione +blu, una camicia bianca, e dei pantaloni sportivi: tutto il resto sottraeva +troppo tempo al momento di vestirsi costringendo a scegliere. +Avrei tenuto duro ancora per quelle ore. Si trattava di poco. Shannon +avrebbe certamente risolto l’enigma e mi avrebbe sbloccato da +quell’impasse insostenibile. Salutai il maggiordomo come si saluta chi si sa +che si rivedrà presto, anzi qualcosa di più: lo salutai come quando si saluta +il chirurgo il giorno prima di un ricovero, quando si è consapevoli che quel +volto sconosciuto che si è appena registrato labilmente nella memoria +diventerà invece presto familiare e che dalla sua espressione dipenderà il +proprio umore. Solo che non sapevo assolutamente perché. +[3.3] “Tutta la scienza, mio caro, o è linguistica o è collezione di +francobolli.” Da quella poltrona di cuoio, massiccia e avvolgente che +pareva un trono, Shannon pronunciò questa frase come avesse emanato +una bolla papale: superava di molto la forza e l’intenzione di una semplice +affermazione. Era un atto che diventava vero per il solo fatto che a +pronunciarlo fosse lui. Si presentò sorprendendomi nella sala d’attesa +mentre ero intento a osservare fuori dalla finestra la gente che passava su +Broadway. L’incontro come me lo ero immaginato il giorno precedente +non avvenne: tutti i convenevoli si concentrarono in una presentazione +sbrigativa con una specie di accenno di inchino da parte del professore. +Shannon, un uomo sulla settantina, emanava a prima vista ondate di +carisma palpabile. Più alto della media, indossava con classe un completo +di velluto marrone e una camicia rossa, con un colletto bianco vistoso e i +polsini chiusi da una coppia di gemelli di gemme azzurre. Il volto magro e +ieratico, come si addice a uno studioso di rango, era contornato da filo di +barba chiara molto curata. Al collo teneva degli occhialini da presbite +agganciati a una catenella dorata che tintinnava debolmente a ogni +movimento del capo. Si sedette sulla poltrona accavallando le gambe in un +gesto di eleganza aristocratica e sorrise. Tutto di lui e intorno a lui ispirava +saggezza, erudizione e accoglienza; tutto era preparato come secondo un + copione perfetto nel quale solo un quasi impercettibile odore di rancido, +che immaginavo provenisse da qualche grosso insetto morto, certamente +sfuggito a quella coreografia sontuosa e impeccabile, mi disturbò sia pure +solo per un istante. +“Dunque, signor Rameau,” disse con una vibrazione di voce +diaframmatica, profonda, coltivata sapientemente con tabacco pregiato e +caffè, “cosa posso fare per lei?” +“Mi chiami Elia, professor Shannon,” incalzai con un tono insolitamente +acuto e così rapidamente da coprire quasi le sue ultime parole. +“Va bene, Elia: cosa posso fare per te?” ribadì immediatamente. Pensavo +che pensasse che pensassi come mai non mi avesse proposto di chiamarlo +Ismael per ricambiare quel gesto di confidenza. Ruppe il silenzio che si era +creato, aggiungendo: “Non sopporto il suono della esse sonora, quel sibilo +che si trova in parole come rose (scelse rapidamente ma con accuratezza +una parola che suonasse allo stesso modo – per quel che importava – sia +in francese che in inglese e tenne la fricativa sibilante sonora più a lungo +del normale mostrando i denti e distanziando le labbra) ma non è il suono +in sé: è che non sopporto di sembrare un cadavere. Nel dire l’ultima +parola, alzò, sia pure di poco, il sopracciglio sinistro, come per +rimproverarmi di non aver subito sorriso e dunque di non aver capito la +sua battuta raffinata. Allora continuò sospirando lievemente: “Martianus +Capella, nel De nuptis Mercuri, raccomanda infatti di non pronunciare mai +questo suono, rappresentato in latino con la zeta: ‘Z vero idcirco Appius +Claudius detestatur, quod dentes mortui, dum exprimitur, imitatur,’ sospirò +compatendomi e aggiunse, per senso di cortesia, come se potessi non +sapere il latino: “Appio Claudio, in verità, per questa ragione detestava la +zeta, perché mentre veniva pronunciata si imitano i denti dei morti.” +Deglutii, come se mi avesse passato un boccone amarissimo, mi dissi, +forse a voce alta: “Sopporta, Elia, una cosa più da cani hai sopportato,” e +iniziai a raccontargli la mia storia, dall’arrivo a Pietramala fino al canto di +Clara Maria; non feci accenno all’incursione nella sua villa di Calvi, anche +se da un suo colpo di tosse nervosa in coincidenza con la storia del canto, +ebbi come l’intuizione che ne fosse stato diligentemente informato. “Ho +capito tutto,” concluse perentorio sorridendo, “e devi solo lasciarmi il +tempo di pensare, di mettere insieme il tuo racconto con quello che ho +trovato io. Sono sicuro che arriverò presto a una soluzione: c’è sempre una + soluzione,” aggiunse, sorridendo per la prima volta, “occorre solo affidarsi +alle persone giuste; il resto lo fa Dio.” “Affidarsi,” ripeté sillabando con +enfasi e accompagnando la parola con un gesto della mano destra per la +verità non troppo congruente con il significato; come se schiacciasse +qualcosa. Il maggiordomo arrivò con un biglietto che gli porse in silenzio +con due mani, e ci invitò a prendere posto nella sala da pranzo. Quello che +mi aspettava era per me una tortura: avrei dovuto sorbirmi una cena +raffinata e ben strutturata nell’ordine esattamente inverso a quello che +avrei voluto io. Avrei sentito il sapore del caffè, disgustosamente +preceduto invece che seguito da quello del formaggio, e poi su e su nella +catena delle portate, a ritroso per me; ma in quella impresa avrei dovuto +resistere perché il premio impagabile sarebbe stato quello di poter stare al +cospetto di un uomo così straordinariamente raffinato e colto, per non dire +altro. +Ci sedemmo a una tavola apparecchiata sontuosamente, affollata di +fiori e posate, e intorno a noi iniziarono a volteggiare camerieri zelanti che +non lasciavano mai nemmeno abbassare di troppo l’acqua nel bicchiere (e +poi quale acqua: potei scegliere perfino tra quattro tipi diversi di bollicine, +o perlage come mi dissero loro). Niente del cibo mi colpì, anzi cercai di +proposito di non notare niente, di lasciarlo transitare come un vento +inutile attraverso una casa sfitta: invece, bevvi, mangiai e trattenni tutte le +sue parole interrompendolo raramente. Disse che avrebbe messo a +disposizione tutto se stesso, e non avrebbe lesinato su nulla. Mi sentivo +fortunato come nessun altro al mondo. Aggiunse che dopo cena mi +avrebbe illustrato il suo lavoro di ricerca recente e passato e spiegato la +sua teoria generale del linguaggio: mi avvertì invece che a cena non +avrebbe parlato di linguistica; anzi, fu un avvertimento di ripiego perché +aveva iniziato con il dire che a tavola non c’è posto per le chiacchiere e +che il cibo andava gustato in silenzio e che quando mangiava non riusciva +a parlare. Questa sua ritrosia mi spiazzò: chi me lo faceva fare di mangiare +alla rovescia per parlare d’altro? Capì che non l’avevo presa bene e iniziò +con uno strano discorso; mi sembrava di stare di fronte a un prestigiatore +che ti indica la colomba mentre di nascosto dalla tasca estrae il foulard che +farà comparire a breve. La consapevolezza del trucco rovina la percezione +della meraviglia presente. + A tavola, contravvenendo ai dichiarati propositi di silenzio, Shannon +discettò soprattutto di evoluzione del linguaggio umano, una specie di +imbottitura galante del nulla. Poi, finito di mangiare, mostrò i muscoli +cerebrali, cambiò tema e si inoltrò nel giardino dell’Eden: “Ieri ho +conosciuto un cretino,” prese a dire con un registro inaspettatamente +garrulo della sua voce, “che si piccava di mettermi in difficoltà: sosteneva, +con un malcelato intento di lusingarmi, che solo noi uomini abbiamo la +capacità di creare simboli, cioè qualcosa che sta per qualcos’altro.” Cambiò +espressione, lasciandosi sfuggire un tono di stizza: “E un gatto che ti piscia +sullo zerbino, allora? Non è forse quello un simbolo? Pochi grammi di urea +che se annusati da un altro gatto sono interpretati come una delimitazione +di dominio territoriale cosa sono? La gente, caro Elia, non capisce nulla: +confonde la capacità di avere un linguaggio e di comunicare con la +struttura del linguaggio. Certo che i delfini parlano, e gli scimpanzé +parlano. Se è per quello parlano anche le api con le api, le scrofe con le +scrofe, le libellule con le libellule,” accennò con le mani al gesto rapido +dello sbattere delle ali di un insetto, “poi le api con le scrofe, le libellule +con le api, e così via,” rise, “sull’arca di Noè certamente nessuno stava +zitto. Ma da qui a credere che tutti per il fatto di parlare abbiano linguaggi +di struttura comparabile a quello umano, ah questa sì che è una vera +stupidaggine.” Sorseggiò il vino rosso trattenendolo per qualche secondo +in bocca, facendo poi schioccare la lingua: buffo, mi ricordava il verso di +una scimmia. Parlò di tutto, spiegò tutto. Shannon mi aveva appena +regalato una splendida lezione di linguistica e molto di più, anche se io +quelle cose le sapevo già. Forse stava semplicemente mettendomi alla +prova. Non sapevo se mostrare stupore – come si fa con quei professori +che si vogliono sedurre mostrando loro interesse e al contempo +confessando la propria ignoranza – oppure se farlo sentire a suo agio +mostrando che non aveva a che fare con uno sprovveduto, facendo +garbatamente capire che quelle nozioni erano già mio patrimonio e che +poteva permettersi di spingersi oltre con me. Nel dubbio, scelsi la +situazione più codarda: stetti zitto. +“Vedi, Elia caro, gli animali hanno dizionari di frasi, noi di parole.” +Questo pensiero – devo ammetterlo – era una gemma degna di essere +scelta come conclusione della serata ma fu guastata dal caffè, il sapore che +normalmente segnala l’inizio dei miei pasti. Il contrasto tra quel sapore + con il gusto ancora vivo della scelta di formaggi che l’aveva preceduto mi +aveva dato un segno di vertigine che dovette trasparire sul mio volto. Ma +Shannon continuò: “Il vero tzimtzùm che conta è quello della +combinazione di parole, Elia: è lì che Dio si ritira per far spazio alla sua +creatura preferita; si ritira per lasciarla divertire a dare nomi alle creature +e poi verbi per combinarli tutti insieme; e il cuore di Dio è un cuore in +ascolto.” Parlava e parlava e parlava e parlando gesticolava con una +maestria ipnotica; l’intonazione della sua voce si arricciava su melodie +inaspettate che faceva seguire da una rotazione della mano destra, e poi – +inclinando leggermente il collo, residuo ancestrale di una dichiarazione di +sottomissione – terminava facendo lo stesso gesto con la sinistra, quasi a +legare le due mani in rima. Avvitava e svitava pensieri nell’aria. Lui +parlava ma io ero talmente affascinato che non lo ascoltavo, anzi, come mi +capita anche oggi quando ho di fronte qualcuno di importante, mi rendevo +conto che non potevo guardargli entrambi gli occhi contemporaneamente +ma che dovevo sceglierne uno, gesto che normalmente si fa senza +pensarci. Allora mi prendeva l’ansia di non sapere quale occhio fosse +meglio puntare, esclusa l’alternativa di guardare esattamente in mezzo alla +fronte perché sembrava si guardasse oltre: impegnato in questo vano +artificio di simmetria e ovviamente cercando di nasconderlo perdevo il filo +del discorso con sguardo ebete. Provai pure io ad aggiungere una frase a +quel fiume in piena: “E cosa dire del fatto che non esista una sola lingua?” +Arrossii, perché, imbarazzato, mi accorgevo di copiare il suo stile, le sue +parole, perfino il ritmo del suo respiro; i percorsi della sua sintassi poi, +diventavano miei, e mi sentivo addirittura parlare con la sua voce. “È una +domanda interessante,” disse come dicono i professori che vogliono +trovare l’occasione per stroncare l’interlocutore sbattendogli in faccia +un’idea personale che banalizza la domanda, “è una domanda doppia: da +una parte occorre capire perché il sistema delle lingue è così elastico da +permettere delle variazioni, dall’altra c’è da chiedersi se queste variazioni +possono avere avuto un ruolo nell’evoluzione. È evidente,” continuò +rimarcando con una tale enfasi questo aggettivo dal fargli inghiottire il +significato di tutte le parole che lo precedevano e che lo seguivano, “che in +un mondo primitivo, dove agglomerati urbani enormi sarebbero stati +ingestibili, il fatto che i gruppi di esseri umani abbiano avuto la tendenza a +parlare lingue diverse non interpretabili mutualmente sia stato un fattore + di protezione evolutivo perché ha favorito la segregazione in gruppi di +dimensioni gestibili e ci ha permesso di continuare il cammino della +civiltà. Un’unica megalopoli, all’origine, ci avrebbe sepolti tutti,” sospirò +lasciando capire che non sarebbe stato un male e proseguì alzando gli +occhi al cielo, “Babele fu un dono.” +Mi guardò negli occhi e mi chiese di aspettarlo un istante; si alzò, si +allontanò dalla sala da pranzo come se si volesse sottrarre a un fastidio, +come se fosse concentrato in cose ben più importanti. Io, dal canto mio, +ero spiazzato: il fascino di Shannon mi aveva conquistato ma era evidente +– provai anch’io a enfatizzare lo stesso aggettivo con quella forza con la +quale l’aveva enfatizzato lui prima – che ero allo stesso punto di prima, +almeno per quanto riguardava Pietramala. Pazienza: diceva che ci avrebbe +dovuto pensare e in effetti, dimostrava con questo di essere una persona +seria, non un cialtrone impulsivo e vanitoso. Sarebbe stato sorprendente il +contrario e oltretutto mi avrebbe fatto sentire ancora più stupido di quanto +già non mi sentissi. Tornò molti minuti dopo tenendo in mano un libro e +me lo porse, dicendomi con un sorriso più ampio di quanto mi aspettassi +che quello era il suo regalo per me: era una copia seicentesca del +Concordia novi et veteris testamenti di Gioacchino da Fiore, nello splendido +commento di un frate domenicano di Milano. Nella scatola preziosa che lo +conteneva c’era una pergamena che recitava: “Ecce in subjecta figura +speculari poterit super hoc sacrum archanumque mysterium quod vix +verbis congruentibus plene sicut est dici potest.” Subito Shannon me lo +tradusse a memoria, accelerando un poco la voce evidentemente +spazientito dallo sforzo di adattamento verso un livello inferiore di +conoscenza: “Ecco nella figura qua si potrà riflettere su questo sacro e +arcano mistero: cosa che difficilmente si può esprimere completamente, +così com’è, con parole adeguate.” “Sorprendente,” pensai, “un linguista che +alla fine mi dice che le parole esprimono i misteri meno bene delle figure.” +La serata stava evidentemente finendo: Shannon mi disse che avrebbe +lavorato quella notte al mio quesito e che domani avrebbe avuto una +risposta per me. Non ricordo bene quello che seguì: ero troppo emozionato +per fissare la mia attenzione su particolari inutili. Il maggiordomo mi +venne a prendere, salii sull’ascensore dove attendeva Ireneo, scesi e mi +ritrovai per strada. Respirai l’aria fresca a pieni polmoni. Sentii il portone +del palazzo chiudersi alle spalle. Strinsi i pugni e pensai – o, forse, dissi a + voce alta: “Ce l’ho fatta! Shannon è un gigante ed è difficile, ma ce l’ho +fatta!” Avevo finalmente incontrato un maestro, una di quelle figure che +aspetti tutta la vita e che magari non arrivano. Mi fermai un istante sul +marciapiede prima di avviarmi verso l’albergo concentrato su quello che +avevo appena vissuto. Ismael Shannon, il grande Shannon, senza dubbio, +mi aveva conquistato e niente avrei desiderato di più nella vita di +conquistare io lui. L’avrei fatto: con un po’ di pazienza – mi dissi per +rassicurarmi – ma l’avrei fatto. L’amore di Pietramala mi sembrò allora +solo un pretesto. +[3.4] L’appuntamento con Shannon per la mattina successiva era fissato +alle dieci ma io, emozionato, mi ero svegliato prestissimo, ben prima che +fosse spuntato il sole. Per di più mi ero svegliato con una canzone in testa, +una canzone un po’ stupida dal ritmo accattivante e ripetitivo. Non mi +usciva più. All’inizio mi divertiva e ci giocherellavo, mi sembrava una +bella cosa farmela rimbalzare nella mente; poi mi accorsi che mi muovevo +seguendo il suo ritmo e mi spaventai. Ho capito presto nella vita che le +canzoni sono per me il sintomo di un’ernia dell’inconscio; a me non +servono i sogni per capirlo. Mi basta fermarmi e riflettere sulle parole che +sto cantando. C’è un pezzo di me sveglissimo che mi sta parlando e sbuca +fuori: talvolta può farlo in modo doloroso e strozzarsi. Decisi che dovevo +provare a farla rientrare cambiando ambiente: avrei camminato un po’ +lungo Broadway tanto per non arrivare in anticipo. +Faceva freddo e mi rifugiai in un diner alla 112esima; poca gente, quasi +solo persone che stavano per attaccare il turno della mattina. Facce di +plastica e rassegnate con addosso un’espressione dimenticata dalla sera +prima. Osservavo il cielo dalla vetrina del locale seduto sopra uno sgabello +alto dove mi ero appollaiato per sorseggiare un cappuccino. Il cielo era +cambiato: si percepivano ormai netti gli anticipi dell’inverno. Il colore +delle nuvole in quel momento ricordava quello della schiuma del mio +cappuccino; invogliava a intingerci i pensieri. Mi accorsi che ero felice: +tutto era lontano. Ripresi a camminare per Broadway; quando il sole sorse, +le nuvole si aprirono all’improvviso come fa una lama su un imballaggio di +plastica e la luce sbucò fuori intensa. Quando è radente, la luce di +Manhattan si trasforma da qualcosa che si diffonde a qualcosa che indica. + La luce di Manhattan – all’alba e al tramonto – è una luce che indica: non +sai mai bene dove e cosa, ma sai che punta altrove. E tu che credevi di +essere al centro, all’improvviso ti senti in periferia e sei costretto a +guardare lontano. +Il maggiordomo mi aveva fatto accomodare nella biblioteca. A un certo +momento, si spalancarono le due ante della grande porta di legno che +conduceva nell’ala privata della casa e dietro di esse Shannon comparve +come se fosse entrato in scena. “I campi delle Muse sono tutti mietuti, mio +caro Elia,” disse estendendo le braccia una dopo l’altra e indicando, ma +senza guardarli, tutti i libri intorno a sé con un ampio movimento +circolare. “Ti ho fatto venire qui perché qui saremo più tranquilli. La tua +domanda di ieri ha bisogno di una risposta molto articolata e dalla nostra +chiacchierata ho capito che con te non posso permettermi solo cenni +vaghi: devo essere preciso e puntuale come con un collega.” “Certo,” +pensai, “finalmente, un bell’inizio.” “Quando diventerò l’imperatore del +mondo,” aggiunse Shannon ridendo, “abolirò la stampa: solo quello che +vale veramente la pena di esser letto verrà scritto perché dovrà passare +attraverso il sudore del corpo e la fatica della scrittura a mano.” +Concordavo e sorrisi insieme a lui. “Sono dispostissimo a parlarti di +Pietramala, anche se ti preannuncio che non sono in grado di spiegarti +l’esito storico così disastroso di quel borgo. Tuttavia, sono decisamente +interessato alla decifrazione di quella lingua e, sia pure sulla base +dell’esiguità dei dati che hai ricavato dalla tua trascrizione del canto di +Clara Maria potremmo provarci.” Sudai quando pronunciò tua. +“Permettimi però,” aggiunse irrigidendo la schiena e sistemandosi il bavero +della giacca con le due mani, “che ti renda edotto su alcune delle questioni +fondamentali del linguaggio umano delle quali mi sono occupato: senza di +quelle, temo sia impossibile arrivare a decifrare la lingua di Pietramala. +Non sono facili, ma tu sei in grado di capirle e non ci sono scorciatoie. Alla +fine vedremo insieme il da farsi.” +“Il nodo centrale è legato al mio lavoro,” riprese Shannon facendomi +capire dal tono di voce che il discorso sarebbe durato a lungo, “e in +particolare a un evento del quale ti debbo informare. Durante un viaggio +in Italia, alcuni anni fa ho fatto una scoperta straordinaria della quale non +ho ancora parlato se non a pochissimi colleghi. La mia fiducia in te e la +situazione particolare nella quale ci troviamo mi hanno spinto a farti + questa confidenza delicata, nella certezza che tu non ne parli ad anima +viva,” sottolineò la parola certezza con uno sguardo diretto nei miei occhi +(anzi a un occhio solo, pur non sapendolo) che lasciava pochi dubbi, “e che +tutto quello che ci diremo rimarrà tra di noi. Nella cripta di una chiesa +romanica a Pavia, ho trovato una trascrizione medievale del De analogia di +Giulio Cesare, un testo mitico del quale si conoscevano solo alcune parti +citate da altri. Come sai bene, Cesare prendeva posizione rispetto a una +polemica che condizionava profondamente le riflessioni sul linguaggio di +quel periodo. Aspetta, Elia, non spazientirti,” doveva aver visto che mi ero +distratto e guardavo tutt’intorno quella sterminata biblioteca che parevano +essere le mura di Babilonia, “e ascolta: da qui avremo dati per capire cosa +accadde davvero a Pietramala.” Aprì il V e il VII libro degli Elementi di +Euclide e mi lesse le definizioni di analogia, quella generale come +simmetria tra quantità e quella specifica per i numeri. “Da Aristarco di +Samotracia e Aristofane di Bisanzio in poi,” aggiunse, “la nozione entrò +anche nelle riflessioni linguistiche, passando da criterio filologico per la +scelta dei testi originali da includere nelle antologie a criterio sistematico +per la costruzione di grammatiche e la valutazione dei neologismi.” Si +spostò, aprì una raccolta di testi ciceroniani e aggiunse che il termine +analogia entrò tradotto come “comparazione” o “proporzione” nella +terminologia tecnica latina, confermato poi anche da Vitruvio. +Stavo perdendo il mio tempo? Ero venuto a farmi fare lezione di latino +a New York mentre a me interessava capire cosa fosse successo a +Pietramala? Per quale motivo quel borgo fosse stato abbandonato +all’improvviso e la sua lingua completamente cancellata: questo a me +interessava. Dovevo aver parlato a voce alta, o forse sulla fronte era +affiorato il mio pensiero, se Shannon riprese dicendomi: “Sei molto +impaziente, Elia: francamente, un pessimo segno per uno studioso. La tua +salita al Parnaso non ammette scorciatoie, mio caro; devi guadagnarti la +cima per gradi, a piedi. Ti risparmio, per la tua fragilità, letture di +Quintiliano, Gellio, Scaurio, Diomede, Servio, Pompeo, Consentio, Isidoro +di Siviglia, Prisciano, il ‘nostro’ Marziano Capella e pure una delle poche +grammatiche donne,” alzò il sopracciglio di sinistra; ne sono sicuro perché +era quello dell’occhio che stavo guardando in quel momento, “delle quali +ci giunse notizia: Scironia Francisca. Cosa c’entra la mia scoperta in tutto +questo? Cicerone, che per motivi non (solo) politici elogia il trattato di + Cesare sull’analogia ne traduce il titolo in De ratione lasciando capire che +la definizione di ratio passa da quello di rapporto matematico a quello +assai più generale del rapporto ordinato tra le parole di un discorso.” +Finalmente si interruppe e si sedette su una di quelle poltrone enormi e +accoglienti che erano disposte a coppie vicino ai finestroni della biblioteca, +depose ogni libro e mi fece cenno di accomodarmi di fronte a lui. +Stavo per parlare, quando Shannon mi zittì perentorio: “Ed è qui che +arriva la mia scoperta. Il trattato sull’analogia di Cesare, dedicato a +Cicerone, era in realtà in due volumi e, accanto a quello sulla lingua che +copriva il primo, ce n’era un secondo molto più generale dove Cesare parla +di analogia e anomalia come elementi ordinatori del mondo contaminando +tradizioni orientali con la tradizione atomistica di Democrito. Svetonio e +soprattutto Marco Cornelio Frontone ci dicono che pur avendoli composti +durante l’atrocissima guerra gallica tra piogge di dardi al valico alpino +erano scritti con grande accuratezza e scrupolo. La lettura attenta del +secondo libro porta a una scoperta straordinaria: Cesare arriva a concepire +analogia e anomalia come due forze uguali e contrarie ma compresenti e +necessarie in una lingua umana e al contempo come le due forze +sufficienti a spiegare tutti i meccanismi della mente, non solo quelli +linguistici; ne dà un’esemplificazione magistrale in termini sia tattici che +strategici, ovvero sia disponendone i pensieri che controllandone la +dinamica. E Cesare, con quel metodo, venne,” sorrise, “vide e capì.” +Rimasi fermo. Rimase zitto. Un brivido prima lento e caldo e poi freddo +rapidissimo mi aveva scosso: dunque quello che sembrava essere un tema +sterile della filologia classica si rivelava invece essere lo strumento per +comprendere il propulsore di tutte capacità intellettive degli esseri umani. +Duemila anni fa, Giulio Cesare era venuto a conoscenza di un filone +filosofico che aveva raggiunto la sintesi più potente di sempre: l’equilibrio +tra analogia e anomalia è la chiave di lettura della comprensione di tutto e, +soprattutto, della mente umana e del modo con cui la mente riesce a +concepire e ragionare. La struttura del linguaggio umano diventava il +modello per comprendere la struttura ordinatrice del mondo. Non era più +solo l’alfabeto che poteva essere usato come metafora per far capire come +funzionano gli atomi: con questa teoria si spiegava cosa muove tutto. +Analogisti e anomalisti erano i due contendenti. L’analogista, da una +parte, non accetta il disordine magmatico del cosmo e va sempre a caccia + di un ordine nascosto nel quale spera, accantonando come eccezione i dati +recalcitranti sia pure solo temporaneamente e con dolore, in attesa di una +generalizzazione più potente che finalmente li sussuma; l’anomalista, +dall’altra, scettico di natura, recupera invece la fiducia e il senso solamente +nell’imprevisto, evento che rompe la noia altrimenti eterna di un reticolo +di simmetrie ripetute all’infinito senza significato; cerca insomma un +cristallo aperiodico che nelle sue irregolarità racchiuda l’informazione. A +memoria, mi recitò quasi in un sol fiato, questa volta già tradotto ad uso +della mia ignoranza: “Da quell’immenso grumo le particelle cominciarono +a fuggire in ogni senso, le simili a congiungersi alle simili, a sceverare il +mondo, dividerne le membra e dislocarne i grandi elementi, cioè +disgiungere dalle terre l’altro cielo, e in disparte il mare, affinché si +distendesse con acque separate, e distinti anche i fuochi dell’etere puro e +solitario.” Era l’inizio del mondo secondo Lucrezio. +Shannon, che evidentemente si era infervorato ripeté ancora “le simili a +congiungersi alle simili” facendo combaciare simmetricamente tra loro i +polpastrelli delle mani ben distese; poi si asciugò la fronte con la pochette +di seta amaranto e oro che portava nel taschino e mi osservò in silenzio +per un lunghissimo minuto. E riprese: “E Pietramala?” Io, come destato dal +torpore di un incantesimo, ripetei a voce alta: “E Pietramala?” E lui +ricominciò: “Il libro che scoprii a Pavia non era stato nascosto lì nel +Medioevo. La storia di quel testo ci porterebbe lontanissimo ma devo +fartene cenno perché ora sei pronto per capire il legame tra questi discorsi +che ti ho fatto e la lingua di Pietramala. Per motivi che non mi è dato di +svelarti, il manoscritto finì nelle mani di un manipolo di giansenisti verso +l’inizio del Seicento che lo portarono all’abbazia benedettina di Port-Royal +des Champs nella regione parigina della valle di Chevreuse. Saprai +certamente che fu lì che le idee del grande Cartesio ebbero considerazione +sistematica a tal punto che ispirarono centri di formazione chiamati +‘piccole scuole’. In quella sede, dove per volontà di Jacqueline Arnauld, +mère Angélique, una badessa illuminata ante litteram e appartenente a una +potente famiglia di Francia, trovarono ricovero e spazio per lo studio +menti del calibro di Pascal e Racine, prima che l’abbazia venisse +letteralmente rasa al suolo dalle forze cattoliche, in particolare dei gesuiti, +nel tentativo di sopprimere per sempre il giansenismo, il seme cartesiano +ebbe tempo di attecchire e sbocciare in campi diversi. In particolare, venne + pubblicato quello che tu sai essere forse il testo più famoso della storia del +pensiero linguistico moderno: la Grammatica generale e ragionata dove al +posto di ricorrere esclusivamente ad uno sforzo di tipo mnemonico si +scelse di basare l’insegnamento delle lingue ‘spiegandone’ la struttura +sulla base dei tratti universali, indipendenti dalle lingue specifiche. +Diedero con ciò sostanza all’intuizione cartesiana che il linguaggio fosse lo +spartiacque tra noi e gli animali perché ci permette di creare liberamente, +cioè senza alcun vincolo fisico, frasi sempre nuove, potenzialmente +infinite, e la legarono per sempre a quello che già Lucrezio e Galileo +sapevano, cioè che quella infinità si raggiungeva ricombinando cose +semplici secondo leggi semplici (come accade anche nel mondo fisico). Ma +gli intellettuali di quell’abbazia non si limitarono a proseguire le intuizioni +di Cartesio; venuti a conoscenza del testo di Cesare, alcuni di loro +cercarono di innestare su quella visione del linguaggio il tema del +contrasto tra analogia e anomalia generando con ciò una teoria globale del +pensiero. Ovviamente,” e sottolineò quell’avverbio con un altro improvviso +rialzo di sopracciglia dell’occhio destro, questa volta, “questa teoria non +poté circolare nemmeno nell’ambiente dell’abbazia, per quanto liberale. +Per garantire la possibilità di continuare questi studi, fu allora fondata nel +1617 una società segreta con sede nel Ducato di Milano, sul Lago +Maggiore, denominata il Giardino degli Equivalenti, che aveva come +missione principale, anzi come sua stessa raison d’être, quella di mostrare +che ogni cosa naturale nasce proprio dall’equilibrio tra anomalia e +analogia. Di questa società, che doveva avere affiliati in tutta Europa, non +si seppe più nulla se non che il Giardiniere Maggiore – così è denominato +il capo reggente di questa società – quasi due secoli dopo fece recapitare il +libro di Cesare a Giovanni Aldini a Bologna; siamo nel 1799. L’Aldini, +nipote di Luigi Galvani, segretamente schierato contro lo zio a favore di +Alessandro Volta nella polemica sull’elettricità come origine e segno della +presenza della vita, si liberò presto di questo libro scottante e lo portò a +Volta che a quei tempi copriva la cattedra di fisica sperimentale +all’Università di Pavia, gioiello della rifondazione dell’ateneo voluta da +Maria Teresa d’Austria. Il grande scienziato, ritenendo il libro di Cesare +non solo pagano ma addirittura ispirato dal Diavolo, lo consegnò +sbrigativamente a un frate in servizio presso la chiesa di San Pietro in Ciel +d’Oro nella stessa città, tal padre Ferré, che lo nascose sotto l’urna di + Boezio custodita nella cripta di quella chiesa proprio qualche metro sotto +l’arca di sant’Agostino, ritenendo che una sua distruzione non fosse atto +totalmente conforme alla volontà di Dio. Lì fu ritrovato e poi nascosto in +uno scantinato dell’Università di Pavia dove rimase per moltissimi anni.” +Tirò il fiato. La storia era di certo appassionante. Dalla Roma +repubblicana ero stato scaraventato al periodo barocco francese e da lì +all’Illuminismo italiano. Ma mi sfuggiva però ancora il nesso con +Pietramala: ero così stupido o ignorante da non vederlo? Come si +collegava la questione dell’analogia e dell’anomalia con un paese +abbandonato e una lingua pericolosa e maledetta? Non osai mostrare il +senso di vuoto che provavo. Shannon suonò un cicalino e chiese al +maggiordomo, che si era manifestato praticamente dal nulla, tanto che +quasi pensai che di maggiordomi ce ne fossero parecchi e tutti uguali +disseminati dietro gli scaffali della biblioteca, di portare dell’acqua +frizzante con perlage vivace, molto fredda, in una caraffa grande, con una +fetta di arancia rossa, tagliata ortogonalmente all’asse naturale della +stessa: non seppi aggiungere altro. “Ora, caro Elia, viene l’anello +mancante,” sembrò dire sorridendo, dove sembrò si riferisce a sorridendo e +non a dire, “quello che congiunge il mio lavoro con Pietramala.” Nel mio +cervello sembrava essersi destata una grancassa: ora si svelava il grande +mistero; ora stavo per assistere all’apocalisse privata. +“Tra i membri del Giardino degli Equivalenti c’erano politici francesi di +alto rango e la loro ambizione culturale ben si abbinava a quel potere. Dal +momento che la tesi centrale della loro filosofia era che è sufficiente che +un linguaggio rispetti in modo coerente i principi di analogia e anomalia +perché possa essere apprendibile e utilizzabile da un essere umano, +pensarono che il modo più diretto e indiscutibile per dimostrare la bontà +della loro tesi fosse quello di inventare una lingua artificiale e farla parlare +a una comunità almeno per qualche generazione. Ovviamente serviva una +comunità di persone poste in condizione di non entrare in contatto con +altre lingue, una comunità sufficientemente piccola ma non troppo, in +modo da poter essere autosufficiente, isolata ma non in capo al mondo, +nuova ma non facilmente individuabile. Trovarono perfetta l’idea di +costruire un borgo nel cuore montagnoso della Corsica nord-occidentale, +in alleanza con il ramo genovese della società segreta, e di popolarlo con +persone che avrebbero avuto l’obbligo di parlare solo e soltanto quella + lingua. Il potere e il denaro in quegli anni a loro non mancava di certo; +alcuni affiliati si trasferirono nel borgo per controllare che tutto +procedesse e un emissario del Giardino faceva loro regolarmente visita per +verificare che la lingua avesse attecchito. Il successo dell’impresa di +Pietramala sarebbe stato la dimostrazione concreta di quanto corretta +fosse la loro visione del mondo e il prestigio che ne sarebbe derivato +avrebbe dato loro modo di controllare la corte di Francia e da lì il mondo +intero. Il sogno fu infranto – mi pare sia ormai assodato – da un’orribile +malattia che sterminò quella popolazione di cavie inermi e fece crollare +miseramente quell’esperimento linguistico.” Qui s’interruppe, guardò +desolato verso il basso fissando con ostentata concentrazione un punto +che mi pareva poco significativo del pavimento e tirò un lungo respiro +mentre strinse tra loro le mani per sottolineare la sua angoscia toccante. +“Io,” continuò con la voce commossa, “scoprendo il testo di Cesare e la +lettera di accompagnamento all’Aldini da parte di un affiliato del Giardino, +mi sono reso conto per primo di quello che era avvenuto. Ora mi rimane, +anzi ci rimane – sottolineò il pronome fissandomi intensamente – da +decifrare la lingua e mostrare come la sua struttura derivasse dal trattato +di Cesare. È per questo che ho accettato di vederti Elia, perché – e, +credimi, mi sono informato nei minimi dettagli su di te – tu sei una delle +menti più fresche e brillanti della linguistica contemporanea e puoi darmi +certamente una mano. Tu e io insieme sveleremo il mistero della lingua di +Pietramala.” Sorseggiò l’acqua profumata d’arancia, non prima però di +aver contemplato come un raggio di luce colpendo la brocca di cristallo +avesse generato migliaia di piccoli arcobaleni da ogni bollicina. +Fu un commiato silenzioso, come quelli che ci sono a margine di una +vigilia, quando non sai bene cosa ti aspetta e ogni augurio, per quanto +limitato, suonerebbe nefasto. Avrei mai visto la fine di quell’impresa? Se +per tre secoli il mistero della lingua di Pietramala era rimasto sigillato, +avrei mai io potuto contribuire alla sua decifrazione? Ricordai la frase di +un mio vecchio professore: “Le cattedrali venivano iniziate da chi non le +avrebbe mai viste finite: erano regali fatti a chi non esisteva ancora.” +Luminoso Medioevo che sapeva vedere oltre la vita di ciascuno nella vita +dei prossimi e meno prossimi, che riusciva a scrivere in una lingua +comune, deponendo la propria. Avrei saputo io lavorare per chi non +esisteva ancora? + [3.5] E passò anche quella notte e ridivenne giorno. Nella testa lottavano +pensieri contrari. Il primo mi diceva che era meglio morire in novembre, +quando il buio precoce delle notti anticipa quella senza fine rendendola +naturale. Difficile, difficilissimo, invece, il secondo si insinuava +lasciandomi credere che fosse invece meglio morire in giugno, quando +l’aria nuova piena di luce gonfia i desideri fino a renderli incompatibili con +le possibilità del mondo. Non capivo da dove venisse questa condizione +interiore così contrastante di mezza mattina; una condizione che non mi +sembrava al contempo né cupa né confortante. Di pensiero in pensiero, +ero approdato, come spesso mi capitava, in quello strato dell’anima dove la +tristezza e l’allegria non sono definite e si è ancora in ricognizione per +trovare una ragione che ci faccia decidere se e per quale sentimento +propendere. L’unica cosa certa è che era novembre e che dunque nulla +poteva frenare quel sillogismo emotivo e farmi dire che mi sembrava facile +morire: come constatazione, non come lamento. Come mi fosse venuto in +mente di pensare alla morte non mi era evidente. C’era stato, in effetti, un +elemento scatenante per quella mia condizione, una scintilla incontrollata +che quella mattina aveva acceso la miccia dei ricordi, che, per questa volta, +non intendevo estinguere. Lasciai dolcemente esplodere la bomba: avevo +pensato ai miei genitori. Tutto sarebbe stato meno pesante da sopportare +di quel vuoto che mi portavo dentro sottolineato ma non causato dagli +inquietanti modi di Shannon. +Fu così brusca la rottura. Una domenica pomeriggio – avevo sette anni +– mi dissero di raccogliere tutte le mie cose e che sarei andato ad abitare +dalla Signora mentre loro sarebbero andati ad abitare in case diverse. Le +mie cose a quel tempo erano molto precise e trasportabili. Erano i miei +giornalini e le mie macchinine e una scatola di latta come un grosso libro +dove tenevo dentro dei fogliettini con una raccolta di frasi che mi +piacevano, i miei disegni di rifugi sotterranei che progettavo ogni giorno e +le grammatiche segrete che mi ero inventato. Non li rividi mai più: mi fu +solo reso noto, anni dopo, che morirono poco dopo entrambi, distanti tra +di loro, per due incidenti banali domestici; non si spiegarono, dissero che +un giorno avrei capito, lasciando supporre che ci fosse una spiegazione +alla banalità che sembrava aver generato tutto quel male. Smisi di +chiedermi ogni giorno se quello fosse il giorno giusto solo pochi anni +prima di allora. Non avevo molti ricordi dei miei: l’unica cosa erano le + lettere che si scrivevano e degli appunti di lavoro. Quante volte rilessi +quelle lettere nel tentativo di ripercorre la loro storia fino ad arrivare a +provare il motivo della rottura e dunque ad accettarne il senso. Ma ogni +volta, al contrario, quell’amore, col tempo, mi pareva riaccendersi. Mio +padre era innamorato di mia madre come pochi uomini al mondo e ne era +ricambiato senza dubbio: lui era un giardiniere, figlio di giardinieri. Non +qualsiasi, certamente: discendeva, da parte di madre, dai La Quintinie, il +cui capostipite fu giardiniere di Luigi XIV di Francia, il Re Sole; da lui +avevo preso il fisico forte. Mia madre, invece, era una cuoca, una delle +pochissime cuoche, forse l’unica, ammesse a lavorare nelle cucine del +Vaticano per il Santo Padre; donna bellissima, minuta, di un’eleganza +naturale e proporzionata che la faceva sembrare sempre fuori luogo tra le +altre donne. Fu proprio in Vaticano che si conobbero. Il loro primo +incontro fu un litigio: lei gli aveva chiesto in emergenza un ciuffo di foglie +aromatiche che provenivano da una pianta di alloro ornamentale di uno +dei giardini dietro la basilica e lui le aveva risposto, piccato, che non +avrebbe più potuto togliere nulla da nessuna pianta. Lei insistette, dicendo +che assolutamente non poteva non aggiungere quel sapore al piatto che +stava preparando; lui perse le staffe e le disse che non capiva nulla di +giardinaggio e che strappare anche un ciuffo avrebbe compromesso la +simmetria della pianta. Si rimbeccarono per un’ora – mi raccontava mia +mamma – con lui che diceva che l’arte del giardiniere è l’arte del potare, +del recidere, del selezionare, del levare quel che inutilmente cresce +spontaneamente e niente di più; mentre lei diceva invece che la cucina era +l’arte dell’aggiungere, progressivamente, accumulando quel che è +essenziale a partire da zero. Si convinsero che entrambi amavano +l’equilibrio quando, da una parte, mia mamma fu costretta ad ammettere +che il segreto della sua cucina era la riduzione della salsa, quella +condensazione ad unum degli ingredienti, l’epifania dei sapori uniti in +sintesi in un unico sapore analitico dal quale tutti discendono, e, dall’altra, +mio padre dovette riconoscere che la potatura perfetta avviene solo se la +pianta è stata nutrita somministrando, dunque aggiungendo, luce, acqua e +sostanze minerali, in quantità minime certo ma pure indispensabili per +permettere una crescita rigogliosa e indifferenziata. Insomma si erano +riconosciuti l’uno nell’altro e dunque amati. + Uscii dall’albergo con questi pensieri in testa e l’intenzione di salire +verso la zona della Columbia; avrei fatto un salto in biblioteca, magari +prendendo un po’ di appunti dopo aver rinfrescato la storia dell’abbazia di +Port-Royal. Quella sera avrei cenato con Shannon e avremmo stabilito la +tabella di marcia per la decifrazione della lingua: non mi sarei fatto +sorprendere nell’ignoranza di qualche dettaglio. +Il pensiero dei miei, intanto, non se ne andava: fu la vetrina di un +negozio su Broadway a riacciuffare il filo del ricordo. Mi tornò in mente +un suo racconto e mi parve di rivederlo, quando si erano appena +conosciuti, mentre andava di nascosto a osservarla da lontano +impacchettare regali in un negozio del centro nei pomeriggi della +settimana di Natale dove lavorava per arrotondare lo stipendio del lavoro +come cuoca. Lui non osava entrare: stava dalla parte opposta della strada, +intirizzito, col bavero rialzato e un cappello di feltro a tese larghe, scuro, +calcato sulla fronte; appoggiato a un vecchio portone fumava tenendo la +sigaretta con la mano nuda mentre l’altra stringeva un guanto; e lei +fingeva di non accorgersene, finché un giorno non incartò un guanto e +corse fuori a portarglielo per poi ritornare dentro di corsa nel negozio, +senza dirgli niente. Da quel giorno si videro sempre e sempre stettero +insieme. Poi ci furono tre anni a Parigi dove andarono entrambi a lavorare: +furono anni meravigliosi per loro e, appunto, lì nacqui io. Mia madre si +occupò della mia educazione. Pur non essendo particolarmente colta, volle +che io studiassi ma non poteva permettersi di mandarmi a una scuola, +soprattutto perché io fui precocissimo e già a quattro anni pretesi di +imparare a leggere e scrivere. Verso i sei ci fu la famosa questione del +tedesco e dell’inglese. Mi venne anche in mente che lei, che non sapeva +l’inglese, alla sera si faceva passare i quaderni coi compiti da una signora +cinese che aveva un figlio della mia età che studiava inglese: li copiava, +seguiva alla lettera con precisione tutte le istruzioni per svolgere gli +esercizi, che poi io eseguivo, e successivamente li restituiva alla signora +per un controllo. La signora cinese non poteva accorgersi che la mamma +scriveva in inglese senza capirlo e finì col rivolgersi a lei in inglese: cosa +che ebbe effetti catastrofici su mia madre che non sapeva come giustificare +quella situazione imbarazzante potendo solo reagire con grandi sorrisi. Per +la matematica era più facile: mia mamma sosteneva che la cucina è tanto +più efficace quanto più c’è di matematica, dunque per lei era normale + cucinare un risotto calcolando i tempi di cottura in funzione degli +ingredienti e preferiva ricavarli lei usando i quaternioni che copiarli dai +ricettari. E di quegli anni ricordo anche i racconti di viaggio di mio padre a +Londra, dove andava per seguire alcuni giardini all’italiana e a recuperare +materiale per il giardino francese del quale si doveva occupare a Parigi. +Non so se fosse per via del colore degli abiti o dei televisori di allora, ma +mi ero convinto che l’Inghilterra fosse un paese in bianco e nero. Una +volta portò a casa un cartone speciale, impermeabile, che avrebbe +utilizzato come campione per sagomare dei recipienti. Ricordo che mi +chiamò e disse: “Elia, provati queste.” Mi aveva costruito delle ali di +cartone e le aveva colorate di azzurro con dei tratti a matita che +riproducevano le penne. Non ho mai più volato così lontano come con +quelle ali. Quando tornammo a Roma, durante l’anno che vivemmo nella +villa della Signora sul Gianicolo, appena di fianco a Porta San Pancrazio, +salendo dalla strada del fontanone, ricordo che passammo giornate +struggenti, nell’affetto, nell’abbondanza e nel lusso. Una volta, mentre +stavamo rientrando in villa in un tardo pomeriggio estivo, mia madre si +fermò, si chinò – ricordo bene che aveva una gonna azzurra con un +piccolo spacco laterale – raccolse con la mano nuda una manciata di +ghiaia e mi disse: “Elia, li vedi, questi sassi? È la luce di Roma che li fa +sembrare gioielli. Solo qua la vedrai, questa luce.” E li depose per terra +riabbassandosi come per non rovinarli. Era vero, quella luce non l’avrei +mai più rivista. Furono anche anni allegrissimi: mio padre sapeva +raccontare cose qualsiasi in un modo così travolgente da trasformarle in +sceneggiate comiche. Ogni giorno c’era qualcosa che ci faceva ridere di +quelle risate che ti sembra di poter mandare il fiato solo in fuori e che non +riesci mai a recuperarlo. L’anno romano nella villa della Signora fu +davvero un anno felice, ricco. Finì. I miei si lasciarono e andarono a vivere +altrove, ciascuno per conto proprio e non li rividi mai più. +Non potevo capire il motivo di quella rottura allora e non posso capirlo +adesso: non che la vita con la Signora fosse stata triste. Ho vissuto, anzi, +come un principe e ho avuto la miglior educazione possibile, ma mi +rimaneva l’amarezza di non capire il motivo di quel cambio di scena +improvviso dove io ero stato trattato come una comparsa. Semplicemente, +non capivo; decisamente, non potevo capire. Ripetei dentro di me: “Non +potevo capire.” Sobbalzai: collegai quel pensiero a Pietramala e Pietramala + all’appuntamento con Shannon. Come avevo fatto a non accorgermi che +mancavano solo cinque minuti alle sei di sera? Sarei già dovuto essere di +fronte all’Ansonia mentre ero ancora in una biblioteca della Columbia. +Stavo per mancare quello che mi ero convinto fosse il più importante +appuntamento della mia vita e per giunta per una svista e per colpa mia. +Uno stupido è uno stupido è uno stupido è uno stupido e io ero uno +stupido. Corsi di volata a prendere la metropolitana; mi tuffai giù per le +scale, agguantai il primo treno e saltai fuori alla 72esima. Avevo solo +undici minuti di ritardo. Mi avrebbe perdonato? Ma stramaledissi quei +ricordi: ero lì per risolvere uno degli enigmi più affascinanti di sempre, +non per pensare al mio tempo perduto. +Il maggiordomo mi aprì immediatamente la porta. Una espressione +curiosa sul suo viso mi colpì superando per un istante la mia +preoccupazione di dover giustificare un ritardo, sia pure minimo. Pensavo +fosse contrariato del mio disordine: ero tutto scombinato, con la camicia di +fuori, ed ero accaldato e sudato, anche perché in casa Shannon faceva +veramente sempre un caldo insopportabile. “Il professor Shannon mi ha +chiesto di porgerle le sue scuse e mi prega di consegnarle questo +messaggio,” disse porgendomi la busta con entrambe le mani, accennando +addirittura un inchino. Senza parole la aprii rapidamente – non era +incollata – e immaginando che Shannon si fosse seccato per il ritardo +stavo già rovistando nella memoria a caccia di una citazione colta per +scusarmi. Estrassi il biglietto dopo essermi asciugato la fronte con +l’avambraccio. Devo essere sbiancato nel leggerlo, perché il maggiordomo +mi chiese se volessi dell’acqua. “No, grazie,” dissi. Scritte con una scrittura +elegante, a china nera, poche frasi al centro del biglietto dicevano: +“Carissimo: sono dovuto partire all’improvviso. Aspetta mie istruzioni per +raggiungermi. Riusciremo a farcela insieme! A presto.” Fu come scartare +un regalo sbagliato: avevo preparato un’espressione di gioia ma dentro +non c’era niente che mi piacesse. Anzi. + Capitolo quarto +Dicembre, ovvero quando vedere la vita degli altri ti fa capire meglio la tua ma non te ne accorgi e +scopri che in un mondo senza luce cambiano molte più cose dei colori. +[4.1] Dicono che gli amori nati in Africa non si estinguano mai. Non so se +ci credo perché non ho mai amato nessuno o perché non sono mai stato in +Africa. Quella mattina, comunque, Manhattan era la mia Africa e mi +mancava un amore da celebrare. “Non ho mai amato nessuno,” ripetei +muovendo le labbra senza voce, “Non ho mai amato nessuno.” Eppure, +quell’amore così intenso con Clara Maria, l’avevo vissuto davvero. Ancora +una volta l’Oceano aveva ridimensionato i ricordi di una sponda facendoli +diventare sogni sull’altra. L’unica certezza era il fatto che tornando in +Europa avrei potuto cercarla ancora, Clara Maria, e vedere se quell’amore +fosse stato veramente un sogno oppure no. +Quella mattina, in quel posto del mondo, occorreva però darsi da fare +per una cosa molto più concreta: dovevo cercar casa. Mentre aspettavo le +nuove istruzioni da Shannon, non potevo certo rimanere in albergo e +farmi pagare il soggiorno dalla Signora; pesare così tanto su di lei era per +me intollerabile, anche se per lei non ci sarebbe stato alcun problema a +comperarmi un attico su Central Park. Era una questione di orgoglio e di +principio. Decisi quindi di destinare quei giorni di intervallo alla caccia +alla soluzione – di questo speravo si trattasse – alla ricerca di +un’abitazione, provvisoria certo ma pur sempre più stabile di quella che +avevo: mi sarebbe bastato un appartamento o anche una stanza in affitto +per quei pochi mesi che prevedevo di passare a New York. +Decisi che avrei limitato la mia ricerca a Manhattan, e nemmeno tutta: +il motivo era che volevo stare vicino alla casa di Shannon, immaginando di +doverci andare spesso per discutere e lavorare insieme. Presi una di quelle +rivistine che si trovano in omaggio all’uscita dei supermercati con le +indicazioni di appartamenti in affitto e iniziai a organizzare la ricerca. +Sarei partito dalla 72esima ovest per risalire fino al massimo alla 110, + iniziando dal settore compreso tra Broadway e Amsterdam. Era una parte +dell’isola particolarmente felice: una sintesi ideale tra il clima +anticonformista ma un po’ artificiale che si trovava giù nel Village e lo +sfarzo inarrivabile dell’East Side. Quella zona sembrava un paesone dentro +la città; negozi di arredamento, mercerie, agenzie immobiliari, alimentari +per tutte le cucine, le religioni e le superstizioni, tintorie, perfino qualche +libreria, tabaccai, negozi di vestiti usati, di libri usati, catene di vendita di +medicinali e articoli sportivi, diner, articoli di carattere religioso di tutte le +religioni (ma meno rispetto agli alimentari), cinema, alberghi, cartolerie. +Insomma, quella varietà condensata che non ti aspetti in una città +americana lì c’era ed era tutto spontaneo e ben organizzato, forse proprio +perché spontaneo; in più c’era un servizio di metropolitana sull’asse da +nord a sud rapido, frequente e ben integrato con le linee degli autobus che +si spostavano sull’asse opposto, da est a ovest. Era la mia zona; almeno +così speravo. Mi capitò allora quello che nessuno pensa possa capitargli +quando inizia una qualsiasi ricerca sistematica e si predispone a controlli +razionali, ortogonali e trasversali, capillari ed estenuanti, confrontando +questa caratteristica con quell’altra, scomponendo e ponderando difetti e +pregi: quella volta la soddisfazione arrivò al primo colpo. All’altezza +dell’84esima Strada tra West End Avenue e Riverside Drive, a fianco +dell’ingresso di un teatro che doveva aver conosciuto momenti gloriosi ma +che attualmente sopravviveva, c’era una bacheca con un cartello scritto a +stampatello fissato con una puntina: “Cerchiamo una persona con la quale +condividere le spese di gestione del nostro spazio vitale. Cal e Ar.” Mi colpì +soprattutto l’espressione “spazio vitale”: non c’era scritto “appartamento” +o qualche sinonimo di moda, c’era proprio “spazio vitale”. In quel +momento, sapendo oltretutto che non avrei voluto rimanere troppo solo, e +che sarebbe durato per poco tempo, quell’idea di “spazio” e di “vita” mi +conquistarono. Strappai uno dei tagliandini con il numero di telefono da +chiamare e provai. Dall’altro capo rispose una voce maschile piena e +profonda che mi salutò. Immediatamente ricambiai i saluti presentandomi +a mia volta, ma la voce continuava a parlare imperterrita: era una +segreteria telefonica; insolita di questi tempi. Ma invece di dare indicazioni +in modo normale, prese a dire alternandosi con una voce femminile fresca +e dal timbro molto alto: “Un isolato o due a ovest della nuova Città degli +uomini nella Baia delle Tartarughe c’è un vecchio salice che presidia unff + giardino interno. È un albero malconcio; ha sofferto molto e su di esso si +sono arrampicati in tanti; è tenuto insieme da corde ma è molto amato da +chi lo conosce. In un certo senso simboleggia la città; la vita sotto le +difficoltà, la crescita contro ogni ragionevole aspettativa, lo scorrere della +linfa in mezzo al cemento e la continua ricerca del sole. Tutte le volte che +lo guardo oggi, e sento l’ombra fredda dei muri, penso: ‘Questo deve +essere salvato, proprio questa cosa qui, proprio questo albero.’ Se se ne +dovesse andare, tutto se ne andrebbe: questa città, questo dispettoso e +meraviglioso monumento, non curarsi del quale equivarrebbe alla morte.” +Ci fu un lungo silenzio. Aspettai di sentire ancora la voce dire qualcosa di +più preciso ma arrivò il suono di un applauso, un applauso di una sola +persona. Poi la voce concluse in modo brusco: “Descrivetevi brevemente.” +Appesi. Ci volevo provare. Rimaneva però da capire dove incontrare questi +Cal e Ar per vedere se davvero avessero un posto da offrirmi dove vivere. +Dovevo solo trovare un salice a Manhattan e – immaginai – insieme ad +esso altre istruzioni per incontrare quei due: mi incuriosiva troppo per +lasciar perdere, d’altronde non avevo compiti specifici e immediati; anzi, +dovevo cercare di trovare il modo di non spazientirmi troppo mentre +aspettavo il messaggio di Shannon. Rifeci il numero, riascoltai le due voci +alternate e diedi una descrizione di me che – ripensandoci ora – non +avrebbe convinto nemmeno me a incontrarmi. Eppure funzionò. +Non fu poi così difficile trovarli. La “Baia delle Tartarughe” era un +rettangolo di isolati a Manhattan tra la 43esima e la 53esima a est tra la +Lexington e l’East River. Imboccai la 53esima, non tanto perché era il +limite superiore, né perché passava di fronte al MoMa dove avevo +trascorso tanto tempo a guardare la gente che guardava i quadri. La +imboccai e la percorsi fino a Park Avenue perché avevo voglia di provare +la gioia fisica che mi dava il Seagram Building: vero monolite razionale +dell’epoca moderna, racchiudeva un senso di perfezione che pochi +monumenti sapevano risvegliare in me. Il Pantheon, casa Farnsworth, +Castel del Monte erano, per me, gli unici che potevano competere. Mi +fermai. Mi sedetti sul bordo delle fontane e guardai in alto. La fortuna di +quel pomeriggio di dicembre rendeva il colore ambrato dei vetri e del +bronzo delle finiture esterne un prolungamento solido delle tinte del +tramonto. Un parallelepipedo slanciato e alto, ma al contempo robusto e +imponente, intessuto di ritmi regolari e simmetrici, dotato di proporzioni + che sfidavano quelle di un tempio dorico. Provai un capogiro che +sembrava non fermarsi: cielo, finestre, cielo, fontana, cielo, finestre, cielo; +mi resi conto in quel momento che un giorno quel palazzo non sarebbe +stato più lì. Crollato per infarto strutturale, abbattuto da una bomba o +semplicemente smontato: prima o poi sarebbe finito anche quello. Non +potei più resistere a guardarlo a lungo senza allora sentirmi abbattere o +smontare anch’io. Mi alzai rapidamente e ripresi il cammino lungo la +53esima tenendo gli occhi ben fissi al selciato. Dovevo arrivare “a uno o +due isolati a ovest” della “Città degli uomini”. Interpretai quell’etichetta +come la sede delle Nazioni Unite (poco importa se fosse davvero corretto o +meno) e con la piantina alla mano mi spostai verso ovest sempre lungo la +53esima. Mi aggirai a tentoni tra quegli isolati alla caccia di un giardino +interno; sulla 49esima a metà tra la Seconda e la Terza Strada, tra una +costruzione in mattoni e una palazzina elegante di pietra in stile floreale, si +apriva un varco protetto da un cancelletto ben curato. Il cancelletto era +aperto, entrai e percorsi una decina di metri e mi ritrovai in quel +giardinetto privato indicato nel messaggio. Riconobbi l’albero; non c’era +molto intorno, solo due panchine, un tavolo di pietra e una piccola +veranda dalla quale proveniva una luce calda che lasciava intravedere, +attraverso il vetro lavorato in rilievo, due figure sedute. Bussai e aprii io +stesso la porta, dopo aver sentito la voce di una ragazza che mi invitava a +entrare. Avevo riconosciuto in quella voce una delle due della segreteria; +entrai sicuro. +Seduti su due panche di legno, uno di fronte all’altra, con le braccia +incrociate e appoggiate su un tavolo ricoperto da strati di fogli, stavano un +ragazzo e una ragazza: la ragazza aveva un viso ovale e pallido, dai +lineamenti raffinati, sul quale parevano galleggiare due occhi chiarissimi +quasi troppo grandi; dalla cuffia di lana colorata fatta a mano spuntavano +ciuffi di capelli biondi e lisci; mi sorrise subito e le labbra di un rosa tenue +si distesero rivelando una bocca grande, con i denti perfetti e bianchissimi, +che riequilibrava la dimensione degli occhi, sormontata da un nasino così +piccolo da sembrare il ricciolo di un angelo. Aveva un fisico decisamente +asciutto, ma non dava impressione di fragilità: le spalle ampie +incorniciavano il seno appena pronunciato, che premeva contro la maglia +blu. Di fronte a lei un ragazzo nero; era grasso, molto grasso, ma ben fatto, +dalle proporzioni quadrate di certe statue barocche, con un viso + intelligente sul quale due occhi di un blu scuro inaspettato si muovevano +rapidi e sembravano notare tutto. Si alzò in piedi scostando la panca con +fragore per venirmi incontro e darmi il benvenuto: “Sei Elia, giusto?” disse +con una voce profonda come il motore in folle di una Harley-Davidson. +“Vieni, accomodati.” Era ingrassato al modo dei cherubini, cioè +perfettamente. Perché si può ingrassare in tanti modi diversi. Quello dei +cherubini è il migliore. La pancia sporge in fuori rotonda, sorretta da +gambe tornite e sovrastata da un petto ampio e paffuto; la linea spezzata +immaginaria che congiunge i capezzoli con l’ombelico, che lascia +intravedere il suo incavo profondo di sotto alla maglietta bianca, forma un +perfetto triangolo equilatero al centro del quale sta lo stomaco, propileo +del mondo esterno verso quello interno. “Vieni, accomodati,” ripeté +sorridendo, avendomi visto incantato a osservare quella specie di lanterna +magica dentro la quale ero capitato. Un buon profumo di agrumi – lo +stesso della mattina – si era diffuso nell’ambiente: mi offrirono una tazza +di tè scuro, poco zuccherato, e una fetta di torta allo zenzero. +Le presentazioni formali si esaurirono in pochissime battute, fu il resto +a prendere subito il sopravvento. Prima fu il mio turno. Non riuscivo a +togliere gli occhi da quei fogli sul tavolo, disordinati, zeppi di note a +matita, di richiami, di frecce, cerchi e dove si arricciavano appiccicati +ovunque promemoria di vari colori. Capii immediatamente che si trattava +di un copione. “La tempesta,” dissero insieme sorridendo e sorridendo +insieme, alzandosi in piedi di scatto, aggiunsero: “e questi, signore e +signori, sono Ariel e Calibano; rispettivamente, lo spiritello e il mostro.” +Scoppiarono a ridere, indicandosi l’un l’altro e sottolineando la +presentazione con un inchino che sembrava non finire mai. Mi spiegarono +che avevano costituito da due anni una compagnia teatrale e che stavano +ora mettendo in scena La tempesta. Li guardai in silenzio, dovevo avere gli +occhi lucidi perché Ariel mi diede una carezza e mi propose di abitare con +loro; Calibano rafforzò l’offerta battendo forte una contro l’altra le mani +enormi. Non usò più l’espressione “spazio vitale”, quella era ormai +scontata e troppo difensiva: dovevo essergli piaciuto. “Prepariamoci,” disse +Calibano, “andiamo a vedere casa nostra; speriamo ti piaccia.” +Ci incamminammo lungo la 53esima, risalendo alla Quinta sul lato est +di Central Park per poi tagliare e raggiungere l’84esima e da lì il teatro +dove avrei trovato l’appartamento. Ero molto curioso di vedere come + sarebbe stata la stanza. Se l’atmosfera era come quella che avevo trovato +nella veranda, sarebbe stata accogliente e un po’ magica: non sapevo +ancora cosa mi avrebbe aspettato. Durante il tragitto a piedi, come capita +quando si fanno viaggi in treno e si incontrano passeggeri simpatici, ci +raccontammo di tutto, forse inventando anche un po’. Spiegai loro che ero +un linguista, che ero venuto a New York per lavorare con uno specialista e +che mi sarei fermato per qualche mese. Loro, di controcanto, mi +spiegarono della passione per il teatro, di come si erano conosciuti alla +scuola di recitazione di New York e della loro speranza di sfondare nei +circuiti indipendenti a Manhattan. Si tenevano per mano, senza stringerle, +mentre camminavano, le dita si sfioravano appena e sembravano giocare. +Erano ormai le dieci di sera e mi impensieriva attraversare il parco. Non +l’avrei fatto se non fosse che il loro passo infondeva sicurezza e una certa +allegria inframmezzata dalle frasi buffe che si lanciavano vicendevolmente +accelerando per poi fermarsi improvvisamente: “Un bacio a forma di +narice d’angelo hai scolpito nei miei sospiri, tanto che ti zampillerei di +carezze se solo fossi la tua fontana d’estate,” disse Calibano saltellandole +intorno con un gesto che imitava l’acqua di una fontana rigogliosa. E +Ariel, di controcanto: “Io sono come il mio inverno: all’improvviso, un +vento notturno soffia sulla memoria e accende il desiderio di mandarini e +di candele dalla luce profumata. Scivolano le scarpe sulla neve inaspettata. +Ti attendo sotto la coperta, amore mio. Desidereremo mai ancora la +primavera?” “Inconsapevole angelo di te io sono e tu di me. E miracoli +faccio nel caffè della mattina e quando ti lascio i guanti nella tasca per +proteggerti dal freddo. E l’unica aureola che ti distingue la vedo quando ti +metti contro il sole in certi tramonti, forse in Corsica, a fine agosto,” +rispose Calibano, facendo finta di nascondersi dietro me, con l’effetto che +farebbe un cinghiale dietro un papavero. Alla parola Corsica ebbi un +sussulto: fu come quando senza aspettartelo ti senti chiamato per nome a +scuola e non sai se è un premio o una punizione. Non dissi nulla ma la mia +allegria evaporò tutta, seguendo il fiato tiepido che si congelava in +quell’istante sbuffando dalla mia bocca. +Quando fummo davanti alla porta, Calibano aprì con un grosso mazzo +di chiavi. Era la porta laterale del teatro: dava su una scala stretta e ripida +che saliva di due piani tra due muri disadorni: arrivati in cima, dopo aver +fatto scattare gli interruttori generali dell’impianto elettrico, Calibano aprì + una nuova porta che ci condusse in un ambiente che sembrava, anzi, che +era il corridoio dei palchetti del teatro; iniziava a sentirsi un buon odore di +legno e di cera, come solo nei teatri si riesce a sentire ancora. Scendemmo +uno scalone ricurvo, ornato da stucchi e velluti raffinati, e ci ritrovammo +all’altezza della platea: la pianta del teatro aveva la forma a campana, +come quelli italiani del Settecento, non era tanto grande ma neppure +piccolissimo. Ad occhio e croce poteva contenere qualche centinaio di +posti a sedere. Il palco era abbastanza ampio: il boccascena era squadrato e +semplice, interamente coperto di tela nera, che bene si intonava ai toni del +rosso che dominavano la sala. +“Benvenuto, Elia,” disse con la sua voce potente Calibano dal centro del +palcoscenico aprendo le braccia più che poteva. Sorrisi di controcanto con +uno di quei sorrisi imbarazzati come quando scarti una sorpresa e non +capisci cos’è. +“Grazie: è bellissimo, ragazzi,” risposi imbarazzato accennando un +inchino come se fossi in scena anch’io. “Mi portate anche a vedere la casa? +Ho fame e sonno, sono sicuro che mi piacerà e non vedo l’ora di +sistemarmi.” +Calibano guardò negli occhi Ariel: si intesero subito. Timidamente, ma +con l’aria di chi insiste perché sa di fare un piacere, Ariel si rivolse a me e +disse: “Elia,” sospese per un istante la frase, guardandomi bene e +sorridendo con una certa trepidazione, “ma è questa la casa! Noi viviamo +sul palcoscenico; spostiamo i letti solo per gli spettacoli alla sera e la +cucina, dietro le quinte, anche se è piccola permette di cuocere tutto quello +che vogliamo. Niente di speciale, s’intende: due fornelli elettrici e un +lavandino comodo; però funziona bene. Abbiamo anche un frigorifero +enorme.” +“Grande,” si affrettò a precisare Calibano come se stesse proseguendo +un discorso sospeso con Ariel. +“Enorme,” ribadì Ariel calcando il tono e non guardando affatto negli +occhi Calibano che sbuffò. +Non che mi stupisse troppo la situazione, date le premesse, ma iniziai a +capire perché avevano scritto “spazio vitale”. Prendere o lasciare: non +avevo tante alternative. Li guardai negli occhi, prima Ariel, poi Calibano, +poi Ariel, poi Calibano ancora e, passato qualche secondo, mi feci coraggio +e annunciai deciso: “Affare fatto, sono dei vostri.” Ariel e Calibano corsero + sulle scale laterali che salivano al livello del palcoscenico: si piazzarono nel +bel mezzo dello spazio teatrale e con un inchino maestoso, si fecero da +parte e mi invitarono a salire con loro sull’isola magica. +Fu una serata davvero speciale, quella. In poco tempo mi mostrarono +dove era il mio letto e dove mi sarei potuto collocare per la notte, mi +indicarono un armadio dove avrei potuto mettere le mie cose (era per la +verità parzialmente utilizzato, ma non mi sarei potuto confondere: io +usavo sempre e solo maglioni blu e camicie bianche; lì c’erano mantelli da +mago, un vestito da arpia, e tanti cappucci di seta blu). Cenammo molto +bene. Cucinò Calibano e non ricordavo di aver mai mangiato una pasta +così buona e abbondante, con ceci, acciughe, aglio e rosmarino. Il tavolo +era al centro al palco e non in pochi momenti mi parve di stare nel mezzo +di una recita. Se non fossi stato sicuro di essere solo, avrei giurato di +vedere nelle poltroncine, immerse nella penombra, qualcuno che ci +guardava. Notai che Ariel aveva sbuffato quando Calibano si era servito +per la terza volta di pasta. +“Hanno tutti paura della pancia, qua,” mi disse irritato Calibano. +“Questo è il mio regno. Lo ingrandirò,” aggiunse con una manata sul suo +pancione rotondo e sodo che risuonò profondo. Si servì, mangiò ancora, e +rivolto a me disse: “E non sanno che la pancia è il centro. Tutti a +nasconderla, perfino dalle preghiere. Ma quale ‘seno tuo’: sappiamo +benissimo che si trattava di ventre.” Declamò, con la bocca piena, apposta: +“‘Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è +germinato questo fiore’; il ventre – capisci, Elia? – non il seno,” disse lui, +infilandosi il pollice nell’ombelico. +E lei: “Poi così grasso russi e russi e russi tutta la notte da far tremare il +teatro. Lo sai, Elia,” guardò me, voltando le spalle a Calibano, “che aveva il +coraggio di dire che non russava? Non mi credeva: si convinse solo quella +volta che gli fecero ospitare un pappagallo che alla mattina, come prima +cosa, quando lui si svegliava gli rifaceva il verso.” +Calò un silenzio per qualche secondo. Scoppiammo a ridere così forte +che Calibano agitandosi ruppe lo sgabello sul quale stava seduto e rotolò +due metri più in là trascinandosi la tovaglia che si era infilato nel colletto +per ripararsi dalle macchie mentre mangiava. Per fortuna, la pasta era già +al sicuro dentro di noi. + Finimmo così quella strana giornata, iniziata da solo con un lunedì e +finita in tre che sembrava un sabato. Finimmo così, in tre, addormentati +sui nostri letti sul palcoscenico. Ci assopimmo sotto un cielo finto di carta +ma che a me allora sembrò più vero di quello che stava fuori. +[4.2] “Guarda che parlare del sole non ti riscalda affatto,” sbottò Calibano, +mentre in mezzo al palcoscenico si dimenava cercando goffamente di +tirarsi fuori dalla botola, cioè l’ingresso della caverna nella quale viveva il +suo personaggio, e storpiò gracchiando la voce di Ariel in falsetto: “E tu +non fai altro che dire che mi ami, mi ami, mi ami, mi ami, mi ami, come se +l’unica cosa che ti interessasse davvero fosse lo scatto intermittente della +tua mandibola quando pronunci queste parole.” Rifece il movimento della +bocca tante volte senza emettere suoni. +“Hai solo paura delle mie parole,” rimbeccò Ariel, irritatissima, “tu hai +sempre paura di tutte le parole: mi chiedo perché tu insista a voler fare +l’attore; puoi anche smettere se vuoi, puoi anche smettere di amarmi, se +questo è quello che preferisci.” +“Che paura hai tu, adesso?” riprese Calibano, che nel frattempo era +riuscito a tirarsi fuori dalla botola e si era messo in piedi, “mi hai +insegnato tu quale nome dare alle cose e ora ti ritiri? Forse perché ti ho +superato e ho capito che questo dono è una dannazione e che conviene +vivere e non saper parlare?” +Ariel, furiosa, sputando parole ancor più velocemente del solito, +alzandosi anche lei in piedi, urlò: “Ma non ti accorgi che non saresti +nemmeno in grado di dire quello che pensi, se io non avessi fornito alle +tue intenzioni parole che le rendessero conoscibili?” +“E che potere mi avresti dato con ciò? Sentiamo,” incalzò lui alzando +più forte la voce nel tentativo di sovrastarla come una nuvola che copre +rapida la luna. “Quale libertà avrei mai acquisito imparando a parlare? +S’intende,” continuò con tono ironico, “a parlare forbito e a pescare da un +oceano di parole dove prima avevo a disposizione solo una lanca marcia. E +quali nuove esperienze avrei vissuto? Sì, certo, mi hai insegnato un +linguaggio e una lingua e ora – grande guadagno davvero – sono perfino +capace di maledire e di maledirti,” disse gonfiandosi come dovesse +scoppiare. + “Ignorante, stupido nichilista,” urlò Ariel irrigidendo il corpo sottile in +un unico muscolo facendo emergere tutte le vene in superficie pronte a +sprizzare sangue, “ti venisse la peste rossa! Non capisci che se non parli sei +un animale, un meccanismo di carne?” Cambiò tono e citò, alzando la +sinistra con l’indice teso verso Calibano e piantandogli in faccia gli occhi +infiammati: “In qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri +viventi, quello doveva essere il suo nome. Ti rendi conto che perfino Dio si +inchina al linguaggio come unico nostro atto creativo? È dando nomi alle +cose che noi assomigliamo a lui. Ma tu non ci arrivi, no. Nomi belli e nomi +brutti, nomi precisi e nomi imprecisi, di cose che si contano e che non si +contano, propri e comuni,” saltellava come se volesse imitare i nomi, “fino +a quell’arte sublime e pura di dare lo stesso nome a cose diverse, che si +chiama ‘matematica’,” alzò gli occhi al cielo, un po’ troppo commossa per +essere sincera e continuò: “Ma tu ti sei visto? Credi che essere fatti a +immagine e somiglianza di Dio si riferisca all’aspetto fisico? Riesci a +crederlo vedendoti alla mattina allo specchio?” +“Grazie, allora, Ariel; ti ringrazio; davvero,” disse Calibano, suonando +inaspettatamente calmo e aggiunse, accovacciandosi sul palcoscenico e +riducendo progressivamente il tono della voce su note più profonde. “Ora +anch’io posso dare un nome al dolore e posso anch’io correre il rischio di +conoscere la pazzia, vero prezzo che si paga al linguaggio. Cosa darei per +poter non capire più le parole che già conosco e non impararne più di +nuove. Sfrondare la mia mente e renderla un tronco essenziale: senza +troppi rami, senza foglie inutili: fisso e impalato,” si mise diritto con le +braccia lungo il corpo, tirando indietro la pancia, “senza preoccuparmi di +ospitare nidi di uccelli d’estate e pipistrelli d’inverno. Questa è la vera +condanna: non si può tornare indietro da quello che si sa, come non si può +non ricordare quello che si è voluto vedere anche se ci si cava gli occhi. +Bel regalo mi ha fatto Dio, e tu con lui, mia Ariel, mio inconsapevole +angelo.” +“Non aveva alternative,” cercò di dire Ariel recuperando un tono +seduttivo nel tentativo di rimangiarsi il vetriolo, “mica poteva far costruire +a te il tempo e la materia e dare vita agli animali; ti poteva solo lasciar +dare i nomi a quel che aveva già fatto lui.” +“E non trovi umiliante,” sospirò inconsolabile Calibano, “che per +comunicare si debbano emettere rumori da un buco nel corpo, per giunta + proprio lo stesso buco che si usa in senso inverso per cacciar giù pezzi del +mondo? Non poteva Dio inventarsi qualcosa di meglio? Siamo davvero +animali schifosi: né piume, né pelliccia, né squame. Nudi.” Scosse la testa, +si sedette e se la prese tra le mani, infilando le sue dita grosse e grasse e +nere tra i riccioli. +“E cosa pretendi?” disse, evidentemente sorridendo, Ariel, “di emanare +il suono delle sfere celesti? O volevi forse un orifizio speciale dedicato +solamente a esprimere i tuoi santi pensieri?” +Quel battibecco mattutino, prima vago e lontano nel mio dormiveglia, +poi più forte e invadente, mi si era inopinatamente intrufolato vivido nei +timpani e da lì era risalito nelle pieghe del cervello aggrovigliandosi e +impastandosi con i sogni che si stavano invece ormai spegnendo: aprii gli +occhi e non ricordai subito dove fossi. Allora mi svegliai del tutto. Feci +rumore, di proposito, rigirandomi nel letto e Calibano e Ariel, sospeso il +litigio all’istante, si affrettarono a venire vicino al mio letto e mi sorrisero: +“Buon giorno, Elia,” disse Ariel, “scusaci tanto; siamo abituati a essere soli +e litighiamo spesso, ma non preoccuparti. Per noi è un allenamento.” +“Sì, un allenamento,” riprese Calibano, “un allenamento di quelli che +uno non farebbe e sostituirebbe con un pranzo. Per sentirsi creature,” +continuò imitando la voce acuta di Ariel, “ci sono solo due modi: sputare +fuori parole che nascono da dentro o ingoiare pezzi di mondo che nascono +di fuori; vero, Ariel? La porta è la stessa: è la direzione del flusso che +cambia,” concluse con un gesto che indicava questo snodo cosmico. +Sorrisero, anzi risero entrambi; era evidente che si volevano davvero +bene. E mi parve pure di capire che volessero bene anche a me. Accesero i +fornelli, aprirono il frigorifero, insieme distesero una tovaglia a scacchi +rossi e bianchi – di quelle con numeri di quadratini facili da calcolare – su +un tavolino comodo dietro le quinte e servirono una colazione fantastica, +miscelando colori e profumi sospesi in un equilibrio perfetto. Le +marmellate e le uova strapazzate sembravano comporre un mosaico +provenzale e il profumo dello sciroppo d’acero che scivolava sulle frittelle +le rendeva lucide come gioielli d’ambra. Fu un bellissimo inizio. Parlammo +ancora a lungo: di noi, di loro due, dello spettacolo che provavano, di me, +del mio lavoro. Non feci loro menzione di Pietramala, né di Clara Maria, +tanto era forte ancora il mio senso di passione e di timore per quello che +era successo che non volevo toccarlo. + La bellezza di quell’inizio non fu un fuoco d’artificio: continuò a +maturare e sbocciò in un’amicizia piena nei giorni a seguire. +Trascorrevano i giorni e, nell’attesa di un messaggio di richiamo da +Shannon – ero lì per quello, non me l’ero certo scordato – cercavo di +darmi da fare perché non mi assalisse l’ansia, né il rimorso di essere +andato via dalla Corsica. Imparai a dare una mano nelle prove di scena. +Calibano era il capocomico: gli attori arrivavano verso le prime ore del +pomeriggio e si provava fino a notte fonda. Vidi prosciugare la scena del +naufragio, quella del primo atto, da tutti i fronzoli inutili, fino a diventare +essenziale e scurissima, e zeppa di lampi e tuoni e sibili e grida – tanto che +mi chiesi se la mia memoria del viaggio verso Pietramala non avesse +involontariamente influito su quella progressiva riduzione all’essenziale +della prima scena della Tempesta. +Passavamo invece le ore che seguivano le prove a parlare insieme, +spesso sorpresi dalle prime luci del mattino che rendevano opalescente il +lucernario ovale che sovrastava la platea, per poi dormire fino a tarda +mattinata quando facevamo la spesa e riassestavamo il palcoscenico per le +scene da provare quel giorno. Imparai molto da quelle chiacchierate; +conobbi l’origine e la vita di Calibano e di Ariel, persone che ancora oggi +sono impresse nei miei ricordi come uno tra gli incontri più belli della mia +vita. Calibano era nato a Harlem, allevato dalla nonna, che apparteneva a +una antica famiglia Yoruba interamente deportata dagli inglesi dall’Africa +occidentale appena prima delle guerre napoleoniche, aveva vissuto i primi +anni della sua vita in uno stato semiselvaggio, parlando – da quel che +avevo potuto ricostruire – una lingua creola mai sentita; una specie di +chimera linguistica, formata dal tedesco e dal navajo, una lingua del +gruppo athabaskan meridionale che comprende anche l’apache. La nonna +l’aveva protetto e mantenuto in una condizione di isolamento insieme ad +altri bambini che parlavano la stessa lingua: Calibano diceva che forse nei +suoi primi anni era vissuto in una comunità di senzatetto clandestini che +aveva praticamente requisito una fermata della metropolitana verso la +Novantesima. Ancora oggi, sosteneva, quando si passa vicino a quelle +strade sottoterra si vedono talvolta dei fuochi, debole residuo della città +nascosta che un tempo era fiorita lì sotto. Qualche anno dopo, proprio +quando Calibano ebbe compiuti i cinque anni, per l’intervento di un +gruppo di volontari, fu data ai bambini la possibilità di andare a scuola e + imparare l’inglese. Aveva tuttavia mantenuto – così sosteneva Ariel – +qualche tratto magico ereditato dalla nonna. Era nato in febbraio in uno di +quei casi che capitano ogni diciannove anni quando in quel mese non c’è +luna piena: si diceva che i bimbi nati in un mese senza luna piena avessero +capacità divinatorie. Anche la nonna di Calibano era nata nello stesso +mese senza luna piena e i vicini spesso ricorrevano a lei per domande +importanti sul futuro; lei sosteneva di riuscire a oscurare il sole a +mezzogiorno e di mangiare strani funghi che faceva crescere nel cuore +della notte. Calibano, che si chiamava in realtà John Mark Baxon, si era +rivelato un allievo di intelligenza superiore e aveva finito con il prendere +un master in letteratura inglese alla Columbia e un dottorato sempre nella +stessa università. Lì aveva conosciuto Asya Natal’ja Yachaya-Bezuchov, +figlia di un diplomatico russo di origine persiana, che studiava storia del +teatro e che ora impersonava Ariel nella compagnia diretta da John Mark. +Asya era una ragazza con capacità matematiche straordinarie: non di +computo, ma di visione geometrica. Una volta, durante un periodo +trascorso a Ithaca, alla Cornell University, aveva vinto un concorso +riservato agli studenti: dovevano rispondere in tempo reale a un +professore che chiedeva quale figura geometrica risultava dall’incontro di +un piano ortogonale al punto mediano di una retta che passa per due +angoli opposti di un cubo con il cubo stesso. Asya aveva chiuso gli occhi e +tenendoli ancora ben chiusi per non farsi scappare l’immagine, aveva +alzato il braccio e dopo pochi secondi aveva gridato la soluzione. Amava +anche correre e nuotare, e solo nel nuoto era riuscita a coinvolgere John +Mark che peraltro non gradiva affatto la competizione. Forse lei ci era +abituata perché, a differenza di lui che era figlio unico, era l’ultima di otto +fratelli. I loro genitori li avevano chiamati coi nomi dei personaggi di +Guerra e pace e sorprendentemente ciascuno di loro ne aveva in qualche +modo ereditato tratti e carattere. Asya infatti si chiamava di secondo nome +Natal’ja come la figlia del conte Rostov. Asya non parlava volentieri della +sua famiglia; la madre era morta dopo aver dato la luce all’ultimo figlio, +rifiutando le cure per una malattia che alla fine aveva avuto la meglio su di +lei. Ricordava però spesso suo fratello Pierre: lo descriveva come un +ragazzo grasso e massiccio, nel quale la fantasia faceva a gara con la +capacità di amare. Ma lì si fermava; Calibano diceva che Pierre non c’era +più ma non capii mai se fosse solo partito o se non fosse più vivo. Di certo, + Ariel lo aspettava. Ariel e Calibano sembravano concepiti in opposizione, +eppure, o forse per questo, erano innamorati l’uno dell’altra veramente e +veramente inseparabili. Non caddi nella trappola sdolcinata di pensare che +fossero complementari l’uno all’altro: nessun amante completa l’altro. +Erano già completi o incompleti, poco importa, ma certamente, insieme, +erano qualcosa di nuovo, una vera emulsione di fragilità e di desideri: mai +fusi ma con una consistenza che da soli non potevano avere. +Insieme avevano passato gli anni del dottorato, si erano innamorati ed +erano diventati inseparabili. Non so se facessero l’amore; sembrava che il +sesso fosse fuori dalla loro vita, ma certo non i gesti intimi d’affetto e le +attenzioni. Spesso, vedevo precedere le offerte alle richieste, segno vero +che l’altro viene prima; si definivano “cirenei reciproci” nel senso che uno +portava volontariamente la croce dell’altro. Il risultato finale era che una +croce la portavano comunque, ma almeno avevano la sensazione di averla +scelta. Erano in qualche modo bellissimi, sia presi da soli – il corpo grasso, +forte e scuro di Calibano, quei suoi occhi blu contro l’armonia da gazzella +scattante di Ariel e il candore compatto della sua pelle che ricordava le +nevi della Russia – sia presi insieme. Nemmeno impegnandomi avrei +saputo inventarmi un contrappunto di tratti così indovinato: e anche +quelle esagerazioni che avrebbero potuto essere totalmente censurate +dall’occhio omogeneizzato dei canoni televisivi – il pancione rotondo di +lui e quel seno minuscolo di lei – erano diventati non qualcosa da +nascondere ma qualcosa da esibire. Anzi, mi raccontarono che fu proprio +quando smisero di aver vergogna del proprio corpo che impararono ad +amare l’una quello dell’altro, accorgendosi che per conquistare bisogna +intanto sentirsi in grado di offrire, non di prendere. +Le nostre chiacchierate vertevano su tutto ma avevano stranamente +sempre tre fuochi: il linguaggio, l’imprevisto e dio (o il diavolo). La cosa +strana è che non si capiva sempre di quale dei tre stessimo parlando, tanto +dentro di noi l’uno richiamava l’altro. Ricordo una sera, di fronte a un +trionfo di pasta con le capesante e crema di formaggio che John Mark +aveva imparato a cucinare da un suo amico pianista, iniziammo dal +linguaggio e finimmo con il diavolo. Fui io a innescare il domino di +pensieri. Chiesi dopo quante volte una parola ripetuta a catena perdeva +significato nella loro testa e ogni potere di richiamo dall’archivio della +mente. Ovviamente non erano d’accordo: Calibano diceva che non spariva + mai, Ariel che spariva già dopo la seconda volta. Provarono: provarono, +provarono, provarono, provarono e alla fine riuscirono. Naturalmente +scelsero gli insulti come parole e sempre più pesanti. Alla fine della scala +degli insulti, Asya, diventando tutta rossa urlò: “Animale!” +Questo era un insulto serio. Calibano, trasportato, si dimenticò che +fosse un gioco e si infuriò, si alzò in piedi aprì le braccia e gridò: “E tu +credi che se io lo fossi davvero capirei il tuo insulto? Stupida: gli animali +non parlano; non si può insultare con un insulto che non può essere +capito. Non ci arriverai mai. Se un maiale mi dicesse ‘sono un maiale’ per +questo stesso fatto cesserebbe di essere un maiale e sarebbe un uomo. E tu +mi dai dell’animale? Cos’è questo: un complimento?” +Silenzio. Ci fu un silenzio di quasi un minuto. Poi Ariel, scoppiò a +ridere, il che contagiò Calibano che scosse la testa e grugnì, grugnì sempre +più forte, tante volte di fila: “Va bene così? Sono sia un animale che un +maiale.” Si mise in piedi a gambe larghe, pancia in fuori, mani chiuse a +pugno sui fianchi e iniziò a recitare il monologo dell’Amleto sostituendo +ogni voce del verbo essere con un grugnito. S’interruppe bruscamente +perché, arrivati al terzo verso, una folata di vento fece chiudere la porta +pesante dell’ingresso della platea con un tuono così profondo da far +tremare le vene. +“Questo è il teatro,” disse con la sua voce tintinnante Ariel, aspettando +che anche la coda del boato si fosse completamente esaurita, tenendo gli +occhi chiusi stretti stretti che quasi le palpebre sembravano blu. +Rimanemmo in silenzio. Credevo alludesse al monologo di Calibano, ma +dovetti ricredermi. Ariel, con una voce tranquilla che sembrava davvero +essere quella di un folletto, disse: “Nessuno poteva prevedere questo +schianto. La porta era fuori dal nostro controllo. Questo è quello che +cerchiamo ogni sera quando andiamo a teatro e che ci emoziona e ci fa +trepidare di nascosto. Non è il testo, non è il confronto con le persone. +Questo lo danno anche i libri e il cinema: è l’imprevisto che cerchiamo in +teatro; non lo costruiamo, sappiamo che esiste e ci muoviamo ricordandoci +che può sempre arrivare e che ciò che esiste davanti ai nostri occhi è dato +ma che potrebbe cambiare all’improvviso. L’imprevisto, d’altronde, è unica +salvezza per tutti. A teatro sappiamo come dovrebbe andare, non come +andrà: la storia si dipana ma potrebbe prendere pieghe diverse a seconda +della reazione degli attori e degli spettatori alle condizioni cui sono + sottoposti; magari anche solo perché sbatte una porta. Il libro e il film, +invece, possono essere solo interrotti, non possono cambiare: sono fissati +per sempre e il loro inizio coesiste con la loro fine se non fosse che deve +passare attraverso la clessidra dei nostri sensi. È libertà dell’attore, se lo +ritiene opportuno, adattare una battuta a ciò che gli succede intorno. +L’imprevisto è un buco nel futuro, come direbbe Paulus Vartius, e al centro +del teatro non c’è che un buco.” +Rimasi in silenzio. Non ci avevo mai pensato. Ariel mi aveva +illuminato: l’imprevisto; ciò che non si può vedere prima. Vanno a teatro +solo quelli che tollerano l’imprevisto e anzi, ne fanno il sale della loro +esistenza e quindi lo cercano per condividerlo, come si condivide un +piatto. Forse era per quello che io non riuscivo più ad andare a teatro. +Forse – e mi stupii di accorgermene solo allora – la radice della mia +escatofobia era la paura dell’imprevisto. Forse, quegli anni passati a +esorcizzarlo l’avevano solo quietato ma non domato. Ricordo ancora la +mia reazione di disgusto a un congresso quando sentii sostenere che si +deve vedere lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato +precedente e come la causa di quello successivo. Un’intelligenza che, in un +dato istante, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la posizione +rispettiva degli enti che la compongono e in più fosse così vasta da +analizzare questi dati, racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei +più grandi corpi celesti e degli atomi più leggeri. Niente sarebbe incerto +per quell’intelligenza, e l’avvenire come il passato sarebbe presente +davanti ai suoi occhi. Quella per me era la morte. Il contrario del teatro, +dunque. Un brivido mi scosse così forte che rovesciai il bicchiere che +stringevo troppo forte. Calibano e Ariel mi vennero vicini: temevano di +aver esagerato; lo raccolsero e mi versarono da bere. Era tè, il loro tè scuro, +appena dolce e profumato: li guardai negli occhi. Mi capitò quello che mi +capita talvolta: vidi il viso di Asya già vecchio, dolce ma raggrinzito, +prosciugato dalla vita, e quello di John Mark, con i suoi occhi blu che si +intravedevano appena tra le palpebre grosse, stanco e molle. La fine mi +veniva sempre incontro quando provavo piacere per un inizio. Decisi che +avrei d’ora in poi usato quel sintomo per capire quando una situazione mi +piaceva davvero. Pazienza se sarebbe finita. Almeno era iniziata. Dovevo +accontentarmi. + “Tu ti accontenti mai?” mi chiese Ariel, come se mi avesse letto nel +pensiero. +“Non lo so, penso di sì. È la chiave della felicità, no?” risposi come si +deve rispondere, senza vergogna. +“È una stupidaggine,” disse invece con coraggio Calibano, “solo il +Diavolo insegna ad accontentarsi. Lui non ti promette tutto, ti fa credere +che ti basti qualcosa. Allora ti accontenti, ti senti sazio e sei morto. Punto.” +E in due mosse eravamo arrivati al Diavolo: partiti dal linguaggio, +passati attraverso l’imprevisto, eravamo approdati al più stupido dei temi. +Perché alla fine il Diavolo è semplicemente stupido: non lo fosse, non si +sarebbe messo contro Dio. La sua unica forza è non farsi riconoscere: +diresti che puzza di merda, invece ti fa dubitare che la rosa profumi. +L’atmosfera si era rabbuiata. Occorreva ripartire, altrimenti la serata +sarebbe morta e saremmo andati a letto tristi. Ci provai io: “Come parla, +secondo voi, il Diavolo?” chiesi con l’aria di chi aveva già una risposta +pronta e infatti fecero un cenno come per darmi il via senza troppi inchini. +“Il Diavolo, lo riconosci perché quando parla non usa mai la negazione.” +Dall’espressione fissa e stupita dei miei due amici, capii che li avevo +catturati: “Lo sapete che la negazione è uno strumento fantastico? È +capace di prendere una frase e capovolgere la verità che esprime. Se fuori +piove e ti dico non piove tu, se mi credi, pensi che non piova e per giunta +puoi dirlo anche se piove così nessuno può mai sapere se dici cose vere o +no. Il Diavolo invece non vuole dubbi: il Diavolo vende solo certezze +perché se sei certo non sei libero. E la negazione lo spiazza perché ti mette +di fronte a due possibilità.” Non dissero nulla: non sapevano se essere +convinti o no. Il loro dubbio mi fece capire che almeno lì il Diavolo non +c’era. +Trascorsero così due settimane intere tra prove, battibecchi, filosofia, +mangiate, sonni e risate. Ma quel retrogusto odioso dell’attesa non +riuscivo quasi più a contenerlo e a soffocarlo con nuove discussioni e +nuove prove. Perché Shannon non mi chiamava? Cosa stava accadendo? +Era in pericolo? Sarei forse dovuto andar contro al mandato e tornare io a +chiedere informazioni? Poi, mentre stavamo per iniziare una prova, tutti +sul palco, nel silenzio, sentii vibrare il cellulare in una tasca; nessuno +tranne Shannon, di proposito, aveva il mio numero americano, nemmeno +Ariel e Calibano: non ho mai posseduto un cellulare, d’altronde e l’avevo + comprato solo per questa evenienza. Lo afferrai e lo estrassi concitato +senza lasciarlo nemmeno finire di vibrare come se avessi un tizzone +ardente infilato nei pantaloni. Poche parole di un messaggio di testo: +“Raggiungimi a Boston. Passa da casa a prendere il materiale che ho +preparato per te.” Il fiato si dovette fermare per tutti quei lunghi istanti +perché quando ripresi a respirare si sentì forte e si voltarono tutti. Asya mi +guardò con l’aria di chi vede qualcuno morto rivivere: dovevo veramente +aver cambiato colore. Ma come avrei potuto fare altrimenti: l’attesa era +finalmente terminata. Iniziava la nuova fase. Perché Shannon aveva così +urgenza di vedermi? Cosa era successo di così grave da richiedere la mia +presenza immediatamente? Cosa c’era a Boston? Uscii di corsa in strada +per andare a casa di Shannon. Avevo così fretta che dovetti tornare +indietro: mi ero dimenticato di infilare il cappotto. Uscii di nuovo di corsa +ma poi dovetti ritornare: non avevo preso il portafogli. Tornai, lo ficcai in +una tasca qualsiasi. Sull’uscio mi accorsi, però, di non aver preso +nemmeno il cellulare, tanto la mia attenzione era stata risucchiata da quel +messaggio secco. Afferrai anche quello e uscii di nuovo. Non avevo preso +fogli né la mia matita. Tre tentativi per uscire di casa mi sembravano già +troppi; li lasciai a casa – così ormai mi ero abituato a chiamare la mia fetta +di palcoscenico – e mi tuffai di corsa lungo Broadway per arrivare +all’Ansonia. Stava per iniziare una storia nuova, o meglio il secondo tempo +di quella che avevo già vissuto. Si aprì la porta e il maggiordomo mi +accolse nella grande anticamera dell’appartamento di Shannon. +[4.3] Ero già di nuovo uscito dall’appartamento quando mi accorsi dello +strano pensiero che avevo in testa: mi chiedevo se fosse più scomodo per +noi vivere senza ali o per gli uccelli senza mani. Questo fu il pensiero che +mi sorprese quando il maggiordomo mi consegnò una cartellina con le +istruzioni e un indirizzo di Boston. Mi sentivo evidentemente come uno al +quale manca qualcosa di cui finora aveva fatto a meno senza saperlo. Non +l’aprii neppure; al tatto mi sembrava contenesse parecchi fogli; era +sigillata con la sua firma. Come quando capita che un pensiero domini +l’attenzione e il corpo dia la sensazione di muoversi comandato +dall’abitudine, così mi ritrovai nell’ascensore, dove Ireneo mi aspettava +sorridendo, avendomi riconosciuto dai passi. Ci salutammo, lui richiuse + con mano sicura l’ingranaggio e l’ascensore iniziò la corsa verso il basso. +Stavo cercando una scusa per rivolgergli più di uno scontato saluto +quando la sequenza naturale degli eventi fu interrotta bruscamente da uno +scossone violento; l’ascensore emise un barrito stridente, come di un treno +cui viene tirato l’allarme, e frenò all’improvviso e tutto piombò nel buio +più nero, come quando non si capisce se manca la luce o se sono gli occhi +che hanno smesso di vedere. L’oscurità era sigillata da un silenzio irreale +tanto era assoluto. Mi pareva mi avessero tagliato i sensi. +Ireneo, con tono rassicurante si rivolse a me e disse: “Non si preoccupi, +signor Rameau. Ogni tanto capita che ci sia un calo di tensione e che ci si +fermi. Si accomodi pure sulla poltroncina. Si tratta certo di pochi minuti al +massimo e poi ripartiamo.” +La poltroncina, pensai, e come faccio a trovarla? Ma certo; Ireneo è +cieco, non può sapere che è andata anche via la luce. “Ireneo,” dissi io +cercando il tono meno offensivo possibile, “sai cosa? È andata via anche la +luce: purtroppo non vedo nulla.” Mi imbarazzava dire proprio a lui che io +non vedevo nulla. Mi imbarazzava soprattutto perché io da lì a poco sarei +stato in grado di vedere ancora – anche se la certezza, confesso, non +potevo averla – ma lui no: lui sarebbe rimasto per sempre in quella +condizione nella quale io mi trovavo solamente per pochi istanti. Questa +situazione mi riempiva tenerezza e al contempo mi imbarazzava. +“Non +sia +imbarazzato, +signor +Rameau,” +riprese +Ireneo, +che +evidentemente ormai sapeva decifrare anche i sospiri delle persone, “non +ho mai avuto la vista io: sono nato così, non posso rimpiangere una cosa +che non ho mai avuto.” Come contraddirlo? Mi vennero in mente ancora +gli uccelli e le ali e notai come quello strano pensiero si fosse adattato +perfettamente a quella imprevista situazione attuale quasi l’avesse +anticipata. +“Hai detto una cosa davvero importante, Ireneo,” gli dissi senza calcare +il tono, con fare sincero, “una cosa che dovremmo tutti ricordarci.” +“Me la ricordo io, signor Rameau. Me la ricordo tutte le volte che parlo +con qualcuno, perché in fondo noi non possiamo mai davvero sapere cosa +manca a un altro o cosa lui abbia più di noi.” +Fui colpito da quel pensiero, così semplice ma inevitabile. Rimanemmo +ancora in silenzio, indecisi entrambi se romperlo per rassicurarci a vicenda +o aspettare che tutto riprendesse. Si sentivano solo i nostri respiri, che si + erano piano piano sincronizzati come i passi di chi cammina insieme. +Anche le volontà dovettero esserlo perché riattaccammo insieme a parlare: +“Non capisco,” disse Ireneo esattamente nel momento in cui io stavo +dicendo: “Deve esserci un sistema alternativo”. Ireneo provò a chiamare +con l’interfono ma nessuno rispose. Aspettammo ancora qualche minuto, +poi una voce dall’esterno, molto lontana, ci chiese se andava tutto bene. +Rispondemmo che sarebbe potuto andare peggio, che sarebbe potuto +piovere, ma non apprezzarono molto. Dissero che non era un’interruzione +della fornitura di energia elettrica del palazzo ma che si trattava di +qualcosa di più esteso, che aveva coinvolto parecchi isolati dell’Upper +West Side e che avrebbero cercato di provvedere ma che non potevano +fare molto. Il sistema che riporta automaticamente al piano l’ascensore in +caso di perdita di energia doveva essersi guastato. Credo che ci fossimo +girati uno verso l’altro perché sentii il suo respiro nella mia direzione: +“Non c’è molto da fare, signor Rameau,” disse davvero dispiaciuto Ireneo +che trasformò il respiro in un sospiro lungo, “ora, se mi permette, la +accompagno alla poltroncina. Io mi metterò sull’altra. So dove sono e so +esattamente quanti passi ci vogliono per raggiungerle.” Mi fece +accomodare; si accomodò. Gli chiesi di chiamarmi semplicemente Elia; +avrei dovuto farlo prima ma temevo di suonare troppo disinvolto e di +spezzare quell’atmosfera di rispetto formale che sembrava compiacerlo. +Saremmo dovuti stare molte ore lì; le interruzioni di energia elettrica di +quelle proporzioni non si risolvono in breve e comunque sarebbe stato +verosimile che si dovessero aspettare le prime luci del giorno, quando la +richiesta di energia elettrica cala e si riesce a gestire meglio l’emergenza. +“Lei è un linguista, vero?” mi chiese interrompendo il silenzio. Era +evidente che conosceva la risposta. “Perché le lingue sono la mia passione, +sa?” aggiunse con una punta di orgoglio e l’invito a chiedere di più. +“Perché non me ne parli un po’?” dissi io rassegnato ad assecondare +questa curiosità e a rinviare a un altro momento la ricognizione sul da +farsi. Mi parlò di sé. Mi disse che era praticamente nato in ascensore, o +meglio che era vissuto da sempre in ascensore. Sua madre morì di febbre +puerperale pochi giorni dopo la sua nascita e suo padre, che faceva il suo +stesso mestiere, non ebbe nessuna alternativa se non quella di tenerlo il +più possibile con sé, anche durante le ore di lavoro. Era un bambino +tranquillo e non disturbava mai. Disse di essere cresciuto con l’idea che il + mondo avesse innanzitutto uno sviluppo verticale e che la dimensione +orizzontale fosse limitata e rara, almeno questa era la sua percezione +basata sull’esperienza di un’infanzia trascorsa in ascensore. Il padre di +Ireneo, figlio di un coltissimo ebreo askenazita rifugiato dall’Ucraina +durante la furia nazista, nei tempi morti del servizio gli leggeva dei libri +che a sua volta gli aveva letto suo padre e così lui fu esposto da +piccolissimo a letture importanti, ma quelle che preferiva erano le +grammatiche. Sentii crescere in me un senso di vicinanza e simpatia per +lui ancora più forte. Per farlo addormentare – continuò a raccontarmi – +suo padre gli leggeva il paradigma degli articoli determinativi in greco +antico, la sua ninnananna preferita che il padre gli sussurrava facendolo +saltellare ritmicamente in grembo: “Oetò, tutestù, totetò, tontentò, oiaità, +tontontòn, tòis, tàis, tòis, tustastà.” Lui, fin quando era sveglio, rispondeva +con il duale (ma solo i casi obliqui): “tòin, tàin, tòin”; quando non +rispondeva più voleva dire che si era addormentato e il padre lo adagiava +nel lettino. Così aveva imparato greco antico, latino, tedesco, russo, +francese, arabo classico, nupe, italiano, giapponese, cinese, epun, turco e +basco. Si era appassionato tantissimo alle lingue: non potendo scrivere e +dovendo imparare tutto a memoria, era diventato una specie di savant, +anche se non ne aveva minimamente tratti patologici, al contrario era +socievolissimo e amava le battute di spirito. Lo stupiva molto – mi +confessò – che, una volta cresciuto, le signore e le ragazze lo salutassero +con tanto entusiasmo. Suo padre gli spiegò che il motivo era che lui era +molto bello, ma lui non capì affatto cosa volesse dire quella parola: non +poteva, sostiene. A tutt’oggi, mi confessò, non capiva ancora né cosa +volesse dire avere un bel corpo, né perché un bel corpo dovrebbe essere un +fatto positivo, né perché alla gente non interessasse invece affatto quali +fossero le regole delle lingue che conosceva. Mi chiese però quante ne +conoscessi io, di lingue. Fu dapprima molto deluso di sapere che non ne +conoscevo tante (gli risparmiai la solita battuta che era come essere deluso +da un medico che non avesse fatto tante malattie) ma non fu così stupido +da lasciar perdere, anzi mi diede una lezione perché mi fece esattamente le +domande giuste, quelle che ti mettono in crisi perché devi credere nelle +risposte. Sapevo che con lui non avrei dovuto cercare scorciatoie, se non +evitando termini troppo tecnici; la sua intelligenza mi esentava dal dover +mettere troppo miele sul cucchiaino dei pensieri difficili. “Secondo te,” mi + chiese di slancio facendomi capire con quel pronome che la distanza tra di +noi si era fatta più corta, “una grammatica nasce dalla logica?” +“No,” risposi, ma dal suo silenzio capii che non gli bastava. “La logica +casomai si aggiunge.” Costruii qualche esempio e Ireneo mi seguì con +attenzione assoluta e io, mentre articolavo il ragionamento, sostenuto dal +suo silenzio e immerso nel buio, mi sentii tornare nella gola quella +passione stringente che avevo provato all’inizio dei miei studi sul +linguaggio. Credo che arrossii e sorrisi. È curioso come anche al buio si +possa percepire che una persona sorrida da come si trasformano i suoni +delle sue parole; le labbra si stirano, le vocali si arretrano e tutto il suono +esce modulato in modo diverso. “Vedi, Ireneo, ci si può innamorare di +tutto. Io mi sono innamorato di un verbo: il verbo essere, che è un verbo +speciale. Intorno a questo verbo si è scritto di tutto, soprattutto +stupidaggini. Ma di fronte a ogni evidenza, chi crede di sapere qualcosa +non si arrende mai: dobbiamo immaginare Semmelweis felice e non +chiedermi di Semmelweis perché è una storia troppo triste.” +Passarono almeno quattro ore: niente era cambiato. Silenzi, le nostre +storie, qualche sospiro, il fruscio sordo dei nostri passi sul tappeto. L’unico +effetto percepibile del tempo che passava era il fatto che i nostri discorsi +diventavano sempre più arzigogolati, arruffati, si disperdevano in rivoli e +in ripetizioni di rivoli come frattali di parole. E dovevo essere io il traino, +perché per lui quell’oscurità era normale. Forse il buio non influenza la +grammatica, ma la mente sì e mi rendeva disinibito: “Ma come fai a +muoverti così nel buio, Ireneo?” gli chiesi con ingenuità un po’ stupida. +“Non ce ne accorgiamo, ma sappiamo molte più cose di quanto non +crediamo anche se non le vediamo,” rispose lui, senza scomporsi e +aggiunse: “Prendi in mano il mazzo di chiavi che hai in tasca e lancialo +dietro alle spalle poi batti le mani quando pensi che tocchi terra.” Provai, +riprovai, riprovai ancora: il suono delle mie mani e delle chiavi era sempre +simultaneo! “Hai visto? Non vedi come si muovono le chiavi eppure lo sai; +lo senti. Il mondo è pieno di cose così, basta ascoltare.” Continuò: “Come +credi che abbia imparato a usare il verbo vedere e il verbo guardare? Sento +la gente che grida Guarda la strada! non Vedi la strada! e capisco che +guardare vuol dire ‘vedere con l’intenzione di farlo’ anche se non so cosa +voglia dire vedere.” Rimasi davvero stupefatto per la consapevolezza che + Ireneo aveva del suo linguaggio: quel buio dava contrasto e profondità di +campo alla percezione di sé. +L’aria dentro l’ascensore stava diventando molto calda; sentii Ireneo +sbottonarsi la giacca e tirare un respiro profondo. Lo fece con discrezione +e delicatezza come se per lui il pudore esistesse anche al riparo dagli +sguardi. Quella notte non sarebbe finita mai? E dire che tra le mie mani +tenevo strette, fisicamente, le istruzioni per il prossimo passo nella mia +vita ma senza luce erano solo un peso o al massimo un ventaglio, se +proprio volevo dare una funzione a una cosa morta: cosa voleva Shannon +da me? Mi tornò vivida nella mente quella prima notte a Pietramala, +l’acqua che inarrestabile penetrava ogni frase e ogni pensiero, poi la +scoperta del borgo senza lingua, il cimitero senza giovani, e quei giorni +con Clara Maria nel fresco dell’autunno corso, poi ancora l’addio e poi di +nuovo l’acqua. L’acqua, sì! Stava entrando acqua nell’ascensore! I piedi si +erano bagnati: “Non preoccuparti,” disse Ireneo, rivelando agitazione, “non +è mai successo ma non credo sia un problema; deve essere traboccata la +cisterna sulla cima del palazzo. È rimasta troppo tempo senza scarico.” +Non dissi nulla, ma la preoccupazione iniziava a crescere insieme al livello +dell’acqua: annegare in un ascensore mi sembrava troppo anche per me. +Doveva essere quasi mattino, il sonno si era ridotto a una specie di +ricordo mancato, un rimpianto: vinceva nel corpo la voglia di andarsene, +di vedere ancora la luce e di capire. Dovevo aver detto quelle ultime parole +a voce alta perché Ireneo, senza scomporsi ma anzi con un tono che non +lasciava spazio a interruzioni, mi disse: “Sei sicuro che per capire si debba +vedere? Gli occhi non possono conoscere la natura delle cose. Solo uno +stupido pensa che le cose bianche siano fatte di particelle bianche: il +bianco viene fuori dopo. Bisogna invece riconoscere che esistono cose +nella realtà anche se non si vedono. Anzi, capire davvero vuol proprio dire +trasformare ciò che si vede ed è complicato in ciò che non si vede ed è +semplice. Vedrai dunque che io parto in vantaggio. E poi,” credimi, “alla +fine esiste davvero solo ciò che ha un ruolo in una spiegazione. Perfino le +nuvole sei sicuro che esistono, anche se non le puoi toccare, perché ti +coprono il sole e che esiste il sole perché ti scalda: senza rendercene conto +siamo immersi in una rete di spiegazioni che giustificano i sensi. Quello +che resta fuori è un desiderio o un’allucinazione. Non crederei all’esistenza +di niente che non passasse questo setaccio: soprattutto non crederei ai + miei occhi, nemmeno se funzionassero.” Nel sentire queste parole, al buio, +i miei occhi, stupidamente, li spalancai. +Mi alzai in piedi, mi stiracchiai: provai a fare due passi, sempre con le +braccia in avanti per non finire addosso a Ireneo o contro la parete. I piedi +erano immersi in quello strano acquitrino. Ci fu uno scatto. Un ronzio +crescente; poi, netto, il rumore di un motore che riparte; e, improvvisa, +tornò la luce: prima fioca e gialla, poi sempre più intensa e bianchissima +finché l’ascensore, finalmente, si rimise in moto riprendendo, sia pur a +velocità ridotta, la sua corsa verso il basso. Mi sorprese la mia reazione: +avevo chiuso gli occhi di scatto e non posso dire di sicuro se fosse solo per +evitare l’abbaglio o per rimanere in quella condizione di oscurità che mi +aveva permesso di entrare in contatto con tanti pensieri nascosti e nuovi. +Li riaprii presto e guardai il volto di Ireneo: mi sorrideva. Mi parve di +capire che aveva gli occhi lucidi. Non disse nulla: sapeva che ero passato +in quel mondo cui lui non aveva accesso e non so nemmeno ora se fosse +dispiaciuto per sé stesso che rimaneva fuori dal mio o per me che dovevo +lasciare il suo. Un colpo di coda di quella notte fu il pensiero che un +mondo di ciechi non avrebbe la bomba atomica perché senza la capacità di +vedere la luce non avremmo messo in forse la nozione di simultaneità del +tempo e dunque la teoria della relatività speciale non sarebbe nata e con +essa quella generale. In un mondo di ciechi, tuttavia, non ci sarebbero stati +nemmeno gli archi e le frecce. Un mondo di ciechi forse avrebbe visto ben +più lontano ma non l’avremmo mai saputo: così come non possiamo +sapere di quale cecità noi siamo le vittime o i fortunati portatori. +L’ascensore arrivò dolcemente al piano, l’acqua era defluita quasi +completamente lasciando il tappeto lucido e madido. Ireneo aprì la porta +dell’ascensore con il suo solito gesto che pareva un passo di danza. +Dall’altra parte, alcuni pompieri ci aspettavano nelle loro armature +scintillanti per trarci in salvo senza sapere che saremmo potuti essere noi i +salvatori, i salvatori del mondo. Salutai Ireneo porgendogli istintivamente +la mano che lui, prima che io tentassi di ritrarla pensando alla vacuità del +mio gesto, non mancò e strinse forte. Uscii nel corridoio e aprii subito la +busta di Shannon: “Va’ a Boston, Backbay, 17 Gloucester Street; poi ti +mando a prendere e mi raggiungi nel paese di mare che si chiama Marble +Head, poco a nord della città, sulla costa della contea di Essex.” Mi venne +in mente una frase che dovetti commentare una volta per esercizio: “Più + persone sono state a Parigi di me.” È una frase che sembra avere un senso, +invece no: la frase non vuol dire nulla. Ecco, in quel momento, io mi +sentivo come quella frase. +[4.4] Il taxista turco che mi fece salire appena uscito da South Station a +Boston bestemmiò in italiano credendo di farmi un favore. Avrei volentieri +lasciato la sua frase nel limbo di quelle non tradotte. Non era il momento +di imprecare né di sentire imprecare ma siamo completamente indifesi +contro le frasi: nessuno può volontariamente non capire qualcosa e me la +dovetti ingoiare tutta. Una frase, quando entra, entra, che ci piaccia o no; +né possiamo volontariamente dimenticarla che anzi, il solo ricordarsi di +farlo ce la rinfresca, la vivifica, la ripropone ancora più intensa. Gli sorrisi, +mentre lui cercava il mio sguardo nello specchietto retrovisore, e, cercando +di dare un senso a quel gesto che di senso non ne aveva, mi sorpresi a +pensare che quella bestemmia almeno mi aveva riportato alla mente Dio. +Ne avevo nostalgia: da troppo tempo non riuscivo a pregare. Il fatto che +fosse proprio una bestemmia a richiamarmi al cuore la dimensione reale +dei miei desideri mi fece sorridere. Se Dio esisteva l’angelo che mi aveva +inviato in soccorso era un taxista bestemmiatore e la mia preghiera +passava attraverso la sua protesta. Dio, mi dissi, non si cura affatto della +bellezza. +Ero arrivato in Massachusetts in treno da Penn Station: contando i +tempi di sosta in aeroporto e il percorso per chi viene da Manhattan ci si +metteva più o meno come in aereo e in compenso era bello passare +attraverso la campagna degli Stati Uniti: troppe volte ci si dimentica che è +un paese essenzialmente rurale. Perfino l’architettura urbana delle città, se +si escludono le megalopoli, respira di campagna: alberi, tralicci, radure, +erba, animali. E poi le case: le case in quella zona, salvo le poche di certi +ricchi, sono fragili, fatte di legno, coi soffitti bassi e le finestre che non si +aprono mai. Sì, gli americani non aprono le finestre o non lo fanno come +lo si fa in Europa, almeno nei paesi mediterranei: con il gesto così +consueto alla mattina di spalancare le braccia per fare entrare il mondo; +sono più simili agli olandesi e agli inglesi; da puritani, il mondo lo tagliano +fuori con la ghigliottina. Da South Station sarei potuto andare a piedi alla +mia meta ma quella sera un vento umido dal mare mi aveva impigrito. + Il taxi mi aveva già portato a destinazione: di fronte a me, una bella +casa di Gloucester Street, in mattoni. Ad attendermi una signora elegante +che non pareva una domestica quanto invece un’amica di Shannon: i +capelli grigi raccolti con un nastro di velluto scuro, gli occhiali da vista in +tartaruga e oro, un vestito blu semplice ma di buon taglio e il fatto di non +indossare scarpe, mi confermarono di essere di fronte a una vera +bostoniana. Fu molto gentile, mi fece strada verso la mia stanza, depositai i +bagagli e chiese se volevo mangiare qualcosa. Le risposi con cortesia +sincera che mi spiaceva ma avevo già telefonato a un mio vecchio amico, +con il quale avevo studiato proprio lì a Boston, e che mi stava aspettando. +Non sembrava particolarmente contrariata: solo, mi chiese se alla mattina +mi avrebbe disturbato se avesse ascoltato musica classica. “Ovviamente, +barocca,” aveva aggiunto, tenendo le consonanti finali dell’ultima parola +ben più a lungo del dovuto e spegnendole con una piega aristocratica delle +labbra seguita da una pausa altrettanto lunga; specificò inoltre che lo +faceva perché non sarebbe riuscita altrimenti a ridestarsi alla mattina, +lasciandomi poca possibilità di replica; aggiunse tuttavia che non sarebbe +stato prima delle nove e che avrei trovato la tavola apparecchiata per la +colazione. Mi parve una condizione accettabile. Aggiunse che ’Mael – +evidentemente pur sapendo della fobia di Shannon per le fricative sibilanti +sonore non rinunciava ad abbassarsi al rango di chi lo chiamava per +cognome – avrebbe mandato entro due giorni qualcuno a prendermi per +trasferirmi a Marble Head. Prounciò Marble Head come una sovrana +avrebbe potuto menzionare una tenuta regale in Scozia: lentamente e con +un cenno impercettibile della mano, come a voler alludere a qualche cosa +di speciale circa quel luogo ma trattenendosi per pudore all’ultimo. La +salutai cordialmente, uscii di fretta e agguantai al volo un taxi per Harvard +Square a Cambridge, che a Boston si unisce senza soluzione di continuità: +come ai vecchi tempi ci saremmo trovati di fronte all’edicola, dalla parte +che guarda il negozio di libri. +Andrew arrivò da solo. Mi mancavano la sua risata e la sua capacità di +tradurre tutto in numeri: mi abbracciò forte accompagnando l’abbraccio +con delle pacche sulle spalle che frammentarono il mio saluto in una +specie di tosse isterica. Avevamo diviso la casa a Boston tanti anni prima. +Ci guardammo negli occhi, saltando i convenevoli e ritrovammo +immediatamente quel livello di confidenza che distingue l’amicizia che + nasce da giovani da tutti gli altri rapporti. Non fu difficile: lo si capiva dal +fatto che nessuno faceva domande sull’altro e anche dal fatto anche i +nostri passi si sincronizzarono senza sforzo quando ci dirigemmo verso un +ristorante vietnamita dove andavamo spesso negli anni trascorsi insieme. +Nulla sembrava cambiato e questo mi diede la sgradevole impressione che +non ci fosse nulla di speciale nell’atmosfera che avevamo scoperto noi da +giovani. Ora come allora gruppi di studenti parlavano a voce troppo alta, +alcuni scrivendo formule sui tovaglioli credendosi intelligentissimi. +Prendemmo una zuppa calda e molto buona, dei ravioli al vapore e del +pollo in agrodolce: una cena che ben si addiceva alle folate di vento freddo +che spazzavano la serata allietata tra l’altro dal fatto che non ci fosse +nessun legame propedeutico da rispettare nella sequenza dei piatti. +Andrew e io non ci eravamo mai davvero persi di vista e la +corrispondenza regolare tra di noi aveva fatto sì che non fosse nemmeno +necessario ricapitolare le nostre vite: avevamo entrambi seguito tutti i +nostri passi; mancava però a Andrew di sapere di Clara Maria, di +Pietramala e di Shannon. Non passò mezz’ora che la mia sintesi gli era già +nota. Andrew mangiava composto grandi bocconi di cibo, senza però +davvero staccare gli occhi da me. Era un algebrista fenomenale; lavorava +allo sviluppo di una teoria armonica che lo stava portando +“pericolosamente vicino” alla soluzione della congettura di Riemann, come +disse lui con una smorfia che lasciava intendere che la frase era stata detta +da altri mostrando con ciò tutta la sua fatica psicologica nel resistere a +questa pressione. Si pulì la bocca, raschiò la voce e calmo mi disse: “Elia, ci +penso su.” Era, come sempre, il suo modo di dirmi che mi prendeva sul +serio: tutti e due eravamo accomunati dalla consapevolezza che non +eravamo rapidi nelle risposte. Non facevamo parte di quella categoria di +persone che un istante prima che qualcuno finisca di enunciare un +problema hanno già la soluzione o, peggio, che immediatamente, per un +riflesso atavico, sostengono che il problema sia un altro. La nostra +lentezza, nel bene e nel male, aveva dei vantaggi: lasciava il tempo di +computare tutte le conseguenze, anche quelle non immediatamente +esplicite e, soprattutto, permetteva di costruire nuove domande. Con il +tempo, quelle macchine da soluzione che erano certi nostri colleghi – gioia +di professori – si spensero; noi, invece, andammo avanti, o almeno lui +andò avanti diventando la vera promessa per la teoria dei numeri. + Scoppiò a ridere vedendomi perplesso: “Mi ricordo quando ti salvai da +te stesso dopo un mese che cercavi di spiegare come mai nella frase mi +chiedo quando negheranno che i ragazzi sono arrivati e perché la parola +perché si riferisca a negare e non ad arrivare, anche se perché sta più vicino +al secondo verbo che al primo: sembravi pazzo, lo sai? Non ti sei più tolto +lo zaino per un mese e non hai più accettato di andare al cinema o di fare +qualsiasi cosa dove non ci fosse luce abbastanza per scrivere, nel caso ti +fosse venuta in mente la soluzione.” Quanti ricordi in quella frase: Andrew +mi aveva riportato ai tempi del verbo essere, quando avevo fatto di quel +verbo il centro della mia esistenza e quando la meraviglia di scoprire delle +leggi di simmetria nel linguaggio umano mi avevano convinto che avevo +aperto una porta che dava su un mondo nuovo: le grammatiche +geometriche. Poi venne tutto il resto e accantonai quell’ipotesi. Finita la +cena ci trasferimmo a chiacchierare nel suo studio, in un istituto vicino +allo Harvard Yard. C’erano come al solito ancora studenti nei corridoi e +questo mi riempì di tenerezza: le università americane non morivano ogni +giorno come le nostre, per giuste ragioni sindacali: erano più simili ad +abbazie, sempre vive, con le loro regole e i loro riti e, soprattutto, con +gente che ci credeva. Mi colpì nello studio di Andrew una specie di +enorme poster del cielo notturno – o almeno così io ingenuamente l’avevo +interpretato – che teneva tutta una parete: “No, non è un cielo, Elia,” mi +prevenne Andrew, “è una funzione matematica: si chiama curva di Ulam. +Immagina di prendere un foglio a quadretti enorme: al centro inizi a +scrivere il numero 1, poi a destra scrivi 2, poi sopra il 2 scrivi 3, poi a +sinistra del 3 scrivi 4 e poi a sinistra del 4 scrivi 5, poi sotto il 5 scrivi il 6, +poi sotto il 6 scrivi il 7, poi a destra del 7 scrivi l’8 e sei sotto l’1: vai avanti +così all’infinito avvolgendo l’uno dentro una spirale quadrata (se hai +tempo e ti va; e puoi ovviamente farla anche speculare). Poi cancelli tutti i +numeri meno i numeri primi e i numeri che sopravvivono devi pensarli +come specie di stelle matematiche: vedrai comparire costellazioni, vuoti, +buchi, fasce. Io, ad esempio, studio come si formano queste strisce scure in +questo cielo giocattolo. Senti,” cambiò bruscamente espressione e discorso, +come faceva anche da ragazzo quando gli veniva in mente qualcosa di +interessante, non curandosi di lasciare gli altri a pensare al pensiero +precedente, “lo sai che domani qui c’è un evento particolare? Non te l’ho +detto subito perché non volevo turbare l’incontro. C’è il congresso + mondiale della Società della Forma.” Non capivo dove volesse arrivare e lui +se ne rese conto. “Quest’anno il tema è l’unificazione tra gravità e +quantistica: vengono qui proprio tutti. Franco, Guido, Alessandra, Alberto, +Giovanni, Marta, Ezio, Laura, Giuliana, Lorenzo, Roberto, Tommaso, +Elisabetta, Cristina, Dario, Bianca e Gabriella.” +“E Rana,” conclusi io. +“Sì. E Rana. Se non ti va di rivederla non dico nulla, ma se solo puoi +fare lo sforzo sarebbero felicissimi: ho già chiesto a tutti. Mi hanno +incaricato di convincerti: ho risposto che tu non puoi essere convinto,” +sorrise fiero dell’ambiguità di quella frase. +“Hai fatto bene,” sospirai. “Non mi è mai davvero passata: non ho +capito cosa ho combinato, ma ho distrutto un amore e una persona. Mi +hanno detto che ora sta bene, non vorrei rischiare di farle del male di +nuovo.” +“No, non hai questi poteri, tranquillo,” disse Andrew, battendomi una +manata sulla pancia che mi fece sobbalzare di scatto; sorrise, scrollò le +spalle come se si fosse tolto un peso di dosso, “allora domani sera ci +vediamo a casa di Dario.” +Uscii dallo Harvard Yard con un sentimento che non sapevo +riconoscere. Mi erano riaffiorati alla mente vividi i ricordi delle prime +scoperte scientifiche, degli incontri con i professori, del mio primo amore, +della mia prima casa dove vivere da solo, della vita in una città nuova. +Cosa avrebbe retto il paragone rispetto a quegli anni così pieni? Era forse +per evitare ogni confronto che mi ero lasciato così andare? Che ero finito a +fare censimenti linguistici che non interessavano a nessuno? Mi guardai le +mani, cercando di riportare l’attenzione a qualcosa di concreto e di capire: +contai le mie dita lasciando per ultimo il secondo mignolo della mano +sinistra, l’undicesimo, e mi chiesi se non avessi anche nella testa qualche +cosa di troppo, qualche cosa che a me sembra naturale ma che non lo è, +qualche cosa che mi distingue dagli altri senza darmi davvero un +vantaggio e che anzi è d’intralcio e mi appesantisce. Non sempre più cose +sono meglio che meno. Pensiero profondo. Così profondo che, per evitare +di averne altri simili, decisi di non tornare in Gloucester Street in taxi ma +di stancarmi un po’ camminando: mi avviai lungo Massachusetts Avenue. +Non era ancora nevicato quell’anno e le luminarie natalizie erano poco +credibili come profezie troppo in anticipo. Scaricarmi fisicamente mi fece + bene: i miei passi invece di rallentare diventavano più rapidi, a tratti, quasi +saltellanti, e scrollarono di dosso i pensieri più cupi. Imboccai Harvard +Bridge guardando di lontano le luci ancora accese dell’istituto e riprovai la +felicità che avevo provato da ragazzo la prima volta che in quell’edificio +così brutto e austero fui ricevuto da colui che aveva cambiato la storia +della linguistica e della matematica; da solo aveva scoperto che la nozione +di gruppo algebrico si applica anche alle lingue naturali e che una lingua +artificiale che non contiene una struttura simmetrica isomorfa a un +gruppo finito non stimola i circuiti neuronali dedicati al linguaggio: è cioè +una lingua impossibile. Non credo che la gente capisse davvero cosa +avesse scoperto ma non mi importava: io l’avevo capito. E quel suo modo +di prendermi sul serio e di dire senza mezzi termini che avevo torto, per +poi cambiare idea molti anni dopo, mi fece sentire davvero importante, mi +fece capire che in quell’edificio avrei potuto lavorare anch’io. Quando +seppi che era morto continuai comunque a scrivergli regolarmente e a +mano; semplicemente non imbucavo più le lettere. Mi accorsi che mi stavo +facendo un monumento inutile: non ero lì per glorificarmi. E poi che +gloria mai mi meritavo io? Semmai ero lì perché mi ero lasciato catturare +dall’ultimo treno della mia vita: se avessi perso quello, tutto il resto +sarebbe stato così prevedibile da non valer la pena di esser vissuto. In +quell’istante mi parve quasi di vedere da lontano, proprio in fondo al +ponte, Shannon che mi aspettava. Mi aveva seguito? Forse voleva farmi +una sorpresa? Accelerai il passo. L’uomo in fondo al ponte fece in tempo +ad avanzare di qualche isolato poi girò a sinistra su Beacon Street verso +Back Bay, dunque verso la casa dove ero ospitato. Mi misi a correre per +non perderlo di vista. Feci solo in tempo a vederlo svoltare in una via a +destra, Gloucester Street: “Professor Shannon!” gridai a tutta voce, +“professor Shannon, professore: un momento, mi aspetti, per favore: +Shannon!” L’uomo salì svelto su una grossa berlina dai vetri scuri di +fabbricazione europea, senza girarsi. Stavo delirando? Perché mai Shannon +avrebbe dovuto pedinarmi? Perché sarebbe dovuto salire in macchina +senza farsi notare? Cosa ci faceva Shannon lì? Aprii la porta della casa in +affanno: trovai la signora ancora sveglia che stava leggendo nella sala +principale, sulla grande poltrona di pelle accanto a una lampada in stile +floreale che diffondeva una luce morbida e densa; quella luce, quella +poltrona, il profumo di cedro che un ricco centrotavola pieno di frutta + emanava, smorzarono la mia foga e mi fecero capire che mi ero agitato per +nulla. Presi fiato e salutai la signora con gentilezza. Mi ricambiò con un +sorriso, interruppe la sua lettura socchiudendo lentamente il libro, ma +lasciando un dito tra le pagine come a lasciarmi intendere che non era +affatto disposta a sostituire la sua lettura con le mie chiacchiere. Salii le +scale di legno per andare nella mia stanza cercando di non far +scricchiolare troppo forte i gradini. In breve mi addormentai, ma quella +notte i miei sogni non furono facili. Sogni vividi: Rana, il verbo essere, i +colloqui con il mio maestro, Andrew. Poi Clara Maria, che sembrava esser +diventata un libro scritto in una lingua che non sapevo e che sfogliavo +senza capire, e il maestro che saliva sulla macchina e diventava Shannon. +La sera successiva arrivai presto a Harvard Square, passando dal ponte +sul Charles, per andare alla cena con gli amici. Prima decisi di attraversare +il grande corridoio del MIT, il corridoio infinito, come lo chiamano da +sempre tutte le generazioni di studenti, credendo di essere i primi, gli +unici, i predestinati. Lo percorsi tutto intero, come ai vecchi tempi, +osservando quel pavimento di sassi e cemento coperto da una vernice +lucida che non cambiava mai, quelle bacheche che, pur al tempo di +Internet, resistevano assiepate di ritagli di giornali, gruppi di puntine +senza nulla attaccato e avvisi di feste e concerti. In una stanza, riconobbi +un ragazzo italiano che mi era stato presentato anni prima: dicevano mi +assomigliasse molto; io sapevo solo che era un tipo molto simpatico e +intelligente ma anche solitario e misterioso, uno che non sembrava +appartenere a nessuno o che forse nascondeva qualcosa. Era intento a +scrivere su un quaderno nero, agitando ritmicamente tutte e due le gambe. +Non mi fermai per salutarlo, decisi che anche lui era stato messo lì per +conservare l’atmosfera di sempre. Ripresi il cammino su Massachusetts +Avenue attraverso Central Square fino ad arrivare finalmente a Harvard +Square. Entrai nella libreria: la mia madeleine! pensai inalando a pieni +polmoni, la mia madeleine è l’odore di queste librerie, di questa libreria. +Anche ora che sono passati tanti anni da quegli eventi ricordo bene che +quell’odore speciale dei libri lo sentivo da ragazzo proprio prima di avere +un’idea brillante da sviluppare. Spesso l’ho usato all’inverso cercando di +indurre la nascita di idee con inalazioni mirate, con grande +disapprovazione dei miei amici che lo ritenevano pura e inutile +scaramanzia. Fatto sta che, malgrado la loro aria di sufficienza, quell’odore, + io lo percepivo sempre prima di avere una buona idea. Quello delle librerie +di Cambridge, e in particolare di questa libreria, era davvero speciale: un +misto di legno, succo d’acero ed eucalipto (forse anche un agrume). Come +l’aroma di certi tabacchi da pipa o di certi cioccolati, non riesci davvero +mai a possederlo nella memoria nemmeno se lo sperimenti molto +intensamente e per lunghi periodi. Vive solo lì, insieme ai libri, e quando +pensi di averlo afferrato, proprio allora ti sfugge; di portarlo via o +riprodurlo, non se ne parla neppure. Inspirai forte, nel tentativo di +imprimermelo nei polmoni e nel cervello, e poi sconsolato, trattenendo +quasi il fiato, uscii in strada spingendo la porta pesante del negozio. Era +ora: imboccai Brattle Street per andare verso l’incrocio con Willard. Lì +abitava Dario, l’unico che non si era dedicato allo studio, l’unico che aveva +fatto tanti soldi e che, forse, era il più intelligente di tutti. +Mi aprì lui la porta, in maniche di camicia: dall’interno veniva un +profumo di carne arrosto e di sidro. Mi abbracciò forte, subito: “Elia, ma ti +ricordi?” chiese con la sua voce troppo rapida da seguire. +“Ti ricordi quando eravamo viaggiatori sorridenti? Tu il genio e io il +leone!” Lo disse due volte, insistendo la seconda con voce alta: poi, non +troppo sicuro che avessi capito, mi fece entrare: “È arrivato Elia!” +annunciò a tutti urlando: “Il genio è qua.” +Il genio, sì: se solo Dario avesse saputo come mi sentivo in quegli anni +non avrebbe osato affatto chiamarmi così. Più lui insisteva, più io mi +sentivo un impostore, uno che nella vita ce l’ha fatta perché è riuscito a +ingannare tutti e che fa una fatica tremenda a continuare l’inganno. Mi +vennero incontro. Non erano tanto cambiati: si erano accentuati un po’ i +tratti caratteristici di ognuno ma non erano davvero invecchiati o forse si +stava semplicemente verificando quella mia antica impressione che un +coetaneo non può mai apparirci vecchio. Chi aveva la camicia sbrindellata, +ce l’aveva più sbrindellata; chi l’aveva inamidata più inamidata. Le ragazze +– continuerò a chiamarle così fino ai novant’anni – che si truccavano si +truccavano di più, quelle che non si truccavano si truccavano di meno, +facendo sorgere il sospetto che almeno un po’, prima, si truccassero. Li +baciai tutti come facevo di solito; non quei baci trasversali che si danno a +salve appoggiando la guancia a una guancia e guardando nel frattempo +cosa accade alle spalle. Baci veri: schiocchi di labbra contro la carne, gesti + misteriosi che uno dà e l’altro riceve. Molto spesso sul collo, i miei, visto +che ero sempre il più basso. +Nulla accadde a quella festa degno di nota, come sempre d’altronde +quando ci si trova pensando di aver già vissuto il meglio. A un certo +punto, per bucare un silenzio troppo lungo, una delle ragazze disse a +un’altra con tono infastidito: “Insomma: se solo la scienza è in grado di +studiare ciò che esiste veramente e la scienza si basa sulla ripetibilità date +le stesse condizioni, allora tu non esisti, anzi nessuno di noi esiste, perché +nessuno è ripetibile.” Fu quello il punto di inversione della festa, quando si +percepisce che è arrivato il momento di congedarsi; la stanchezza iniziò a +farsi sentire e a superare la voglia di giocare insieme. Anche i discorsi si +fecero sempre più seri. Sbadigliai vistosamente, ma senza volerlo. Andrew +se ne accorse e si avvicinò a me. +“Ti stai stancando? O è la presenza di Rana?” mi chiese, senza attendere +la risposta. “Tra poco ti riaccompagniamo; non prendertela. Ti vogliono +bene, ma non sanno cos’hai dentro. In fondo, non sai nemmeno tu +cos’hanno loro. Abbi pazienza.” Mi guardò, poi prese un bicchiere e +rapidamente lo girò sul tavolo intrappolando un turacciolo che si trovava +lì. +“Cosa vedi?” chiese. +“Un turacciolo,” risposi, svogliato. +“Giusto; eppure qui dentro c’è molto di più: ci sono migliaia di canali +televisivi, si intrecciano non so quante telefonate dai cellulari di questa +zona, stazioni radio, informazioni su informazioni, eppure tutto quello che +tu vedi è un turacciolo. Sei fortunato: se vedessi tutto impazziresti, come +se in uno stadio potessi comprendere i discorsi di tutti i presenti. Elia, devi +proibirti di vedere tutto: devi accontentarti di selezionare.” Fece un gesto +con la mano come per liberare un tavolo dalle scartoffie. “E per Rana non +prendertela: eravate in due, non puoi aver sbagliato da solo. Lei ora è +felice, vedrai che anche a te capiterà qualcosa di morbido.” Non so se si +sbagliò o se per lui morbido volesse dire “felice”, ma non lo corressi: +quell’errore mi piaceva. +Ci salutammo tutti, con affetto vero, ripromettendoci di non lasciar +passare troppo tempo prima di rivederci. Andrew chiese se qualcuno +avrebbe potuto darmi un passaggio a casa, in Boston. Si offrirono in tanti; +alla fine, trovai spazio in un’auto già strapiena, ma accettai volentieri + perché ci sembrò di ritornare ragazzi quando la densità per macchina +raggiungeva concentrazioni da nana bianca. L’auto partì non senza fatica e +dopo un minuto ci accorgemmo che era a secco. Ci fermammo a un +distributore vicino a Central Square. Schiacciato nell’automobile con il +viso contro il finestrino, pulii con la mano il vetro appannato appena di +fronte a me: vedevo un uomo mal vestito, trasandato e sporco, infilare +distratto l’erogatore nel serbatoio della sua auto; si schiarì la gola e sputò il +catarro per terra, pensando di non essere visto. Mi disse Cristina, che +praticamente era incorporata dentro di me tanto eravamo compressi: “Lo +riconosci? È lui, Steve N. Quanner, il premio Nobel; quello che ha +dimostrato che l’antisimmetria è compatibile con la tesi del Big-Bang”. +“Beato lui,” dissi sorprendendo me stesso di aver detto quella frase. +Pulii meglio il finestrino appannato: invidiai come fosse stato un dio, anzi +più di un dio, chi poteva vedere e ascoltare senza limitazioni l’uomo che +solo un istante prima avevo liquidato come uno straccione qualunque; non +ce n’era bisogno ma mi resi ben conto come si passa anche sopra allo +schifo più ributtante se si pensa che ne valga la pena. Dovevo tenerne +conto. Meglio: avrei dovuto tenerne conto. L’indomani avrei incontrato di +nuovo Shannon. +[4.5] “Homo homini homo.” A braccia aperte, radioso, il padrone di casa +della villa dove mi aveva fatto portare Shannon mi accolse declamando +con voce baritonale questa espressione latina distorta sui gradini +dell’entrata sfarzosa. Non c’era stato bisogno della sveglia quella mattina, +ma anche se non mi fossi svegliato da solo ci avrebbe pensato l’odore del +mare che a Boston, come a Genova, certe volte ti sorprende intenso. +L’autista fatto mandare da Shannon mi aveva aspettato puntuale fuori +dalla porta all’alba. Mi parve che l’auto fosse la stessa che credevo di aver +visto la notte precedente sfuggirmi per un soffio, ma non feci spazio a quel +pensiero al quale non ero disposto a dare un ruolo in quel momento, +concentrato com’ero per l’evento al quale Shannon mi aveva invitato. Il +conducente, in livrea, il volto pallido e magro di chi dorme poco e male, +non mi disse altro che il mio nome, un buongiorno automatico e l’indirizzo +dove mi avrebbe portato a Marble Head; senza aspettarsi alcun cenno di +risposta, mise in moto l’auto e partì. Il villaggio, che si affaccia sulla baia + del Massachusetts, nacque da una comunità di pescatori attorno alla metà +del Seicento e di fatto vive ora una seconda rigogliosissima vita come +centro turistico di lusso, soprattutto per il raffinato giro di yacht che fanno +di Marble Head la base estiva per le escursioni in bellissime e +innumerevoli calette tra le isole, al riparo dalle correnti oceaniche. Questo +ha naturalmente favorito il proliferare di ville e tenute dal valore +inestimabile; proprietà che nessun professionista, se non appartenente a +dinastie di alto lignaggio, riuscirebbe né ad acquistare né, soprattutto, a +mantenere. +In una di queste mi stava portando l’auto che da Boston aveva preso la +strada costiera. Il sole intenso che filtrava dal finestrino ingannava: quel +mare blu, quel cielo senza nuvole potevano appartenere a una mattina di +maggio in Costa Azzurra e invece il freddo del New England non si era +risparmiato, testimoniato dalle giacche a vento di quegli zombie che +correvano lungo la spiaggia, comandati dalla musica che si iniettavano +nelle orecchie. Il tratto costiero fu breve; passammo accanto a schiere di +villette di legno colorate da un lato e a spiagge dall’altro che, in quel +giorno di bassa marea, ricordavano, per l’ampiezza, quelle della +Normandia. Tutto lasciava intendere che si trattava di un’area ricca; +perfino la segnaletica stradale spiccava per la visibilità e le cassette delle +lettere ben esibite fuori dai giardini delle abitazioni non erano mai meno +che laccate di rosso intenso. A un certo punto, arrivati circa al +promontorio di Marble Head, lasciammo la strada costiera per deviare +brevemente verso l’interno. La strada puntò dapprima dritta verso un +prato molto esteso per poi dolcemente incurvarsi e salire di qualche decina +di metri sul dorso di una collinetta: l’attacco della salita era segnato da una +piantumazione di alberi che si infittiva man mano che si procedeva. L’auto +si arrestò di fronte a un cancello di ferro battuto, imponente, sostenuto ai +lati da due colonne in pietra da una delle quali sporgeva, in discreta +evidenza, una telecamera che prese a lampeggiare al nostro arrivo. Pochi +istanti e, senza che l’autista dovesse dire nulla, il cancello si aprì +automaticamente. Il tratto di strada che seguiva era in ghiaia e la +macchina lo percorse lentamente dandomi l’occasione di osservare con +attenzione il parco che si apriva intorno: era fitto di alberi ma il terreno +era ben curato. La strada salì ancora un poco, poi girammo verso la +direzione del sole che intenso e improvviso mi fece socchiudere di scatto + gli occhi. Ci fermammo in uno spiazzo ampio, proprio di fronte +all’ingresso della villa, e l’autista spense il motore e senza indugio mi aprì +la portiera: di fronte a me, elegante e luminosa, una grande villa di legno +di foggia ottocentesca. La macchina ripartì e rimasi da solo. Osservai la +villa cercando di capire dove fossi e soprattutto chi avrei incontrato: si +ergeva sulla parte rocciosa di un promontorio privato, non molto alto, che +digradava rapidamente sul mare, tanto che il segno dell’acqua delle maree +arrivava fino quasi a lambire la costruzione. Era una struttura complessa a +più piani: l’ingresso, un porticato ampio con timpano elegante sorretto da +colonne, si raggiungeva salendo pochi gradini. La casa di un colore +azzurro tenuissimo era interamente foderata da listelli di legno, come si +usa in quella zona, mentre il tetto era scuro, quasi nero, tanto da sembrare +fatto di tegole piatte di ardesia. Ogni raccordo tra un colore e l’altro era +separato da una striscia di bianco luminoso e le finestre, che a colpo +d’occhio avrei detto essere almeno una trentina, erano di varie dimensioni +con i vetri a riquadri piccoli e tende bianche. A sinistra della casa, in una +zona non immediatamente visibile a chi come me arrivava dalla strada +principale, si apriva una zona destinata ad accogliere le automobili dei +visitatori: tutto lo spazio era stato occupato. Contai almeno una dozzina di +berline di lusso, tutte simili, tutte nere, tutte con i vetri oscurati, tutte – +ormai mi pareva chiaro – prevedibilmente blindate e destinate a +nascondere i passeggeri, rivelando con questo che si trattava di carichi +importanti. +“Homo homini homo”: fu allora che il padrone di casa declamò quella +frase, scendendo i gradini dell’ingresso e tendendomi entrambe le mani in +segno di benvenuto. Gli strinsi la mano destra ma la percezione della sua +carne flaccida, incapace di intesa, nonostante la sollecitazione dalla mia +stretta, ebbe il doppio effetto di farmi ritrarre troppo rapidamente la mia. +Non riuscii a vergognarmi: anzi, percepivo la stretta di mano, tutte le +strette di mano, come gesti del tutto innaturali: perché mai un pezzo del +mio corpo doveva toccare il pezzo di un corpo altrui e comprimerlo? E poi +perché proprio la mano? D’altronde si fanno con le mani cose stranissime +come sbatterle ritmicamente tra di loro in segno di approvazione. Mi +consolai pensando che siamo dominati da gesti che non scegliamo fino in +fondo e che non c’era nulla di male a confessarmi che non avrei mai scelto +di stringere la mano di quell’uomo. Dietro a lui, subito dopo, sulla soglia + comparve Shannon insieme a un’altra persona, che sembrava una versione +povera del professore; mi sorrise a lungo – ricambiato da me con grande +partecipazione ed emozione – e mi venne incontro: “Buongiorno, Elia, +benvenuto,” mi disse Shannon e aggiunse sempre sorridendo, “siamo +arrivati al dunque, finalmente.” Poi, riprendendo ancora il motto latino +storpiato dal padrone di casa, disse ad alta voce, curandosi di esser ben +sentito dall’ospite: “Certo, niente è peggio della cattiveria dell’uomo. Non +serve parlare di lupi, se ci siamo in mezzo noi. Bastiamo noi per spiegare il +peggio.” Tutti risero ostentatamente mentre Shannon si affrettò a cercare +lo sguardo del padrone di casa, come per alludere a un discorso iniziato +prima, al quale non mi era dato di partecipare. +La sala dove ci fece accomodare, così come l’anticamera, era +ovviamente all’altezza delle aspettative: non credo l’ostentazione della +ricchezza, almeno in quella zona del mondo, potesse esprimersi a livelli +superiori. Forse non era pari allo sfarzo delle grandi ville europee, ma ogni +paese ha i suoi standard di esibizione e l’effetto finale è comunque quello +di farti sentire una persona di poco conto se non sei in grado di ricambiare +l’invito in una proprietà dello stesso prestigio. +Nel salone, il cui centro era occupato da un ampio tavolo da riunione di +cristallo a forma di ellissi allungata, c’era una decina di persone. Mi colpì +che, a fronte di tanti gesti cerimoniosi, nessuno si fosse ancora presentato +con il proprio nome. Strinsi tante mani, invece, accompagnato questa volta +da Shannon che mostrando sorrisi panoramici mi esibiva come il suo vero +nuovo acquisto: lo studioso giovane che avrebbe risolto i loro problemi; +salvo che dei loro problemi io non sapevo nulla. Immaginavo o, meglio, +speravo che avessero a che fare con il caso di Pietramala ma non potevo +esserne davvero sicuro. Ci accomodammo intorno al tavolo, in un ordine +preciso. Solo una sedia rimase vuota ma, come capita quando un solo +pezzo manca da una scacchiera, era evidente che fosse chiaro il ruolo +dell’assente e nessuno si preoccupò di identificare chi non si era +presentato perché a loro era ovvio. Il padrone di casa si alzò e prese la +parola senza aver bisogno di chiedere silenzio; il chiacchiericcio si smorzò +rapidamente come una fiamma coperta con un bicchiere e tutti gli sguardi +puntarono il suo volto. +“Io sono un oggetto fisico, seduto in un mondo fisico,” attaccò lui con +un tono capace di sostenere la ragione anche senza bisogno di logiche, + “alcune delle forze di questo mondo fisico colpiscono la mia superficie. +Raggi di luce penetrano la mia retina; molecole di aria, compressa e +rarefatta secondo ritmi regolari, bombardano i miei timpani. Io reagisco: +prima inghiottendo queste onde dalle orecchie, poi traducendole in onde +elettriche, che a queste si rifanno, ed emanando alla fine nuove onde +concentriche di aria. Queste onde hanno la forma di un torrente di +discorso che può riguardate tavoli, persone, molecole, raggi di luce, retine, +onde d’aria, numeri primi, parole, gioia e dolore, bene e male. Noi, cari +amici, siamo oggi vicini alla capacità di comprendere come questa +restituzione al mondo fisico di forze fisiche da parte del nostro cervello +possa essere riprodotta artificialmente. Noi, per la prima volta nella storia +dell’umanità, siamo entrati nell’ultimo cunicolo verso una comprensione” +pausa “completa” pausa “della comunicazione” pausa più lunga +“nell’animale e nella macchina.” L’applauso esplose qui immediato e +intenso, offrendogli il tempo di bere un sorso d’acqua, già preparata da +mani premurose; non mi sembrava veramente emozionato, sembrava +soprattutto conscio del suo ruolo centrale. Si guardava intorno cogliendo +lo sguardo degli altri ma non per cercare consenso o per accoglierlo ma +per sigillare quegli sguardi con il suo marchio di proprietà. “Parlerò chiaro +a voi perché voi avete da subito riconosciuto in me la bontà di questo +progetto. Le parabole sono per chi capisce poco; ed è giusto che a chi +capisce poco venga detto poco. A voi che capite molto, dirò invece molto. +Questa occasione, questa immensa opportunità è a noi data dal lavoro di +anni di ricerca di una delle menti più brillanti della scena accademica +mondiale, una persona che a partire dai suoi profondi interessi filologici +ha sviluppato una visione globale della comprensione della realtà +dell’uomo. Questa persona, guidata dall’analisi del grande tema classico +della tensione tra anomalia e analogia, è arrivata a scoprire uno dei più +raffinati esperimenti mai tentati dalla storia dell’uomo, un esperimento +che sarebbe andato completamente perduto e che oggi, per motivi che non +sto a rammentare,” qui alzò un sopracciglio e con la mano fece un breve +gesto di scatto come per liquidare una zanzara che si era fatta troppo +vicina al volto, “non si sarebbe potuto replicare. Signori, colleghi, carissimi +amici, questa persona è Ismael Shannon,” calcò la voce sul primo nome, in +un modo che non mi parve del tutto privo di sadismo, conoscendo il livello + di confidenza tra i due, “che ora ci parlerà della scoperta della lingua di +Pietramala.” +Un applauso liberatorio, sincero, appassionato, violento quasi, scoppiò +di nuovo sovrapponendosi alle ultime sillabe del discorso: Shannon si +schermì, arrossì quasi impercettibilmente ma tanto da farlo notare, lasciò +continuare l’applauso e fu pronto a scostare la sedia e ad alzarsi poco +prima che si spegnesse in modo naturale così da mostrare di essere invece +lui a volerlo spegnere esibendo con questo gesto una grande dose di +umiltà. In quei pochi istanti, il mio sangue aveva fatto tre volte il giro del +corpo lasciandomi un senso indefinito di vertigine: Pietramala, la scoperta +del cervello, io. Questi tre punti definivano ed esaurivano lo spazio +geometrico delle mie emozioni: non sapevo come orientarmi ma ormai +sentivo ricomporsi in me la ragione della mia fatica, del mio viaggio e, in +fondo, della mia vita stessa. Ascoltai Shannon prendere la parola senza +fiatare, solo un suo sorriso scoccato nei miei confronti, mi fece arrossire e +capire che il mio momento era arrivato: avrei capito cosa c’era dietro al +mistero di Pietramala. +“Caro presidente, cari associati, la nostra compagnia non sarebbe la +stessa se non fosse per il contributo di ciascuno di voi: l’eredità che +abbiamo ricevuto dal passato e che sapientemente, di generazione in +generazione, il Giardino degli Equivalenti ha coltivato con pazienza, è +giunta con noi a maturazione. La scoperta di Pietramala e della sua lingua +prova in modo inconfutabile e definitivo che il linguaggio umano, suprema +struttura del creato e specchio del cervello, scaturisce dall’equilibrio tra +analogia e anomalia e che l’essenza di questa struttura non è altro che +questo equilibrio. Nella lingua,” disse con enfasi commossa, tradita da un +involontario squittio in falsetto della voce, “non ci sono se non equilibri, e +la lingua di Pietramala ne è la massima esemplificazione. E sulla base di +questa scoperta potremo da subito inventare lingue artificiali che +minimizzino lo sforzo comunicativo togliendo alle lingue il peso +farraginoso dell’ambiguità. Parleremo una lingua vicina al linguaggio del +cervello stesso, non dominata da regole instabili come quelle parlate oggi +che fanno apparire tutte le lingue del mondo così diverse. È una vergogna +che le lingue possano differire tra loro in modi infiniti e imprevedibili, una +vergogna cui da domani, con questa scoperta, potremo porre rimedio, +facendo parlare ai bambini una lingua perfetta, semplice e unica, + apprendibile in meno di sei ore. Il mondo non sarà più lo stesso. La nostra +società, la +YAVNE Corporation, è già stata predisposta per la +commercializzazione di programmi di apprendimento basati su questi +principi ed è pronta a partire con una quotazione in borsa da far +impallidire anche la più grande tra le aziende biomediche o informatiche: +in breve, l’istruzione, così come l’uomo l’ha conosciuta nel corso dei +secoli, non sarà più necessaria, ogni informazione sarà appresa come +effetto del principio di ‘equilibrio equivalente’, indotto con un sistema +originale e brevettabile.” +Un applauso ancora più potente, se possibile, si scatenò nella stanza: +tutti gli associati si alzarono in piedi scostando rumorosamente le sedie dal +tavolo mentre Shannon riscuoteva il successo di una vita. Continuò a +parlare facendo allusioni che non colsi ma che se anche avessi potuto non +sarei riuscito a cogliere tanto la mia mente era rimasta incollata a quelle +prime frasi. Dunque la lingua di Pietramala era un esperimento di lingua +perfetta? Ma come mai il borgo si era svuotato? Cosa non aveva +funzionato? Perché di questo non faceva cenno? +Fummo invitati a spostarci in una veranda luminosa che si apriva sul +lato della villa verso il mare: sui tavoli tartine di crostacei, frutta e vino +italiano pregiato. Ci si divise in piccoli gruppi in modo naturale; Shannon +mi prese sotto braccio e mi sussurrò: “Resta inteso, carissimo Elia, che non +è questo il posto per sollevare la questione del tuo sopralluogo a +Pietramala: questo dettaglio ci manterrà uniti nei prossimi giorni, mentre +decifreremo la grammatica di quella lingua, sulla base del canto +conservato dall’Aldini. Come hai visto, la posta in gioco è enorme e da +questo risultato dipende tutto. Ora vieni che ti presento gli associati; +desidero che tu abbia la giusta visibilità, perché quando annunceremo la +decifrazione il tuo aiuto sarà stato così rilevante da essere centrale e da +meritare tutto il plauso possibile. Ti voglio così bene che andrei nei guai +per te.” +Ma quale decifrazione? – osai dire solo a me stesso. – Io non so +assolutamente nemmeno da che parte iniziare con la grammatica della +lingua di Pietramala. Non potei fare altro che annuire e seguirlo: dovevo +fidarmi e assecondarlo. Mi voleva bene, aveva detto. +Iniziamo dal professor Scherbius Jr, uno dei maggiori sabotatori di +grammatiche dell’esercito americano. Scherbius, accalorato, stava + difendendo la sua posizione contro un collega: “È evidente che non esiste +un gene per ogni parte del corpo anche se tutto è il risultato +dall’esecuzione di un progetto genetico. Non mi vorrà dire che esiste il +gene dell’ascella, vero? Lei sa meglio di me che perché qualcosa abbia base +genetica occorre che qualche individuo che è dotato del programma +genetico non,” e scoccò la negazione come una freccia al centro di un +bersaglio, “esprima quel tratto e che non possono logicamente esistere +individui con le braccia e il tronco ma senza ascelle!” Sputacchiò un po’ +quando disse “ascelle” e una briciola masticata finì proprio sul bavero della +giacca del suo interlocutore che, accortosene dopo un po’, pensando di +averla seminata lui, se la mise furtivamente in bocca. La leggera nausea +che mi provocò quel gesto non fu sufficiente a estinguere il pensiero del +gene dell’ascella. Shannon, dopo avermi rivelato che la persona con la +quale parlava Scherbius era uno dei maggiori esorcisti del Nord America, +attivo da anni e potentissimo amico del barbiere personale del presidente +degli Stati Uniti, l’unico che può avvicinarsi alla sua gola con un rasoio – +si affrettò a specificare. +Passammo a un tavolo con tre altri associati. “Lo so, lo so, mio caro,” +proseguendo il suo discorso, disse il più anziano, “ma conoscere non +coincide con l’essere felici, e lo sapeva bene il nostro Edipo, e ancora +meglio Lucrezio – che alla fine si è contraddetto annegando il suo +ottimismo razionalista nel vomito acido della peste che non fa certo meno +schifo o paura anche se sai cos’è.” +“Dice bene, caro amico,” notò uno degli altri, “ma almeno converrà che +solo la scienza è in grado di indirizzare verso una fede solida, perché solo +la scienza ci dà la misura del mistero, cioè di quanto poco conosciamo e +possiamo (sperare di) conoscere.” Lo disse con una lieve flessione della +voce come per far notare quelle parentesi tonde che raddoppiavano il +pensiero senza aumentare (di troppo) la fatica di esprimerlo. +Rimasi molto stupito di quello scambio: mi pareva una situazione +surreale e, in fondo, cinica. Quella villa, quelle persone, quei discorsi +sembravano tutti in qualche modo superficiali, malgrado l’intensità con la +quale venivano sostenuti: come se in realtà quello che doveva esser detto o +era già stato detto o sarebbe stato detto altrove. Pareva che quegli uomini +in qualche modo recitassero una parte con il solo scopo di fornire un +contorno adeguato allo scambio tra Shannon e il padrone di casa, il + presidente del Giardino, cioè. Anche in questo caso Shannon gentilmente +interruppe e mi presentò: strinsi le loro mani, accompagnato dal loro +sguardo bonario. +“Ti spiegherò dopo chi sono questi tre, Elia, ora seguimi che ti presento +un grande filologo. Professore carissimo, eccole il mio prediletto.” Il +professore carissimo era occupato a sistemarsi il vistoso e imbarazzante +riporto dei capelli ribelli. Stava farfugliando qualcosa sul danno enorme +che la nuova moda di usare abbreviazioni mandando messaggi telefonici +stava provocando alla lingua inglese. Non provai a dirgli che, in quanto ad +abbreviazioni, neppure nell’impero romano si scherzava. Bastava leggere +una qualsiasi epigrafe per rendersene conto. Il monumentum ancyranum +non sarebbe nemmeno dovuto esistere se lui avesse avuto ragione. +“Ha perfettamente ragione,” gli confermò Shannon, mosso da uno +spirito di condiscendenza che svelava il suo debito verso quella gente. “E +che dire poi del mio nipotino, un digitale nativo, uno che prima di parlare +sapeva già come manovrare il telecomando? Me l’hanno rovinato: non +parlerà mai come abbiamo parlato noi, non avrà mai la nostra memoria; +smetteranno infatti di esercitarsi nella memoria perché fidandosi +dell’informatica richiameranno alla mente non più dal loro interno ma da +ciò che esiste fuori, attraverso segni esterni, come un’estensione della loro +mente. Così i ragazzini credono di sapere tutto, mentre la maggior parte di +loro non saprà un bel niente. Sarà una sofferenza parlare con loro, pieni di +nozioni e di fatto vuoti di sapienza.” +Per fortuna, il collega che gli stava a fianco sbottò al posto mio: +“Romeo, Romeo, ma come fai a dire una cosa così? Aspettarci che una +tecnologia che non ha nemmeno cinquant’anni possa provocare un +cambiamento in un organismo in equilibrio genetico con l’ambiente da +almeno centomila anni è come se si fosse temuto che le biciclette facessero +disimparare a camminare o peggio facessero crescere le ruote ai bambini. +Questa invenzione, al contrario, renderà i bambini più sapienti e arricchirà +la loro memoria perché queste innovazioni sono una medicina per la +sapienza e per la memoria.” +Shannon era più imbarazzato di me, mi riprese sottobraccio +rapidamente per distogliermi da quelle chiacchiere e cambiò ancora +tavolo: “Ma come parla questo? Come parla?!” sussurrò digrignando i + denti e stringendo troppo forte il mio braccio. “Le parole sono importanti,” +aggiunse, “come diceva, credo, Wittgenstein.” +“Signori, il pranzo è servito.” Il presidente ordinò di aprire una grande +parete scorrevole di legno e di fronte a noi un’altra sala si presentò +apparecchiata di tutto punto: ci sedemmo questa volta senza indicazioni, +ognuno proseguendo la discussione iniziata nella veranda. Io, sempre +attaccato a Shannon, evitavo di proposito di essere incastrato in qualsiasi +diatriba, concentrato sulle sue parole: come avremmo fatto a decifrare in +poco tempo la lingua? Saremmo riusciti? Intorno a me a tavola proseguì +l’inutile babele. Si discusse di tutto: qualcuno sostenne l’immoralità +dell’essere pagati per curare dalle malattie perché guarire è un atto sacro; +altri dissero che la vera ricaduta della colossale impresa della conquista +della Luna in epoca moderna, se si escludono le pellicole per la +conservazione dei cibi, erano stati i giocattoli ispirati all’impresa, mentre +la vera conquista, dal costo invece irrisorio, fu quella di Galilei perché osò +guardare la Luna con occhi diversi e fu per di più una conquista per tutti; +un altro allora si lanciò nella più stupida delle metafore da salotto, quella +che fingendo di difendere le donne ne crea una caricatura: “Dietro ogni +grande uomo,” disse il genetista, “c’è sempre una grande donna.” Poi si +accorse, dal silenzio che si era generato, che occorreva correggere il tiro e +aggiunse: “E naturalmente dietro ogni grande donna, un grande uomo.” +Con l’effetto di lasciare immaginare una fila di uomini seguiti da donne +seguiti da uomini. +“Una struttura infinita, buona per sostituire la colonna di tartarughe +degli antichi,” sottolineò acido il presidente. +“Già, ricorsivo,” prese la palla al balzo un individuo molto elegante che +mi disse poi Shannon essere un insigne proctologo, “ricorsivo come il +linguaggio umano, dove una frase può contenerne un’altra, e come la +pianificazione di azioni, dove tra due azioni ce ne può stare un’altra.” +“Imbecille,” sussurrò Shannon, ma disse, invece, subito dopo, a voce +alta: “Esatto.” E poi: “D’altronde se una cosa fa una cosa che rifà la stessa +cosa, cos’è questa se non una struttura ricorsiva?” +Il proctologo annuì incautamente mandando così definitivamente al +macello la sua credibilità. “E dunque cos’è una gallina se non un perfetto +esempio di meccanismo ricorsivo della natura inventato dall’uovo per +replicare se stesso?” + “Ecco, appunto, esatto,” ribadì ormai esangue nello spirito il genetista, +“una gallina è un perfetto esempio di macchina ricorsiva”. +Shannon strinse forte il cucchiaio per cercare di non reagire di nuovo e +sorseggiò una delle migliori zuppe di pesce che avessi mai assaggiato. +Vedendomi colpito – non sapeva del mio sforzo nell’accettare un ordine di +portate che per me era contro natura – cercò di distrarmi spiegandomi che +il presidente aveva organizzato la sua cucina in modo innovativo. Invece +di avere tanti cuochi ciascuno dei quali sapesse come preparare bene un +piatto, aveva fatto scegliere una squadra di cuochi ciascuno specializzato +in un’azione tipica della cucina ma solo quella e solo una che da sola non +faceva un piatto: uno sapeva cuocere al forno, un altro friggere, uno +impastare, sicché con meno gente copriva molti più piatti perché molte di +quelle operazioni si ripetevano in ogni ricetta e teneva lui comunque la +regia della cucina. “Quando il menù è ridotto,” sosteneva, “la differenza +non si nota, ma se il menù è sterminato il risparmio è immenso: non ci +sono troppe procedure in cucina; tutto è il risultato dell’interazione di +poche cose, ciascuna delle quali da sola però non dà nulla di commestibile. +Naturalmente, se mi si ammala un cuoco, sono molti i piatti che saltano +ma è un prezzo che sono disposto a sopportare.” “La cucina dei cuochi +ignoranti”, così la chiamava, era la sua vera passione, ovviamente dopo la +collezione di diamanti ereditata dal nonno. In più, vantaggio che +evidentemente a lui stava a cuore, ogni cuoco non sapeva quale fosse il +piatto finale, si limitava a eseguire la sua procedura, il suo segmento di +ricetta, così – il presidente aggiunse con evidente soddisfazione – non ci +avrebbe potuto mettere del suo. +Eravamo arrivati alla fine del pranzo; io, ovviamente, scosso dalla +nausea di un dolce alla crema che arrivava dopo un trionfo di pesci arrosto +prelibati. Il presidente ringraziò ancora tutti. Non ci risparmiò il discorso +che eravamo tutti una famiglia, discorso che ho sentito fare infinite volte +nella mia vita e molto approvato ma con l’interpretazione opposta a quella +intesa da chi lo faceva: per me paragonare un gruppo a una famiglia +voleva appunto dire che tra noi non potevano non covare quei +risentimenti e quelle rivalità che tra amici scelti non ci sono e che invece +tra i membri di una famiglia, che non ci scegliamo, finiscono spesso con il +rovinare tutto, o peggio per ridurre il numero dei membri con un delitto di +comodo. Fu per me il punto di non ritorno: avevo capito che tanto dentro + di me la figura di Shannon sembrava giganteggiare e fornire un appiglio +sicuro quanto quella del presidente risultava odiosa. Quel suo stare, +grande e grosso, a gambe larghe, emanando frasi che sembravano bolle +pontificie, avvolgenti e appiccicose come catrame, era per me +insopportabile. Ho sempre preferito un uomo basso e con le gambe storte +ma ben saldo sui pochi e chiari ragionamenti come su due piedi piantati +per terra. +Ci salutammo con un rito combinatorio complesso di convenevoli nei +quali ognuno doveva stringere la mano a ognuno senza incrociarsi; nel +mezzo di quell’inutile trambusto, vidi il presidente prendere sotto braccio +Shannon con un gesto brusco; il presidente aveva un sorriso tirato, le +labbra sottili e pallide e uno sguardo che cercava di togliere di torno gli +altri. Si portarono rapidamente in un’altra stanza. Non resistetti, li seguii e, +incuriosito, senza farmi vedere, mi avvicinai a sufficienza per sentire le +loro voci. Non fu con una perifrasi né con una metafora di stile mafioso +che chiese a Shannon di risolvere il problema; non fu neppure un’allusione +velata o il ricordo di un altro gesto simile; né ricorse a paragoni eruditi +con l’arte o la letteratura. Semplicemente, con pochi movimenti delle +labbra, simulando un sorriso, mentre faceva compiere alla lingua un breve +viaggio sul palato per farla sbattere due volte contro i denti, con quel tanto +che basta di fiato, il presidente pronunciò due parole taglienti come un +rasoio che scivola su un occhio: “Uccidi Elia.” +Sbiancai. Un brivido violento corse lungo il mio corpo provocandomi di +rimbalzo un’ondata di sudore freddo. Provai a capire cosa avevo potuto +intendere male. Provai a ricombinare le sillabe di quel verbo e del mio +nome sperando di trovare un’alternativa ragionevole a quella +interpretazione ma null’altro era possibile: “Uccidi Elia.” Nessun +anagramma di salvataggio. Non avrei mai pensato di sentire con le mie +orecchie questo verbo – uccidere – applicato a un essere umano e tanto +meno a me; erano scene da film, non della vita vera. Non sapevo cosa fare. +Shannon che non sembrava affatto turbato, semmai solo irritato o stanco, +mi vide pallido: mi prese allora sotto braccio con lo stesso gesto brusco che +aveva appena subito, forse temendo non mi sentissi bene o pensando non +avessi digerito, e farfugliò qualcosa che non capii. Salimmo sulla nostra +auto già pronta di fronte alla casa e messa in moto mentre intorno sentivo + le portiere delle altre chiudersi tutte rapidamente e il presidente salutare +gli invitati a voce alta chiamandoli tutti per nome. +La macchina uscì dal parco della villa. Lo scenario era cambiato di +colpo e inaspettatamente: come quando si va al cinema e si sbaglia film e +ci si mette un po’ per accorgersene. La strada era diventata perfettamente +rettilinea: un nastro di asfalto tra due campi incolti. Ma colpiva la selva di +fili aerei che si sviluppava intorno, come a costruire un tunnel virtuale. Era +uno spazio riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e +parallelogrammi che fendevano il cielo invernale, la nebbia non attutiva +quella violenza geometrica. Io seduto nella macchina sentivo di non avere +la forma giusta per quel sedile, per quel mondo. Forse anche qualcun altro +se ne era accorto. + Capitolo quinto +Gennaio, ovvero quando di fronte a due pietanze non sai cosa scegliere e finisci per farle +raffreddare entrambe. +[5.1] Manhattan. Ero tornato. Il disagio del primo risveglio dopo la +trasferta a Marble Head conteneva tutte le preoccupazioni che si possono +immaginare ma la più pesante era il senso opprimente dell’ingiustizia. E +dire che sono grato alle ingiustizie: mio padre, per farmi capire cosa fosse +il bene, aveva pensato che non ci fosse metodo migliore di farmi subire +un’ingiustizia e da allora mi son sempre chiesto se non si potesse +apprendere ogni concetto facendo esperienza del suo contrario. Cosa stavo +apprendendo io, ora? +Quella mattina fui svegliato da una strana atmosfera: il lucernario del +palcoscenico stava diffondendo una luce bianchissima e sorda come una +sfera al neon e la coperta spessa che di solito mi riscaldava a sufficienza +sulla mia branda sembrava non bastare più. +“È nevicato tutta la notte,” disse sottovoce Calibano mentre stava +preparando la colazione per tutti e tre. +“Sì, nevica, nevica, nevica ancora: lo sentite il rumore della neve?” Ariel +si stava stiracchiando nel letto e pronunciò la prima vocale di neve come +una specie di miagolio soffocato; ripiombò sul cuscino arruffato più di lei +senza riuscire a finire la parola. +Nevicava davvero, nevicavano fitti grossi fiocchi che risuonavano come +uno strano scalpiccio disordinato sul vetro: mi stupivo sempre della neve. +Tutta quell’acqua trasparente che diventava bianca. Quante volte da +piccolo ne avevo prese in mano manciate, ai tempi della scuola, per vedere +bene il momento in cui da bianca ritornava trasparente. Ogni volta mi +pareva di averlo colto ma mi sfuggiva sempre, come il sole al tramonto +quando tocca il mare. Certo, quella era una giornata gelida; non che mi +dispiacesse. Ero davvero sconvolto o per quel che avevo sentito o per quel +che avevo creduto di sentire. Ammettendo di aver capito bene quelle due + parole: cosa stava succedendo? Perché Shannon mi aveva condotto in una +specie di imboscata di alto bordo? Forse quella parola uccidi, detta +assecondando la bocca in un sorriso a denti stretti, non voleva veramente +dire “uccidi”. +“Guarda la neve come è bianca!” disse stupita Ariel. +“Te l’aspettavi blu, oggi? Forse se provi a dirlo in russo cambia; voi non +avete mille nomi per mille tipi di neve diversi?” la prese in giro Calibano. +“No, scemo: però la neve è bianca bianca, ed è bianca bianca anche se te +lo dico in russo!” +Dovevo aspettare fino a sera per andare a cena da Shannon, come +avevamo concordato. Cosa ci saremmo detti? Come avremmo proceduto +per la decifrazione? Il tempo correva contro; la YAVNE certamente voleva +tutto presto e noi non avevamo nemmeno iniziato. Calibano, Ariel e io +mangiammo insieme: fu un pranzo veloce. Calibano voleva riprovare una +scena con Ariel ma Ariel non aveva affatto voglia e iniziarono a discutere +su tutto. Mi misi in un angolo del teatro a disegnare, come mi capitava fin +da bambino quando ero contemporaneamente triste e impaziente: i miei +disegni erano per lo più palazzi complicati, con mille dettagli, oppure +foreste di montagna o ancora mappe di isole o visi di persone deformi. +Solo questi disegni mi distraevano. Preferivo utilizzare matite grosse e +scure, anche se le matite erano una tortura per me. Non ho mai sopportato +di vederle accorciare eppure non volevo perdermi l’inebriante odore di +legno che sprigionano quando la lama del temperino arriccia la loro pelle, +liberandone l’animula nera. Se usi, distruggi; questo è il fatto. Se non usi, +non godi: la vita è usare veramente e io non ero convintissimo di vivere. +Forse che la minaccia di morte era stata una mia allucinazione proiettata +da un desiderio insano di por fine a tutto? Riposi la matita e accartocciai il +foglio con tutte e due le mani, con rabbia. Era pomeriggio presto, decisi di +fare un giro a Central Park fino al Guggenheim per poi tornare e arrivare +puntuale all’Ansonia, da Shannon. +La prima impressione quando scesi in strada fu che l’aria fosse troppo +fredda per essere respirata: meno venti gradi Fahrenheit, diceva il +termometro esposto in un negozio; dovetti fare il conto, per sicurezza: +meno trenta gradi centigradi. La gente camminava velocemente +mascherata e protetta da indumenti ridicoli: vidi perfino una ragazza con +un enorme gatto vivo, rosso e pelosissimo, avviluppato attorno al collo. + Camminavano tutti in un silenzio irreale attenti a mettere i piedi nei solchi +di neve già pestata da altri. Arrivava già al ginocchio, tanta se ne era +depositata. Le automobili si erano quasi estinte lasciando spazio solo ai +grandi veicoli di servizio o ai taxi gialli, rendendo le strade canyon +surreali. Ma era il parco a stupire: bianco il cielo, bianchi gli alberi carichi +di neve, bianchi i prati e i sentieri e bianchi i laghetti ghiacciati. Qualsiasi +oggetto sembrava deforme e ingrandito per via dell’accumulo di neve +sproporzionato: biciclette con la sella alta una spanna, panchine che +sembravano troni, la casetta delle tartarughe con il cucuzzolo di un +castello bavarese. In tutto questo scenario eravamo in pochissimi – +qualche fotografo temerario – tra i sentieri del parco. Pensavo alla gente +che era andata a lavorare, alla fiumana di persone entrata in Manhattan +quella mattina che si sarebbe trovata bloccata sull’isola fino al giorno +dopo. In mezzo al parco la vera sorpresa di quella giornata fu il silenzio; +assoluto. Niente si sentiva: nessun motore, nessun aereo, nessun ciclista, +nessun cavallo, nessuno scoiattolo o piccione, nessun corridore. Niente. +Nemmeno il mio respiro che doveva esser breve per non far entrare troppa +aria gelida. Decisi di tornare indietro: troppo silenzio mi faceva sentire +cose che non volevo. Girai allora verso Central Park sud per poi ritornare +alla 73esima da Shannon. Arrivai un po’ troppo presto e mi fermai a +prendere una cioccolata in un diner su Verdi Square: da quella posizione – +mi piaceva sempre, se potevo, sedermi ai banconi attaccati al vetro rivolto +verso la strada – la statua del compositore, con cappello di neve come +quelli degli stregoni, mi guardava con aria di rimprovero. Era evidente che +dovevo risolvere la questione con Shannon e capire come potevo essermi +ingannato – perché mi ero convinto che non potevo che essermi +ingannato – a intendere quelle parole. Pensai che tutta quella tensione, +accumulata di fatto in quattro mesi di vita vissuta con l’acceleratore +schiacciato, mi dovesse aver completamente destabilizzato e il mio +equilibrio psicologico ne risentisse: figuriamoci se qualcuno mi avrebbe +voluto ammazzare, pensavo compatendomi; chi credevo di essere? +Shannon mi attendeva nel suo studio privato. Non si era accomodato su +una delle poltroncine eleganti vicino alla grande finestra su Broadway. Era +rimasto al suo posto dietro la grande scrivania stile impero piena di carte e +libri, appollaiato su una sedia di legno del Seicento olandese, +sproporzionata in altezza rispetto alla sua figura ma anche rispetto alla + stanza intera: un trono, insomma, dove questo re riceveva me, suddito +scalcagnato ma che per qualche motivo ignoto al suddito non poteva +essere evitato. “Carissimo Elia,” serpeggiò Shannon, “hai ripensato +all’incontro di ieri? Ti sono rimaste addosso le parole dei galantuomini che +abbiamo avuto il piacere e l’onore di incontrare? Ti confesso che, come ti +raccontavo ieri in macchina nel viaggio di ritorno, il Giardino degli +Equivalenti rarissimamente accetta estranei alle sue riunioni ma il tuo +ruolo in questa vicenda – che avrai capito essere fondamentale – non +poteva esimermi dal presentarti a quel consesso prestigioso. Oggi ho +ricevuto telefonate lusinghiere sul tuo conto; sei piaciuto a tutti e +infinitamente. Credo che non appena porteremo la decifrazione della +lingua di Pietramala tu potrai a buon diritto entrare nel Giardino a pieno +titolo, come si confà a chi ottiene un merito fondamentale.” Scherzava? +Provocava? Diceva davvero? Non ero in grado di capire: perché non mi +riportava la frase che il presidente gli aveva detto in disparte alla fine +dell’incontro? Non avevo il coraggio di chiederglielo; avrei fatto la figura +del ficcanaso e del cretino simultaneamente. Forse davvero avevo capito +male. +Mi disse che per cena ci sarebbe stata una sorpresa, specificò: una +sorpresa gustosa, molto gustosa, e mi sorrise di cuore. Fui rasserenato da +quel gesto. Dopo esserci accomodati nella sala da pranzo, ai due lati del +tavolo grande, apparecchiato solo a un estremo per noi due, arrivarono +due grandi zuppiere: nella prima – disse Shannon – c’era una clam +chowder come non l’avevo mai sentita, una versione con ingredienti +freschissimi e scelti per certamente apposta per lui; nella seconda, dei +ravioli di brasato al burro e salvia preparati secondo una ricetta speciale +lombarda. Furono appoggiate su due grandi basi di marmo pregiato; dalle +zuppiere emanavano volute di vapore profumato di cibo, inebriante, che +inondavano la stanza salendo a sbuffi fino ai soffitti alti a volta. Pensavo +che sarebbe stato meglio iniziare con la clam chowder, lasciando a un +momento successivo i ravioli di brasato, o forse, dato che nella clam +chowder c’era un fondo piccante, avrei dovuto iniziare con i ravioli, certo +più delicati, anche se forse l’intensità del brasato avrebbe potuto coprire il +sapore dolce dei molluschi spezzettati nel latte della clam chowder. Il +dubbio non durò molto perché Shannon interruppe la mia difficile +valutazione olfattiva richiamando la mia attenzione sulla necessità di + iniziare a catalogare i morfemi simili nel canto ritrovato in Corsica. “Come +diceva Pompeo, il grammatico, citando il De anomalia di Cesare in un liber +incertus: ‘Nisi omnia consentiant inter se, non potest fieri ut nominis +similitudo sit.’” Abituato a non esser capito, mi fece dono della sua +traduzione estemporanea, ma solo dopo avermi presentato un rosso +pregiato e un bianco ancor più nobile, per finire tuttavia a sorseggiare, +apprezzando con una certa ostentazione, un vino rosé, compromesso +anticipatorio del dubbio che ponevano le due zuppiere a base di carne, +l’una, e di pesce, l’altra. “Se tutti i fattori non concordano tra loro, non può +esserci una similitudine tra i nomi – diceva Pompeo; vedi, prendi questa +forchetta e questo coltello: è vero che sono posate, ma sono posate diverse, +perché una ha i rebbi l’altra no.” Mi parlava con voce squittente, quasi in +falsetto, con quel tono saccente e sbrigativo di certi fisici che, fingendo di +voler rendere accessibili concetti complessi, si rivolgono ad altri +utilizzando esempi di oggetti banali – spesso mele e pere – e finiscono con +lo sciacquare via ogni fascino dai fenomeni finendo con il non spiegare +niente se non qualcosa di ovvio a riguardo di mele e pere. Oppure peggio: +di quelli che invitano ad ammirare la bellezza di una formula, subito dopo +però aver dichiarato che chi la guarderà difficilmente sarà in grado di +capirla. Narcisista e nichilista al contempo: questo mi pareva fosse +Shannon. +Cercai con lo sguardo gli occhi del cameriere per sollecitarlo a servirci +una delle due zuppe che nel frattempo ci avevano inondato di aromi +rendendo la stanza una specie di serra gastronomica. Il cameriere mi +guardò ma rapidamente volse lo sguardo altrove, come per aspettare il +comando di Shannon. Avevo fame ma non osavo interrompere quel +cerimoniale e mi rimisi paziente ad aspettare, sorseggiando dell’acqua +tiepida e sgasata, mentre Shannon riprese. “Ho riflettuto molto sulle tue +pubblicazioni. Devo dire che apprezzo profondamente la tua passione per +il verbo essere e soprattutto il tuo tentativo di unificazione.” Reagii male +alla parola tentativo, il mio era un successo, poco riconosciuto forse, ma lo +era: non un tentativo tra gli altri. Trasalii, non aveva capito niente di tutto +quello che avevo fatto. Continuò, dopo aver schioccato la lingua gustando +un altro sorso di vino: “Il verbo essere è come una bella donna...” Non +riuscii davvero a sopportare anche quella metafora più stupida che frusta +della bella donna: impulsivamente, lo fermai con una scusa improvvisa + impedendogli di finire la frase. Shannon mi stava stupendo nel peggiore +dei modi. Ero a disagio; iniziai a giocherellare con la forchetta e a +tamburellare con le dita sulla tovaglia secondo un ritmo scazonte, molto +scazonte; lo feci infatti istintivamente con la mano sinistra, nell’evidente +ancorché inconscio desiderio di provocare ancor più fastidio con le mie sei +dita al posto di cinque. +“Da cosa preferisci iniziare?” mi chiese senza scomporsi Shannon che +accompagnò la richiesta con uno di quei suoi gesti ampi del braccio, da +anfitrione consumato, “Ti ho fatto preparare due piatti che so ti piacciono +tantissimo: una clam chowder del New England, mi sono procurato ieri gli +ingredienti a Marble Head, e dei ravioli di brasato italiani, anche questi +con ingredienti speciali spediti dall’Italia, Montalto Pavese, per la +precisione, Oltrepò.” Quella domanda mi spiazzò anche perché +descrivevano l’ovvio, con la sola aggiunta dell’esibizione erudita +dell’origine degli ingredienti che certo non ne avrebbe cambiato i sapori. +Rimasi in silenzio e la riformulai parola per parola in testa, come per +riconoscere un sapore prevalente che fosse superiore all’insieme delle +parti. Non venne fuori nulla; ero evidentemente troppo deluso e arrabbiato +per quella situazione. Avremmo dovuto iniziare a lavorare alla traduzione +del canto nella lingua di Pietramala, avrei forse potuto chiarire il tremendo +equivoco del giorno prima sulla mia morte e invece ero lì a sentire lui +farneticare sul verbo essere e in più non riuscivo a decidere cosa mangiare. +“Tieni conto che dovremmo metterci presto al lavoro sul canto della lingua +di Pietramala,” aggiunse vedendomi impacciato, “il presidente, ovviamente, +non sa che io non l’ho, cioè,” si corresse, “che noi non l’abbiamo ancora +tradotto; crede sia cosa facile, lui, ma ci riusciremo in poco tempo, +contando sulla tua grande capacità di scoprire e decifrare regole ignote. +Inizieremo presto, appena dopo cena, o al più tardi domattina.” La parola +domattina suonò in me come una di quelle sveglie mal programmate che ti +destano nel cuore della notte dandoti l’impressione fisica di qualcosa fuori +tempo: rimandare ancora? Ero arrivato a novembre a Manhattan; ora +eravamo in gennaio e non avevamo ancora iniziato. Per il mio carattere, +per la mia personalità, questo era sufficiente per farmi impazzire. Guardai +il cameriere e mi resi conto che non avevo ancora deciso da cosa iniziare. +Gli chiesi ancora dell’acqua, sperando almeno che fosse fredda e frizzante. + “C’è solo una cosa che mi sarebbe potuta interessare di più del verbo +essere, Elia, se avessi studiato linguistica di recente, e quella cosa è la +negazione,” disse negazione, asciugandosi contemporaneamente i bordi +laterali delle labbra con il tovagliolo mentre arrotondava la bocca +pronunciando la terza sillaba: quel gesto disgustoso che metteva insieme la +visione astratta della lingua come sistema di regole con quella +concretissima della lingua come appendice molle che cresce nella bocca mi +provocò una specie di attacco di nausea. “Ma insisto,” ripeté Shannon, “se +non scegli, ci toccherà passare al secondo; freddi, questi piatti sono +letteralmente immangiabili.” Provai con tutto me stesso a capire da quale +sapore iniziare per non rovinare tutto ma non uscì nulla. La clam chowder, +se cucinata bene, doveva essere delicata; i ravioli, invece, molto saporiti, +ma se li mangio dopo rischio di non sentire più il sapore del vino del +brasato, per via del peperoncino nella zuppa. Ero stanco, affamato, deluso, +annoiato, spazientito. “E tu, Elia,” aggiunse, “hai mai provato a scrivere +qualcosa senza mai usare la negazione? Non dico una frase o due: intendo +dire un intero racconto, o una relazione. È impossibile. La negazione +spunta dappertutto, non solo i casi dove compare in bella vista; penso +anche ai casi dove la negazione si nasconde in parole che non sembrano +contenerla. La negazione infatti si può stanare anche nei più innocenti +degli aggettivi: se dico solo qualche uomo corre non dico forse che non tutti +gli uomini corrono?” Rise, rise senza ritegno e, con un’aria da rimprovero, +guardando me ma facendo contemporaneamente un cenno rapido con la +mano al cameriere, disse tossendo per il troppo ridere: “Porti via le +zuppiere, per cortesia, il nostro Elia non sembra essere in grado di +decidersi e ha rovinato tutto lasciandole raffreddare. Sono diventate +immangiabili.” Mi tremavano le mani dalla rabbia ma non potevo reagire +come avrei voluto; rischiavo di mandare all’aria tutti quei mesi di attesa +nella speranza di decifrare il mistero di Pietramala. +“Spostiamoci in biblioteca, Elia, nella sala di lettura dei classici; ho +preparato delle copie ingrandite della trascrizione del canto. Potremo +iniziare a lavorare da lì e aggiungere comodamente tutte le annotazioni +per la decifrazione.” La sala lettura classici era la sua preferita nel labirinto +faraonico della sua biblioteca. Ci sedemmo su due poltrone ampie, sulle +quali aveva fatto appoggiare due cartellette piene e zeppe di fogli sulla +trascrizione e altre annotazioni sulla Corsica. Tolse con la mano la polvere + che si era accumulata sulla sua cartelletta, segno che non doveva averla +aperta negli ultimi mesi: “La polvere e i buchi, mio caro, sono la vera sfida +ontologica della realtà,” disse con l’aria poco intelligente di chi invece +vuole mostrare di esserlo molto. “La prima è dappertutto e ricopre tutto +ma non è niente; i secondi non sono nulla ma nascono solo quando ciò che +c’è si sottrae e offre lo spazio giusto.” Aprì con movimenti lenti la sua +cartelletta e soggiunse: “Mi permetti di assentarmi un istante? Inizia tu, +nel frattempo: datti da fare, mettiti subito sotto a leggere il manoscritto, +per favore. Farò presto.” +Non ebbi né la voglia di iniziare a leggere da solo né di rimanere seduto +sulla poltrona. Mi alzai: ero d’altronde nel sancta sanctorum della sua +biblioteca. Il cuore del sapere di Shannon; quel luogo nel quale aveva +raccolto e custodito tutti i suoi libri preferiti tra i milioni di quelli che +possedeva. Istintivamente, come attratto da un richiamo, presi un libro che +spiccava tra gli altri dallo scaffale più vicino alla sua scrivania e lo sfogliai +distrattamente. Sembrava intonso: solo l’indice dei nomi era stato +evidentemente letto, anche a giudicare da come sembravano ancora quasi +incollate tra loro le pagine del resto del libro, separate come un blocco da +quelle della fine. Ne presi un altro, curioso di sapere cosa stesse leggendo +Shannon in quel periodo: anche in questo la stessa situazione. L’indice dei +nomi compulsato, il testo ignorato e intonso. Presi a tirar fuori un terzo +libro, poi un altro e un altro ancora. Mi trovai a cavar fuori in preda ad +una specie di follia tutti i libri che mi capitavano a tiro: in ognuno di essi, +solo gli indici dei nomi erano consumati e solo le rarissime citazioni del +suo nome, per lo più come curatore di lavori miscellanei, spiccavano +sottolineate con la stessa biro blu dalla punta esageratamente ampia. Era +chiarissimo: Shannon non doveva aver letto nulla di quei libri. Aveva solo +controllato banalmente se negli indici era citato il suo nome. Fu come se +tutti i ruscelli all’improvviso scorressero all’indietro prosciugando i laghi e +i laghi i fiumi, e i fiumi i mari; ecco, solo allora si riuscirebbe a provare +cosa vuol dire scoprire che chi si era sicuri che ti amasse invece ti odia. +Uscii rapidamente dalla stanza e andai dal maggiordomo: con una scusa +che nemmeno ricordo mi feci riconsegnare rapidamente il giaccone e gli +ribadii che ero stato chiamato a casa per un’urgenza. Stupito, esitando, +balbettando qualcosa, il maggiordomo mi accompagnò alla porta: “No,” lo + prevenni io brusco, “dica, per cortesia, al professor Ismael Shannon che lo +richiamo io domani. Sarà meglio, mi creda, molto meglio.” +Uscii rapidamente dalla casa, poi dall’ascensore – Ireneo, capendo tutto +o, forse, solo spaventato dal mio respiro e dal mio passo troppo rapidi per +essere normali, non disse una parola – e infine uscii dal palazzo: in un +attimo sbucai in strada, in mezzo agli altri, senza salutare nessuno. +Shannon non era colui che pensavo fosse e quello che temevo avesse detto +su di me poteva davvero essere la verità. Doveva uccidermi? +[5.2] C’era qualcosa che non capivo. Decisi di prendermi un giorno di +astinenza dal mondo per riflettere. Continuavo con ostinazione a +riassumere l’ultima puntata della mia vita per capire a che punto ero. +Dunque: io arrivo in Corsica e scopro che il borgo del quale dovrei +descrivere la lingua non solo è disabitato ma che non c’è più alcuna traccia +scritta della lingua e che nel cimitero mancano tombe di bambini; scopro +poi, per caso, che rimane la memoria di un canto in quella lingua e che +della trascrizione di quel canto si occupa un professore americano. Arrivo +in America, lo incontro, mi chiede di aiutarlo e poi di fatto non facciamo +assolutamente nulla per risolvere l’enigma; anzi, mi presenta a tutti come +colui che l’ha già risolto e, pur nel dubbio di un’interpretazione paranoide +da parte mia, arrivo a guadagnarmi una minaccia di morte da parte del +presidente di un’associazione della quale nessuno sa nulla e che, a quanto +pare, ha mire planetarie e risorse infinite. Dove stava l’errore? Qual era il +punto che non capivo? Ma forse quella inopinata catastrofe della mia vita +non era la conseguenza o l’effetto che dir si voglia di un unico motivo, +d’una causa al singolare. Forse io ero come in un vortice, un punto di +depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno +cospirato una molteplicità di causali convergenti. Forse. O forse no. La +sindrome muta. Più probabilmente mi ero illuso che seguire una pista +misteriosa quando la vita ti sembra spenta non riaccende proprio niente: +anzi, peggiora solamente lo stato di fatto, aggiungendo finte piste e finti +sensi laddove ci sono soltanto sensi unici e strade senza uscita, assurde. +Non capivo – lo confesso – ma capivo a sufficienza per rendermi conto +che il motivo dell’incomprensibilità non ero io. Le parole di Shannon che +avrebbero dovuto finalmente dipanare il bandolo non solo non erano mai + arrivate, ma quelle che aveva pronunciato mi avevano confuso ancora di +più, facendomi credere che il problema fosse nella mia intelligenza e non +nei fatti. L’oscurità delle sue false spiegazioni mi aveva irritato oltre ogni +misura. Sperava di irretirmi con quel suo modo di fare misterioso, con +l’eleganza dei toni e le tavole imbandite? Perché era solo questo che finora +mi aveva dato Shannon: esibizioni di eleganza formale e di sfarzo; +sterminate collezioni di citazioni erudite e di trucchi retorici. Solo i cretini +ammirano e amano tutto quello che colgono nascosto sotto parole +stravolte e ritengono vero quello che tocca le loro orecchie con eleganza +camuffato da un suono piacevole; io – almeno lo speravo – non ero un +cretino. Io mi ritenevo immune dagli inganni retorici; avevo imparato a +memoria il Protagora io, e il Gorgia: niente poteva farmi cadere nella +trappola dei ragionamenti vacui. “L’eleganza va lasciata al sarto.” Mi +ripetevo le parole della Signora: “Quando si ragiona è solo la verità che +deve vincere, tutto il resto viene dopo.” Chi va in giro a dire che siamo +guidati dalla bellezza nella ricerca di una spiegazione è chi non ha mai +scoperto nulla. Sottospecie meno pericolosa di chi si stupisce che +l’universo sia comprensibile, sia pure in minima parte: per forza lo è, se +non lo fosse non potremmo formulare nemmeno una domanda e dunque o +l’universo è almeno un po’ comprensibile o noi non esistiamo come esseri +senzienti e dunque non esistono le domande. È come dire che ciò che è +stupefacente del cibo è che sia commestibile: se non lo fosse non +esisterebbe in quanto cibo, sarebbe altro. Semmai dovremmo stupirci di +cosa capiamo e di cosa mangiamo, perché ciò dipende da come siamo +costruiti. +Stavo vivendo una tensione acuta, fisica. Stavo per esser triturato da +due macine convergenti: l’unica possibilità era divincolarmi in modo +rapido. In effetti, la Signora mi diceva sempre: “Ci sono due modi per +scivolare attraverso le avversità della vita: credere a tutto o dubitare di +tutto. Entrambi i modi ci risparmiano di pensare e non portano a niente.” +Come aveva ragione! E io non potevo permettermi il lusso di smettere. +Avevo superato, senza nemmeno ammetterlo, il punto di non ritorno. +Abbandonare quella storia e tornare indietro sarebbe stato come decidere +di rinunciare a essere un protagonista della mia vita. Piuttosto, dovevo +fermarmi e capire cosa stava succedendo. Innanzitutto occorreva +individuare le forze in gioco: senza forze, non c’è movimento, senza + movimento non c’è tempo, senza tempo non ci sono né i problemi né le +persone. Quali erano le forze in gioco? Certamente ce n’erano almeno due. +Da una parte, la necessità di decifrare la lingua di Pietramala – senza +questo passo non aveva senso pensare a un passo successivo: questa forza +dominava sia me che Shannon; tutti e due eravamo interessati a capire +come funzionasse quella lingua. Dall’altra, c’era qualcosa che costringeva, +o almeno portava Shannon a frenare la decifrazione; non era una forza alla +quale ero sottoposto io direttamente, ma la conseguenza di tale forza era +ormai parte della mia vita. +Questo era davvero il primo passo: decifrare le forze che agiscono +intorno a noi, su di noi. Noi non ci accorgiamo sempre di cosa agisca su +quello che facciamo, sulle nostre decisioni, sia che si tratti di forze +semplici, generali e ubiquitarie sia che si tratti dell’intreccio di forze +complesse, locali e frammentarie. Come nel caso dell’astronomia, la +difficoltà +di +riconoscere +il +movimento +della +Terra +consiste +nell’abbandonare la sensazione immediata e intuitiva della fissità della +Terra e del moto dei pianeti, così nella storia – e direi nelle vicende +individuali – la difficoltà di riconoscere il fatto che la personalità è +sottoposta alle leggi di spazio, tempo e causa risiede nella rinuncia della +sensazione diretta dell’indipendenza della propria personalità. Quali erano +le leggi, i moventi – letteralmente, dunque: i “moventi” – che spingevano +Shannon a dirigersi apparentemente in due direzioni uguali e contrarie? +Non era facile dare una risposta, ma non tanto perché queste forze erano +occulte, quanto perché la percezione di due movimenti opposti, per quanto +distinti ed evidenti, non necessariamente conduce a riconoscere due leggi +opposte. Questo vale nella fisica delle cose così come nella fisica della vita. +E non potei fare niente di meglio che ripetere a memoria un passo di +Lucrezio, che non sapevo fino ad allora come mai, tra gli altri, mi fosse +rimasto impresso nella mente. E lo ripetei mentre camminavo evitando le +infinite persone che si muovevano in senso opposto al mio, così tante che +non potevo credere la vita ne avesse fatte nascere. Era l’ora di punta di un +venerdì di fine gennaio, mi trovavo in quel momento sull’Ottava, tra la +42esima e la 41esima, dove mi sorprese la vista del grattacielo trasparente +più bello della città. Si vedeva un brulicare di persone alcune intente a +salire, altre a scendere, dando l’impressione di due moti contrapposti ma +fluidi. Ripetei sussurrandole dentro di me queste parole: “Niente si muove + verso l’alto, malgrado le apparenze. Tutto viene attratto in basso. Se +vediamo salire qualcosa verso l’alto è perché c’è una forza che lo spinge. +Come quando le fiamme saltano verso i tetti, o il sangue vivo e rosso +sprizza dal nostro corpo o quando ancora cerchiamo in tanti di cacciare +giù con le mani una trave di legno nell’acqua e quella vien risputata fuori, +come se l’acqua stessa la vomitasse: dubitiamo forse che una trave non +cada verso il basso?” Quelle immagini mi sembrarono sgorgare da me +come le avessi pronunciate io per la prima volta, tanto che mi chiesi se la +forza della poesia non fosse proprio quella di indurre nel lettore il delirio +dell’originalità. +Forse, allora, Shannon non andava verso direzioni diverse dalla mia. +Forse tutti e due andavamo nella stessa direzione ma qualche fattore +esterno le faceva sembrare diverse. Il problema era allora capire quale +fosse la direzione. E riaffiorarono alla memoria anche le due zuppiere sul +tavolo di quella sera: forse per un involontario desiderio di comunicare +senza parole, forse per un progetto preciso di farmi sentire coi sensi quello +che voleva sentissi nella mente, Shannon mi aveva costretto a provare +quello che prova un animale quando deve scegliere, anzi mi aveva +trasformato in un animale. Ero l’asino di Buridano: messo esattamente in +mezzo a due stimoli uguali e soddisfacenti, per paura di perderne uno +tralasciandolo per un istante mentre avesse colto l’altro, finì con non avere +né uno né l’altro. Così aveva ridotto me quella Circe di Ismael: io animale +senza scelta ci ero cascato ma avrei usato questa esperienza per non +cascare nella trappola più grande in cui ero capitato. Non avevo +alternativa. Ben sapendo che capire è una dannazione dalla quale non si +torna: a quel punto ero condannato a farlo. +[5.3] Arrivai in teatro rattrappito e cupo: Ariel e Calibano stavano ancora +occupando il palcoscenico con le prove; non potevo apparecchiare né +prepararmi il letto – tutta la scenografia era ancora montata sul palco e +anche le luci erano puntate sulla scena – mi misi dunque comodo in +seconda fila per assistere alle prove. Pensavo mi sarebbe servito per +sbrinare cervello e mente e, alla fine, per rilassarmi. Era una scena +decisiva: Ariel camminava su due trampoli altissimi, coperta da un tulle +bianco, grande e complicato che la travestiva da nuvola. Delle luminarie + flessibili attraversavano il costume da capo a capo accendendosi +intermittenti come saette, mentre fuori scena il clangore di due lastre +flessibili di metallo sbattute l’una contro l’altra e il rullo crescente di una +grancassa completavano l’imitazione del tuono che mi parve più vera del +vero. Ariel inarcando la testa tendeva il collo sputando maledizioni con +una vocina stridula a mezzo tra una donna e un bambino; le lanciava +contro Calibano che nudo si rotolava in un fango finto, fatto di chicchi di +caffè che rimanevano appiccicati alla sua pelle e schiacciandosi +emanavano un aroma tostato; in tutto questo, lui doveva grugnire parole +incomprensibili. +“Ferma, ferma, ferma tutto,” gridò all’improvviso Calibano, alla fine di +un tuono che parve quasi si prolungasse sulle sue parole. “Così non va, +Ariel: non ti vedi? Sembri entrata dalla finestra del cesso. Stai governando +nembi plumbei e gonfi di pioggia e di terrore, ti accompagnano le arpie in +persona, e tu starnazzi.” +Ariel, scese dai trampoli lentamente ma senza tentennare; era +visibilmente infuriata, come chi all’improvviso si sente ridicolo nei suoi +panni, e la sua furia era involontariamente sottolineata dalle saette di luce +che continuavano ad accendersi a intermittenza nel suo costume da +nuvola pur senza alcun rumore. Il suo solito sorriso era diventato +irriconoscibile, fragile: era in attesa di qualcosa che le facesse recuperare il +senso di quello che lei ora era, come l’acqua su un sapone secco. Sopra le +loro teste si stavano radunando rapidamente draghi affamati di rancore, +mentre loro, prendendo pericolosamente forza ciclonica come se fossero +due avversari di lotta che giravano circospetti in tondo, lentamente, a passi +misurati, esploravano il punto debole l’uno dell’altro e il momento +migliore per sferrare improvviso l’attacco: quelle forze si stavano così +rinforzando a vicenda e sembravano pronte a inghiottire tutto quello che +avrebbero incontrato sul loro percorso. +Sorprendentemente, Ariel non rispose a Calibano, che congedò in fretta +tutti i rumoristi e i tutti i tecnici senza parlare. Ariel allora si levò i +costumi di scena con gesti lenti e tristi, rimanendo per un attimo ferma in +piedi in mezzo al palco con una calzamaglia candida che sottolineava quel +suo corpo atletico e smagrito e lo sguardo puntato a terra: si infilò un +maglione azzurro molto più grande di lei e si rannicchiò abbracciandosi le +ginocchia; poi reclinò la testa come per nasconderla, lasciando sbucare + fuori solo il ciuffo dei suoi capelli biondi: sembrava una medusa strana +afflosciata sul fondo del mare. Calibano, le si avvicinò con parole dolci. Al +sentire queste parole, Ariel alzò la testa e gli chiese se questo era il segno +di riconoscenza per quello che lei aveva fatto per lui. Non fui stupito. +Poche leggi hanno meno eccezioni di quella per la quale a ogni azione +emotiva ne corrisponde una uguale e contraria. Calibano, se mai fosse +stato necessario, la confermò con un calcio a un secchio di polvere blu che +nel rotolare provocò una nuvola che ci avvolse tutti facendoci tossire a +lungo. +“Imbecille: saresti capace di rovinare tutto anche senza trarne nessun +vantaggio per te. Sai solo mangiare, tu,” reagì Ariel diventando tutta rossa. +“L’uomo è ciò che mangia,” rispose Calibano imitando la posizione di +un gorilla, battendosi le mani sul pancione rotondo che risuonò come una +grancassa. +“Sto covando inconsapevole uova di serpenti nel mio letto,” gli sibilò +Ariel. “Caldo e morbido come un fienile d’estate, ti ho fatto spazio nel mio +letto e tu ora mi ripaghi così? La nostra coppia non è una coppia: tu non +percepisci minimamente quello che io ho fatto per te. Quanto mi sta +costando credere a questo inganno?” +“Infatti io non voglio una coppia: io voglio una famiglia.” +“Una coppia è una famiglia, cretino: chiedilo un po’ a Elia se è +d’accordo. Diglielo tu, Elia!” +“Sì, Elia, diglielo tu,” urlò girandosi di scatto verso di me Calibano. +Mi stavano tirando ognuno dalla propria parte, come se mancassi solo +io per risolvere lo stallo di un tiro alla fune. E dire cosa? Dire che a me del +loro litigio non importava nulla e che mi importava invece che non +litigassero? Dire che parlarmi di una coppia mentre ero nei guai, da solo, +in una città lontana dai miei affetti non mi metteva certo a mio agio? Dire +che non sapevo a chi dare ragione ma che anche se l’avessi saputo non +avrei voluto scegliere? Non dissi nulla, invece. Una seconda ondata più +violenta si stava gonfiando. +“Come hai fatto a cambiare così? Ti ricordi cosa mi scrivevi, +signorina?” Calibano tirò fuori un foglietto dal suo cassetto: “Miele fresco ti +porterò e tende di cotone riempirò di ricami per proteggerti dal sole di +montagna e toglierò il sale dall’acqua di tutti i mari per esser sicura di aver +acqua sufficiente per dissetarti, amore mio. E frutta d’inverno poi ti porterò e + neve in spiaggia d’estate in buffi fiocchi con cucchiaini d’argento. E un +dondolo di baci e di api domestiche ti culleranno all’ombra delle orchidee, e +ancora una cascata di monetine d’oro tintinnanti più che una risata di +cherubino. Ecco: questo mi scrivevi. E ora dove è finito il tuo amore? Ora +che conosciamo i nostri odori, ora che ti ho visto deodorarti le ascelle e +asciugarti dopo aver pisciato, ti amo forse meno? Mi chiesi allora, +sinceramente, se non fosse il pudore a salvare gli amori; quella distanza +istintiva che mettiamo tra i nostri umori e gli altri, tra i gesti che +compiamo su di noi per forza e che non vorremmo compiere e gli sguardi +degli altri, come se non avessimo tutti un culo e il naso.” +Non capivo, malgrado questo, cosa stesse succedendo: Calibano e Ariel +erano trasformati. Poco aveva a che fare il litigio con le prove; qualunque +errore Ariel potesse aver commesso certamente non giustificava la furia di +Calibano né la reazione di rifiuto totale di Ariel poteva spiegarsi con +l’insulto di Calibano. +Ariel non mollò: “Se non so più scrivere così,” riprese Ariel, “è perché +non me ne lasci il tempo. Io ho bisogno di una rincorsa lunghissima per +fare un salto decente: ogni cosa che scrivo prevede una concentrazione +lunga. Ogni ora di lavoro ne richiede otto di silenzio e rimuginio. I miei +momenti produttivi assomigliano di più a quelle vomitate precedute da ore +di sviamenti, di tentativi di pensare ad altro per rimandare il conato, che a +una serie di noiosissimi rutti cadenzati.” +“Sei un buco nero emotivo; niente che ti arrivi esce più da te e tutte le +sensazioni che entrano nella tua rete deformata sono risucchiate per +sempre.” +“Non puntare mai su un unico amore se non sei sicuro che ti lasci +libero,” Calibano si rivolse di nuovo direttamente a me. Poi prese in mano +un libro, quello in cui raccoglieva le frasi più belle che aveva letto e disse: +“Io giuro, giuro su questo libro che non mi lascerò mai più irretire +dall’amore per una donna.” +“Giura, giura quanto vuoi, ma non su qualcosa fuori di te: sdraiati tu +sull’altare e fatti mangiare tu invece che rimpinzarti. Tu non mi ami.” +Mi ritirai in silenzio lasciandoli continuare a urlare. Ignorando tutto +quello che mi stava intorno, mi infilai nella mia branda, quasi nel mezzo +del palcoscenico, visto che la scenografia non l’avevano spostata, troppo +intenti a litigare. Ariel e Calibano: come avrei potuto aiutare due anime + così diseguali? Erano per me come l’acqua sull’asfalto caldo. Non +potevano compenetrarsi: l’una evapora al contatto con l’altro, lasciando +solo un odore strano nell’aria. Quella giornata era iniziata con due +zuppiere piene di buon cibo che non ero riuscito ad avvicinare e finiva con +due amici che litigavano e che non potevo separare. Due forze diverse ma +sempre opposte segnavano quella giornata. Io nel mezzo che non sapevo +come fare. Clara Maria: che nostalgia profonda per quelle care mani, +quelle labbra d’albicocca che appoggiandosi alle mie rendevano inutili le +parole, quei fianchi morbidi e profumati dove affondare le mani. Niente. +Ora solo forze esterne che tiravano in direzioni opposte e io in mezzo. Qui, +inchiodato al presente e allo spazio che occupo, inseguendo il sogno di un +mistero non mi muovevo di un millimetro. Mi sembrava di essere malato: +forse un’influenza, forse una malattia più grave. Avrei voluto un abbraccio +ma non un abbraccio finto, di quelli mimati nei ricevimenti di gala o tra +colleghi: volevo un abbraccio di quelli veri, di quelli che sorprendono i +malati che nessuno tocca più. +Nel margine ultimo di quella giornata, quando tutti i sentieri erano +stati percorsi invano, mi assopii ma il sonno non attecchiva. Ero fradicio di +tristezza come neve in una pozzanghera. Rimasi a lungo in bilico sulla +soglia della coscienza vedendo oggetti e parole liberati dalla forza di +gravità fluttuare da un mondo all’altro e trasformarsi gli uni negli altri. +Cosa è utile fare per chi soffre? Me lo chiedevo e diventavo tutto +dilatandomi e poi rapidamente mi riducevo a un puntino infinitesimale e +non sapevo più che invece ero io. E mi sovvenne il ricordo tristissimo di +quella donna, impazzita, che al suo bambino che sarebbe certamente +morto di malattia dopo qualche mese, in quello che le parve il più +generoso sforzo del suo ragionevole ruolo di madre, sotto i rami ricurvi +carichi di luci e nastri colorati di un grande albero di Natale, fece trovare +come regalo, ben lucidata, una piccola, comodissima bara bianca. +[5.4] Stavo russando, ma in quei suoni, che si facevano largo nei miei +sogni, mi parve di riconoscere un significato e attizzato dal desiderio di +interpretarli mi svegliai. La notte non era stata nemmeno in grado di +durare il tempo di un sogno. Ariel e Calibano stavano dormendo. Avevano +allontanato le brande. Non si era risolto il litigio della notte prima. Mi + svegliai pieno di senso di stupore – forse confuso da quel messaggio che +credevo di aver colto nel mio russare – e cercai allora di trovare un motivo +allo stupore per non contraddire quella sensazione così forte e presente. +Non dovetti pensare molto. Ero nato: questo era sorprendente, forse solo +meno del fatto che qualcuno riesce a vivere senza ricordarsi che deve +morire. Siamo veramente tutti matti. Soddisfatto di quel tentativo di +equilibrio emotivo che avevo impiantato mi ricordai che dovevo alzarmi e +riprendere in mano la mia vita. +Era venuto il momento di prendere una decisione su come procedere e +dovevo farlo da solo impegnando tutte le mie facoltà e i miei sensi, inclusa +la pancia e tutti i suoi neuroni. Pensai di uscire ma faceva ancora troppo +freddo per due passi. Mi rimase solo l’alternativa di andare in un negozio +di libri, di quelli sterminati dove la gente si siede per terra a leggere e può +bere e mangiare come in un bar italiano; lì avrei fatto colazione. L’aroma +del caffè stemperato con il profumo dei libri mi avrebbe tranquillizzato e +avrei potuto prendere una decisione serena: tornare in Europa e affrontare +da solo il mistero di Pietramala. +Li lasciai dormire. Distanti: lei, arruffata nelle lenzuola e nella coperta +spessa, sembrava fatta di stoffa; lui, scoperto con un pigiama troppo stretto +per il suo corpo grasso, a gambe larghe che quasi abbracciava la branda +con il cuscino per terra. “Fino a quando accetti di dormire di fianco a +qualcuno,” mi dissi, “vuol dire che almeno un po’ ti fidi.” Il sonno è davvero +il germe della società ed è questa la sua funzione che lo ha salvato dal +tritatutto evolutivo, non ne ha altre: di obbligarci a essere fiduciosi, +almeno per un momento nella vita. Chi non si fida non dorme; chi non +dorme muore. Capii allora che volevo bene a quei due. Avrei voluto +stringerli insieme, baciarmeli, riunirli, ma nemmeno volendo ci sarei +riuscito: stavano andando alla deriva ed erano già troppo lontani. +L’aria su Broadway era ancora più fredda: un vento fortissimo spirava +da nord-ovest dopo essere calato dalle pianure del Canada e dai grandi +laghi raccogliendo tutta la brina infernale del Midwest. C’era ancora meno +gente per le strade e le auto avevano ormai tutte l’inconfondibile colore +giallo dei taxi; qualcuno doveva aver diramato l’ordine di non andare al +lavoro né a scuola. Perfino la verdura dei fratelli Arvali quel giorno non +era esposta: solo un peperone rosso, caduto da qualche cesta, rotolava tra +la neve del marciapiede spinto da una folata più violenta. Un bambino, + stupitissimo, lo vide e rise. Entrai nella libreria, salii al piano dei libri per +adulti saltando i banconi nell’ingresso, quelli dei libri da classifica, quelli +che se – come dico io – si abolisse una volta per tutte la stampa nessuno +copierebbe a mano evitando così di colmare un buco decisamente +necessario. +Mi trovai un tavolino in disparte; avevo voglia di almeno un paio di +frittelle, una alla mela e una alla vaniglia, e di un tè dal profumo intenso di +bergamotto. Feci prima spazio sul tavolino di legno lucido, presi un foglio +e cercai di scrivere quello che stavo vivendo, almeno per trovarmelo di +fronte, osservarlo e poter scegliere con calma. Non scrissi parole, o meglio +non scrissi solo parole. Fu invece un disegno. +La prima cosa che disegnai fu un cerchio – molto ben fatto, a dire il +vero – sul lato sinistro del foglio. Dentro il cerchio scrissi il nome di +Shannon e, istintivamente, associai a lui i due termini contrastanti della +sua teoria generale del linguaggio che scrissi sempre nel cerchio ma più +sotto: “analogia” e “anomalia”. In fondo, l’unica cosa che mi aveva dato di +sé in quei mesi, nelle nostre conversazioni, salvo la minaccia ultima, era +proprio quella sua teoria del linguaggio umano come equilibrio tra due +forze contrastanti. Era tutto ciò che avevo appreso di nuovo e, +apparentemente, era quello che doveva aver generato l’esperimento antico +di Pietramala. Era ciò su cui aveva costruito la fiducia del Giardino degli +Equivalenti nel progetto di costruire una nuova base per l’apprendimento, +facendolo passare attraverso una lingua artificiale ben progettata secondo +il principio di equivalenza tra gli equilibri. +Poi disegnai un secondo cerchio, sulla parte destra del foglio, ma non +del tutto lontano. Questo cerchio si intersecava con l’altro; dentro il +secondo cerchio, ma fuori dall’intersezione, scrissi il mio nome e appena +sotto, per simmetria con quello precedente, scrissi “fidarsi” e “diffidare”. +Questo era il mio dilemma più profondo: io, da solo, lontano da casa e da +una realtà che mi era per un istante sembrata dischiudere una vita nuova, +potevo fidarmi di quest’uomo e delle sue teorie? Potevo darmi da fare per +decifrare una lingua perduta con lo scopo di capire qualcosa di più del +linguaggio umano oppure dovevo invece staccarmi immediatamente da un +gioco che era sia troppo grande che troppo sporco per essere compatibile +con tutte le mie scelte precedenti? Io che non ero voluto entrare nel +mondo dei grandi ricchi, malgrado la Signora me l’avesse implicitamente + e, talvolta, anche esplicitamente offerto, potevo ora diventare una pedina +di una società di malaffare? Non avevo appigli per scegliere, potevo +solamente fidarmi o non fidarmi e questa fiducia passava necessariamente +attraverso la fiducia in una persona specifica: Ismael Shannon. +Infine disegnai un terzo cerchio, appena sotto gli altri due, nella metà +inferiore del foglio in modo che intersecasse i primi due. In questo altro +cerchio scrissi, sempre fuori dall’intersezione con gli altri due, il nome di +Calibano e Ariel e sotto “amare” e “odiare”. Ecco il turbamento profondo +che mi provocava la rottura tra Calibano e Ariel: non era solo una rottura +tra di loro; diventava di riflesso anche la mia rottura, proprio nel momento +in cui mi rendevo conto che la loro unione garantiva l’unione delle mie +parti, alcune delle quali corrispondevano ad Ariel e altre a Calibano. Per +aiutare Calibano e Ariel avrei dovuto avere il coraggio di capire se quel +conflitto non mi avrebbe portato a riconoscere che io stesso non andavo +bene +com’ero: +sarebbe +stato +come +voler +portare +a +riva +contemporaneamente due persone che affogano; sarei facilmente potuto +affogare insieme a loro. +Mi sistemai meglio al tavolo del caffè della libreria e subito una ragazza +con una bocca troppo rossa per i miei pensieri si avvicinò per +l’ordinazione. Mentre scriveva si passò sovrappensiero la punta della +lingua sui denti, così belli e luminosi che per riflesso feci lo stesso gesto +con la mia lingua sui miei denti: lei se ne accorse e arrossì, scrisse +velocemente l’ordinazione e si allontanò senza dire niente: nel farlo, uno +dei tre braccialetti che portava al polso, un sottile cerchio d’oro, cadde per +terra e poi le caddero anche gli altri due. Mi chinai per raccoglierli e +porgerglieli, quasi per scusarmi del gesto di prima: “Si staccano sempre +tutti, quando se ne stacca uno,” mi disse senza guardarmi negli occhi. “Si +staccano sempre tutti, quando se ne stacca uno,” ripetei io ancora imitando +il movimento delle sue labbra. Ritornai al tavolo e tirai fuori il foglio con i +tre cerchi. Ripetei ancora quella frase: “Si staccano sempre tutti, quando se +ne stacca uno.” Ma certo! Ecco cosa volevo dirmi con quel disegno: i tre +cerchi sono legati tra loro in modo indissolubile ma basta che solo uno +qualsiasi degli anelli si stacchi perché siano liberati anche gli altri. È una +configurazione ben nota ai topologi come “anelli borromaici”, dal nome di +una casata di mercanti e banchieri famosa in Italia già nel Cinquecento, +quella dei Borromeo, che l’aveva adottata come simbolo nello stemma + araldico a indicare che solo tutti uniti si sta insieme; un gioco dove ogni +giocatore può distruggere unilateralmente l’unione degli altri. Non +riuscivo a crederci: guardai il mio disegno con i tre cerchi e riconobbi in +essi il legame degli anelli borromaici. Ecco come avrei dovuto procedere: +non dovevo cercare di sbrogliare tutti e tre i problemi; era troppo difficile. +Analogia e anomalia, amore e odio, fiducia e sfiducia: non si trattava di +una ghirlanda complicata; bastava sciogliere il legame tra due problemi +per sciogliere anche quello che legava gli altri due. Questo mi sembrava +un buon punto di partenza. Con questa prospettiva potevo avere il +coraggio di affrontare ancora la mia vita: non ero perduto, c’era +certamente un modo per districare il garbuglio perché – me ne ero +convinto – nella natura di quell’intreccio stava anche la chiave della +soluzione di Pietramala. +Avevo ragione? Non potevo esserne sicuro – e oggi posso ammettere +che non ne avevo – ma questa conclusione mi infondeva un ragionevole +ottimismo, una forza sufficiente a pensare di dominare la complessità della +realtà che avevo di fronte. Guardai fuori e vidi che aveva quasi smesso di +nevicare. Quel cielo immacolato era meno compatto e a sprazzi lasciava +intuire che dietro ci fosse il sole. Almeno, così mi azzardai a sperare +perché mi chiesi se invece non si fosse spento e se i prossimi sarebbero +stati gli ultimi otto minuti di luce orfana. Sentii arrivare un attacco di +escatofobia come non ne avevo da mesi. Mi alzai di scatto dal tavolino. +Dovevo reagire. Non potevo perdere più tempo: bisognava scegliere da +quale anello partire per smontare la catena che mi teneva prigioniero. +[5.5] Al telefono, le sue frasi mi suonavano come barzellette già sentite; +questo era per me ormai l’effetto delle parole di Ismael Shannon. Mi parlò +ostentando un tono tranquillo, la voce rugosa e profonda di chi stava +seduto in poltrona, dicendomi che presto avremmo iniziato l’operazione. +Ero ormai visceralmente disgustato da quella finzione. Gli risposi che per +una settimana sarei stato impegnato, calcando l’accento su quell’impegno +non ben dichiarato, ma che presto sarei tornato di nuovo disponibile. Che +altro potevo fare? Dovevo cavarmela da solo, spezzare la catena dei nodi +borromaici che mi teneva imprigionato. + Da dove iniziare? Non avevo alcun appiglio: nessuno degli anelli si +presentava più facile da sciogliere e, a dire il vero, non avevo nemmeno la +garanzia che la soluzione di un mistero avrebbe illuminato tutti gli altri. +Magari risolvendone uno sarei stato comunque incastrato dagli altri due. +Decisi subito di scartare il problema della relazione tra Calibano e Ariel: +non sarei riuscito in quel momento a dare loro una mano. Quell’affetto +inaspettato quanto intenso che mi legava a entrambi mi rendeva la +persona meno adatta a entrare in contatto con loro. Avrei volentieri +tentato di rompere quella simmetria nefasta per permettere loro di cadere +e poi riavvicinarsi ma per ora non c’era nulla da fare. E non era da +sottovalutare il fatto che la loro relazione mi richiamava alla memoria i +momenti vissuti con Clara Maria e tutto quel mondo in sospeso che avevo +abbandonato a ottobre e che ora osservavo dall’esterno come si osserva un +malato dietro al vetro al reparto degli infettivi. +Avrei invece potuto cercare di capire se avevo motivi per fidarmi di +Shannon: quello era un punto cruciale. Se avessi deciso di fidarmi, +rinunciando a vivere nel sospetto e concedendomi totalmente al suo piano, +avrei risparmiato tanta fatica ma se mi fossi fidato della persona sbagliata +sarebbe stato davvero come buttare via tutto quello che avevo fatto fino ad +allora o forse la vita stessa; sempre ammettendo che quello che avevo +sentito ordinare a Shannon da quell’uomo ricco e spregiudicato che +presiedeva il Giardino degli Equivalenti fosse una frase autentica e non +una battuta malriuscita. Ma come si fa a decidersi se fidarsi di una persona +o meno? È naturale che, scartando la possibilità di basarsi sull’intuizione, +opzione sempre valida ma che in questo caso farebbe svanire la fiducia +come in uno specchio di fronte a un altro specchio, occorre basarsi su delle +prove. Io non ne avevo nessuna cogente. Né da ciò che c’è né da ciò che +non c’è: nemmeno la probatio diabolica mi poteva aiutare. L’anello della +fiducia e della sfiducia non era aggredibile. +Non mi rimaneva che l’ultimo anello: quello della struttura della lingua. +Decidere se una lingua umana poteva veramente essere vista come il +punto di equilibrio tra analogia e anomalia, se quello fosse cioè il vero +segreto di tutte e solo le lingue umane. Se l’ipotesi di Shannon fosse stata +vera, certo chiunque avesse avuto accesso al progetto di quella lingua +artificiale avrebbe avuto un’enorme potere di controllo sui singoli +individui e, in definitiva, sulle società; come disse il presidente, avrebbe + potuto generare un nuovo sistema di apprendimento basato su questo +principio di equilibrio e con esso veicolare facilmente qualsiasi contenuto. +I disegni non erano serviti: mi era ormai chiaro che non sapevo ancora +da dove iniziare. La trascrizione del canto l’avevo controllata decine di +volte: non emergeva nessuna grammatica in modo naturale. Io dovevo +piuttosto concentrarmi e cercare un modo per verificare se l’ipotesi +dell’equilibrio tra anomalia e analogia reggeva. Facilissimo a dirsi, meno a +pensarsi: mi mancava un appiglio di qualsiasi tipo. E poi cosa mi garantiva +che quella lingua inventata nel Seicento fosse stata costruita con lo stesso +scopo di quella che aveva in mente Shannon? Neppure questo andava +escluso: forse, semplicemente, Shannon aveva preso un abbaglio. Forse la +lingua di Pietramala non era stata costruita su base analogica, seguendo la +tradizione antica, e forse non provava nulla. +Non avevo alternative che riandare ancora una volta con la mente ai +giorni passati a Pietramala. Ripercorsi ancora l’entrata nel villaggio, la +prima notte nella casa al buio, bagnato fin alle ossa. Poi i sopralluoghi, le +case, la chiesa. Niente. Nessun particolare poteva farmi pensare a qualcosa +che mi aiutasse a decifrare qualche aspetto di quella lingua; che +permettesse di capire se lo schema di Shannon fosse corretto o meno. +Ripensai al giro intorno alle mura e al cimitero. Magari la soluzione stava +nella struttura del borgo. Ma cosa mai avrebbe potuto avere una lingua di +riflesso dall’ambiente nella quale si sviluppa? Le lingue non rispecchiano +mai le proprietà del mondo: perfino un nome semplice come fiume non +coglie qualcosa di fisicamente vero ma non è colpa della lingua; sono i +fiumi che non esistono, fluidi instabili nei quali non si può entrare due +volte senza che cambino completamente. Figuriamoci se la lingua di +Pietramala poteva avere qualcosa di simile alla forma del borgo. +Conoscevo solo un caso che sembrava contraddire questo divorzio tra +realtà e regole, un caso che non so perché mi venne subito in mente. +Qualche angelo decaduto in vena di scherzi aveva costruito nelle lingue +dravidiche dei paradigmi verbali più unici che rari: in quelle lingue, i verbi +possono essere coniugati all’affermativo o al negativo e quando sono +coniugati al negativo possono mostrare come segno della negazione il +fatto che manchi un pezzo della flessione verbale che c’è in quelle +affermative. Una specie di suppositio materialis grammaticalizzata: un +verbo che significa che qualcosa non accade perché gli manca un pezzo + che c’è quando significa che quella cosa accade: un verbo col buco. +Davvero solo le lingue degli angeli potevano averlo: non quella di +Pietramala. +“L’assenza,” ripetei dentro di me, “l’assenza.” Subito cambiai ritmo del +respiro e mi si irrigidì la schiena: non avevo mai riflettuto abbastanza +sull’assenza di tombe di bambini nel cimitero di Pietramala. Tra le +bizzarrie e le mostruosità che avevo vissuto quella notte, era passato in +secondo piano. Era quello l’indizio cruciale? Lo sciame di indizi minimi +che mi ronzava dentro iniziava a prendere consistenza. Una doppia +assenza – di una lingua e di un’età tra i morti: quella doveva essere la +catastrofe cui appigliarsi per andare avanti, il punto di accumulazione sul +quale cogliere la singolarità di Pietramala. +Non avevo smontato i tre anelli – ero ancora pienamente prigioniero di +forze che non sapevo controllare – ma si era finalmente rotta una maglia +nella fitta rete dei fatti. Riflettei a lungo e, una volta ripercorse tutte le +ipotesi, srotolati e riavvolti i fili della memoria e della logica, ricalcolata la +grandezza del tutto, dovevo forse resistere all’idea che una volta eliminato +l’impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile, deve essere vero? +Mi trovai allora sospinto da un pensiero innaturale senza che per questo +fosse sbagliato. La conclusione oscena e drammatica alla quale ero giunto, +non senza sforzi, non senza dover combattere quella tentazione +inconfessabile di sopprimere una verità quando ci destabilizza, era ormai +divenuta salda nella mia mente: non solo la fuga della gente da Pietramala +doveva essere legata alla lingua ma lo era anche l’assenza di morti tra i +bambini. Una lingua che spaventa e salva allo stesso tempo. Una lingua +infettiva che provoca epidemie mirate. Una lingua che aveva ucciso e, +soprattutto, una lingua che poteva ancora mietere vittime. + Capitolo sesto +Febbraio, ovvero quando il freddo sembra fermare anche le palpebre ma non i pensieri. +[6.1] Quella mattina, come prima cosa dopo essermi alzato dal letto, senza +preoccuparmi di altro, avendo ancora addosso l’odore inconfessabile della +notte, infilai i pantaloni e il maglione, afferrai la sciarpa, il cappello e il +giaccone, calzai le scarpe ancora allacciate e uscii in strada. Dovevo +camminare; camminare per concentrarmi e pensare: perché concentrarsi +vuol dire togliere dalla mente ciò che non è essenziale e camminare +impegna a sufficienza il cervello per inibire i pensieri infestanti. Dunque +non mi importava come sarei sembrato agli occhi degli altri. +Ero sicuro che mi sarebbero bastate due o tre camminate su e giù per +Manhattan e l’idea risolutiva sarebbe sbocciata senza sforzo. Ero convinto +che si trattasse solo di metabolizzare i frammenti della vicenda, scomporli +e ricomporli in nuove strutture per poi tornare da Shannon a sventolargli +sotto il naso la soluzione. Invece venivo distratto da tutto ma non perché +qualche cosa fuori da me richiamasse la mia attenzione ma perché ogni +mio pensiero sembrava mettere in mostra dettagli nuovi che mi facevano +intraprendere nuove piste che poi mettevano in rilievo dettagli ancora più +interessanti che davano luogo a nuovi pensieri e mi facevano notare +dettagli nuovi e nuove piste, come in una specie di caleidoscopio di prove. +In più, a seconda di quando iniziavo la catena dei ricordi l’esito era +diverso. Mi parve allora di rivivere una situazione che credevo di aver +completamente dimenticato. Quando ero bambino, si poteva ancora +entrare nei cinema a programma iniziato: mi ci portavano le mie tre zie, +che ogni tanto venivano a Roma a trovarci, e quasi mai riuscivamo a +vedere il film dall’inizio al primo colpo. Era una situazione surreale e, in +certo senso, stimolante: ti trovavi paracadutato dentro una storia e non +sapevi cosa stesse succedendo né chi fossero i protagonisti finché, al +termine della proiezione, non ricominciava lo spettacolo successivo. +Minuto dopo minuto cercavi di fare ipotesi per capire i ruoli dei vari + personaggi e il concatenarsi degli eventi, finché non si riagganciava il +momento nel quale si era entrati in sala e allora tutte le congetture fatte +fin lì si confermavano o si contraddicevano. Era, in fondo, un modo per +moltiplicare le storie accedendo alla dimensione mitica dei mondi +possibili; anche il divertimento aumentava, perché a seconda del momento +si avevano indizi diversi e dunque storie diverse da ricostruire, tutte +comunque convergenti verso quella vera che prima o poi si affermava una +volta riagganciata la prima scena; l’unico inconveniente – ammesso che +fosse un inconveniente – era che quel ciclo continuo di scene legate a una +storia suggeriva che la realtà stessa fosse interamente ciclica e quindi +anche la vita di ognuno non fosse altro che la medesima vita iniziata a +partire da uno degli infiniti punti diversi nei quali era segmentabile. +Una cosa l’avevo però stabilita definitivamente: la mancanza di morti +tra i bambini e la lingua di Pietramala non potevano essere indipendenti. Il +mondo non può essere strano due volte di fila per caso. Quale fosse la +correlazione, tuttavia, veramente mi sfuggiva. Il manoscritto non era di +alcun aiuto. Le parole erano quelle tipiche delle canzoni mediterranee: il +ritorno, la sera, l’amore, il mare, la passione; niente di più. Non era certo +sufficiente né a far capire perché quella lingua andasse nascosta né perché +tra le tombe del cimitero ci fosse quell’assenza. Provai anche a pensare che +fosse del tutto naturale non avere morti tra i bambini ma, oltre +all’intrinseca stranezza di quell’ipotesi, una breve ricerca sui dati di quegli +anni mi dimostrò senza ombra di dubbio che non potesse essere una +spiegazione veritiera o, almeno, plausibile. E se invece insieme alla lingua +avessero razziato e portato via tutti i cadaveri dei bambini già morti? Non +aveva senso e nella fretta di quella notte avrei comunque notato +un’assenza nell’assenza: i posti vuoti tra le tombe. Non avevano avuto +certo il tempo di colmare i buchi e ridisporre tutto durante l’esodo forzato: +spazio, d’altronde, non ce n’era poi molto. +Non ero progredito di un solo passo nella comprensione. Quei due fatti, +legati certamente da un rapporto causale, si rifiutavano di mostrare quali +agganci profondi li connettessero. Manhattan intanto procedeva ancora +lenta. La neve era diminuita e in certi punti quasi sparita ma il vento +gelido aveva fatto calare ulteriormente la temperatura e le raffiche sempre +più violente facevano oscillare i semafori appesi nelle strade come pendoli +impazziti. Ero arrivato al fondo di Battery Park; mi appoggiai alla + balaustra di legno guardando da lontano Staten Island. Si faceva fatica a +tenere aperti gli occhi per il vento. Presero a lacrimare copiosamente e per +un istante le palpebre si incollarono tra di loro formando una crosticina di +ghiaccio. Dovetti stringerli forte. Non avevo guanti – l’ultima volta che +avevo chiesto in un negozio se potevano farmene un paio con sei dita nella +mano sinistra la signora che mi serviva praticamente era svenuta e mi +avevano sbattuto fuori dal negozio – provai ad asciugarmeli con un +fazzoletto di carta che scaldai con il mio fiato. Mi sembrava di essermi +fatto male all’occhio sinistro, forse ferito dal ghiaccio. Entrai in un chiosco +e, con la scusa di un bicchiere di tè caldo, chiesi del bagno per andare a +vedere se il danno all’occhio era serio. Non lo era affatto; era invece +serissimo il danno che mi ero fatto dentro. Fu il mio volto allo specchio a +farmene rendere conto: vidi la struttura del giovane uomo forte e tarchiato +di sempre, ma l’espressione era di un altro. Continuai a osservare quel +volto, il mio volto, per qualche istante, senza staccarmi di dosso lo sguardo +fissando ora un occhio ora l’altro. Non so per quanti secondi un essere +umano possa sopportare una scarica elettrica ma certamente quella sfida +nella quale io mi guardo negli occhi allo specchio, fermo, in silenzio, non +riesco mai a farla durare molto. Arriva rapidamente il momento nel quale +non sai più chi dei due sei e ti imbarazza vedere che la tua coscienza ha +una faccia. Come siamo deboli: non riusciamo a fissare il sole, non +riusciamo a fissare noi stessi; il sospetto è che niente che sia reale si lasci +davvero fissare. Tutto deve scorrere rapidamente come se fosse scontato; +bisogna muoversi, muoversi, muoversi. Bisogna imparare a essere +automatici senza farsi domande: se si scendono rapidamente le scale della +stazione per correre a prendere un treno non ci deve chiedere perché si +stanno scendendo rapidamente le scale altrimenti immancabilmente si +incespica. La realtà va usata ma mai osservata; bisogna ignorarla, +disconoscerla, come un pesce disconosce l’acqua nella quale vive immerso. +Meglio tenerla come ipotesi, la realtà. Uscii dal bagno con il viso stravolto; +uscii dal chiosco, ripresi a camminare, solo po’ più lentamente. +E se i bambini si fossero ribellati e avessero divorato gli adulti +portandosi poi via con sé tutti gli scritti che non sapevano evidentemente +cosa fossero? Come potevo essermi ridotto a pensare una cosa simile? +Eppure, eppure, eppure ero vicino a catturare il nesso causale; stavo con il +fiato sospeso, quasi certo che avrei di lì a poco avvertito nella mente + quello scatto della cassaforte che dà accesso al caveau con il tesoro. Avevo +tutte le coordinate, tutti gli ingredienti: un borgo, un esodo, una lingua +introvabile, un’assenza tra i morti. Provai a pensare in modo inverso. +Provai a pensare che in quel paese non fossero mai arrivati dei bambini, +magari perché per una qualche malattia misteriosa la comunità era +diventata infeconda, e che proprio per quella ragione tutti erano dovuti +andare via. Di per sé l’ipotesi non era impossibile, anche se certamente +improbabile, ma ancora, ovviamente, rimaneva inspiegato il fatto che +mancasse qualsiasi testimonianza scritta. Oltretutto – me ne stavo quasi +dimenticando – quella vicenda doveva essere stata tenuta nascosta perché +nessuna cronaca del tempo la riporta, né era rimasta traccia nel ricordo +della gente. La Corsica non è poi un continente: un evento catastrofico di +quella portata, se non fosse stato occultato ad arte, sarebbe di certo +diventato fonte di storie infinite e leggende, invece niente, un silenzio si +aggiungeva ad altro silenzio, come se il tema unificante della vicenda fosse +l’accumulo di assenze. +Ripresi a camminare verso nord lungo le avenue che stanno a ovest +dell’isola. Si era fatto buio ed ero davvero stanco ma quel procedere +meccanico era l’unico modo che avevo per non distrarmi. Un isolato, un +semaforo, una strada, poi un altro isolato, un altro semaforo, un’altra +strada. Ma anche spazzata via ogni distrazione, non avevo la forza di +trovare una spiegazione. Mi pareva anzi di non riuscire nemmeno più a +spiegare cosa cercassi, come se la distanza tra quel che si dice e quel che si +vuol dire – normalmente una crepa impercettibile subito saldata dal flusso +dei nuovi pensieri – si fosse divaricata a tal punto da diventare una +voragine e risucchiare tutto quello che pensavo e riuscivo a dire. Ripetei +ancora una volta di seguito, ormai come una giaculatoria: un paese +abbandonato, una lingua nascosta, l’assenza di morti bambini. +Quando ripetei quella lista stavo per caso passando proprio di fianco +all’Ansonia – ero quasi arrivato al teatro – e vidi le luci accese +nell’appartamento di Shannon. Mi accorsi allora che non avevo incluso il +suo nome nella giaculatoria, come se lui fosse uno spettatore estraneo e +non un ingrediente di quella situazione. Mi chiesi se avessi fatto bene a +escluderlo, sebbene anche lui in qualche modo condizionasse la +decifrazione del mio mistero. Mi ritornarono in mente tutti gli incontri con +lui, dal primo quando ero rimasto incantato dal suo parlare forbito e dalla + sua raccolta immensa di libri, alla riunione a Marble Head, preceduta dalla +strana apparizione della macchina nera la sera prima, fino a quell’ultima +disgustosa cena conclusasi con un digiuno e due zuppiere piene di cibo +freddo. A questo si agganciarono i ricordi di Ariel e Calibano: quei tre +mesi appena vissuti correndo sulla lama del rasoio nel tentativo di +distinguere cose vere da cose false, e, più lontani, quei due mesi in Corsica +con tutto quello che c’era stato tra me e Clara Maria. In questo pendio +scivoloso della memoria, si accumularono a ritroso gli anni di studio in +America, le mie scoperte sulla struttura del linguaggio, la Signora, la mia +vita a Parigi e a Roma. In tutto questo, che sarebbe dovuta essere la somma +delle mie parti, mancavo però io e, quel che più mi interessava allora, +mancava la soluzione al mistero di Pietramala. Piansi. Fu come se stesse +piovendo a dirotto sugli scaffali dove si trovavano tutti i miei libri; i miei +ricordi erano tutti presenti, di fronte a me: in ordine, vicini, ben +organizzati, ma fradici, gonfi e impossibili da sfogliare senza con ciò +spappolarli trasformandoli in una melassa indecifrabile. +[6.2] Salii le scale ed entrai in teatro. Guardai la platea e mi fermai a +osservarla incantato: era vuota, era enorme. E io? Quanto ero grande io? +Mi sarebbe servito saperlo per capire quanto fossi fragile. Le cose più +piccole delle quali abbiamo una qualche cognizione stanno rispetto a noi a +una scala paragonabile rispetto a quelle più grandi. Viviamo in uno strano +equilibrio in una dimensione intermedia. Per questo siamo fragili: non +evaporiamo né congeliamo; non implodiamo né esplodiamo; i nostri +organi non sono così piccoli da non doversi organizzare né così grandi da +potersi affidare solamente e anarchicamente a forze centrifughe e +gravitazionali. L’equilibrio del nostro mesocosmo è delicato, instabile e il +prezzo che paghiamo è enorme: fossimo grandi come galassie o piccoli +come quark saremmo certo meno fragili, vivremmo di più. Ci dicono che +in compenso noi siamo liberi: io lo ero? Cosa ero libero di fare in quelle +condizioni? Mi ripresi da quel momento di estasi depressiva e salii sul +palcoscenico. +Le prove erano finite. Ariel e Calibano se ne erano andati in momenti +diversi – immaginavo – e anche in direzioni e mete diverse, probabilmente +opposte. Ero da solo e chissà per quanto. Le prove erano sospese per una + settimana; così era scritto a mano su un foglio, appeso al sipario con una +puntina, nemmeno troppo in vista. Curiosamente, avevano lasciato le luci +di scena accese e, non sapendo spegnerle, dovetti accettare di andare a +dormire sotto quelle luci intense, unico attore senza pubblico, senza +nemmeno la consolazione del buio. “Per lo meno,” pensai, “recito a +soggetto e non ho il timore di non sembrare vero.” Avrei dovuto lavarmi +ma non volevo lavarmi. Avrei dovuto mangiare ma non volevo mangiare. +Rimasi fermo: sdraiato nel letto a guardare senza vedere; aspettavo il +sonno da sveglio e mi sembrò strano pure quello. Non so in realtà quanto +rimasi così, forse mi addormentai subito o forse dopo tanto; comunque mi +addormentai. Mi risvegliai e vidi che il lucernario non era più così chiaro. +Era sera, o notte? Non mi importava. Mangiai un pezzo di pane, di quelli +soffici che si dovrebbero scaldare per farli sembrare commestibili, e bevvi +un bicchiere d’acqua del rubinetto. Tornai a dormire. +Mi risvegliai, dopo un paio d’ore di sonno superficiale, con la bocca +amara: forse avevo mangiato troppo poco, ma non avevo fame. Era ora di +lavarsi ma non volevo lavarmi. Era ora di mangiare ma non volevo +mangiare. Provavo una tristezza appiccicaticcia e indeglutibile, di quelle +che rendono faticoso anche respirare. Avrei voluto essere perfetto in me, +risolto come un teorema, chiuso e finito come la statua di uno scriba di +pietra, interrotta nella sua morbida rotondità solo dall’ombelico profondo, +calamaio dei pensieri. Sazio dunque imperturbabile. Invece non ero né +sazio né non sazio: mi trovavo in un inutile limbo dove cessano le +necessità ma anche i desideri. Pietramala, la sua lingua, i suoi morti, le +minacce di Shannon: erano connessi tra loro come in un cubo di Rubik. Se +con una mossa mi pareva di averne sistemati due, tutto il resto si +scombinava e dovevo ripartire da capo. +Avrei potuto anche accontentarmi di ammettere che semplicemente +una soluzione non c’era, ma nemmeno questo mi sembrava accettabile. Il +nulla è un lusso raro. E poi c’è nulla e nulla. Che tipo di nulla potevo mai +accettare io? C’è il nulla che prende senso da ciò che ha intorno e allora +quel nulla è un buco; però non tutti i nulla sono buchi. Ci sono dei nulla +che nascono all’opposto dei buchi: non sono assenze, sono somme. I più +bei nulla che nascono sommando delle parti sono nulla fatti di numeri e si +chiamano “zero”. Ci sono quelli banali dove a un numero si aggiunge il suo +opposto ma ce ne sono veramente di mirabili come l’identità di Eulero + dove lo zero nasce dalla combinazione di numeri mitici, essenza della +matematica. Ma chi può negare che questo zero, e forse ogni nulla, è in +realtà diverso da ogni altro? È una vergogna per il genere umano che si sia +scelto di usare la stessa parola zero per esprimere idee tanto diverse. Ma se +ogni zero è stato generato così e non potrebbe diventare altro, allora, +anche se avessi scelto la consolazione del nulla, avrei dovuto comunque +costruirlo come diverso dagli altri e sarei stato da capo. L’unico vero nulla +che riuscivo a riconoscere era il limite al quale tendeva la forma della mia +anima: il suo spazio vitale in me si riduceva a ogni respiro, come uno +pneumotorace spontaneo dello spirito. Quel che capivo è che non avevo +risposte per quell’enigma e per questo finivo con il non avere risposte per +me come persona intera. +Passai due giorni senza mangiare, non che non avessi fame, +semplicemente mi ero dimenticato che si poteva mangiare o forse tutto mi +sembrava semplicemente ripetersi uguale a se stesso. A dire il vero, ci +avevo provato, a mangiare intendo, ma mi ero ritrovato a riflettere per +l’ennesima volta sulla stranezza di quel gesto di infilarmi in bocca pezzi di +mondo nel tentativo maldestro di frenare il disordine al quale prima o poi +dovremo arrenderci: perso in questo inutile ruminare non sentivo più il +gusto del cibo e allora, semplicemente, smisi; o così mi parve. Ma poi, +valeva veramente la pena di frenare il disordine progressivo del mio +corpo? O forse non era meglio invocare qualche malattia che rendesse +tutto più rapido e facesse coincidere una volta per tutte gli unici due +eventi dei quali abbiamo certezza: l’adesso e l’ora della nostra morte? Le +malattie sono tra le cose più interessanti del mondo. Esaltano quella forza +ignota che ci mantiene organismi coerenti pur bersagliati ogni istante da +tensioni fisiche e da altri organismi che cercano di vivere nutrendosi di +noi: mi tornò in mente l’immagine di quello stormo sopra Central Park. +Sarei riuscito a rimanere coerente anch’io? +Passai due giorni senza mangiare, non che non avessi fame, +semplicemente mi ero dimenticato che si poteva mangiare o forse tutto mi +sembrava semplicemente ripetersi uguale a se stesso. Avevo perfino perso +il mio odore e assorbito quello delle assi del palcoscenico; quel misto di +sudore e cera delle quali erano nutrite ogni giorno. Mi annusavo e non mi +riconoscevo: stavo svanendo. Al contempo, il problema che mi stava +assediando era diventato così grande che quasi non lo notavo più come + quando ti dimentichi del grattacielo che ti hanno costruito di fianco a casa. +Feci solo un ultimo tentativo di aggrapparmi alla realtà. Cercai di curare +quell’arsura infausta che mi consumava con il richiamo alla mente di un +desiderio positivo. Non ci volle molto a puntare tutti i miei sensi verso il +ricordo di Clara Maria eppure, quando mi si formava l’immagine nella +mente, appena prendeva una consistenza accettabile, spariva di colpo: ero +arrivato a pensare che il suo odore, i suoi colori, il suo sapore, tutto +insomma, non fosse altro che un puro nome che viveva solo in me, così +che rimosso l’animale, cioè io, anche tutte queste sue qualità venivano +rimosse e annullate. Clara Maria ero forse io? Quanto potei resistere in +quella condizione non lo ricordo. +Passai due giorni senza mangiare, non che non avessi fame, +semplicemente mi ero dimenticato che si poteva mangiare o forse tutto mi +sembrava semplicemente ripetersi uguale a se stesso. Certamente non mi +cambiavo più indumenti da giorni: il fondo del fondo – sono ancora +stupito per la mia ingenuità – fu quando mi chiesi se un desiderio +implicasse necessariamente l’esistenza di ciò che si desidera. Non +desiderare la cosa che non c’è: ecco il comandamento mancato, la radice di +tutti i deliri. E io, potevo allora desiderare un volto che non avevo mai +visto? Ma Clara Maria era vera, mi giurai. Ed era vera Pietramala, era vera +l’assenza della gente, della lingua e delle tombe di bambini. E ripiombai +nella riflessione sui tipi di nulla. Risi senza voce – un sussulto spasmodico +e intermittente – senza fermarmi, per qualche minuto: mi vedevo dall’alto, +come un topo grigio in una scodella di latte; cercavo di non affogare in +quella cosa che in altre condizioni avrei cercato di bere. +Ebbi allora paura. Paura di non riuscire a distinguere le frasi che +vengono da fuori di me da quelle pronunciate da me e sentirle ostili; +malattia autoimmune della mente, la schizofrenia. Paura di sentirmi +vittima di un comando che nessuno mi aveva dato. Io che credevo di +sapere tutto della paura ora ero spaventato in un modo nuovo. Da ragazzo, +avevo perfino elaborato a mio uso una tassonomia delle paure, nel +tentativo di domarle. Sapevo che ci sono paure isolate e paure mannare. La +paura che le cose diventino troppo poche: una per tipo, ad esempio; un +solo albero, una sola sedia, un solo tramonto, una sola narice. La paura +inversa: la paura che le cose diventino troppe moltiplicandosi: troppi libri +su uno scaffale, troppi bottoni in una camicia, troppe gocce d’acqua in un + bicchiere, troppi nomi per un rasoio. La paura che le cose diventino troppo +piccole e la sua paura mannara, cioè quella contraria che compare solo in +condizioni speciali: la paura che diventino troppo grandi. E ci sono poi +paure incrociate e peggiori, come la paura che le cose diventino troppo +piccole e si moltiplichino. Con questi pensieri mi addormentai ed ebbi il +peggior incubo che ricordi. Entravo nella camera di Clara Maria mentre lei +dormiva. Nel letto, coperta da un lenzuolo si riconosceva la sua forma. +Sembrava tuttavia tremare. Scostai piano le lenzuola e vidi l’invedibile: al +posto del suo corpo intero centinaia di piccole lei come mosche +brulicavano mantenendo però la sua sagoma intera naturale compatta. Mi +risvegliai di colpo, sudato e affannato. Stavo sognando di aver paura. Al +risveglio però ricordai che avevo paura davvero: paura di non capire. +Indossai i miei vestiti e uscii in fretta dal teatro. Era pomeriggio. +[6.3] Venivo sballottato dalla folla compatta sulla Quinta Strada. Tutti +eravamo sballottati. Lo spazio tra le persone a tratti si comprimeva poi si +dilatava per poi ricomprimersi e ridilatarsi ancora. Non c’era differenza tra +quello che mi accadeva intorno e quello che mi accadeva dentro. I pezzi +dei quali siamo fatti contano poco: microscopicamente, tutto in noi, dentro +e fuori, cambia ma non lascia una vera traccia; i capelli e le unghie e +l’acqua e il grasso, tutto insomma, si ricambia completamente senza che +questo conti. Invece le onde in forma di luce e suono entrano in noi +setacciate dei sensi, ci attraversano, le interpretiamo e se ne vanno, +cambiandoci profondamente senza sostituire un atomo del nostro corpo. +Noi siamo interpreti di onde e produciamo onde: forse, noi siamo onde. +Così camminavo, trasportato da meccanismi che non controllavo e dai +quali non potevo sottrarmi. Ero molto debole, avevo mangiato e bevuto +poco per una settimana intera. Non mi ero mai lavato: il mio odore era +tutto quello che mi rimaneva di continuativo e caro di me e non volevo +liberarmene, per quanto al contempo mi desse un senso di repulsione. +Quella mattina capii che sarebbe stata l’ultima volta che uscivo dal teatro: +non aveva più senso tornare indietro. Non ero sicuro sul da farsi. Misi +nello zaino i pochi vestiti che mi potessero servire, il caricabatterie del +cellulare, una dozzina di chiavette dove avevo archiviato di tutto in una +dozzina di copie identiche. Presi in mano i sei libri che portavo sempre con + me nella versione in lingua originale; mi fermai un istante per decidere se +infilarli nello zaino o no. “Troverai di più nei boschi che nei libri,” sentivo +la voce di mio padre che, forse per paura di una mia delusione o per +rammarico di una sua, mi rimproverava, “gli alberi e le rocce ti +insegneranno cose che nessun maestro ti dirà.” Non poteva aver ragione o, +forse, non poteva che aver ragione: nel dubbio, riflettei sul ruolo +catastrofico del che in questa frase, mosso dalla paura di scoprire che fosse +vera almeno una delle due. L’istante finì e io feci spazio ai libri nello zaino +tra le mutande e le maglie, in modo che non si sgualcissero. Uscii per la +strada. +L’aria su Broadway era ancora più fredda del solito: mi dissi che +avrebbe rallentato il sangue e così l’afflusso al cervello e il tritatutto che +lavorava al suo interno. Il freddo – ne sono ancora sicuro oggi – è un +anestetico potente per i pensieri cattivi: li ferma, li paralizza, ti fa +concentrare sul tepore che viene dal corpo, giù dalla pancia. Il freddo ti +rallenta la caduta nel gorgo. Era ancora chiaro e c’era parecchia gente per +la strada – era l’ora di punta – che aumentava a vista d’occhio. A una +fermata della metropolitana scesi per prendere il primo treno che passava, +più per il freddo che per altro, e mi diressi qualche isolato a sud: non +sapevo ancora dove andare e volevo prendere tempo. Una folla immensa +fluiva dalle scale mobili, così tanta che mi chiedevo come la morte sarebbe +riuscita a disfarsene. Un silenzio irreale, forse la paura di ingoiare aria +fredda teneva le bocche tappate, trapuntato da pochi e brevi sospiri. Tutti +procedevano scendendo con gli occhi fissi ai piedi; io solo, che avrei +dovuto farlo, cercavo invece almeno uno sguardo che mi strappasse fuori +da quel buco, con un pretesto, anche un’illusione erotica, e mi portasse via. +Invece entrai, salii su un vagone e scesi dopo una ventina di isolati a sud +alla 53esima; lì, risalii in strada. Normalmente a quella fermata avrei +deviato per una sosta al museo d’arte moderna; quella sera, invece, i miei +passi presero a scendere ancora verso sud, senza sapere veramente dove: +come se il prossimo passo fosse sempre l’ultimo. Attraversai i quartieri a +est, quelli che nessuno dei turisti vuole vedere, quelli dove nessuno ti +vuole vedere, dove l’America non sa ancora di New York e riaffiora +l’America violenta generata da un’Europa di avanzi di galera. Avevo capito +di aver rinunciato a tutto: niente Pietramala, niente soluzioni; ora non +sapevo nemmeno come fare per andarmene da lì vivo. Avrei dovuto + chiamare qualcuno? Cercare la Signora? Non potevo farmi vedere in +quello stato: un giovane uomo, illuso e vanaglorioso, ridotto a una pappa +immangiabile; non avrei avuto nemmeno i soldi per comprare una +bandiera bianca da sventolare e arrendermi a qualcuno. Avrei voluto +bestemmiare ma il timore di convertire la frase con il nome di Dio in una +supplica mi frenò. Se dovevo marcire dovevo farlo da solo e di nascosto. +Di fronte a me, l’orologio al neon di una farmacia segnava sempre la +stessa ora: le lancette non si muovevano più. Stupido io a guardarlo fisso, +con la gente che ormai mi evitava lungo il marciapiede, tanto ero +malmesso: mi ricordai che solo un orologio con le lancette ferme è +perfettamente in orario due volte al giorno e mi chiesi se quel principio si +estendesse alla morale, sia pure ridotto. Forse, solo un uomo morto è +giusto almeno una volta nella vita. Tirai fuori una mano dalla tasca per +sistemarmi il cappellino. La mano, un po’ umida, investita dal vento +riavvolse la memoria a un ricordo infantile, forse il mio primo. Ero in +macchina solo con mio padre d’estate in pianura. I finestrini erano +abbassati e io tenevo la mia manina di fuori: mi divertivo ad aprirla e +chiuderla sentendo la differenza tra quando la macchina correva e quando +rallentava o si fermava nelle strade tra i campi. La mano subiva la +pressione di una forza invisibile, l’aria, che spariva quando ci si fermava e +ritornava a opporre resistenza quando si riprendeva la corsa. E mi +chiedevo se fosse possibile che una cosa esistesse a seconda di come uno si +muove rispetto ad essa. E mi chiedevo se io stesso non fossi avvolto da +qualche cosa che non vedevo: cosa avrei dovuto fare per poterla +percepire? A che velocità dobbiamo vivere per aver chiaro da quali forze +siamo controllati? +Arrivò il primo conato di tristezza: mi fece tremare le gengive per +qualche minuto. Odiavo l’opera, quelle inutili voci costrette a toni +disumani in storie insopportabili, ma mi venne in mente l’unico verso che +mai mi aveva colpito: “Tutto nel mondo è burla. L’uom è nato burlone, la +fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione.” Povero Verdi, che smacco aver +capito tutto solamente alla fine quando accettò i versi di Boito: chissà cosa +avrebbe dato per invertire il percorso e aver udito quei versi da ragazzo, +quando aveva iniziato. Eppure, scelse comunque di dirlo. Mi distrasse il +coro di ragazzi che proveniva da un bar. Ero arrivato all’angolo di Bleecker +e Charles vicino alla casa di un mio amico italiano, uno scrittore famoso + che sapevo essere tornato da qualche anno a New York; mi avrebbe fatto +bene vederlo perché era sempre molto affettuoso con me, ma decisi di non +disturbarlo. Quanto mi costò quel ma: in realtà non mi andava di farmi +vedere da lui in quello stato; o forse semplicemente non avrei saputo cosa +dirgli, sempre che gli interessassi davvero. Quella sera – ecco la verità – +non c’era spazio per nessuno: stavo sprofondando e dovevo farlo come lo +fanno i gatti, nascosto da tutto e da tutti. Osservai, non visto, i ragazzi e le +ragazze di un bar cantare insieme: ormai erano le dieci, la cena era +confluita nell’atmosfera sciolta dei canti, e sentii intonare Hey Jude: come +fosse possibile che i ragazzi di quel tempo cantassero canzoni vecchie di +cinquant’anni non me lo spiegavo. Il mondo aveva finito di progredire; +forse per quello la gente boccheggiava: non aveva imparato che se non ti +muovi, l’aria non la senti. +Era quella la fine della mia vita? Mi irritava il fatto che Dio non +conoscesse la psicologia umana. Perfino mia nonna sapeva che le +sensazioni degli ultimi istanti di un’esperienza sono quelli che si +proiettano su tutta l’esperienza. Mia madre mi raccontava che da ragazza, +per farle lavare i panni senza troppe storie, la nonna aggiungeva un +pochino di acqua calda verso la fine, così che lei avesse l’impressione di +aver lavorato con l’acqua tiepida per tutto il tempo. E Dio? Dio voleva che +la mia vita finisse con quel sapore marcio in bocca? Avevo buttato via +tutto. Il futuro che avevo intravisto in Clara Maria non era bastato e avevo +voluto di più. Così che ora ero intrappolato nel nulla e per di più – se non +avevo inteso male – ero perfino in pericolo di vita perché un pazzo +pericoloso mi voleva uccidere, sempre con il sorriso sulle labbra. +Nelle strade le persone aumentavano ancora, iniziavano a comparire +gruppi vocianti e così le luci e il chiasso: mi resi conto allora che era +sabato sera e che in quella zona del Village c’era la confusione delle sere di +festa. Un gruppo di irlandesi mi si fece intorno: una donna si staccò dal +gruppo e mi venne incontro muovendosi a passi incerti facendo un gesto +buffo con la bocca come per baciarmi; scoppiò a ridere in modo sguaiato +buttandomi le braccia al collo e tenendomi stretto mentre rideva. +Sussultava e io insieme a lei, ma i miei sussulti non erano risate: i miei +erano singhiozzi. Stavo piangendo, come piangono le mamme anziane, un +pianto non consolabile, un pianto di perdita, senza la forza della +recriminazione. Mi vergognavo e, non potendo nascondermi il volto, finsi + di osservare un negozio di sigari vicino alla fermata di Cristopher Street. +Scesi lungo Varick meccanicamente, trascinandomi; svoltai poi su Canal e +imboccai Broadway. Il nome era familiare ma il luogo era distante da ogni +ricordo; questa estraneità mi calmò un poco, come quando da bambini si +smette di piangere dopo ore, distratti dall’arrivo di un estraneo in casa. Per +un istante, mi incuriosì qualcosa che non fossi io: c’era folla di fronte alla +Borsa, tutti urlavano. Non era una scena consueta quella di vedere +qualcuno protestare contro le banche. Un uomo, in giacca e cravatta, che +teneva in mano una valigetta e con passo frettoloso cercava di uscire +inosservato dalla banca fu preso a calci e buttato a terra: gli sputarono +addosso dandogli del ladro. Non mi fece alcun effetto. Come un rigurgito +acido mi tornarono alla coscienza il mio stato e le cause che l’avevano +generato. Non avevo ormai più forze ma mi rifiutavo di mettermi a +dormire per strada e diventare uno di quelli che avevo osservato mille +volte dall’altra parte e mille volte evitato di calpestare sui marciapiedi, tra +i cartoni. +Avrei voluto continuare a piangere ma non avevo più lacrime, l’aria +secca e freddissima aveva asciugato tutto. Ero naufragato alla rovescia: mi +sentivo come un pesce saltato per troppo entusiasmo sulla spiaggia; udivo +ancora il mare a pochi passi ma non sapevo come rituffarmi. Il mare: quel +pensiero mi sembrò un rifugio e fece scattare la direzione da prendere. Mi +mossi, ormai trascinando i piedi doloranti, per raggiungere l’imbarcadero +di Battery Park, alla punta sud di Manhattan. Avrei preso un traghetto per +Staten Island, uno di quelli grandi e gialli, che mi ricordavano i battelli del +Mississippi: da ragazzo lo facevo per vedere l’isola dal mare senza +spendere troppo; ora era per sperare di non morire o forse in verità per +trovare un modo di farlo a poco costo, senza partecipazione dichiarata, +come un evento dal quale non potessi più ritrarmi, quasi per cortesia. Si +spalancarono le porte, si abbassarono le passerelle di ferro e salii a bordo +insieme a poca gente; nessun turista, solo pendolari dell’ultima ora, resi +sordi dalla musica schiacciata dentro le orecchie e ciechi dai giochi che +comparivano sugli schermi dei cellulari. Avrei potuto sbatterne in mare a +dozzine e nessuno se ne sarebbe accorto; nemmeno loro. Ma non lo feci e +non perché fosse immorale, non lo feci perché credetti di non arrivare a +vedere l’effetto che avrebbe fatto il mio gesto. Per un gioco incauto del + destino, infatti, la lingua di Pietramala, duecento anni dopo stava +uccidendo anche me. +Fu quello per me l’inizio della notte dei lunghi pensieri, dove venne +fatta strage di me e dei miei ricordi a opera mia. Salendo sul traghetto +sapevo bene che la terraferma, se mai l’avessi ricalpestata, non sarebbe +stata più la stessa. +[6.4] Salimmo in pochi. Il ponte principale era quasi deserto. Nessuno +guardava nessuno. Dormo. Senza volerlo; dormo perché solo così posso +fare. Sogno. Mi trovo da solo in mezzo al salone di un palazzo +rinascimentale; di fronte a me, appena scostato dalla parete, c’è un arazzo +immenso. Sorretto da una trave, ondeggia lento, come il respiro di un +malato, per il vento caldo che soffia in un mezzogiorno d’agosto. Potrei +essere nel Palazzo Ducale di Urbino: un luogo ideale, comunque, partorito +da menti razionali. Mi guardo intorno. Nel salone disadorno, tra muri +mastodontici, le finestre sono tutte spalancate. La luce calda si diffonde +filtrata dalle fibre dei tendoni. Un vento impetuoso, all’improvviso, si alza. +Intrepidamente, mi s’insinua tra i vestiti, fin sotto la camicia bianca, +asciugandomi il sudore. Il vento rinforza: a folate prende a scuotere i +tendoni. È un vento caldo, che si sente fin dentro le ossa, che ti rapisce, +che ti fa girare la testa. Da lontano osservo la scena dell’arazzo: un re +senza occhi sta ritto in mezzo alla scena come se aspettasse un ordine; il +sangue rosso gli cola dalle orbite, ma lui non fa nulla. Sta in piedi, in +mezzo a un cerchio di fuoco. Ha i piedi gonfi. Fuori dal cerchio una donna +giace strangolata a terra. Il sangue degli occhi del re è così rosso che +sembra sgorgare in quell’istante. E così anche il sangue intorno al collo +della donna. E un vecchio lo prende sotto il braccio. In lontananza, su un +colle, una città è contornata da alberi frondosi, nitidi, con foglie di un +verde fresco e tenero. Mi avvicino inebriato dalla luce, dal calore e dal +vento. Afferro l’arazzo con la mano, lo giro e ne osservo il rovescio. Mi +coglie allora una vertigine: i puntini che formavano l’immagine +compaiono nella loro vera realtà: non sono punti, sono lunghi fili che si +tuffano, emergono e si rituffano sulla tela, collegando tra loro parti che +sembravano disgiunte. Dalla trama nascosta si capisce che il sangue degli +occhi del re è fatto dello stesso filo del sangue del collo della regina. Mi + sveglio di soprassalto. Chi mi aveva visto dormire? Non c’era nessuno +intorno a me sul traghetto. +Avevo trovato un posto molto defilato all’interno, dietro un cumulo di +gomene arrotolate e due scialuppe che non sarebbero dovute stare dove +invece erano. Lì in mezzo mi ero accoccolato. In quella notte di febbraio +nessuno aveva controllato se non ci fossero passeggeri. Fu allora che notai +che le luci di Manhattan si trovavano dalla parte opposta rispetto a quando +ero salito: era evidente che stavo tornando indietro. Ma forse non era +nemmeno il primo ritorno. Forse ero già andato avanti e indietro varie +volte con quel traghetto. L’acqua nera rifletteva il cielo nero; mi sentivo +completamente isolato, imprigionato tra quei mondi scuri. Non c’era più +niente che io potessi fare. Non avevo nessun’arma da opporre a quel mare +di guai per metter fine a tutto. Quanto ci avrei messo ad annegare, +saltando in acqua? Chiusi gli occhi come per calcolare meglio i tempi e i +modi della fine e nell’addormentarmi la volontà continuò quel gesto e +sognai di sognare di morire. +[6.5] Mi svegliai molte ore dopo; le palpebre appena scostate e tremolanti +lasciarono passare la lama lucente dell’alba riflessa sul mare. Sembrò un +sollievo: poter guardare fuori di me invece che dentro. Vinse il corpo e mi +stiracchiai intensamente ma rimasi ancora accoccolato in quella specie di +cuccia lasciando che il traghetto si ricaricasse di persone e di voci della +mattina; alcuni leggevano il giornale, molti tenevano tra le mani un +bicchiere con una bevanda calda, appena comprata. Quell’odore di caffè e +salsedine faceva bene. Il motore del mio corpo, troppo a lungo lasciato a +pulsare in attesa come un taxi nella nebbia, aveva ripreso di nuovo a +funzionare. La vita, mi dissi, offre a tutti l’occasione per chiedersi le cose +giuste: forse, la mia esperienza alla fine sarebbe servita a quello. Era come +se un fulmine mi avesse distratto dal buio della notte: la disgrazia +improvvisa nella quale mi ero trovato mi fece render conto che stavo male +da tempo ma che non me ne accorgevo più. Vidi la gente che iniziava a +prepararsi alla discesa e Manhattan tornare ad avere le proporzioni della +realtà: erano sparite tutte le nuvole, quell’alba fredda e luminosa rendeva +ogni oggetto brillante. + Nelle settimane passate, avevo fatto indigestione di me: ora ero pronto +per ripartire. E avevo certamente sbagliato, nella foga, a disegnare la +mappa del mio mondo: avevo ricalcato ogni particolare, riprodotto ogni +dettaglio percepibile con il risultato che la mappa non poteva servire a +nulla. Era solo un duplicato ingombrante della realtà e io mi ero perso due +volte. Era arrivato il momento di imparare a difendermi; imparare a +passare il tempo esaminando i miei pensieri e costruendo argomenti +contro quelli di essi che mi turbavano; l’intelligenza non può soccombere +all’inconscio. Mi corse incontro una bambina che teneva in mano un +cucchiaino di metallo lucido: si specchiò e mi guardò; poi lo rigirò nelle +manine, si specchiò ancora e ancora mi guardò. Scappò via ridendo. Si era +vista capovolta. Bisogna imparare a stupirci di fatti semplici. Avevo una +sola preoccupazione residua seria: che la prossima notte non confutasse il +teorema che avevo dimostrato di giorno. Questo era il vero rischio: +abituato al buio non sapevo più come muovermi nella luce. +Da quanto tempo non pregavo? Forse era arrivato il momento giusto. +Mi dissi che nessuno può scampare per sempre a un dolore forte e perciò +nessuno può evitare di invocare Dio almeno una volta nella vita, anche se +solo per bestemmiarlo. Dio è inevitabile; anche per chi non esiste. Quella +notte, però, il dubbio o forse il pericolo scampato era che non esistessi io. +Erano i miei pensieri mentre osservavo il traghetto attraccare al molo +di Manhattan. Dal vetro vedevo i grattacieli ormai a portata di mano, e +tutte le persone muoversi velocemente, ma a passi diversi, per raggiungere +il posto di lavoro. Il vapore condensato che usciva dalla mia bocca +socchiusa, in assenza di vento, raggiunse il vetro della finestra che avevo +di fronte al volto e lì si ghiacciò. Sullo stesso vetro, che appena prima non +opponeva +resistenza +allo +sguardo, +una +nuova +realtà +emerse +spontaneamente dal nulla in forme geometriche inaspettate: un ricamo di +linee curve composte da minuscoli frammenti di ghiaccio all’apparenza +spontanei ma che in realtà ubbidivano a leggi precise che non lasciavano +alternative. Era come se, dopo aver a lungo scritto su un foglio bianco, +all’improvviso comparissero le righe e fosse facile andare dritto. Tutto +sembrava pronto per accogliere la mia nuova calligrafia. Mi serviva solo +l’innesco, la frase d’attacco. La prima cosa che vidi quando scesi a terra fu +un piccione che saliva le scale saltellando gradino sopra gradino: non ho +mai capito perché in quei casi non usino le ali. + Ero finalmente uscito dalle secche del mio umore; qualche mano +caritatevole doveva aver raccolto il mio cuore enorme, spiaggiato e gonfio, +e l’aveva riposto a palpitare in acque tranquille circoncidendolo del +superfluo. Sceso a terra, assecondai il fiume di persone che andavano a +lavorare camminando di buon passo, come se nulla fosse. Decisi allora di +non salire in metropolitana: mi sedetti invece per un po’ sul muretto di +Battery Park a guardare il mare, tenendomi la città dietro le spalle. +Riuscirò alla fine a mettere ordine nelle mie terre? Febbraio era finito: +corto e senza luna. Fortunato chi stava nascendo allora. + Capitolo settimo +Marzo, ovvero quando il lettore entra in gioco e ci si accorge di una cosa semplice che abbiamo +sempre avuto di fronte e che stupisce molto. +[7.1] Come al termine di un turno di veglia nella notte. Così mi sentivo +quella mattina quando scesi dal traghetto. Salii su un taxi. Non mi capitava +da tanto tempo. Abituato ormai a sfruttare la ragnatela di mezzi pubblici e +dover compiere triangolazioni e approssimazioni, calcolare coincidenze e +prenotazioni, navigare di bolina tra le fermate previste dalle linee della +metropolitana, provavo uno strano effetto a salire su un’automobile e +vedere che si decideva a seconda del momento quale strada prendere. +“Mi può portare alla 84esima Strada West, tra la West End Avenue e +Riverside Drive, per favore?” +“Le va bene se salgo Manhattan dalla 12esima Strada, Signore? È più +libera a quest’ora,” mi chiese in tedesco l’uomo alla guida, avendo deciso +che quella doveva essere la mia lingua di provenienza. Beato lui che sa +immaginarsi da dove vengo, pensai io. +“È un po’ più lunga ma evitiamo il traffico,” aggiunse deciso, che la +mattina qui non perdona.” +“Grazie: faccia pure come meglio crede; mi fido.” +Partì rapido, infilandosi in un corridoio di palazzi nel traffico colorato e +isterico della mattina come un salmone controcorrente. +Ci sono momenti in cui sputiamo fuori parole che contengono +soluzioni, senza accorgerci che sono soluzioni. Le soluzioni, infatti, non +vengono sempre partorite da atti coscienti; si generano e maturano tra +scatti di consapevolezza emersi quando non te li aspetti in momenti inerti; +affiorano e all’improvviso riscappano appena cerchi di afferrarle, come +pesci in uno stagno poco profondo; le coviamo nella mente tra pensieri +infestanti e poi un giorno, magari nelle parole svogliate dette a un taxista, +si presentano enormi e sorprendenti, al pari di nuvole sontuose in un cielo +d’estate, come qualcosa che non è davvero nostro. “Mi fido,” gli avevo + appena detto. “Mi fido,” ripetei senza farmi sentire, sussurrando. Ecco cosa +mi era successo sul traghetto. Quando non avevo più niente e nessuno cui +aggrapparmi, nessuna pista da seguire, nessun ragionamento da +completare, quel traghetto è stata la mia salvezza inconsapevole: sono +entrato, mi sono accucciato, e mi sono lasciato trasportare da qualcos’altro +che non potevo controllare. Niente e nessuno mi garantiva che il percorso +sarebbe stato quello dichiarato all’ingresso. Il capitano avrebbe potuto non +partire, cambiare rotta, non tornare. Non avevo nemmeno preso in +considerazione queste possibilità: ero salito e mi ero fidato di quello che +dichiaravano orari e scritte. “Manhattan-Staten Island Ferry”: non c’erano +stati dubbi dentro di me anche se ne avrei potuti avere molti, a sufficienza +da paralizzarmi. +Il taxi si fermò davanti alla porta del teatro: pagai velocemente. +“Si riposi un po’,” disse l’italiano sempre in tedesco, “New York è una +città imprevedibile. Bisogna avere un po’ di carica di riserva”, mi guardò la +pancia, che malgrado tutto non era affatto diminuita, sorrise. Sorrisi +anch’io, sebbene i muscoli della faccia non fossero più tanto abituati a +mostrare i denti per simpatia, e sembrò più un ghigno. Scesi rapidamente e +rapidamente mi trovai sotto la doccia. Penso di aver lavato via tutta la +pelle degli ultimi anni quella volta; lasciai scendere lo scroscio caldo e +potente sulla schiena appoggiando la testa alle piastrelle del muro con le +mani lungo il corpo per poi rimanere completamente avvolto in quel +bozzolo d’acqua. “Mi fido,” ripetei questa volta a voce alta. Ero stupito del +mio stupore: non erano parole particolarmente intelligenti. Era una +constatazione banale. Eppure quelle parole così semplici – io mi fido – si +erano fatte largo tra le altre che presero a girare a vortice come se fossero +il centro di gravità del mio vocabolario. Fidarsi è bellissimo – pensai +mentre l’acqua continuava ad avvolgermi calda – e non significa, come +avevo creduto fino a ora, lasciar fare all’altro sapendo che fa la cosa giusta +per te, vuol dire lasciar fare all’altro presupponendo che faccia la cosa +giusta per te. Forse, a fidarsi, si impara dormendo. +Lavato e profumato, mi ritrovai seduto al tavolo in mezzo al +palcoscenico vuoto, agghindato come un senatore romano – con la +differenza che invece di una stola di lana la mia toga era un’enorme +salvietta bianca di spugna. Me ne stavo soprappensiero, un po’ incantato, a +mangiare biscotti e marmellata come se li assaggiassi per la prima volta. + Non c’era latte fresco – Calibano e Ariel erano evidentemente ancora via +da quando avevano litigato – ma c’era un ottimo tè e fu sufficiente per +riattivare il mio stomaco dopo quella settimana nelle fogne della mia +mente. Una settimana che sembrava non dover mai finire ma che ora, +complice la mia tendenza a ricordare come più rilevanti i fatti belli, mi +sembrava ridotta a una specie di ubriacatura di una notte sola. Ero +euforico. Meglio così. +Non ci volle molto a ricostruire come ero capitato in quella situazione. +Ismael Shannon: era lui l’origine di questa esperienza sporca e umiliante; +lui che mi aveva evidentemente ingannato e tenuto in ostaggio per tutti +quei mesi. Perché l’aveva fatto? Che pericolo rappresentava per lui la +decifrazione della lingua di Pietramala? Mi diedi del cretino. Avrei dovuto +capire immediatamente che questo era il suo piano. Nessun maestro che +abbia a cuore un allievo si comporta così. Un maestro, se è un maestro, +deve assegnare un compito che sia sufficientemente complesso da non +aver lui già la soluzione ma anche sufficientemente semplice da non +portare l’allievo in un vicolo cieco. Un maestro crea e indica spazi di +autonomia per l’allievo: Shannon con me aveva fatto l’opposto, aveva +creato una trappola per paralizzarmi e io ci ero cascato in pieno. Shannon +non era un maestro, questo ormai l’avevo capito: non sapevo bene ancora +cosa fosse. Questo aggiungeva un problema: non solo avrei dovuto +decifrare per conto mio la lingua di Pietramala ma avrei anche dovuto +capire perché non avrei dovuto farlo. Vivevo in un mistero che sospettava +di se stesso. Non che mi dispiacesse completamente; se così fosse stato +non mi sarei trovato a grattare con il cucchiaio il fondo del barattolo di +marmellata di arance di Calibano. La fine della marmellata fu compensata +con il sorgere della sensazione di poter finalmente risolvere – e da solo – il +bandolo della matassa. +Guardai i vestiti che avevo gettato velocemente in un angolo prima di +entrare nella doccia. Mi sentii come quando, dopo un’influenza lunga e +pesante, si butta definitivamente il pigiama nel quale si è sudato e tremato +nei giorni della malattia e della febbre. Li guardai come si può guardare la +pelle vecchia dopo una muta e non capivo come fossi stato capace di +abitare lì dentro. Era la guarigione. + [7.2] Erano passati tre giorni dalla notte sul traghetto. Stavo ancora +recuperando sensi e forze vivendo da solo nel teatro che per quel periodo +non aveva in programma prove. Ariel e Calibano non erano ancora +tornati. Avevo una gran voglia di vederli, di parlare con loro di quello che +mi era capitato e di ragionare. Volevo anche tornare da Shannon per +appurare la verità su di lui e su quanto sapeva di Pietramala ma non prima +di essermi completamente chiarito rispetto a ciò che già sapevo io; +dopotutto avevo ormai accumulato una quantità di pensieri da rendermi +autonomo. Avevo deciso di concedermi un premio: una giornata intera al +Metropolitan. Non avrei visto di tutto: volevo andare nella saletta degli +impressionisti, al primo piano. È da sempre un luogo che mi colpisce; io, +che trovo i musei insopportabili con quella combinazione innaturale di +pezzi strappati dai loro posti, uccisi e poi cuciti insieme per dar vita a un +nuovo corpo che non esiste, lì diventavo sereno forse convinto che tutti i +ritratti stessero bene insieme in modo naturale perché in fondo sono il +ritratto della stessa persona. Mi trovai quindi di fronte al quadro che da +piccolo avevo tentato inutilmente di dipingere: una pesca vista +contemporaneamente da tutti i lati. +E perché no? – riflettei candidamente tra me e me. – I lati di una pesca +sono nella mia memoria, potrei richiamarli tutti insieme. Gironzolai +sovrappensiero nelle sale contigue, scesi uno scalone che portava all’ala +della scultura romana e mi imbattei in un’opera che non avevo mai visto: +una novità in esposizione momentanea, prestata dal museo del Cairo. Si +trattava di un mosaico del primo secolo dopo Cristo che rappresentava un +Gesù risorto che sembrava sospeso, come se fluttuasse a una spanna dal +sepolcro. Il mosaico era bello e questo mi bastava ma mi incuriosiva il +movente che aveva spinto l’artista a creare una percezione magica di un +evento che di magie aggiuntive non ha bisogno: la resurrezione. Mi chiesi +se non avesse voluto far riprovare a chi guardava la sua opera la +meraviglia di quel fatto sovrapponendo una meraviglia pensabile a una +impensabile. Mi dissi anche che eravamo fortunati noi ora ad aver accesso +a così tante meraviglie da rendere la resurrezione un fatto non +inimmaginabile, ma all’epoca di Gesù? Poteva un uomo colto di allora, un +romano, credere proprio alla divinità di Gesù? Quello era un mondo +sofisticato ed evoluto: parlava una sola lingua, si basava su canoni +sedimentati da secoli e condivisi da tutti, come la logica e la geometria; era + un posto dove la magia non andava di moda come oggi. Forse far volare +una persona serviva a rendere meno incredibile tutto il resto. +Dovevo avere un’espressione ben strana mentre pensavo a quelle cose, +perché una donna anziana, robusta e non molto alta, dal volto che aveva +un’aria inspiegabilmente familiare, elegante, incorniciato da capelli fitti, +mossi e così neri che parevano turchini, il naso grosso e due occhi scuri e +piccoli che avrebbero bucato anche il titanio mi chiese, con l’aria di esigere +una risposta: +“Ma lei ci crede che la Terra è rotonda?” +“Sì,” risposi senza esitazione accettando quella sfida curiosa e mi fermai +a guardarla: non mi toglieva gli occhi di dosso e intanto scuoteva +leggermente la testa come per suggerire che non ci credessi davvero. Capii +che quella risposta non era sufficiente; lei stava chiedendo non se ma +perché ci credevo e infatti rimase immobile aspettando che io continuassi. +“Ci sono infinite prove che lo sia,” dissi sentendo che mi stavo avviando su +un terreno scivoloso. +“Quali?” incalzò sorridendo. +Come fossi a scuola, elencai le risposte canoniche: le navi che +provengono dall’orizzonte si vedono apparire a poco a poco, la prova delle +ombre e dell’orologio per sincronizzare le misure, le misure fatte in varie +parti distanti della Terra che provano la conservazione delle costanti +gravitazionali, proporzionali alla distanzia dal centro di un corpo celeste. +Non a una di queste mie risposte la donna fece un cenno di approvazione. +Ascoltava come si ascolta un bambino. Poi si mise a guardare il mosaico +della resurrezione che avevamo di fronte e senza togliere gli occhi +dall’immagine, chiese senza sarcasmo: “Lei ha fatto esperienza di queste +prove?” +“No; lo confesso, ne ho solo letto la descrizione fin dai tempi della +scuola.” +“Ah, ecco; lei è uno che si fida, dunque.” Sembrava mi leggesse nel +pensiero: io che tentavo di non pensare a questa cosa ci ero stato ributtato +dentro senza poter reagire. +“Ci sono ovviamente le fotografie della Terra prese dai satelliti, dalle +missioni spaziali, dalla Luna,” balbettai, cercai di tamponare, prendendo +tempo. + “Questo casomai dimostra appunto che lei si fida; non che la Terra sia +rotonda. Se le truccassi una foto mostrandole un asino che vola lei ci +crederebbe?” +“Evidentemente no.” +“E allora perché dovrebbe credere alla foto della Terra rotonda?” +Rimanemmo in silenzio a guardare ancora il mosaico. Aveva ragione: +un’enorme sfera dove la gente vive a testa in giù rispetto a quelli che +stanno dal lato opposto non è meno improbabile o controintuitiva di un +asino che vola: eppure non crederemmo un istante a un asino che vola – +anzi di una foto che lo rappresentasse diremmo subito che è un falso – ma +siamo disposti a credere di abitare su una sfera anche se non abbiamo +esperienza diretta di prove che lo dimostrino. È evidente che non è +l’esperienza che conta in questi casi. Quello che ci vuole per sospettare che +una cosa sia falsa è l’assenza di un movente utile o viceversa. Allora tutto +diventa chiaro: chi può avere interesse a convincere che gli asini volano? +Infatti, non ci crediamo. Chi può avere interesse a convincere che la Terra +sia piatta? In molti; e per i motivi più disparati, fisici, politici, filosofici, +anche teologici. Invece che gli asini volino non cambia la vita a nessuno. +Non ci avevo pensato: siamo propensi a credere che qualcosa sia vera +perché abbiamo una ragione per volere che lo sia. +“È una domanda curiosa, non trova?” riprese lei, interrompendo il +flusso silenzioso dei miei pensieri. “Ma non nuova: Vos etiam dicitis esse e +regione nobis, e contraria parte terrae, qui adversis vestigiis stent contra +nostra vestigia, quos Antipodas vocatis.” “Cicerone,” aggiunse dopo aver +stanato la mia ignoranza con uno sguardo; lei non tradusse. +Le proposi di mangiare qualcosa insieme. Raggiungemmo la caffetteria +del museo attraversando saloni ricolmi di opere d’arte di ogni tempo. La +donna aveva un passo rapido, ritmato dal rumore di tacchi solidi sul +pavimento, e seguirla dava piacere. Sapeva bene come muoversi in quel +palazzo e nel tragitto salutò almeno tre dei custodi che ricambiarono con +un gesto cordialissimo, quasi un inchino, lasciandomi capire che era +evidentemente di casa. Resistetti al richiamo della bellezza delle opere +esposte come Ulisse fece con le Sirene: quella donna anziana era il mio +albero e le stavo aggrappato addosso. Solo poco prima dell’ingresso nella +caffetteria mi fermai a osservare una scultura curiosa: era un blocchetto di +legno quadrato di venti centimetri di lato; sopra, in diagonale, avevano + disposto sette semi di mais in una sequenza precisa, equidistanti: dopo il +primo, ancora giallo e compatto, ne seguivano altri sette come colti di +sorpresa e fissati in fasi diverse dell’apertura durante la cottura; ogni +chicco sempre più cotto e dischiuso del precedente fino all’ultimo +completamente cotto, aperto tutto verso l’esterno, arricciato come un fiore +osceno. La sequenza induceva immediatamente a pensare alle sequenze di +progressione evolutiva di una specie: chiunque sarebbe stato ingannato, +nel vederlo, ad ammettere che il pop-corn derivasse da un antenato non +cotto e che per successive, casuali, piccole mutazioni si fosse arrivati a +quella specie fiore finale; invece quei chicchi erano parenti sì ma non in +linea diretta: erano simultanei e dunque tra di essi non c’era evoluzione +ma solo variazione. +“Se viene uno dei prossimi giorni, la porto a vedere l’allestimento della +mostra sull’evoluzione dell’uomo al Museo di storia naturale,” disse la +donna vedendomi attratto da quella scultura. +“L’evoluzione mi mette sempre a disagio,” reagii io. “Non può che +essere vera, naturalmente, ma non so mai come figurarmi l’inizio: mi +sembra che tutti rimandino il problema e non lo affrontino.” +“Dovremmo vederci più spesso, signor...?” +“Elia, Elia Rameau,” risposi immediatamente. +“Rosa Linda Franklin,” mi disse stringendomi la mano con una +cordialità solida, “ma mi può chiamare Rosa.” +Fu un pranzo breve e fugace; adoravo il fatto di poter ordinare un solo +piatto e di non costringermi alla solita tortura dell’ordine inverso delle +portate. Parlammo di tante cose: mi chiese dell’undicesimo dito – con +grande grazia – informandosi soprattutto se avesse influito sulla mia +capacità di contare. Vidi che portava un anello con un simbolo della Torah. +Se ne accorse: +“La scienza è l’unica porta verso la fede perché illumina quello che non +so e forse non potrò mai sapere. Mi obbliga a fidarmi. L’alternativa è la +paralisi, caro Elia, se posso chiamarla così.” +“Certo, Rosa, e mi creda l’incontro con lei è stato totalmente +inaspettato e sono sicuro che mi sarà di grandissimo aiuto.” +“Il mosaico di Cristo,” aggiunse, “quello che abbiamo visto prima, l’ho +fatto arrivare io al museo: mi sono convinta che Cristo non sia risorto per +provare qualcosa; la prova, per lui, doveva già essere la realtà stessa; l’ha + fatto solo per permettere anche agli sprovveduti di rendersene conto ma +forse non aveva capito che siamo tutti così sprovveduti da non accorgerci +di esserlo. La resurrezione, ad ogni modo, caro Elia, è una conseguenza, +non una causa. Per credere basta accorgersi di vivere. Certo,” aggiunse, +schiarendosi la voce e cambiando tono come se stesse per ridere, “avrebbe +potuto convincerci regalandoci la formula di un antibiotico o il progetto di +un motore a scoppio, così avremmo fatto poi tutto da soli, come l’indigeno +al quale è meglio regalare la canna da pesca invece che un pesce.” +Ci ritrovammo in un silenzio fragile: l’immagine di Cristo in +motocicletta che sfrecciava di fronte a Pilato incredulo vaporizzò quel +silenzio e il riso di Rosa scoppiò fragoroso trascinando inevitabilmente il +mio. Mi disse che le piaceva ridere; era la sua breccia per la conversione. Si +fece più pacata; sospirò e mi raccontò di quando aveva visto delle donne +anziane e inferme pregare e piangere perché il Signore le conducesse a sé +e mettesse fine alla loro vita; mi disse di aver spiegato che il Signore non +vuole sentire lagne e che avrebbe concesso la liberazione della morte solo +se fossero andate all’aldilà ridendo. Sostituirono i rosari con delle +barzellette. +Parlammo ancora un po’ girando per le sale. Mi spiegò che era la +curatrice delle mostre sulla scienza al museo, anche dell’ultima +esposizione – mi disse scandendone le parole – quella sul “Libro a fianco” +dove si capiva l’influenza dell’architettura delle biblioteche nella +formazione culturale. Mi portò a vedere una riproduzione a grandezza +naturale del Giudizio universale di Michelangelo della Cappella Sistina. +Anche quello fu fonte di sorpresa: mi fece notare che il telo che avvolge +Dio che dà vita ad Adamo sembra riprendere una sezione sagittale del +cervello umano e che la testa di Dio sta più o meno nella posizione di uno +degli snodi più importanti del controllo del linguaggio: l’area di Broca. +Come potesse Michelangelo essere consapevole di ciò – ammesso che lo +fosse – non era affatto chiaro ma in quel giorno a me non era chiaro più +niente o meglio tutto era talmente illuminato che ogni cosa, anche la più +banale, sembrava parlarmi d’altro, condurmi per mano al cospetto di cose +belle e affascinanti. Nel congedarsi, Rosa aggiunse solo una frase, ma +sembrò consegnarmela come si affidano le chiavi di casa a un amico prima +di un lungo viaggio: “Ricordati che ci vuole una buona ragione per credere +a qualcosa oppure ci si condanna a dover credere a tutto oppure a niente.” + Mi strinse la mano con tutte e due le sue insieme; fu un gesto appena più +lungo del normale ma sufficiente a non apparire scontato. Non la rividi +mai più. +[7.3] Intesi andare verso l’uscita ma non riuscii a farlo di fretta. Volevo +ancora godere del ruolo protettivo dell’edificio, della bellezza di quei +quadri e di quelle statue che non rinunciavo ad accarezzare, sempre +sorpreso che la pietra potesse imitare la morbidezza della vita. Scelsi +dunque un percorso più lungo. Ero quasi fuori quando mi trovai di fronte +alla grande sala di lettura della Thomas J. Watson Library. Non so perché +ma volli entrare. Di fronte a me, chine sui libri, tantissime persone. I loro +volti avevano il colore chiaro della luce riflessa sulle pagine e sembravano +trarre da esse l’energia sufficiente per vivere come piante in una serra +protetta. Fissi, respiravano all’unisono; solo qualche volta, si sentiva +voltare le pagine e interrompere quell’abbeveramento costante. +Immaginavo quante parole nello stesso istante venissero lette da quelle +persone, anzi immaginavo quante parole venissero lette in quel momento +nel mondo e quante ne fossero state lette fino ad allora. Mi sembrò che +tutto fosse fatto di parole e che ne potessi vedere la nervatura seguendole. +Mi disturbava il fatto che nella scrittura dovessero essere in fila una dopo +l’altra: una geometria costrittiva, innaturale per degli elementi così +potenti. Avrei voluto abitare nelle parole crociate, sapere che ogni mia +vocale e ogni mia consonante è intrecciata con tutte quelle intorno – +partecipa a doppi, tripli significati a seconda dell’ordine in cui viene letta; +nessuna è solitaria, al massimo confina con una casella nera, umile +bandiera bianca, testimonianza che nel mondo non sempre proprio tutto si +tiene insieme o, forse, che per tenersi insieme ci vuole spazio per qualche +difetto. Mi resi conto che quel rito collettivo c’entrava proprio con la storia +che stavo vivendo; mi dava l’occasione di una controprova nella ricerca +delle forze che erano in gioco e del metodo che avevo deciso di utilizzare +per risolvere il mio problema e l’enigma di Pietramala e, fra l’altro, mi +suggeriva che io non fossi entrato lì per caso. +Mi chiesi come mai tutte quelle persone fossero intente in quell’attività +che al momento mi parve strana. Non potevano essere tutte folli: cosa le +tratteneva in quella stanza? Non era un incantesimo; non credo agli + incantesimi. Queste persone avevano in corso una scommessa e si +basavano su almeno due certezze. La prima è solo fisica: sentivano che le +pagine nella mano sinistra aumentavano di spessore e quelle della mano +destra diminuivano e questo faceva capire loro che si avviavano verso una +conclusione; erano come tante clessidre di parole e la loro coscienza era il +foro piccino dentro al quale esse passavano a una a una e che al contempo +vedeva quale ampolla ne fosse più piena. La seconda è che i loro occhi +stavano seguendo una ventina di caratteri messi in fila sulla pagina e che +si alternano, più o meno frequenti, intervallati da spazi bianchi; quei segni, +modulazioni di luce, venivano trasformati in modulazioni di suoni dal +cervello, di suoni impastati con significati. Ma al di là di queste due +certezze, non potevano dare per scontato niente: anzi, lì, non c’era +nient’altro. Per quale motivo – mi chiesi – erano certe che all’improvviso +l’autore di ciascuno dei loro libri non deragliasse e mettesse insieme +pensieri impossibili o che si ingannasse o che le ingannasse, con segni la +cui combinazione fosse impronunciabile o con segni mai visti anche se a +prima vista simili a quelli noti e familiari? Oppure ancora: cosa faceva +escludere loro che le successive pagine dei libri che avevano di fronte non +fossero tutte bianche, portatrici di un silenzio abbacinante? Certamente +non avevano controllato – io non lo avevo mai fatto – cosa le aspettasse, +anche perché controllare avrebbe voluto dire leggere fino in fondo e +dunque controllare in anticipo era impossibile: si poteva solo andare +avanti e sperimentare. Sarebbe così facile per un autore condurre il lettore +dove non vuole né si aspetta, eppure tutti perseveravano e +ininterrottamente conducevano i loro occhi lungo la scia dell’inchiostro +che carattere dopo carattere li portava avanti nel flusso dei pensieri. E non +sarebbero stati necessari trucchi elaborati o magie perché un autore +mostrasse di cosa è capace; sarebbe bastato mettere una parola fuori posto, +prossima la magari, per provare la potenza di chi scrive su chi legge. +Ma allora – pensai talmente forte che uno di loro smise di leggere per +guardarmi negli occhi e io mi sentii scoperto – ma allora – forse glielo +chiesi con lo sguardo – ma allora perché continuate a leggere? Recuperai +la risposta da quel che vedevo in quel momento. Era semplice: si fidavano; +ciascuno di loro si fidava dell’autore del libro che stava leggendo. Non +c’erano altre risposte. Certo, forse qualcuno di loro si fidava perché un +amico o un conoscente o un professore gli aveva detto che si trattava di + una lettura interessante, ma questo – per quanto improbabile – avrebbe +allungato solo di qualche anello la catena tra il lettore e l’autore: +semplicemente, si sarebbero fidati di chi si era già fidato e tra loro e +l’autore ci sarebbe stato solo qualche grado di separazione in più. +Questo era il problema, dunque, il fuoco verso il quale la mia +attenzione convergeva dalla notte precedente: tra me che salivo sul +traghetto e mi lasciavo trasportare e i lettori che seguivano in silenzio il +flusso della scrittura quale differenza c’era? Nessuna. Ognuno si fida di +altri: non esiste una garanzia assoluta o un movente che assicuri che le +cose vadano come si pensa che debbano andare. Le persone intente a +leggere, dunque, provavano a me che non ero stato un pazzo a stare sul +traghetto; che l’esperienza di quella notte non era stata la singolarità +fortunata di una sola notte ma un ingrediente normale della vita, di ogni +istante della vita, un ingrediente che tutti loro condividevano con me +leggendo i loro libri. La vita e la lettura, dunque, si presentavano come fili +di uno stesso arazzo: chi legge e chi scrive è unito dalla stessa trama +nascosta. +[7.4] La sera ripensai all’incontro al museo e a quello che avrei voluto dire +a Shannon. “Non voler apparire profondo, manifesta piuttosto la tua +ignoranza”: ripetei le parole di mio padre, forse le sue ultime. Ecco: avevo +trovato l’atteggiamento giusto per affrontare la questione. Avevo imparato +che dovevo fidarmi e che non dovevo farmi ingannare dalla saccenza +melliflua di chi non dice niente ma lo dice benissimo. Avevo conosciuto la +bellezza della frase più piena di significato tra tutte quelle che si possono +pensare e dire, la più capace di afferrare i confini dell’universo in una +sintesi assoluta, quella che nessun animale può nemmeno concepire: “non +lo so”, la frase perfetta. +Ricapitolai la situazione, con calma, come avevo fatto fino ad allora ma +respirando un senso nuovo. Presi un foglio grande e una matita dal tratto +denso. Segnai di seguito i nomi e le cose, le opere che avevo compiuto e i +giorni che erano passati. Disegnai frecce e collegamenti tra di loro, +osservando con piacere il sorgere di una rete complessa. Da Pietramala +partiva una freccia che arrivava a Shannon; poi una che tornava indietro; +da Shannon una che indicava la riunione di Marble Head, poi da Marble +Head a Pietramala. Riguardai il foglio. Aggiunsi l’assenza delle tombe dei +bambini; ripresi poi gli elementi della teoria di Shannon su anomalia e + analogia. Da ultimo, anche il mio viaggio in traghetto, dove avevo +imparato che fidarmi era un elemento essenziale della vita. Fu allora che +mi resi conto di un fatto che mi stava così vicino da non esser fino ad +allora riuscito a mettere a fuoco; un fatto che ripercorreva tutte le +occasioni di rapporto che avevo avuto fin ad allora con Shannon. Rimasi +per un istante con la matita in mano, non sapendo bene se scrivere o +meno, non sapendo bene se davvero quello che mi risaltava alla mente +fosse un fatto o una somiglianza tra fatti. Quell’immagine, invece che +indebolirsi, si stava rafforzando e delineando, evocata sul tavolo come un +ectoplasma: Shannon aveva fatto di tutto perché io disimparassi a fidarmi. +Fin dal primo incontro, mi aveva imbottito di nozioni uguali e contrarie +perché io non fossi messo in condizione di scegliere, mi aveva sottoposto a +situazioni di tensione che non avevano via d’uscita, proposto finte +soluzioni che erano vicoli ciechi, fatto attendere per ore eventi che non si +sarebbero mai realizzati, messo su piste sbagliate. Come avevo fatto a non +accorgermi che mi aveva progressivamente intrappolato come uno +stupido? Aveva giocato con me, ero stato il suo porcellino d’India, la sua +cavia da torturare. Doveva essere soddisfatto: avevo abboccato a ogni suo +stimolo, avevo suonato tutti i campanelli che dovevo suonare, avevo girato +a vuoto nei suoi labirinti perfetti di parole e di situazioni, avevo +scodinzolato ai piccoli inutili premi che mi dava quando rispondevo come +voleva lui. L’addestramento era stato perfetto: ero diventato incapace di +decidere: non sapevo scegliere più niente, né muovermi. Questa era +l’infezione dell’anima che mi aveva inoculato a mia insaputa: io – stupido +– ci ero cascato. E mi resi anche conto di come tutto questo fosse +funzionale alla sua teoria sul linguaggio che da una vita stava cercando di +propinare al mondo intero come vera: che il linguaggio umano non nasce +in modo naturale né dalla pressione costruttiva dell’analogia né dal +disturbo mirato e intelligente dell’anomalia ma da un equilibrio qualsiasi +tra essi. Non è necessario scegliere un sistema: basta che sia coerente; e se +non è necessario scegliere perché mai dovrebbe essere possibile farlo? +Shannon mi aveva reso dunque incapace di scegliere. +Capii allora quel gioco infernale delle due zuppiere, quell’ultima sera a +cena: non era stato un caso, un inconveniente nel cerimoniale della tavola. +Era il coronamento del mio addestramento; lasciare che io rimanessi senza +cibo per l’incapacità di abbandonare sia pure temporaneamente una tra + due offerte equivalenti e allettanti. E cosa è necessario perché ciò accada? +Fidarsi che l’offerta temporaneamente scartata rimanga disponibile anche +dopo aver scelto l’altra. Tutto fu chiaro. Mi aveva reso incapace di +scegliere perché mi aveva reso incapace di fidarmi. Preso da una vampata +di rabbia accartocciai con le mani il foglio che avevo davanti. Le strinsi +insieme e mi spaventai: quella carta indurita poteva essere il volto di +Shannon. La mia rabbia era così forte che avrei potuto ucciderlo io, +schiacciandolo con le mie mani, spingendo per sempre dentro il suo volto +quegli occhi malvagi che mi avevano solo fatto soffrire. +Ma perché tutta quella cattiveria nei miei confronti? A che cosa gli +serviva? Dovevo stare attento a evitare che anche quella mia reazione non +fosse stata pilotata da Shannon. Non potevo rischiare di cascarci anche +allora. Cosa voleva, in fondo, lui da me? Questa era la domanda centrale: +era diventato evidente che non voleva che io decifrassi la grammatica della +lingua di Pietramala. +Cominciai a pensare che forse Shannon aveva commesso un errore, nel +tentativo di distogliermi dalla soluzione – che a questo punto lui +certamente aveva – mi aveva involontariamente indicato la strada. +Shannon aveva fatto come quelli che per dimenticarsi un amore ritagliano +la sagoma dell’amante dalle foto, ma lo fanno con tale precisione che il +buco finisce per ricordare l’amante tanto quanto l’immagine originale. Se +il mio ragionamento era corretto, Shannon voleva distogliermi dall’ipotesi +che la grammatica di Pietramala fosse basata su qualcosa di cui ci +dobbiamo fidare. Mi sembrò allora, per un istante, di essere fatto d’acqua, +e ripensai con un sorriso alla pioggia che mi aveva accolto a Pietramala. +Ora percepivo il momento esatto in cui l’acqua diventa ghiaccio: la +temperatura si abbassa senza che niente cambi; poi, all’improvviso, basta +un solo grado in meno e tutto si trasforma rapidamente. Si perdono alcune +proprietà e ne emergono di nuove e imprevedibili, pur rimanendo +costituiti delle stesse cose. Così, all’improvviso tutto intorno a me e in me +cambiò. +Avevo bisogno di fare due passi, avrei comunque cercato un posto dove +cenare su Broadway: chissà quando sarebbero tornati Ariel e Calibano. +Dovevo provare con loro a verificare la mia teoria. Il mio umore quella +sera andava a ondate: a tratti credevo di aver capito davvero qualcosa, in +altri momenti mi pareva invece di aver solo accostato due fatti causali in + modo non pertinente. Perché una persona che vuole distoglierti da +qualche cosa finisce poi per attirare la tua attenzione? Non avevo un modo +certo per provarlo, ma tutto mi sembrava andare in quella direzione. +Spontaneamente, risi: avrei dovuto fidarmi della mia stessa intuizione. Mi +sembrava che tutto intorno a me parlasse solo di fiducia. +Mi ritrovai dopo il tramonto ad aver camminato fino all’angolo sud-est +di Central Park dopo aver girato a sinistra a Columbus Circle: il vociare +dei turisti in quella sera di marzo mi sembrava di buon auspicio. +Affollavano numerosi la fontana di Grand Army Plaza, uno perfino seduto +sul bordo – chissà come ci si era arrampicato – tutti intenti a guardare un +giocoliere che sputava fuoco dalla bocca e gli dava le forme più +impreviste: ora un unicorno, ora un orso ciccione, ora una libellula +innamorata, ora la Tour Eiffel a testa in giù. Avrei voluto anch’io esser +capace di far venir fuori da me fiori di fantasia così vividi, ma al momento +avevo troppe domande a cui rispondere. +[7.5] Il risveglio, la mattina dopo, sul palco del teatro, precedette di poco +l’alba, che verso la fine di marzo a quelle latitudini inizia a sovrapporsi con +la ripresa della vita piena della città dando alla luce del giorno la voce della +strada. Il chiarore che si diffondeva dal lucernario pareva avere una +direzione nuova, insolita e fresca. Mi pareva un incoraggiamento a portare +a termine l’ultima mossa possibile: incontrare Shannon faccia a faccia. +Non potevo più aspettare. Forse avrei potuto riflettere ancora, ragionare, +fare deduzioni e controdeduzioni ma il confronto diretto con quell’uomo +era diventato un’impellenza. Mi sentivo caricato e motivato. Era evidente +che avrei giocato in campo avversario, che lui avrebbe avuto mille modi +per farmi fuori, intellettualmente e forse anche fisicamente, ma non avevo +più niente da perdere e, anzi, avrei potuto guadagnare la strada verso la +soluzione di quell’intreccio che mi teneva stretto da più parti: una lingua +misteriosa basata sulla fiducia in grado di uccidere in modo selettivo e un +uomo che mi aveva tenuto in scacco per paura che io capissi troppo. Forse +stavo agendo di fretta, ma ci sono casi nei quali l’attesa è un prezzo troppo +alto da pagare. +Fu più semplice di quanto pensassi: il maggiordomo di Shannon, che +evidentemente sapeva molto di più di quanto immaginassi, non ebbe + nemmeno il coraggio di chiedermi di aspettare una conferma. Disse che +per quella sera non erano previsti altri impegni e che il professore mi +avrebbe ricevuto senz’altro. Non aggiunse “volentieri” per non infierire su +un’atmosfera deteriorata in modo già fin troppo evidente. Questa mossa +inaspettata mi fece provare l’imbarazzo di quando si cerca di buttare giù a +spallate una porta che bastava aprire con le mani: annuii e ringraziai. Mi +stavo rendendo ridicolo? +Passai le ore che mi separavano dall’incontro a provare e riprovare il +discorso che avrei fatto a Shannon. Parlavo a voce alta come se l’avessi +avuto davanti. Studiavo anche i gesti che avrei fatto in reazione ai suoi. +Ancor prima di averlo davanti, mi irritava l’idea di subire quel volteggiare +ipnotico delle mani. Ero pronto a neutralizzare tutte le sue mosse come in +un duello di fioretto. Avevo addirittura il palcoscenico a mia disposizione, +mi pareva di recitare una parte scritta apposta per me. Oscillavo tra la +sensazione di ricevere applausi a scena aperta e quella di schivare oggetti +lanciati tra i fischi. Proprio non mi concepivo se non tra estremi: mi fece +tenerezza quella mia incapacità di accettare la mediocrità. Ricordo quando +una volta chiesi al mio maestro di karatè come ero andato durante +un’esibizione, se bene o male. “Peggio,” commentò tagliandomi in due +come se la sua lingua fosse stata un rasoio, “sei andato discretamente.” La +paura di fallire deflagra facilmente con scintille di narcisismo. Non lo +imparerò mai. +Quando fui pronto uscii su Broadway e mi incamminai a passo svelto +verso l’Ansonia. Salutai Ireneo che mi sorrise come sapeva fare solo lui; +chiese come stavo ma percepì il mio affanno e non aspettò risposte. +Shannon: ora ce l’avevo di fronte. Nessun sibilo, nessun carissimo. Non mi +offrì niente da bere, né da mangiare. Non mi fece visitare la casa né illustrò +qualche collezione preziosa. Stava in silenzio, indossando un vestito +particolarmente elegante, fuori luogo per quell’ora del giorno e +quell’occasione, con il volto rigido a osservarmi dalla sua poltrona, i +gomiti appoggiati e le mani aperte e congiunte tra la sua faccia e me, dito +contro dito, come un ragno allo specchio. Davide riuscì a farcela contro +Golia ma aveva dalla sua parte Dio: io, Elia, ero solo e non sarei riuscito +nemmeno a costruire una fionda, figuriamoci a usarla. In quell’istante non +sapevo esattamente cosa fare: scoprire le carte e dirgli quello che avevo +capito? Rivelargli quello che avevo sentito dire da lui poco prima di + lasciare la riunione alla villa di Marble Head? Dovevo dirgli che il suo +tentativo di farmi smettere di fidarmi era naufragato e che avevo capito +che in quel fidarmi stava il pericolo per lui? Niente. Aspettai. Aspettò. +Si stufò, inaspettatamente, innervosito prese a dire: “Conosci tutto della +struttura e della natura del linguaggio umano ma non riesci a capire +niente,” aveva deciso di attaccare in modo diretto, dunque. “Non ti sono +bastati i cenni, le coincidenze, le trappole esibite. Tu sei convinto che la +realtà non sia quella che si vede e vivi di fantasie.” Quasi non capii l’ultima +parola perché Shannon non riuscì a trattenersi da uno scoppio di risa. “Ma +tu mi piaci, Elia, mi piaci molto: mi rivedo in te e voglio darti un’ultima +occasione di uscita in sicurezza. Fa’ le valigie, tornatene in Europa – +dammi retta – e dimentica questo brutto sogno, dimentica Pietramala e +quello che ci sta intorno. È un consiglio che non si dà due volte nella vita, +un’offerta che non puoi rifiutare.” +“Se mi conosci un po’, Ismael,” rimbeccai, “sai che non mollerò tanto +facilmente, soprattutto ora che sono così vicino alla soluzione.” +Shannon impallidì, le mani fino ad allora aperte si serrarono +violentemente in due pugni che fecero diventare bianche le nocche, tanto +la presa era forte. Non poteva sapere se bluffavo o meno. +“E sentiamola, allora, questa benedetta soluzione,” disse con un finto +fare benevolo che rivelava lo sforzo a trattenere una scenata. +“Credi che abbocchi facilmente, Ismael? Sai bene che ora devi fidarti di +me,” rincalzai io, insistendo con l’intonazione su quel fidarti e sfoggiando +volontariamente un’espressione di sorpresa tenendo le soppracciglia ben +alzate – devi fidarti, Ismael, non hai alternativa.” +“E se mi fido cosa avrò in cambio da te, Elia? Perché mi converrebbe +accettare la tua offerta?” +“Non c’è un’offerta,” gli tenni testa, “non sono venuto per offrirti +qualcosa, sono venuto per comunicarti che ho in mano la soluzione della +lingua di Pietramala e ho capito tutti i fatti a essa connessi, inclusa,” qui +rallentai il flusso delle parole e assunsi un tono di sfida, “l’assenza di morti +tra i bambini.” +Doveva esser troppo anche per lui. Si alzò in piedi, con un gesto rapido +del braccio fece cadere tutti gli oggetti che stavano sul tavolo, incluso un +vaso di cristallo pieno d’acqua e di orchidee bianche. La sua voce sembrò il +prolungamento del fragore del vetro rotto: “Stammi bene a sentire: lo vedi + questo tavolo? Ci sono più cose ora qui sopra che nella tua vita futura se +non smetterai immediatamente di andare a caccia di una cosa che non ti +compete. Preparati e fa’ le valigie: sei troppo banale per me perché ti levi +di mezzo con le mie stesse mani ma mi basta un cenno perché di te +rimanga traccia solo nei cuscini delle sedie dove avrai appoggiato il tuo +culo. Tu non sei niente e il niente non può moltiplicarsi.” +Avevo visto giusto: la connessione tra la lingua e l’assenza dei morti +bambini doveva essere corretta. Senza volerlo, Shannon con la violenza +della sua reazione aveva confermato la mia congettura. Ero più sorpreso io +di lui; se ne accorse e incalzò rinvigorito come dopo un pugno che non +aveva colpito fino in fondo. +“Ti do tre giorni per andartene da New York e ritornare in Europa e +rinunciare a ogni ricerca o a rendere pubbliche le tue stupide congetture: +bada che sono perfettamente in grado di controllare i tuoi spostamenti, +come ormai avrai capito.” Si sentiva forte, aveva ripreso a muovere le +sopracciglia con quel tono di sfida strafottente e a far volteggiare quelle +mani sottili e lunghe nell’aria. Mi accorsi allora che si era fatto crescere dei +baffetti; segno che la preoccupazione non aveva scalfito la sua vanità. Non +risposi. Non era nel mio stile. Mi alzai. Mi girai e uscii dalla stanza +ostentando coi miei passi lenti una calma che in realtà non avevo. La porta +dello studio era aperta e dietro la soglia già aspettava il maggiordomo con +il mio cappotto e lo zaino. Tremava nel porgermi le cose: mi stupì molto. +Sembrava quasi non fosse mai stato spettatore di scene simili: avrei +immaginato il contrario. Quel giorno non potevo sospettare quanto ci +fosse ancora da capire, ma ero molto soddisfatto di aver colto il nucleo +della questione. +Ci fa bene sapere di capire qualcosa, ci fa meglio di qualsiasi altra +sensazione; capire ci rende liberi e la libertà, fosse anche solo di pensiero, +è la condizione essenziale per desiderare di essere felici; questo è il +massimo lusso ammissibile per una persona e il suo sintomo è la +consapevolezza di poter scegliere. Quel giorno, dopo tanto tempo, ero +felice. Dovevo agire rapidamente; non mi ponevo il problema se lasciare o +meno New York, era chiaro che Shannon mi avrebbe controllato, ma +dovevo capire come fare il passo successivo, cioè capire cosa c’entrasse la +fiducia con la lingua di Pietramala. Era un passo molto difficile: la posta in +gioco non era solo il caso di Pietramala, la posta in gioco ero io. Ero stufo + di attendere e di soffrire dell’attesa. La mia vita fino ad allora era stata una +ricerca vana di soddisfazione: non sapevo dove avevo sbagliato ma mi era +chiaro che dovevo andare fino in fondo con quello che avevo; trovare +un’altra storia non era possibile. Questo era ciò che mi offriva la vita, +questa era la vita, l’unica che potevo vivere. +Ora, nell’immediato, dovevo trovare Ariel e Calibano: dovevo avvisarli +che sarei andato via, ma soprattutto dovevo trovarli perché mi mancavano, +mi mancavano veramente. Avrei voluto abbracciarli, tenermeli stretti, +sbaciucchiarmeli e dir loro di annullare la tensione mangiando cose buone +insieme e cantando sul palcoscenico. Speravo di trovarli a casa quella sera. +L’aria di aprile stava avvicinandosi e come al solito si faceva precedere da +un vento profumato che però non dura molto: il tempo di una folata e +ritorna il fiato scuro dell’inverno. Fui fortunato a uscire per strada proprio +durante una di quelle sere quando ti ricordi che New York è una città di +mare. Chiusi gli occhi: potevo essere a Genova. L’altra metà del mio +mondo stava iniziando a chiamarmi. +Ci misi pochissimo a tornare nella zona del teatro e dalla strada vidi le +luci accese: Ariel o Calibano o tutti e due dovevano essere tornati. Il cuore +mi si aprì anche se per un istante un’immagine da una vetrina di un +negozio, appena prima di girare l’angolo mentre ero ancora su Broadway, +mi risucchiò il sangue e al contempo sembrò incitarmi alla battaglia finale. +In un presepe dimenticato dal Natale precedente, accoccolato nella +mangiatoia, tranquillo e maestoso, stava, solo, un cucciolo di tigre che mi +osservava. + Capitolo ottavo +Aprile, ovvero quando si sbrinano i sogni e ritorna la nostalgia della luna sul mare tiepido ma non è +ancora ora. +[8.1] La vista del presepe mi turbò talmente che volli subito ristoro dal +cielo notturno. Prima, cercai la luna. La luna, mai trascurarla: la si crede +estranea, invece è lei a scegliere i numeri dei giorni. Non c’è da stupirsi: le +regole più forti non si vedono bene; anzi, quanto più sono forti tanto meno +si vedono, e non tanto perché ci si abitua ma perché manca il termine di +riferimento. E questo vale per la natura e per il linguaggio. Mi hanno +insegnato che il poeta classico che scrive la sua tragedia obbedendo a un +certo numero di regole del quale è consapevole è più libero del poeta che +scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora. +In quel momento il poeta ignaro ero io: quali fossero le leggi nelle quali mi +trovavo immerso mi sfuggiva, ma aver capito di poterle trovare era già di +per sé una fonte di serenità impagabile. +E parlando della luna, quella notte – mi ricordo bene – il cielo d’aprile +era limpidissimo: più blu che nero. A Manhattan è difficile vedere le stelle +ma su River Side Drive, lungo il fiume Hudson, quella notte sembrava +possibile: bastava attraversare la strada e dopo un paio di isolati, +scendendo dal dorso dell’isola, arrivavo a piedi fino alla riva del fiume, di +fronte alla costa del New Jersey; lasciavo abituare gli occhi in qualche +angolo scuro e poi guardavo su. Sapevo riconoscerne molte, di stelle: la +Cintura di Orione, l’Orsa Maggiore, ovviamente, Cassiopea, sapevo +perfino tracciare delle linee per identificare il punto più lontano visibile a +occhio nudo, la galassia di Andromeda. E quando guardo le costellazioni +mi rendo conto che i miei occhi vedono solo le stelle: siamo noi che +tracciando linee cosmiche le congiungiamo e creiamo le figure. Ma è così +anche per le note e i numeri: le sinfonie, i teoremi e le costellazioni non +esistono; esistono solo note, numeri e stelle. Prendono vita solo perché +qualcuno le sente, li pensa, le guarda e dà loro un ordine. Noi, d’altronde, + non vediamo la luce, vediamo solo gli effetti che ha sugli oggetti. +Sappiamo della sua esistenza solo perché viene in parte riflessa da quello +che incontra nel suo cammino, rendendo visibile ciò che altrimenti non lo +sarebbe. Così un nulla, illuminato da un altro nulla, diventa per noi +qualcosa. Allo stesso modo funzionano le frasi e le parole: non hanno +contenuto in sé, ma se incontrano qualcuno che le ascolta diventano +qualcosa. Avrei giurato che quella notte, sulla riva del fiume, al buio, +qualcuno mi stesse guardando. +Una folata più forte delle altre mi fece capire che era davvero ora di +entrare a casa. Pensai di passare dai fratelli Arvali: sono sempre aperti e ci +si trova frutta e verdura buonissime a qualsiasi ora. L’intenzione era di +preparare una cena non tanto elaborata ma con cose buone per Ariel e +Calibano. Avrei voluto approfittare del loro rientro per una cena ben fatta +in loro onore, durante la quale avrei spiegato loro cosa avrei dovuto fare +(che per altro non avevo nemmeno ancora deciso bene). +Tenendo di fronte a me, ben strette tra le braccia, le due borse di carta +della spesa strapiene mi avviai a piedi verso l’ingresso del teatro; qualche +isolato in su, poi a destra. Girai nella mia via. Mi colpì un rumore di passi +dietro di me: erano pesanti ma netti; qualcuno che doveva indossare +scarpe con tacchi di legno, ormai rari. Incuriosito, mi girai, avrei voluto +fare una battuta: immaginavo di trovare uno dei ragazzi argentini del +palazzo di fianco, vestito per una festa di tango. Silenzio. Forse mi ero +ingannato. Ripresi a camminare lungo la via, tra gli alberi che non +avevano ancora messo le foglie. Anche il rumore riprese. Era strano: +sembrava sincronizzato con i miei passi. Sorrisi tra me e me e mi girai di +scatto: niente. Il rumore terminò ma intravidi dal lato opposto della strada +una persona che mi fissava. Accennai a un saluto con un gesto lento del +capo ma non ebbi risposta. Ripartii e ripartì anche lui. Accelerai, accelerò. +Mi rifermai e misi le borse per terra guardandolo fisso. Aveva il bavero +alzato e un cappello a tesa larga che teneva inclinato verso il basso per +coprire il volto: era altissimo e magro; vestito di nero con le mani in tasca +e gli occhi troppo infossati per essere visibili. Cosa volesse da me non +volevo immaginarlo. La luce della porta del teatro era vicina; accelerai +ancora ma non sentii più i passi. Mi ero evidentemente ingannato, agitato +com’ero dopo l’ultimo incontro con Shannon. Allora, come se tutto fosse +risucchiato in un gorgo maligno, il mio fiato si fermò e gli occhi vennero + catturati da un campo gravitazionale impossibile da vincere: parcheggiata +di fronte alla porta del teatro c’era la stessa macchina nera che avevo visto +a Boston poco prima di andare nella casa di Shannon. Lucida, grande, +silente ma accesa, come si capiva dal filo di fumo bianco che sbuffava +copioso dallo scappamento come la coda di un gatto impaziente. La +paralisi del terrore durò il tempo di un respiro; mi girai e corsi indietro +sulla via, senza nemmeno mollare le borse, sentendo che sarei potuto +svenire. Svoltai rapidamente su Broadway e controllai: nessuno mi aveva +seguito, ma non avevo dubbi; no, non potevo averne. Quello era un chiaro +avvertimento di Shannon. +Ariel e Calibano non fecero troppe domande al telefono: mi dissero +solo di aspettare e sarebbero corsi subito loro. +“Ti portiamo in un posto speciale,” disse Calibano mettendo il suo +braccione intorno alle mie spalle, “non ti accadrà nulla: te lo garantisco io; +vedrai.” +“Nulla,” ribadì Ariel con gli occhi lucidi. +Andammo con un taxi dall’altra parte di Manhattan attraversando +Central Park ma non dove ci incontrammo la prima volta; chiesero al +taxista di fermarsi all’angolo tra Park Avenue e la 65esima Strada. +Entrammo in un palazzo molto ben tenuto, dove evidentemente Calibano +aveva accesso facile perché salutò il portiere, e prendemmo un ascensore +che salì di una trentina di piani. Poi ancora due rampe di scale. Quello che +vidi dall’alto, quando Calibano aprì il lucchetto che bloccava una porta di +ferro, toglieva il fiato: una vista così non l’avevo mai provata. Eravamo sul +tetto di un palazzo dal quale si poteva vedere contemporaneamente +l’accrocco gotico e illuminato di Midtown e la distesa scura di Central +Park. +Mi voltai e vidi Calibano e Ariel preparati a guardarmi con un sorriso +come non li avevo visti fare da tempo: “Non crederai che sia tutto qui, +vero?” la voce bassa di Calibano sembrava quella di un ragazzo +emozionato. Ariel e Calibano volsero lo sguardo a una cisterna a torre di +quelle fatte di legno che servono da serbatoio d’acqua sui tetti dei palazzi +di New York. Non capivo cosa volessero indicare. Calibano si avvicinò al +serbatoio, salì svelto due gradini della scaletta di ispezione e spalancò una +porta ricurva che si aprì sul lato della cisterna lasciando uscire una luce +calda. Guardai dentro: era una sola grande stanza, dalla parete ricurva, di + legno, tutta arredata, con cuscini di ogni colore: una meraviglia. La madre +di tutte le alcove, l’avrei detta, se non fosse stata di quei due ragazzotti +miei amici: mi rigirai ancora verso di loro che mi avevano lasciato +precedere. +“E voi avete aspettato tutti questi mesi per mostrarmi questo rifugio?!” +dissi con un’aria scherzosa di rimprovero. +“Eh, ma bisogna superare la prova,” rispose subito Ariel raggiante, “e la +prova non l’avevamo mai inventata; poi però incontrandoti abbiamo +capito che la prova eri tu e che a superarla dovevamo essere noi. Grazie, +Elia; con te siamo cambiati; non so cosa risolviamo nella tua vita ma +sappiamo che tu hai risolto tanto della nostra.” +Ariel mi abbracciò forte e mi diede un bacio sulla guancia fermando le +labbra appena di più del dovuto; troppo di più forse, visto che Calibano si +affrettò un po’ goffo a dire subito: “Ora mangiamo insieme poi ci sdraiamo +a guardare le stelle; intanto tu raccontaci cosa sta succedendo.” +Fu un racconto dettagliato di tutto; non tralasciai alcun particolare. Mi +fecero poche domande; non erano sicuri di capire fino in fondo i fatti, ma +avevo l’impressione netta che comprendessero invece benissimo il mio +stato ed era quello che mi premeva. +“Ho perso tutto, ragazzi,” fu la mia conclusione. Non avevo un tono +affatto piagnucoloso; era come se stessi redigendo un verbale dopo +un’ennesima autopsia al corpo di uno sconosciuto. “Ho perso,” elencai in +ordine: “Clara Maria, il maestro che non ho mai trovato,” agitai le mani +imitando quelle di Shannon, “e la possibilità di scoprire l’origine di un +mistero affascinante e di una lingua magica, ma almeno so che li ho persi +perché ho scelto. Non posso dunque lamentarmi di nessuno e nessuno può +lamentarsi di me. Ho lavorato come potevo, date le circostanze, e dunque +ho vissuto liberamente fino in fondo facendo il mio dovere.” +Seguì un silenzio imbarazzante; dovevano essere abituati a quel tipo di +silenzio: come quando a teatro si conclude una pièce ma il pubblico non +intende e gli attori non sanno più cosa aggiungere per far scattare +l’applauso finale. Solo che lì – oltretutto – l’applauso non sarebbe stato +proprio indicato. Insomma, ero confuso e avevo confuso anche loro; +l’unica traccia positiva era che quella conclusione non si addiceva a me e +dunque la mancata chiusura era appropriata. Perché rassegnarmi? Per la +minaccia di un pazzo? È vero, sarei dovuto andarmene da Manhattan – + questo ormai era chiaro a me e a loro – ma non sarebbe stata quella la fine. +Sarei potuto andare avanti a studiare il manoscritto con il canto misterioso +e a decifrare la lingua; anche se non avrei mai potuto dirlo a nessuno, +almeno sarei vissuto senza l’opprimente sensazione di non aver saputo +sciogliere un mistero. +Ci provò Calibano a parlare d’altro e, naturalmente, parlò di cibo. Lo +fece con il chiaro tentativo di stemperare la tinta che si era accumulata in +gola, quel senso di addio grigio scuro, in contrasto con lo scenario magico +nel quale ci trovavamo in quel momento. +“Non trovi strano mangiare, Elia?” mi chiese lui. “Mettersi dei pezzi di +mondo dentro la bocca, non ti fa chiedere dove sia il confine tra dentro e +fuori, quando parliamo del nostro corpo?” +Non risposi, non volli dirgli che io stesso avevo già riflettuto più volte +su quel fatto: preferii regalargli la sensazione di essere originale e annuii +con partecipazione. Non dovetti essere convincente, però, perché non +continuò quel discorso. Ariel, entrando come un uccellino che salta +all’improvviso su un tavolo, provò con poco più successo. +“Elia, non vorrai andartene prima di averci detto come parlavano gli +angeli, vero? È la mia domanda di sempre,” disse con una voce commossa, +piena di voglia di dire altro, con le vocali che tremavano un po’ e le +palpebre che si stringevano per non mostrare le lacrime. +“Mah,” cercai di mostrare che abboccavo, “dipende a chi parlavano: tra +di loro o agli uomini o con Dio. Allora le grammatiche erano diverse, e +comunque tra di loro le frasi stavano tutte condensate sulla punta di un +istante, perché il tempo non esiste e le parole le pronunciavano tutte +simultaneamente, non in ordine una dopo l’altra come siamo costretti a +fare noi. Con Dio non so; forse lui accetta che noi parliamo con lui, perché +sa che non riusciamo davvero ad ammettere che lui sappia già tutto.” +Mi fermai: era come parlare di vacanze a un malato terminale; la +finzione era ben più amara del dolore nudo. Avremmo voluto solo +piangere: non restava che separarci e chissà se ci saremmo mai più visti. +Per un po’ tenni ancora quel pensiero per me. Mi accorsi allora che su quei +cuscini dentro la torretta ci eravamo messi come ci si metteva da ragazzi +in riva al mare: coricati, addossati l’uno all’altro, con le facce che +guardavano le nuvole. Io ero in mezzo e lasciai che Ariel e Calibano mi +prendessero entrambi le mani e le stringessero forti. Quelle due mani così + diverse e così affettuose erano un ponte elettrico per le mie emozioni: +passò più affetto allora in quella catena che in tutte le parole che avrei +potuto dire. +“Devo,” dissi io senza bisogno di completare la frase, tanto era ovvio +che avrei continuato con “partire”. Non ho paura del viaggio in sé – pensai +senza dirlo nel tentativo di consolarmi mentre Ariel e Calibano +sembravano ammutoliti – gli spostamenti mi piacciono; come quel giorno +quando ero arrivato a New York avevo ripetuto a me stesso che dei viaggi +odiavo solo le partenze e gli arrivi: angoscianti le une, imbarazzanti gli +altri. Troppe cime da mollare o nodi da fare. Soprattutto quando si parte +da luoghi noti per raggiungere luoghi noti: il ripetersi dei riti diventa +allora insopportabile per me. Meglio quando si parte per posti mai visti; +almeno si ha il pudore di non credere alle proprie paure. Ma quel che è +peggio tra tutte le sensazioni di viaggio è la nostalgia per un luogo che +non si è mai visto. Quando ti prende questo ossimoro dell’anima, tutto +diventa possibile a tal punto che non sai più se sia una dannazione o la +vera epifania del mistero. Eppure tantissime volte ho provato nostalgia di +luoghi mai visti, non dico delle persone, proprio i luoghi: spesso erano +prati di alta quota, o città di mattoni al tramonto, qualche volta una +spiaggia o una scuola di periferia, anche certe stazioni o caselli +autostradali. Quando ti capita, quel sentimento lo riconosci subito perché +ti fa mancare il fiato e niente può lenire quel dolore: è un ragno grosso che +scende lentamente lungo la gola e non ti fa nemmeno deglutire e ti tinge +di nero la voce. +Sentivo che il sonno iniziava a manipolare le parole. Prevalse la +sensazione di morbidezza delle mani grandi di Calibano e di fragilità di +quelle piccole di Ariel. Non li lasciai. Ci addormentammo accarezzandoci. +[8.2] Sempre: un istante prima di sciogliere la coscienza nel sonno, +nettamente riesco a percepire che il cervello, fuori controllo, spara una +raffica di pensieri e tra di essi solo i più vividi rimangono un poco più +impressi in me come certi fuochi di artificio prima di svanire nel nero del +cielo. Poi, quando il sonno si attenua, i sogni accorrono a plasmare la notte +lasciandomi spettatore impotente. Sognai quella notte un rumore lieve e +nuovo. + Aprii gli occhi di scatto. Non era un rumore nel sogno: era fuori. Per +quanto strano, per quanto fossimo già in aprile, quella notte era iniziato a +nevicare. Non una neve rada, né fine: erano invece dei fiocchi grossi, fitti, +bianchi, frastagliati, ben separati. Una neve notturna che si faceva sentire +anche nelle orecchie. +“Ariel, Calibano,” sussurrai appena, “nevica!” +Aprirono subito gli occhi. Dalla porta di legno della cisterna, ancora +spalancata, si vedeva la neve scendere fitta eppure luminosa, come stesse +rastrellando l’aria per portar via ogni odore della città, lasciando al suo +posto un sapore di acqua di montagna. Ci mettemmo con il viso verso la +porta, sdraiati, guardando all’insù i fiocchi che cadevano luminosi contro il +cielo nero: per un istante, la paura di quella sera, la necessità di +andarmene da New York e il filo spinato di misteri che avvolgevano +Pietramala si erano dissolti, sommersi da una spanna di neve. I fiocchi +cadevano rapidi e guardando in su ci sembrava di viaggiare tra le stelle a +velocità inimmaginabili. Qualche volta aprivamo la bocca aspettando che +ne cadesse uno: si sentivano come dei pizzichi sulla lingua. +“Sono tutti uguali?” chiese Ariel senza togliere gli occhi dal cielo. +“No. Sono fatti di tanti pezzetti diversi ma la diversità è limitata da +leggi generali,” le risposi, “quindi non si può pensare che siano diversi tra +di loro per forme infinite. Sai, Ariel,” aggiunsi incantato, “in un certo senso +sono un modello di come è fatto tutto il resto: vedendo come sono fatti i +fiocchi di neve si arriva ad ammettere che anche la materia può differire in +un numero limitato di figure.” +“Ma se son fatti di pezzi uguali non dovrebbero ripetersi?” +Calibano aveva ragione. +“Devi tener conto che variazioni microscopiche in un sistema molto +complesso possono dar luogo a differenze macroscopiche enormi e +generano così tante combinazioni da essere praticamente infinite per noi +esseri umani; per Dio, non lo so.” Cercavo di spiegargli una cosa per molti +ovvia, ma non sempre facile da ricordare. I fiocchi si stavano infittendo +come non avevo mai visto prima; la città faceva versi insoliti: anche le +sirene, che da sempre urlano nei canyon di Manhattan, erano attutite, +quasi afone. La città stava fermando i battiti. +Ariel, non curandosi tanto della nevicata quanto della neve, era ancora +incuriosita dalla forma dei fiocchi, mi chiese di parlagliene ancora. + “Quando si legge un libro,” ripresi allora io, “ci si accorge che ciò che +conta, che costituisce la materia di cui son fatte le parole, non sono solo le +lettere ma anche le posizioni nelle quali le varie lettere che le compongono +sono disposte. Sono infatti sempre le stesse poche lettere a significare cose +diversissime come il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, i campi di grano, +gli alberi, gli animali.” Poi aggiunsi, emozionandomi come mi capita +sempre quando ci penso: “La cosa che più sorprende è che i fisici hanno +capito che anche le distinzioni tra tutte le cose in generale si riducono a +distinzioni di posizione dei pochi mattoni che costituiscono gli atomi; così, +come per le lettere delle parole, questi, ricombinandosi, generano cose +diversissime come il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, i campi di grano, +gli alberi, gli animali.” Ariel non fiatava e non ero sicuro capisse allora +continuai con un esempio semplice: “Hai presente quando dico mare e +rame? Vedi: anche se le due parole sono fatte degli stessi elementi, la +posizione fa la differenza: semplicemente permutandone l’ordine si +ottengono tutte le differenze di significato. E poi, devi sapere, non ci sono +parole che non siano fatte di lettere delle quali non sia fatta almeno +un’altra parola. Ariel, mi senti?” +Credevo di averli addormentati con le mie storie, invece il silenzio era +l’effetto della loro attenzione: stavano sveglissimi ad ascoltarmi. Per una +volta avevano fatto sentire me un maestro e per un istante dimenticare +cosa mi aveva portato lì. La domanda se i fiocchi di neve fossero +infinitamente diversi era troppo bella perché la lasciassi cadere. Intanto la +neve aveva ormai raggiunto uno spessore considerevole: intorno tutto era +bianco. Nella nostra cisterna, la stufetta e la struttura in legno rendevano +l’atmosfera calda e molto confortevole. L’alba era ancora lontana, ma non +avevamo più voglia di dormire: sapevamo bene che quell’alba sarebbe +stata una delle ultime per me con loro a New York e forse per me con loro +ovunque. +Quando credevo che la curiosità fosse svanita e ormai si fosse fatta +largo la mestizia dell’addio imminente, Ariel mi sorprese: “Se tutte le cose +sono come i fiocchi di neve e se gli animali sono cose, come fanno solo +alcune cose a essere vive e altre no?” +“Be’, Ariel, non devono sorprenderti queste magie. Ne siamo circondati. +Tu, ad esempio, sei capace di ridere ma se sei fatta come tutti noi per ben + più della metà di acqua e l’acqua non ride né ride il resto del tuo corpo che +non è acqua. Eppur si ride.” +Per quanto motore di stupore, il gioco non funzionava più tra di noi; +tanta era la tristezza che ci aveva invaso. Rimanemmo zitti. Quando il +silenzio fu così lungo che qualsiasi pensiero sarebbe stato al confronto +meno imbarazzante, io mi azzardai a dire: “Ragazzi, domani, o al massimo +dopodomani, devo andarmene: Shannon è stato chiaro con i suoi +avvertimenti, espliciti e impliciti. Ormai mi conoscete: non saprei bene +cosa dire. Tornerò in Europa, in Francia credo, e inizierò da capo. Questa +esperienza, per quanto amara, per quanto triste, mi è servita per capirmi. +La cosa che veramente mi dispiace è lasciare voi.” +Calibano non seppe aggiungere niente e mi abbracciò forte; la mia +faccia sul suo petto grosso e grasso era schiacciata così forte che quasi non +respiravo, ma mi lasciai andare; Ariel non fece nulla, non disse nulla. +“Ero a un passo, ragazzi; avrei dovuto solo capire su cosa può basarsi +una grammatica che si basi sulla fiducia. Non ce l’ho fatta; non sapevo +come costruire la domanda. Come si fa a costruire una grammatica che si +basi su qualcosa che implica un atto di fiducia?” +Ariel e Calibano cercavano di consolarmi. Facevano quello che +potevano. Già mi parlavano di quando sarebbero venuti in tournée in +Europa con La tempesta; di come non avremmo mai perso i contatti, di +come l’amicizia vera non si consuma e basta pochissimo tempo, quando ci +si ritrova per esser subito in sintonia e riprendere come se non fosse +passato il tempo. Insomma, facevano quello che potevano recitando la +litania delle banalità e delle falsità che si rivolgono a un amore che finisce, +ben evitando di dire l’unica cosa che conta: che è finito. Poi accadde un +imprevisto che non avrei potuto nemmeno lontanamente prevedere. Certo, +è dell’imprevisto essere imprevisto, ma quello che capitò in cima a quel +palazzo di Manhattan durante una nevicata di aprile era un imprevisto che +si sommava a tutti gli altri imprevisti di quel momento e – cosa che più di +tutte mi lasciò di stucco – riguardava la relazione tra l’imprevedibile e la +grammatica di Pietramala e cambiò tutta la storia che da quel momento +prese a marciare come non aveva fatto mai fino ad allora. +Ariel, nel tentativo di rinfrancarmi, insistette ancora a chiedermi come +erano fatti i fiocchi di neve. Le raccontai che era una storia lunga; che +c’erano dei disegni bellissimi di Cartesio che ne aveva intuito la struttura + alla perfezione; che Keplero all’inizio del Seicento aveva scritto un trattato +chiamato De nive sexangula e aveva cercato di ricondurre la simmetria +esagonale di tutti i fiocchi alle proprietà che ha l’acqua quando ghiaccia e +che oggi se ne studiavano le proprietà fisiche con modelli sofisticati. Le +dissi anche che ci sono certe forme geometriche che sembrano fiocchi di +neve. Uno svedese che si chiamava Helge von Koch aveva studiato un +modo di trasformare un triangolo in una specie di fiocco di neve +costruendo triangoli sempre più piccoli simili al primo al centro di ogni +segmento. Vedendo Ariel recuperare un po’ di fiato al suono delle queste +mie parole, andai oltre e mi vantai anche di sapere una cosa stranissima, +cioè che quel matematico che studiava i fiocchi di neve geometrici +studiava anche cose più misteriose, come ad esempio come siano +distribuiti tra tutti i numeri quelli primi, quegli infiniti numeri più grandi +di 1 che hanno solo due divisori: 1 e se stessi. +Calibano, con la voglia che aveva di far vedere che era interessato +anche lui, intervenne e mi fece la domanda più bizzarra che potesse essere +fatta in quel momento: “Anch’io a scuola ho imparato a capire che i +numeri primi sono infiniti; ma non sono mai riuscito a capire come si fa a +sapere qual è il prossimo numero primo se si conoscono tutti quelli prima; +riesco solo a impararli a memoria.” +“Non si può, infatti,” risposi di getto, “nessuno sa generare +automaticamente tutti i numeri primi in fila, Calibano. Comunque ti +assicuro che sono infiniti.” +“Allora,” concluse lui, con la sua voce robusta e un tono di +partecipazione soddisfatta, “trovato l’ultimo, per il prossimo non resta che +aspettare e fidarci.” +Senza che niente lo facesse prevedere, quell’ultima parola di Calibano si +fece immediatamente più densa di qualsiasi altra nella mia mente – +insostenibilmente tale – fino a deformare lo spazio dei miei pensieri, +attraendo a sé tutto ciò che vi gravitava intorno: “fidarci” – aveva detto – +“non resta che fidarci”. +Ammutolii. Una vampata di calore che non sapevo se fosse paura o +gioia mi salì dal centro del ventre alle pupille, trascinando con sé tutto +quello che incontrava sul suo percorso. Avevo di fronte a me nitido, +limpido e brillante il nesso tra la grammatica di Pietramala e la fiducia, il +corto circuito tra quei due mondi fino ad allora a tenuta stagna; il punto + che Shannon aveva cercato invano di allontanare da me si presentava ora +fulgido come poche idee nella mia vita. Non c’erano più dubbi: la +grammatica di Pietramala aveva regole che si basavano sui numeri primi. +Mi alzai in piedi di scatto facendo vibrare tutta la torre e spaventai +Ariel e Calibano che non sapevano bene come reagire. Mi guardarono, si +guardarono, mi riguardarono: videro le lacrime uscire dai miei occhi ma la +mia bocca piegarsi in un sorriso. Capirono che era gioia. +“Ho capito,” dissi stupendomi di poterlo dire. Poi sporsi la mano e presi +una manciata di neve: “Le cose fanno luce sulle cose.” Si era fatta mattina. +[8.3] Ariel e Calibano erano tornati al teatro e mi avevano lasciato le +chiavi della “torre” – così la chiamavano; avevo inteso che era un regalo +fatto loro da un facoltoso ammiratore di Ariel. La torre sarebbe stato per +me un rifugio relativamente sicuro almeno per un paio di settimane. +L’intuizione della sera prima doveva essere elaborata per capire cosa +convenisse fare. Occorreva accedere al cuore della struttura di quel +linguaggio per capire quale pericolo poteva rappresentare per Shannon la +sua soluzione. Mi ricordavo benissimo cosa si era detto a Marble Head: +quella lingua, anzi una lingua costruita come quella, poteva diventare un +veicolo di apprendimento molto più rapido, potente e universale. +Apprendere quella lingua avrebbe reso la diffusione delle informazioni e +l’educazione dei bambini facilissima; Shannon voleva avere il controllo di +quello strumento di enorme importanza politica e sociale e ricavarne una +fortuna inimmaginabile. Io, d’altro canto, ora mi ero convinto che la lingua +si basasse sui numeri primi. Ma, a ben vedere, se questo risolveva un +problema generava comunque un’altra domanda: per quale motivo non +avrei dovuto saperlo? Perché Shannon aveva cercato, invano, di +impedirmelo? +Dalla torre si vedeva bene Central Park. La neve non era riuscita a +resistere sulle cime degli alberi più alti scossi dal vento del mattino che +lasciavano intravedere il colore delle foglie. C’è una cosa che non riesco a +perdonare alla primavera: che i colori dell’esordio, quelli delle prime +foglie, coincidano con quelli dell’autunno e ingannino i sensi come il canto +di un gatto in amore. Poco mi importava allora; non potevo rischiare di +uscire. Al mattino, Ariel o Calibano mi avrebbero portato i viveri; avrei + sfruttato il bagno che c’era sul tetto. Chiesi solo dei nuovi quaderni: sono +il mezzo migliore quando si devono costruire strutture sintattiche e +cercare di provare teoremi di linguistica ma ho il sospetto che siano +sempre il mezzo migliore quando si deve studiare. Li chiesi a quadretti; +non sono mai stato capace di lavorare su quaderni a righe. Ariel arrivò con +una pila di quaderni e di matite nere e rosse, oltre a viveri per sei mesi +(evidentemente le porzioni le aveva decise Calibano); avrebbe voluto +commentare su quel che mi aveva portato da mangiare ma divenne tutta +rossa, abbassò gli occhi e sorrise quando me li diede. Dispose sul tavolo i +quaderni uno accanto all’altro, scegliendo bene i contrasti di colore delle +copertine. Sorrise ancora e i ciuffi biondi che sbucavano dalla cuffia +toccarono gli estremi delle sue labbra prolungando l’arco del sorriso. +Credo pensasse che quei quaderni fossero magici e non potevo escludere +che non li avesse fatti incantare da qualcuno: Ariel volava con le idee e +nessuno poteva trattenerla. Misi sul tavolo, accanto ai quaderni, il testo del +canto. Avevo anche chiesto che mi procurassero un libro di teoria dei +numeri che avevo studiato qualche anno prima: mi sarebbe servito per +cercare di decifrare la regola che li conteneva. Anche quello c’era: meno di +trenta pagine, consunte e piene di note: come avessero spremuto tutta la +matematica in uno spazio minimo. +Compresi subito che avevo di fronte due problemi distinti e che +conveniva trattarli separatamente: da una parte, dovevo capire perché +Shannon non volesse che sapessi che la lingua era basata sui numeri +primi; dall’altra, capire quali fossero esattamente i numeri primi o il +singolo numero primo – non potevano certo essere tutti, visto che le +grammatiche sono oggetti finiti – che costituivano parte essenziale della +struttura della lingua di Pietramala. Il primo problema, decisi di +accantonarlo; il secondo problema, invece, era essenziale ed era anche +tecnico: non ne sarei uscito senza una quantità di calcoli inverosimili. +L’unica strategia possibile era ovviamente quella di progettare una +grammatica che sulla base di poche regole producesse meccanicamente +tutte e solo le strutture che avevo trovato nel canto, quella che +tecnicamente si chiama “grammatica generativa”. Potevo utilizzare i +modelli stabilizzati ormai dagli anni cinquanta del secolo scorso. Ma per +quanto tentassi, il primo problema riemergeva e mi tormentava: cosa +imbarazzava Shannon della lingua di Pietramala? Come capita sempre + quando penso davvero, preso da questi due problemi, mi addormentai in +un sonno profondissimo e quel pomeriggio feci un sogno arruffato: ero io +da bambino e mi nascondevo dentro lo sgabuzzino delle scope tutto nudo e +poi gridavo per farmi venire a cercare dalla mamma. Quella volta lei non +si era accorta dei richiami e io ero rimasto a lungo chiuso dentro; sarei +potuto uscire ma, prima per orgoglio e poi per uno strano terrore, ero +rimasto lì. Quando gli occhi si furono abituati al buio avevo visto una lama +di luce intensa proiettarsi attraverso la fessura della porta e dentro quello +spazio luminoso e sottilissimo un’infinità di corpuscoli sospesi nell’aria +mescolarsi tra di loro in infiniti modi come se fossero impegnati in una +battaglia eterna, a gruppi, senza sosta. Mi svegliai. Ecco: dovevo solo +trovare il raggio di luce giusto che di tutti i fatti illuminasse solo quelli che +permettevano di vedere meglio. +Si inseguirono in tondo nella mia testa per più di un’ora questi due +fatti: i numeri primi, come ingrediente della grammatica, e l’assenza di +bambini tra le tombe, finché esausti, precipitarono nella mia mente come +un sale in una soluzione satura agitata a lungo e mi regalarono una +deduzione chiarissima, senza pieghe, luminosa e cogente. Avevo capito: +dovette risultare che la lingua di Pietramala non fosse apprendibile dai +bambini. Questo era il veleno contenuto in quei numeri. I bambini, +testimoni innocenti e incoercibili di quella disfatta, dovettero essere +nascosti, anzi peggio: i bambini dovettero essere tutti portati via da +Pietramala per non mostrare che l’esperimento non era riuscito. Gli adulti +potevano apprendere quella lingua bizzarra e straniera come si +apprendono le regole di un gioco da tavolo, come gli scacchi, ma i bambini +no. Battei un pugno sul tavolo così forte che la torre risuonò tutta, cupa +come una grancassa; e in quel mentre sembrò prendere vita e dire: +“Disturbo?” Era Calibano, in realtà, che, entrando proprio in quel +momento con due borse di viveri e la mia biancheria di ricambio, si fermò +stupito a quel suono. +“Calibano!” dissi io senza nemmeno salutarlo, come se fosse stato +sempre lì. “Ho finalmente capito cosa è successo a Pietramala.” +Ci sedemmo e gli spiegai passo a passo la deduzione. Alla fine lo +guardai, mi guardò e vidi che nei suoi occhi non brillava affatto +l’espressione di chi aveva capito. Stavo delirando? Avevo sbagliato in +qualche punto? “Cosa?” gli chiesi senza dire altro. + “Be’, ma perché una lingua che si basa sui numeri primi non può essere +apprendibile?” mi chiese con coraggio candido. Disarmante; aveva +ragione: avevo omesso il particolare centrale che davo per scontato. La +serie completa dei numeri primi non è generabile da nessun fenomeno +naturale in nessun dominio: né in fisica né in biologia né in psicologia. +Provai a convincerlo utilizzando un esempio al contrario. Gli citai i soliti +numeri di Fibonacci, quelli che ci sono in tutti i romanzi dove si vuol far +entrare un po’ di misteriosa matematica. Gli feci vedere che in natura ci +sono tanti fenomeni che crescono come cresce la serie dei numeri di +Fibonacci, dove ogni numero è la somma dei precedenti, lasciando più o +meno libera la possibilità di partire da zero o da uno. Parlammo di +broccoli, chiocciole, petali, templi, pellicce, ciaccone, finanza, e di molti +altri casi (tranne che di conigli, perché mi sembrava di far torto alla sua +intelligenza): gli mostrai che in tutti questi oggetti o situazioni si vedevano +fenomeni dove qualcosa si sviluppa organizzandosi secondo la successione +dei numeri di Fibonacci poi gli dissi: +“Ecco: nessuno, salvo qualche fisico presto smentito, è mai riuscito a +trovare alcun oggetto o fenomeno naturale capace di generare +automaticamente,” calcai la voce su automaticamente, “la sequenza dei +numeri primi, a differenza di quelli di Fibonacci, come esempio; qualche +fenomeno forse ne genera una manciata, ma una manciata di infinito non +assomiglia a sufficienza all’infinito.” Non mi arrivò nessun capisco, e per +questo capii io e dovetti continuare: “Se la lingua di Pietramala, che era +basata sui numeri primi, non era apprendibile, questo dimostra +inequivocabilmente che le lingue umane sono oggetti naturali e non +convenzioni culturali di natura arbitraria, progettabili a tavolino con il +solo requisito di essere in equilibrio tra analogia e anomalia, come invece +sosteneva Shannon.” +Feci un sorriso tale che Calibano si alzò, allargò le braccia, mi strinse +forte a lui, mi diede un bacio e sussurrò con la voce ancor più profonda del +solito: “Non ho capito niente comunque.” +Ma io sì – dissi tra me e me non potendo non pensare a Ismael. +Ero felice, non per Calibano ovviamente, ma per la coerenza della mia +ipotesi. Alla fine del Seicento, probabilmente da qualcuno legato al +Giardino degli Equivalenti, doveva essere stata costruita una grammatica +artificiale basata sul principio secondo il quale basta che una lingua sia in + equilibrio coerente tra analogia e anomalia perché possa rappresentare la +mente umana; con il supporto di quel consesso e probabilmente di nobili +interessati a questa sperimentazione, venne interamente costruito dal +nulla un borgo isolato in una zona relativamente sperduta e comunque +poco accessibile nell’isola di Corsica – Pietramala – che fu popolato +scegliendo persone accondiscendenti e, con tutta probabilità, non abbienti, +alle quali vennero offerti denaro e sicurezza in cambio della richiesta di +parlare sempre e solo quella lingua appena inventata. Con gli adulti il +sistema doveva avere funzionato: apprendevano e se la cavavano in +qualche modo come tutti gli adulti se la cavano in qualche modo con una +lingua appresa da adulti, ma i bambini, che non sanno fare ragionamenti +ed esercizi come gli adulti e apprendono il linguaggio per istinto come +apprendono a camminare, non riuscivano proprio a parlare quella lingua. +Per un po’ la gente che aveva accettato di andare a vivere a Pietramala +doveva aver sopportato quegli strappi – i bambini erano forse stati portati +via per nascondere il problema o per tentare di arginarlo – poi la comunità +non doveva aver più accettato la situazione, si era ribellata e aveva +abbandonato il paese in massa e all’improvviso, come evasa da un carcere +di sicurezza. Shannon, che aveva dedicato tutta la vita a provare l’efficacia +del principio di equivalenza, quando venne a sapere del naufragio +dell’esperimento di Pietramala cercò di impedirne la diffusione con tutte le +sue forze. Era la prova definitiva e inconfutabile che la sua teoria era un +fallimento +colossale, +una +forzatura +contro +natura: +azzardata, +imperdonabile, pericolosa, un vero e unico delirio. +Calibano mi fece solo una domanda, ma fu sufficiente: “Come fai a +essere sicuro che sia inapprendibile?” +Non avevo risposte immediate. Se questo non fosse stato vero, sarebbe +mancata la chiave di volta e tutto il castello sarebbe crollato ancor prima +di nascere. Certamente non potevo prendere un bambino e insegnargli una +lingua che tra l’altro non conoscevo. Avrei dovuto invece avere a +disposizione un adulto speciale, un adulto, come sapevo che ne avevano +trovati, in grado di appassionarsi alle lingue in modo maniacale e +ossessivo, un adulto disposto a imparare lingue nuove e, soprattutto, un +adulto capace di apprendere una lingua senza istruzioni esplicite e +dettagliate, esattamente come capita a un bambino. Quella descrizione +aveva tassello per tassello composto in me il ritratto completo e fedele di + una persona che esisteva veramente, che conoscevo e che era +raggiungibile e vicina, anzi vicinissima: Ireneo. +“Ma certo,” dissi a voce alta, “Calibano, devi assolutamente portarmi +qua Ireneo, il ragazzo cieco che lavora all’ascensore dell’Ansonia. È +essenziale per provare questa teoria.” +Calibano non fece troppe domande: capì la delicatezza della situazione +e si offrì di condurlo da me, ovviamente io avrei dovuto chiamarlo e +spiegargli cosa stava accadendo, ma il ragazzo era sveglio e non ci avrebbe +impiegato troppo. Per sicurezza, decisi di non telefonare a Ireneo ma di +scrivergli un messaggio in braille: Calibano avrebbe fatto in modo di +recapitarglielo e l’avrebbe condotto da me appena possibile. Io avrei +confezionato delle regole linguistiche basate sui numeri primi e ne avrei +sperimentato su di lui l’apprendibilità. Se non fosse riuscito ad +apprenderla avrei avuto un dato a favore robustissimo della mia +spiegazione (non una prova, perché le prove sono solo della matematica, +ma certo per me una conferma difficilmente confutabile). Calibano corse +via immediatamente: lui era certissimo che avrebbe funzionato. +Provai un senso di frustrazione e di compassione intenso per quello che +era capitato agli abitanti di Pietramala e per quello che aveva architettato +Shannon. Mi venne in mente il trattamento incivile che veniva riservato +ad alcune donne cinesi prescelte nel passato, una tortura che andò di moda +come incontrastato emblema di bellezza per cinquecento anni. Alle +bambine venivano fasciati i piedi in modo che rimanessero in una +posizione innaturale e crescessero limitati. Durante il processo la carne +andava spesso in putrefazione, parti della pianta si squamavano e a volte +cadevano una o più dita. Il dolore persisteva per circa un anno e quindi +diminuiva d’intensità, finché, verso la fine del secondo anno, i piedi +perdevano ogni sensibilità e risultavano praticamente morti. La cattiveria +è quasi sempre una declinazione della forzatura di un’espressione naturale, +l’imposizione per fini ideologici di qualcosa che non è proprio +dell’individuo che lo subisce. L’idea di imporre una lingua forzata e +inventata a tavolino secondo principi teorici che non seguivano la natura +era altrettanto folle e, soprattutto, insostenibilmente crudele di quella +pratica sadica. Si sa che quando si parla di linguaggio la follia è la norma +ancora oggi, soprattutto negli ambienti accademici, ma in questo caso ci +erano andate di mezzo persone in carne e ossa e, se non si fosse arrestato + quel delirio, molte ne sarebbero andate ancora di mezzo. Cosa sarebbe +successo se Shannon fosse riuscito a vendere la sua lingua e insegnarla in +modo forzato a una comunità creata forzatamente per facilitare +l’apprendimento e con ciò controllare gli individui che la parlavano? +Sarebbe bastato pochissimo, il disegno coordinato di governi influenti +supportato da scienziati spregiudicati a caccia di fama e denaro, +l’intervento di qualche multinazionale dell’elettronica e dell’informazione, +per far riprovare tutto il dolore provato a Pietramala, questa volta su scala +planetaria. +[8.4] Mi misi subito a costruire grammatiche generative, anzi regole +sintattiche perché i vocaboli non c’entravano; bastava inventarne di finti. +Non avrei avuto bisogno di statistica; solo di algebra. Per fortuna la +statistica è completamente inutile per la sintassi. Meglio così. Preparai +dunque cinque regole di sintassi basate sui numeri primi. Fu molto facile +per me, abituato a costruire grammatiche generative dai tempi del +dottorato. Sapevo bene che ci sono tante grammatiche quanti sono i +grammatici, e anche di più, e che non si trattava di una passeggiata ma ero +certo che avrei trovato quella giusta. +Calibano arrivò di buon’ora accompagnato da Ireneo. Li vidi sbucare +dalla porta di ferro in cima al tetto. Attraversarono lentamente lo spazio +coperto da una coltre di neve alta più di mezzo metro; i piedi mossi con +circospezione. Le loro sagome scure sul fondo bianco sembravano +provenire da una pellicola d’autore in bianco e nero: grasso, tondo e forte, +Calibano teneva per mano Ireneo, che – molto più alto di lui – muoveva il +suo corpo quadratus e proporzionato sbattendo rapidamente le palpebre +sugli occhi ciechi e bellissimi rivelando una preoccupazione sensibile. Si +fermarono a un certo punto – forse avvertendo del ghiaccio sotto i piedi – +e sembrarono per quell’istante assumere l’assetto e l’equilibrio di una +scultura ellenistica. Ireneo si tranquillizzò davvero solo quando sentì la +mia voce: “Fidati, amico mio, sono qua: per oggi Calibano non ti mangia,” +gridai. Non era facile per lui, cieco, seguire quel percorso così strano per +raggiungere un serbatoio in cima a un palazzo dell’Upper East Side. Però +era venuto, e questo mi fece un immenso piacere. + Prima che arrivasse, ero stato a lungo indeciso su cosa raccontargli: di +certo non gli avrei detto che ero in fuga da Shannon, né quale fosse lo +scopo dell’esperimento, ma non potevo rimanere troppo sul vago. Ireneo +era molto intelligente. Decisi di dirgli che dovevo partire in gran fretta ma +che avrei voluto sperimentare l’apprendimento di una serie di regole su un +soggetto poliglotta; in fondo, era la verità, solo parziale ma autentica, +sempre che esista qualcosa come una verità conoscibile che non sia solo +parziale. Stavo usando Ireneo come cavia e questo mi metteva in una +posizione di difficoltà. Sventurata la gente che ha bisogno di cavie. +Stavo riflettendo proprio su questo aspetto delicato, quando Calibano e +Ireneo fecero il loro ingresso nella torre. Fu un abbraccio forte quello che +diedi a Ireneo, anche se gli arrivavo al petto, tanto forte che lui non ne +capì il motivo. Ma non era importante. Ci sedemmo mentre Calibano +preparava un tè allo zenzero e tagliava in tre fette una torta alle pere e al +cioccolato, che nemmeno con un goniometro sarebbero state più eguali. +“Sei pronto?” +“Certo.” +“Ora ti do dieci regole di composizione delle parole e ti insegno 7 verbi +e 9 nomi con articoli, ausiliari, qualche avverbio e congiunzione di una +lingua inventata. Poi tu mi devi dire se le frasi che ti do sono compatibili +con le regole che ti ho spiegato. Va bene?” +“Benissimo.” +Iniziai, con i nomi: ne scelsi di semplici, erano tre oggetti, due nomi +propri, un sapore, un sentimento, un’azione e un colore; poi i verbi: uno +“di dire”, uno di azione, uno di cambiamento di stato, il verbo essere, un +performativo, due transitivi, due intransitivi (uno vero e proprio e uno a +costrutto inaccusativo); il lessico lo presi alterando sia pure di poco +l’evroniano standard, una lingua extraterrestre sulla quale avevo lavorato +con un mio amico astrolinguista che era poi passato a studiare la +comunicazione tra i paperi sostenendo che gli alieni erano già tra noi. +Avevo a memoria una serie di frasi, a partire dalla prima che mi ricordavo +– il gulco gianigeva le brale – e non fu difficile ricordarmene molte altre: +nafantavano gli oprammi, il lappento non tonce mai, tutte le pitanghe +sono state gasporate. Ricavare il lessico fu dunque facile. Poi venne la +parte delle regole. Lì fu meno facile ma riuscii a preparane dieci: solo +cinque si basavano sui numeri primi, le altre erano tutte regole + appartenenti a qualche lingua del mondo. Feci bene i conti e controllai che +la grammatica fosse coerente, generata in equilibrio tra analogie e +anomalie. Poi chiamai Ireneo: gli diedi un po’ di tempo e risposi a qualche +sua domanda poi iniziammo; Calibano, in silenzio accanto a lui, io +dall’altra parte del tavolo. Erano in totale settanta gruppi di sette frasi. Lui +doveva dirmi solo se erano o meno conformi a qualcuna delle regole che +gli avevo insegnato. Mi tremava un poco la voce. Sembrava una partita a +scacchi. Io facevo la mossa, leggendogli la frase, lui pensava, rispondeva, +poi io segnavo, ripensavo, richiedevo. Ci vollero poco più di due ore per +terminare il test. L’aria nella torre si era di molto riscaldata, sia perché la +stufetta era sempre accesa sia perché tutti e tre sudavamo per motivi +diversi: io dall’ansia, Ireneo dal timore, Calibano dal caldo generato da noi +due. Ariel aspettava fuori, sempre intenta a osservare da vicino i fiocchi di +neve appena depositati sulla manica del suo maglione che inevitabilmente +si scioglievano con il fiato che le sbuffava dal naso se avvicinava troppo il +volto per osservarli. Ireneo, finalmente, diede l’ultima risposta. Riguardai +in silenzio il mio foglio. Guardai loro; riguardai il foglio, contando +rapidamente e facendo prove e controprove. +“Ce l’abbiamo fatta,” annunciai al plurale tutto rosso per l’emozione, “le +regole costruite coi numeri primi le hai sbagliate praticamente tutte, +mentre le altre sono state centrate al cento per cento; e tutte le frasi erano +state computate nello stesso tempo, segno che la differenza di esito non +può essere attribuita alla complessità.” +Appoggiai fogli e carta sul tavolo, tirai un lunghissimo sospiro di +sollievo e afferrai le mani grandi di Ireneo stingendole forti: “Amico mio, +non sai quanto sei stato utile per me,” gli dissi e sentii le sue mani +stringere forte le mie. Quanto doveva aver capito Ireneo non mi fu mai +completamente chiaro, ma la sensazione fu che avesse capito tutto, un +ottimo punto di vista quando si ha a che fare con gli altri. +Andammo avanti a chiacchierare fino a sera; una serata così affettuosa +non si poteva pianificare. Calibano, Ireneo e io eravamo gli assi cartesiani +di uno spazio emotivo insolito. Dentro quello spazio si definivano le nostre +passioni, i nostri affetti le nostre manie, i nostri difetti. Senza uno dei tre, +anche gli altri sembravano perdere significato – a tal punto che mi chiesi +se non mi trovassi ancora una volta di fronte una configurazione +borromaica – e il baricentro dei nostri affetti mutava ma lo faceva sempre + all’interno di quello spazio e ci sentivamo protetti. Arrivò il momento di +salutarli; Calibano doveva tornare per le prove da Ariel, che nel frattempo +era andata ad aprire il teatro, e Ireneo prendeva servizio. Non era affatto +facile salutare Ireneo: non sapevo né quando né se l’avrei mai rivisto. +Senza dircelo, facemmo finta che quello fosse solo un arrivederci al giorno +dopo. Senza dircelo, dicemmo tutto quello che era necessario. Uscendo, +lasciai aperta la porta della torre: volevo vederli andare via per mano nella +neve, i miei due amici, volevo vedere la tenerezza di quei movimenti, +impacciati e coordinati per mantenere l’equilibrio, sublimarsi in una +bellezza insostenibile. La luce radente del tramonto aveva ghiacciato la +terrazza coperta di neve che allora sembrò polvere d’oro di scena. Forse +Calibano ne aveva rubata un po’ dal teatro e la stava perdendo dalle +tasche. +Avevo ottenuto la prova che mi occorreva: le regole basate sui numeri +primi non erano apprendibili. Questo confermava la posizione di chi vede +il linguaggio umano come ancorato alla struttura biologica dei nostri +organismi: il cervello non è una tabula rasa che può essere programmata a +piacere; le istruzioni con le quali è compatibile sono espressione stessa +della sua struttura e sono limitate. Per questo esistono lingue impossibili. +Forse questo setaccio è di ostacolo da adulti, ma certamente non lo deve +essere da bambini quando nasciamo immersi in suoni di ogni tipo e non +sappiamo ancora quali siano quelli che trasportano informazione. Forse il +setaccio funziona come la retina: se i nostri occhi fossero sensibili a più +frequenze elettromagnetiche di quelle dello spettro dei colori, per esempio +alle onde radio, ci troveremmo immersi in una nebbia di informazioni +caotiche, come un televisore sintonizzato su un canale morto; vedremmo +troppo. Lo stesso accadrebbe se dovessimo esplorare tutti i suoni prodotti +dalla voce secondo tutte le regole concepibili: da bambini, non ci +basterebbe nemmeno il tempo per apprendere una lingua occupati a +interpretare uno tsunami di onde. Ad ogni modo, qualunque fosse la +spiegazione di questo stato di cose, avevo capito quanto occorreva e non +mi serviva altro: esistono lingue impossibili da apprendere e queste lingue +sono impossibili anche se sono coerenti con i principi di analogia e +anomalia. +Ora veniva la seconda parte della decifrazione, non meno difficile: +trovare il numero primo autentico, quello scelto dal linguista del Giardino + degli Equivalenti che forzasse la serratura della lingua di Pietramala +inserendosi come chiave nelle regole sintattiche. Quella che avevo fatto +finora era una simulazione con dei numeri primi bassi: la realtà poteva +essere troppo distante per essere raggiunta con la capacità della mia +piccola mente. Cercare un numero primo tra gli infiniti disponibili è un +supplizio che nemmeno Sisifo sarebbe capace di sopportare, ma siccome +ero e sono tra coloro che Sisifo devono immaginarselo felice, non mi +fermai. Quel giorno e il giorno successivo e quello ancora dopo provai +ogni tecnica deduttiva della quale ero capace per trovare il numero primo +che sbloccasse la lettura del canto che avevo trascritto, ma non riuscivo. +Mi convinsi che avevo un’ultima speranza: quella che la chiave fosse +ancora depositata da qualche parte a Pietramala e questo restringeva il +campo a un’unica ragionevole possibilità. Dovevo decifrare l’anagramma +dell’arco e sperare che in esso fosse custodita la chiave. Non c’erano altre +testimonianze scritte; se il numero primo fosse stato nascosto altrove +sarebbe stato per me un disastro e non avrei mai potuto esser sicuro che la +mia spiegazione del mistero di Pietramala fosse giusta. Un solo numero +separava me dalla comprensione di tutto. Che ironia: dovevo cercare un +numero, proprio un numero, un semplice numero nascosto da qualche +parte in un borgo disabitato dove non c’era niente di scritto. E dire che i +numeri non esistono fuori di noi e senza di noi, e che se ne esiste uno +esistono tutti: cercare un numero solo è buffo come cercare una parola +sola; o si ha tutto il dizionario o non ne saprai mai il significato. Mi +addormentai con la convinzione che le persone sono fatte della stessa +sostanza dei numeri. +[8.5] Scappa, scappa e corri con piede che non lascia impronta. Con questa +frase in testa e lo zaino in spalla, uscii di fretta dal palazzo. Avevo raccolto +tutto, chiuso la torre e nascosto la chiave sotto il terzo grande vaso vicino +alla porta di ferro. Avevo detto tutto a Calibano e Ariel? Quella mattina +erano arrivati prestissimo – e già questo era eccezionale – per salutarmi. +Mi ero imposto di non commuovermi o non sarei mai partito. Dissi loro +poche cose: che certo ci saremmo rivisti, che li avrei tenuti informati ma, +soprattutto, raccomandai loro che non si separassero mai. Ariel, in un +momento di silenzio che stava durando troppo a lungo, si ricordò di aver + portato delle foto di lei e Calibano che voleva darmi per ricordo: perché +non mi dimenticassi di loro. Stavano in una cartelletta chiusa con un +fiocco verde; nell’estrarla, tutte le foto caddero per terra. Ci chinammo per +raccoglierle e le mettemmo sul tavolo, sempre in silenzio, tanta era la +commozione di quel momento. Ariel le raccolse e iniziò a descriverle: +“Qui siamo noi in spiaggia, qui alla nostra prima produzione: Calibano +faceva la parte di Ariel ed era magrolino! Guarda che buffo, qui siamo a +Parigi, questa è la casa di montagna del nostro amico sulle Dolomiti vicino +a Merano, questa è la sera della festa alla baita, questa è la strada che +congiunge la baita con il paese.” +Calibano si fece largo e prese in mano le foto: “Ariel, se le fai vedere in +questo ordine sono tristi. Guarda ora: questa è la strada che porta alla +baita, questa è la sera della festa. Ecco, così cambia tutto. Vedi?” +Lui lo sapeva, ma lo sapeva anche Ariel. Crediamo che le foto siano +belle o brutte da sole e non ci accorgiamo che l’ordine non è meno +importante. Qual era l’ordine nel quale volevo ricordare gli eventi della +mia vita? Ma si può cambiare il sapore della vita aggiungendo gli +ingredienti in ordini diversi? Li guardai negli occhi e tutto diventò lucido. +Un altro silenzio, più lungo degli altri, segnò la conclusione di +quell’incontro. Chiesi ad Ariel e Calibano di andare via prima di me e di +lasciarmi uscire in un secondo tempo, da solo, ma strane parole non +preventivate mi vennero fuori all’improvviso: +“Ariel,” dissi guardandola come fosse un uccellino appena nato, “e tu +Calibano,” e gli misi una mano sulla testa afferrando una manciata di +riccioli grossi, “non crederete mica di essere liberi vero? Tenetele, queste +foto, perché ci rivedremo. Vi manca ancora poco, ma dovete tener duro. +Tra poco debutterete e alla fine della stagione imparerete a capire cosa +vuol dire smontare il palcoscenico e godervi il resto. Vorrei tanto foste in +grado di sciogliere anche me con le vostre mani generose ma prima devo +essere liberato io. Non dimenticatevi che da questa catena dipende tutto; +come sempre. Andatevene, non manca molto.” Mi voltai e sentii che in +silenzio se ne andarono anche loro. +Quando fui sicuro di essere solo, mi vestii e iniziai la marcia di +accostamento alla rovescia verso l’isola, l’altra isola, quella dalla quale ero +partito: la Corsica. Avevo disegnato un percorso articolato che facesse +sembrare che mi stessi dirigendo verso il New Jersey, mentre sarei invece + tornato indietro di nascosto per andare in aeroporto. Non volevo arrivarci +direttamente perché temevo di essere seguito e pensavo in quel modo di +depistare Shannon. Quando uscii dalla torre mi resi conto che tutta la neve +dei giorni prima si era sciolta completamente. Aveva lasciato tutto pulito, +nitido, e l’aria era profumata e tiepida. Quanto inutile sole si stava +spargendo allora sulle nostre teste? Già rimpiangevo il senso del freddo +che mi permette di abbracciare senza scuse. Stavo entrando nel limbo dei +desideri: quella terra di nessuno dove non si sa cosa manca di più. Spesso +il vento notturno della memoria, quando sento arrivare la primavera, mi +riporta il desiderio di mandarini e di candele dalla luce profumata. Sento +scricchiolare le scarpe sull’ultima neve e aspetto qualcuno sotto le coperte +con me. Mi chiedo se si possa davvero desiderare la primavera o se non sia +meglio rinunciare a quell’inganno ciclico che per forza rinnova colori e +dolori. Poi la luce mi convince e anche le piante ci mettono del loro per +sbrinarmi; ma ci vuole un po’. Perso in questa doppia nostalgia non so più +dove sta il su e il giù dell’anima e fluttuo come fluttua un astronauta già +distante dalla Terra ma non ancora in vista del nuovo pianeta. Devo +attendere che una nuova forza di gravità mi riorienti ma sono ben +consapevole che per riconoscere di amare occorre mettere una distanza tra +noi e chi si ama e che la nostalgia, sintomo inequivocabile dell’amore, non +può essere evitata. +Camminavo nell’aria fresca della mattina verso Times Square: volevo +godermi ancora un po’ Manhattan. Un temporale sopra il New Jersey +aveva firmato il cielo con un arcobaleno. Ripetevo che me la sarei cavata. +Dieci ore dopo un funerale si riesce ancora a ricordarsi del sapore di birra +fresca. Dieci ore dopo un funerale i morti son solo morti e la prima risata +paga il riscatto di quella morte, fino alla prossima. Dieci ore dopo il +funerale di mio padre la cosa che più mi aveva impressionato era stato +riconoscere la forma delle sue mani nelle mie. Ma era tutta una questione +di ore: dieci ore dopo qualcosa, si può sempre iniziare qualcos’altro di +nuovo. +Anche ora, che tutto è finito e vi sto raccontando queste vicende, +quando mi viene incontro l’immagine tristissima della mattina in cui +passai l’ultimo istante nella città, quando ripenso alla mattina in cui lasciai +così tante cose a me care, scivola ancora giù dai miei occhi una lacrima. +Salii sul traghetto per Staten Island, lo stesso di quella notte matematica + sulla terrazza dove per me cambiò tutto. Mi sorpresi ad accarezzare il +traghetto: anche le cose – lo capii allora – possono piangere e ciò che +muore ci tocca il cuore. Mi parve quasi che uno dei marinai, intento a +sciogliere una gomena, mi sorridesse, riconoscendomi da quella notte +quando fui salvato. Lo salutai come fosse un mio amico, una parte di me. +Io sono i miei addii. + Capitolo nono +Maggio, ovvero quando finalmente si ritorna dove si era partiti, si decifra un’iscrizione che ora +appare ovvia e ci si accorge di cosa valga veramente la pena. +[9.1] “È bello riessere,” dissi a voce alta mettendo piede sul molo di Calvi. +Potevo perfino permettermi il lusso di un verbo che non poteva esistere. +Senza indugi, con la fretta di chi sa cosa vuole, mi feci portare in macchina +fino alla base della strada che s’inerpicava verso il Cinto. Avevo ignorato +tutto il resto: come se Clara Maria non fosse lì – e forse non era lì – come +se l’autunno scorso fosse appartenuto a qualcun altro, come se Calenzana +e il luogo dove avevo vissuto momenti così belli e intensi fosse una +leggenda. Ora volevo risolvere l’enigma, volevo vincere la mia battaglia +con quella lingua e tornare con un vero trofeo. Tutto era cambiato dalla +prima volta che vidi l’arco: ora stava di fronte a me. Ero a Pietramala. +Com’era diversa l’aria: un profumo di liquirizia raccolto dal vento tiepido +che pettinava la campagna era salito fin lassù. Maggio in Corsica dovrebbe +essere vietato agli esseri umani, almeno se si vuole risparmiare loro la +nostalgia per un paradiso naturale perfetto. La salita al borgo di +Pietramala non mi era sembrata nemmeno lo stesso percorso: questa volta, +il cunicolo di alberi offriva un filtro generoso contro un sole impertinente +e in cielo la sola cosa scura era uno stormo di uccelli che sostavano per la +migrazione; rondini per lo più. Ero pur sempre ospite di un’isola in mezzo +al Mediterraneo. Non avevo fatto tappa a Calenzana; proprio per evitare di +distrarmi – non so usare un verbo più compassionevole rispetto a quello +che mi stava crescendo nella memoria di lei – avevo alloggiato la notte +prima nella casa del parroco di Montemaggiore, padre Jorge Potock, che +avevo avuto occasione di conoscere, anche se superficialmente, durante +una breve camminata nell’autunno passato; taciturno quanto basta per +tollerare che pensassi in silenzio. Ero partito quando il sole si poteva solo +intuire; avevo con me veramente l’essenziale: pensavo infatti di fermarmi +una sola notte, il tempo di esplorare l’arco e verificare se non c’erano altre + scritte. Non fu l’acqua, questa volta, ma il silenzio, ad accompagnarmi nel +percorso. La testa concentrata sul modo in cui avrei sperato, tentato, +provato a decifrare l’anagramma. +Uscendo dal paese, in un angolo tra due case, appena prima della curva +del cimitero, fui attratto da un fruscio; mi fermai, non tanto impaurito, +quanto incuriosito. Vidi allora una scena che ebbe il potere per un istante +di distogliermi dall’arco e da me: una cagnolina, dal pelo chiaro, stava +partorendo tra un mucchio di stracci preparati da tempo. I primi tre +cuccioli erano già usciti e iniziavano a guaire timidamente, non per il +dolore, ma – così almeno mi pareva di capire – per la gioia di sentirsi vivi. +Un altro sgusciò fuori dal suo ventre, mentre un tremito scosse il corpo +della cagnolina. Coi denti, bianchi, bianchissimi, tranciò il cordone +ombelicale e prese a leccarli, attenta a non schiacciarne nemmeno uno. Mi +resi conto che non avevo mai assistito a una nascita e ne fui così colpito +perché non sapevo cosa chiedere, come interpretare ciò che avevo visto: +dovevo solo guardare. Avrei anche voluto fare qualcosa ma non c’era +niente che potessi fare. La cagnolina si accorse della mia presenza: mi +guardò per un istante, poi si girò e continuò leccare i suoi quattro cuccioli. +Non posso negare che quell’evento fu una sfida per me abituato a +interpretare sempre qualcosa come segno di altro e mi sentii finalmente +forte e libero a sufficienza per riuscire a prendere quello che vedevo per +quello che era. +Di fronte a me, dunque, l’arco. Appoggiai per terra lo zaino. Stetti +qualche istante in piedi, protetto dall’ombra dei platani imponenti a +osservare la sua forma elegante e insolita, poi iniziai a lavorare. Non c’era +tempo da perdere. Controllai la trascrizione dell’anagramma e vidi che +coincideva con quella che avevo già preso la prima volta che lo vidi: +ABCCCDDEEEEEEFGGIIIIIIIIILLMMMMNNNNNOOPRRSSSTTTTTTUUUUUUUUX +Anche la data di costruzione che stava alla base dell’arco l’avevo riportata +in modo corretto: 1721-1723. Decifrare un anagramma di quel tipo era +impresa praticamente impossibile; lo sapeva bene chi l’aveva utilizzato, +come Galilei o Hooke, per proteggere le loro scoperte. Avevo proprio +appreso dell’esistenza di questi anagrammi dall’esempio di Hooke tratto +dall’appendice al suo Description of Helioscope. Me ne parlò per caso un + amico ingegnere, uno di quelli che scelgono un mestiere solo perché si +deve, perché avrebbe potuto fare di tutto e contemporaneamente, durante +una cena all’inaugurazione della sua tenuta sperimentale di uve pregiate, +la splendida Th omas Fisher di Toronto. Ricordo in modo vivido la +meraviglia che provai nel momento in cui mi diede la soluzione: “Ut +pendet continuum flexile, sic stabit contiguum rigidum inversum”, con la +forma con la quale pende una fune flessibile e continua, così un oggetto +rigido con la stessa forma ma alla rovescia starà in piedi. Hooke aveva +usato una forza naturale (la gravità) per costruire un oggetto (l’arco) che +doveva vincerla. Un’intuizione che ha pochi eguali: la forma di una catena +che pende verso il basso – che approssima a certe condizioni una parabola, +come scrisse Galilei – può essere utilizzata, rovesciandola, per disegnare la +forma di un arco perfetto dove il peso si scarica in modo uniforme. Al di là +dell’interesse architettonico, mi aveva colpito il fatto che il rovescio di una +forma naturale potesse essere usato come istruzione per costruire qualcosa +che non c’era prima in natura ma che fosse ciononostante perfettamente +equilibrato. Per questa proprietà, la catenaria è a tutti gli effetti una specie +di equilibrio valido sia al positivo che al negativo, come un elettrone e il +suo gemello carico positivamente: quante saranno state in natura le +strutture dotate di questa doppia valenza? Hooke doveva averlo capito, lui +che sapeva e aveva scoperto una quantità di cose che avrebbero fatto +impallidire chiunque. Ebbe solo, per così dire, la disgrazia di porsi in +contrasto con il più grande di tutti, Newton, e finì per passare alla storia +come un Salieri della fisica (sempre se vogliamo dar retta a quel pettegolo +di Puškin). Paranoici com’erano a quei tempi, custodivano le loro scoperte +in modo da rendere decisiva la presenza dello scopritore per la +decifrazione. Sventuratissima la comunità scientifica che ha bisogno di +eroi. +Ma cosa avrà voluto dire l’anagramma che avevo di fronte? Provai, +quasi sovrappensiero, per prendere ispirazione, a calcolare il numero delle +“u” nella frase di Hooke e confrontarlo con quelle del mio anagramma. +Coincidevano. Continuai con le “t”: mi interessava vedere se c’erano +sovrapposizioni significative tra i due anagrammi; sarebbe potuto tornare +utile sottrarre parole intere già note, magari congiunzioni o altro, sempre +ammettendo che l’iscrizione sul mio arco fosse in latino, cosa che poteva +non essere ma che probabilmente era, vista la data. Anche le “t” + coincidevano. Impallidii. In fretta e furia controllai tutte le altre: sull’arco, +senza alcuna possibilità di errore, era riportata proprio la prima legge di +Hooke. L’arco stesso – ora era chiaro, come sempre è chiaro dopo che si +scopre qualcosa – era costruito come una catenaria. Il mio umore, come un +pendolo impazzito, oscillava dalla soddisfazione (per aver già risolto tutto) +alla disperazione (per non aver trovato la chiave per decifrare la lingua di +Pietramala). Era dunque evidente che l’anagramma si riferiva alla +costruzione architettonica e non alla lingua. Non avevo proprio più alcuna +risorsa per ricavare il numero primo che mi permettesse di decifrarne la +struttura e dunque di capire se la mia ipotesi era corretta; era tutto finito. +La lingua di Pietramala era perduta per sempre. +Mi sdraiai all’ombra, sull’erba compatta e soffice sotto un ciuffo di +piante, la testa appoggiata sullo zaino, le mani incrociate sotto la testa, e +guardai l’arco, Pietramala, le schegge di azzurro fra i platani, gli uccelli che +si divertivano in aria. Se fossi stato un fumatore, in quel momento avrei +avuto bisogno di una sigaretta. Ero svuotato, nemmeno più arrabbiato. +Non c’era più nulla da fare. All’epoca della costruzione dell’arco era +evidente che la legge di Hooke era talmente importante da esser ritenuta +degna di venir riportata sull’arco fatto a sua immagine come motto +sempiterno e chissà mai che Hooke non fosse anch’egli membro del +Giardino degli Equivalenti. “Pazienza,” mi ripetei ad alta voce, “pazienza.” +La pazienza non va mai invocata; è come l’oblio, il vero custode del +cervello. Indomabile per giunta: se chiedi di dimenticare qualcosa ne +rinforzi la memoria e rischi di renderla indelebile. Allo stesso modo per la +pazienza. E poi non ne ho mai avuta, io, di pazienza. Forse, se fossi vissuto +anch’io negli anni venti del Settecento, ne avrei invece avuta; forse ne +avrebbe avuta anche Hooke, e non si sarebbe consumato a contrastare +Newton. Mi si fermò il cuore. Hooke era morto, già morto quando venne +costruito l’arco: ricordavo perfettamente che il mio amico ingegnere mi +aveva detto che quell’anagramma era stato rivelato dagli esecutori +testamentari di Hooke nel 1705. Perché mai dunque porre l’iscrizione in +forma anagrammata e non sciolta se Hooke era già morto? Mi alzai di +scatto: o la data era sbagliata oppure la data voleva dire altro. “Forse,” mi si +illuminò a tal punto la mente che non mi accorsi di essere scalzo correndo +di nuovo verso l’arco e saltellai tra i sassi in un modo buffo, “forse 1721- +1723 non è una data!” Presi un quaderno, una matita, il mio cellulare e + provai a dividere 1721 per 3, per 5 – se solo mi fossi ricordato i criteri +generali avrei risparmiato tempo – per 7, per 11. Non era divisibile per +nessuno dei numeri primi più piccoli. Continuai senza sosta. Arrivai +finalmente alla conclusione – confesso che ero talmente insicuro che la +chiamai “speranza”, come se si potesse sperare qualcosa riguardo ai +numeri – che 1721 fosse primo. Ma se avevo ragione, se quello era un +numero primo e probabilmente la chiave per la grammatica di Pietramala +– perché ce n’era un altro vicino? Ripartii provando a dividere 1723: tasto +su tasto, numero su numero, riporto dopo riporto, quel numero resisteva, +inscalfibile come un diamante, alla divisione per qualsiasi altro numero +intero minore. Il tempo in istanti come quelli diventa un’opinione: non +sapevo quante ore avevo passato a contare, non avevo né bevuto né +pisciato, ero intrappolato in un pallottoliere. Riscrissi i due numeri sul +foglio: 1721, 1723; dovevano essere due primi gemelli. Come avevo fatto a +non accorgermene? Di coppie di numeri gemelli – lo sanno anche le capre +che i numeri primi sono i meno soli tra i numeri – sembra certo che ce ne +siano infinite, destinati ad avere la stessa atomica natura ma a non toccarsi +mai separati da un guastafeste di numero spaccabilissimo, divisible per +due. Avevo trovato la chiave della lingua di Pietramala. Ora non era più +solo una congettura, ora l’orrore di quel borgo violentato dal male +dell’ideologia e il tentativo di rinnovare un esperimento crudele sugli +esseri umani poteva essere provato e quindi finalmente smontato. +Non feci in tempo a tornare dove avevo lasciato lo zaino per +raccogliere le cose e ripartire che qualcosa di duro, improvviso, dietro, +proprio sulla mia nuca, mi colpì fortissimo. Fu come essere sbattuto contro +un muro di granito da uno schiaffo di Polifemo: senza fiato, infinite +scintille mi rubarono la vista, le orecchie si spensero, gli occhi le +seguirono, le ginocchia cedettero e caddi. +Non so da quanto fossi lì. Non vedevo bene. Era buio. Il volto per terra, +sentivo il sapore di sangue in bocca. Mi avevano legato le mani dietro alla +schiena. Tossii e quel colpo mi fece pulsare la testa così forte che sembrò +premere contro gli occhi tanto da farmeli sputare fuori dalle orbite. Non +aveva senso che urlassi, sapevo che nessuno mi avrebbe sentito. Mi +sembrava che la terra spingesse in su sotto i miei piedi. Che cos’è questo +malsano odore, questo vapore? + “Wie lernt man sterben,” disse con voce ferma, “Come si impara a +morire.” +Fosse stato Satana in persona, mi sarei sentito meno minacciato: +Shannon era lì, di fronte a me. Quella sua voce, anche se deformata in +modo strano, stridula e bassa al contempo, sul confine tra i due sessi, non +potevo confonderla. Mi sferzò un calcio nella pancia e il sobbalzo mi fece +mettere seduto; con un altro calcio mi ritrovai appoggiato a una colonna. +Ero nella sacrestia della chiesa di Pietramala: riconoscevo l’odore umido +del legno e dell’incenso. Aveva acceso delle candele. Non so se fosse buio +fuori o se lui avesse oscurato le finestre ma quello che vidi, non appena le +lacrime che scendevano copiose per il dolore detersero i miei occhi sporchi +di terra, era un’immagine che avresti detto la madre di tutti i deliri. Il +seggio sul quale sedeva, simile a un trono brunito, risplendeva sopra un +blocco di marmo; alle sue spalle uno specchio sorretto da colonne lavorate +con grappoli d’uva, fra i quali un cupido dorato spiava mentre un altro +nascondeva gli occhi sotto l’ala, raddoppiava le fiamme ai candelabri a +sette bracci riflettendo la luce su un tavolo, mentre lo scintillio dei gioielli +del quale si era agghindato, versato a profusione da astucci di raso, si +levava a incontrarla; i suoi profumi strani e sintetici – unguenti, polveri o +liquidi – stavano in agguato in fialette d’avorio e vetro colorato turbando, +confondendo e annegando i sensi; spinti dall’aria che rinfrescava dalla +finestra, ascendevano ingrassando le fiamme lunghe della candela che +soffiavano il loro fumo verso l’alto, animando i motivi del soffitto della +sacrestia. Tutti i miei sensi tracimarono oltre la soglia della coscienza, +annichiliti da una vampata di horror saturi. Mi sputò addosso; in faccia mi +centrò, sulle labbra. Il sapore della sua saliva nella mia bocca, che non +potevo pulire con le mani legate, mi provocò un conato indomabile. Rise +ancora più forte: “Sopporta, cuore, una cosa più cane hai già sopportato!” +disse scimmiottando la mia voce e agitando il mignolo della sua mano +destra vicino alla sinistra, nel dubbio che non avessi capito che l’animale +sacrificale di quel rito osceno ero io. +“L’ebbrezza di aver trovato la soluzione la devi pagare, mio caro,” +sottolineò con una voce improvvisamente tornata composta e profonda. +“Credi che possa permettere che si scopra che la mia teoria è +completamente e irrimediabilmente sbagliata? Credi che sia disposto a +farmi annientare da te? Ho dedicato tutta la vita a dimostrare che la mente + umana può apprendere qualsiasi lingua purché sia coerente coi principi di +analogia e anomalia e ora vieni tu, frugando con le tue undici luride dita +logiche, a resuscitare il caso di Pietramala? La realtà è brutta e, in fondo, +inutile: la realtà è opera del Diavolo,” prese un tono piagnucoloso, “la mia +teoria è molto, molto più bella della realtà e non è giusto che tu, +bastardello deforme, disilluda le anime docili in ascolto. Se ti lasciassi vivo, +correresti a gridare ai quattro venti che la lingua di Pietramala è una +lingua infettiva, ma lo è per il meccanismo opposto a quello per il quale +sono infettive le malattie: è una lingua che non attecchisce,” rise di un riso +isterico, “è una lingua che nasce già marcia e nera, sterile come un utero +secco. Ma questa consapevolezza deve morire con te perché tu non puoi +capire, tu non vedi l’insieme, la missione, tu sei in grado di percepire solo +il particolare. E quello che percepisci è distorto dalla tua superbia e dalla +tua stupidità. La tua vana presunzione di capire tutto non può che derivare +dal fatto che non hai mai capito niente, perché se tu avessi sperimentato +almeno una volta la comprensione perfetta di una sola cosa e avessi +veramente gustato come è fatto il sapere,” schioccò la lingua, oscenamente +dopo aver ripetuto gustato, “sapresti come dell’infinità delle altre cose +comunque non ne capisci nessuna. E non ti dico – ammira, ti prego, la mia +umiltà – che io posso conoscere l’intera estensione delle cose +comprensibili, perché sono infinite e anche se ne capissi mille rispetto +all’infinità sarebbe come zero; ti dico però che io sono in grado di +conoscere poche cose ma in profondità, cioè perfettamente, e in questo le +capisco così perfettamente che ne ho l’assoluta certezza, quanto la natura +capisce di se stessa. Io capisco come capisce Dio.” E fece silenzio: non so se +per scelta o per sfinimento. +Non potevo rispondere; mi aveva ficcato in bocca uno straccio e lo +teneva compresso con una cintura che mi aveva stretto intorno alla faccia. +Ma non c’era bisogno di zittirmi con la forza. Ero completamente +frastornato perché nel parlare mischiava vero e falso in un modo tale che +era difficile anche per me afferrare il bandolo e cercare di pulire dentro di +me quelle idee e reagire. Ripartì, con una nuova invettiva: “Solo gli stupidi +possono pensare che il linguaggio sia legato alla nostra carne. Si arriverà a +dire che se i circuiti che nel nostro cervello sovrintendono alle parole +fossero collocati in un sistema diverso, in qualche ipotetico” rise “forse +alieno” rise “forse impossibile” rise ancora “organismo biologico, allora + quei circuiti servirebbero come istruzioni per svolgere altre attività, +magari per muoversi,” imitò un burattino, “come se ricablando i nervi nel +nostro cervello,” continuò quasi strozzandosi dal ridere, “potessimo sentire +il lampo e vedere il tuono.” Prese fiato. “O forse, Dio ce ne scampi, si +arriverà addirittura a dire che il linguaggio umano, struttura unica +nell’universo, sia nato da altre funzioni, magari dalla capacità di fare dei +nodi o di compiere sequenze di azioni.” Cambiò l’imitazione; ora era uno +scimmione che pelava una banana. Rise ancor più sguaiatamente, +singhiozzando: “Oppure,” non riusciva a trattenersi e completare la frase, +“oppure,” rise quasi a soffocare e sbottò finalmente sputando tutte quante +le parole a raffica senza respirare, “oppure che tutte le parole hanno +origine dall’imitazione dei gesti o, peggio, dei suoni collegati alle azioni.” +Poi cambiò improvvisamente espressione; si fece serio come un pagliaccio +triste e sembrò citare qualcuno; con il timbro aulico di chi monta in +cattedra, si sistemò i capelli e così parlò: “Si prenda il significato del +termine greco che si dice cacchè. Essendo proprio questo il suono +esplosivo prodotto dall’amalgama di gas e materia fecale nel momento +della loro vicendevole sortita dall’orifizio ad hoc, si è chiamato +giustappunto tale amalgama cacchè, per forza onomatopeica,” emise una +pernacchia lunghissima e sonorissima accompagnata con il gesto di chi +allarga i gomiti per imitare l’azione divaricatrice di quando si produce il +suddetto scoppio. Soddisfatto, riprese: “Non è dunque degno di sorpresa +che si sia chiamato in generale cacchè il sentimento di ripugnanza e di +schifo. Anzi, per estensione, tutte le cose fastidiose sono state nominate +cacchè e, astraendone la quintessenza, si è usato questo termine persino +per designare il male stesso e la sua banalità. E dunque concludiamo,” alzò +i toni, come quando aveva parlato a Marble Head, come se ci fosse della +gente cui darla da intendere, “che il nome del male è” – pausa solenne – +“la merda.” Si applaudì da solo, a lungo. +Mi fissò lungamente, come fissano gli ubriachi, immobile, in un modo +che non sai mai se sbotterà scomposto o confabulerà piagnucoloso, e dopo +un soffertissimo e plateale sospiro mi disse di scatto sibilando e +avvicinando ancora il suo volto puzzolente al mio: “Lo conosco quello +sguardo lì. È lo sguardo di chi sa che tra un minuto morirà: quel minuto lo +prepari per tutta la vita e niente serve se non decidere se affidarsi a Dio o +meno.” A quelle parole, io, che non avevo mai implorato la luce perpetua + per nessuno e che credevo che per me stesso sarebbe stata meglio semmai +la penombra per cancellare la vista delle cicatrici lasciate dalla vita, io, che +non avevo nemmeno mai immaginato per me un riposo eterno e che +credevo che mi sarebbe bastata qualche rara vacanza ritagliata all’ultimo +momento, io, che per quanti sforzi facessi non potevo non capire una +frase, nemmeno volendolo, io allora implorai tutto, chiamai a raccolta ogni +preghiera per non dover morire lì da solo, per non dover cioè assistere e +assecondare la sovrana coscienza dell’impossibilità di dire “io”. E in quel +momento capii che la cosa più sorprendente della coscienza era che avesse +un nome. Ma non avevo scelta: non mi restava che stare a sentire in +anticipo il racconto della mia morte. Spense le candele con uno spruzzo di +fiato e saliva e uscì barcollando dalla stanza lasciandomi lì, legato, mentre +attendevo qualcosa che fosse meno doloroso dell’attesa stessa. +[9.2] Confesso di non essermi mai abituato alla vita: a me, ai funerali, +fanno impressione i vivi; i morti sono come le cose e le cose non +stupiscono. Soprattutto quando parlano e ti guardano, invece, i vivi sì che +fanno impressione: e dire che siamo fatti per più di metà d’acqua e che +l’acqua non fa impressione. Io ero ancora in grado di farmi impressione, +dunque ero ancora vivo. Ora ero lì, su un pavimento di pietra fredda in +una stanza buia e umida. Sentivo il calore del mio sangue colare dalla testa +sulle labbra e lo leccavo, come quando da bambino mi capitava di cadere +per terra e farmi male aspettando aiuto. I polsi, legati stretti dietro alla +schiena davano dolori lancinanti. La testa era appoggiata per terra e con +l’occhio che stava più vicino al pavimento riuscivo a scorgere un filo di +luce che proveniva dalla fessura di una porta lontana. Shannon doveva +avermi tramortito di pugni e trascinato lì. Anche i piedi quel bastardo mi +aveva legato. Quanto poco serve la fantasia se non puoi muoverti. Nessun +pensiero mi poteva dare sollievo in quello stato, ma la sofferenza maggiore +non erano per me le fitte e l’immobilità: stavo piangendo – mi dissi – +perché proprio allora avevo capito che dovevo morire davvero. Feci +silenzio dentro me. Ebbi il coraggio di confessarmi che non era davvero la +morte a farmi paura. Piangevo per altro: piangevo perché mi spiaceva non +poter condividere quello che avevo scoperto. Buttare via una soluzione +senza che nessuno la conosca è un delitto. Forse mi spiaceva anche + immaginare che la vita degli altri sarebbe andata avanti senza di me. Che +peccato morire, – mi dissi. – Tutti i piatti che ho assaggiato, le labbra che +ho baciato, le acque nelle quali mi sono tuffato, i libri che ho letto, dove +andranno tutti? Perché assaggiati da altri, baciate da altri, tuffate da altri, +letti da altri sono altre cose. Forse, del morire mi fa paura la nostalgia che +avrei provato per il primo sorso di birra, per uno sciopero improvviso in +una mattina di giugno, per un negozio dove comprare un maglione nuovo +al primo freddo. Piangevo e il sangue che mi sgorgava dalla fronte ora si +mischiava con le lacrime dandomi la sensazione di un sapore insolito, +nemmeno troppo cattivo a dire il vero. Immaginavo già un uovo in camicia +condito con quella rara miscela di umori, e il pianto divenne sorriso. Che +coglione: ero disposto a ridere anche alla fine. Speravo fosse il segno di +non essere arrivato alla fine della mia vita ma non ne avevo motivo. Sarei +dunque morto: ma in quanto tempo esattamente? Quanti respiri mi +rimanevano ancora? I respiri: quando pensi di averne pochi, diventano +importanti e anche uno fa la differenza. Mi ricordavo quell’unica volta che +vidi morire una persona: era la mamma del mio più caro amico. Lui e io +stavamo a contare quanti respiri faceva al minuto. Prima venti, poi dieci, +poi cinque. Poi ci fregò: ne fece uno lungo, forse un sospiro, e poi basta. +Anche noi trattenemmo il respiro insieme a lei. A lungo. In silenzio. +Finché noi, come quando si torna a galla dopo un tuffo più profondo del +previsto e ci si riempie avidamente i polmoni di aria, continuammo a +vivere; la sua mamma, invece, rimase sul fondo e in qualche modo ci +sembrò più naturale il suo stato: finalmente, la sua fatica era finita. Provai +ancora una volta a dimenarmi: il coraggio di morire, uno se non ce l’ha, +mica se lo può dare. Ma se mi rimanevano pochi respiri, cosa fare da quel +momento fino a quello della mia morte? La “mia morte”: è questa +un’espressione che per nessuno può avere significato; è una denotazione +impossibile, uno stato che non potremmo mai indicare, un sintagma che si +accorda solo con verbi coniugati al futuro in una consecutio pietosa. Nel +momento in cui ci accorgiamo di capirla siamo già spaventati e lontani, +attaccati a qualsiasi cosa smentisca di essere noi un giorno i protagonisti +di un funerale. E poi, era quasi estate e io non volevo morire d’estate, sotto +un sole impreparato, quando la sabbia scotta i cervelli: avrei preferito +morire in una giornata d’autunno, dove a stonare sarebbe stato un +ombrellone ancora conficcato in riva al mare, freddo. Parlavo nella mente + e mi stupii di pensare anche al suono delle parole che usavo. Già: perché +quando le parole rimangono dentro noi le pensiamo anche con il loro +suono? A cosa ci serve, visto che non dobbiamo comunicare niente a +nessuno? È concepibile un mondo nel quale si parli una lingua in cui le +parole hanno un suono ma che possa essere usata solo per parlare a se +stessi nella mente? Sarebbe la lingua perfetta per chi sta morendo. Forse +come coi denti, nasciamo con grammatiche da latte, poi parliamo lingue +mature e poi la lingua senza suoni, una lingua da muti; ma il privilegio +delle due vite che hanno i denti non è dato a nient’altro che ci appartenga: +non esistono nemmeno gli occhi da latte, e quanto ce ne sarebbe bisogno +tutti lo sappiamo. Il cervello forse spreca informazioni oppure non può +fare altro? O forse le parole non esistono senza suoni, forse le parole sono +dall’origine suoni impastati con istruzioni per il cervello. Ma allora le rime, +per i sordi, sono fatte di luce? Iniziavo a tremare; la febbre saliva e mi +pareva di parlare una lingua non mia. Che peccato morire così giovane, +che peccato morire così, che peccato morire, che peccato; avevo detto tutto +quello che contava, ridotto all’essenziale. Mi sentivo come una falena: +sapevo che sarei arso vivo ma non riuscivo ugualmente a non danzare +intorno alla luce. Mi chiesi se mi sarei potuto risparmiare quelle sevizie +suicidandomi: ma con cosa? Non ci si può suicidare decidendo di smettere +di respirare. Il nostro corpo è immune al desiderio di morte, a differenza +della nostra mente; solo la volontà, infatti, può concepirlo ma se decide di +metterlo in atto va contro al corpo che è più forte. Né si possono separare i +contendenti perché nel suicidio, assalito e assalitore sono la stessa +persona. Mi dovevo almeno preparare una frase da dirgli, una frase che gli +si conficcasse per sempre nel cervello, una frase che lo accompagnasse +dalla mattina alla sera, insonne, sorda come un vecchio rimorso o un vizio +assurdo. Non sapevo che frase gli avrei detto ma sapevo che gli avrei dato +del lei, mi faceva schifo la promiscuità del tu, anche se solo grammaticale. +E poi in una lingua ideale non ci si dovrebbe poter dare solo del tu o del +lei: ci dovrebbero essere tutti gli infiniti gradi di approssimazione da un +polo all’altro dell’identità in uno spazio continuo. Tu, quasi tu, poco meno +di quasi tu, tu meno un epsilon e così via, fino a tornare alla pura e +inconcepibile unicità di io e permettere con questo dei soliloqui puri dove +il tu sparisce e con esso tutti, incluso Dio. E poi si renderebbero libere +nuove coordinate per categorie ontologiche inesplorate. Il tu e l’io, ad + esempio, convergerebbero inesorabili verso un elemento di separazione, +unico: un pronome diverso da tutti i gradi del tu e da tutti i gradi dell’io, +anzi individuato solo da queste due classi; un punto della grammatica +perfettamente identificato da tu e io ma non occupabile né da me né da te. +Mi sembrava che tutto questo avesse a che fare, in qualche modo, con +l’amore. +Il dolore sembrava meno forte: mi stavo spegnendo. Cercai di resistere, +anche se non ne avevo alcun motivo. Quale frase avrei potuto dirgli? Mi +avesse lasciato almeno scrivere avrei mandato una lettera a chi amavo. Ma +per dire cosa? Forse un simbolo; ma se si volesse salvare una frase tra tutte +quelle mai pronunciate da un essere umano quale scegliere? Arrivai senza +esitazione alla conclusione sorprendente che basterebbe salvarne una +qualsiasi perché in qualsiasi frase sta la capacità creativa, unica e comune +a tutte le persone di combinare le parole e variandone l’ordine costruire +infiniti nuovi significati; come in un’addizione stanno tutte le addizioni +possibili perché – mi ripetei ancora come quel giorno – ogni numero +esiste se esistono tutti gli altri e così è vero per le parole e ancor più per le +frasi. +In quel preciso istante si spalancò la porta. Entrò Shannon: indossava +un mantello sontuoso, regale, rosso, grande e grottesco, ornato con una +rete d’oro dalla quale pendevano ragni ripugnanti. Prese uno sgabello e si +sedette di fronte a me, a gambe larghe, in una posa oscena, dopo avermi +aiutato a sedermi meglio. Puzzava di rancido, un misto tra un animale +putrefatto e alcol: il suo odore non mi era mai piaciuto ma solo allora ebbi +il coraggio di ammetterlo. Avrei dovuto fidarmi del mio olfatto fin dal +nostro primo incontro: questo senso primordiale, che arriva senza +scorciatoie al cervello, raramente fallisce. Accese la luce fioca di una +lampada elettrica: eravamo nel cesso della chiesa. “Sentirai ora, Elia +carissimo, l’ultimo resoconto dell’emissario. Il Giardino degli Equivalenti +incaricò infatti da subito qualcuno di verificare lo stato di apprendimento +della lingua di Pietramala. È un privilegio che abbiamo solo noi due; non +ho dubbi che tu apprezzerai questo mio gesto di generosità. Il resoconto +finale, che ha la forma di una lettera, fu dettato in fretta e furia +dall’emissario nel viaggio di ritorno a un oste di Calvi, ignorante ma non +del tutto. Il pover’uomo, l’emissario intendo, non sopravvisse allo +spavento e, subito dopo aver lasciato testimonianza della sua ispezione, si + ammalò in testa,” si picchiettò la fronte con l’indice inforcato di anelli +vistosi, “e impazzì. Ascolta ora l’apocalisse come a noi viene delle sue +povere parole, trascritta da generazioni di mani pietose.” +Excellentissime Signorie, +a cumpimento de lo mio viagghio in Pietramala, a voialtri, io, servo +humilissimo, vengo a riportare tutte cose che ebbi viste et udite [...] +L’incarico che non sapevo a chi altri avreste potuto affidare ebbe al +fine ben sicuro lo cumpimento ma non reco a voialtre Signorie +buone nuove et l’experimento de l’apprendimento de la lingua di +Pietramala est una maxima disgratia et maximum defectum [...] +l’inpherno est invero vuoto et tutti li diavoli albergano in Pietramala +[...] et il Capo del Consiglio delle Famiglie me accolse tanta cum +acrimonia che volevo da quel villagghio subitamente ripartire [...] +Rimembro la riunione del Consiglio quando lo Capo intentionò a me +riferire la vicenda [...] vi erano ratavula et vespertili et pipistrelli con +volti di bambini in luce violetta qui squittivano et battevano l’ali +squamose pendenti, grandi et grottesche et qui strisciavano in fila a +capo riverso lungo un muro scurito dal fumo mentre da la torre +squillante campane nuove ricordabano l’ora de la pregghiera [...] Illa +erat affatto una lingua obscura, darka et venenata imperocché non +radicabat neque resistebat in le bocche di ningun infante. Et quivi a +voialtri describo li tre rimedi experiti et tentati da lo capo del +Consiglio di Pietramala per ché li infanti happrendessero illa lingua. +In primo tempore, due infanti neonati fuerunt rapiti et captivati, figli +di homini di qualsivoglia rango, et affidati ad huomo sapientissimo. +Et al codesto huomo furono date istruzioni: primum, che niuno +pronunciasse alguna sola parola in lingua aliena da la lingua di +Pietramala davanti a li due infanti; secundum, che essi infanti avìanu +a stare soli in dentro una casupula abbandunata; tertium, per +intervalla lo huomo dovea conducere da li infanti de le capre, satiarli +cun il latte et disbrigare altrae incombentiae. Il Capo del Consiglio +istu ordine ordinavit cun l’intentione de adscoltare quale palabra li +infanti pronuntiata havrebbero per la prima, quando dismettevano di +emittere vagiti di voto sensu. [...] et postea affidabit anco li medesmi +infanti a mulieres cui resecavit la lingua, molto temendo ne esse non + parlassero la lingua di Pietramala inter loro et per isto facto li infanti +non la apprendessero. [...] Nullo risultato da codesto esperimento se +ne ebbe et illa lingua a li infanti non s’apprese. +In secundo tempore, si peritarono financo ad experire con alteri +infanti si havessero ne lo sancto animo loro spontanea mente alguna +lingua. Et experirono quale modo di exprimere li proprii pensieri +avessero li infanti qui erant cresciuti sine mai udir persona parlare. +Per lo quale scopo ordinavit a qualcheduna balia et nutricie che +dessero a li infanti a loro affidati da sugghiere lo latte de le +mammelle, che li lavassero e li pulissero, ma absolutissima mente +mai non li carezzassero, né parlassero a loro udita. Con lo quale +modo credebant de poter conoscere se quegl’infanti parlerebbero la +lingua ebraica, la greca o la latina, quella de’ lor genitori o la lingua +mirabilissima, subtilissima et leptotate di Pietramala. Ma era opera +vana, per lo que quegl’infanti tutti morivano, neque potrebbero elli +vivere senza le voci, li gesti, lo surriso, le carrezze de le balie et +nutrici loro; ond’est che habent nome di fascino de le nutrici ille +cantilene che la nutrici cantant cullando li sua infante; senza di che +lo infante mai potrebbe né quietare, né durmire. [...] Nullo risultato +da codesto esperimento se ne ebbe et illa lingua a li infanti non +s’apprese. +Et in tertio et ultimo tempore, una nutricie amorosissima sed invero +muta fuit tradotta cun due infanti indentro una cabanna fuori da le +mura, come in su una insula, ad verificanda qualis lingua originalis +et sine istrutione ulla li infanti riuscirebbero ad parlare, se illa lingua +di Pietramala o illa lingua de li Angioli. Et il Capo del Consiglio +riferìbit che ne manco con questo tertio metodo si havea successo +[...] Nullo risultato da codesto esperimento se ne ebbe et illa lingua a +li infanti non s’apprese. +Et il Capo del Consiglio in praesentia de li capi de le familie tutte a +me medesimo intimò de dare termine al ratto degli infanti da parte +di noi nomati per ciò li portatori di morte ché la lingua di Pietramala +era manifesta mente lingua obscura et venenata et del diabolo et non +potest per ista necessaria ragione facere apprensione su animule +candide de li infanti. [...] sed io quivi adfirmo che il diabolo – possa +mai leggere mai queste mie palabre, Christe me protege et vos + pentientiagite – non est colione et nummai havrebbe questa +inventione della lingua fatta [...] et a voialtri invoco lo perdono et +quivi anco adfirmo che quando venibit per noi altri lo jiuorno de lo +Jiudicio, non sarà a noi altri domandato cosa havremo letto, ma cosa +havremo fatto, né con quanta dottrina o elegantia havremo parlato +sed quanto in sanctitatte avremo vissuto [...] +Interruppe la lettura, prima di aver terminato il resoconto; forse +imbarazzato o forse anch’egli, ancora una volta, frastornato. Stette in +silenzio, aspettando un commento da me che non avevo quasi nemmeno la +forza di respirare, e poi disse: “Il Diavolo: quando non sanno con chi +prendersela, tirano fuori il Diavolo. Non sanno che lui non agisce +scopertamente. Quando da qualche fessura ti accorgi che il fumo di Satana +è entrato nel tempio di Dio lo riconosci perché lui non ti promette tutto. +Lui – che proprio in questo si tradisce sempre – ci fa al contrario tollerare +ogni arsura come un fastidio sopportabile cui siamo destinati +definitivamente. Ci toglie il desiderio di bere facendoci credere dissetati, il +freddo facendoci credere vestiti, la fame facendoci credere sazi, la povertà +facendoci sentire ricchi, il senso dell’ignoranza, facendoci credere sapienti. +Perché il Diavolo non ci promette tutto. Al contrario, il Diavolo soffia e +spegne a uno a uno tutti i desideri facendoci credere che ci basti qualcosa; +il Diavolo ci annulla la voglia di infinito e ci lascia contenti del buio. Ci +umilia radendo a zero la chioma dei nostri sogni per poi sputare sulle +nostre teste calve. Noi dobbiamo sentirci poveri per sentirci vivi. Il Diavolo +ci tenta con la tenerezza di un cucciolino ferito che guaisce in fondo al +pozzo, con il filo di voce di una madre morente che vuole cullare la sua +bambina. Il Diavolo ci offre problemi che possiamo risolvere; il Diavolo +elargisce soddisfazioni; lo fa per farci dimenticare che quello che vogliamo +veramente supera ogni misura. Ma come si fa a non credere nel Diavolo?” +Aveva ragione; Shannon aveva veramente ragione. Ero completamente +disorientato. Come potesse dire cose così sensate in mezzo a quel delirio di +falsità non potevo spiegarmelo. +Il delirio senza punteggiatura di Shannon mi sovrastava più che la +paura della morte perché mi dava la sensazione che il senso delle cose +fosse una speranza solo mia. Eppure ero ancora vivo. Come quegli +ubriachi che per provare agli altri di non esserlo mostrano di saper stare + ancora in equilibrio su una gamba sola, provai a me stesso di essere ancora +vivo perché ero in grado di dire che una lunga fila di lucertole attraversava +il deserto senza neppure fermarsi a sognare: una frase che non fosse +giustificata da niente di quello che capitava intorno a me, una frase creata +dal nulla, quella era la prova che non ero ancora una macchina. +“Parlo dunque sono,” balbettai tra i denti. “La vita è il linguaggio, anzi +vive sono le lingue. Le lingue sono organismi. L’inglese è vivo. Il francese +è vivo. L’italiano è vivo. Il tedesco è vivo. L’arabo è vivo. L’ungherese è +vivo. Il basco è vivo. Il turco è vivo. Il giapponese è vivo. Il cinese è vivo. +Tutte le lingue sono vive e usano come ospiti i cervelli di chi le parla per +riprodursi. L’ospite deve vivere meno a lungo di ciascuna lingua perché +non si accorga di chi comanda e non se ne liberi. E infatti ci vuole ben più +di una sola generazione perché una lingua muti; perché nessuno durante +la propria vita deve accorgersene. E tutte le lingue competono per avere +più ospiti; crescono e vogliono moltiplicarsi a scapito delle altre. E tutte le +lingue vogliono morte le altre lingue.” +Dal modo con il quale stavo ignorando la mia vita avevo capito che era +ormai davvero iniziata la mia agonia. Sperai che mi salvassero dei +cherubini. Sarebbero potuti venire lì da me con delle belle ali. E mi sembrò +di vederli: erano due. Le ali dei cherubini misuravano cinque cubiti +ciascuna; tutto l’insieme faceva dieci cubiti, dalla punta di un’ala alla +punta dell’altra. Il secondo cherubino era anche di dieci cubiti; tutti e due i +cherubini erano delle stesse dimensioni e della stessa forma. Vidi che i +cherubini avevano una forma di mano d’uomo sotto le ali. Tutto il corpo +dei cherubini, i loro dorsi, le loro mani, le loro ali, come pure le ruote, le +ruote di tutti e quattro, erano pieni d’occhi tutto attorno. Morivo, ormai: +che vantaggio c’era a essere coerente? +[9.3] Se tu sapessi che stai davvero vivendo le ultime ore della tua vita – +un fruscio – non le perderesti – un altro fruscio – a lamentarti: questo era +il mio pensiero che però fu interrotto ancora da quel fruscio che era nel +frattempo cresciuto e diventato riconoscibile: sembrava il rumore di +qualcuno che gratta ostinato contro qualcosa di legno come per farsi largo. +Ero ancora per terra, sempre al buio, sempre nel cesso della sacrestia. +Pensai che non sarei stato in grado di difendermi dai topi; quante volte, + nelle prigioni segrete hanno trovato galeotti con le orbite vuote e nettate +come tazze da colazione perché i topi, gli occhi, glieli avevano rosicchiati e +poi succhiati via del tutto; ricordo ancora il racconto di quel prigioniero +nella stanza 101. Chiusi allora stretti gli occhi, per paura che me li +mangiassero, facendo una strana smorfia, pensando che così i topi non li +avrebbero riconosciuti. Ci fu subito dopo lo schianto di un vetro, seguito +da quella voce: +“Fa’ piano!” +E poi quell’altra a ruota: “Certo; mica lo faccio apposta.” Quale angelo +benevolo aveva ascoltato le mie preghiere ancor prima che le avessi +formulate e per pietà di me aveva mandato loro due? Ariel e Calibano +erano lì: erano loro, li avevo riconosciuti subito dalla voce. +“Elia, siamo noi!” sussurrò Ariel, “siamo venuti a prenderti!” +Rimasi stupefatto come chi, colpito da un fulmine, vive e non è conscio +della sua stessa vita. +“Dove siete?” +“Ti vediamo dalla finestra del cesso della sagrestia, in alto,” disse a voce +bassissima Ariel, “Shannon è ubriaco; è addormentato fuori dalla porta. Ha +chiuso a chiave tutto. Non riusciamo a entrare.” +“Non svegliatelo: è deciso a farmi fuori,” mi affrettai a dire controllando +come potevo la mia voce emozionata, “bisogna che lo facciate uscire dalla +chiesa in modo da poterlo fermare ma non potete chiamarlo: capirebbe +subito che siete qui per me e mi ucciderebbe all’istante.” +Scacco matto, e dell’imbecille per giunta: mi ero fatto fuori da solo. +Avrei dovuto prevedere le sue mosse, avrei dovuto rendermi conto che +sarebbe stato capace di seguirmi fino in Corsica e di annientarmi e non +avevo preso alcuna precauzione: mi ero buttato tra le sue fauci, mostro +schifoso sdentato ma velenoso. Forse mi aveva lasciato vivo proprio +perché nemmeno lui aveva capito quale fosse la chiave per interpretare la +lingua di Pietramala: ma certo, gliel’avevo data io la soluzione, di fronte +all’arco quando lui mi stava spiando. E ora? Cosa avrei potuto fare lì? +“Non hai un richiamo al quale non potrebbe resistere? Così da farlo +uscire,” chiese Ariel che non aveva smesso di credere nemmeno per un +istante che non ce l’avrebbero fatta. +Ci fu un minuto buono di silenzio, poi mi accorsi che la domanda di +Ariel era geniale: certo che c’era un richiamo! Shannon dava per assodato + che la lingua di Pietramala non fosse mai stata appresa da un bambino e +che questo fosse la causa della tragedia dello svuotamento in massa del +borgo e del naufragio del tentativo di far apprendere la lingua artificiale. +Se Ariel, con la sua voce tenue e infantile, avesse potuto parlare nella +lingua di Pietramala, Shannon non avrebbe resistito e sarebbe uscito dalla +chiesa per vedere chi parlava quella lingua. Già: ma la lingua non l’avevo +ancora decifrata. Non sarei stato certo in grado in quella situazione, legato, +per terra, dolorante e fradicio di sudore di decifrarla e poi farla imparare +ad Ariel. Non potevo suggerirle nessuna frase in quella lingua. Ma come +mi capita sempre quando cerco disperatamente una soluzione in una +situazione di pressione, riesco ogni volta a cavarmela. Era capitato in tanti +snodi cruciali della mia vita non potevo non farcela adesso. Infatti: +“Ariel, Calibano,” dissi schiarendomi un poco la voce ma stando attento +a sussurrare per non svegliare quell’ammasso di immondizia, “andate +all’arco. Vicino ai platani fuori dalle mura, c’è il mio zaino (almeno spero +ci sia ancora). Frugate nello zaino. Troverete un quaderno nero a quadretti. +Infilata nel quaderno c’è la trascrizione del canto – forse ve lo ricorderete +da quella sera su nella cisterna – voi prendetela. La trascrizione è su una +colonna. Vedrete che le parole sono parole riconoscibili – sono in un +dialetto corso – ma sembrano non essere disposte nel modo giusto. Sono +frasi brevi. Ariel: dovresti prenderlo, e provare a cantare quelle parole +inventandoti una musica, una qualsiasi, dolce se possibile, che incanti +come una ninna nanna, ma devi cantare con la voce da bambina piccola, +mettendoti di fronte alla porta della chiesa. Non dare l’idea che sei in +grado di colloquiare; fai proprio come se stessi giocando e cantando +insieme. Quello è un canto nella lingua di Pietramala; Shannon non può +non riconoscerlo e se sente che una bambina lo sa potrebbe credere che sia +sopravvissuto qualcuno e riaccendere la speranza di avere una qualche +ragione: in fondo, è quello che aspetta da una vita. Quando sentite che si +muove e apre la porta della chiesa, tu Calibano dovresti bloccarlo +immediatamente. Fa’ attenzione perché è sicuramente armato. Capito?” +“Capito,” risposero quasi simultaneamente. Sentii i loro passi che si +allontanavano di corsa. +Non ero affatto sicuro che il piano avrebbe funzionato: Ariel sarebbe +potuta non essere convincente, non riuscendo a nascondere la sua voce +matura; Shannon avrebbe magari potuto pensare che fossi stato io a + tendergli una trappola – il cattivo, veramente cattivo, pensa sempre di +esserlo meno degli altri – e quella mossa avrebbe potuto affrettare la mia +uccisione; Calibano poi, malgrado la possanza e la buona volontà, sarebbe +potuto non essere in grado di avere la meglio su una persona armata. +Avevo messo talmente tanti condizionali tra me e l’obiettivo che volevo +centrare che non sapevo davvero nemmeno se sarei riuscito a tirare il +prossimo respiro. Mi meritavo un lieto fine ma sono passati di moda. +Era trascorsa ormai una decina di minuti. Nei miei calcoli Ariel e +Calibano dovevano essere arrivati all’arco; dovevano aver già individuato +lo zaino e trovato il quaderno. Me li immaginavo, attori come sono, a +provare la vocina del bambino, inventare un canto e cercare di essere il più +possibile convincenti. Mi pareva di essere lì: Ariel sarà stata +emozionatissima, le sarà tremata un pochino la voce; Calibano avrà +cercato di sostenerla, muovendo anche lui le labbra quando e come le +muoveva lei, assecondando ogni frase, come se lei fosse stata un +prolungamento di lui, anzi no, come se lui fosse stata la proiezione di lei. +Insomma, dovevano essere quasi pronti. +Il sonno di Shannon non era un sonno sano. Lo sentivo russare in +modo scomposto; forse farfugliava qualche parola sconnessa. Me lo +immaginavo. Secco come un serpente vecchio incapace di un’ultima muta: +prigioniero in una pelle consunta ma ancora convinto di poter spaventare +qualche altro animale. Lui, che voleva possedere il mondo, era lì +imbavagliato dal suo sonno. Sentire una persona cattiva che dorme fa +impressione: quella inevitabile concessione che fa al mondo nel momento +nel quale inerme si concede alle cose con il rischio di essere assalito, ma +alla quale non può sottrarsi come non può sottrarsi un corpo all’attrazione +di una massa più grande, non lo riscatta ma, almeno, dà a chi lo guarda +l’occasione di capire che nemmeno la violenza può resistere se non ha +alleati: anche il cattivo, infatti, deve fidarsi di qualcuno, perché la veglia va +prima o poi delegata. Mi tornò in mente quando mi ero addormentato io +sul traghetto per Staten Island, la notte dei lunghi pensieri: anch’io non +avevo sentinelle; anch’io non potevo che fidarmi ma non sapevo di chi. +Quale maggior prova che la mia reazione era stata giusta? Shannon +intanto si era svegliato: sentivo che tracannava qualcosa, sbrodolando +confuso le solite citazioni in latino. Sentii caricare la pistola; quello scatto +rapido e meccanico che avevo mille volte sentito nella finzione era ora ben + reale e annunciava la mia fine. Un solo colpo e sarebbe stato tutto finito. +Cercai nella mia memoria una preghiera: non sapevo a chi rivolgermi, +quando muori – lo capii allora – non sei tu che preghi, pretendi che a +pregare per te sia Dio. Te lo deve. +Da lontano, così lontano che pareva provenire dall’interno, come un +falso ricordo, sorse all’improvviso la vocina di Ariel ancora mimetizzata +dal fruscio delle fronde, non poteva che essere lei: la sua voce, giocosa, +lieve, sembrava rimbalzare come una palla in un gioco in cortile. Era +ipnotica: non avrei potuto immaginare una riuscita migliore. Ariel +impostò il suo canto come fosse stata una conta per bambini, come fosse +stata in cerchio e avesse dovuto scegliere il prossimo per il gioco. Ariel +dava l’impressione di ignorare tutto, di essere capitata lì per caso da sola. +Cantò, cantò per qualche minuto. Non accadeva niente. Riprese la conta: +sembrava che cantasse sorridendo perché le parole erano stirate come +note musicali. Poi si sentì rotolare una latta e infrangere un bicchiere. +Shannon doveva essersi alzato in piedi. Non udimmo altro che grida, +bestemmie e preghiere a un Dio che non si sa nemmeno cosa c’entrasse. +Poi i suoi passi, inaspettatamente saldi, su tacchi alti di legno che +rimbombavano rapidi per la chiesa. Si fermava quando sentiva Ariel +cantare e riprendeva a camminare furiosamente, come un gatto impazzito +che cerca il buco in una scatola dove è rinchiuso, qua e là, quando Ariel +smetteva. Il mio pulcino, Ariel, era straordinario: aveva intuito che per +farlo uscire doveva stuzzicarlo cantando tutt’intorno alla chiesa, +incuriosirlo poco a poco finché la sua curiosità avesse prevalso su quel che +avrebbe dovuto fare a me. Danzava cantando tutt’intorno alla chiesa, +saltellando, a intervalli precisi. Quelle parole del canto erano +inconfondibili; una sequenza magica – o forse incantata – che conquistava +tutto. +Uno scatto più rapido degli altri, Shannon corse una corsa azzoppata +ma decisa e lunga – doveva essere tutta la lunghezza della chiesa, sperai, +di slancio per aprire il portone – poi si sentì che agitava un mazzo di +chiavi, che ne infilava una e la rigirava più volte, poi udii che con un calcio +spalancava gli antoni facendoli sbattere sulla facciata, poi più nulla: si era +fermato. Avevo il cuore molto oltre la gola. Fuori, non dovette vedere nulla +– Ariel si era certamente nascosta – si sentì Shannon riprendere la corsa +scomposta con un grido straziato, da animale ferito ma ancora in grado di + aggredire, anzi forse ancor più pericoloso per questo. Dovette avere +appena il tempo di entrare in contatto con gli occhi di Calibano prima di +sentire piombare una mazzata potente sulla sua testa verminosa; +definitiva. Sembrò anche a me di provare lo stesso dolore, tanto fu forte il +rumore di quello schianto; doveva aver usato un grosso ramo per colpirlo; +probabilmente, il professore era crollato subito. Ariel, senza nemmeno +interrompere il canto – tanto le sembrava impossibile avercela fatta o +forse semplicemente trasformandolo in un richiamo gioioso – corse con +passi rapidissimi verso la sagrestia e la aprì velocissima. Si fece incontro; +dimenticandosi di slegarmi, mi diede mille baci, e quindi cento, quindi me +ne diede altri mille, e quindi ancora cento, quindi mille continui, e poi +ancora cento piangendo finalmente di felicità e smettendo di cantare. +Sciolse delicatamente le corde che mi legavano dietro la schiena mani e +piedi; rideva sommessamente e sentivo le sue lacrime che mi bagnavano la +pelle. Arrivò ansimando di corsa anche Calibano: si chinò su di me con +quel suo corpo rotondo, grosso e forte, mi arruffò i capelli, mi pulì gli +occhi con le dita, poi tirò un sospiro che sembrò disperdere tutti i venti +maligni di quei mesi. +“Siamo liberi, ora?” chiese prendendomi la testa sporca tra le mani e +schioccandovi sopra un bacio che quasi mi risucchiò il cervello; Dio – +pensai – se esiste, è morbido. Annuii, semplicemente. +[9.4] Seduti sul muretto di recinzione della canonica, di fronte al corpo di +Shannon legato, con alle spalle il luogo della battaglia e, forse, tutto il +nostro passato, Ariel e io aspettammo il ritorno di Calibano che era sceso +in una zona dove il cellulare prendesse per chiamare la gendarmeria e +informarla dell’accaduto. Shannon rimase tramortito per tutto il tempo; +solo qualche rantolo schiumoso. Il colpo in testa, per quanto forte, non era +stato tale da ucciderlo. Preferivo così: avrei lasciato il mio lavoro interrotto +e lo dissi a voce alta. +“Ce ne avevi dentro di cattiveria, Elia,” disse Calibano ansimando per la +salita con un’intenzione ironica che però io presi sul serio. +“Ma no, dai, mostro dell’isola, non farmi più mostro di te: in fondo, in +quei momenti bui che mi ha fatto vivere sono cambiato e avrei voluto +potergli spiegare dove è stato il suo errore. Anzi, se mai ce ne sarà la + possibilità vorrei farlo, vorrei parlargli. Non riesco a lasciare in sospeso la +nostra storia. Ma non lo dico per lui; lo dico per me. Riconosco che le +nostre esistenze sono collegate, per via di mille interazioni, volute o non +volute, si sono concatenate una con l’altra. D’altronde, nessuno vive da +solo; nessuno pecca da solo; nessuno viene salvato da solo.” +“Amen,” disse alzando gli occhi al cielo, Calibano. “Sei guarito. Il +professore che è in te sta riprendendo possesso della sua lingua e della sua +sapienza.” +“Vorrai mica che tutte le cose sporche che i malvagi hanno accumulato +nella loro vita divengano forse di colpo irrilevanti?” commentò Ariel che si +era ripresa. +Aveva centrato il punto: io non volevo che tutto passasse come se tutta +quella sofferenza non fosse servita o a me o a lui o a noi, tutti insieme. +“È l’effetto Kubrick,” intervenne con stile sapienziale Calibano. +“Quando vidi Arancia meccanica la prima volta quello che mi colpì non fu +la redenzione del protagonista reo di cattiverie innominabili ma la +cattiveria che quella storia aveva provocato in me, spettatore, e il sorgere +di un desiderio irrefrenabile di picchiare a mia volta i cattivi. Messi nella +situazione giusta, anche noi buoni diventiamo delle iene.” Rimanemmo in +silenzio di fronte a Shannon, come davanti a un re appena morto, e anche +un po’ perplessi: eravamo diventati noi i cattivi? +La polizia corsa arrivò con due vetture speciali per i soccorsi di +montagna, attrezzate con una barella; ci fece rilasciare le deposizioni in +modo sommario, e ci convocò il giorno seguente per un racconto +dettagliato a Calvi, dove una delle loro auto ci avrebbe ricondotto. Da +quello che ci dissero, capimmo che l’Interpol era già stata messa sulle +tracce di Shannon per una questione di ricettazione e un tentativo di +corruzione della polizia svizzera alla frontiera con la Francia, andato +peraltro a buon fine. Il professore si risvegliò; una volta messo sulla barella +dovettero legarlo. Schiumava e gridava frasi sconnesse alternate a pensieri +incomprensibili. Urlò più e più volte: “Annegherò il mio libro; annegherò; +il mio libro; annegherò il mio libro.” Lo diceva come se stesse recitando +versi di grande bellezza, senza imbarazzo; scordandosi certo di quanto sia +facile scrivere finte poesie. Nessuno capì davvero cosa volesse dire. I +poliziotti misero i sigilli alla chiesa e del nastro intorno all’arco e sulla +porta principale del paese, scattando foto ovunque. Dissero di non + conoscere quel borgo ma non fecero troppe domande né diedero molte +spiegazioni. Non tutti, evidentemente, hanno imparato quanto è +importante stupirsi di fatti semplici. Ariel, Calibano e io fummo fatti salire +su un fuoristrada per raggiungere Calvi dove saremmo stati per quella +notte. +Nel tragitto verso la baia passammo in macchina attraverso Calenzana. +Non volli guardare fuori dai finestrini; tenni il volto basso, puntando lo +sguardo al tappeto scuro della macchina e ai miei piedi nudi – faceva +troppo caldo e mi ero tolto le scarpe. Anche nelle dita dei piedi puoi +rivedere il volto di chi ami se ami davvero; e mi parve quasi di vederla +sorridere. Avrei dovuto richiamarla, oppure il rischio di farle trovare di +fronte un Elia diverso che lei non avrebbe riconosciuto sarebbe stato +troppo grande? Quando ti sostituisci agli altri per capire se ti si può amare, +hai già smesso di amarti. Mi addormentai nella stanza dell’albergo; a +fianco dormivano anche Ariel e Calibano. Caddi prigioniero di un sonno +lungo e scuro dal quale mi pareva di non sapere come uscire. So solo che +sentivo di essere felice ma non ricordavo perché. +[9.5] Era già tardi. Non so se si trattasse di un’allucinazione o di un +miracolo, ma quella era proprio una domenica senza tramonto, di quelle +che la vita ti promette da sempre e che non arrivano mai. Era arrivata. +Avevo deciso di aspettarla seduto sul muretto della strada che porta fuori +da Calenzana protetto da una teoria di platani che stavano mettendo le +foglie un po’ in ritardo, come fossero stati appena risvegliati dall’inverno. +Mi ero vestito come l’ultimo giorno che l’avevo incontrata nel tentativo di +proseguire la nostra storia nel punto esatto nel quale l’avevamo interrotta. +Io che desideravo un inizio. Frugavo nella memoria per trovare la faccia +giusta da presentare; a una frase avrei pensato in un secondo tempo; ne +provai un po’ ma nessuna mi convinceva e le sopracciglia finirono con +l’assestarsi in una forma arcuata che doveva fare un po’ ridere a chi mi +avesse guardato allora. Cosa avrei potuto dirle? In quel momento non era +davvero importante: mi stupivoperfino di desiderare di parlare. Come mai +era capitato a me? E come mai mi era capitato di incontrare lei? Ma cosa +avrebbe detto lei? Avrebbe voluto riprendermi? E se non fosse arrivata da +sola? Come avrei reagito se mi avesse presentato il suo nuovo amore? + Erano passati tutti quei mesi e io non mi ero mai fatto sentire: sarebbe +stato naturale e giusto che lei avesse continuato a vivere la sua vita in +compagnia di qualcun altro. Passò una moto, la guidava un ragazzino: mi +sorprese pensare che il suo cervello andava veloce come la moto. Forse +anche i suoi pensieri. A quell’età la mente è ancora staminale e uno può +desiderare di essere tutto. E io? Ero ancora staminale, io? +In quell’istante preciso Clara Maria appoggiò la sua mano sulla mia +spalla, sorprendendomi silenziosa da dietro. Mi voltai. Era come doveva +essere: la sua sagoma aveva ritrovato il posto nella mia realtà preparata +apposta per accogliere proprio lei. Sorrideva. In braccio teneva un neonato +che guardava curioso: prima tutto intorno, poi me, fisso. Non le dissi nulla: +ero pronto ad amarla comunque. Non mi disse niente. Scoprì il fagottino e +le sue manine libere sembravano già voler catturare il vento. Quella +sinistra, soprattutto, con tutte e sei le dita. + Epilogo +Ricevetti, qualche mese dopo il mio rientro a Parigi, una lettera dalla +Signora che si congratulava per il mio nuovo lavoro dirigenziale alla +Bibliothèque Nationale, merito delle ricerche su Pietramala ma, +soprattutto, per la mia nuova famiglia. Lasciava capire che le avrebbe fatto +immenso piacere avere mie notizie regolari e che per ogni evenienza – eh +bien, mon prince, économique aussi – avrei potuto contare su di lei. Insieme +alla lettera, c’era un plico curioso che conteneva, stampato su una carta +pregiata, il Vangelo di Giovanni in originale greco affiancato da una +traduzione italiana, inglese, tedesca, francese e spagnola. Mi sembrò un +regalo banale e stetti quasi per archiviarlo non senza una punta di +delusione, quando quello che mi parve lì per lì un particolare minimo +catturò tutta la mia attenzione. In ogni versione del vangelo, la prima frase +era sottolineata dal tratto fermo di una matita pastosa e grossa, +evidentemente lo stesso della grafia della Signora. La traduzione italiana, a +me più che familiare per averla sentita leggere infinite volte dai miei +quando ero bambino a Roma, dava: In principio era il Verbo e il Verbo era +presso Dio e il Verbo era Dio; lo stesso si ripeteva fedele come una glossa, +parola per parola, in tutte le altre traduzioni riportate: In the beginning was +the Word, and the Word was with God, and the Word was God; Im anfang +war das Wort, und das Wort war bei Gott, und das Wort war Gott; En el +principio era el Verbo, y el Verbo era con Dios, y el Verbo era Dios; Au +commencement était la Parole, et la Parole était avec Dieu, et la Parole était +Dieu. Nell’originale greco, invece, si leggeva: En arche ēn ho logos kai ho +logos ēn pros ton Theon kai ho Theos ēn ho logos che, traslitterato, appariva +differente rispetto a tutte le altre versioni, sia pure solo nell’ordine di + alcune parole: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era +il Verbo.” I termini principali – il Verbo e Dio – si concatenavano dunque +nell’originale greco secondo una sequenza diversa rispetto a tutte le altre +versioni; di poco, ma diversa. Ovunque, il principio si stabiliva +invariabilmente con il Verbo ma mentre nell’originale la sequenza +continuava come Verbo-Dio-Dio-Verbo, in tutte le altre lingue che avevo +controllato, le traduzioni si presentavano invece con un’alternanza +potenzialmente iterabile, dall’effetto balbettante: Verbo-Dio-Verbo-Dio. +Mi misi subito a pensare cosa volesse significare la struttura +dell’originale greco con Dio nel mezzo e il Verbo che evidentemente non +stava solo in principio ma anche alla fine. Non riuscivo a capire ma era +chiaro che, qualunque cosa volesse dire, quella sequenza non poteva essere +certamente un caso, né la Signora si sarebbe mai manifestata in quel modo +per una sciocchezza. Il significato doveva essere nell’ordine. Arrivai infine +a due interpretazioni opposte, entrambe coerenti, del divino polimero. Il +Verbo, manifestato in due luoghi diversi in virtù di una lisi logica ma non +ontologica, poteva avere nei confronti di Dio due ruoli opposti: poteva +creare due uncini a sostegno del peso di Dio che, unica sostanza, piegava +tutto lo spazio a disposizione e trascinava verso il basso l’universo, +costituendone l’inimmaginabile baricentro; oppure poteva creare due +ancore, per garantire che la forza propulsiva di un Dio scagliato verso +l’alto non fosse troppo forte per la realtà umana e sfuggisse +completamente alle nostre povere menti in un ineffabile strappo cognitivo. +In entrambi i casi, sia che fosse – per così dire – girata verso il basso che +verso l’alto, la sequenza di parole originale costituiva indiscutibilmente +una catena a differenza di tutte le altre traduzioni. Impossibile per me non +tornare con la memoria a quell’altra catena, fatta di pietre, incarnata +nell’arco di Pietramala e al principio universale che la regge: Ut pendet +continuum flexile, sic stabit contiguum rigidum inversum. +Mi fermai, impallidendo: non ero in grado di scegliere quale fosse il +verso giusto della catena fatta con il nome di Dio e del Verbo, né di capire +se ce ne fosse uno giusto ma qui la fantasia si arrese. Tremando, senza +troppo ragionare, recuperai subito il biglietto della Signora, quello che +ricevetti poco prima della partenza da Genova e che avevo aperto mentre +stavo per scendere dal traghetto in Corsica, e lo osservai in silenzio. A +matita, accanto alle parole del messaggio, ne scrissi tra parentesi altre: + preposizione (in) nome (principio) verbo (era) articolo (il) nome (verbo) +congiunzione (e) articolo (il) nome (verbo) verbo (era) preposizione (presso) +nome (Dio) congiunzione (e) nome (Dio) verbo (era) articolo (il) nome +(verbo). +La Signora, evidentemente, sapeva tutto da prima, e sapeva anche che +un nome può chiamarsi “verbo” e un verbo “nome”, perché tutto è +possibile se l’ordine delle parole è quello giusto. Tantum elementa queunt +permutato ordine solo. +Ma fin est mon commencement, +et mon commencement ma fin +est tenëure vraiement: +ma fin est mon commencement. +Mes tiers chant trois fois seulement, +se retrograde et einsi fin; +ma fin est mon commencement, +et mon commencement ma fin. +Guillaume de Machaut + Postilla +Ho scritto questa storia che si può considerare una favola, ma che io +considero un ragionamento, come se fosse una storia vera. Nello scrivere +queste pagine mi sono macchiato dell’orrendo peccato di furto ma non ho +avuto alternative e, soprattutto, mi sono salvato da quell’altro, ben +peggiore, della superbia di pensare di inventare cose nuove. Ad alcuni ho +rubato diademi interi, ad altri ho sottratto solo qualche gemma, dopo +averne smontato le parti; mi consola solo il fatto che, in fondo, sminuzzate +ai minimi termini, tutte le frasi sono fatte di pezzi che nessuno possiede in +esclusiva.